mercoledì 17 settembre 2008

l’Unità 17.9.08
I ragazzi di An: «Antifascisti? Mai»
Bufera su Azione Giovani Roma. Alemanno: «Anche l’anticomunismo nella Costituzione»
di Federica Fantozzi


L’ULTIMO MIGLIO antifascista di Gianfranco Fini fatica ad essere percorso dai suoi. Alemanno regge due giorni e poi distingue: «Accetto i valori dell’antifascismo, però sono anticomunista e ci tengo che venga messo in Costituzione anche l’anticomunismo». Ma a far discutere è soprattutto la «lettera aperta a ogni italiano» apparsa sul sito di Azione Giovani Roma e firmata dal suo presidente Federico Iadicicco: «Noi non possiamo essere, non vogliamo essere e non saremo mai antifascisti».
Un altolà forte alle parole del leader di An, che fa chiedere al Pd «che cosa dice Giorgia Meloni», ministro tuttora alla guida dei “pulcini” del partito e, da padrona di casa, sul palco di Atreju con il presidente della Camera. Mentre il segretario di Rc Ferrero chiama in causa Berlusconi: «Attendiamo parole chiare, smetta di fare il furbo, non si gioca con il giudizio sul fascismo e sui campi di concentramento. Quelle dei giovani di An sono dichiarazioni gravissime».
Scrive Iadicicco: «Ce l'ho messa tutta per trovare un motivo valido per essere antifascista ma non l’ho proprio trovato, anzi ne ho trovati molti per non esserlo». Ad esempio, il fatto che il sito Indymedia «ritenne utile mettere vicino al mio nome anche il mio indirizzo di casa, con l’intento di puntare l’indice contro di me e indicarmi come bersaglio da colpire. Ho pensato: Come potrei aderire alla cerchia dei miei aguzzini? Come potrei dichiararmi antifascista?».
E dunque: «Prego Dio affinché ci dia la forza di perdonare chi in nome dell’antifascismo ha ucciso giovani innocenti. Ma cerca di comprenderci, noi non possiamo, non vogliamo e non saremo mai antifascisti».
Uno stop secco alle parole di Fini sul palco del Celio, accolte con freddezza immediata e malumori successivi. Un documento che la ministra-ombra delle Politiche Giovanili Pina Picierno definisce «preoccupante».
Una lettera che non piace neppure al senatore aennino Augello: «Questa polemica sul fascismo è stata un regalo all’opposizione per eccesso di ingenuità». Al punto che in serata Iadicicco sarà costretto alla parziale retromarcia; «Tutta AG si riconosce nei valori costituzionali ma c’è un altro antifascismo in cui è impossibile ritrovarsi».
La sua orgogliosa rivendicazione di «non antifascismo» però resta a incarnare un malessere diffuso. Su Internet, nei siti di destra, il linguaggio è meno rispettoso delle gerarchie. Feroce il blog Radici Profonde, che sopra la foto del presidente della Camera titola: «La smorfia di Fini».
Poi attacca: «È giusto spendere due parole sul pubblico che ha ascoltato la sua delirante congettura storica. Un pubblico di ex giovani che ha messo da parte l’appartenenza, ha chiuso nel cassetto le bandiere e si vergogna di esporre la fiamma - scrive Gianfranco da Catanzaro - Meglio un più "democratico" tricolore per non urtare la sensibilità delle new entry di Fi».
Ecco perché alla «lezione» di Fini non è seguita «nessuna contestazione o moto d’orgoglio. Gli ex camerati hanno rinnegato l’ultimo pezzo di storia. Ora, la smettano di definirsi di destra».

Corriere 17.9.08
Il caso Insorgono Pd e Prc. Imbarazzo nel Pdl: questa polemica è un regalo all'opposizione
Azione giovani di Roma si ribella «Non possiamo essere antifascisti»
Gasparri: Fini ha chiarito, ricordando che non tutto quel fronte era anche democratico
Il leader dei giovani di An scrive una lettera aperta sul web: decine di ragazzi come me uccisi dall'odio. Poi corregge


ROMA — Si era capito subito, sabato scorso, alla festa di Atreju, che ai giovani di An non era piaciuto granché il discorso di Fini sui «valori dell'antifascismo ». Forse per dovere di ospitalità, quel giorno al Parco del Celio reagirono solo con tiepidi battimani e un sostanziale gelo. Ieri, però, dopo tre giorni di sofferte riflessioni e maldipancia, il presidente romano di Azione giovani e consigliere provinciale del Pdl, Federico Iadicicco, classe 1974, ha rotto gli indugi e ha scritto una lettera aperta sul web ( www. azionegiovaniroma. org) indirizzata formalmente «ad ogni italiano», ma in realtà diretta al Presidente della Camera. «Ce l'ho messa tutta per trovare un motivo valido per essere antifascista — scrive Iadicicco — ma non l'ho proprio trovato, anzi ne ho trovati molti per non esserlo. A questo punto ti prego di capirmi e con me tutti i ragazzi di Azione giovani. Prego Dio affinché ci dia la forza di perdonare chi in nome dell'antifascismo ha ucciso giovani vite innocenti. Ma cerca di comprenderci: noi non possiamo essere, non vogliamo essere e non saremo mai antifascisti».
Dopo giorni di faticose precisazioni e riallineamenti, i «colonnelli » del partito stavolta si tengono alla larga dal dichiarare: Alemanno, La Russa, Meloni, Ronchi, nessuno commenta le frasi di Iadicicco, temendo di alzare nuovi polveroni. Ma poi qualcuno deve averlo chiamato a rapporto perché più tardi, alle dieci di sera, il presidente romano di Ag preciserà: «Ovviamente tutta Azioni Giovani si riconosce nei valori della Costituzione italiana ed è consapevole che in essa sono rappresentati alcuni valori fondamentali dell'antifascismo. Io volevo solo sottolineare che, purtroppo, è esistito un altro antifascismo che si è lasciato dietro una scia di odio e di sangue nel quale è impossibile riconoscersi». Un tono ben diverso da quello usato nella lettera aperta contro l'antifascismo finiano: «Circa due anni fa, il più importante sito della rete antifascista italiana, Indymedia, pubblicò un articolo di commento a una iniziativa di Azione giovani di Roma e ritenne utile mettere vicino al mio nome anche il mio indirizzo di casa, con l'evidente intento di puntare l'indice contro di me e di indicarmi come bersaglio da colpire. E allora ho pensato: come potrei aderire alla cerchia dei miei aguzzini? Come potrei dichiararmi antifascista? Inoltre, sono andato un po' indietro nel tempo, fra gli anni Settanta e Ottanta, comunque non nel 1943, e mi è venuto alla mente che alcune decine di ragazzi come me, che facevano quello che faccio io oggi, sono stati uccisi dall'odio degli antifascisti».
Dall'opposizione, comunque, reagiscono indignati. «Ignorare la storia apre a rischi politici», ammonisce lo storico Nicola Tranfaglia sul sito del Pd (www.partitodemocratico. it). «Che i giovani di An non si dichiarino antifascisti anzi lo rivendichino, è grave», aggiunge il segretario di Rifondazione comunista, Paolo Ferrero. L'unico «colonnello» di An che parla è Maurizio Gasparri, capogruppo dei senatori della Pdl: «Io condivido quello che ha detto il presidente della Camera.
Lo stesso Fini, del resto, sabato scorso aveva ricordato che non tutto l'antifascismo è stato democratico. Penso a Stalin e a Curcio. E ai tanti ragazzi di destra, ai tanti martiri, vittime della violenza dell'antifascismo. Anche Sofri è antifascista ma non democratico, visto che ha fatto l'apologia dell'omicidio Calabresi...». Il senatore del Pdl, Andrea Augello, prova infine a mettere tutti d'accordo: «Il fascismo e l'antifascismo non esistono più. Credo che questa polemica sia stata un regalo all' opposizione».

l’Unità 17.9.08
L’oltraggio fascista ai martiri «Sono come i delatori di allora»
La lapide imbrattata e la memoria ferita
di Gioia Salvatori


A Paolo Pierantoni, 66 anni, ex ispettore della Banca d’Italia, figlio di un martire delle Fosse ardeatine, non è andata giù l’ennesima scritta sulla lapide che ricorda suo padre, Luigi Pierantoni, in piazza Leandro a Roma, quartiere Trieste. Onore alla Rsi e Fini partigiano, impresso nero su bianco la notte tra sabato e domenica 14; stessa data, chissà se è un caso, in cui la lapide venne oltraggiata l’anno scorso. La scritta sulla lastra e sul muro è stata cancellata dall’ufficio decoro urbano del Comune, domenica mattina.
Ma la ferita che quel segno lascia nel cuore di un figlio che non ha mai conosciuto le abitudini, i gesti, l'affetto di un padre azionista trucidato a 38 anni, non si può cancellare. «Io, che ho incamerato l'antifascismo con il latte materno, non mi sognerei mai di andare ad oltraggiare la lapide di chicchessia, fosse pure il nemico più odiato - denuncia Paolo - Questo perché da antifascista, so quanto sia importante la libertà di ognuno di esprimersi nel rispetto delle regole democratiche».
Paolo, occhi chiari e commozione trattenuta a stento, parla con la verve di chi è intenzionato ad andare fino in fondo. Aveva due anni quando nel 1943 suo padre Luigi, tenente medico, venne arrestato nel presidio della Croce Rossa di Tor Fiorenza a Roma, nel giorno del suo dodicesimo anniversario di nozze, l'8 febbraio 1943. Poi conobbe il carcere di via Tasso e il III braccio di Regina Coeli dove improvvisò un'infermeria e si distinse per l'attività medica in favore dei detenuti. Da lì partì per il suo ultimo viaggio. Membro del partito d'azione, tisiologo, Luigi Pierantoni, usava la sua abitazione-ambulatorio nel quartiere Trieste, in piazza Leandro, come base per l'attività politica. Con la scusa delle visite mediche nella casa entravano azionisti e comunisti amici del padre Amedeo (delegato al congresso di Livorno del 1921 e tra i fondatori del Pci), venivano scambiati volantini e armi. Mamma Lea, moglie di Luigi, era a fianco del marito nell'attività clandestina. Incinta del quarto figlio, impavida, trasportava armi e stampa clandestina nel doppio fondo del passeggino del terzo figlio, Paolo. Poi Lea, una volta riconosciuto il marito, nel caldo giugno del 1944 alle Fosse ardeatine, non parlò più di quegli anni e di quella tragedia: papà Luigi era la salma 334, uno degli ultimi ad essere recuperati dalla cava, uno dei primi ad essere stati uccisi. Vedova 39enne con un neonato appena morto e tre figli da crescere, Lea perse ogni gioia, si chiuse nella routine di un lavoro da impiegata e nel silenzio. «Ho conosciuto mio padre, un grande appassionato di sport e di lettura, medico e collaboratore della Gazzetta dello sport, attraverso i suoi libri - racconta Paolo - Usava sottolinearli ed io li leggevo e rileggevo stando attento a quei segni, cercando di farmi così un'idea di lui. Lo immaginavo studioso e serioso, poi qualcuno mi raccontò di un suo lato gioviale, pieno di allegria».
Così, alla ricerca del padre che non ha mai conosciuto, Paolo ha sollecitato i parenti a raccontare della famiglia. Lo zio Armando, 86 anni ben portati, comunista da sempre come il padre Amedeo, ha raccolto l'appello: sua moglie Maria, in questi giorni, scrive a macchina appunti che diventeranno un diario famigliare. Armando racconta del nonno garibaldino, fuggito da casa ragazzo per partecipare alla spedizione dei Mille e poi alla presa di Porta Pia, del padre comunista attivo nella Resistenza romana, e del suo 8 settembre, quando soldato «preferii andare a combattere i tedeschi lungo la linea Gustav con il battaglione Curtatone e Montanara, piuttosto che darmi alla macchia». Armando, che ha la mente lucida e il piglio deciso di chi ci tiene a tramandare la memoria, piange come fosse successo un anno fa quando ricorda il giorno in cui seppe che suo fratello Luigi era tra i martiri delle Fosse. «E oggi vengono a fare le scritte sulla lapide. Io sa come li considero? Mi fanno repulsione come il delatore che si finse malato, si intrufolò nell'ospedale di Tor Fiorenza e tradì mio fratello. Li considero così anche se le scritte in sé, dopo averne viste tante, da vecchio, non mi toccano più di tanto. Li considero così perché anche loro, magari una banda di teppistelli qualunque, hanno tradito e violato le regole».
«A fare quella scritta sono stati dei cretini qualificati, ovvero cretini di destra: un cretino semplice va a imbrattare un'altra cosa - rincara Paolo - Siccome questi hanno raggiunto il loro scopo, e cioè che quella lapide a furia di scritte e ripuliture non si legga più, ci piacerebbe che il sindaco Gianni Alemanno ce ne mettesse una nuova e che si costituisse parte civile in un eventuale processo. Sarebbe un modo per dimostrare coi fatti di aver elaborato, come dice, le tesi di Fiuggi. Lo chiedo anche perché ritengo che certa cretineria di destra, non a caso ribadita dopo i discorsi dell'8 settembre, sia alimentata dalle parole di chi tentenna nel riconoscere l'antifascismo come valore, per legittimare certe fasce del suo elettorato. Quelle scritte non sono solo un vandalismo ma una violazione delle regole della convivenza civile e della libertà».
Violazione della libertà di Armando, fratello 86enne con le lacrime agli occhi, e di Paolo, figlio 66enne, di ricordare il loro congiunto vittima dei nazi-fascisti. Ricordarlo con una lapide sul muro \dell'abitazione dove visse e lottò per la libertà di tutti.

l’Unità 17.9.08
Alessandro Portelli. Storico e responsabile della Casa della Memoria di Roma
«Questa destra legittima gli atti vandalici»
di g.s.


Nome, cognome, professione, data di nascita e morte più le scritte «Qui visse» e «Martire delle Fosse Ardeatine». Ogni quartiere di Roma che già esistesse durante la Seconda guerra mondiale, ha palazzi segnati da lapidi alla memoria di una vittima dell’eccidio nazi-fascista del 23 marzo 1944. Con pietre incise annerite dallo smog e talvolta accompagnate da una piccola corona di fiori, la città ricorda, con una memoria che percorre i quartieri, una delle stragi più drammatiche mai subite. Lo storico Alessandro Portelli, responsabile della Casa della Memoria a Roma, spiega perché questi epitaffi abbiano un forte significato simbolico per tutti.
Dopo sessantaquattro anni queste lapidi sono ancora disseminate in tutta la città...
«Questi epitaffi non raccontano solo la storia e i suoi protagonisti, ma la coscienza collettiva di una città, per cui ancora oggi l’eccidio delle Fosse ardeatine è una ferita aperta. Di queste lapidi colpisce e commuove la semplicità. Spesso, sono state apposte sui muri da vicini di casa del defunto, da conoscenti o compagni di partito, senza troppe cerimonie. Sarebbe bello che venissero valorizzate e che anche sui cartelli delle strade intitolate ai partigiani, per esempio nei quartieri Trionfale e Giustiniana venisse indicato, sotto il nome, chi era quella persona, come avviene per fisici e matematici».
Cosa rappresentano, a livello simbolico, atti vandalici ai danni di questi epitaffi?
«Chi li compie vuole cancellare la memoria cittadina e, esprimendo loro solidarietà, riabilitare gli assassini. Questa idea è viva in una minoranza che rifiuta gli insegnamenti della storia. Una minoranza fatta da gente che disegna svastiche, imbratta i nomi dei partigiani e scrive sui muri solidarietà a Priebke».
Quali sono le responsabilità dei singoli e delle istituzioni rispetto a questi atti di inciviltà?
«Veltroni, da sindaco di Roma, andò di persona a cancellare le scritte nazi-fasciste per dare un segnale. Oggi c’è un altro governo: le parole di certa destra conservatrice e reazionaria sulla Rsi e sul fascismo, indirettamente, legittimano gli autori di questi atti che operano senza paura, anche in luoghi ben esposti, probabilmente sentendo di incarnare lo spirito del tempo. Reputo grave, poi, che la società civile con i centri sociali, le sedi di partito, le parrocchie, non rappresenti più una rete di protezione della memoria e dei suoi simboli. Sia perché la protezione della memoria rientra nella pratica quotidiana di pochi di questi soggetti, sia perché la loro presenza di certo non intimorisce chi, per l’appunto, sente di incarnare lo spirito del tempo».

l’Unità 17.9.08
Borghezio si unisce ai neonazisti tedeschi
Congresso a Colonia «contro l’islamizzazione»


I leghisti cercano alleanze con l’estrema destra europea per dar manforte alle loro "crociate" contro le moschee. L’eurodeputato leghista Mario Borghezio, parteciperà, dal 19 al 21 settembre, al "Congresso contro l’islamizzazione" indetto a Colonia dal movimento di destra "Pro Köln". Ne ha dato notizia per primo il sito francese Rue 89, ma poi il tam tam della Rete ha fatto circolare l’informazione. In Italia, tra i primi, il blog di Daniele Sensi (danielesensi.blogspot.com), da dove è partito un diluvio di reazioni e commenti.
Quella stessa galassia della destra xenofoba europea si ritroverà nella città tedesca per cercare di innalzare muri ideologici e anche fisici contro quella che viene chiamata l’"invasione musulmana", a difesa delle città "cristiane" europee. Si sa che l’ultradestra rivendica da sempre la superiorità cristiana contro "il cattivo" musulmano dalla scimitarra affilata, rievocando episodi epici come la battaglia di Lepanto o quella di Poitiers dove il re cristiano Carlo Martello "cacciò" dalla Francia le truppe musulmane nel 732.
Ma, a differenza di un anno fa, Borghezio non può pretendere di essere un libero pensatore. Il suo partito ora è al governo e un suo collega di partito è Ministro degli Interni.
D’altronde la Lega è un partito molto complesso, che si potrebbe definire "multilivello". La Lega di Borghezio è quella populista e xenofoba, quella che nel Nord Est mantiene rapporti con l’estrema destra più razzista come "Forza Nuova". Quella Lega capitanata da Mario Borghezio che arringa le folle inneggiando violentemente alla superiorità della Padania e alla "cacciata" dei mussulmani e degli immigrati dal nostro Paese.
Tra i movimenti che interverranno ci sarà il fiammingo Vlaams Belang, erede di un movimento sciolto per incitamento alla discriminazione e all’odio razziale. C’è l’Npd, il partito neonazista tedesco, ben noto per le sue manifestazioni antisemite. Due anni fa alcuni senatori dell’ Npd eletti al Bundestraart (il Senato federale) uscirono dall’aula mentre la Camera osservava un minuto di silenzio in memoria delle vittime di Auschwitz.
Al convegno hanno aderito anche i "pezzi grossi" dell’estrema destra del Vecchio continente. L’austriaco Fpö, partito dell’ex governatore della Carinzia, Jorge Haider, ma soprattutto il leader del Front National, il francese Jean Marie Le Pen, da sempre punto di riferimento politico delle destre ultranazionaliste. Mario Borghezio intanto ha confermato in una recente intervista la sua presenza, dichiarando di non sapere della partecipazione di gruppi neonazisti.
Altre presenze inquietanti sono quelle dei cosiddetti teorici della destra radicale come ci sarà la rivista Nation-Europa, fondata da ex Ss dove possiamo trovare la firma dell’ideologo della nuova destra francese, Alain de Benoist, che tanto successo riscuote anche a casa nostra, soprattutto tra i "Giovani Padani", l’organizzazione giovanile della Lega. Ultime adesione vengono da altri movimenti xenofobi tedeschi come i "Republikaner" e la "Deutsche Liga für Volk und Heimat" (cioè lega tedesca per il popolo e la patria), con il deputato Henry Nitzsche. Ci saranno anche ospiti provenienti dal mondo anglosassone e da Oltreoceano. Dagli Usa arriverà il "Robert Taft Group", e dalla Gran Bretagna gli ultranazionalisti del "British National Party", protagonisti della protesta contro la più grande moschea d’Europa, quella di Finsbury Park a Londra, famosa per essere stata perquisita dopo gli attentati alla metro del 7 luglio 2005.
Secondo lo storico francese Jean-Yves Camus, uno dei maggiori studiosi dei movimenti dell’estrema destra in Europa, gli organizzatori dell’evento si sarebbero riuniti qualche tempo fa ad Anversa per lanciare un movimento europeo contro l’islamizzazione delle città.
Quella di Colonia potrebbe essere solo una prima tappa di una strategia comune ben più ampia e pericolosa.

l’Unità 17.9.08
Norme anti-rom, l’Europa riapre il caso Italia
Barrot costretto a sbugiardare Maroni davanti agli eurodeputati della commissione Libertà civili
Polemica sulla delegazione che visiterà i campi nomadi a Roma, nella lista esponenti della destra xenofoba italiana
di Paolo Soldini


LA VERTENZA tra il governo italiano e la Ue sulle impronte ai bimbi rom non è affatto «chiusa» come avevano cercato di farci credere. Sono bastate le indiscrezioni (di fonte certa) sull’audizione del commissario alla Giustizia Jacques Barrot davanti agli eurodeputati della commissione parlamentare Libertà civili per demolire le bugie di Maroni e del governo con cui si era accreditato, in Italia, l’«accordo» dell’esecutivo comunitario con le misure anti-nomadi. Come se non bastasse, mentre nel vertice sui rom ieri a Bruxelles, la rappresentante del governo italiano veniva pesantemente contestata, si è andata profilando una nuova occasione di scontro. Alla delegazione di sette deputati della commissione Libertà civili che da domani saranno a Roma, si sono aggregati, senza che nessuno li avesse invitati, alcuni tra i peggiori esponenti della destra razzista e xenofoba di casa nostra, tra cui i fascisti Roberto Fiore e Luca Romagnoli e il collega di partito di Maroni Mario Borghezio, con la trasparente intenzione di «bilanciare» le prevedibili critiche della delegazione «vera».
Ma andiamo con ordine. Barrot, forse di malavoglia, davanti ai parlamentari europei ha dovuto sbugiardare Maroni su due punti. Il primo sono le assicurazioni distribuite a destra e a manca dal ministro sul fatto che la sua risposta alle sollecitazioni al chiarimento venute dalla Commissione di Bruxelles era consistita sic et simpliciter nell’invio dell’ordinanza originaria e che quindi era stata quella l’oggetto dell’«assoluzione» di Bruxelles. Falso, falsissimo. Barrot ha chiarito che da Maroni sono state inviate alla Commissione «spiegazioni» dell’ordinanza che escludevano, tra l’altro, che la raccolta dei dati fosse prevista su base etnica e correggevano precedenti indicazioni inaccettabili.
Ma c’è di più e (per Maroni) di peggio: secondo il commissario le ordinanze italiane contemplano comunque due misure che contrastano esplicitamente con il diritto comunitario. Si tratta dell’obbligo di registrarsi imposto ai nomadi, anche a quelli di cittadinanza europea, entro tre mesi e dell’obbligo di certificare la provenienza delle proprie risorse. Ufficialmente la Commissione non può emettere giudizi su questi due aspetti, mancando ancora la loro approvazione da parte delle Camere italiane, ma ufficiosamente Bruxelles manda a dire a Roma che se non ci sarà una nuova correzione, la normativa italiana verrà considerata illegittima. Il rischio dell’apertura di una procedura di infrazione, oltreché di una pioggia di ricorsi alla Corte europea, dunque, non è affatto sventato. Il problema (per Maroni) è che cedendo anche su questi punti, dell’ordinanza sbandierata a suo tempo ai quattro venti come fulgido esempio di «tolleranza zero» non rimarrà assolutamente nulla. Zero, appunto.
Mentre Barrot a porte chiuse metteva mestamente la parola fine sull’operazione «salvate il soldato Maroni» che era stata messa in piedi nei giorni scorsi tra Bruxelles, Roma e Parigi, ieri si consumava un’altra indegnissima farsa. Per la visita a Roma decisa un paio di settimane fa dalla commissione parlamentare Libertà civili è stata scelta una delegazione che, com’è abitudine, rappresenta tutte le componenti politiche dell’europarlamento. Oltre al presidente Gérard Deprez (liberale), ne fanno parte, infatti, Roberta Angelilli (destra Uen), Giusto Catania (sinistra Gue), Claudio Fava (Pse), Elly de Groen-Kouwenhoven (Verdi) e le due deputate di origine rom Lìvia Jàròka e Viktòria Mohàcsi. Accanto ai sette designati, però, si sono autonominati Fiore, Romagnoli, Borghezio più un gruppetto di esponenti del Pdl come Alfredo Antoniozzi (candidato trombato alle provinciali di Roma), l’ineffabile Elisabetta Gardini, Stefano Zappalà e l’indimenticato Carlo Casini del «movimento per la vita» con l’evidente missione di fare numero e rumore durante la visita ai campi nomadi. A questo punto, le organizzazioni di difesa dei diritti civili e molti parlamentari socialisti, liberali, verdi e di sinistra hanno deciso anch’essi di presentarsi venerdi nei campi rom che saranno oggetto della visita, quello in via Tenuta Piccirilli, quello di Salone e il famigerato Casilino 900.

l’Unità 17.9.08
Polemiche e fischi contro il governo italiano
La sottosegretaria Roccella contestata dai rom. Roma protesta con la Ue
di Marco Mongiello


No alle schedature su base etnica. Al primo vertice a livello europeo sull’integrazione delle comunità Rom nell’Ue che si è tenuto ieri a Bruxelles il governo italiano è finito nuovamente sulla graticola, additato da tutti, più o meno esplicitamente, come il cattivo esempio da non imitare e contestato a suon di fischi dalle associazioni non governative. A sedere sul banco degli imputati è toccato al sottosegretario per le Politiche sociali Eugenia Roccella, del Pdl, spedita da Roma a parlare di integrazione nella conferenza che ha riunito rappresentanti della comunità Rom, delle istituzioni europee e dei governi. Che tirava aria di contestazioni lo si era capito già in mattinata quando, per protesta contro le misure decise dal ministro dell’Interno Roberto Maroni sull’uso delle impronte digitali per censire i Rom, i rappresentanti delle associazioni non governative hanno sfoggiato nell’aula della conferenza la maglietta con la scritta «Against Ethnic Profiling» (contro la schedatura su base etnica), stampata su un ingrandimento di un’impronta digitale. «Sono d’accordo con la maglietta” si è affrettato ad assicurare il presidente della Commissione Josè Manuel Barroso, aprendo i lavori, i Rom «rappresentano il più grande gruppo etnico sul nostro territorio che deve affrontare povertà estrema, esclusione sociale, discriminazione sociale e razzismo».
Oggi, ha ricordato Barroso, «il 77% degli europei pensa che essere rom è uno svantaggio, un livello pari a quello indicato per i disabili», 79%. Fuori dall’aula le associazioni per i diritti umani e in difesa dei Rom intanto distribuivano rapporti e opuscoli con i dettagli delle misure del Governo di Roma e la cronaca degli assalti ai campi nomadi italiani.
Quando nel pomeriggio ha preso la parola il sottosegretario Roccella dall’aula si è levato un coro di fischi. Le misure servono ad «assicurare la legalità e la sicurezza, poiché in caso contrario sarebbero la paura e la diffidenza reciproca ad avere la meglio» ha tentato di spiegare la rappresentante del Governo Berlusconi, ma i leader delle associazioni hanno iniziato a lasciare la sala in piccoli gruppi e l’intervento è rimasto a metà. In serata è partita una lettera di protesta del governo italiano al commissario Ue Wladimir Spidla. Fuori dall’aula il sottosegretario ha liquidato i fischi come delle «contestazioni di tipo ideologico dovute alla mancanza di informazione» e quando dopo di lei è salito al microfono il commissario alla Giustizia Jacques Barrot, a cui alcuni rimproverano di aver avvallato le misure di Maroni, le parole sono accuratamente dosate: «Sono stato molto fermo sulla questione dei Rom e il governo italiano ha riconosciuto che effettivamente c’erano stati dei provvedimenti non positivi, ma ha anche detto che era pronto a seguire le istruzioni chiare impartite da Bruxelles». Quindi, ha continuato il commissario francese, «sulla base della relazione che abbiamo ricevuto il primo agosto, abbiamo dovuto riconoscere che il governo italiano ha definito degli ordinamenti che non potevano essere passibili di osservazioni da parte nostra» anche se «ora bisogna vedere come la misura sarà applicata». Per il commissario alle Politiche sociali Vladimir Spidla non ci sono dubbi: «Una classificazione su base etnica è inaccettabile» e «la Commissione europea deve usare tutte le risorse possibili per assicurare il rispetto della legislazione comunitaria contro la discriminazione, sulla libera circolazione e sulla protezione dei dati». Ancora più duro il filantropo di origine ungherese George Soros, presidente dell’Open Society Institute, che nel suo intervento si è detto «profondamente turbato dal precedente creato dalla schedatura dei Rom in Italia e preoccupato che questo possa diventare “de facto” uno standard europeo». Secondo Soros «il modo in cui le autorità italiane hanno affrontato la questione dei Rom è profondamente sbagliato».

l’Unità 17.9.08
Attenti al Cav post-fascista
di Bruno Gravagnuolo


Salvate il soldato Fini. Ancora sulla svolta «antifascista» di Fini. Inequivoca, netta, s’è detto. E conferma plateale della giusta battaglia «antirevisionista» contro le ambivalenze di An. E contro tutti quelli che hanno sempre negato la centralità del fondamento antifascista di Costituzione e Repubblica: da Della Loggia, a Pera, a Pansa, etc. Ora anche Fini lo dice chiaro e tondo: valore positivo e costituzionale, l’antifascismo! Nondimeno Fini è un po’ solo, dentro e fuori An. E Berlusconi tace e parla d’altro: «siamo tutti democratici e questo basta». Lo ha ribadito nel corso del grottesco Porta a Porta di ieri l’altro. Con la Vezzali e Miss Italia «coccodè», e Vespa scambiato... per Fede. Dunque, insidia trasformista. Con il Cav post-fascista e anti-antifascista (vedi lodi a Balbo). La Russa e Alemanno (post?) fascisti. E Fini all’angolo, e devitalizzato, da liberal-conservatore. Salvate il soldato Fini? Sì, nel senso di insistere sul tema. Ma fino a un certo punto, perché l’uomo è flessibile e ambizioso. E potrebbe finire da sgabello premierale del Cav post-fascista al Quirinale. Per meriti antifascisti...
Attali adieu. Evviva! Qualche volta il... bene trionfa. La «Attali» alla romana è naufragata. E Amato ha deciso di dare forfait. Ora è vero che stavolta ex malo bonum: il motivo addotto è stata la rivalutazione di Alemanno del fascismo. Ma quella commissione papocchio non andava fatta a prescindere. Per motivi di decenza politica. Non si progettano, in commissione bypartisan, futuro e sviluppo di Roma. Con famosi e non, e un ex premier (post)socialista nominato da un sindaco An. Adesso se la facciano loro la «commissione». Con l’ex ministro di Fi. Non più alla romana ma alla napoletana. Alla San Marzano.
Balbo assassinato? Un lettore di Ravenna, Tommaso Pagnani, ci chiama, dopo aver letto un nostro pezzo su Italo Balbo. E ci dice: «Mio padre Salvatore era a Tobruk, il 6 giugno 1940. Vide con chiarezza i due aerei italiani che volavano basso e rientravano verso il porto. Avevano lo stemma del fascio dipinto e ben visibile, e solo uno dei due fu mitragliato: quello di Balbo». Interessante. E però Folco Quilici, figlio di una delle vittime con Balbo (era il suo uomo di fiducia) ha scritto Tobruk 1940 (Mondadori). Dove esclude il complotto, pur confermando l’idea del «Balbo anti-Mussolini». Ricerca puntigliosa. E attendibile.

l’Unità 17.9.08
Giuliano Pisapia. Bastano i «futili motivi» per chiedere il massimo della pena, l’ergastolo
«Si sta diffondendo la voglia di farsi giustizia da sé»
di Luigina Venturelli


«È passata l’idea che il cittadino possa farsi giustizia da sè, che possa aggredire la vita delle persone per reagire ad un semplice danno patrimoniale. È questa l’aberrazione. È questa l’enorme responsabilità politica che grava sulle spalle del centrodestra».
L’avvocato Giuliano Pisapia parte dallo stretto dato giuridico, commenta l’omicidio del giovane Abdul Guiebrè con l’occhio tecnico del penalista. Ma l’analisi si conclude con un drammatico allarme sociale e politico.
L’odio razziale non è stato contestato ai due aggressori. Che cosa ne pensa?
«Dal punto di vista giuridico condivido la scelta della procura di Milano: l’aggravante ha una disciplina ben precisa e prevede che il reato sia commesso con finalità di discriminazione. In questo caso la discriminazione razziale non è stata lo scopo della condotta criminale, semmai la condotta criminale ne è stata una conseguenza».
Quali differenze comporta questa scelta dal punto di vista processuale?
«È stata contestata l’aggravante dei futili motivi, quindi ci sono i presupposti per la pena massima, ovvero l’ergastolo. Di fronte ad un fatto così terribile, segno purtroppo dell’involuzione dei rapporti sociali nelle città italiane, è importante che si giunga in tempi brevi ad una pena adeguata alla gravità del reato. È l’unico deterrente di cui disponiamo per evitare che episodi simili si ripetano».
Come si è giunti a questo clima di odio e di intolleranza?
«L’aspetto più allarmante di questa vicenda non sta nel colore della pelle della vittima, ma nel fatto che sia stata uccisa per un pacco di biscotti: si è diffusa l’idea che i cittadini possano farsi giustizia da sè senza alcuna proporzione tra l’offesa ricevuta e la reazione».
Si riferisce a qualche provvedimento particolare?
«Sì, a quell’aberrazione giuridica e culturale costituita dalle recenti norme sulla “legittima” difesa, che hanno attecchito nel terreno di generale sfiducia verso l’operato della giustizia istituzionale. Da tempo è passata l’idea che il cittadino possa provvedere da solo a farsi giustizia, anche mettendo a rischio la vita delle persone per rispondere a un danno patrimoniale, spesso di lieve entità come nel caso dell’uccisione di Abdul Guibrè».
Si uccide per salvare i soldi in cassa. Purtroppo, non è la prima che succede a Milano e nelle altre città italiane.
«Da questo punto di vista esistono responsabilità politiche enormi del centrodestra. Si sono strumentalizzati problemi reali per finalità che nulla hanno a che vedere con la garanzia dei cittadini alla giustizia e alla sicurezza. I provvedimenti adottati per creare consenso intorno all’emergenza si sono sempre rivelati fallimentari».
In effetti, c’è solo l’imbarazzo della scelta.
«Negli ultimi dieci anni hanno visto la luce cinque cosiddetti pacchetti sicurezza, che io mi ricordi, ma nessuno di essi ha mai sortito il benchè minimo risultato concreto».
Perché?
«È inutile minacciare la faccia feroce quando si è incapaci di accertare e punire le responsabilità. Il 90% dei reati di strada, quelli che più alimentano la percezione d’insicurezza della gente come gli scippi violenti, rimane senza un colpevole. E nel restante 10% dei casi spesso non si arriva nemmeno al processo. Così si è creato un generale senso d’impunità che ha aperto la via alla giustizia del singolo. Se davvero vogliamo garantire sicurezza e giustizia, dobbiamo decisamente cambiare strada».
In quale modo?
«Non serve a nulla inasprire le pene e minacciare più carcere, scuola di crimini e criminalità. Bisogna investire in pene certe ed effettivamente eseguite, ma con sanzioni diverse. Chi ha scontato la propria pena in carcere entro cinque anni torna a delinquere nel 68% dei casi, ma questa percentuale scende sotto il 18% nel caso di pene diverse da quella detentiva. È un dato oggettivo e ampiamente verificato».

Corriere della Sera 17.9.08
Il caso Dal movimento studentesco al terrorismo: la pellicola indaga sulla nascita dell'organizzazione «nel cuore della società»
Mitra, carcere, amore: esce tra le polemiche il film sulla Raf
Ieri la prima a Monaco di «La banda Baader-Meinhof». Il protagonista: metodi sbagliati ma fini giusti
di D. Ta.


BERLINO — Torna l'autunno della Germania. È meno romantico di come spesso è stato ricordato ma sempre lacerante. La stella a cinque punte della Raf dietro al mitra Mp5, Ulrike Meinhof e Andreas Baader e Gudrun Ensslin e compagni, le rivoltelle, l'amore per i movimenti terzomondisti, le carceri di sicurezza: tutto sta per tornare davanti agli occhi dei tedeschi, in un film oltremodo atteso e già molto discusso. Contraddittorio, ma che comunque ridimensiona il mito di quei «ragazzi terroristi » degli Anni Settanta: non erano eroi, erano senza scrupoli, figli e nipoti di ex nazisti e come loro illusi di potere falciare vite per un bene superiore.
Il film che mezza Germania non vede l'ora di guardare è Der Baader-Meinhof Komplex: fine Sessanta e inizio Settanta, quando la banda di extraparlamentari di sinistra che si era raccolta attorno ad alcuni dei leader più radicali entrò prima in clandestinità, iniziò a uccidere e finì a Stoccarda, carcere di Stammheim, con una morte collettiva che lascia ancora oggi aperti alcuni dubbi. Il film — la prima ieri sera a Monaco, nelle sale tedesche dal 25 settembre — è ai massimi livelli del cinema tedesco: un grande regista, Uli Edel ( Christiane F.), il miglior sceneggiatore, Bernd Eichinger ( Le particelle elementari), e gli attori del momento, Moritz Bleibtreu (Baad er), Martina Gedeck (Meinhof), Johanna Wokalek (Ensslin). Le star tedesche più brillanti, perfette per alzare onde.
Cosa che, in effetti, hanno già fatto. Bleibtreu, per esempio, ha banalmente sostenuto che la Raf usava metodi sbagliati ma in fondo i fini erano giusti: fischi diffusi.
Fatto sta che il film pone la questione su binari diversi rispetto a ricostruzioni precedenti. È tratto da un libro, stesso titolo, di Stefan Aust, fino a poco tempo fa direttore del settimanale Der Spiegel, il giornalista che più ha lavorato sui misteri della Rote Armee Fraktion.
Questa volta, la storia non è centrata sul caso Stammheim, per stabilire se la morte di Baader, Ensslin e Jan-Carl Raspe fu suicidio o, come gli amici sostennero, un omicidio condotto dalle autorità tedesche. Il cuore del film sta nella nascita del gruppo Baader-Meinhof. Nel 1966, la Repubblica federale si trovò con un governo di Grande Coalizione (cristiano-democratici e socialdemocratici) guidato da Kurt Georg Kiesinger, un ex del ministero della propaganda nazista. Durò fino al 1969, con una maggioranza in parlamento attorno al 95%. Parti consistenti del movimento studentesco di quegli anni si costituirono in organizzazioni extraparlamentari, convinti che la repubblica di Bonn stesse avviandosi verso un nuovo fascismo.
Aust vede la formazione del gruppo terrorista come una degenerazione prodottasi nel movimento degli studenti, quegli stessi incendiati dai comizi di Rudi Dutschke, poi dall'attentato che questi subì nel 1968 e dalla guerriglia urbana a Berlino Ovest, Norimberga, Amburgo. Non, però, come qualcosa di esterno alla società. «L'attacco — dice — venne dal cuore della società, dai suoi stessi figli». Di più. Vedevano se stessi, aggiunge, «come signori della vita e della morte e molti diventarono colpevoli come la generazione dei loro padri».
Non che Der Baader-Meinhof Komplex spazzi via del tutto l'alone di mito che per anni ha circondato i terroristi della Raf: la relazione tra Baader e Esslin, per dire, è vista come un apice di romanticismo. E non chiude nemmeno la questione: ieri, il quotidiano Welt si domandava per quale motivo si debba fare un film sulla Raf. Quarant'anni dopo, forse un po' ridimensionato, il complesso di Baader-Meinhof in Germania rimane.

Corriere della Sera Roma 17.9.08
I deportati L'annuncio del presidente Pavia. Ma Pacifici è critico
«No ad Auschwitz col sindaco»
di Paolo Brogi


Anche l'Aned, l'associazione nazionale dei deportati, in rotta di collisione con Alemanno. Il presidente Aldo Pavia ha annunciato: «Sono orientato a non andare ad Auschwitz... ». Dopo Piero Terracina, che per primo dopo le dichiarazioni di Alemanno si è detto non più disponibile per i viaggi della memoria, ora è la volta di Pavia, che ha avuto tutta la famiglia sterminata. «Ma quel viaggio non è per accompagnare le istituzioni, bensì i giovani », ha ribattuto Riccardo Pacifici presidente della Comunità ebraica.
Arriva come una nuova sferzata il «no» di Aldo Pavia. Il presidente dell'Aned, l'associazione degli ex deportati col fazzoletto bianco azzurro al collo, non dimentica tutta la sua famiglia inghiottita nel buio dei lager nazi- fascisti. Per giorni è rimasto in silenzio, preceduto solo da un secco «no» pronunciato a caldo da uno dei pochi sopravvisuti al rastrellamento del Ghetto, Piero Terracina. Dopo il giudizio espresso dal sindaco Alemanno sul fascismo, Terracina aveva subito detto: «In queste condizioni non me la sento di partecipare più ai viaggi della memoria...».
Ieri Aldo Pavia ha aggiunto: «Sono orientato a non andare ad Auschwitz ». Pavia ha parlato con cautela, perché vuole ancora sottoporre la sua decisione al congresso nazionale dell'Aned, che si terrà il 26 e 27 settembre a Marzabotto. In precedenza, nei prossimi giorni, ne discuterà col consiglio direttivo di Roma, dove siedono figure come Piero Terracina, Vera Michelin, Ida Marcheria, Rosario Militello, Mario Limentani. In quella sede l'orientamento del presidente, così come quello di Piero Terracina, troverà più di un appoggio.
«Penso sia corretto decidere però nella sede nazionale l'orientamento dell'Aned verso le iniziative del Comune - dice Pavia - . Ma certo, dopo le considerazioni di Alemanno sul fascismo, io sono più intenzionato a non andare». Non è solo un problema di parole e giudizi. Pavia solleva anche altre questioni, a cominciare dal coinvolgimento dell'Aned nel Progetto della Memoria del Comune: un coinvolgimento «storico», che ha visto l'associazione in prima linea nella formazione dei ragazzi delle scuole romane. E che ora traballa.
«Penso che il Comune si sia mosso in ritardo, ma in ogni caso non ci hanno fatto sapere nulla - dice - . Nessuno ci ha chiamato. Inoltre la nuova dicitura del programma, che chiama in causa "la tragedia del '900", mi lascia molto freddo. Che cosa vuol dire? Non abbiamo mai respinto l'idea di parlare anche delle foibe, tanto per essere chiari, ma un conto è come se ne parla e un altro sviluppare martirologi acritici. Se se ne vuole parlare bisogna partire dall'incendio dell'hotel Balcan a Trieste, nel '24, che innescò l'isteria antislava...».
Una mediazione è stata cercata ieri da Riccardo Pacifici, presidente della Comunità Ebraica. «Ad Auschwitz ha ricordato Pacifici - ci si va non per accompagnare le istituzioni, ma i giovani studenti. Di fronte al rischio di errate interpretazioni della storia è importante allora prendervi parte. Quanto alle polemiche sul fascismo, mi pare che Giancarlo Fini abbia chiuso la discussione in maniera egregia». No comment di Pavia.

Corriere della Sera Roma 17.9.08
I volti del potere
Lezioni di storia all'Auditorium da Pericle a Giovanni Paolo II
di Lauretta Colonnelli


Sono due le novità di «Lezioni di storia », la rassegna che per il terzo anno consecutivo si svolge all'Auditorium Parco della Musica con il contributo degli editori Laterza e di Unicredit Group. La prima è che il numero delle Lezioni, grazie anche al successo registrato negli scorsi anni (biglietti esauriti prima che cominciassero gli incontri) è aumentato da nove a undici. La seconda novità è il tema: «I volti del potere». Gli storici che si alterneranno sul palco della Sala Sinopoli sveleranno l'ambivalenza del potere, il modo in cui ha fatto associare o dividere gli uomini, come si è sposato con la giustizia o ha esercitato l'uso brutale della forza. I vari volti del potere verranno raccontati attraverso le vicende di persone che sono diventate incarnazioni del potere stesso, diventando simboli destinati a sopravvivere nei secoli. Si passerà da Pericle a Papa Wojtyla, passando per Augusto, Napoleone, Stalin, De Gasperi. Si cercherà di capire, attraverso l'analisi della loro personalità, quanto sia stata forte la loro impronta nella storia e quanto ancora oggi ne siamo condizionati.
Si comincia il 12 ottobre con Luciano Canfora che presenta la democrazia di Pericle, cercando di scoprire perché il grande storico Tucidide, che di Pericle fu un ammiratore, scrisse tuttavia che il suo regime ad Atene era stato democratico solo a parole, di fatto un regime personale. E di capire come mai la tradizione ha riservato a Pericle un monumento e al suo vero erede, Alcibiade, la taccia di avventuriero. E come ha fatto l'antico governante a conservare nei secoli una tradizione storiografica benevola, nonostante i numerosi documenti ostili e gli avversari che non esitarono a bollarlo come tiranno. Forse, insinua Canfora, per la sua imponente strategia di opere pubbliche e di coinvolgimento degli artisti nel quale fu maestro per i politici di ogni tempo, fino ad oggi.
Dal potere «democratico» si passa a quello spirituale, con la lezione di Chiara Frugoni dedicata ai tre papi (Innocenzo III, Onorio III e Gregorio IX) che attraversano la vita di san Francesco contrastandone il desiderio innovatore della vita cristiana. Al potere da Mille e una notte si dedica invece Alessandro Barbero che rievoca il mitico sultano Solimano il Magnifico, protettore della Mecca, Cesare dei Cesari di un impero ottomano abitato quasi per metà da cristiani autorizzati a praticare pubblicamente la loro religione, quando in occidente non era permessa la residenza a nessun musulmano e inconcepibile l'esistenza di una moschea. Solimano aveva potere di vita e di morte e tutti i suoi ministri erano giuridicamente degli schiavi, ma proprio questa autocrazia creava paradossalmente la mobilità sociale perché non esisteva nobiltà di nascita bensì un sistema di selezione dei talenti che permetteva a figli di pastori di diventare pascià e visir, con grande scandalo degli osservatori europei. E questo spiega anche come tanti marinai, artigiani, fonditori di cannoni, scegliessero di «farsi turchi», cercando sotto la protezione del sultano un'ascesa sociale impensabile nell'Europa delle gerarchie nobiliari e del diritto di sangue.
Con Alberto Mario Banti si passa a Napoleone, generale ad appena 26 anni, provinciale, ambizioso e intelligente protagonista della vicenda che lo porterà ad una ascesa vertiginosa e ad una altrettanto sconvolgente caduta. Con lui si afferma la prima dittatura «democratica » ratificata, almeno formalmente, da un plebiscito popolare e la sua esperienza politica continua a far sentire la propria influenza anche molti decenni dopo la morte. La carrellata dei personaggi continua con l'imperatore Augusto (tratteggiato da Andrea Giardina), che riesce a raccogliere quel che resta della repubblica romana alla vigilia di una tremenda guerra civile e a creare un nuovo regime di tipo monarchico realizzando uno dei più grandi successi politici di tutti i tempi. E ancora: Mussolini e Stalin, Hitler e De Gasperi, fino a Wojtyla. Infine Michelle Perrot si interroga sul perché le donne potenti in politica siano in netta minoranza rispetto agli uomini. Omissione della storia o le «grandi» donne sono davvero così poche? O forse quello politico non è che una delle tante forme di potere.

Repubblica 17.9.08
La Cassazione e il rifiuto di curarsi "Un diritto, ma il paziente sia chiaro"
Dopo il caso Eluana, la polemica su un testimone di Geova
di Caterina Pasolini


ROMA - Rifiutare le cure, anche quelle salvavita, è un diritto. Lo ribadisce la Cassazione che in una nuova sentenza va oltre, e da indicazioni concrete affinché la libertà di scelta del paziente venga rispettata anche nel caso in cui non sia in grado di comunicarla ai medici. Davanti al vuoto legislativo e alle recenti polemiche sul caso di Eluana Englaro la suprema corte chiarisce, definisce. Offre spunti concreti alla politica che negli ultimi anni ha visto più di dieci disegni di legge sul testamento biologico presentati senza riuscire a trovare un accordo di massima tra le diverse anime del parlamento.
Gli ermellini stabiliscono infatti due requisiti perché i medici eseguano le volontà del malato nel caso questi sia incosciente. È necessario che il paziente abbia con se una dichiarazione dove manifesta in modo «articolato ed inequivoco» il dissenso a ricevere taluni trattamenti. O un atto nel quale nomina un tutore che si esprima al posto suo.
Così recita la sentenza nata dal ricorso presentato da Mirko, testimone di Geova che nel '90, arrivato moribondo dopo un incidente, venne trasfuso nonostante avesse in tasca un pezzo di carta con scritto: niente sangue. Nel ricorso chiedeva il risarcimento dei danni morali e biologici (ha contratto l'epatite b) per essere stato trasfuso nonostante il suo rifiuto per motivi religiosi. Ma quel foglietto per i magistrati è un'indicazione troppo vaga, ci vuole un consenso «chiaro, attuale e informato» perché venga rispettato il diritto sancito dalla Costituzione a rifiutare le cure.
Le prime reazioni sulla sentenza della Cassazione sono positive: dall´onorevole teodem Paola Binetti, ai radicali, passando per il senatore del Pd Ignazio Marino.
«È giusto che la magistratura metta dei paletti su un argomento così delicato, sospeso tra la libertà del paziente e la responsabilità dei medici. Il diritto dell'ammalato a non curarsi lo riconosco, anche se per me è sempre una sconfitta lasciare che qualcuno rinunci alla vita», dice la senatrice teodem, numeraria dell'Opus Dei, Paola Binetti.
«Ottima sentenza», commenta Rita Bernardini, segretario dei Radicali, «perché ribadisce il diritto a rifiutare i trattamenti e sottolinea il bisogno di una legge che dia indicazioni concrete, semplici. In fondo in quella figura di fiduciario io vedo il padre di Eluana che da anni si batte per rispettare il volere della figlia».
Latore di un disegno di legge sul testamento biologico è il professor Marino che giudica molto positiva la sentenza «che ribadisce la libertà di cura. E indica, come nel mio testo la necessità di un fiduciario perché venga rispettata la volontà del malato se questi non può parlare. Nel caso del testimone di Geova penso che se in emergenza, come dopo un incidente, non si possa perdere tempo a cercare documenti sulle sue volontà, si cerca di salvare una vita. Una volta stabilizzato il paziente potrà decidere se rifiutare le cure».

Repubblica 17.9.08
Esce in Italia il best seller americano sulla sessualità Dalle teorie dell'800 alle "verifiche sul campo"
Da Freud al Viagra la scienza svela i misteri del sesso
di Alessandra Retico


Quale è la variabile dell´orgasmo di lei? La questione resta controversa
Marie Bonaparte si fece asportare la clitoride perché si credeva fosse mal funzionante

È argomento facile nei talk show e illustra con impudenza copertine, tutti ne sanno qualcosa e troppi hanno la loro da dire. Semplice pare il sesso, e invece a guardare bene nelle camere da letto e nelle cliniche, che guazzabuglio di incertezze. La storia della sessualità è nata sotto una faticosa stella, si è raccontata nel silenzio e nella reticenza, va avanti lenta. E con quante illusioni e solitudini in mezzo, paradossi e follie, molta paura. L´orgasmo vaginale è un mito? È possibile raggiungerlo con il solo pensiero? Perché il Viagra non è di nessuna utilità per le donne, e nemmeno per i panda? Attraversa le domande, le assurde risposte o gli imbarazzati silenzi Mary Roach, giornalista scientifica del New York Times. Il suo Godere, sottotitolo Orgasmo: il curioso accoppiamento fra scienza e sesso, è un libro competente e leggero che esce oggi per Einaudi Stile Libero. Bestseller negli Usa, lo merita per ricchezza di dati e ironia, per il suo excursus dalle prime azzardate teorie dell´800 ai più recenti e sofisticati esperimenti cui vengono sottoposti i genitali con la risonanza magnetica: un viaggio documentato ma anche divertito, e pure esperienze in prima persona, da reporter sul campo. Roach si era già occupata con successo di anima in Spettri e di cadaveri in Stecchiti (altro bestseller, sempre Einaudi), ma più che nei precedenti soggetti, confessa l´autrice californiana, sesso è argomento che anche oggi desta sospetti. «Ti danno del pervertito».
Trattiamo disinvolti bit e volatilità, ma siamo impacciati di fronte alla carne. Qualche progresso sì, da quando nel 1851 il ginecologo James Platt White fu espulso dall´American Medical Association per aver invitato i suoi studenti ad assistere a un parto (donna consenziente). Nei ´70 il ricercatore e storico Vern Bullough fu iscritto nella lista dell´Fbi degli «americani pericolosi» per le sue «attività sovversive», cioè cooperare con l´American Civil Liberties Union per depenalizzare il sesso orale e il travestitismo maschile, oltre che per aver pubblicato testi sulla prostituzione.
Parecchie credenze smentite, molte altre ancora lì a tormentarci. L´interdipendenza: risale a Leonardo da Vinci e ai suoi disegni sul coito, trattava della difficoltà a procreare e si spiegava con un "aggancio" mal riuscito dei genitali, «una specie di attracco mancato dello Shuttle». E poi la controversa, sfuggente, rocambolesca vicenda dell´orgasmo di lei. «Qual è la variabile? Emotiva o mentale? Il punto G? Nessuno ne sa qualcosa». Marie Bonaparte, pronipote di Napoleone e allieva di Freud, si fece spostare la clitoride, colpevole secondo le tesi dell´epoca di un cattivo funzionamento perché troppo distante dalla vagina. Nel capitolo La principessa e il suo pisello si racconta dell´insoddisfatta Marie, moglie del principe Giorgio di Grecia (fama di omosessuale) e di come chiamò il chirurgo viennese Joseph Halban a traslocare più vicino il piacere. L´operazione fallì disperatamente (due volte). Oggi sesso medicalizzato, e sesso industrializzato: al Centre for sex & Culture di San Francisco sono esposte sex machine più improbabili di quelle leonardesche, nella letteratura si incontrano dotti scritti «sull´uso dell´aspirapolvere nell´autoerotismo mortale», alla NuGyn, azienda di attrezzature per disfunzioni maschili nel Minnesota, producono oggetti di oscuro discernimento formale, a Taiwan trovi sapienti specialisti nell´allungamento del pene. Non hanno avuto e non hanno vita facile gli inquirenti del sesso, c´è ancora un mondo da scoprire. Meno male che, ci rassicura la Roach, «i loro cocktail party sono i migliori».

Repubblica 17.9.08
Piero Calamandrei. Se la legge è uguale per tutti
di Gustavo Zagrebelsky


Anticipazioni / La prefazione di Zagrebelsky a una conferenza inedita del grande giurista

Anticipiamo parte dell´introduzione di a un testo inedito di una conferenza che Piero Calamandrei pronunciò nel gennaio del 1940 e che ora viene raccolto in un volume intitolato Fede nel diritto (a cura di Silvia Calamandrei, Laterza, pagg. 148, euro 12)
La conferenza (di Calamandrei, n.d.r.) è un´apologia della legalità. La legalità non è solo un elemento della forma mentis del giurista, o di quel tipo di giurista (legalitario, appunto) nel quale Calamandrei si riconosceva. È per lui un elemento morale, che corrisponde esso stesso a un´idea di giustizia: nella legge e nel suo rigoroso rispetto sta la giustizia dei giuristi, giudici, avvocati, studiosi del diritto. E non perché egli creda in un legislatore-giusto, che è tale perché e in quanto da lui promanino leggi giuste, come possono ritenere i giusnaturalisti di ogni specie; e nemmeno perché creda in un giusto-legislatore, dal quale, per qualche qualità sua propria, provengano leggi giuste per definizione, come ritengono i gius-positivisti ideologici; ma perché crede che la legge in se stessa, in quanto cosa diversa dall´ordine particolare o dalla decisione caso per caso, contenga un elemento morale di importanza tale da sopravanzare addirittura l´ingiustizia eventuale del suo contenuto.
Questo elemento morale risiede nella forma-legge in quanto tale, cioè nella forma generale e astratta in forza della quale si esprime, poiché questa è la "forma logica" della solidarietà e della reciprocità tra gli esseri umani, su cui soltanto società e civiltà possono edificarsi. I toni attraverso i quali è tratteggiata questa concezione della legge, tipicamente razionalista, sono particolarmente appassionati: la legge generale e astratta «significa che il diritto non è fatto per me o per te, ma per tutti gli uomini che vengano domani a trovarsi nella stessa condizione in cui io mi trovo. Questa è la grande virtù civilizzatrice e educatrice del diritto, del diritto anche se inteso come pura forma, indipendentemente dalla bontà del suo contenuto: che esso non può essere pensato se non in forma di correlazione reciproca; che esso non può essere affermato in me senza esser affermato contemporaneamente in tutti i miei simili; che esso non può essere offeso nel mio simile senza offendere me, senza offendere tutti coloro che potranno essere domani i soggetti dello stesso diritto, le vittime della stessa offesa. Nel principio della legalità c´è il riconoscimento della uguale dignità morale di tutti gli uomini, nell´osservanza individuale della legge c´è la garanzia della pace e della libertà di ognuno. Attraverso l´astrattezza della legge, della legge fatta non per un solo caso ma per tutti i casi simili, è dato a tutti noi sentire nella sorte altrui la nostra stessa sorte».
«Indipendentemente dalla bontà del suo contenuto», «anche quando il contenuto della legge gli fa orrore». Queste proposizioni non possono non colpire profondamente, sia per l´immagine ch´esse rendono del giurista e della giurisprudenza, sia per il carattere assolutorio del servizio che i giuristi prestino all´arbitrio che si manifesta in legge: il servizio allo "Stato di delitto" (per usare la formula di Gustav Radbruch) che si fa schermo delle forme dello Stato di diritto. Il giurista come puro esecutore della forza messa in forma di legge? Non è questa una concezione servile del "giurista, giudice o sapiens", che riduce il coetus doctorum a "una sorta di congregazione di evirati"?, ha domandato polemicamente. Tutto questo sembra scandaloso - si può aggiungere -, soprattutto in un´epoca nella quale la legge aveva dimostrato tutta intera la sua disponibilità a qualunque avventura, nelle mani di despoti e perfino di criminali comuni, impadronitisi del potere. In Italia, non si trattava solo delle leggi che avevano istituzionalizzato l´arbitrio poliziesco e la vocazione autoritaria del fascismo (per esempio, il codice penale del '31, o il Testo Unico delle leggi di p.s. del '34). Si trattava, niente di meno, delle leggi razziali del '38, sulle quali non una parola è spesa nella conferenza: leggi che paiono dunque essere tacitamente comprese, nella sua argomentazione, tra quelle cui si deve "culto a ogni costo" e ossequio, sia pure, eventualmente "sconsolato", un ossequio dovuto, da parte dei giuristi consapevoli del compito che è loro proprio, come atto di "freddo e meditato eroismo". Queste espressioni, che sono state intese come manifestazione di piaggeria verso il regime, non si leggono oggi senza scandalo.
Ma è proprio così? Il silenzio tenuto in proposito si può spiegare certo col clima d´intimidazione poliziesca del tempo. Ma non è questo il punto che qui interessa. Interessa piuttosto sottolineare che nella nozione "formale" di legge, cui Calamandrei si riferiva, non potevano rientrare leggi come quelle razziali, leggi discriminatici per antonomasia, con riguardo alle quali non si sarebbe certo potuto parlare di reciprocità, capacità di valere oggi per uno e domani per l´altro, solidarietà in una sorte comune, virtù educatrice e civilizzatrice: caratteristiche proprie della legge generale e astratta cui Calamandrei si riferiva, che sono invece puntualmente contraddette da atti in forma di legge aventi lo scopo di spaccare la comunità di diritto, espellendone una parte. Chi potrebbe parlare, per quelle leggi, di reciprocità, valenza generale, solidarietà, eccetera? L´elogio della legalità non era dunque riferito alla pura e semplice forma del potere che si fosse espresso nel rispetto delle vigenti procedure per la produzione di atti d´imperio, chiamati leggi. Era rivolta a quella legalità che esige una determinata struttura della prescrizione: la generalità e l´astrattezza, alle quali soltanto si possono riferire virtù come la reciprocità, la solidarietà, ecc., del tutto estranee alle misure che creano discriminazioni. Queste ultime, dunque, a ben leggere, non sono da comprendere nell´elogio alla legalità, anche se assumono l´aspetto esteriore della legge. (...)
«La scienza giuridica deve mirare soltanto a "sapere qual è il diritto", non a crearlo; solo in quanto il giurista abbia coscienza di questo suo limite e non tenti di sovrapporsi al dato positivo che trova dinanzi a sé, l´opera sua è benefica per il diritto. Io mi immagino il giurista come un osservatore umile e attento». La certezza del diritto è il valore che primariamente è in gioco, un valore strettamente intrecciato alla sicurezza del singolo, affinché possa «vivere in laboriosa pace la certezza dei suoi doveri, e con essa la sicurezza che intorno al suo focolare e intorno alla sua coscienza la legge ha innalzato un sicuro recinto dentro il quale è intangibile, nei limiti della legge, la sua libertà». Anche a questo proposito, sarebbe facile osservare che queste parole possono sembrare addirittura beffarde, se riferite a leggi che legittimano l´arbitrio. Delle leggi dei regimi autoritari o, peggio ancora, totalitari, tutto si può dire, ma non che esse valgano a protezione della sicurezza delle persone. Ma la preoccupazione di Calamandrei, risultante con evidenza dalla conferenza e da numerosi passi di altri scritti coevi, era la difesa, se non contro l´autoritarismo o il totalitarismo, almeno contro l´arbitrarietà del potere. Era un´ultima e minima linea difensiva, contro quello che in altri tempi si sarebbe detto il dispotismo, cioè il potere capriccioso, imprevedibile, casuale. Così, si spiega l´attaccamento alla legge e, per converso, la polemica contro quello che viene definito il "diritto libero", considerato il regno dell´arbitrio. (?)
Il "diritto libero" cui Calamandrei si riferisce è un movimento che "libera" la giurisprudenza dall´osservanza stretta della legge, ma allo scopo di sottoporla a una devastante soggezione, la soggezione alle minaccianti pressioni ideologiche e politiche dell´epoca. Gli esempi ch´egli porta, tratti dall´esperienza sovietica e nazista, non sono quelli che ci si aspetterebbe siano forniti da regimi politici e sociali in disfacimento, ma sono quelli di regimi che si sono affermati con durezza e integrità totalitaria. Se non ci si rendesse conto di questo punto, il "chiodo fisso" di Calamandrei ? l´incubo del diritto libero - resterebbe incomprensibile. Forse ci si avvicina al vero, osservando che il "diritto libero" che veniva offrendosi all´attenzione degli studiosi negli anni di Calamandrei era tutt´altro che "libero": era un diritto fortemente ideologizzato, era un diritto che si alimentava direttamente nella "legalità socialista" o nel Volksgeist nazista e nei loro "valori". L´attuazione di tali valori, una volta posta come compito dei giudici, avrebbe travolto ogni limite e legittimato ogni azione, perché di fronte ai valori "che devono valere" in maniera assoluta come fini, ogni mezzo è autorizzato. (?)
Ritorniamo, per un momento, alla "politica razziale", lo scoglio che la conferenza, nell´elogio della legalità, evita accuratamente. Certo, abbiamo difficoltà a vedere differenze di abiezione tra la persecuzione e lo sterminio pianificati per legge, da un lato, o, dall´altro, lasciati all´attivismo dei pogrom, delle azioni "spontanee" della "notte dei cristalli", delle direttive di partito e dei suoi funzionari, assunte fuori di ogni procedura legale in un raduno di gerarchi (la "conferenza di Wannsee", ad esempio), diramate illegalmente e in segreto (come avvenne in Germania e poi, dopo l´8 settembre, da noi, nella Repubblica sociale) ed eseguite con zelo creativo anche se, talora, con improvvisazioni controproducenti. Anzi, sotto certi aspetti, la procedura "legale" ci appare ancor più ributtante perché apparentemente "oggettiva", apparentemente "non coinvolgente" le responsabilità personali, apparentemente più "pulita". Sotto altri aspetti, però, pubblicizzando e burocratizzando le procedure, almeno si evitava di mettere direttamente in movimento il fanatismo ideologico e l´odio razziale che lo Stato etico diffonde nella società, facendo di ogni suo membro un organo o una vittima. Lo Stato, per quanto criminale, evitava almeno di trasformarsi in orda. La difesa della legalità aveva questo estremo significato. Calamandrei, per la sua concezione della legalità, probabilmente non avrebbe rifiutato la famosa immagine di Eraclito delle leggi come le "mura della città".

martedì 16 settembre 2008

l'Unità 16.9.08
La destra romana: stiamo con il sindaco

«L’antifascismo non è un nostro valore»


L’antifascismo? La destra romana spara a zero su Fini e avverte: «Noi stiamo con Alemanno». Dopo il malcontento emerso tra i giovani di An, a scagliarsi contro le parole pronunciate dal presidente della Camera sono Giuliano Castellino, ex segretario romano di Fiamma tricolore ora approdato nel Pdl con il movimento «Area identitaria romana», Gianluca Iannone, anch’egli ex Fiamma tricolore, fuoriuscito polemicamente dal partito per dedicarsi al progetto Casa Pound, e Martin Avaro, dirigente nazionale e responsabile romano di Forza nuova, protagonista nei mesi scorsi degli scontri con i collettivi alla Sapienza. Dice il primo: «L’antifascismo non potrà mai essere un nostro valore». Riguardo al «male assoluto» Castellino, oltre a dire «noi stiamo con Alemanno, afferma che «sicuramente il fascismo non lo è stato». Anche per Iannone «Alemanno è stata una persona corretta e onesta», mentre Fini «ha fatto dichiarazioni di una gravità immensa, da irresponsabile, sventolando la bandiera dell’antifascismo, che ha portato a tragedie, omicidi e ingiustizie». Il fascismo, per Iannone, «è stato giustizia sociale e crescita della nazione», e anche «l’esperienza più bella della storia d’Italia». Per Avaro «Alemanno e La Russa hanno detto cose vere, mentre Fini «è chiaro che sta portando avanti, più che un’azione politica, un’opera di sdoganamento della sua persona», e le sue parole non andrebbero neanche commentate «semplicemente perché si spara addosso da solo».
Dichiarazioni rispetto alle quali non prendono le distanze né Alemanno né La Russa. E questo silenzio, accusa il deputato del Pd Walter Verini «è una conferma di quanto in realtà, al di là di dichiarazioni rilasciate a denti stretti, le posizioni di Fini non sono quelle di tanta parte dei dirigenti del suo partito che, tra l’altro, ricoprono importanti incarichi istituzionali».
C’è però un La Russa che interviene, Romano, fratello minore del ministro della Difesa, europarlamentare di An e presidente della federazione del partito della provincia di Milano: definisce «anacronistica» la definizione antifascismo e aggiunge: «A difendere l’antifascismo ormai è rimasto Dario Fo con quattro vecchi tromboni arteriosclerotici di sinistra e i “pacifisti” dei centri sociali».

Corriere della Sera 16.9.08
Si apre il dibattito in Italia tra gli studiosi dopo il mea culpa della Chiesa anglicana
Scuse a Darwin, cattolici divisi
Mancuso: riabilitiamo anche Teilhard. De Mattei: l'evoluzione non è scienza
di Antonio Carioti


Le scuse della Chiesa anglicana a Charles Darwin sono «un atto di onestà intellettuale, anche se bisogna evitare di santificare il naturalista inglese e quindi tenere aperto il dibattito sul fenomeno della vita, di cui la sua teoria evoluzionista dà una spiegazione solo parziale». Il teologo Vito Mancuso, autore del bestseller L'anima e il suo destino (Raffaello Cortina), commenta con favore le novità provenienti dalla Gran Bretagna, riferite ieri dal Corriere, e chiede che anche la Chiesa di Roma compia un passo concreto nella stessa direzione.
«Scriverò una lettera aperta — annuncia Mancuso — a monsignor Gianfranco Ravasi, che da presidente del Pontificio consiglio della cultura sta preparando un convegno sull'evoluzione, per chiedergli un gesto nei riguardi di Pierre Teilhard de Chardin, scienziato e gesuita francese che cercò di conciliare la teoria dell'evoluzione con il cristianesimo e nel 1962 venne colpito da un monitum, un richiamo del Sant'Uffizio che rilevava nelle sue opere gravi errori. Ritirare il monitum spetta ovviamente alla Congregazione per la dottrina della fede, l'ex Sant'Uffizio, ma Ravasi potrebbe dare un segnale importante affidando una delle relazioni previste nel convegno al teologo Carlo Molari, un sacerdote romagnolo, ormai anziano, che è stato escluso dall'insegnamento proprio in quanto seguace del pensiero di Teilhard de Chardin».
Pur senza pronunciarsi sul monitum del Sant'Uffizio, anche monsignor Fiorenzo Facchini, paleontologo autore di vari saggi editi da Jaca Book, promuove Teilhard de Chardin: «Al di là di alcune espressioni ambigue, che si potrebbero interpretare in senso panteista (cioè come se identificassero Dio e il mondo), nel complesso la sua opera non è in contrasto con il magistero, tant'è vero che nel 1981 ci fu un riconoscimento nei suoi riguardi da parte del cardinale Agostino Casaroli».
Facchini aggiunge che anche tra Darwin e la Chiesa cattolica non ci sono conti in sospeso: «Sul piano scientifico evoluzione e dottrina cristiana sono compatibili. Però, come ha osservato di recente Benedetto XVI, Darwin vede solo una parte della verità, quella riguardante i meccanismi biologici. Ci sono invece fondamentali domande di significato, circa la natura dell'uomo, cui si può rispondere solo ponendosi su un piano differente, di carattere filosofico e religioso».
Tuttavia altri esponenti del mondo cattolico negano al darwinismo la dignità di teoria scientifica. Per esempio lo storico Roberto de Mattei, presidente della Fondazione Lepanto: «L'evoluzione è solo un'ipotesi filosofica, che non ha ancora trovato un serio supporto da parte della ricerca empirica e ha avuto traduzioni catastrofiche sul piano politico con i regimi totalitari. Infatti il comunismo nasce dalla sintesi tra Hegel e Darwin compiuta da Karl Marx, mentre il razzismo hitleriano trae le sue origini da una mescolanza tra lo stesso Darwin e Friedrich Nietzsche».
Non a caso, de Mattei rifiuta l'idea di riabilitare Teilhard de Chardin: «Il suo pensiero è una tipica espressione del modernismo novecentesco, che fu condannato da san Pio X nell'enciclica
Pascendi del 1907 ed è in contraddizione anche con la Fides et ratio di Giovanni Paolo II, nella quale viene respinta ogni forma di evoluzionismo teologico. A mio avviso Teilhard de Chardin merita di restare ai margini della Chiesa, perché la sua filosofia si risolve in un panteismo cosmico, incompatibile con la visione di un Dio trascendente».
La pensa in modo diverso un'altra storica di area cattolica, Lucetta Scaraffia: «Considero molto interessante, anche se forse un po' troppo ottimista, il tentativo compiuto da Teilhard de Chardin per conciliare la teoria scientifica evoluzionista con una visione dell'universo religiosamente ispirata. Come tutti gli studiosi fortemente innovativi, suscitò diffidenze ed ebbe dei problemi con il Sant'Uffizio, ma oggi mi pare ampiamente recuperato. Quanto a Darwin, bisogna distinguere le sue teorie scientifiche dall'uso antireligioso che ne è stato fatto dalla propaganda atea per attaccare il cristianesimo, riproposto ancora oggi dagli scientisti come Piergiorgio Odifreddi. Ma in realtà l'evoluzionismo suscita ostilità soprattutto nei protestanti, molto legati alla lettera del testo biblico, mentre risulta più facilmente accettabile da parte dei cattolici, che hanno sempre ammesso un'interpretazione allegorica delle Scritture».
Invece il tradizionalista Maurizio Blondet, pur ostile ai fondamentalisti protestanti sul piano religioso e politico, è d'accordo con loro nella lotta al darwinismo, contro il quale ha scritto il libro
L'uccellosauro e altri animali (Effedieffe). «La teoria dell'evoluzione — dichiara — viene tenuta in piedi dalla corporazione dei biologi, ma è smentita di continuo dalle scoperte della paleontologia e della genetica. Il grande merito degli evangelici americani è stato quello di dare coraggio ai numerosi scienziati che non esprimevano i loro dubbi sulla visione dominante per timore di rovinarsi la carriera. Che poi oggi gli anglicani chiedano scusa a Darwin, si deve a quella smania deleteria del politicamente corretto che sta provocando un enorme smarrimento anche all'interno della Chiesa cattolica».

Repubblica 16.9.08
In un mondo globalizzato allo slogan rivoluzionario "Liberté, Egalité, Fraternité" si è sostituito il motto "Sicurezza, Parità, Rete"
La salvezza viene perseguita con risorse possedute e gestite a livello individuale
Un nuovo libro del sociologo che teorizza lo stato liquido della società attuale
di Zygmunt Bauman


Pubblichiamo un brano del nuovo libro di "Individualemente insieme" (Diabasis, pagg. 130, euro 10) presentato in anteprima al Festival delle Culture di Luzzara e Novellara tenuto dal 12 al 14 settembre

Quando venne proclamato per la prima volta, in Francia, nel pieno dell´eccitazione rivoluzionaria, lo slogan «Liberté, Egalité, Fraternité» era, allo stesso tempo, l´espressione sintetica di una filosofia di vita, una dichiarazione di intenti e un grido di battaglia. La felicità è un diritto umano e il suo perseguimento è un´inclinazione umana naturale e universale - così suonava l´assunto, implicito e evidente, di questa filosofia di vita. Per conseguire la felicità, gli uomini avevano bisogno di essere liberi, uguali e affratellati (tra fratelli, la simpatia, il soccorso e l´aiuto sono diritti di nascita, non un privilegio che deve essere guadagnato ed esibito prima di vederselo riconosciuto). Come sostenne in maniera memorabile John Locke, anche se come le persone erano state abituate a credere da secoli di appelli improntati al memento mori, gli uomini possono scegliere e percorrere «solo un cammino» verso la felicità eterna (il cammino della pietà e della virtù, che conduce all´eternità del Paradiso), resta valido quanto segue: una sola tra queste è la vera via della salvezza. Ma tra le mille che gli uomini imboccano, qual è quella giusta? Né la cura dello stato, né il diritto di far leggi hanno svelato con maggior certezza al magistrato la via che conduce al cielo di quanto non l´abbia svelato a un privato cittadino la propria ricerca. (...)
Queste assunzioni, riguardanti il legame intrinseco e indissolubile tra la qualità del «commonwealth» e le chance di felicità individuale, hanno perso, o stanno rapidamente perdendo, la loro validità assiomatica, e tale declino avviene tanto nel modo di pensare della gente così come nella loro versione intellettualmente sublimata. Ed è forse per questa ragione che le condizioni implicite della felicità individuale stanno scivolando dalla sfera sovra-individuale della Politica verso il dominio della bio-politica individuale, postulata come terreno di iniziative eminentemente personali, in cui vengono impiegate per lo più, se non esclusivamente, risorse possedute e gestite a livello individuale. Lo spostamento riflette il mutamento delle condizioni di vita, risultante dai processi liquido-moderni di deregulation e privatizzazione, cioè «sussidiarietà», «outsourcing», «sub-contratti» e così via, con cui si rinuncia progressivamente ad elementi che prima facevano parte delle funzioni svolte dal commonwealth. La formula che si sta oggi profilando, in ordine al perseguimento dell´obiettivo (immutato) della felicità, è espressa al meglio dal motto: «Securité, Parité, Reseau» (Sicurezza, Parità, Rete).
Il valore della «sicurezza» sta scacciando quello della libertà. Questo «scambio», caratteristico della nostra civiltà, si manifestò per la prima volta allorché Sigmund Freud, in Il disagio della civiltà, pubblicato nel 1929, mise in luce la tensione e gli scivolamenti che caratterizzano il rapporto tra questi due valori, ugualmente indispensabili e altamente considerati, eppure difficili da riconciliare. In meno di un secolo, il continuo progresso della libertà individuale di espressione e di scelta ha raggiunto un punto in cui il prezzo di tale progresso, cioè la perdita di sicurezza, ha cominciato ad essere giudicato esorbitante - insostenibile e inaccettabile - da un numero crescente di individui emancipati, o costretti ad andare per la propria strada di punto in bianco. I rischi implicati dall´individualizzazione e dalla privatizzazione del perseguimento della felicità, uniti al graduale ma progressivo smantellamento delle reti di sicurezza (pensate, costruite e offerte a livello sociale) e dell´assicurazione contro i rovesci della sorte (stipulata sempre a livello sociale), si sono dimostrati enormi.
L´incertezza generatrice di paure che ne é seguita ha avuto come effetto uno scoraggiamento diffuso. L´idea di una vita riempita in misura leggermente maggiore da certezza e sicurezza, anche se in parte a scapito della libertà personale, ha guadagnato all´improvviso seguito e potere seduttivo (...)
Nell´odierna costellazione delle condizioni (e delle aspettative) di una vita decente e piacevole, la stella della parità brilla sempre più luminosa, mentre quella dell´uguaglianza va oscurandosi. «Parità» non è assolutamente sinonimo di «uguaglianza», o meglio, è un´uguaglianza, abbassata a uguale diritto al riconoscimento - a «diritto di essere» e «diritto di essere lasciati in pace». L´idea di livellare il reddito, il benessere, il comfort le prospettive di vita, e ancor più l´idea di un´equa ripartizione nello svolgersi della vita in comune e nei benefici che la vita in comune ha da offrire, stanno sparendo dall´agenda dei postulati e degli obiettivi realistici della politica. Tutte le varietà della società liquido-moderna sono sempre più compatibili con il permanere di un´ineguaglianza economica e sociale. L´idea di condizioni di vita uniformi e universalmente condivise viene via via sostituita da quella di una diversificazione in linea di principio illimitata - fino a coincidere con il diritto di essere e rimanere differenti senza che per questo siano negati dignità e rispetto.
Mentre le disparità verticali nell´accesso a valori approvati e ricercati da tutti tendono ad aumentare ad una velocità crescente, incontrando scarsa resistenza e causando al massimo azioni rimediali di poco conto, sporadiche e di portata molto ristretta, le differenze orizzontali, di converso, si moltiplicano, accompagnate da peana, celebrate e sistematicamente promosse dai poteri politici e commerciali così come da quelli ideologici (ideational). Le guerre per il riconoscimento prendono il posto occupato un tempo dalle rivoluzioni; il campo di battaglia non è più la forma del mondo che verrà, ma il posto, tollerabile e tollerato, in questo mondo; in questione non sono più le regole del gioco, ma solamente l´ammissione al tavolo. Questo è ciò che si intende, alla fin fine, con «parità», l´ultima incarnazione dell´idea di equità: riconoscimento del diritto di partecipare al gioco, rigettando un verdetto di esclusione o allontanando la possibilità che un verdetto del genere possa mai essere formulato.
Infine, la rete. Se «fratellanza» implicava una struttura acquisita, che predeterminava e predefiniva le regole che fissano condotta, atteggiamenti e principi di interazione, la «rete» non ha dietro si sé alcuna storia: la rete è tessuta nel corso dell´azione, e tenuta viva (o meglio, continuamente, ripetutamente ri-creata/resuscitata) soltanto grazie a una successione di atti comunicativi. A differenza del «gruppo» e di qualsiasi altro tipo di «totalità sociale», la rete è ascritta su base individuale ed è individualmente orientata - sua parte originaria, permanente e insostituibile è l´individuo, il nodo volta per volta considerato. Si assume che ogni singolo si porti dietro, assieme al proprio corpo, il suo o la sua propria specifica rete, un po´ come una chiocciola porta la sua casa. Una persona A e una persona B possono appartenere entrambe alla rete di C, ma A può non appartenere a quella di B e viceversa - una circostanza che non poteva verificarsi nel caso di totalità come nazioni, chiese o quartieri. La caratteristica più rilevante delle reti, peraltro, è la non comune flessibilità della loro portata e la straordinaria facilità con cui ne può essere modificata la composizione: le unità individuali vengono aggiunte o tolte con uno sforzo non maggiore a quello con cui si mette o si cancella un numero dalla rubrica del cellulare. I legami eminentemente scioglibili che uniscono le diverse unità delle reti sono tanto fluidi quanto lo è l´identità del nodo della rete, il suo solo creatore, proprietario e gestore. Grazie alle reti, l´«appartenenza» passa da antecedente a conseguenza dell´identità, diventa l´estensione di un´identità eminentemente mutevole, qualcosa che segue immediatamente, e opponendo una resistenza minima, alle successive rinegoziazioni e ridefinizioni identitarie. Con ciò, le relazioni poste in essere e sostenute dai collegamenti in forma di rete si avvicinano all´ideale della «relazione pura»: legami unifattoriali facilmente gestibili, senza durata determinata, senza clausole e sgravati da vincoli a lungo termine. In netta opposizione ai «gruppi di appartenenza», ascritti o scelti, le reti offrono al loro proprietario/gestore il sentimento rassicurante (anche se alla fin fine controfattuale) di controllo totale e indiscusso sulle proprie lealtà e sui propri obblighi.

il Riformista lettere 16.9.08
La carta di Bondi

Caro direttore, come cittadino italiano mi aspetto che i politici conoscano per lo meno la Costituzione. Per questo motivo mi sorprende leggere le frasi dell'onorevole Bondi riguardo le dichiarazioni del Papa sulle unioni di fatto. Nell'articolo 29 della Costituzione non si parla in nessun modo di famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna. Leggere per credere. Nessuno pretende di tappare la bocca alla Chiesa, che predichi il suo Vangelo ai suoi fedeli. Ma è necessario impedire che vengano avvalorate notizie prive di fondamento.
Roberto Martina e-mail

Repubblica Bologna 16.9.08
"Il giudice della Franzoni va trasferito". Duro attacco al magistrato di sorveglianza da parte di tre membri del Csm
"L'iniziativa per la Franzoni è un'ingerenza del giudice. Una forzatura per una persona sorretta da un grande consenso mediatico"
di Paola Cascella


PROCEDIMENTO di trasferimento per incompatibilità ambientale per Riccardo Rossi, il giudice di sorveglianza di Anna Maria Franzoni. Lo chiedono tre membri del Consiglio superiore della magistratura con una lettera inviata al Comitato di presidenza dell´organo di autogoverno delle toghe, segnalando come «caso anomalo» la decisione di Rossi di sottoporre a una perizia psichiatrica la donna condannata a 16 anni per l´omicidio del figlio Samuele.
Un primo passo, quello del magistrato, che di fatto apre la valutazione della richiesta fatta dalla mamma di Cogne di poter vedere gli altri due figli fuori dal carcere, anche in ambiente familiare, quindi in situazione di quasi libertà. Decisione «sconcertante», scrivono Ciro Riviezzo, Bernardo Petralia, e Mario Fresa, «in quanto l´ammissione al lavoro all´esterno di un detenuto definitivo, anche nella particolare forma prevista dall´art. 21 bis per l´assistenza all´esterno del carcere dei figli minori, è provvedimento di competenza della Direzione dell´Istituto detentivo da adottare sulla base di quanto previsto nel programma di trattamento predisposto all´esito dei risultati dell´osservazione penitenziaria a cui partecipano tutte le figure operanti all´interno dell´Istituto (educatore, psicologo, polizia penitenziaria, assistente sociale). Il magistrato di sorveglianza si limita ad approvare o meno il provvedimento del Direttore che, in caso positivo, diviene esecutivo. Nessuna competenza del magistrato di sorveglianza è ravvisabile nella fase di valutazione delle condizioni di legittimità e di merito preliminari alla adozione dell´eventuale provvedimento di ammissione, la cui esclusiva responsabilità ricade sulla Direzione dell´Istituto». Non solo. Franzoni è detenuta dal 22 maggio 2008, troppo poco, sottolineano i consiglieri, per chiedere l´accudimento dei figli all´esterno: «Per i condannati per alcuni dei delitti più gravi?.., tra cui rientra l´omicidio, la legge prevede che il lavoro all´esterno possa essere disposto solo dopo l´espiazione di almeno un terzo della pena». Ecco quindi «il caso anomalo»: il magistrato di sorveglianza, «che apre una istruttoria preliminare, conferendo addirittura una perizia psichiatrica (con esborso di pubblico denaro) nell´ambito di un procedimento» che non è di sua competenza. Molti, troppi errori, secondo i consiglieri che sono durissimi nei confronti di Rossi: «La sovraesposizione del magistrato di sorveglianza - che si ingerisce in valutazioni di competenza dell´Autorità amministrativa e che, attraverso il conferimento di una perizia esterna, mortifica il ruolo degli esperti del trattamento in servizio presso l´Istituto di detenzione, che hanno il preciso compito istituzionale di procedere alla osservazione della personalità della Franzoni al fine di formulare ipotesi di trattamento che saranno alla base delle future valutazioni della magistratura di sorveglianza - rischia di ingenerare una sempre maggiore confusione di ruoli tra magistratura di sorveglianza ed amministrazione penitenziaria». Così facendo si dà l´idea che la detenuta Anna Maria Franzoni sia diversa dalle altre detenute: «La considerazione ulteriore che si stia operando una forzatura del quadro normativo in favore di una persona condannata sorretta da un consenso mediatico impressionante, fornisce una immagine della magistratura che sembra orientata non tanto a garantire il principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, quanto a mostrarsi forte con i deboli e debole con i forti». Per questo «l´immagine di imparzialità ed indipendenza, del magistrato, di cui la professionalità è parte essenziale», rischia di «apparire fortemente compromessa nell´ambiente in cui opera».

lunedì 15 settembre 2008

l'Unità 15.9.08
Razzisti a Milano. La stagione dell’odio
di Rinaldo Gianola


Abdul è stato sprangato a morte ieri mattina alle 6, vicino alla Stazione Centrale di Milano. I killer lo hanno aggredito in via Zuretti, una strada che corre parallela, vicinissima, alla famosa via Gluck cantata da Celentano. Una zona popolare dove la solidarietà e l’amicizia, un tempo, si misuravano sul ballatoio, attorno ai cortili e alle ringhiere delle vecchie case.
I bar dei ferrovieri, il mercato del pesce, il Naviglio della Martesana dove nel dopoguerra i ragazzi facevano i tuffi, l’oratorio con i platani in mezzo al campo di calcio erano il tessuto di una società di lavoro, fatica e di passione politica. C’era in quella Milano un welfare non istituzionalizzato alimentato da una vicinanza elementare, umile ma solida di famiglie di operai e di molti immigrati.
In quei prati, prima che la speculazione del boom economico realizzasse il suo disastro, abbiamo giocato da ragazzi, superato a fatica pregiudizi e divisioni, diventando amici tra i banchi di scuola e i campetti di calcio abusivi: noi figli dei proletari del Nord e i figli dei “terroni” immigrati, i diversi di allora. I nostri papà consumavano la vita alla Pirelli Bicocca o alla Breda e noi crescevamo rissosi e incavolati come conveniva in quegli anni. Assieme andavamo in via Zuretti dove c’era la sede di “Giovani”, una rivista di musica alla moda, a caccia di foto e autografi. Pensavamo che Gianni Morandi e Laura Efrikian non si sarebbero mai lasciati. Poi, quando in tasca c’era qualche spicciolo, puntavamo sulla splendida gelateria di via Gluck per un cono, piccolo però. Quando Celentano cantò a San Remo «là dove c’era l’erba ora c’è una città...» noi ci sentimmo un po’ riscattati, sapevamo di cosa parlava.
Gli assassini hanno aspettato Abdul proprio qui, in questo nuovo incrocio dell’odio, nelle strade di una Milano che non c’è più e che ci manca. Dove sono finite la solidarietà e la pietà di una città una volta davvero riformista (ma non come si intende oggi...)? Dov’è quella Milano capace pure di obbligare i padroni del vapore a spalmare una parte dei loro profitti sulla comunità, che si sforzava di non lasciare soli gli ultimi, che arginava i rigurgiti fascisti invadendo le piazze? Scomparsa, tra una faticosa modernità e un’efficienza improbabile, mentre le banche e i profitti d’impresa scalano ovviamente le classifiche e siamo tutti diventati un grande ceto medio, mediamente inutili nelle nostre paure e gelosie.
Abdul è stato sprangato perchè non aveva pagato una “consumazione”, un piccolo furto di biscotti probabilmente. Abdul è italiano, un nostro concittadino originario del Burkina Faso. Era andato a ballare in un locale, poi quando già albeggiava aveva deciso coi suoi amici di fare un salto al Centro sociale Leoncavallo. Non ci è arrivato. «Sporchi negri, vi ammazziamo» hanno gridato gli aggressori, due milanesi, mentre lo colpivano con le mazze, riferiscono i testimoni. Per un piccolo furto si consuma un omicidio tremendo, incredibile, ma oggi spiegabile con l’aria che tira, con il clima politico e, come dire?, culturale del Paese.
Se i leghisti vanno in giro con il ddt per spruzzare le prostitute nigeriane, se il governo prepara l’espulsione di massa di quella moltitudine diversa rappresentata dagli immigrati (ultimo annuncio ieri del ministro Maroni alla sceneggiata padana di Venezia), se i fascisti riscattano il passato, se il ministro milanese La Russa celebra la Repubblica razzista di Salò, perchè sorprendersi se poi un nero viene ammazzato? E il sindaco Moratti non può cavarsela semplicemente affermando che questa crudeltà «è estranea alla tolleranza dei milanesi». Troppo facile. Nella città dell’Expo 2015 gli amici del sindaco vanno in giro a bruciare i campi rom, a chiedere la distruzione dei tuguri dove si rifugiano gli ultimi immigrati e sono gli alleati della signora Moratti a organizzare le ronde contro le prostitute che deturpano l’arredo urbano e a consentire l’apertura dei circoli neonazisti di «Cuore Nero». In questa nostra città si respira un’aria xenofoba e fascista intollerabile. Così come non è tollerabile il tentativo, già in atto anche da parte della solerte Questura, di derubricare il delitto a sprangate come l’esito tragico di una rissa tra giovani scapestrati dopo un piccolo furto. Se anche gli aggrediti hanno cercato di difendersi allora è tutto meno grave, no?
Un ragazzo è stato ucciso a Milano dall’odio e dalla violenza razzista. Questo è il fatto. Se proprio non riuscite a trovare le parole giuste, cari signori almeno state zitti.

l'Unità 15.9.08
La sinistra accusa: assassinio
frutto di un clima di odio
di e.d.b.


Roma. «L’assassinio di un ragazzo a colpi di spranga, gli insulti per il colore della sua pelle sono il frutto di un clima pesante, di odio, di una tragedia insopportabile per
chiunque abbia a cuore il rispetto per le persone e la tolleranza». Il segretario del Pd, Walter Veltroni, commenta con queste parole l’assurda uccisione di Milano. Ma va più a fondo, provando a ricercarne le ragioni nella temperie culturale del Paese: «Un clima difficile che l’indifferenza, l’egoismo, le culture che hanno al centro la soddisfazione di desideri individuali, le paure seminate a piene mani verso l’altro da noi hanno contribuito a formare. Credo che sia necessario fare piena luce, ma ritengo anche che occorra una grande e appassionata battaglia culturale e di umanità perché episodi come questo non debbano ripetersi».
Il primo a parlare di razzismo, tra le fila del Pd, era stato nel primo pomeriggio Marco Minniti, ministro ombra dell’Interno: «La natura e i contorni dell’episodio - aveva detto - sono estremamente preoccupanti e richiamano alla mente fatti di grave intolleranza. Per come è stato fino ad ora ricostruito quanto avvenuto a Milano, sembra configurarsi come un odioso episodio di razzismo». Poco più tardi Piero Fassino aveva rincarato la dose: «Non ci sono parole che possano esprimere l’indignazione e la rabbia per il feroce assassinio di un giovane di colore a Milano. E ogni coscienza civile deve ribellarsi a questo mostruoso episodio di razzismo. Riflettano coloro che ogni giorno alimentano un’isterica fobia contro gli immigrati, e si rendano conto di quale tremenda responsabilità si assume chi rappresenta ogni immigrato come un pericolo e un nemico, creando così un clima di intolleranza e di odio in cui ogni orrore può accadere». È una domanda che il Pd pone al Paese. «Di fronte alla perdita, in modo così ingiustificabile ed insensato, di una vita umana - afferma la senatrice Maria Pia Garavaglia - occorre chiedersi, senza esitazione, se nel nostro Paese non si sia rotto qualcosa nell’equilibrio della pacifica convivenza». Il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero è anche più diretto: «La Lega la deve smettere, con le sue campagne xenofobe e razziste. Fatti terribili come questi sono, temo, anche il frutto di un clima avvelenato costruito da forze politiche come la Lega, che additano gli immigrati a fonte di tutti i mali». Il Carroccio reagisce con il capogruppo alla Camera Roberto Cota: «Oggi chi strumentalizza indegnamente un episodio rischia davvero di innescare pericolose dinamiche». Il ministro dell’Interno, il leghista Roberto Maroni, diffonde una nota nella quale ricorda di aver «espresso il suo apprezzamento per la tempestiva risposta con cui la Squadra Mobile della Questura, in poche ore, ha assicurato alla giustizia i presunti responsabili del brutale assassinio di Abdul William Guibre». Nessun riferimento al razzismo.

l'Unità 15.9.08
Roma. In venti aggrediscono un ragazzo inglese
«C’è un clima di “costruzione del nemico” che offre una spalla all’intolleranza»
di g.v.


ROMA In 20 hanno aggredito un 22enne inglese colpendolo a calci e pugni al volto e due italiani di 39 e 43 anni intervenuti per aiutarlo. È successo domenica notte, intorno alle 3,15, nella centralissima Piazza Navona. Ancora da chiarire da parte dei carabinieri della stazione Farnese e della compagnia Roma Centro i motivi dell’aggressione nei confronti dell’inglese in Italia per motivi di studio.
Il giovane, come è stato accertato, era in evidente stato di ebbrezza quando è stato circondato da circa venti persone, molto probabilmente italiane, che lo hanno picchiato. All’arrivo dei carabinieri gli aggressori si sono dileguati per le vie del centro. Il 22enne e i due italiani intervenuti in suo soccorso sono stati trasportati al Santo Spirito.
Lo studente inglese è stato giudicato guaribile in 25 giorni mentre i due italiani in 10.
«Esprimo solidarietà allo studente inglese aggredito questa notte a Piazza Navona, e grande apprezzamento alle due persone che, intervenute per soccorrerlo, hanno mostrato un coraggio e una forza d’animo ammirevoli», ha detto il sindaco di Roma, Gianni Alemanno.
«Mi auguro che gli inquirenti facciano piena luce su questa vigliacca aggressione - aggiunge - Colpisce però il fatto che questa violenza sia avvenuta in pieno centro, sia pur a tarda ora».
«Questo significa che si rende necessaria una verifica rispetto alla presenza delle forze dell’ordine sul territorio anche dopo l’utilizzo delle forze armate, con l’impiego di mille militari. È un quesito che porrò al prefetto Carlo Mosca nel nostro incontro informale di martedì, perché è impensabile che possa avvenire un’aggressione di questo genere a qualsiasi ora del giorno e della notte».

l'Unità 15.9.08
Jean Leonard Touadì. Il parlamentare Pd: questa violenza di matrice razzista non può essere sempre trattata come un fatto di «balordi»
«Troppi rigurgiti xenofobi, si rischia l’implosione sociale»
di Eduardo Di Blasi


Jean Leonard Touadì, parlamentare del Pd, ricava tre considerazioni dai terribili fatti di Milano. La prima è che «la metropoli violenta non ha colore politico». E spiega: «Anche a Milano dove c’è un assessore tutto d’un pezzo queste cose accadono. Questa violenza di matrice a volte razzista a volte fascista ci interroga. Non può essere derubricata ogni volta come fatto di balordi perché dietro “i balordi” c’è una pigrizia nel cercare di capire profondamente che cosa sta accadendo nelle nostre periferie, ai nostri ragazzi».
È solo una questione di città violenta?
«No, accanto c’è un clima che io ho tante volte stigmatizzato come il frutto della “costruzione di un nemico”. E in questo caso il nemico non è tanto la razza diversa ma lo straniero in generale che viene visto come il condensato di tutti i mali, dalla criminalità al degrado. Questo clima non dico che incoraggi o fomenti, ma offre sicuramente una spalla all’intolleranza. E non sono sicuro che un Paese che ospita quasi tre milioni di immigrati regolari che lavorano e hanno figli nati in Italia, possa permettersi il lusso di stigmatizzare e mettere ai margini tre milioni di persone. Fare questo significa preparare per il nostro Paese, per le nostre città, un clima da implosione sociale. E quando magari ci metteremo mano sarà troppo tardi perché la rabbia, la frustrazione, i rancori, saranno già cresciuti».
Il ragazzo ucciso, Abdul, era italiano...
«È la grande questione che riguarda le seconde generazioni. Persone nate in Italia da genitori stranieri, che frequentano le nostre scuole, imparano Manzoni e Ungaretti come tutti gli altri, tifano per le squadre delle rispettive città, ne parlano il dialetto, ma che noi ci ostiniamo, perché hanno un colore di pelle diverso, perché hanno una religione diversa, a considerare come “immigrati”. Sbagliando anche dal punto di vista letterale della parola, perché uno che non si è mai mosso dall’Italia non immigra. In questa contraddizione semantica sta il nostro ritardo culturale nel cogliere questo fenomeno nella sua vera natura e nell’evoluzione che ha avuto».
Secondo lei c’è stata una crescita della violenza contro gli stranieri?
«Io penso al campo rom di Ponticelli. Una vicenda che è stata rimossa in poco tempo. Invece è davvero qualcosa che ha segnato un passaggio. Bambini che sono impauriti perché qualcuno li vuole linciare, questo ha rappresentato davvero nella storia dell’immigrazione italiana un salto. Un salto qualitativo che è una metafora del clima che stiamo respirando. E che gli imprenditori della paura, sotto questo punto di vista, sono riusciti ad instillare nella nostra società. L’imprenditoria della paura ha prodotto questo».
Secondo lei come si esce da questa spirale di odio e violenza sociale?
«Se ne esce intanto riconoscendo le cose per quello che sono. Secondo me non serve a niente continuare a dire: “L’Italia non è più un Paese razzista”. Il Paese, certo, non è la Germania hitleriana, però se noi non riconosciamo che c’è un rigurgito di rigetto dell’altro, un rigurgito di xenofobia che bisogna chiamare con il suo nome... Finora abbiamo visto la faccia feroce dello Stato che non esita ad andare a prendere le impronte digitali ai bambini, ma non riusciamo a vedere, di questi tre milioni di persone, perché di persone si tratta, che cosa ne vogliano fare. Una volta uscita dalla fabbrica di Vicenza o dalla cava di marmo del veronese che cosa ne vogliono fare dal punto di vista dell’integrazione sociale? Noi abbiamo lanciata la proposta del voto amministrativo. Ci hanno detto che era intempestiva. Ma dove sta scritto che l’agenda di Berlusconi deve essere l’unica a regnare in Parlamento? Più lasciamo ai margini fette consistenti di popolazione e meno ci sentiremo sicuri».

Repubblica 15.9.08
La variabile razzista
di Gad Lerner


Lo «sporco ladro», il «lurido negro», l´intruso nel sabato notte dei milanesi, stavolta è risultato essere concittadino dei suoi assassini. Un italiano di nome Abdoul William Guibre.Esattamente com´è italiano il suo coetaneo Mario Balotelli – pelle scura e accento bresciano – che poche ore prima indossava la maglia nerazzurra sul prato di San Siro.
Adesso è prevedibile che il pestaggio mortale, suggellato dalle grida razziste degli aggressori, rinfocoli sentimenti popolari di segno opposto. Il nostro turbamento per la penetrazione dell´odio xenofobo come malattia sociale contagiosa. E viceversa il malumore diffuso di chi ci accuserà: ecco, trasformate un balordo in martire pur di ignorare che le «vere vittime» sono i cittadini minacciati da una criminalità ben riconoscibile nella sua connotazione etnica.
La corrente di pensiero delle «vere vittime» riunisce difatti quei vasti settori popolari che traggono sollievo da un governo italiano per la prima volta dedito a nominare i colpevoli, non come singoli individui, ma come categorie da eliminare. Il povero «Abba» Guibre, con la sua cittadinanza tricolore, incarna una variabile non prevista dal senso comune dominante. Ma ugualmente il vittimismo deprecherà l´attenzione eccessiva concessa a un episodio che, senza quelle grida razziste, chissà, forse sarebbe rimasto in cronaca locale.
Ora ha poco senso disquisire se l´esasperazione dei baristi che hanno subito il furto si sarebbe scaricata tale e quale, a colpi di spranga, pure su ladruncoli d´aspetto diverso. Mi auguro invece che i responsabili politici riconoscano in quella esasperazione – troppo spesso cavalcata e legittimata – motivo di riflessione e allarme. Ogni giorno veniamo a conoscenza di episodi di violenza spicciola che si verificano nei cantieri del lavoro irregolare, sulle strade dell´accattonaggio e della piccola delinquenza, perfino nel fastidio per la religiosità altrui. Queste tensioni sempre più frequenti, come già accaduto in altri paesi, potrebbero degenerare in conflitti metropolitani a sfondo etnico. L´Italia sta raggiungendo, del tutto impreparata, il livello di guardia. Se è vero infatti che la giustificazione della furia popolare può offrire nell´immediato vantaggi politici, ne conseguiranno inevitabilmente lacerazioni del tessuto sociale, problemi di ordine pubblico, degrado civile.
Nessuno strumentalizzi il linciaggio della Stazione Centrale, dunque. Ma, per favore, gli imprenditori politici dell´allarme-stranieri valutino il rischio di trasformarsi in apprendisti stregoni. Solo ieri il vicesindaco di Milano, Riccardo De Corato, se la cavava con una generica invettiva («è una vergogna») di fronte al fermo in via dei Missaglia di un marocchino già 34 volte arrestato e due volte rimpatriato. Mica è facile impedire il ritorno degli indesiderati. Eppure De Corato non smette di annunciare l´espulsione degli abitanti di altri dieci campi rom della periferia, come se gli ottanta sgomberi già effettuati avessero alleviato il senso d´insicurezza dei cittadini. Con chi se la prenderà quando sarà evidente l´inefficacia delle sue minacce? Con i magistrati, con le forze di polizia, con l´esercito?
Così sta accadendo un po´ dappertutto: vengono suscitate aspettative che, una volta deluse, incrementano un surplus di rancore o, peggio, degenerano in giustificazionismo della vendetta «fai da te».
Mi auguro che il nostro concittadino «Abba» Guibre, nuovo italiano come ce ne sono tanti, sia pure ladro di biscotti, sprangato a morte in una notte di fine estate, venga onorato nelle sue esequie dalla presenza del sindaco di tutti i milanesi, Letizia Moratti, che riempirebbe così di significato le sue nette parole di condanna. Perché sia chiaro che la Milano dell´Expo 2015 diventerà metropoli europea solo facendo sentire a casa loro, non ospiti provvisori e indesiderati, pure i suoi abitanti più recenti di nome Abdoul.

l'Unità 15.9.08
Tutti a scuola. Proteste e sit in ovunque
Settanta istituti con il lutto, studenti davanti al ministero. Roma nel caos, si fermano i vigili


Roma. SARÀ un inizio di anno scolastico come non se ne vedeva da anni. Stamattina in quasi tutte le regioni bambini e ragazzi torneranno sui banchi. Ma nel mezzo ci sono state le uscite di fine estate del ministro che ha per decreto iniziato ad affondare quel poco che in Italia funzionava. Volantinaggi, sit in e proteste ci saranno un po’ in tutta la penisola: da Treviso a Milano, a Napoli e a Roma. Il maestro unico l’oggetto. Ma anche una difesa dell’offensiva scatenata dal ministro contro coloro che dovrebbe tutelare, gli insegnanti.
Contro la «desolante distruzione della scuola pubblica» e la «negazione dei diritti degli studenti» una rappresentanza dell’ Unione degli Studenti protesterà oggi davanti al Ministero dell’Istruzione, in Viale Trastevere, dove è annunciata una conferenza stampa e un’azione dimostrativa. Altre «azioni dimostrative» sono state fatte dall’ Uds anche stanotte. Anche i Cobas annunciano per oggi, «in quasi tutta Italia», manifestazioni di protesta da parte di «docenti, personale Ata (ausiliari, tecnici, amministrativi), genitori, studenti e cittadini intenzionati a difendere e a migliorare la scuola pubblica». In particolare, afferma il portavoce dei Cobas della scuola Piero Bernocchi, docenti e Ata manifesteranno in varie forme, «indossando adesivi con la scritta «No ai tagli, no al maestro unico», portando al braccio fasce nere in segno di lutto».
L’anno si apre nella capitale in un clima di forte tensione per la riforma Gelmini, anche nelle scuole elementari, dove con il decreto sul maestro unico appare a rischio il tempo pieno e secondo la Flc-Ccgil il taglio sarà a Roma di 1.800 maestri.
Nella capitale, dove si è registrato un vero boom di iscrizioni di studenti (501.822), con un incremento del 5,8% rispetto allo scorso anno, è attivo anche il coordinamento «Non rubateci il futuro», a cui hanno aderito circa 70 istituti dove, in occasione del primo giorno di scuola, docenti, genitori e alunni entreranno con una fascia di lutto al braccio a sostegno del tempo pieno e contro il maestro unico. La protesta è partita dalla Iqbal Masiq, una scuola elementare nel quartiere Casilino. Docenti, studenti, genitori e personale amministrativo promuoveranno campagne informative sui decreti governativi e raccolta di firme. È polemica anche sui dati ufficiali diffusi dal ministero, sull’aumento delle bocciature (il 16% degli studenti delle scuole superiori).
Secondo l’Uds «il sistema di recupero dei debiti, reintrodotto da Fioroni e totalmente condiviso dalla Gelmini, ha drammaticamente fallito e va ridiscusso». Per Roma sarà una mattinata infernale. Tanti genitori accompagnaranno in auto i loro bambini per il primo giorno di scuola. I sindacati dei vigili urbani Ospol e Csa hanno convocato assemblee nei 20 comandi municipali e potrebbe essere un primo giorno di scuola senza vigili sulle strade con ripercussione sul traffico. Che potranno esserci saranno anche anche per i numerosi cantieri di lavori in corso in varie parti della città.

Repubblica 15.9.08
Quando la scuola imita le aziende
di Marco Lodoli


I grembiulini per tutti alle elementari, il sette in condotta per arginare i bulli, l´abbandono dei giudizi, spesso prestampati, per tornare alla sincerità del voto: sono scelte che si possono tranquillamente condividere, che forse avrebbe dovuto fare il governo precedente e chissà perché non ha fatto. Ma la questione di fondo della scarsa autorevolezza culturale della scuola temo rimanga irrisolta, e credo anche di sapere quale sia la sua doppia radice.
Da un lato, come è ormai chiaro a tutti, l´incidenza crescente dei valori sociali nella scuola: fu una battaglia degli studenti più aperti e generosi, i quali capirono che non bastavano Carducci e Rosmini per affrontare le straordinarie contraddizioni del mondo, che bisognava necessariamente portare nuovi autori e nuovi temi dentro un sapere accademico e ammuffito. Ma una volta spalancata quella porta, non c´è stata più la possibilità di frenare gli ospiti: e così oggi la scuola, visto che il tempo scorre e le cose cambiano, si ritrova a subire e a patire i nuovi valori – denaro, successo, aggressività, narcisismo – e non sa più in che modo convincere gli studenti che solo attraverso l´applicazione, il sacrificio, la concentrazione, la solitudine potranno imparare qualcosa di utile per loro stessi e per la società. Il mondo peggiore è entrato e la fa da padrone. Ma su questo già molto è stato scritto ed è un problema ormai così evidente che quasi non serve ragionarci sopra. E´ lo stato delle cose, la piaga in cui il dito sta girando da molto e invano. L´altro aspetto che invece non è stato ancora sufficientemente preso in considerazione è forse ancora più fondante, o più franante: mi riferisco all´autonomia scolastica, che ancora passa come una conquista meravigliosa e che invece a mio avviso ha ridotto le scuole a negozietti con la merce sempre in saldo, con le svendite costanti e la qualità ridotta al minimo.
Prima tutte le scuole dipendevano allo stesso modo dal ministero, avevano programmi unificati, facevano scelte coerenti. L´idea di fondo era che i ragazzi dovevano essere preparati ed educati secondo linee comuni, secondo i valori basilari della conoscenza e dell´uguaglianza. Da Ragusa al Brennero si condividevano metodi e aspettative, in un orizzonte democratico e popolare, magari un po´ noioso ma rassicurante per chi insegnava e per chi imparava. A un certo punto però si è deciso che ogni preside e ogni collegio dei docenti potevano gestire come meglio credevano le offerte e i percorsi formativi. Ogni scuola oggi elabora dunque il suo Pof, cioè il Piano di Offerta Formativa, e i ragazzi si iscrivono a questo o a quell´istituto leggendo depliant quanto più possibile accattivanti. Viene proposto il corso di teatro e quello di ping pong, la settimana corta e la settimana bianca, il cineforum e la gita fuori porta. La vetrina deve essere splendida splendente, altrimenti si rischia che i potenziali clienti non vengano dentro neppure a dare un´occhiata. Chi perde studenti, perde quattrini: il budget si assottiglia, la scuola arranca e rischia, se continua l´emorragia, di finire accorpata con qualche altra che invece ha la fila davanti al portone. Anche per questo, soprattutto per questo, a fine anno le bocciature sono ridotte al minimo: una scuola che promuove significa una scuola che va bene, che mantiene i suoi iscritti i quali, arcicontenti, ne parleranno bene in giro. Insomma, l´autonomia scolastica ha messo le nostre scuole in competizione tra di loro, esattamente come fa il libero mercato: ma il risultato non è stato un miglioramento dell´istruzione, così come la moltiplicazione delle televisioni non ha reso i programmi migliori e gli italiani più svegli e più colti. I presidi ormai si sono elevati – o abbassati – al livello di manager, difficilmente tengono d´occhio l´andamento generale degli studenti, cosa succede in classe, quali sono i problemi dei professori, tanto sono presi dalla preoccupazione di far quadrare i conti e non perdere la clientela. E i clienti, si sa, hanno sempre ragione, quindi è inutile, anzi nocivo, difendere i professori-commessi dell´emporio, che devono soltanto soddisfare le aspettative dei giovani seduti al di là del bancone. Pardon, volevo dire della cattedra. Probabilmente in qualche scuola virtuosa questa raggiunta autonomia ha prodotto risultati eccezionali, ma direi che nell´insieme ha soltanto inoculato il virus dell´inadeguatezza nei professori, ha depotenziato il loro insegnamento, costringendoli a retrocedere al ruolo di intrattenitori, di venditori di pentole, di spaventati amiconi dei ragazzi. Non credo si possa tornare indietro, ma credo che andare avanti in questa direzione significhi soltanto rendere le nostre scuole simili ad aziendine traballanti, pronte a tutto pur di non perdere la loro misera quota di mercato.

l’Unità 15.9.08
Un viaggio nelle filosofie del linguaggio
Umberto Eco tra Aristotele e pensiero debole
di Salvo Fallica


Un affascinante viaggio, profondo, raffinato e colto, nella storia del pensiero. Una storia delle filosofie del segno e dell’interpretazione, strutturata con originalità metodologica ed epistemologica. Una analisi teoretica e linguistica che scava nei meandri più complessi delle strutture teoriche interpretative, sulle connessioni fra segni e significati. Sono questi alcuni dei tratti più importanti del libro di Umberto Eco, Dall'albero al labirinto, edito da Bompiani. Degli studi storici sul segno e l’interpretazione, che diventano riflessioni critiche ed analitiche su questioni fondamentali della storia del pensiero. Eco ha messo assieme questi suoi testi, e ne è venuto fuori un contributo autorevole ad una storia delle «varie filosofie del linguaggio, o dei linguaggi». Dal Cratilo di Aristotele al pensiero debole, Eco elabora e struttura delle analisi che riescono a cogliere l’essenza concettuale degli argomenti ed a proporre ricostruzioni critiche originali ed innovative. In alcuni casi parte da argomenti che appaiono come dimensioni periferiche della storia della filosofia e che invece sono punti nodali per la comprensione di problematiche complesse di filosofia teoretica. E così le metafore dell’albero e del labirinto diventano strumenti logico-metodologici di comprensione e di interpretazione di diversi modelli di conoscenza e di organizzazione del sapere. «In questo labirinto, che si presenta non più come ripartizione logica ma come congerie retorica di nozioni e argomenti raccolti in loci, invenire non significa più trovare qualcosa che già si conosceva, riposto nel suo luogo deputato, per usarlo a fini argomentativi, ma veramente scoprire qualcosa, o la relazione tra due o più cose, di cui non si sapeva ancora». «Non c’è più Grande Catena dell’Essere ma ogni suddivisione sarà sempre contestuale e diretta a un fine circostanziato». Ed ancora, dagli studi sulle tecniche medievali di falsificazione, a un excursus sulla storia dell’ars combinatoria da Lullo a Pico della Mirandola, Eco riesce a fare luce su aspetti noti e meno noti delle problematiche filosofiche, legando il tutto con il filo rosso della filosofia dei linguaggi. Suggestivo ed interessante è anche lo studio sulla semiotica implicita nei Promessi sposi: la dimostrazione di come la letteratura con i suoi molteplici livelli interpretativi sia dimensione di meditazione filosofica, di ermeneutica.

Dall’albero al labirinto, Umberto Eco, pagine 636, euro 25,00, Bompiani

l’Unità 15.9.08
Il nuovo libro di Walter Tocci ricostruisce gli ultimi anni di un rapporto difficile e deludente: dalla riforma Moratti al governo Prodi
Ma la scienza può fidarsi ancora della politica?
di Pietro Greco


C’è uno strano punto interrogativo nel titolo, Politica della scienza?, che Walter Tocci - deputato, direttore del Centro per la Riforma dello Stato e per anni punto di riferimento politico molto apprezzato per il mondo della ricerca in Parlamento e nei DS - ha voluto dare al nuovo libro pubblicato con l’editore Ediesse.
È un punto interrogativo a quattro facce e altrettanti significati, che Tocci riconduce a unità non senza una certa capacità di spiazzamento. Il primo significato riguarda proprio i fondamenti del rapporto tra scienza e politica in un mondo che è entrato nell’era della conoscenza ed è sempre più informato, a ogni livello (economico, ecologico, etico, sociale, culturale) dalla scienza e dall’innovazione tecnologica. In un lungo saggio dedicato a Martin Heidegger, Walter Tocci individua il tessuto connettivo primario di questi rapporti: la filosofia. Tutte queste tre dimensioni della cultura dell’uomo si fondando sul concetto di legge. Certo, il rapporto oggi è squilibrato. La scienza pone all’uomo sfide sempre più profonde a ritmi crescenti e ormai incalzanti. La politica fa fatica a seguire la scienza nel suo vorticoso sviluppo ed entrambe stentano a riconoscere i valori e le aspirazioni dell’altra. Tutto ciò produce smarrimento. E la filosofia sembra addirittura celebrare la sua fine a causa, notava Heidegger, del suo completo risolversi nelle scienze. Ma si tratta di una fine apparente. L’uomo tecnologico del nostro tempo sembra non avere più bisogno della filosofia perché l’ha sussunta nella sua immagine del mondo. E la salvezza non sta nel rifiutare la nuova era della conoscenza, ma nello sviluppare un pensiero critico - una filosofia - che sia alla sua altezza.
Ci sono poi altri due significati del punto interrogativo. Possiamo intendere questa frase in due modi: nel primo la scienza svolge un ruolo attivo e pone nuove domande alla politica. Domande difficili, cui molti rispondono in maniera inadeguata. Inadeguate sono quelle forze - politiche, religiose, culturali - che vorrebbero mettere la mordacchia alla scienza e sacrificare quell’autonomia della ricerca che è uno dei capisaldi su cui, a partire dall’Europa, è stata edificata la cultura democratica negli ultimi secoli. Ma inadeguati sono anche quegli uomini di scienza che, sebbene portatori di una rivoluzione epistemica che nel XX secolo ha scoperto i temi della complessità e della non linearità, continuano ad applicare paradigmi classici alla società, col risultato di mettere in crisi, quando lavorano in laboratorio, la scienza lineare, ma di riproporre un approccio ingenuamente neopositivista quando escono dal laboratorio.
Ma politica della scienza è anche il modo di organizzare la scienza nella società. E qui Walter Tocci ricostruisce la sua peculiare esperienza di osservatore privilegiato, in quanto protagonista di due fasi durate quasi un decennio e che sono giunte a conclusione con un risultato inatteso: la delusione. La prima fase è quella del contrasto politico all’attività dei precedenti governi Berlusconi - incapaci di leggere il declino del paese come frutto di un modello di sviluppo senza ricerca - e dal tentativo, esperito da Letizia Moratti, di svuotare il concetto di autonomia della scienza e di aziendalizzare la ricerca pubblica. È stata una fase dura, ma capace di suscitare coesione e speranza nella comunità scientifica.
Poi ci sono stati gli anni del governo Prodi. Col recupero, certo, di molti dei danni provocati da Letizia Moratti ma segnati anche dall’incapacità del centrosinistra di portare la ricerca scientifica e l’educazione al centro del suo programma di rilancio del paese. Questa incapacità, a modesto avviso di chi scrive, ha accentuato il declino dell’Italia e ha determinato la fine dell’esperienza del governo dell’Ulivo. Questa incapacità, riconosce Walter Tocci, ha provocato una delusione nella comunità scientifica. Tanto giustificata, quanto pericolosa.
Eccoci, dunque, all’ultimo significato del segno interrogativo: vale la pena continuare a fare, in Italia, politica della scienza? Vale la pena che scienziati e politici si pongano il tema del futuro del paese, oltre che della sua ricerca? La risposta di Tocci è secca. Occorre andare oltre la delusione. È settembre, occorre ripartire.

il Riformista 15.9.08
Summer school. Elogio della «bella sconfitta». Veltroni si rifugia nella «diversità morale»
di Stefano Cappellini


Sinalunga (Siena). La summer school del Pd è cominciata con il vicesegretario Dario Franceschini che ammoniva sulla caducità del capitalismo ed è finita con un Walter Veltroni a un passo dalla teoria della decrescita: «L'età dell'abbondanza ci sta rendendo più poveri», ha detto il leader a Sinalunga, Siena, in uno dei passaggi più significativi del suo discorso di chiusura della tre giorni di formazione per giovani democrat. In campagna elettorale il Pd aveva scommesso sul ritorno alla crescita, su un nuovo boom economico e sullo sfondamento al centro con una ricetta economica di taglio montezemoliano. Dopo sei mesi, e dieci punti di distacco alle elezioni (diventati venti nei sondaggi), il minimo che si possa dire è che il partito è di nuovo in cerca di un centro di gravità permanente.
Il discorso di Veltroni, in cui l'apologia della «bella sconfitta» prevale alla lunga sulla costruzione della rivincita su Berlusconi, è tutto centrato sull'orgoglio e sui valori, sulla descrizione di uno spirito del tempo ostile e per ora imbattibile, come già era accaduto nella lettera-manifesto inviata a Repubblica in agosto che, per il suo pessimismo, aveva ingenerato sospetti su un possibile passo indietro del leader. Nella missiva era citata Isidora, utopica e letteraria terra della felicità, ieri la citazione era da Into the wild, libro e film tratti dalla storia (vera) di un ragazzo che fugge la civiltà reimmergendosi nella natura selvaggia. Veltroni attacca l'idea dominante di un «io separato dal noi»: «Un virus che può fare solo male a una comunità», parla di «genocidio dei valori», poi denuncia che in Italia c'è «una vera e propria perdita di senso, sotto una fitta coltre di egoismo e cinismo».
E' in questo quadro che l'ex sindaco di Roma torna a scolpire la differenza tra destra e sinistra anche come superiorità morale della seconda sulla prima («La destra è responsabile di questo clima di una società senza valori in cui tutti coltivano solo il proprio desiderio individuale», dice Veltroni, che poi aggiunge: «La destra sta rovinando economicamente, politicamente e moralmente l'Italia»), mentre il crepuscolare senso di sconfitta epocale che innerva tutta la lezione veltroniana, e che lo porta a parlare di «autunno della democrazia», è compensato dalla convinzione che i democratici erano e restano «dalla parte giusta», ieri con Martin Luther King come oggi con Obama (e Veltroni stesso): «meglio perdere che perdersi», sembra dire il segretario, non a caso citando uno dei motti preferiti di Arturo Parisi, il più feroce critico di Veltroni, ieri però il primo (e a lungo l'unico) a spellarsi le mani per la lezione di Sinalunga. King è stato citato pure per invitare i giovani a diffidare sull'uso dei sondaggi (un'autocritica per l'annunciato pareggio alle politiche?): «Non guardate i sondaggi - ha esortato il segretario del Pd - perchè se nel 1963 Martin Luther King avesse prima consultato un sondaggio se il paese fosse d'accordo sull'integrazione razziale, sarebbe stato travolto dai no».
Veltroni ha attaccato Berlusconi sulla scuola («Per il pensiero democratico la scuola è il centro di tutto, per la destra è un costo da tagliare») e sulla logica repressiva che ispira le misure del governo in materia di sicurezza. Ha bacchettato Alemanno e La Russa su antifascismo e memoria. Ha detto: «L'Italia si renderà conto a breve che sette anni di governo della destra l'hanno ridotta nelle condizioni drammatiche in cui si trova oggi», mettendo evidentemente tra parentesi i quasi due anni di governo Prodi. Non sono mancati nemmeno, con la copertura del richiama alla «bella politica», riferimenti al degrado del dibattito interno al Pd: «La vera politica, quella alta, ha poco o nulla a che fare con il tatticismo esasperato, con la furbizia come valore, con le manovre nascoste del correntismo, con il gioco della composizione e scomposizione delle alleanze fini a se stesse, prive di visione e di comune sensibilità sui programmi e sulle cose concrete. La politica è altro, è passione, disinteresse, amore per il proprio paese». Quindi Veltroni ha concluso dettando le parole d'ordine del futuro: «Solo noi possiamo essere l'alternativa nuova di cui il paese ha bisogno. Dobbiamo saperlo e lavorare perchè al tramonto del berlusconismo corrisponda l'alba di una stagione di riforme, di modernizzazione e di moralizzazione della vita pubblica». Se non è eterno il capitalismo, magari neanche Berlusconi.

l'Unità 15.9.08
Google lancia Chrome. E il computer diventa archeologia
di Toni De Marchi


IL NUOVO browser in realtà non è un vero browser. La sua nascita segna l’inizio di una nuova era in cui potremo fare a meno del sistema operativo e di pesanti programmi per lavorare solo in Rete

Tutto sommato Bill Gates potrà dire che, quando è successo, lui era già in pensione. E dunque... Ma dalle parti di Redmond, nello Stato di Washington, di sicuro c’è più di qualcuno che dorme male dopo che quelli di Google hanno presentato Chrome, un «qualcosa» definito, con un evidente understatement, un browser per Internet, ma che sembra davvero l’ultima chiamata per il computing come lo conosciamo oggi. E forse, cercando di riacciuffare il sonno, gli uomini di Microsoft riascoltano la più gigantesca profezia tecnologica errata mai pronunciata: «Internet è un fenomeno che non durerà». Autore: William Henry Gates III, circa 1995.
Perché con Chrome (ma è solo un simbolo, la cui immanenza è determinata dal nome che lo propone: in realtà c’è già tutto un mondo in silenzioso movimento che sfugge ai più) l’informatica delle macchine, dei programmi chiusi, pesanti centinaia di milioni di byte, delle applicazioni desktop sta per essere immersa e travolta da una nuvola. Il «cloud computing», che si può spiegare in tanti modi ma che non si può esattamente definire, è il prossimo paradigma dell’informatica nella sua declinazione quotidiana e pratica.
Nella nuvola già ci siamo, e da tempo. Senza che ce ne accorgessimo, anche se il transito è epocale sia pure nel tempo sincopato dell’informatica. Senza volersi troppo arrischiare in paragoni imparagonabili, potremmo però dire che equivale al passaggio dal telegrafo al telefono, dalla comunicazione punto a punto alla comunicazione dal punto al tutto.
La nuvola è naturalmente Internet, la Rete. Quella rete che sta ormai esaurendo il numero degli indirizzi disponibili (e dovrà dunque riorganizzarsi in fretta) proprio mentre è sempre più vicino l’avvento dell’Internet of Things, l’Internet delle cose, dove ogni oggetto - dall’orologio al telefono al forno a microonde - sarà interconnesso e capace di comunicare con il resto della rete.
La nuvola, dove già oggi avvengono cose che noi umani non avremmo neppure potuto immaginare solo dieci anni fa, quando un browser era ancora un browser. Perché una volta, ai tempi di Mosaic, di Netscape, dei primi Internet Explorer, il «navigatore» internet era appunto solo un browser, letteralmente uno sfogliatore, un modo per passare velocemente da una pagina a un’altra del web.
Pensateci: neppure più il giornale, una volta atterrato su Internet, si può più sfogliare. Passi per i video, passi per le gallerie fotografiche. Ma i sondaggi, l’invia parere, e tutto il resto presuppongono un’interattività, uno scambio di informazioni e di dati. E che dite della banca, o degli aerei. Persino i treni: parti dando i numeri al controllore, quelli della tua prenotazione che ti è arrivata grazie a Internet.
Macché sfogliare, ormai: siamo ad un livello di interazione con il mondo che diventa ogni giorno più spinto. E tuttavia tutto si fa ancora con un computer (dunque un sistema operativo), con dei programmi per scrivere e far di conto, con un browser per mettersi in relazione con la Rete. Tre strati, affastellati l’uno sull’altro: con il loro carico di incompatibilità, di complessità e di ridondanze. L’idea che sta alla base di Chrome è che bisogna buttare via il browser e sostituirlo con qualcosa che sappia fare bene tutto quello che il browser fa oggi piuttosto male. Per Google è arrivato il momento che le web application abbiano un loro ecosistema dove poter girare al meglio, dove esprimere tutte le potenzialità per ora compresse.
Insomma, tra non molto potremmo prescindere dal sistema operativo e da programmi scritti per girare su un computer specifico e sostituirli con un oggetto che assomiglia ad un browser, ma che browser non è, e può funzionare ovunque. Ecco perché Chrome si comporta come fosse un vero e proprio sistema operativo. Spieghiamoci: se oggi aprite cinque pagine con un browser e una di queste si blocca, l’unico modo per ripristinare le funzionalità è di chiudere il browser e perdere tutto il lavoro. Con Chrome ogni pagina diventa autonoma. Si blocca? La si chiude senza che interferisca con le altre.
Naturalmente ognuna di queste pagine può essere indifferentemente una pagina di un giornale o un foglio di calcolo tipo excel, una pagina di prenotazione dei voli o un sito di social networking. Sono anni che Google lavora con applicazioni che stanno in Internet. Hanno realizzato persino il loro Office. Ma le applicazioni tradizionali hanno avuto sinora poca fortuna nel passaggio al web proprio perché i browser sono nati per sfogliare pagine, non per scriverle. Da oggi le scriveranno e Microsoft potrebbe finire in una nuvola.

l'Unità 15.9.08
Paleoantropologia. Secondo una nuova ricerca, costruiva strumenti più efficienti di quelli del sapiens. Il commento di Robert Sawyer autore di un libro su questa specie
Neanderthal, il nostro cugino tecnologico e poco superstizioso
di Davide Ludovisi


Chi vincerebbe una partita a scacchi tra un uomo della nostra specie e un Neanderthal? La risposta non è affatto scontata. Un team di ricercatori inglesi e americani ha studiato per tre anni gli strumenti utilizzati dalle due specie, riproducendoli e testandone l’efficienza, la foggia, la materia prima per fabbricarli e la loro durata nel tempo. Si tratta di due tipologie di oggetti in pietra: i «flake» (scaglie), pietre più ampie utilizzati da entrambe le specie, e i «blade» (lame), più strette, in seguito adottate solo dagli Homo sapiens. Lo studio pubblicato su «Journal of Human Evolution» ha dimostrato che non solo non ci sono differenze di efficienza tecnologica tra le due tipologie di strumenti, ma che in alcuni casi i flake erano migliori dei blade.
«La nostra ricerca scardina la credenza della supposta inferiorità dei Neanderthal che si basava sull’inefficienza tecnologica dei loro strumenti», racconta Metin Eren, ricercatore dell’University of Exeter e principale autore della pubblicazione.
Durante lo spostamento dall'Africa all’Europa dell’Homo sapiens, avvenuta circa quarantamila anni fa, il nostro continente era già occupato dai Neanderthal, che sono scomparsi più o meno dodicimila anni dopo.
«È interessante constatare per quanto tempo sia durato il pregiudizio nei confronti dei Neanderthal. Certo, ora non è rimasto nessuno di loro a formare una lobby per difendersi dalla cattiva pubblicità. Tuttavia, nonostante fossero fisicamente più robusti di noi, e avessero un cervello grande come o più del nostro continuiamo ancora a dipingerli come esseri inferiori», commenta lo scrittore Robert J. Sawyer, premiato con l’Hugo Award per la fantascienza per il romanzo La genesi della specie (Hominidis), il primo di una trilogia che esplora una Terra alternativa dove i Neanderthal sono sopravvissuti fino ai giorni nostri.
La ricerca ha già dimostrato che i Neanderthal erano bravi cacciatori almeno quanto gli Homo sapiens e sembra non avessero nemmeno svantaggi nella comunicazione. «Fu un paleontologo francese, Marcellin Boule, a pubblicare per primo un’analisi completa sui Neanderthal negli anni Venti - spiega Eren - Sfortunatamente non si rese conto che i campioni che stava studiando erano quelli di un vecchio Neanderthal distorto dall’artrite, così classificò tutti i Neanderthal come dei bruti, ricurvi e stupidi».
In realtà la nostra supposta superiorità deriva anche dal fatto che, a differenza dell’altra specie, ci sono prove che l'Homo sapiens avesse un complesso culto dell’aldilà. «Circa quarantamila anni fa abbiamo iniziato a seppellire assieme ai nostri morti oggetti come strumenti, monili e pezzi di carne, cose troppo preziose da mettere dentro a un buco senza la convinzione che sarebbero servite ai morti in una realtà ultraterrena», racconta Sawyer. «Ebbene, i Neanderthal erano nostri vicini, ci hanno visto fare quelle cose e non hanno mai copiato quel comportamento. Si potrebbe pensare che non siano mai caduti nella trappola della superstizione». Sono sembrati anche molto meno interessati al make-up e ai gioielli rispetto ai nostri antenati: «Noi ci ricoprivamo di ocra e fabbricavamo collane, loro no», continua lo scrittore. «Tendiamo a considerare la superstizione e la vanità come segni dell’intelligenza superiore degli Homo sapiens, ma i Neanderthal forse li ritenevano segnali della nostra bassa razionalità e di una mentalità superficiale».
Tornando agli strumenti, perché l’Homo sapiens ha adottato la tecnologia «blade» durante la colonizzazione in Europa? Le ricerche suggeriscono che la ragione fosse simbolica. Metin Eren la riassume così: «Colonizzare un continente è dura. Colonizzare un continente durante l’Era glaciale lo è ancora di più. Per i primi coloni Homo sapiens in Europa, la nuova tecnologia adottata era più attraente, e potrebbe essere servita come collante sociale, per mantenere i legami e gli scambi all’interno del proprio gruppo».

Corriere della Sera 15.9.08
Continua la polemica sull'assassinio del commissario di polizia
Calabresi, Pannella difende Sofri
E l'ex capo di Lc ribadisce sul Foglio: quell'omicidio non fu un atto di terrorismo
di Alessandra Arachi


Il leader referendario: io voglio sapere se per uno come lui è ancora giustificata la detenzione

ROMA — Questa volta il suo scritto è stato ben più breve, consono al titolo, «Piccola posta», della sua rubrica sul Foglio. Ma non certo meno incisivo. Ieri Adriano Sofri sul giornale di Giuliano Ferrara è tornato a parlare dell'omicidio del commissario Luigi Calabresi. E non ha esitato: «Salvo che si usi il termine terrorismo come un generico insulto, l'omicidio di Calabresi non può passare, nella versione che ne hanno dato imputazioni, processi e sentenze, per un atto di terrorismo ». Punto. Non molla il colpo l'uomo che proprio per l'omicidio di quel commissario di polizia milanese sta scontando ventidue anni di carcere. Fuori il dibattito ferve: fu un atto di terrorismo l'omicidio del giovane Calabresi? Del resto questa volta è stato lui, Sofri, a scatenarlo. E sono in tanti adesso che vanno contro le sue parole, le sue convinzioni. Tanti da sinistra, anche. Non Marco Pannella.
Il leader radicale ieri pomeriggio ha dedicato quasi un'ora proprio alla vicenda Sofri-Calabresi, la metà del tempo della sua conversazione settimanale con Massimo Bordin, lì nella diretta dalla radio del partito. «Sono molto grato ad Adriano...», il suo esordio prima di tagliar corto sulla domanda di base: fu terrorismo?
Marco Pannella è serafico, si rifà al passato. Al suo: «Ricordo che quando giunse la notizia del mandato di arresto per Sofri, vent'anni fa, scrissi: "Non dobbiamo aver paura di nulla nella storia di Adriano. Poichè è vero che il potere e il terrorismo hanno avuto il loro rapporto, ma questo non c'entra nulla con la storia di Sofri. Con questa storia. Diamo un esempio e diciamo noi cosa sappiamo di quella storia».
Vent'anni dopo di quella storia si sa soltanto quello che i giudici hanno scritto, con grande chiarezza: fu Sofri il mandante dell'omicidio. E' lui che sta scontando la pena. E di questo Pannella non si dà pace. «Io voglio sapere se per la nostra cultura, la nostra civiltà, il diritto positivo, per uno come lui è ancora giustificata la detenzione. L'ho chiesto in tutti i modi, anche alla Corte Costituzionale. Mai avuto risposta. Eppure in questi anni Adriano ha dimostrato come ha chiuso Lotta continua, come ha vissuto in galera, come tutto questo...».
Le ultime considerazioni sono tutte per l'anarchico Pino Pinelli. E' Massimo Bordin che lancia a Pannella la provocazione: «Il caso Pinelli è una vergogna che lo Stato italiano deve ancora sanare, mentre siede in Parlamento il giudice che chiuse il suo caso dicendo che in questura Pinelli ebbe un "malore attivo".... ». Rilancia Pannella, sarcastico: «E' il fascismo dell'antifascismo ».

Corriere della Sera 15.9.08
Il presidente della Puglia (Prc): sulla vicenda troppe parole hanno avuto il sapore dell'ambiguità
Vendola: Adriano ha sbagliato In quel delitto i semi del partito armato
di Paolo Conti


ROMA — «Una disputa che possa apparire troppo accademica o filologica sul caso Calabresi non mette fino in fondo nel conto l'eventualità di toccare nervi scoperti, dolori ancora acutissimi e reattivi sulle parole. E molte, troppe parole hanno avuto spesso il sapore dell'ambiguità, del giustificazionismo, di una distinzione tra diversi gradi di violenza », dice su Adriano Sofri Nichi Vendola, Rifondazione, presidente della regione Puglia dopo le critiche di Piero Sansonetti su «Liberazione».
Adriano Sofri ha sbagliato sottraendo l'omicidio Calabresi al capitolo del terrorismo?
«Assolutamente sì. Sofri aveva le migliori intenzioni, essendo l'intellettuale di rara finezza che è. Ma queste virtù non sono sufficienti per consentire di confezionare quel discorso come se fosse dotato di una intrinseca forza scientifica».
Dolori e nervi scoperti. Di Mario Calabresi e della famiglia?
«Quelli intuiti negli occhi di Mario da chi l'ha conosciuto costruendo con lui rapporti di stima e affetto. I suoi scritti ci hanno riportato a una vicenda terribile. La morte di Luigi Calabresi non può compensare nessun buco nero di quegli anni, né la morte di Pinelli, né l'accanimento contro gli anarchici. Una morte è solo una sottrazione. Non aggiunge nulla. In quel caso ha persino eretto una barriera contro la ricerca della verità sui mandanti e gli esecutori della strage di piazza Fontana ».
L'omicidio Calabresi fu terrorismo?
«Fu certamente un atto terroristico. Non ancora delle Br, forse di cani sciolti di un'area dell'estrema sinistra in tumultuosa trasformazione. Siamo ai primi semi di quella fioritura livida che determinerà il partito armato».
Ritiene un errore aver descritto l'azione di «qualcuno che disperando della giustizia pubblica e confidando sul sentimento proprio volle vendicare le vittime di una violenza torbida e cieca», come ha letteralmente scritto Sofri?
«Certo. Anche nel partito del terrore ci si è armati, supponendo di essere dotati di una particolare deontologia, nel nome della quale compiere un atto di igiene politica e morale. Salvo poi ottenere effetti paradossali. Pensiamo al caso Moro. Si voleva processare lo Stato borghese attraverso un grande statista. Quella farsa di processo trasformò invece Aldo Moro in un "ultimo", in un povero vecchio alla fine abbandonato come un fardello in un'automobile. Da quel momento le Brigate rosse non hanno mai più potuto parlare a nome delle vittime ma solo dei carnefici. Moro diventò simbolo della sofferenza, di un potere arbitrario che sottrae a Dio il mestiere di concedere o togliere la vita umana».
A proposito di parole. L'ex parlamentare di Rifondazione Francesco Caruso ha avvertito il Pdl: fate pure queste riforme, poi non vi lamentate se vi ritrovate un proiettile conficcato in una gamba.
«Appartiene al repertorio delle parole malate. C'è il problema dell'uscita delle minoranze estreme dall'ambito della rappresentanza democratica. Una questione della democrazia che va posta in termini politici. Evocare fantasmi plumbei e pesanti per la storia italiana non serve davvero a nessuno».
Molta sinistra deve ancora fare i conti con la violenza...
«Infatti occorre farli, i conti, con questo passato recente. Ma anche col futuro. Ormai il punto di arrivo è l'elaborazione del tabù assoluto. Ovvero: la vita umana è un bene intangibile, quella del mio nemico è sacra. Dovrà diventare un punto indiscutibile per tutte le culture politiche. Ogni contesa dovrà limitarsi al piano delle idee senza mai più desiderare la disintegrazione, l'umiliazione, la morte di chi è stato mitizzato come "il nemico"»
Lei parla anche per la sinistra non parlamentare ed estrema?
«Parlo per me, prima di tutto, ovviamente per le sinistre. La non violenza è l'approdo naturale dopo un secolo in cui lo scempio di vite umane è stato grandioso».
Sofri avrebbe fatto meglio a non scrivere quell'articolo?
«Le sue tesi vanno sempre guardate con attenzione, anche quando non si condividono. Il mondo migliora perché noi sbagliamo. E quando c'è buona fede vale la pena di correre il rischio di sbagliare».