lunedì 15 settembre 2008

l'Unità 15.9.08
Razzisti a Milano. La stagione dell’odio
di Rinaldo Gianola


Abdul è stato sprangato a morte ieri mattina alle 6, vicino alla Stazione Centrale di Milano. I killer lo hanno aggredito in via Zuretti, una strada che corre parallela, vicinissima, alla famosa via Gluck cantata da Celentano. Una zona popolare dove la solidarietà e l’amicizia, un tempo, si misuravano sul ballatoio, attorno ai cortili e alle ringhiere delle vecchie case.
I bar dei ferrovieri, il mercato del pesce, il Naviglio della Martesana dove nel dopoguerra i ragazzi facevano i tuffi, l’oratorio con i platani in mezzo al campo di calcio erano il tessuto di una società di lavoro, fatica e di passione politica. C’era in quella Milano un welfare non istituzionalizzato alimentato da una vicinanza elementare, umile ma solida di famiglie di operai e di molti immigrati.
In quei prati, prima che la speculazione del boom economico realizzasse il suo disastro, abbiamo giocato da ragazzi, superato a fatica pregiudizi e divisioni, diventando amici tra i banchi di scuola e i campetti di calcio abusivi: noi figli dei proletari del Nord e i figli dei “terroni” immigrati, i diversi di allora. I nostri papà consumavano la vita alla Pirelli Bicocca o alla Breda e noi crescevamo rissosi e incavolati come conveniva in quegli anni. Assieme andavamo in via Zuretti dove c’era la sede di “Giovani”, una rivista di musica alla moda, a caccia di foto e autografi. Pensavamo che Gianni Morandi e Laura Efrikian non si sarebbero mai lasciati. Poi, quando in tasca c’era qualche spicciolo, puntavamo sulla splendida gelateria di via Gluck per un cono, piccolo però. Quando Celentano cantò a San Remo «là dove c’era l’erba ora c’è una città...» noi ci sentimmo un po’ riscattati, sapevamo di cosa parlava.
Gli assassini hanno aspettato Abdul proprio qui, in questo nuovo incrocio dell’odio, nelle strade di una Milano che non c’è più e che ci manca. Dove sono finite la solidarietà e la pietà di una città una volta davvero riformista (ma non come si intende oggi...)? Dov’è quella Milano capace pure di obbligare i padroni del vapore a spalmare una parte dei loro profitti sulla comunità, che si sforzava di non lasciare soli gli ultimi, che arginava i rigurgiti fascisti invadendo le piazze? Scomparsa, tra una faticosa modernità e un’efficienza improbabile, mentre le banche e i profitti d’impresa scalano ovviamente le classifiche e siamo tutti diventati un grande ceto medio, mediamente inutili nelle nostre paure e gelosie.
Abdul è stato sprangato perchè non aveva pagato una “consumazione”, un piccolo furto di biscotti probabilmente. Abdul è italiano, un nostro concittadino originario del Burkina Faso. Era andato a ballare in un locale, poi quando già albeggiava aveva deciso coi suoi amici di fare un salto al Centro sociale Leoncavallo. Non ci è arrivato. «Sporchi negri, vi ammazziamo» hanno gridato gli aggressori, due milanesi, mentre lo colpivano con le mazze, riferiscono i testimoni. Per un piccolo furto si consuma un omicidio tremendo, incredibile, ma oggi spiegabile con l’aria che tira, con il clima politico e, come dire?, culturale del Paese.
Se i leghisti vanno in giro con il ddt per spruzzare le prostitute nigeriane, se il governo prepara l’espulsione di massa di quella moltitudine diversa rappresentata dagli immigrati (ultimo annuncio ieri del ministro Maroni alla sceneggiata padana di Venezia), se i fascisti riscattano il passato, se il ministro milanese La Russa celebra la Repubblica razzista di Salò, perchè sorprendersi se poi un nero viene ammazzato? E il sindaco Moratti non può cavarsela semplicemente affermando che questa crudeltà «è estranea alla tolleranza dei milanesi». Troppo facile. Nella città dell’Expo 2015 gli amici del sindaco vanno in giro a bruciare i campi rom, a chiedere la distruzione dei tuguri dove si rifugiano gli ultimi immigrati e sono gli alleati della signora Moratti a organizzare le ronde contro le prostitute che deturpano l’arredo urbano e a consentire l’apertura dei circoli neonazisti di «Cuore Nero». In questa nostra città si respira un’aria xenofoba e fascista intollerabile. Così come non è tollerabile il tentativo, già in atto anche da parte della solerte Questura, di derubricare il delitto a sprangate come l’esito tragico di una rissa tra giovani scapestrati dopo un piccolo furto. Se anche gli aggrediti hanno cercato di difendersi allora è tutto meno grave, no?
Un ragazzo è stato ucciso a Milano dall’odio e dalla violenza razzista. Questo è il fatto. Se proprio non riuscite a trovare le parole giuste, cari signori almeno state zitti.

l'Unità 15.9.08
La sinistra accusa: assassinio
frutto di un clima di odio
di e.d.b.


Roma. «L’assassinio di un ragazzo a colpi di spranga, gli insulti per il colore della sua pelle sono il frutto di un clima pesante, di odio, di una tragedia insopportabile per
chiunque abbia a cuore il rispetto per le persone e la tolleranza». Il segretario del Pd, Walter Veltroni, commenta con queste parole l’assurda uccisione di Milano. Ma va più a fondo, provando a ricercarne le ragioni nella temperie culturale del Paese: «Un clima difficile che l’indifferenza, l’egoismo, le culture che hanno al centro la soddisfazione di desideri individuali, le paure seminate a piene mani verso l’altro da noi hanno contribuito a formare. Credo che sia necessario fare piena luce, ma ritengo anche che occorra una grande e appassionata battaglia culturale e di umanità perché episodi come questo non debbano ripetersi».
Il primo a parlare di razzismo, tra le fila del Pd, era stato nel primo pomeriggio Marco Minniti, ministro ombra dell’Interno: «La natura e i contorni dell’episodio - aveva detto - sono estremamente preoccupanti e richiamano alla mente fatti di grave intolleranza. Per come è stato fino ad ora ricostruito quanto avvenuto a Milano, sembra configurarsi come un odioso episodio di razzismo». Poco più tardi Piero Fassino aveva rincarato la dose: «Non ci sono parole che possano esprimere l’indignazione e la rabbia per il feroce assassinio di un giovane di colore a Milano. E ogni coscienza civile deve ribellarsi a questo mostruoso episodio di razzismo. Riflettano coloro che ogni giorno alimentano un’isterica fobia contro gli immigrati, e si rendano conto di quale tremenda responsabilità si assume chi rappresenta ogni immigrato come un pericolo e un nemico, creando così un clima di intolleranza e di odio in cui ogni orrore può accadere». È una domanda che il Pd pone al Paese. «Di fronte alla perdita, in modo così ingiustificabile ed insensato, di una vita umana - afferma la senatrice Maria Pia Garavaglia - occorre chiedersi, senza esitazione, se nel nostro Paese non si sia rotto qualcosa nell’equilibrio della pacifica convivenza». Il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero è anche più diretto: «La Lega la deve smettere, con le sue campagne xenofobe e razziste. Fatti terribili come questi sono, temo, anche il frutto di un clima avvelenato costruito da forze politiche come la Lega, che additano gli immigrati a fonte di tutti i mali». Il Carroccio reagisce con il capogruppo alla Camera Roberto Cota: «Oggi chi strumentalizza indegnamente un episodio rischia davvero di innescare pericolose dinamiche». Il ministro dell’Interno, il leghista Roberto Maroni, diffonde una nota nella quale ricorda di aver «espresso il suo apprezzamento per la tempestiva risposta con cui la Squadra Mobile della Questura, in poche ore, ha assicurato alla giustizia i presunti responsabili del brutale assassinio di Abdul William Guibre». Nessun riferimento al razzismo.

l'Unità 15.9.08
Roma. In venti aggrediscono un ragazzo inglese
«C’è un clima di “costruzione del nemico” che offre una spalla all’intolleranza»
di g.v.


ROMA In 20 hanno aggredito un 22enne inglese colpendolo a calci e pugni al volto e due italiani di 39 e 43 anni intervenuti per aiutarlo. È successo domenica notte, intorno alle 3,15, nella centralissima Piazza Navona. Ancora da chiarire da parte dei carabinieri della stazione Farnese e della compagnia Roma Centro i motivi dell’aggressione nei confronti dell’inglese in Italia per motivi di studio.
Il giovane, come è stato accertato, era in evidente stato di ebbrezza quando è stato circondato da circa venti persone, molto probabilmente italiane, che lo hanno picchiato. All’arrivo dei carabinieri gli aggressori si sono dileguati per le vie del centro. Il 22enne e i due italiani intervenuti in suo soccorso sono stati trasportati al Santo Spirito.
Lo studente inglese è stato giudicato guaribile in 25 giorni mentre i due italiani in 10.
«Esprimo solidarietà allo studente inglese aggredito questa notte a Piazza Navona, e grande apprezzamento alle due persone che, intervenute per soccorrerlo, hanno mostrato un coraggio e una forza d’animo ammirevoli», ha detto il sindaco di Roma, Gianni Alemanno.
«Mi auguro che gli inquirenti facciano piena luce su questa vigliacca aggressione - aggiunge - Colpisce però il fatto che questa violenza sia avvenuta in pieno centro, sia pur a tarda ora».
«Questo significa che si rende necessaria una verifica rispetto alla presenza delle forze dell’ordine sul territorio anche dopo l’utilizzo delle forze armate, con l’impiego di mille militari. È un quesito che porrò al prefetto Carlo Mosca nel nostro incontro informale di martedì, perché è impensabile che possa avvenire un’aggressione di questo genere a qualsiasi ora del giorno e della notte».

l'Unità 15.9.08
Jean Leonard Touadì. Il parlamentare Pd: questa violenza di matrice razzista non può essere sempre trattata come un fatto di «balordi»
«Troppi rigurgiti xenofobi, si rischia l’implosione sociale»
di Eduardo Di Blasi


Jean Leonard Touadì, parlamentare del Pd, ricava tre considerazioni dai terribili fatti di Milano. La prima è che «la metropoli violenta non ha colore politico». E spiega: «Anche a Milano dove c’è un assessore tutto d’un pezzo queste cose accadono. Questa violenza di matrice a volte razzista a volte fascista ci interroga. Non può essere derubricata ogni volta come fatto di balordi perché dietro “i balordi” c’è una pigrizia nel cercare di capire profondamente che cosa sta accadendo nelle nostre periferie, ai nostri ragazzi».
È solo una questione di città violenta?
«No, accanto c’è un clima che io ho tante volte stigmatizzato come il frutto della “costruzione di un nemico”. E in questo caso il nemico non è tanto la razza diversa ma lo straniero in generale che viene visto come il condensato di tutti i mali, dalla criminalità al degrado. Questo clima non dico che incoraggi o fomenti, ma offre sicuramente una spalla all’intolleranza. E non sono sicuro che un Paese che ospita quasi tre milioni di immigrati regolari che lavorano e hanno figli nati in Italia, possa permettersi il lusso di stigmatizzare e mettere ai margini tre milioni di persone. Fare questo significa preparare per il nostro Paese, per le nostre città, un clima da implosione sociale. E quando magari ci metteremo mano sarà troppo tardi perché la rabbia, la frustrazione, i rancori, saranno già cresciuti».
Il ragazzo ucciso, Abdul, era italiano...
«È la grande questione che riguarda le seconde generazioni. Persone nate in Italia da genitori stranieri, che frequentano le nostre scuole, imparano Manzoni e Ungaretti come tutti gli altri, tifano per le squadre delle rispettive città, ne parlano il dialetto, ma che noi ci ostiniamo, perché hanno un colore di pelle diverso, perché hanno una religione diversa, a considerare come “immigrati”. Sbagliando anche dal punto di vista letterale della parola, perché uno che non si è mai mosso dall’Italia non immigra. In questa contraddizione semantica sta il nostro ritardo culturale nel cogliere questo fenomeno nella sua vera natura e nell’evoluzione che ha avuto».
Secondo lei c’è stata una crescita della violenza contro gli stranieri?
«Io penso al campo rom di Ponticelli. Una vicenda che è stata rimossa in poco tempo. Invece è davvero qualcosa che ha segnato un passaggio. Bambini che sono impauriti perché qualcuno li vuole linciare, questo ha rappresentato davvero nella storia dell’immigrazione italiana un salto. Un salto qualitativo che è una metafora del clima che stiamo respirando. E che gli imprenditori della paura, sotto questo punto di vista, sono riusciti ad instillare nella nostra società. L’imprenditoria della paura ha prodotto questo».
Secondo lei come si esce da questa spirale di odio e violenza sociale?
«Se ne esce intanto riconoscendo le cose per quello che sono. Secondo me non serve a niente continuare a dire: “L’Italia non è più un Paese razzista”. Il Paese, certo, non è la Germania hitleriana, però se noi non riconosciamo che c’è un rigurgito di rigetto dell’altro, un rigurgito di xenofobia che bisogna chiamare con il suo nome... Finora abbiamo visto la faccia feroce dello Stato che non esita ad andare a prendere le impronte digitali ai bambini, ma non riusciamo a vedere, di questi tre milioni di persone, perché di persone si tratta, che cosa ne vogliano fare. Una volta uscita dalla fabbrica di Vicenza o dalla cava di marmo del veronese che cosa ne vogliono fare dal punto di vista dell’integrazione sociale? Noi abbiamo lanciata la proposta del voto amministrativo. Ci hanno detto che era intempestiva. Ma dove sta scritto che l’agenda di Berlusconi deve essere l’unica a regnare in Parlamento? Più lasciamo ai margini fette consistenti di popolazione e meno ci sentiremo sicuri».

Repubblica 15.9.08
La variabile razzista
di Gad Lerner


Lo «sporco ladro», il «lurido negro», l´intruso nel sabato notte dei milanesi, stavolta è risultato essere concittadino dei suoi assassini. Un italiano di nome Abdoul William Guibre.Esattamente com´è italiano il suo coetaneo Mario Balotelli – pelle scura e accento bresciano – che poche ore prima indossava la maglia nerazzurra sul prato di San Siro.
Adesso è prevedibile che il pestaggio mortale, suggellato dalle grida razziste degli aggressori, rinfocoli sentimenti popolari di segno opposto. Il nostro turbamento per la penetrazione dell´odio xenofobo come malattia sociale contagiosa. E viceversa il malumore diffuso di chi ci accuserà: ecco, trasformate un balordo in martire pur di ignorare che le «vere vittime» sono i cittadini minacciati da una criminalità ben riconoscibile nella sua connotazione etnica.
La corrente di pensiero delle «vere vittime» riunisce difatti quei vasti settori popolari che traggono sollievo da un governo italiano per la prima volta dedito a nominare i colpevoli, non come singoli individui, ma come categorie da eliminare. Il povero «Abba» Guibre, con la sua cittadinanza tricolore, incarna una variabile non prevista dal senso comune dominante. Ma ugualmente il vittimismo deprecherà l´attenzione eccessiva concessa a un episodio che, senza quelle grida razziste, chissà, forse sarebbe rimasto in cronaca locale.
Ora ha poco senso disquisire se l´esasperazione dei baristi che hanno subito il furto si sarebbe scaricata tale e quale, a colpi di spranga, pure su ladruncoli d´aspetto diverso. Mi auguro invece che i responsabili politici riconoscano in quella esasperazione – troppo spesso cavalcata e legittimata – motivo di riflessione e allarme. Ogni giorno veniamo a conoscenza di episodi di violenza spicciola che si verificano nei cantieri del lavoro irregolare, sulle strade dell´accattonaggio e della piccola delinquenza, perfino nel fastidio per la religiosità altrui. Queste tensioni sempre più frequenti, come già accaduto in altri paesi, potrebbero degenerare in conflitti metropolitani a sfondo etnico. L´Italia sta raggiungendo, del tutto impreparata, il livello di guardia. Se è vero infatti che la giustificazione della furia popolare può offrire nell´immediato vantaggi politici, ne conseguiranno inevitabilmente lacerazioni del tessuto sociale, problemi di ordine pubblico, degrado civile.
Nessuno strumentalizzi il linciaggio della Stazione Centrale, dunque. Ma, per favore, gli imprenditori politici dell´allarme-stranieri valutino il rischio di trasformarsi in apprendisti stregoni. Solo ieri il vicesindaco di Milano, Riccardo De Corato, se la cavava con una generica invettiva («è una vergogna») di fronte al fermo in via dei Missaglia di un marocchino già 34 volte arrestato e due volte rimpatriato. Mica è facile impedire il ritorno degli indesiderati. Eppure De Corato non smette di annunciare l´espulsione degli abitanti di altri dieci campi rom della periferia, come se gli ottanta sgomberi già effettuati avessero alleviato il senso d´insicurezza dei cittadini. Con chi se la prenderà quando sarà evidente l´inefficacia delle sue minacce? Con i magistrati, con le forze di polizia, con l´esercito?
Così sta accadendo un po´ dappertutto: vengono suscitate aspettative che, una volta deluse, incrementano un surplus di rancore o, peggio, degenerano in giustificazionismo della vendetta «fai da te».
Mi auguro che il nostro concittadino «Abba» Guibre, nuovo italiano come ce ne sono tanti, sia pure ladro di biscotti, sprangato a morte in una notte di fine estate, venga onorato nelle sue esequie dalla presenza del sindaco di tutti i milanesi, Letizia Moratti, che riempirebbe così di significato le sue nette parole di condanna. Perché sia chiaro che la Milano dell´Expo 2015 diventerà metropoli europea solo facendo sentire a casa loro, non ospiti provvisori e indesiderati, pure i suoi abitanti più recenti di nome Abdoul.

l'Unità 15.9.08
Tutti a scuola. Proteste e sit in ovunque
Settanta istituti con il lutto, studenti davanti al ministero. Roma nel caos, si fermano i vigili


Roma. SARÀ un inizio di anno scolastico come non se ne vedeva da anni. Stamattina in quasi tutte le regioni bambini e ragazzi torneranno sui banchi. Ma nel mezzo ci sono state le uscite di fine estate del ministro che ha per decreto iniziato ad affondare quel poco che in Italia funzionava. Volantinaggi, sit in e proteste ci saranno un po’ in tutta la penisola: da Treviso a Milano, a Napoli e a Roma. Il maestro unico l’oggetto. Ma anche una difesa dell’offensiva scatenata dal ministro contro coloro che dovrebbe tutelare, gli insegnanti.
Contro la «desolante distruzione della scuola pubblica» e la «negazione dei diritti degli studenti» una rappresentanza dell’ Unione degli Studenti protesterà oggi davanti al Ministero dell’Istruzione, in Viale Trastevere, dove è annunciata una conferenza stampa e un’azione dimostrativa. Altre «azioni dimostrative» sono state fatte dall’ Uds anche stanotte. Anche i Cobas annunciano per oggi, «in quasi tutta Italia», manifestazioni di protesta da parte di «docenti, personale Ata (ausiliari, tecnici, amministrativi), genitori, studenti e cittadini intenzionati a difendere e a migliorare la scuola pubblica». In particolare, afferma il portavoce dei Cobas della scuola Piero Bernocchi, docenti e Ata manifesteranno in varie forme, «indossando adesivi con la scritta «No ai tagli, no al maestro unico», portando al braccio fasce nere in segno di lutto».
L’anno si apre nella capitale in un clima di forte tensione per la riforma Gelmini, anche nelle scuole elementari, dove con il decreto sul maestro unico appare a rischio il tempo pieno e secondo la Flc-Ccgil il taglio sarà a Roma di 1.800 maestri.
Nella capitale, dove si è registrato un vero boom di iscrizioni di studenti (501.822), con un incremento del 5,8% rispetto allo scorso anno, è attivo anche il coordinamento «Non rubateci il futuro», a cui hanno aderito circa 70 istituti dove, in occasione del primo giorno di scuola, docenti, genitori e alunni entreranno con una fascia di lutto al braccio a sostegno del tempo pieno e contro il maestro unico. La protesta è partita dalla Iqbal Masiq, una scuola elementare nel quartiere Casilino. Docenti, studenti, genitori e personale amministrativo promuoveranno campagne informative sui decreti governativi e raccolta di firme. È polemica anche sui dati ufficiali diffusi dal ministero, sull’aumento delle bocciature (il 16% degli studenti delle scuole superiori).
Secondo l’Uds «il sistema di recupero dei debiti, reintrodotto da Fioroni e totalmente condiviso dalla Gelmini, ha drammaticamente fallito e va ridiscusso». Per Roma sarà una mattinata infernale. Tanti genitori accompagnaranno in auto i loro bambini per il primo giorno di scuola. I sindacati dei vigili urbani Ospol e Csa hanno convocato assemblee nei 20 comandi municipali e potrebbe essere un primo giorno di scuola senza vigili sulle strade con ripercussione sul traffico. Che potranno esserci saranno anche anche per i numerosi cantieri di lavori in corso in varie parti della città.

Repubblica 15.9.08
Quando la scuola imita le aziende
di Marco Lodoli


I grembiulini per tutti alle elementari, il sette in condotta per arginare i bulli, l´abbandono dei giudizi, spesso prestampati, per tornare alla sincerità del voto: sono scelte che si possono tranquillamente condividere, che forse avrebbe dovuto fare il governo precedente e chissà perché non ha fatto. Ma la questione di fondo della scarsa autorevolezza culturale della scuola temo rimanga irrisolta, e credo anche di sapere quale sia la sua doppia radice.
Da un lato, come è ormai chiaro a tutti, l´incidenza crescente dei valori sociali nella scuola: fu una battaglia degli studenti più aperti e generosi, i quali capirono che non bastavano Carducci e Rosmini per affrontare le straordinarie contraddizioni del mondo, che bisognava necessariamente portare nuovi autori e nuovi temi dentro un sapere accademico e ammuffito. Ma una volta spalancata quella porta, non c´è stata più la possibilità di frenare gli ospiti: e così oggi la scuola, visto che il tempo scorre e le cose cambiano, si ritrova a subire e a patire i nuovi valori – denaro, successo, aggressività, narcisismo – e non sa più in che modo convincere gli studenti che solo attraverso l´applicazione, il sacrificio, la concentrazione, la solitudine potranno imparare qualcosa di utile per loro stessi e per la società. Il mondo peggiore è entrato e la fa da padrone. Ma su questo già molto è stato scritto ed è un problema ormai così evidente che quasi non serve ragionarci sopra. E´ lo stato delle cose, la piaga in cui il dito sta girando da molto e invano. L´altro aspetto che invece non è stato ancora sufficientemente preso in considerazione è forse ancora più fondante, o più franante: mi riferisco all´autonomia scolastica, che ancora passa come una conquista meravigliosa e che invece a mio avviso ha ridotto le scuole a negozietti con la merce sempre in saldo, con le svendite costanti e la qualità ridotta al minimo.
Prima tutte le scuole dipendevano allo stesso modo dal ministero, avevano programmi unificati, facevano scelte coerenti. L´idea di fondo era che i ragazzi dovevano essere preparati ed educati secondo linee comuni, secondo i valori basilari della conoscenza e dell´uguaglianza. Da Ragusa al Brennero si condividevano metodi e aspettative, in un orizzonte democratico e popolare, magari un po´ noioso ma rassicurante per chi insegnava e per chi imparava. A un certo punto però si è deciso che ogni preside e ogni collegio dei docenti potevano gestire come meglio credevano le offerte e i percorsi formativi. Ogni scuola oggi elabora dunque il suo Pof, cioè il Piano di Offerta Formativa, e i ragazzi si iscrivono a questo o a quell´istituto leggendo depliant quanto più possibile accattivanti. Viene proposto il corso di teatro e quello di ping pong, la settimana corta e la settimana bianca, il cineforum e la gita fuori porta. La vetrina deve essere splendida splendente, altrimenti si rischia che i potenziali clienti non vengano dentro neppure a dare un´occhiata. Chi perde studenti, perde quattrini: il budget si assottiglia, la scuola arranca e rischia, se continua l´emorragia, di finire accorpata con qualche altra che invece ha la fila davanti al portone. Anche per questo, soprattutto per questo, a fine anno le bocciature sono ridotte al minimo: una scuola che promuove significa una scuola che va bene, che mantiene i suoi iscritti i quali, arcicontenti, ne parleranno bene in giro. Insomma, l´autonomia scolastica ha messo le nostre scuole in competizione tra di loro, esattamente come fa il libero mercato: ma il risultato non è stato un miglioramento dell´istruzione, così come la moltiplicazione delle televisioni non ha reso i programmi migliori e gli italiani più svegli e più colti. I presidi ormai si sono elevati – o abbassati – al livello di manager, difficilmente tengono d´occhio l´andamento generale degli studenti, cosa succede in classe, quali sono i problemi dei professori, tanto sono presi dalla preoccupazione di far quadrare i conti e non perdere la clientela. E i clienti, si sa, hanno sempre ragione, quindi è inutile, anzi nocivo, difendere i professori-commessi dell´emporio, che devono soltanto soddisfare le aspettative dei giovani seduti al di là del bancone. Pardon, volevo dire della cattedra. Probabilmente in qualche scuola virtuosa questa raggiunta autonomia ha prodotto risultati eccezionali, ma direi che nell´insieme ha soltanto inoculato il virus dell´inadeguatezza nei professori, ha depotenziato il loro insegnamento, costringendoli a retrocedere al ruolo di intrattenitori, di venditori di pentole, di spaventati amiconi dei ragazzi. Non credo si possa tornare indietro, ma credo che andare avanti in questa direzione significhi soltanto rendere le nostre scuole simili ad aziendine traballanti, pronte a tutto pur di non perdere la loro misera quota di mercato.

l’Unità 15.9.08
Un viaggio nelle filosofie del linguaggio
Umberto Eco tra Aristotele e pensiero debole
di Salvo Fallica


Un affascinante viaggio, profondo, raffinato e colto, nella storia del pensiero. Una storia delle filosofie del segno e dell’interpretazione, strutturata con originalità metodologica ed epistemologica. Una analisi teoretica e linguistica che scava nei meandri più complessi delle strutture teoriche interpretative, sulle connessioni fra segni e significati. Sono questi alcuni dei tratti più importanti del libro di Umberto Eco, Dall'albero al labirinto, edito da Bompiani. Degli studi storici sul segno e l’interpretazione, che diventano riflessioni critiche ed analitiche su questioni fondamentali della storia del pensiero. Eco ha messo assieme questi suoi testi, e ne è venuto fuori un contributo autorevole ad una storia delle «varie filosofie del linguaggio, o dei linguaggi». Dal Cratilo di Aristotele al pensiero debole, Eco elabora e struttura delle analisi che riescono a cogliere l’essenza concettuale degli argomenti ed a proporre ricostruzioni critiche originali ed innovative. In alcuni casi parte da argomenti che appaiono come dimensioni periferiche della storia della filosofia e che invece sono punti nodali per la comprensione di problematiche complesse di filosofia teoretica. E così le metafore dell’albero e del labirinto diventano strumenti logico-metodologici di comprensione e di interpretazione di diversi modelli di conoscenza e di organizzazione del sapere. «In questo labirinto, che si presenta non più come ripartizione logica ma come congerie retorica di nozioni e argomenti raccolti in loci, invenire non significa più trovare qualcosa che già si conosceva, riposto nel suo luogo deputato, per usarlo a fini argomentativi, ma veramente scoprire qualcosa, o la relazione tra due o più cose, di cui non si sapeva ancora». «Non c’è più Grande Catena dell’Essere ma ogni suddivisione sarà sempre contestuale e diretta a un fine circostanziato». Ed ancora, dagli studi sulle tecniche medievali di falsificazione, a un excursus sulla storia dell’ars combinatoria da Lullo a Pico della Mirandola, Eco riesce a fare luce su aspetti noti e meno noti delle problematiche filosofiche, legando il tutto con il filo rosso della filosofia dei linguaggi. Suggestivo ed interessante è anche lo studio sulla semiotica implicita nei Promessi sposi: la dimostrazione di come la letteratura con i suoi molteplici livelli interpretativi sia dimensione di meditazione filosofica, di ermeneutica.

Dall’albero al labirinto, Umberto Eco, pagine 636, euro 25,00, Bompiani

l’Unità 15.9.08
Il nuovo libro di Walter Tocci ricostruisce gli ultimi anni di un rapporto difficile e deludente: dalla riforma Moratti al governo Prodi
Ma la scienza può fidarsi ancora della politica?
di Pietro Greco


C’è uno strano punto interrogativo nel titolo, Politica della scienza?, che Walter Tocci - deputato, direttore del Centro per la Riforma dello Stato e per anni punto di riferimento politico molto apprezzato per il mondo della ricerca in Parlamento e nei DS - ha voluto dare al nuovo libro pubblicato con l’editore Ediesse.
È un punto interrogativo a quattro facce e altrettanti significati, che Tocci riconduce a unità non senza una certa capacità di spiazzamento. Il primo significato riguarda proprio i fondamenti del rapporto tra scienza e politica in un mondo che è entrato nell’era della conoscenza ed è sempre più informato, a ogni livello (economico, ecologico, etico, sociale, culturale) dalla scienza e dall’innovazione tecnologica. In un lungo saggio dedicato a Martin Heidegger, Walter Tocci individua il tessuto connettivo primario di questi rapporti: la filosofia. Tutte queste tre dimensioni della cultura dell’uomo si fondando sul concetto di legge. Certo, il rapporto oggi è squilibrato. La scienza pone all’uomo sfide sempre più profonde a ritmi crescenti e ormai incalzanti. La politica fa fatica a seguire la scienza nel suo vorticoso sviluppo ed entrambe stentano a riconoscere i valori e le aspirazioni dell’altra. Tutto ciò produce smarrimento. E la filosofia sembra addirittura celebrare la sua fine a causa, notava Heidegger, del suo completo risolversi nelle scienze. Ma si tratta di una fine apparente. L’uomo tecnologico del nostro tempo sembra non avere più bisogno della filosofia perché l’ha sussunta nella sua immagine del mondo. E la salvezza non sta nel rifiutare la nuova era della conoscenza, ma nello sviluppare un pensiero critico - una filosofia - che sia alla sua altezza.
Ci sono poi altri due significati del punto interrogativo. Possiamo intendere questa frase in due modi: nel primo la scienza svolge un ruolo attivo e pone nuove domande alla politica. Domande difficili, cui molti rispondono in maniera inadeguata. Inadeguate sono quelle forze - politiche, religiose, culturali - che vorrebbero mettere la mordacchia alla scienza e sacrificare quell’autonomia della ricerca che è uno dei capisaldi su cui, a partire dall’Europa, è stata edificata la cultura democratica negli ultimi secoli. Ma inadeguati sono anche quegli uomini di scienza che, sebbene portatori di una rivoluzione epistemica che nel XX secolo ha scoperto i temi della complessità e della non linearità, continuano ad applicare paradigmi classici alla società, col risultato di mettere in crisi, quando lavorano in laboratorio, la scienza lineare, ma di riproporre un approccio ingenuamente neopositivista quando escono dal laboratorio.
Ma politica della scienza è anche il modo di organizzare la scienza nella società. E qui Walter Tocci ricostruisce la sua peculiare esperienza di osservatore privilegiato, in quanto protagonista di due fasi durate quasi un decennio e che sono giunte a conclusione con un risultato inatteso: la delusione. La prima fase è quella del contrasto politico all’attività dei precedenti governi Berlusconi - incapaci di leggere il declino del paese come frutto di un modello di sviluppo senza ricerca - e dal tentativo, esperito da Letizia Moratti, di svuotare il concetto di autonomia della scienza e di aziendalizzare la ricerca pubblica. È stata una fase dura, ma capace di suscitare coesione e speranza nella comunità scientifica.
Poi ci sono stati gli anni del governo Prodi. Col recupero, certo, di molti dei danni provocati da Letizia Moratti ma segnati anche dall’incapacità del centrosinistra di portare la ricerca scientifica e l’educazione al centro del suo programma di rilancio del paese. Questa incapacità, a modesto avviso di chi scrive, ha accentuato il declino dell’Italia e ha determinato la fine dell’esperienza del governo dell’Ulivo. Questa incapacità, riconosce Walter Tocci, ha provocato una delusione nella comunità scientifica. Tanto giustificata, quanto pericolosa.
Eccoci, dunque, all’ultimo significato del segno interrogativo: vale la pena continuare a fare, in Italia, politica della scienza? Vale la pena che scienziati e politici si pongano il tema del futuro del paese, oltre che della sua ricerca? La risposta di Tocci è secca. Occorre andare oltre la delusione. È settembre, occorre ripartire.

il Riformista 15.9.08
Summer school. Elogio della «bella sconfitta». Veltroni si rifugia nella «diversità morale»
di Stefano Cappellini


Sinalunga (Siena). La summer school del Pd è cominciata con il vicesegretario Dario Franceschini che ammoniva sulla caducità del capitalismo ed è finita con un Walter Veltroni a un passo dalla teoria della decrescita: «L'età dell'abbondanza ci sta rendendo più poveri», ha detto il leader a Sinalunga, Siena, in uno dei passaggi più significativi del suo discorso di chiusura della tre giorni di formazione per giovani democrat. In campagna elettorale il Pd aveva scommesso sul ritorno alla crescita, su un nuovo boom economico e sullo sfondamento al centro con una ricetta economica di taglio montezemoliano. Dopo sei mesi, e dieci punti di distacco alle elezioni (diventati venti nei sondaggi), il minimo che si possa dire è che il partito è di nuovo in cerca di un centro di gravità permanente.
Il discorso di Veltroni, in cui l'apologia della «bella sconfitta» prevale alla lunga sulla costruzione della rivincita su Berlusconi, è tutto centrato sull'orgoglio e sui valori, sulla descrizione di uno spirito del tempo ostile e per ora imbattibile, come già era accaduto nella lettera-manifesto inviata a Repubblica in agosto che, per il suo pessimismo, aveva ingenerato sospetti su un possibile passo indietro del leader. Nella missiva era citata Isidora, utopica e letteraria terra della felicità, ieri la citazione era da Into the wild, libro e film tratti dalla storia (vera) di un ragazzo che fugge la civiltà reimmergendosi nella natura selvaggia. Veltroni attacca l'idea dominante di un «io separato dal noi»: «Un virus che può fare solo male a una comunità», parla di «genocidio dei valori», poi denuncia che in Italia c'è «una vera e propria perdita di senso, sotto una fitta coltre di egoismo e cinismo».
E' in questo quadro che l'ex sindaco di Roma torna a scolpire la differenza tra destra e sinistra anche come superiorità morale della seconda sulla prima («La destra è responsabile di questo clima di una società senza valori in cui tutti coltivano solo il proprio desiderio individuale», dice Veltroni, che poi aggiunge: «La destra sta rovinando economicamente, politicamente e moralmente l'Italia»), mentre il crepuscolare senso di sconfitta epocale che innerva tutta la lezione veltroniana, e che lo porta a parlare di «autunno della democrazia», è compensato dalla convinzione che i democratici erano e restano «dalla parte giusta», ieri con Martin Luther King come oggi con Obama (e Veltroni stesso): «meglio perdere che perdersi», sembra dire il segretario, non a caso citando uno dei motti preferiti di Arturo Parisi, il più feroce critico di Veltroni, ieri però il primo (e a lungo l'unico) a spellarsi le mani per la lezione di Sinalunga. King è stato citato pure per invitare i giovani a diffidare sull'uso dei sondaggi (un'autocritica per l'annunciato pareggio alle politiche?): «Non guardate i sondaggi - ha esortato il segretario del Pd - perchè se nel 1963 Martin Luther King avesse prima consultato un sondaggio se il paese fosse d'accordo sull'integrazione razziale, sarebbe stato travolto dai no».
Veltroni ha attaccato Berlusconi sulla scuola («Per il pensiero democratico la scuola è il centro di tutto, per la destra è un costo da tagliare») e sulla logica repressiva che ispira le misure del governo in materia di sicurezza. Ha bacchettato Alemanno e La Russa su antifascismo e memoria. Ha detto: «L'Italia si renderà conto a breve che sette anni di governo della destra l'hanno ridotta nelle condizioni drammatiche in cui si trova oggi», mettendo evidentemente tra parentesi i quasi due anni di governo Prodi. Non sono mancati nemmeno, con la copertura del richiama alla «bella politica», riferimenti al degrado del dibattito interno al Pd: «La vera politica, quella alta, ha poco o nulla a che fare con il tatticismo esasperato, con la furbizia come valore, con le manovre nascoste del correntismo, con il gioco della composizione e scomposizione delle alleanze fini a se stesse, prive di visione e di comune sensibilità sui programmi e sulle cose concrete. La politica è altro, è passione, disinteresse, amore per il proprio paese». Quindi Veltroni ha concluso dettando le parole d'ordine del futuro: «Solo noi possiamo essere l'alternativa nuova di cui il paese ha bisogno. Dobbiamo saperlo e lavorare perchè al tramonto del berlusconismo corrisponda l'alba di una stagione di riforme, di modernizzazione e di moralizzazione della vita pubblica». Se non è eterno il capitalismo, magari neanche Berlusconi.

l'Unità 15.9.08
Google lancia Chrome. E il computer diventa archeologia
di Toni De Marchi


IL NUOVO browser in realtà non è un vero browser. La sua nascita segna l’inizio di una nuova era in cui potremo fare a meno del sistema operativo e di pesanti programmi per lavorare solo in Rete

Tutto sommato Bill Gates potrà dire che, quando è successo, lui era già in pensione. E dunque... Ma dalle parti di Redmond, nello Stato di Washington, di sicuro c’è più di qualcuno che dorme male dopo che quelli di Google hanno presentato Chrome, un «qualcosa» definito, con un evidente understatement, un browser per Internet, ma che sembra davvero l’ultima chiamata per il computing come lo conosciamo oggi. E forse, cercando di riacciuffare il sonno, gli uomini di Microsoft riascoltano la più gigantesca profezia tecnologica errata mai pronunciata: «Internet è un fenomeno che non durerà». Autore: William Henry Gates III, circa 1995.
Perché con Chrome (ma è solo un simbolo, la cui immanenza è determinata dal nome che lo propone: in realtà c’è già tutto un mondo in silenzioso movimento che sfugge ai più) l’informatica delle macchine, dei programmi chiusi, pesanti centinaia di milioni di byte, delle applicazioni desktop sta per essere immersa e travolta da una nuvola. Il «cloud computing», che si può spiegare in tanti modi ma che non si può esattamente definire, è il prossimo paradigma dell’informatica nella sua declinazione quotidiana e pratica.
Nella nuvola già ci siamo, e da tempo. Senza che ce ne accorgessimo, anche se il transito è epocale sia pure nel tempo sincopato dell’informatica. Senza volersi troppo arrischiare in paragoni imparagonabili, potremmo però dire che equivale al passaggio dal telegrafo al telefono, dalla comunicazione punto a punto alla comunicazione dal punto al tutto.
La nuvola è naturalmente Internet, la Rete. Quella rete che sta ormai esaurendo il numero degli indirizzi disponibili (e dovrà dunque riorganizzarsi in fretta) proprio mentre è sempre più vicino l’avvento dell’Internet of Things, l’Internet delle cose, dove ogni oggetto - dall’orologio al telefono al forno a microonde - sarà interconnesso e capace di comunicare con il resto della rete.
La nuvola, dove già oggi avvengono cose che noi umani non avremmo neppure potuto immaginare solo dieci anni fa, quando un browser era ancora un browser. Perché una volta, ai tempi di Mosaic, di Netscape, dei primi Internet Explorer, il «navigatore» internet era appunto solo un browser, letteralmente uno sfogliatore, un modo per passare velocemente da una pagina a un’altra del web.
Pensateci: neppure più il giornale, una volta atterrato su Internet, si può più sfogliare. Passi per i video, passi per le gallerie fotografiche. Ma i sondaggi, l’invia parere, e tutto il resto presuppongono un’interattività, uno scambio di informazioni e di dati. E che dite della banca, o degli aerei. Persino i treni: parti dando i numeri al controllore, quelli della tua prenotazione che ti è arrivata grazie a Internet.
Macché sfogliare, ormai: siamo ad un livello di interazione con il mondo che diventa ogni giorno più spinto. E tuttavia tutto si fa ancora con un computer (dunque un sistema operativo), con dei programmi per scrivere e far di conto, con un browser per mettersi in relazione con la Rete. Tre strati, affastellati l’uno sull’altro: con il loro carico di incompatibilità, di complessità e di ridondanze. L’idea che sta alla base di Chrome è che bisogna buttare via il browser e sostituirlo con qualcosa che sappia fare bene tutto quello che il browser fa oggi piuttosto male. Per Google è arrivato il momento che le web application abbiano un loro ecosistema dove poter girare al meglio, dove esprimere tutte le potenzialità per ora compresse.
Insomma, tra non molto potremmo prescindere dal sistema operativo e da programmi scritti per girare su un computer specifico e sostituirli con un oggetto che assomiglia ad un browser, ma che browser non è, e può funzionare ovunque. Ecco perché Chrome si comporta come fosse un vero e proprio sistema operativo. Spieghiamoci: se oggi aprite cinque pagine con un browser e una di queste si blocca, l’unico modo per ripristinare le funzionalità è di chiudere il browser e perdere tutto il lavoro. Con Chrome ogni pagina diventa autonoma. Si blocca? La si chiude senza che interferisca con le altre.
Naturalmente ognuna di queste pagine può essere indifferentemente una pagina di un giornale o un foglio di calcolo tipo excel, una pagina di prenotazione dei voli o un sito di social networking. Sono anni che Google lavora con applicazioni che stanno in Internet. Hanno realizzato persino il loro Office. Ma le applicazioni tradizionali hanno avuto sinora poca fortuna nel passaggio al web proprio perché i browser sono nati per sfogliare pagine, non per scriverle. Da oggi le scriveranno e Microsoft potrebbe finire in una nuvola.

l'Unità 15.9.08
Paleoantropologia. Secondo una nuova ricerca, costruiva strumenti più efficienti di quelli del sapiens. Il commento di Robert Sawyer autore di un libro su questa specie
Neanderthal, il nostro cugino tecnologico e poco superstizioso
di Davide Ludovisi


Chi vincerebbe una partita a scacchi tra un uomo della nostra specie e un Neanderthal? La risposta non è affatto scontata. Un team di ricercatori inglesi e americani ha studiato per tre anni gli strumenti utilizzati dalle due specie, riproducendoli e testandone l’efficienza, la foggia, la materia prima per fabbricarli e la loro durata nel tempo. Si tratta di due tipologie di oggetti in pietra: i «flake» (scaglie), pietre più ampie utilizzati da entrambe le specie, e i «blade» (lame), più strette, in seguito adottate solo dagli Homo sapiens. Lo studio pubblicato su «Journal of Human Evolution» ha dimostrato che non solo non ci sono differenze di efficienza tecnologica tra le due tipologie di strumenti, ma che in alcuni casi i flake erano migliori dei blade.
«La nostra ricerca scardina la credenza della supposta inferiorità dei Neanderthal che si basava sull’inefficienza tecnologica dei loro strumenti», racconta Metin Eren, ricercatore dell’University of Exeter e principale autore della pubblicazione.
Durante lo spostamento dall'Africa all’Europa dell’Homo sapiens, avvenuta circa quarantamila anni fa, il nostro continente era già occupato dai Neanderthal, che sono scomparsi più o meno dodicimila anni dopo.
«È interessante constatare per quanto tempo sia durato il pregiudizio nei confronti dei Neanderthal. Certo, ora non è rimasto nessuno di loro a formare una lobby per difendersi dalla cattiva pubblicità. Tuttavia, nonostante fossero fisicamente più robusti di noi, e avessero un cervello grande come o più del nostro continuiamo ancora a dipingerli come esseri inferiori», commenta lo scrittore Robert J. Sawyer, premiato con l’Hugo Award per la fantascienza per il romanzo La genesi della specie (Hominidis), il primo di una trilogia che esplora una Terra alternativa dove i Neanderthal sono sopravvissuti fino ai giorni nostri.
La ricerca ha già dimostrato che i Neanderthal erano bravi cacciatori almeno quanto gli Homo sapiens e sembra non avessero nemmeno svantaggi nella comunicazione. «Fu un paleontologo francese, Marcellin Boule, a pubblicare per primo un’analisi completa sui Neanderthal negli anni Venti - spiega Eren - Sfortunatamente non si rese conto che i campioni che stava studiando erano quelli di un vecchio Neanderthal distorto dall’artrite, così classificò tutti i Neanderthal come dei bruti, ricurvi e stupidi».
In realtà la nostra supposta superiorità deriva anche dal fatto che, a differenza dell’altra specie, ci sono prove che l'Homo sapiens avesse un complesso culto dell’aldilà. «Circa quarantamila anni fa abbiamo iniziato a seppellire assieme ai nostri morti oggetti come strumenti, monili e pezzi di carne, cose troppo preziose da mettere dentro a un buco senza la convinzione che sarebbero servite ai morti in una realtà ultraterrena», racconta Sawyer. «Ebbene, i Neanderthal erano nostri vicini, ci hanno visto fare quelle cose e non hanno mai copiato quel comportamento. Si potrebbe pensare che non siano mai caduti nella trappola della superstizione». Sono sembrati anche molto meno interessati al make-up e ai gioielli rispetto ai nostri antenati: «Noi ci ricoprivamo di ocra e fabbricavamo collane, loro no», continua lo scrittore. «Tendiamo a considerare la superstizione e la vanità come segni dell’intelligenza superiore degli Homo sapiens, ma i Neanderthal forse li ritenevano segnali della nostra bassa razionalità e di una mentalità superficiale».
Tornando agli strumenti, perché l’Homo sapiens ha adottato la tecnologia «blade» durante la colonizzazione in Europa? Le ricerche suggeriscono che la ragione fosse simbolica. Metin Eren la riassume così: «Colonizzare un continente è dura. Colonizzare un continente durante l’Era glaciale lo è ancora di più. Per i primi coloni Homo sapiens in Europa, la nuova tecnologia adottata era più attraente, e potrebbe essere servita come collante sociale, per mantenere i legami e gli scambi all’interno del proprio gruppo».

Corriere della Sera 15.9.08
Continua la polemica sull'assassinio del commissario di polizia
Calabresi, Pannella difende Sofri
E l'ex capo di Lc ribadisce sul Foglio: quell'omicidio non fu un atto di terrorismo
di Alessandra Arachi


Il leader referendario: io voglio sapere se per uno come lui è ancora giustificata la detenzione

ROMA — Questa volta il suo scritto è stato ben più breve, consono al titolo, «Piccola posta», della sua rubrica sul Foglio. Ma non certo meno incisivo. Ieri Adriano Sofri sul giornale di Giuliano Ferrara è tornato a parlare dell'omicidio del commissario Luigi Calabresi. E non ha esitato: «Salvo che si usi il termine terrorismo come un generico insulto, l'omicidio di Calabresi non può passare, nella versione che ne hanno dato imputazioni, processi e sentenze, per un atto di terrorismo ». Punto. Non molla il colpo l'uomo che proprio per l'omicidio di quel commissario di polizia milanese sta scontando ventidue anni di carcere. Fuori il dibattito ferve: fu un atto di terrorismo l'omicidio del giovane Calabresi? Del resto questa volta è stato lui, Sofri, a scatenarlo. E sono in tanti adesso che vanno contro le sue parole, le sue convinzioni. Tanti da sinistra, anche. Non Marco Pannella.
Il leader radicale ieri pomeriggio ha dedicato quasi un'ora proprio alla vicenda Sofri-Calabresi, la metà del tempo della sua conversazione settimanale con Massimo Bordin, lì nella diretta dalla radio del partito. «Sono molto grato ad Adriano...», il suo esordio prima di tagliar corto sulla domanda di base: fu terrorismo?
Marco Pannella è serafico, si rifà al passato. Al suo: «Ricordo che quando giunse la notizia del mandato di arresto per Sofri, vent'anni fa, scrissi: "Non dobbiamo aver paura di nulla nella storia di Adriano. Poichè è vero che il potere e il terrorismo hanno avuto il loro rapporto, ma questo non c'entra nulla con la storia di Sofri. Con questa storia. Diamo un esempio e diciamo noi cosa sappiamo di quella storia».
Vent'anni dopo di quella storia si sa soltanto quello che i giudici hanno scritto, con grande chiarezza: fu Sofri il mandante dell'omicidio. E' lui che sta scontando la pena. E di questo Pannella non si dà pace. «Io voglio sapere se per la nostra cultura, la nostra civiltà, il diritto positivo, per uno come lui è ancora giustificata la detenzione. L'ho chiesto in tutti i modi, anche alla Corte Costituzionale. Mai avuto risposta. Eppure in questi anni Adriano ha dimostrato come ha chiuso Lotta continua, come ha vissuto in galera, come tutto questo...».
Le ultime considerazioni sono tutte per l'anarchico Pino Pinelli. E' Massimo Bordin che lancia a Pannella la provocazione: «Il caso Pinelli è una vergogna che lo Stato italiano deve ancora sanare, mentre siede in Parlamento il giudice che chiuse il suo caso dicendo che in questura Pinelli ebbe un "malore attivo".... ». Rilancia Pannella, sarcastico: «E' il fascismo dell'antifascismo ».

Corriere della Sera 15.9.08
Il presidente della Puglia (Prc): sulla vicenda troppe parole hanno avuto il sapore dell'ambiguità
Vendola: Adriano ha sbagliato In quel delitto i semi del partito armato
di Paolo Conti


ROMA — «Una disputa che possa apparire troppo accademica o filologica sul caso Calabresi non mette fino in fondo nel conto l'eventualità di toccare nervi scoperti, dolori ancora acutissimi e reattivi sulle parole. E molte, troppe parole hanno avuto spesso il sapore dell'ambiguità, del giustificazionismo, di una distinzione tra diversi gradi di violenza », dice su Adriano Sofri Nichi Vendola, Rifondazione, presidente della regione Puglia dopo le critiche di Piero Sansonetti su «Liberazione».
Adriano Sofri ha sbagliato sottraendo l'omicidio Calabresi al capitolo del terrorismo?
«Assolutamente sì. Sofri aveva le migliori intenzioni, essendo l'intellettuale di rara finezza che è. Ma queste virtù non sono sufficienti per consentire di confezionare quel discorso come se fosse dotato di una intrinseca forza scientifica».
Dolori e nervi scoperti. Di Mario Calabresi e della famiglia?
«Quelli intuiti negli occhi di Mario da chi l'ha conosciuto costruendo con lui rapporti di stima e affetto. I suoi scritti ci hanno riportato a una vicenda terribile. La morte di Luigi Calabresi non può compensare nessun buco nero di quegli anni, né la morte di Pinelli, né l'accanimento contro gli anarchici. Una morte è solo una sottrazione. Non aggiunge nulla. In quel caso ha persino eretto una barriera contro la ricerca della verità sui mandanti e gli esecutori della strage di piazza Fontana ».
L'omicidio Calabresi fu terrorismo?
«Fu certamente un atto terroristico. Non ancora delle Br, forse di cani sciolti di un'area dell'estrema sinistra in tumultuosa trasformazione. Siamo ai primi semi di quella fioritura livida che determinerà il partito armato».
Ritiene un errore aver descritto l'azione di «qualcuno che disperando della giustizia pubblica e confidando sul sentimento proprio volle vendicare le vittime di una violenza torbida e cieca», come ha letteralmente scritto Sofri?
«Certo. Anche nel partito del terrore ci si è armati, supponendo di essere dotati di una particolare deontologia, nel nome della quale compiere un atto di igiene politica e morale. Salvo poi ottenere effetti paradossali. Pensiamo al caso Moro. Si voleva processare lo Stato borghese attraverso un grande statista. Quella farsa di processo trasformò invece Aldo Moro in un "ultimo", in un povero vecchio alla fine abbandonato come un fardello in un'automobile. Da quel momento le Brigate rosse non hanno mai più potuto parlare a nome delle vittime ma solo dei carnefici. Moro diventò simbolo della sofferenza, di un potere arbitrario che sottrae a Dio il mestiere di concedere o togliere la vita umana».
A proposito di parole. L'ex parlamentare di Rifondazione Francesco Caruso ha avvertito il Pdl: fate pure queste riforme, poi non vi lamentate se vi ritrovate un proiettile conficcato in una gamba.
«Appartiene al repertorio delle parole malate. C'è il problema dell'uscita delle minoranze estreme dall'ambito della rappresentanza democratica. Una questione della democrazia che va posta in termini politici. Evocare fantasmi plumbei e pesanti per la storia italiana non serve davvero a nessuno».
Molta sinistra deve ancora fare i conti con la violenza...
«Infatti occorre farli, i conti, con questo passato recente. Ma anche col futuro. Ormai il punto di arrivo è l'elaborazione del tabù assoluto. Ovvero: la vita umana è un bene intangibile, quella del mio nemico è sacra. Dovrà diventare un punto indiscutibile per tutte le culture politiche. Ogni contesa dovrà limitarsi al piano delle idee senza mai più desiderare la disintegrazione, l'umiliazione, la morte di chi è stato mitizzato come "il nemico"»
Lei parla anche per la sinistra non parlamentare ed estrema?
«Parlo per me, prima di tutto, ovviamente per le sinistre. La non violenza è l'approdo naturale dopo un secolo in cui lo scempio di vite umane è stato grandioso».
Sofri avrebbe fatto meglio a non scrivere quell'articolo?
«Le sue tesi vanno sempre guardate con attenzione, anche quando non si condividono. Il mondo migliora perché noi sbagliamo. E quando c'è buona fede vale la pena di correre il rischio di sbagliare».

domenica 14 settembre 2008

l’Unità 14.9.08
Governare col trucco
di Concita De Gregorio


Sono arrabbiata. Sono fiera di esserlo. La rabbia aiuta a non abituarsi a tutto. Ho sentito le parole del ministro Carfagna. Diceva: «Io provo orrore per le donne che vendono il proprio corpo per denaro». Parlava forse di un suo calendario? No, parlava delle prostitute o meglio: solo di quelle che stanno per strada. Perché non succede niente? Perché non telefoniamo, chiamiamo, bussiamo, usciamo per strada? Forse ci stiamo davvero abituando a tutto.
Laura Guasti, Firenze

Più che altro stiamo cadendo nella trappola magistralmente ordita in anni di politica televisiva da Berlusconi e dai suoi ministri: discutere dei dettagli, attaccarci agli slogan, accapigliarci su una scemenza di facciata senza arrivare mai alla sostanza delle cose. Il grembiule, il voto, la bella cordata di imprenditori che «vuole salvare la compagnia di bandiera», la tassa abolita, l’immondizia sparita, l’esercito per strada che così sei più tranquillo quando esci la sera. Chi non vorrebbe salvare Alitalia, camminare in strade pulite, pagare meno tasse, avere figli che imparano in classe le regole della convivenza e quando tornano a casa che è buio non debbano imbattersi in prostitute abbrutite? La gente di sinistra, forse? E allora che problema c’è: ecco qua il governo del fare, lasciatelo lavorare. La questione, purtroppo, è che è un trucco. È il gioco delle scatole: una bella scatola col fiocco da esibire, l’altra marcia da nascondere. Le tre carte. I limoni legati col nylon alle piante del G8, la calza sull’obiettivo che maschera le rughe. È sempre quel trucco lì, una toppa, e poi via per settimane a parlare del fiocco.
È evidente che lo scopo della proposta Carfagna non è quello di combattere la prostituzione: è un progetto di decoro urbano, il suo. Una questione di ordine, di eleganza dell’inquadratura. L’obiettivo è mostrare strade sgombre di viados. Guardate che pulizia. Se volesse combattere la prostituzione dovrebbe occuparsi della tratta di essere umani, di mafia del commercio sessuale, di chi fa entrare in Italia milioni di ragazzine senza documenti e poi le riduce in schiavitù, di come faccia e di chi glielo consenta. Dovrebbe poi anche occuparsi dell’altra prostituzione, quella tutta italiana e non di strada: la prostituzione «pulita» delle studentesse che ricevono in studi che sembrano quello del dentista e poi la sera vengono a fare la baby sitter a casa tua, ragazze ben pagate e ben consapevoli della loro scelta, del resto motivata dalla richiesta di un esercito di uomini «per bene» che saldato il conto tornano in ufficio. Non lo fa, naturalmente. Allo stesso modo Gelmini esibisce la sua riforma come quella del grembiule e dei voti in pagella, un bel ritorno all’ordine antico: peccato che tagli 90mila posti da maestro e azzoppi la scuola. La scatola vuota e ben ripulita dai debiti della cordata Alitalia, le tasse comunali che cambiano nome, l’esercito che fa la guardia alle discariche ma si dimentica dei treni dei tifosi. È sparita la camorra, a Napoli? Gomorra era uno scherzo? Certo che no, ma conta la foto. Un bell’annuncio, un bel grembiule blu, quattro soldati con la mitraglietta cosa vuoi che sia se poi alle volanti hanno tagliato la benzina. Devono solo stare fermi, tanto. E poi tutti giù a parlare di estetica, pazienza per l’etica.

l’Unità 14.9.08
Uno strappo solitario
Il gelo dei colonnelli. Alemanno aspetta ore prima di rilasciare un gelido comunicato: «Tutto il gruppo dirigente di An ha elaborato le tesi di Fiuggi»
di Bruno Gravagnuolo


Stavolta lo strappo di Fini col fascismo c’è stato. Impossibile negarlo. Con tutto il fascismo, e non solo con le pagine legate alla Rsi. Netti infatti sono apparsi ieri i giudizi pronunciati dal Presidente della Camera davanti, ai giovani di An. Primo: «La destra deve riconoscersi nell’antifascismo». Secondo, di qui viene una Costituzione fondata su «libertà eguaglianza e giustizia sociale», da assumere in pieno come «valori antifascisti».
Terzo, a parte la buona fede di chi scelse la Rsi, «i resistenti stavano dalla parte giusta, i repubblichini dalla parte sbagliata». Già, e Fini usa proprio il termine dispregiativo «repubblichini», per indicare gli adepti di Salò, lo stesso termine contestato da quanti a destra hanno sempre rivendicato alla Rsi la dignità di un’idea statale e di patria. Certo ne ha fatta di strada quel Fini che a fine anni ‘80 parlava di «fascismo del 2000». Nei primi anni ‘90 di Mussolini come «del più grande statista del 900». E ne ha fatta anche rispetto alla svolta Fiuggi, del 1995. Quando l’antifascismo veniva da lui definito «momento necessario di passaggio, negativo e non valore in positivo». Come pure c’è uno «stacco netto rispetto alla distinzione finiana in Israele tra «male assoluto» nazifascista, e pagine fasciste anteriori, non tutte negative. No, stavolta c’è stato molto di più in Fini. Un vero capovolgimento di Fiuggi: l’antifascismo come valore fondante e positivo. Condito da un’altra, decisiva notazione storiografica, sull’intero fascismo stavolta. E cioè, ha detto Fini, non si possono isolare nel regime alcuni «fotogrammi», ma va dato un giudizio di insieme. E quel giudizio nel Presidente della Camera è globalmente negativo. Per la dittatura, la violenza, la guerra e l’alleanza con nazismo.
Di più. Accennando alla «memoria condivisa», Fini ha citato Ciampi e la sua pedagogia civile. Che privilegia la memoria costituzionale antifascista (non la marmellata delle memorie). All’insegna di una patria democratica, e non del «nazionalismo», che per Fini è male. Dunque occorre dare atto a Fini di onestà e di coerenza. In una col tentativo di ritagliarsi un ruolo decente di leader della destra democratica europea. Anche sotto lo stimolo di una polemica «antirevisionista» contro le ambiguità post-fasciste, che qualche frutto lo ha dato.
Senonché qui nascono i problemi. Dentro An e guardando al futuro Pdl di Berlusconi. Tanto per cominciare già ieri Fini è stato contestato da uno di quei giovani ai quali parlava. Gli stessi ragazzi che portarono fiori sulle tombe dei saloini a Nettuno. «Sei stato chiaro ma non coerente!», ha gridato uno di loro. Mentre altri dissentivano e abbandonavano la sala. Poi, ai lati di An, sono arrivate le proteste furiose di Storace, di Fiore di Fn e di Donna Assunta: «Fomenta le divisioni tra italiani, dà la stura all’antifascismo, ha gettato la maschera, se ne vada se crede...». Ma il vero punto è un altro. Sono le reazioni sbigottite e compresse di due dei colonnelli contro i quali è diretto lo strappo di Fini. Vale a dire Alemanno e La Russa, protagonisti di esternazioni che avevano oltremodo irritato Fini in questi giorni. Il primo - che aveva rivalutato un fascismo «buono» contro Salò - se l’è cavata nel pomeriggio con una dichiarazione che ribadisce il «percorso di Fiuggi». Condiviso ed «elaborato da tutto il gruppo dirigente di An compreso il sottoscritto (Alemanno, n.d.r)». Quasi a voler chiudere in anticipo illazioni e sospetti di dissenso, in realtà per troncare e sopire scontri col leader. La Russa invece, dopo aver dato segni di stupore ed essersi rifiutato di commentare a caldo, ha precisato con disagio che il suo ultimo discorso dell’8 settembre davanti a Napolitano, era solo un intervento sulla «memoria condivisa». E che perciò non c’è alcun problema con Fini.
Dunque una questione aperta c’è in An, a parte l’adesione «convinta» di altri colonnelli come Gasparri e Bocchino. E non mancherà di palesarsi, sia rispetto alla fusione annunciata con Fi, sia rispetto agli equilibri interni, di An. Sia infine rispetto a una platea di militanti ed elettori che già facevano fatica a condividere la timida svolta di Fiuggi. Sicché non è infondato dire, come ha fatto Veltroni a Cortona, che le parole di Fini sono un «grande passo avanti», ma «rientrano in un’evoluzione personale», se raffrontate alla posizioni di Alemanno e La Russa.
Salvate il soldato Fini in An? Vedremo. Al momento però i giochi sono abbastanza incerti, sul destino dell’identità post-fascista in attesa di finire nel Pdl. E, quanto a quest’aspetto, resta aperto un altro tema. Anzi due: il rapporto Fini/Berlusconi. Se il primo, con la sua «revisione», entra alla grande nel Ppe e può aspirare concorrere da Premier, il secondo, proteso al Quirinale, si candida ormai di fatto a vero leader post-fascista. Vanno in tal senso gli umori «anti-antifascisti» del Cavaliere. La sua ostilità alla Costituzione da lui definita «sovietica», il disamore per la Resistenza, la descrizione del fascismo come innocua dittatura. E da ultimo, anche l’esaltazione del genio italico coloniale e dello squadrista Italo Balbo. Regalata guarda caso da Berlusconi proprio ai giovani di An. Fini antifascista moderato e Berlusconi post-fascista e presidenzialista? Sarebbe l’ennesima giravolta dell’Italia di destra vecchia e nuova. Giravolta trasformista. E pericolosa.

Repubblica 14.9.08
Un brutto segnale
L'ex presidente della Camera: Fini è più avanti del resto del partito
Ingrao: "Svolta più netta del ‘95 ma la pancia di An è ancora indietro"
Le uscite di Alemanno e La Russa sono un brutto segnale, la conferma che certe radici con il fascismo non sono state ancora recise
di Concetto Lo Vecchio


ROMA - È sabato pomeriggio e Pietro Ingrao, il Grande vecchio della sinistra italiana (93 anni), legge e rilegge le dichiarazioni di Fini sui dispacci delle agenzie.
Presidente Ingrao, ha letto le dichiarazioni sul fascismo di Fini? Sono una svolta più netta di Fiuggi?
«Mi pare proprio di sì, ma soprattutto quel che colpisce è la presa di distanza da Alemanno e La Russa».
Come se Fini fosse più avanti rispetto al resto del partito.
«Questo è probabile. Con quest´uscita mi sembra che abbia voluto dare un monito, e dire alla sua parte che non è più tempo di traccheggiamenti».
La platea ha accolto con freddezza le sue parole.
«E questo è grave, perché per quanto lodevole, per quanto positiva, la critica di Fini è pur sempre parziale, nel senso che non iscrive il fascismo italiano dentro la tragedia del nazifascismo. Ci faccia caso, non cita mai Hitler, che di Mussolini fu un alleato stretto se non un duro comandante».
Da Fiuggi sono passati tredici anni eppure è come se in An non tutti avessero fatto sino in fondo i conti con il fascismo.
«È un brutto segnale, il segno che certe radici non sono state ancora recise, e che sono più radicate di quel che si pensi, considerate le uscite di Alemanno e La Russa degli ultimi giorni».
Fini dice anche che non tutti gli antifascisti erano democratici.
«Può darsi sia così, può darsi... Non dico che tutti della mia parte fossero santi ed eroi, ma l´antifascismo italiano è pieno di storie, vicende e figure di un´emozione e di un fulgore straordinari. Pensi alla tragica grandezza di Primo Levi, che finisce per uccidersi oppresso da quel che ha vissuto nei lager».
"Non si può equiparare chi stava da una parte e combatteva per una causa giusta di uguglianza e libertà e chi, fatta salva la buonafede, stava dalla parte sbagliata", ha detto il presidente della Camera. Sono parole che Fini avrebbe pronunciato anche da leader di An?
«Non saprei cosa risponderle, ma non sono stupito di queste parole mi pare che già negli anni passati Fini avesse espresso una volontà di riflessione autocritica. E tuttavia mi colpisce il silenzio che permane tuttora sul grande movimento di popolo che in Italia è stata la Resistenza. E forse sull´epopea che è stata la Resistenza italiana, c´è una debolezza anche nella scuola italiana».
È un caso che le uscite di Alemanno e La Russa siano giunte adesso, che la sinistra è stata pesantemente sconfitta?
"Purtroppo non è una stagione felice per la sinistra, c´è stata una riscossa conservatrice, le abbiamo buscate, diciamolo chiaramente. E anche il governo Prodi non è valso a fermare l´arretramento. Ancora adesso non si è sviluppata a sinistra né una riflessione critica adeguata e nemmeno una ripresa del collegamento con le masse. Questa è la questione centrale da affrontare. E c´è l´urgenza di ripartire presto».

Corriere della Sera 14.9.08
Lo storico «Le frasi del presidente della Camera chiudono il percorso avviato nel '96 dall'infausto discorso di Violante su Salò»
Tranfaglia: che sollievo, da Gianfranco importante passo avanti
di Al. T.


C'è una netta contraddizione tra le parole di Fini e quelle dei suoi colonnelli. Resto preoccupato perché con la rivalutazione di Balbo e di altri esponenti fascisti, Forza Italia, che è un partito populista, si sta spostando sempre più a destra. E non solo quanto a nostalgia, ma per le politiche che sta attuando Biografia Lo storico Nicola Tranfaglia ha scritto la biografia di Giorgio Almirante, pubblicata a puntate dall'Unità: il cammino del leader del Msi dall'antisemitismo a Salò, fino al passaggio di testimone a Fini

ROMA — Le origini fasciste della destra le conosce bene. Non solo perché è uno storico di fama, ma anche perché è stato proprio lui, Nicola Tranfaglia, a scrivere la biografia di Giorgio Almirante, pubblicata a puntate a giugno dall'Unità. Una storia nella quale ripercorre il cammino del leader del Msi, dall'antisemitismo alla Repubblica di Salò, fino al passaggio di testimone a Gianfranco Fini. Ora Tranfaglia è soddisfatto dalle parole del presidente della Camera. Ma se da una parte tira un sospiro di sollievo, dall'altra si dice ancora preoccupato.
Sollievo perché?
«Perché le dichiarazioni di Fini possono essere interpretate come un decisivo passo avanti sulla strada dell'acquisizione dell'antifascismo come criterio fondamentale per stabilire la democrazia».
Di recente qualche «colonnello» di An si era espresso diversamente.
«E infatti le sue parole mi sembrano in aperta polemica sia con La Russa sia con Alemanno ».
Preoccupato perché?
«Con la rivalutazione di Balbo e di altri esponenti fascisti, Forza Italia, che è un partito populista, si sta spostando sempre più a destra. E non solo quanto a nostalgia, ma anche per le politiche che sta attuando».
Cominciamo da Fini: il suo giudizio sul fascismo è nettamente negativo.
«Già nel 2003, allo Yad Vashem, disse cose in oggettivo contrasto con quelle che aveva detto fino ad allora. Parlare di male assoluto riferendolo solo alle leggi razziali non tiene conto della natura dispotica del regime, che fece uccidere Gramsci e Matteotti e picchiò fino alla morte Amendola. Ora Fini fa un passo avanti importante».
E Salò? La Russa ha rivalutato chi «combattè in difesa della patria».
«Si trattò di un regime satellite del Terzo Reich che combattè fino alla fine per difendere gli ideali nazisti di Hitler. Bene ha fatto Fini a prendere le distanze».
Ma il fatto che Fini debba intervenire ancora una volta, per sconfessare i suoi, qualcosa significherà.
«In effetti c'è una contraddizione netta tra lui e gli altri dirigenti. Mi sembra che siamo nel caso di un leader che si trova molto più avanti rispetto alle convinzioni della base e ai funzionari».
La Destra di Storace potrebbe avvantaggiarsene?
«Non credo. Sono residui di una destra ormai tramontata che non trova spazio nel Paese. La reazione di Storace è un giusto sigillo alle dichiarazioni di Fini: è l'ennesima speranza di riscossa di un estremismo che però è condannato dalla storia».
Quella di Fini invece è una destra ormai moderata.
«Sì. Mi sembra che ora sia Forza Italia ad aver scavalcato a destra Alleanza nazionale».
C'è ancora qualche resistenza o reticenza da abbattere per Fini?
«Non credo. Mi sembra decisivo riconoscere che l'antifascismo è indispensabile. È il passo fondamentale per uscire dal limbo: finalmente il fascismo non è più la base della destra in Italia. Mi lasci dire un'ultima cosa su Fini».
Prego.
«Le sue dichiarazioni in qualche modo concludono, perché vanno in direzione opposta, il percorso avviato da Luciano Violante nel '96, con l'apertura ai "ragazzi di Salò". Un discorso infausto. E' significativo che ci sia questo rovesciamento di ruoli e che, dopo dieci anni, arrivi la smentita di Fini alle parole di Violante».

l’Unità 14.9.08
«Chi esalta l’oblio uccide due volte»
Gli nterventi di Elie Wiesel. Giorgio Bocca, Predrag Matvejevic
di Umberto De Giovannangeli


Lo scrittore e premio Nobel per la Pace:
«Bisogna ribellarsi ieri come oggi a chi vuole
cancellare la distizione tra vittime e carnefici»

Hanno vissuto pagine incancellabili della Storia. Sono stati testimoni diretti di momenti che hanno segnato i nostri tempi. L'Olocausto. La Resistenza antifascista. La tragedia dei Balcani. Sulla loro esperienza personale, su un vissuto indimenticabile, hanno costruito una elaborazione intellettuale segnata da una straordinaria passione civile. Elie Wiesel, scrittore, premio Nobel per la Pace, sopravvissuto ai lager nazisti, Predrag Matvejevic, saggista, docente universitario che ha cercato di costruire «ponti» di dialogo nell'inferno balcanico; Giorgio Bocca, maestro di giornalismo, autore di numerosi libri sulla stagione della Resistenza, vissuta in prima persona, e del ventennio fascista. Il loro impegno per mantenere in vita una memoria storica che altri vorrebbero cancellare, non è mai venuto meno. Il loro è un lascito prezioso per le giovani generazioni.

Elie Wiesel: «A chi vuole archiviare il passato dico: solo con il ricordo ci può essere vera riconciliazione»

«Dimenticare le vittime significa null’altro che infliggere loro una seconda morte. Una vera riconciliazione, inoltre, non può avvenire che a partire dal ricordo, preservando la memoria di ciò che furono quegli anni. È vero: oggi c’è chi esalta l’oblio, chi ritiene giunto il momento di archiviare il passato. A questa operazione sento il dovere morale di ribellarmi, ieri come oggi: perché per nessuna ragione al mondo è possibile cancellare la distinzione tra il carnefice e la sua vittima. L’Olocausto è stato il Male assoluto. Ecco cosa è stato. Ciò che ha caratterizzato quel periodo fu una determinazione assoluta nel pianificare e condurre a compimento l’annientamento di un popolo. Questo è stato l’Olocausto, in questo consiste la sua novità rispetto al passato: per la prima volta nella storia, si intendeva eliminare completamente dalla faccia della terra un popolo. Gli ebrei non furono perseguitati e sterminati per motivi specifici, perché credevano o non credevano in Dio, perché erano ricchi o poveri, o perché professavano ideologie nemiche: no, gli ebrei venivano uccisi, umiliati, torturati per il semplice fatto di essere tali. Perché erano colpevoli di esistere: questo è l’orrore incancellabile della Shoah. Ed ancor oggi l’Olocausto insegna che quando una comunità viene perseguitata tutto il mondo ne risulta colpito. Queste considerazioni ci portano al tema dell’identità ebraica, della sua specificità che non va smarrita ma che non deve mai essere vissuta come “separazione” dal mondo dei “Gentili”. In uno dei miei libri, “L’oblio”, (Bompiani), il protagonista sintetizza così il suo essere ebreo: “Se sono ebreo, sono un uomo. Se non lo sono, non sono nulla. Solo così potrò amare il mio popolo senza odiare gli altri”. Questo mi ripetevo allora, nei giorni di Buchenwald, quando i nostri aguzzini volevano cancellare la nostra identità, prima di negarci la vita, per ridurci solo a numeri, quelli marchiati a fuoco sulle nostre braccia. Ma non ci sono riusciti: hanno ucciso sei milioni di ebrei ma non sono riusciti a cancellare la nostra identità. Ed è per questo che oggi, posso dire con il mio Malkiel (il protagonista dell’Oblio, ndr.): è proprio perché amo il popolo ebraico che trovo in me la forza per amare quelli che seguono altre tradizioni. Un ebreo che nega se stesso non fa che scegliere la menzogna. Molte volte mi è stato chiesto, mi sono chiesto, se per chi come me ha vissuto l’esperienza dei lager nazisti, abbia un senso la parola perdono. Questa domanda ha accompagnato la mia esistenza di sopravvissuto. Ma parole come perdono o misericordia non trovano posto nell’inferno di Auschwitz, di Buchenwald, di Dachau, di Treblinka.... No, non è possibile perdonare gli aguzzini di un tempo e coloro che ancora oggi ne esaltano le gesta. In questi sessantaquattro anni, ho pregato più volte Dio e la preghiera è la stessa che recitavo quando ero rinchiuso nel lager: “Dio di misericordia, non avere misericordia per gli assassini di bambini ebrei, non avere misericordia per coloro che hanno creato Auschwitz, e Buchenwald, e Dachau, e Treblinka, e Bergen-Belsen. Non perdonare coloro che qui hanno assassinato. Ma questo non vuol dire condannare per sempre il popolo tedesco, perché noi ebrei, le vittime, non crediamo nella colpa collettiva. Solo il colpevole è colpevole».

Giorgio Bocca: «L’Italia disorientata da un relativismo ingannevole che il neofascismo di oggi non ha mai evitato»

«La memoria, per dire la storia, è il fondamento di ogni civiltà. Un popolo, una nazione senza storia, sono semplicemente impensabili, non esistono. E una delle ragioni dell’attuale disorientamento dell’Italia contemporanea è proprio la labilità della memoria. L’incertezza, la confusione, il pressappochismo nel ricordare la nostra storia recente, nell’affidarla a un relativismo ingannevole. Si succedono, da parte dei neofascisti riportati al potere dal berlusconismo, le rivendicazioni di una doppia storia, la storia della Repubblica di Salò e del fascismo superstite da opporre a quella dell’antifascismo e della guerra di liberazione partigiana. Fingendo che abbiano avuto lo stesso peso, la stessa legittimità, la stessa giustificazione, fingendo che un tetro crepuscolo sia la stessa cosa di un’alba di vita e di speranza, che la disperazione della sconfitta sia la stessa cosa di una vittoria. Il ministro della Difesa La Russa, per esempio, ha dichiarato che i combattenti di Salò meritano rispetto e riconoscenza perchè “anche loro pensavano di combattere per difendere la patria”.
Ma scambiare un gesto simbolico, un episodio insignificante nella grande storia della liberazione dell’Europa dal dominio nazista per un’altra faccia della storia è un inganno, una tentazione che il neofascismo non ha mai evitato. Lo stesso che raccontare la battaglia di El Alamein non come la sconfitta definitiva e inevitabile dell’imperialismo nazista, ma come una delle possibili alternative: “se avessimo vinto a El Alamein, tutto sarebbe ancora stato possibile”. Ma la storia seria, documentata, vera, è diversa: El Alamein non fu un gioco della fortuna ma una verifica della superiorità schiacciante della ottava armata inglese.
Dire come La Russa che le due compagnie della X Mas che per pochi giorni combatterono alla testa di ponte di Anzio contro un’armata alleata che disponeva di migliaia di navi e di un dominio totale del cielo, subito rimandate nelle retrovie dal comando tedesco come elemento di disturbo, è capovolgere la storia. Non si scrive la storia falsandola. È un falso quello compiuto da un compagno di strada del neofascismo, il sostenere che il contributo alla guerra contro gli alleati al fianco dei nazisti fu un fatto storico rilevante, la prova che una parte degli italiani era rimasta dalla parte di Mussolini, pronta a combattere coi nazisti: prova ne sia che le forze armate di Salò contarono mezzo milione di soldati. Questo è falsare la storia, non riscriverla, perché tutti sanno che i cinquecentomila e più richiamati alle armi dalla Repubblica sociale, in parte mandati a istruirsi in Germania, abbandonarono i reparti appena rientrati in Italia, oppure rimasero di presidio sulle Alpi occidentali, fuori dalla avanzata alleata, contro il parere di Hitler che mai approvò il loro riarmo, senza accontentare il dittatore fascista che “chiedeva la sua Valmy”, la sua vittoria. La memoria è importante, decisiva nella cultura di una nazione. E può essere anche una memoria critica, da rivedere, ma deve essere una cosa seria, che lascia il segno, che conta nella vita dei cittadini».

Predrag Matvejevic: «Non dobbiamo dimenticare, serve il coraggio di guardarsi allo specchio e dire: non succederà più»

«La memoria ci definisce, determina i nostri atti, condiziona le nostre scelte, dirige i nostri movimenti. Ma non c’è una sola memoria. Ne esistono diverse. Talvolta la memoria è uno stimolo, talvolta è un obbligo, altre volte un peso. Occorre sempre chiedersi a quale memoria pensiamo. Non vogliamo, non dobbiamo dimenticare gli eventi del nostro passato, della nostra vita, della storia del popolo del quale abbiamo fatto parte. Per quanto mi riguarda, non dimentico mai, nel mio impegno politico e intellettuale, che mio padre è stato deportato per quattro anni in un lager nazista. Era un uomo alto, forte, pesava 92 chili. Quando è tornato era l’ombra di se stesso, uno scheletro vivente, pesava 52 chili. Non lo riconobbi. Piansi per tre giorni. Un popolo, una nazione, un partito politico, devono avere una memoria. Ma viene anche il momento in cui occorre difendersi da questa stessa memoria quando essa diviene invadente. Un popolo, una nazione si definiscono come un patrimonio, talvolta, però, è necessario rifiutare una parte di questo “patrimonio” che ci castiga, che diventa negativo. Solo una forte cultura critica potrà riconoscere questo momento cruciale, nel quale invece di difendere la memoria dobbiamo difenderci dalla memoria, invece di proteggere il patrimonio bisogna proteggere noi stessi da questo stesso patrimonio. Vi sono epoche in cui la cultura critica non fiorisce o viene decisamente osteggiata, svilita, repressa. Ogni scrittore, ogni intellettuale dovrebbe redigere un “catechismo” del proprio dissenso. Perché nel momento in cui rifiutiamo quello che attorno a noi è considerato una cosa sacra, un tabù inviolabile, un qualcosa di indiscutibile, noi rischiamo di essere trattati da traditori. Traditori del patrimonio, della tradizione. E non si rendono conto che conservare ad ogni costo certi patrimoni, ci fa precipitare nel baratro di un conservatorismo esiziale. Voler difendere sempre e comunque la tradizione, ci spinge verso un tradizionalismo che blocca l’evoluzione individuale e collettiva. Una cultura critica è quella che sa anche rischiare, impegnandosi. Occorre - e penso a questo ricordando la tragedia dei Balcani - sapersi guardare allo specchio. Sapendo che non basta appartenere ad una civiltà erudita per essere immuni da virus come l’odio razziale, l’antisemitismo, da una visione di sé come razza superiore. La storia della Germania e del nazismo ne è una tragica esplicitazione. Una cultura critica è quella che si batte perché la cultura nazionale non si trasformi nell’ideologia della nazione, come avvenne nella Germania nazista o, per altri versi, nella Russia stalinista. Molte volte non si ha il coraggio di guardarsi allo specchio. Lo vedo attorno a me, nella Croazia in cui sono tornato a vivere. Vedo tanti che non hanno il coraggio di dire in modo forte cosa furono gli ustascia di Ante Pavelic, criminali fascisti addestrati dai fascisti italiani di Benito Mussolini. Penso alla Serbia. Con pochi amici serbi posso ancor oggi parlare del genocidio di Srebrenica: oltre 8mila civili, donne, bambini, anziani, massacrati in due giorni. Una nazione dovrebbe invece essere molto riconoscente verso coloro che hanno il coraggio di mettere la propria faccia di fronte allo specchio, e dire: ecco, siamo stati capaci di fare questo ma non lo faremo più».

l’Unità 14.9.08
Gelmini sfrenata: «Taglierò le ore di insegnamento. E i precari non si illudano»
Fischi per il ministro alla festa Udc. «La spesa è fuori controllo, riduciamo le materie a quelle essenziali: italiano, matematica, scienze, lingua...»


Mariastella Gelmini non fa sconti a nessuno. E la sua legge oggi risuona di un doppio slogan. Primo: meno ore di insegnamento. Secondo: i precari non si illudano. Insomma, il ministro per l’Istruzione - che è stata sonoramente fischiata dall’uditorio della festa dell’Udc a Chianciano Terme - non demorde. La spesa per l’istruzione è «fuori controllo», dice Gelmini, tanto che per risparmiare è pronta anche a ridurre le materie di insegnamento a quelle «essenziali». La ministra ha anche annunciato che venerdì prossimo 19 settembre, presenterà alle parti sociali il piano programmatico che attuerà la Finanziaria basato innanzitutto su una riduzione delle ore di insegnamento.
«È chiaro che non vengono licenziati gli insegnanti di ruolo - ha rassicurato Gelmini - ma la spesa per l’istruzione è aumentata del 33%, è fuori controllo, senza avere aumentato stipendi, senza avere adeguato le strutture. Secondo voi possiamo andare avanti così? Posso raccontare che i soldi aumenteranno? Non sono un prestigiatore: le ricorse sono queste troviamo la modalità per riqualificare la spesa». Il ministro ha ricordato che negli anni la politica sia di destra che di sinistra «ha sovrastimato la capacità della scuola di assorbire posti lavoro creando un numero notevolissimo di precari cui la politica non è in grado di dare risposte. Non voglio essere responsabile nel creare illusioni che poi diventano cocenti illusioni. Non possiamo prendere in giro una generazione, dobbiamo dire le cose come stanno». Tuttavia Gelmini ha parlato della «possibilità di introdurre misure premiali per gli insegnanti, di aumento delle borse di studio, grazie a quel 30% di risparmi contenuti nella finanziaria. Venerdì 19 presenterò alle parti sociali il piano programmatico che attuerà la manovra. È una proposta che si basa su un dato: la nostra scuola ha il maggior numero di ore in Europa, è il caso che le rivediamo e puntiamo sugli insegnamenti fondamentali: italiano, matematica, scienze, lingua straniera». Per il resto, Gelmini insiste nel dire che non verrà toccato il tempo pieno: «Il governo sa perfettamente quanto il tempo pieno sia importante per le famiglie, nessuno di noi si sogna di farlo venire meno», ma la scuola “secondo Gelmini” - dal voto in condotta al maestro unico, passando per la riduzione del monte ore - per il Pd è, come dice Mariapia Garavaglia, «solo una strategia per far quadrare i conti, senza nessun progetto educativo chiaro alla base». Il ministro ombra contrattacca: «È il governo che ne ha fatto solo una questione di bilancio». Applausi. Fischi, invece, per la favorita di Silvio: anche quando la Gelmini prova a conquistare la platea citando Ratzinger e don Giussani, la Garavaglia se la riprende: il fondatore di cl lo chiama, familiarmente, «il gius» e, ricorda, «quella è la mia storia, quelle citazioni non mi impressionano». Infine, il ritorno del voto in condotta. Una scelta, sostiene la senatrice del Pd, «che non tiene conto dei contesti, delle relazioni, delle difficoltà di alcuni quartieri: «Quando avrò bocciato per il voto in condotta un ragazzo di Scampia forse l’avrò perso per sempre. E se perde anche un solo ragazzo in questo modo, la scuola fallisce». Condanne al piano della Gelmini arrivano anche dal ministro ombra del Pd Mariangela Bastico: «È una riforma che attacca l’impianto della scuola di base, sopprimendone il suo carattere fondamentale: il tempo lungo e disteso». «In questo modo -aggiunge la Bastico- si arrecherà un danno incredibile alle donne che lavorano».
Intervenendo successivamente alla festa dei giovani di An a Roma - ossia di fronte ad una platea ben più amichevole nei suoi confronti - la Gelmini se la prenda con la sinistra: «Mi sorprende che la sinistra abbia annunciato manifestazioni e mobilitazioni contro le nostre iniziative prima ancora di conoscere il piano programmatico che verrà presentato la prossima settimana. È questo il confronto che vogliono?». Dice Mariastella che «l’opposizione sta diffondendo un clima di falso allarmismo sui temi della scuola». Ah sì? Provi a chiedere agli insegnanti cosa ne pensano...

l’Unità 14.9.08
«Sapete cosa stanno distruggendo? Una scuola che insegna a pensare»
di Eduardo Di Blasi


Vincenzo D’Elia, che ancora oggi insegna all’Ada Negri, ottantasettesimo circolo di Roma, prese il primo stipendio da insegnante di scuola elementare nel 1969, quasi quarant’anni fa: «Erano 111.345 lire», ricorda. E aggiunge: «Non lo dimentico perchè quando sono andato all’ufficio postale non sapevo se piangere o ridere. Mio padre barbiere e mia mamma sarta, chi mai aveva visto tutti questi soldi assieme? Potevo anche andare all’università alla quale mi ero iscritto ma che non ero sicuro di potermi permettere». Nel 1969, ricorda ancora, «la benzina normale costava 130 lire, mentre la super 150-155. Avevo la Seicento di mia sorella. Non c’era ancora stata la crisi petrolifera del ’73». E la scuola italiana, si direbbe continuando questa cronologia, stava per essere investita della più grande serie di riforme che mai avesse visto. Riforme che ne avrebbero cambiato la forma.
Caterina Tripodi ha iniziato quasi dieci anni più tardi. Dal 1995 insegna in uno dei plessi dell’istituto comprensivo di via dell’Archeologia a Tor Bella Monaca, terra di frontiera nella periferia romana. «Ho fatto esperienza di tutti i tempi scuola - si presenta - Attività integrative, poi tempo normale, modulo e ora sto al tempo pieno. Ho sperimentato tutto ciò che c’era di sperimentabile nella scuola». Caterina e Vincenzo sono preoccupati di come una legge per il contenimento dei costi, spacciata per una riforma della scuola, possa mettere in pericolo il futuro dei bambini italiani, e le conquiste di trent’anni di sacrifici da parte di persone come loro. Per comprendere cosa c’entrino le loro singole vite con la trasformazione della scuola pubblica, ascoltiamo Vincenzo: «Il modello che stiamo cercando di difendere è stato costruito in anni di sacrifici, di impegno, di grande disponibilità personale. In anni in cui gli insegnanti si rimboccavano le maniche e non si parlava nemmeno di fondo di incentivazione. Non c’era nelle scuole. Negli anni ’70-’80 tutto questo è nato con il volontariato. Quello che oggi abbiamo, è frutto del sacrificio di persone che hanno voluto una scuola diversa». Ricorda: «Quando ho iniziato a insegnare sentivo l’esigenza di conoscere perchè sapevo di non sapere niente. Nessuno mi aveva insegnato a insegnare. E allora, spesso e volentieri, andavo nelle altre classi perchè volevo capire. Molti colleghi mi guardavano strano, come a dire: "Chi è questo marziano che si permette di venire a vedere la lezione?"».
Seguendo il filo dei loro discorsi ci viene davanti una scuola che ha preceduto le leggi. Già prima del ’71, quando lo Stato intervenne (legge 820) ad assicurare alle classi l’insegnamento aggiuntivo pomeridiano, in quelle che un tempo erano le attività «parascolastiche» (il famoso «maestro di serie B», stipendiato dal Comune, che riuniva i bimbi di chi, lavorando, non poteva andare a riprenderli da scuola all’ora di pranzo), il volontariato aveva creato una sorta di «modulo» ante litteram, con i maestri titolari che dialogavano con quelli del pomeriggio costruendo percorsi formativi. Stessa cosa accadde con il superamento delle classi differenziali (legge 517 del 1977), cancellate con legge sull’onda di un cambiamento della didattica che permetteva di insegnare «a tutti».
Caterina: «I bimbi portatori di handicap sono un arricchimento della classe. È un bene per il ragazzo ma anche per la classe che lo accoglie. Si instaurano relazioni importanti».
Vincenzo: «Soprattutto si impara a capire che la società è multiculturale e va accettata e sostenuta nelle differenze...».
l’Unità: «Anche i genitori dei bambini sono preoccupati...».
Caterina: «Sono stata contattata ancora prima che iniziasse la scuola da alcuni genitori allarmatissimi perchè hanno sentito le interviste in televisione sull’insegnante unico e non hanno creduto al fatto che rimarrà il tempo pieno. Perché si sono documentati, hanno visto i tagli, e hanno capito che alcuni tempi scuola andranno a morire. Così chiedono dopo tutti questi tagli come si faccia a garantirlo. Potrebbe essere "garantito" il doposcuola non il tempo pieno».
l’Unità: «Che differenza c’è?»
Caterina: «Nel doposcuola c’è un insegnate che fa fare i compiti. I genitori però chiedono che il tempo pieno sia tempo pieno, sia scuola, con approfondimenti, progetti. I genitori di Tor Bella Monaca hanno sempre avuto voglia di migliorare la qualità della scuola. Si sono battuti quattro anni fa per il tempo pieno: hanno occupato la scuola. I genitori ci tengono alla cultura, alla conoscenza. Non vogliono tenerli lì buoni...».
l’Unità: «Come sono rispetto a prima gli alunni?».
Vincenzo: «I bambini non sono più i Pierini buoni di una volta, sono dei diavoletti... Non hanno più la capacità di soffermarsi sulle cose. Imparano mille cose ma non riescono a soffermarsi su niente. Hanno dei flash, e la nostra difficoltà è, ad esempio, quella di allungare i tempi di apprendimento, fare in modo che un bambino apprenda per più tempo senza fermarsi all’intuizione immediata, senza che rimanga in superficie. Sono stimolati da migliaia di informazioni diverse, più stimolanti di quello che può essere la parola del maestro unico che per quanto possa essere creativo non riuscirà mai a competere con questo. Oppure impone le regole come dice il ministro. Ma questo non si può fare. I bambini iniziano a dare i calci, a correre, e vengono fuori tutte quelle caratterialità che noi abbiamo cercato di superare con la fine delle classi differenziali e con il riconoscimento che la caratterialità è una modalità del carattere e che si supera in un contesto interattivo in cui il caratteriale non si senta un diverso».
l’Unità: «Le scuole sono anche un presidio sociale in alcuni luoghi...».
Caterina: «Da noi è così. L’anno scorso nel periodo di Natale è stata danneggiata la scuola media e sono venuti tutti insieme genitori e bambini. Abbiamo avuto scene di genitori e bambini che piangevano assieme. E la domenica successiva tutte le famiglie sono scese in piazza a manifestare».
l’Unità: «Non c’è nessun insegnante "pigro" o "fannullone"...».
Caterina: «I pigri esistono dovunque, ma credo che nella nostra scuola non è possibile ce ne siano. Perchè è una scuola dove o ci si rimbocca le maniche dal primo giorno o non ci si rimane».
l’Unità: «Adesso anche le vostre classi sono cambiate. Nei quartieri dove insegnate la percentuale di immigrati è molto alta».
Vincenzo: «È stato graduale. Gli stranieri fanno molto più richiesta di tempo pieno. Perchè le famiglie sanno che la scuola può dare ai figli quello che loro non possono dare, perchè per una famiglia dove non si parla italiano la scuola rappresenta un canale importante».
l’Unità: «Contrari al maestro unico anche se lo siete stati…».
Caterina: «Sarebbe anche peggio di prima. Quando ero insegnante unica dovevo insegnare italiano, matematica, storia, geografia e scienze. Adesso, nell’arco delle ventiquattro ore settimanali, è da inserire religione, informatica, inglese. Finisce che vado a insegnare meno italiano e matematica di quando ero insegnante unica».
Vincenzo: «Dopo tanti anni di sacrificio non si può buttare tutto. Soprattutto si mette in crisi un modello: quello che la scuola insegni a pensare. A creare dei cittadini consapevoli che sappiano programmare il proprio futuro al di là del bene immediato. Con l’insegnante unico si tornerà all’insegnamento frontale, uguale per tutti, che non tenga dentro i tempi di apprendimento di chi non ci arriva la prima volta. E questo con grande danno delle categorie culturalmente più svantaggiate. E poichè oggi non si può dire che culturalmente svantaggiato sia il povero, possiamo pensare che quelli più trascurati sul piano sociale e familiare saranno quelli che saranno anche deprivati della possibilità di apprendimento».
l’Unità: «Il governo afferma che i tagli al personale faranno aumentare i vostri stipendi...».
Vincenzo: «Io non voglio un aumento di stipendio. A me non me ne frega niente di aumentare lo stipendio. Il nostro livello stipendiale non è granchè, ma quello che prendevamo prima era veramente una miseria rispetto al costo della vita».
Caterina: «Non baratterei una cosa del genere per la fine della scuola primaria dove i maestri lavorano in team e gli alunni possono crescere a contatto con persone diverse, arricchedosi».

l’Unità 14.9.08
Il Papa condanna i falsi idoli: il denaro, il potere e il sapere
260mila francesi alla messa del Pontefice, presenti alcuni ministri. In serata a Lourdes da pellegrino: affido alla Madonna chi soffre
di Roberto Monteforte


«FUGGITE GLI IDOLI. Cercate il vero Dio». Ieri come oggi. Papa Benedetto XVI, dal cuore della «laica» Parigi, indica alla Chiesa e a tutti gli uomini la strada per contrastare gli effetti della secolarizzazione. Da l’Esplanade des Invalides, dove ha presieduto la messa solenne a conclusione della sua visita nella capitale francese, ha messo in guardia dal pericolo dei nuovi idoli, vere tentazioni per l’uomo contemporaneo.
Accolto con calore dagli oltre 260mila fedeli, compresi alcuni ministri, che affollavano la grande piazza e le vie adiacenti, in un’atmosfera di «gioia serena», ha lanciato la sua sfida alla «vana apparenza» della società dell’immagine e dell’apparire che aliena l’uomo. Che lo «distoglie dal suo vero destino, dalla realtà». Lo allontana dalla ricerca di Dio. Non ha dubbi Ratzinger. Il grande pericolo per l’uomo è mettere da parte Dio e volersi sostituire ad esso. È un peccato antico e attuale: l’idolatria, «vero scandalo». «La tentazione -spiega - di idolatrare un passato che non esiste più, dimenticandone le carenze». Come pure quella «d’idolatrare un futuro che non esiste ancora, credendo che l’uomo, con le sole sue forze, possa realizzare la felicità eterna sulla terra». Fa sue le parole rivolte ai Colossesi dall’apostolo Paolo: «La cupidigia insaziabile è una idolatria». E ancora «La brama del denaro è la radice di tutti i mali». Per poi scandire: «Il denaro, la sete dell’avere, del potere e persino del sapere non hanno forse distolto l’uomo dal suo fine vero?». Ma se l’idolatria resta un peccato da «condannare radicalmente», il Papa invita a distinguere il peccato, che resta inaccettabile, dal peccatore: «La persona è sempre recuperabile. È suscettibile di conversione e di perdono».
Torna a porre il tema del rapporto tra fede e ragione. «Mai la ragione entra in contraddizione reale con la fede» afferma. È l’«unico Dio», quello cristiano - assicura - «che ha creato la nostra ragione e ci dona la fede». Mentre il culto degli idoli distoglie l’uomo da questa prospettiva. Ma come cercare Dio? Nel mistero dell’Eucarestia, centrale per la vita cristiana: è stata la sua risposta. Benedetto XVI attento alla sacralità del rito, ieri ha chiesto un momento di riflessione silenziosa dopo la sua omelia. E il silenzio è calato sull’Esplanade del Invalides. Se è centrale l’Eucarestia lo è anche la figura del sacerdote «ordinato dal suo vescovo», l’unico abilitato - lo ha sottolineato - ad amministrarlo. Ma la Chiesa, anche in Francia, si misura con la crisi delle vocazioni. «Non abbiate paura di donare la vostra vita a Cristo» è stato il suo invito ai giovani francesi. Ma le difficoltà della Chiesa d’Oltralpe restano tutte: con le parrocchie sempre meno frequentate. Si attende l’effetto di quella «laicità positiva» evocata, tra non poche critiche, da Sarkozy per recuperare spazi e ascolto nella vita sociale. Ma pesa anche altro. La divisione tra la Chiesa figlia del Concilio, che male ha accolto il Motu proprio con il quale Ratzinger ha aperto al «rito tridentino», e i settori più tradizionalisti del cattolicesimo, entusiasti.
Nel pomeriggio Benedetto XVI, dopo aver pranzato con i vescovi parigini, ha raggiunto Lourdes. Da pellegrino ha dato inizio alle celebrazioni per il 150° anniversario dell’annunciazione della Madonna alla giovane Bernadette. Al termine della processione «aux flambeaux» ha pronunciato un discorso dalla forte intensità spirituale. A Maria ha affidato tutte le sofferenze dell’uomo: le vittime innocenti «che subiscono la violenza, la guerra, il terrorismo, la carestia o che portano le conseguenze delle ingiustizie, dei flagelli e delle calamità, dell’odio e dell’oppressione. Chi subisce "attentati alla propria dignità umana e ai diritti fondamentali, alla libertà di azione e di pensiero”. Coloro che soffrono per la disoccupazione, i malati, gli immigrati e "coloro che patiscono in nome di Cristo e che muoiono per lui"».
Stamane celebrerà la messa con tutti i vescovi di Francia. Parlerà al paese, alla Chiesa e al mondo.

l’Unità 14.9.08
Matilde, la donna che mediò tra Terra e Cielo
di Renato Barilli


L’OMAGGIO Mantova e Reggio celebrano la «comitissa» di Canossa. Tra 1046 e 1115 sovrana d’un mondo dove imperatore e papa si contendevano il potere. E la cui arte somiglia misteriosamente alla nostra

Le Province di Mantova e di Reggio Emilia e il Comune di San Benedetto Po, Abbazia di Polirone, hanno unito le forze per organizzare una serie di mostre attorno alla figura di Matilde di Canossa (forse 1046-1115), la famosa «comitissa» che aveva riunito nelle sue mani un’enorme estensione di terre, dal Lago di Garda al Lazio, e che aveva tentato di arbitrare lo scontro tra il sacro romano impero di specie germanica e il Papato. La posta in gioco era la questione delle investiture, decidere a chi spettasse la nomina dei vescovi, visto che questi allora esercitavano, nelle rispettive sedi, poteri sia religiosi che civili. Lotta senza esclusione di colpi, in cui il papato reagiva con l’arma della scomunica. E uno degli episodi di questo scontro fu appunto la scomunica che si abbatté su Enrico IV, l’imperatore germanico di turno, costringendolo a stare nella neve per tre giorni, a Canossa, feudo principale della «comitissa», in attesa che il Papa Gregorio VII, da lei ospitato, lo ricevesse e lo riammettesse nella Chiesa. Episodio conclamato, ma tutt’altro che risolutivo, la lotta continuò per decenni, prima di concludersi con la dieta di Worms in termini di spartizione delle rispettive sfere. Si tratta dunque di grandi eventi di natura politica, economica, religosa, civile, in cui le opere d’arte hanno un ruolo di contorno. Eppure, non mancano affatto di recare un segno evidente, eloquente. Se cerchiamo di coglierlo, questo segno, ne risulta compromesso il titolo con cui si presenta la sezione mantovana, a cura di R. Salvarani e L.Castelfranchi, Storia, arte, cultura alle origini del romanico. O meglio, tutto sta nell’intendersi su quel riferimento al romanico: se si vuol dire che i fatti qui illustrati, anche coi manufatti artistici, furono attigui a quella stagione, nulla da obiettare. Ma se si vuol dire invece che in quegli accadimenti bollivano i fermenti della grande stagione del romanico, l’arte dice di no, e vale a indicare la vera natura dei tre poteri che allora si scontravano, soprattutto l’Impero e il latifondo matildino: poteri illimitati, indeterminati nei confini, entro cui cose e persone «ballavano», quasi in stato di imponderabilità. Era una situazione proveniente dal disfacimento dell’Impero romano, che invece si era distinto per la creazione di un fitto reticolo di vie di comunicazione, cui in ambito artistico, nei dipinti come nelle sculture, corrispondeva una figurazione dettagliata, di alta fedeltà mimetica. Ma poi il venir meno di quelle coordinate aveva imposto l’astrazione piatta, schematica, generalista dell’arte bizantina, ancora dominante in quell’XI secolo che vede i fatti qui narrati. Le cose stavano per cambiare, ma non per opera della feudalità e dell’Impero, ai quali convenivano perfettamente le forme schematiche, le icone stereotipate e ripetitive. Entro quei vaghi confini le comunità, anzi, i Comuni stavano riattando le vie di comunicazione, i reticoli viari, e dunque avevano bisogno di forme d’arte più determinate, il naturalismo d’antan rialzava la cresta. Ma era molto difficile ritornare al mimetismo nelle manifestazioni pittoriche, dato che queste non erano confortate dall’esempio dei dipinti dell’antichità, andati perduti, mentre era possibile riprendere la forte statuaria antica nelle sculture, richieste dai portali delle chiese. E quello fu davvero l’avvento del romanico.
In fondo, il documento tipico dell’ondeggiare nel vuoto spinto confacente ai tempi matildini sta proprio nell’immagine simbolica di cui si vale la sezione di Mantova, una pagina del codice in cui il Donizone narrava De princibus canusinis, dove Matilde ed Enrico IV appaiono tracciati a larghe linee, piatti come sottilette. E tutti gli altri codici e motivi ornamentali, paramenti sacri, medaglie, sigilli raccolti in mostra si attengono a questa medesima bidimensionalità assoluta. Il fenomeno è tutt’altro che inconsueto, in fondo lo abbiamo visto ripetersi ai nostri tempi, quando le vie di comunicazione sono divenute perfino troppo rapide, ma col risultato analogo di far cadere la ricerca del dettaglio specifico, e di rilanciare l’astrazione. Allora, inutile precisare, bisognava galleggiare in un mare magnum di indistinzione, oggi, abbiamo troppa fretta per poterci soffermare sui dettagli, le icone astratte sono destino comune alle due epoche, seppure per ragioni opposte.
Se ci portiamo alla sede reggiana della mostra (a cura di A. Calzona), non per nulla anche qui siamo accolti in copertina dalla riproduzione di un mosaico animalista, conservato nella cattedrale della città, dove domina il medesimo schiacciamento, la perdita assoluta della volumetria. Ma tra la fine di quello stesso XI secolo e gli inizi del successivo, le cose cambiano, i bravi cittadini vogliono ristabilire relazioni, scambi commerciali, e dunque le immagini devono irrobustirsi, tornare ad essere tangibili, misurabili. Non ci possono essere in mostra le mirabili sculture modenesi di Wiligelmo, ma ci sono le altrettanto vivide e plastiche forme proposte dai capitelli di una località del reggiano, S.Vitale di Carpineti, seppure alquanto più tarde. Roma sta rinascendo, ma non certo per merito delle forze imperiali e del latifondo matildino, che invece erano interessati a mantenere l’umanità immersa in un mondo del pressappoco e dell’indeterminazione.

Corriere della Sera 14.9.08
Omicidio Calabresi. Parla Giordano (Prc): «Bravo Sansonetti Sofri ha sbagliato»
Ammettere una diversa classificazione vorrebbe dire annullare un dibattito che ha permeato ormai persino chi ha praticato la lotta armata
di Paolo Conti


L'intervista «Giusto il passaggio su Licia Pinelli: Stato incapace di riconoscerle lo stesso dolore della famiglia Calabresi»
Giordano: un commissario vale quanto un comunista
L'ex leader del Prc: Adriano? Errore, il poliziotto fu una vittima come Guido Rossa e Bachelet

ROMA — «Il mio è un giudizio politico, nulla a che fare con le sentenze della magistratura. So bene che gli imputati del caso Calabresi non sono mai stati condannati per terrorismo... però dico che quell'omicidio fu un atto di terrorismo. E che valenza terroristica ebbero tutti gli omicidi di cui si macchiarono le Brigate rosse in quegli anni, per citarne solo due Vittorio Bachelet e Guido Rossa».
Parola di Franco Giordano, ex segretario di Rifondazione Comunista dal 2006 al 2008. La sua critica a Adriano Sofri è chiara così come il totale appoggio a Piero Sansonetti, direttore di «Liberazione», che ha attaccato lo scritto dell'ex leader di Lotta continua apparso su «Il Foglio » l'11 settembre scorso.
Piero Sansonetti attacca Sofri: non si può «distinguere in base alla biografia delle vittime », scrive il direttore di «Liberazione».
«Mi ritrovo fedelmente nelle contestazioni di Piero. Quella distinzione di Adriano, anche se maturata in un lungo ragionamento culturale e politico, è sbagliata. Premetto, a scanso di equivoci, di non aver mai creduto alla colpevolezza di Sofri nella vicenda Calabresi. Mi sono sempre battuto per una soluzione politica e continuerò a farlo: Adriano deve poter lasciare, dopo anni, una condizione dolorosa di detenzione che ormai è stata lunghissima. Detto questo, non posso condividere la separazione che lui sembra voler compiere tra un terrorismo di natura stragista, che fa della violenza il fine per gettare nel panico un nemico indistinto, dagli atti di sangue contro i singoli che in qualche modo potrebbero — secondo lui — portare a un recupero, in via drastica, di torti subiti...» Anche quello è terrorismo, dunque?
«Lo ripeto. Senza dubbio. Come potrei maturare un giudizio diverso? Sansonetti parla correttamente di giustizialismo. E io non sono un giustizialista. Non lo sono nella versione vendicativa con cui spesso le istituzioni statali decidono di rivalersi verso una persona che ha sbagliato: sono culturalmente contro l'ergastolo e a favore di pene alternative al carcere. Figuriamoci se posso essere giustizialista nel caso di forme violente, e magari nel nome di una "altra giustizia"» Tornando alla distinzione di Sofri...
«Ecco, ripeto, qui Adriano veramente sbaglia. Prendendo per buono quel distinguo, come ha correttamente argomentato Piero Sansonetti, si potrebbe arrivare a sostenere che l'omicidio di un poliziotto non è un atto di terrorismo. Non sono d'accordo. Io non posso distinguere tra un militante comunista e un commissario di polizia».
Sansonetti arriva anche a un'altra conclusione. Cioè che così si azzererebbero anni di discussione politica.
«Giustissimo. Ammettere una diversa classificazione vorrebbe dire veramente annullare un dibattito maturato a sinistra e che ha permeato ormai persino chi ha praticato la lotta armata negli anni Settanta. Sansonetti paventa possibili disastri culturali e politici, e anche qui concordo con l'analisi. Su un punto, però, sono completamente d'accordo con Adriano. Trovo il passaggio su Licia Pinelli giustissimo. C'è stata incapacità, da parte dello Stato e delle istituzioni pubbliche così come della società civile, di riconoscere alla famiglia Pinelli la stessa intensità del dolore della famiglia Calabresi» In quanto, appunto, al comportamento negli anni della famiglia Calabresi?
«Ho sempre avuto la massima considerazione per loro. Ho conosciuto Mario, il figlio giornalista, negli anni di lavoro alla Camera e ne ho sempre apprezzato la bravura e la correttezza. In quanto alla vedova e a tutti loro, trovo straordinaria la modalità in cui sono riusciti a vivere il loro dolore: indiscutibile compostezza, sempre la ricerca della giustizia e mai della vendetta. Il tutto con profonda sofferenza e non comune dignità».

Corriere della Sera 14.9.08
Sofri e le parole su Calabresi. Critiche da sinistra: ha sbagliato
Sansonetti: pericoloso negare che quell'omicidio fu terrorismo Ma il «manifesto»: no alle equazioni, giusto il suo urlo arrabbiato
Il direttore di «Liberazione»: Sofri reintroduce nel dibattito un'idea totalitaria di innocenza e colpa
di Marco Imarisio


ROMA — «Adriano Sofri (Trieste, 1 agosto 1942) è un ex terrorista, giornalista e scrittore italiano al centro di un controverso caso giudiziario che lo vede condannato in via definitiva come mandante dell'omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi». Wikipedia, l'enciclopedia libera online, è tutto fuorché il Vangelo. Ma due giorni dopo la pubblicazione del suo articolo sul Foglio, chi avesse voluto consultarla per saperne di più sull'ex leader di Lotta continua avrebbe trovato quella definizione, «ex terrorista », inserita di fresco da un utente, poi rimossa, poi nuovamente reinserita. Il resto è tutto giusto. Ma quella nuova voce è uno sfregio che davvero dimostra come questi siano argomenti che sopportano male la risposta del giorno dopo. E oltre a Wikipedia, arrivano attacchi a sorpresa anche da sinistra, primo fra tutti quello di Piero Sansonetti, direttore di Liberazione e «sofriano » convinto. Le parole di Sofri — riassumendo brutalmente il suo articolo sul Foglio: la morte di Luigi Calabresi non fu terrorismo, lo Stato si è dimenticato della famiglia Pinelli — hanno però alzato un'onda di reazioni e turbamenti, soprattutto nei suoi settori di riferimento, la sinistra più movimentista e il vasto arcipelago dei reduci di Lotta continua. Lo testimoniano due editoriali di ieri, pubblicati da autori di area molto vicina, ma dai contenuti opposti. Il 20 ottobre 2007 Gabriele Polo e Piero Sansonetti, rispettivamente direttore de il manifesto e Liberazione,
si abbracciavano sul palco di piazza San Giovanni al termine della manifestazione da loro organizzata nel tentativo vano di rianimare e unire la sinistra. Ma su Sofri, saluti all'unità. «I cortocircuiti della propaganda cercano al terrorismo italiano una data d'origine nell'omicidio Calabresi, precipitano così nelle equazioni, cancellano tutte le differenze». Così Polo, sul manifesto, completamente d'accordo con «l'urlo arrabbiato » dell'ex leader di Lotta continua.
«Sofri opera una distinzione tra terrorismo e giustizialismo violento, e rivendica la categoria del giustizialismo per l'omicidio Calabresi, distinzione operata sulle caratteristiche e sulle biografie delle vittime (…). A me questo ragionamento sembra pericolosissimo. (…) Reintroduce nel dibattito politico un'idea totalitaria di innocenza e colpa, e di gradazione del diritto alla violenza, che può portare ai più terribili disastri culturali e politici». Questo invece è Sansonetti, sempre ieri. Come si vede, sul tema ci sono sostanziali divergenze tra il compagno Polo e il compagno Sansonetti.
Non si tratta di una mera polemica di carta. La morte di Luigi Calabresi è argomento urticante per chi visse quegli anni, basta un aggettivo per urtare sensibilità diverse. «Ci fa molto soffrire ancora oggi» dice Giovanni Russo Spena, che nel 2003 da parlamentare di Rifondazione si impegnò in una dura battaglia contro i «giustizialisti» che a suo dire remavano contro la grazia a Sofri. «Adriano non è certo un terrorista. Ma questa volta ha sbagliato, pur all'interno di un ragionamento importante. Non credo che esistano gradazioni alla definizione di terrorismo. E quel delitto rientra appieno nella categoria».
In quel 1972 lo scrittore Gianfranco Bettin aveva 15 anni. Si iscrisse a Lotta continua ad un passo dallo scioglimento, proseguì la sua strada fino a diventare consigliere regionale veneto, com'è oggi. Nel 2003, quando le vittime del terrorismo erano ancora nel cono d'ombra, fu degli oratori al Memory day di Mestre citato anche da Mario Calabresi in Spingendo la notte più in là. «Stando ai giudici, Sofri ha ragione. Lui vuole dire che quel delitto non va iscritto in una strategia che contempla l'omicidio come mezzo per ottenere un risultato politico. E non voleva certo sminuire la colpa di chi ha commesso un atto orrendo. E' una distinzione sottile tra crimine politico e terrorismo. Ma dal punto di vista delle vittime non cambia nulla, è pura accademia. Il suo è un grido, e come tale non proprio meditato». Paolo Cento, che firmò la proposta di legge sulla grazia a Sofri, sta con l'ex leader di Lotta continua. Senza se, con qualche ma, e questa è una novità. «Dice cose giustissime. I toni però sono sbagliati, ma questo fa parte del modo di essere di Adriano».
Ultimo viene lo storico. Giovanni De Luna, anche lui con un passato in Lotta continua. Il suo ragionamento, piuttosto sentito, è influenzato dal mestiere che esercita, dice di cercare la prospettiva lunga. «Può essere controverso, ma apprezzo lo sforzo di Adriano. Nessun Paese può permettersi il lusso di convivere con un passato irrisolto. Non esisterà mai una memoria unica e condivisa, ma spero che prima o poi si riesca a recintare un terreno virtuoso all'interno del quale vi siano certezze, storiografiche e giudiziarie, a cui ancorarsi. Perché i conflitti della memoria, specie se personali, non dovrebbero mai occupare uno spazio pubblico. Altrimenti, a lungo andare le società implodono».

Corriere della Sera 14.9.08
Rifondazione comunista. Ferrero propone la «gestione unitaria» del partito «No» di Vendola: niente scissione, ma stiamo fuori


MILANO — Il neosegretario Paolo Ferrero (foto) propone una gestione unitaria, l'antagonista Nichi Vendola risponde picche. Rifondazione comunista resta ferma al congresso di fine luglio a Chianciano.
«Proviamo a definire una gestione unitaria del partito per rientrare in campo e cominciare a fare politica», ha detto ieri Ferrero al comitato del Prc. Ma la componente di Vendola, che il 27 settembre farà un'assemblea pubblica, conferma la linea: niente scissione ma anche niente ingresso nella segreteria nazionale, eletta con 141 sì e 130 no.

Corriere della Sera 14.9.08
A Modena un tema suggestivo affrontato da pensatori e artisti
Nei meandri della fantasia
Uno strumento di verità della terra che l'uomo imprigiona nel sentirsi mortale
Sulla forma originaria della fantasia si fondano religioni e miti, filosofia, arte, scienza: tutte opere morte dei mortali
di Emanuele Severino


La fantasia è l'insieme delle «immagini originarie», delle «forme di rappresentazione più antiche e più generali dell'umanità»: gli «archetipi» (ad esempio il divino). «Diffusa dappertutto», la fantasia «appartiene ai misteri della storia dello spirito umano». Così scrive Carl Gustav Jung. Platone vede nelle «idee» le immagini originarie di tutte le cose, gli archetipi; così originarie da essere le stesse cose originarie. Ma per lui la conoscenza delle idee non appartiene ai «misteri» dello spirito umano, bensì alla scienza della «verità» a cui solo il filosofo è capace di sollevarsi e che dunque è l'opposto della «fantasia» intesa come evocazione misteriosa, e quindi da ultimo oscura e arbitraria, di mondi.
Eppure è necessario risalire molto più indietro di ogni archetipo a cui l'uomo si sia rivolto lungo la propria storia. Ci si imbatte nella forma originaria della fantasia, di cui tutti quegli archetipi sono derivazioni. Da tempo chiamo «terra» la storia dell'uomo e delle cose che gli si fanno incontro. Infatti si può pensare che la più antica origine di questa parola indichi il venire e l'andare, l'insieme di ciò che va e viene: il seno e la voce materna, la luce e la casa, uomini e dèi, il dolore e il piacere: cose terrestri e celesti, giacché anche il divino raggiunge i mortali a un certo punto della loro vita e poi da molti di essi si allontana. La terra: gli stormi delle cose che vengono e vanno.
Da che cosa è accolta la terra? Da che luogo si allontana? I mortali appartengono alla terra: nascono e muoiono. Ma l'uomo non è un mortale. Egli è il luogo eterno in cui appare ciò che da sempre la verità è destinata ad essere: il «destino della verità del Tutto»; essenzialmente diversa da ciò che i mortali hanno inteso con le parole «destino» e «verità». Nell'uomo sopraggiunge la terra. Ma insieme ad essa sopraggiunge e si fa dominante, la convinzione che l'uomo sia un mortale, e con lui tutte le cose; ed egli vive come se in verità lui e le cose lo fossero. Ma in verità ogni cosa è eterna. Non solo le «anime», come invece pensa Platone, ma anche i «corpi», e tutti gli stati delle une e degli altri. Anche la terra è eterna; e anche quella ingannevole convinzione che separa la terra dal destino della verità.
Com'è lontano questo discorso da tutto ciò di cui sono convinti i mortali! La sua inevitabilità non può essere, qui, neppure lontanamente indicata. Qui si tratta solo di mostrare, da lontano, in che senso è necessario risalire molto più indietro di ogni archetipo evocato dai mortali. Tanto indietro da poter scorgere che sia la «verità» dei mortali sia la loro «fantasia» hanno la stessa anima e che quest'anima è la forma originaria della fantasia.
In una delle sue accezioni più comuni, la fantasia è la capacità di portare alla luce mondi diversi da quello quotidiano o da quello che è ragionevole ritenere esistente. Ma questi due tipi di mondi, cioè di andirivieni, entrambi evocati dai mortali, appartengono alla terra. Essa è il fondamento non solo della sapienza di questo mondo e della sapienza di Dio, ma anche della fantasia. E la terra si inoltra nel luogo eterno del destino della verità. Ma non basta. La maggior parte di coloro che leggono queste righe stanno pensando che esse non abbiano nulla a che fare con la «realtà» e la «serietà della vita».
Fantasie, appunto. Ma anch'essi sanno infinitamente di più di quanto credono di sapere. Sono l'apparire del destino. L'autentica fantasia originaria è cioè la convinzione che la «realtà » con cui noi abbiamo sicuramente a che fare sia, appunto, le cose che vengono e vanno, terrestri o celesti, le cose della terra; e ormai si pensa che tutte le cose vengano dal nulla e vi vadano. Tutto è avvolto dalla morte. Chiudendosi in questa persuasione i mortali vivono nella terra separata dal destino della verità, nella terra che appare sfigurata, irretita, trascinata in basso. La terra dei morti. La fantasia originaria è la separazione della terra dal proprio destino. Una metafora può forse aiutare a comprendere queste affermazioni— purché non si dimentichi che la filosofia autentica non è metafora, ma il pensiero più radicale, essenzialmente più radicale e inevitabile di ogni altra forma di sapere, scienza compresa.
Quando i cacciatori vedono gli stormi di uccelli attraversare il cielo, non è che il cielo non lo vedano più. Non si produce in essi qualcosa come un «oblio» del cielo e del più alto dei cieli — quale invece secondo Platone si spalanca nelle anime che hanno perduto le ali e non riescono più a vedere gli archetipi che appaiono nella «pianura della verità». Quei cacciatori, il cielo, lo vedono ancora, ma son tutti presi dal volo degli uccelli e se qualcuno parlasse loro del cielo direbbero che le sue son fantasie e che sono gli uccelli le cose con cui essi hanno sicuramente a che fare. Son tutti presi dal volo degli uccelli perché non mirano ad altro che a prenderli, gli uccelli; ed effettivamente li prendono, e gettan loro addosso le reti e li sfigurano e, separandoli dal cielo, li trascinano giù in basso e li uccidono.
La fantasia originaria è il volo irretito degli uccelli. L'arte tenta di rievocare il libero volo, ma, per quanto splendente, rimane anch'essa all'interno della rete, mostrando il volto sfigurato della terra. Giacché ora si può capire che, nella metafora, il volo degli uccelli corrisponde alla pura terra, il cielo al destino della verità.
La rete dei cacciatori corrisponde dunque alla volontà di potenza che isola la terra dal destino della verità. Tale isolamento è la forma originaria della fantasia. Su di essa si fondano le forme derivate: religioni e miti, filosofia, arte, scienza: tutti i morti pensieri e le opere morte dei mortali.
Era glaciale L'opera di Marc Quinn, «Ice Age», un olio su tela del 2006. Courtesy of ProjectB Contemporary Art, Milano

Corriere della Sera 14.9.08
Cardiologia Un nuovo metodo di cura, che ora verrà testato sull'Everest
La musica rallenta il respiro e fa star meglio il cuore
di Franco Marchetti


Primi risultati incoraggianti sui sintomi di scompenso
Ricercatori italiani dimostrano che, rallentando il respiro a 6 atti al minuto, migliora l'ossigenazione

Grazie a un piccolo computer, una sorta di iPod, che con la musica induce a respirare più lentamente, i malati di scompenso cardiaco, in cui la funzione di pompa del cuore è insufficiente, vedono in poche settimane migliorare sintomi e qualità di vita. L'osservazione, che sarà pubblicata sulla rivista Circulation, è di un'équipe di ricercatori italiani che hanno preso spunto da studi da loro stessi effettuati sul Monte Rosa, a oltre 4000 metri di quota: avevano osservato come, rallentando la respirazione a 6 atti al minuto, si migliorasse l'ossigenazione del sangue. «Noi ipotizziamo che la respirazione lenta — dice il coordinatore della ricerca, Gianfranco Parati, direttore del Dipartimento di cardiologia dell'Ospedale S.Luca, Istituto Auxologico Italiano — abbia precisi effetti fisiologici». La respirazione lenta è più profonda e recluta tutti gli alveoli (cellette in cui avviene il passaggio dell'ossigeno fra aria e sangue), sfruttando per lo scambio dei gas tutto lo spazio a disposizione, che invece, in condizioni normali, viene usato solo in parte. «Lo scambio dei gas è favorito anche dal fatto che, distendendo molto i polmoni, la respirazione profonda rende più sottili i setti che separano il sangue dai gas» dice Parati. Infine, entra i gioco il il sistema nervoso simpatico, che la respirazione profonda "rilassa". Lo studio ha reclutato 24 pazienti, in due gruppi. Usando il dispositivo computerizzato ( vedi box), in meno di tre mesi i 12 pazienti che facevano la respirazione lenta (15 minuti, 2 volte al giorno) hanno presentato, rispetto a chi era stato trattato con la terapia convenzionale, un sensibile miglioramento della capacità del cuore di pompare, dei livelli di ossigeno nel sangue e dei sintomi, tanto che al termine dello studio i pazienti sono stati assegnati a una classe inferiore di gravità dello scompenso. Ora i ricercatori proseguiranno gli studi in occasione di una spedizione appena partita per l'Everest. «Studieremo individui sani, che però ad alta quota hanno una situazione polmonare molto simile a quella del paziente scompensato» conclude Parati.

Repubblica 14.9.08
A Milano minidosi da 10 euro. Ogni giorno se ne consumano 10mila
La coca in mano ai bambini
Consumi in forte ascesa tra i giovanissimi


Dalle acque depurate emerge che ogni giorno in città si consumano circa diecimila dosi. E nel week end salgono a quindicimila
"La quantità minima una volta costava 70 euro, cifra non bassissima". Ora gli spacciatori hanno messo la droga nelle mani di tutti

MILANO. La cocaina in mano ai ragazzini, questa è la nuova frontiera dello spaccio alla milanese, l´ultima strategia del supermercato dei sogni chimicamente perfetti. «Fammi fare un colpo», «Quanto vuoi per un colpo?».
Un tempo questa frase ambigua avrebbe potuto sottintendere un crimine o un po´ di sesso. Non è più così, nel vocabolario degli adolescenti. Quartiere Greco. Tre ragazze vanno da sole verso un gruppo di giovani neri. Da lontano la scena è semplice.
Uno dei maschi è lo spacciatore, intasca dalla bionda una banconota da dieci euro e infila qualcosa, forse un cucchiaino di plastica, in una bustina trasparente.
I sociologi la chiamano «minidose», lei e le amiche, no: davanti allo spacciatore, la ragazza sniffa, sorride, si è fatta «il colpo». E con il colpo in canna, cioè nel circuito sanguigno, eccola pronta per una serata distratta, se vorrà esserlo, o d´allegria, se deciderà di ridere. Almeno per un po´, in effetti, è così che funziona la cocaina, che però resta un pianeta in parte inesplorato persino per i tossici più incalliti.
La parola benzoilecgonina difficilmente suggerirà qualche cosa a chi non è medico, ma è un metabolide della cocaina, cioè la coca si trasforma in quella sostanza quando passa attraverso l´organismo umano. «Abbiamo analizzato le acque che passano dal depuratore di Nosedo, i nostri lavori del 2006 e del 2007 indicano che ogni giorno a Milano si consumano circa diecimila dosi di cocaina. E nel week end salgono a quindicimila. Abbiamo fatto analoghe analisi a Lugano e Londra. Bene, Milano è la città dove, in percentuale al numero degli abitanti, il consumo è il più alto».
Questa visione di Milano capitale europea del consumo della cocaina non viene proposta da un poliziotto allarmista o da uno scrittore di noir, ma da uno scienziato, Silvio Garattini del celebre istituto Mario Negri. Perché questa città va sempre più a mille e non tutti ce la fanno a reggere i suoi ritmi vagamente ostili. Tanto che «negli ultimi anni - cifre fornite su nostra richiesta dalla Prefettura - si assiste a un incremento di segnalazioni a carico di medici, infermieri, autisti, forze dell´ordine, avvocati». Cioè, durante i controlli (diciamo antidoping) a persone sospette, qualche volta si fa il test antidroga: emerge così questa "trasversalità" della roba. Nel 2004 c´erano state 3069 segnalazioni di persone da inviare poi al Sert, il servizio della Asl che si occupa di tossicodipendenze, ma l´anno scorso sono state 4129: magari la Borsa avesse lo stesso tipo d´incremento.
Milano dunque "sempre più in alto", o sempre più in basso, come raccontano i tantissimi casi di cronaca. Dalla pr della moda che, dopo un festino con amici e poi qualche altra striscia a casa sua, ha preso il bambino appena nato e insieme con lui s´è lanciata dalla finestra. Al giovane diciassettenne sbandato che, più volte aiutato da don Gino Rigoldi, una notte è scappato dalla comunità, s´è preso quanta più coca potesse e ha ammazzato, con un complice, un transessuale, con una violenza inaudita. I segnali esistono, pochi sembrano volerli leggere. Ma è bene sapere che «nel 2010 il numero dei consumatori di cocaina potrebbe aumentare del 40 per cento rispetto al 2007».
Lo sostiene un´analisi della Asl coordinata da Riccardo Gatti (www.droga.net). Ha organizzato un "prevo.lab", una sorta di "stanza delle previsioni", che se sbaglia, sinora ha sbagliato per difetto. Dice Gatti: «La percezione della droga come pericolo e trasgressione è stata progressivamente sostituita» dall´idea che sia un «semplice prodotto - potenzialmente innocuo e controllabile - da assumere liberamente, in qualunque momento e in qualunque luogo», per «una vita diversa per qualche ora». Un sogno chimico a cottimo. Una «polverina magica come quella delle favole». Ma dietro c´è il mercato dello spaccio. Con i pusher che replicano il modello distorto del supermercato per "fidelizzare" la clientela. C´è un conto da fare. Un po´ d´aritmetica applicata alla strada.
Oggi tra i 6 e gli 8 euro puoi prendere un aperitivo alcolico partecipando a un happy hour, che qualche volta più che comunicare "happy", rappresentano il massimo dell´infelicità milanese. Sempre a 8 euro si può comprare una microdose di eroina (0,20 grammi) necessaria a far calare l´eccitazione da coca. A 8,5 euro trovi l´hashish e a 6, quando c´è, la marijuana. L´ecstasy non manca, ma tra i giovani "fuori giri" di Milano è una cosa o da "tamarri" (i fuori moda della periferia) o da sudamericani. Tra i 10 e i 15 euro è possibile, come abbiamo visto, il "colpo", la botta al cervello della cocaina che "sale".
Risultato: gli spacciatori si sono livellati al costo medio della "serata". Un progetto che rende, stando agli studi statistici del dottor Roberto Mollica, sempre della Asl: in Italia nel 2005 i giovanissimi erano il 3,5 per cento dei consumatori, ma nel 2006 sono saliti a 3,9. Nella provincia di Milano erano 3,5, sono arrivati a un bel 4,3. Intorno al vecchio Duomo «sulla popolazione tra i 15 e i 19 anni (pari a 161.580 ragazzi) i consumatori sono 7mila circa», aumentano sempre, sono sempre più giovani.
E mentre scriviamo, Colombia, Bolivia e Perù stanno aumentando anche la produzione. Fabio Bernardi, ora capo della Mobile a Bologna ed ex capo della Narcotici a Milano spiega che questa «produzione è arrivata ormai a 900 tonnellate anno, e il 60 per cento arriva dalla sola Colombia». Sono gli "eserciti" a gestire il traffico, visto che «le famose Farc hanno quasi il monopolio della coltivazione», gli acquirenti in Italia «soprattutto le ‘ndrine calabresi, poi le organizzazioni camorristiche più che quelle siciliane, ma - tanto per spiegare - noi a Milano beccammo il responsabile di un centro per abbronzature che gestiva direttamente il traffico e aveva 70 chili in deposito, insomma se hai la liquidità e non hai paura, puoi rischiare». Negli ultimi giorni, in mano a tre illustri sconosciuti, tre gangster di mezza tacca, sono stati trovati 300 chili di "bamba". Sembra tanta, è solo goccia nel fiume di droga che, tra pub e discoteche, chioschi dei panini e piazze, scorre florido e carsico.
L´affarismo senza scrupoli milanese sa far di conto molto bene. Un chilo di cocaina costa millecinquecento dollari quando lo si compra in Colombia, ma sulla piazza europea vale dai 20 ai 23mila euro, e cioè venticinque volte di più. «Tutti noi dell´antidroga - continua Bernardi - guardiamo Milano perché è la città che detta la tendenza generale, come anche Madrid e Londra, e quello che preoccupa moltissimo è che la dose minima, una volta, costava non meno di 70 o 60 euro, cifre basse, ma non bassissime». Ma poi gli spacciatori, siccome «il mercato europeo della cocaina è in ascesa mentre quello americano è saturo», hanno inventato la minidose, destinata ai più giovani, e mettendo la cocaina nelle mani di tutti.
Solo grazie al tanto criticato pm di Potenza John Woodkock è venuto a galla quel giro di cocaina che per anni ha imperato e prosperato nella zona di corso Como, quasi del tutto indisturbato. Gli interrogatori su veline e soubrette che tiravano "le righe" nei bagni della discoteca vip Hollywood hanno svelato quanto fosse (e sia) un fenomeno di massa. Nell´ultimo mese il repulisti tra i locali della movida milanese è stato continuo. Hanno acchiappato "Paco", ma solo perché ha portato la roba a domicilio a una cliente brasiliana, e stando ad accuse e indagini, l´ha violentata. Poi sempre in corso Como sono stati placcati dai carabinieri due nigeriani che, credendo di non dare nell´occhio, usavano la bicicletta per pedalare da un cliente e l´altro. Arresti, arresti, sempre pochi rispetto alla tanta gente che vende e compra "l´additivo", per innalzare il numero dei giri della propria ingrippata macchina umana.
Nelle interviste ai vip milanesi, ricorre spesso una domanda: «C´era una volta "la Milano da bere", oggi che cosa c´è?». Già allora quella era la Milano non solo della moda, della Borsa e di Bettino Craxi, ma anche di Angelo Epaminonda, detto il Tebano, che aveva il monopolio della cocaina rosa. Un quarto di secolo dopo, non c´è alcun monopolio, c´è solo tanta merce. Chi ne fa un uso autistico, la classica sniffata da solo, prima di vedersi una partita alla tv. Esiste l´uso empatico, per sentirsi tutti insieme. C´è chi la ordina usando "skype", su Internet, che non è facilmente intercettabile. È in mano a tutti, la cocaina, in questa nuova «Milano che si beve l´anima».