giovedì 18 settembre 2008

l’Unità 18.9.08
Clandestinità. Europa, alt a Maroni
di Paolo Soldini

Sarà pure di cattivo gusto, ma è difficile sottrarsi alla tentazione del «noi lo avevamo detto». La norma del decreto sicurezza che introduce l’aggravante di «clandestinità» sui reati penali commessi da stranieri non è conforme al diritto comunitario. Va annullata e subito, se l’Italia vuole evitare, oltre che nuove brutte figure, severe sanzioni della Ue.
Secondo molti, l’aggravante non è conforme neppure alla Costituzione italiana, come hanno sostenuto questo giornale, i parlamentari dell’opposizione e i più autorevoli costituzionalisti che si sono espressi sull’argomento. Si tratta, insomma, dell’ennesima rodomontata del governo e particolarmente del ministro dell’Interno Roberto Maroni, il quale la sua "tolleranza zero" tende a manifestarla più verso il diritto e la logica che verso i criminali.
L’aspetto "europeo" della (s)maronata è stato ieri evocato dal commissario Ue alla Giustizia Jacques Barrot. Il quale non è, per così dire, il più prevenuto nei confronti del governo di Roma, avendo mostrato molta, molta (forse anche troppa) pazienza nel far correggere e limare a dovere l’ordinanza sulla rivelazione delle impronte dei piccoli rom, fino a renderla quasi potabile alle autorità di Bruxelles. Ma di fronte a una violazione del diritto comunitario tanto palese come quella contenuta nel decreto, nel punto in cui modifica l’art. 61 del codice penale, nemmeno Barrot ha potuto far finta di niente. Il punto principale dell’argomentazione del commissario, così come l’ha riferita ieri il suo portavoce, è che la modifica dell’art. 61, introducendo la residenza illegale tra le circostanze aggravanti di eventuali reati non fa distinzione tra cittadini extracomunitari e cittadini della Ue (la norma è diretta principalmente colntro i rom di origine rumena). Per questo motivo, che era stato richiamato anche dai parlamentari del Pd durante la discussione per la ratifica, il servizio giuridico del Parlamento europeo, su richiesta della deputata rumena Adina Valean, aveva emesso un parere di "incompatibilità" con la normativa Ue, ignorato allegramente, va da sé, dai servizi giuridici del ministero dell’Interno (ma che ci stanno a fare?). Il problema, però, non riguarda solo la mancata distinzione tra comunitari e no. Il decreto, che è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 25 luglio ed è in vigore dal 26, viola un principio giuridico fondamentale, e non solo nella giurisprudenza Ue: quello secondo il quale le aggravanti di reato debbono sempre attenere alla condotta del reo e non alla sua condizione. Un principio semplice semplice, che qualunque studente di Giurisprudenza sarebbe in grado di spiegare perfino al ministro leghista.
E non è tutto. Il portavoce di Barrot ha aggiunto che l’intera materia della sicurezza, con i tre decreti ancora non ratificati, è più che discutibile. Ci sono modifiche da fare, ha spiegato e l’intera legislazione è sotto esame. Vediamo ora se Maroni e soci continueranno a far finta di niente.

l’Unità 18.9.08
Pacchetto sicurezza
L’Europa boccia l’Italia «Norme da rivedere»
Per la Ue l’aggravante di clandestinità non si può applicare ai cittadini comunitari
di Marco Mongiello

L’eurodeputato Claudio Fava: si dimostra falso il via libera dell’Unione al governo

L’AGGRAVANTE di clandestinità per i reati commessi da persone residenti illegalmente in Italia non può essere applicato ai cittadini comunitari. Lo ha spiegato la Commissione europea al Governo italiano, ricevendo assicurazioni da Roma che la norma entrata in vigore a luglio sarà cambiata. Dopo la schedatura delle impronte digitali dei rom salta così un altro tassello fondamentale della strategia del ministro dell’Interno Roberto Maroni, e la celebrata benedizione di Bruxelles ai provvedimenti sulla sicurezza si è rivelata un pasticcio giuridico che costringe Palazzo Chigi ad un’imbarazzante marcia indietro.
Nel mirino dell’Ue, ha confermato ieri il portavoce del commissario alla Giustizia Jacques Barrot, Michele Cercone, «ci sono tre decreti che non sono ancora entrati in vigore», e il commissario francese «ha già chiaramente fatto capire al Governo italiano che ci sono delle modifiche da apportare affinché questa legislazione sia effettivamente in linea con il diritto comunitario». Inoltre «ci sono anche delle modifiche che abbiamo chiesto su una parte della legislazione che è già in vigore, ma che non ci è stata notificata». Si tratta proprio della controversa modifica dell’articolo 61 del codice penale che prevede un aumento della pena fino ad un terzo «se il fatto è commesso da un soggetto che si trovi illegalmente sul territorio nazionale».
Sulla provvedimento è stato sollecitato il servizio giuridico del Parlamento europeo che ha spiegato che «le disposizioni pertinenti del diritto comunitario si oppongono ad una legislazione nazionale che stabilisce come circostanza aggravante rispetto ad un crimine o un delitto il solo fatto che la persona coinvolta proveniente da uno Stato membro si trovi irregolarmente sul territorio di un altro Stato membro». Insomma, i cittadini comunitari non possono essere discriminati rispetto ai cittadini italiani e per la stessa ragione, ha spiegato una fonte della Commissione, «il Governo italiano dovrà eliminare tutte le norme che prevedono delle espulsioni o dei trattamenti automatici per i cittadini comunitari, che possono essere solamente valutati caso per caso».
Il risultato è che l’efficacia della norma che avrebbe dovuto mettere in riga gli immigrati delinquenti «è assolutamente annullata», ha spiegato l’eurodeputato di Prc Giusto Catania, coordinatore per il gruppo della sinistra europea nella commissione Giustizia e Libertà pubbliche dell’Parlamento europeo. In Italia la più grande comunità di cittadini stranieri è rappresentata dai romeni, cittadini dell’Ue dal 2007, così come la grande maggioranza dei rom sono cittadini italiani o comunitari. «Dopo le puntualizzazioni di Barrot il clima di autocelebrazione del Governo italiano sul presunto via libera della Commissione europea si è rivelato completamente falso», ha sottolineato Claudio Fava, eurodeputato coordinatore di Sinistra Democratica e coordinatore del Pse nella stessa commissione. Per il ministro dell’Interno del governo ombra del Pd, Marco Minniti, si tratta di «una severa bocciatura» dei provvedimenti di Maroni che conferma che «alcune scelte del Governo sui temi dell’immigrazione hanno collocato il nostro Paese in una posizione eccentrica rispetto agli altri Paesi europei». Secondo il servizio giuridico dell’Europarlamento infine la decisione su un’aggravante di pena per i cittadini extracomunitari compete agli Stati membri. Ma all’Assemblea di Strasburgo gli eurodeputati della sinistra si preparano a dare battaglia anche su questo punto.

l’Unità 18.9.08
Quell’Italia che rifiuta la libertà delle donne
di Chiara Valentini

SILVIA BALLESTRA Da oggi è in libreria Piove sul nostro amore (Feltrinelli), un viaggio nel mondo inospitale dell’aborto, in un paese, l’Italia, dove sta accadendo qualcosa di inquietante...

Un paese che ha una passione neanche tanto segreta per tormentare le donne. È questa alla fine dei conti l’immagine che vien fuori dal viaggio che la scrittrice Silvia Ballestra ha voluto compiere su un terreno dove ben poche della generazione under 40 si era finora avventurata, il terreno malfido e pieno di contraddizioni dell’aborto. Capisco bene che non deve essere semplice, per chi come Ballestra aveva nove anni quando la legge 194 era stata votata e 11 quando un referendum che voleva cancellarla veniva respinto massicciamente dal 68 per cento degli italiani, riprendere in mano una vecchia storia derubricata a lungo dal senso comune come fatto privato. Ma chi era cresciuta in quel «dopo» anche troppo rassicurante (quante volte, ancora fino all’altro ieri, abbiamo sentito ripetere come un mantra «l’aborto non si tocca...») ha anche un vantaggio, la capacità di indignarsi che nasce dalla scoperta di qualcosa che non si credeva possibile. E infatti è dall’inimmaginabile 8 marzo 2008 di Giuliano Ferrara, e dalla sua scelta di lanciare proprio quel giorno la sua creatura elettorale a sostegno di una moratoria dell’aborto che parte il libro di Silvia Ballestra (Piove sul nostro amore - Una storia di donne, medici, aborti, predicatori e apprendisti stregoni, Feltrinelli, Serie Bianca, pp. 176, 14 euro).
I segni che in Italia sta succedendo qualcosa di inquietante la Ballestra se li ritrova dove meno se l’aspetta. È in un ambulatorio dell’Aied che scopre l’esistenza di un turismo di specie nuova, tante italiane che se ne vanno in Francia, in Olanda o in Svizzera non per tentare in ambienti migliori quella pratica a rischio che è da noi la fecondazione assistita, ma per interrompere una gravidanza. In Canton Ticino ci sarebbe un calo notevole degli aborti se non ci fossimo noi, le straniere in arrivo da un paese cosiddetto evoluto, a far alzare la percentuale del 25 per cento. Perché? Le ragioni sono molte, e attengono a quella guerra neanche tanto sotterranea alla libertà riproduttiva delle donne di cui la moratoria peraltro fallita di Ferrara è stata solo un sintomo. Una trovata così apparentemente paradossale d’altra parte non sarebbe stata pensabile senza quel retroterra di movimenti per la vita e di centri di aiuto a non interrompere la gravidanza o senza le schiere di militanti pro life appostati all’ingresso degli ospedali che gridano «stai per uccidere un bambino» e sventolano cartelli del genere «Mamma rivoglio bene, non farmi del male».
Ma nel mondo pro life non tutto è così scontato. Meno prevedibile per esempio è il ricorso alla psicoanalisi usata come barriera contro il relativismo culturale che viene fatto nelle scuole di formazione per gli attivisti della vita. In parte inatteso anche lo stile di comunicazione più amichevole di una parte dei centri di aiuto, dove cartelli e volantini rinunciano al terrorismo iconografico per mostrare pance rotonde e mazzi di margherite. Più che donne assassine, sembrano suggerire queste immagini, donne da aiutare e sostenere. Ma poi, approfondendo meglio, Ballestra scopre una specie di doppia morale. «Non sei assassina, ma commetti un omicidio» è il messaggio sotterraneo. Assistendo ad una lezione del professor Mario Palmaro, docente alla Pontificia università Regina Apostolorum, l’astro nascente della bioetica più integrista, comincia a capire la ratio di questa offensiva che specie dopo il fallito referendum sulla fecondazione assistita sta avvolgendo la 194. L’obiettivo, almeno per il momento, non è tanto di mettere mano alla legge, ma di trasformare in senso sempre più negativo la percezione che la società ha dell’aborto. «Far vedere che esiste una 194 percepita e una 194 reale, che ha trasformato un delitto in un diritto», predica il professor Palmaro. Ed ecco la sua ricetta, obiezione di coscienza ad oltranza, «da parte di ciascuno di noi». Non solo insomma della moltitudine crescente dei ginecologi, che in varie regioni ha quasi paralizzato il servizio. No, qualunque strumento che in qualche modo si opponga al dispiegarsi della vita va mandato in tilt. E così i medici del pronto soccorso rifiutino di prescrivere la pillola del giorno dopo e i farmacisti di venderla, per non parlare di quella bestia nera che è la Ru486, la killer pill nel linguaggio antiaborista. Questo farmaco che consente di evitare i ferri e l’anestesia, in uso da tempo in tutto l’Occidente, ha infatti la grave colpa di «banalizzare l’aborto» cancellandone l’aspetto cruento, di renderlo più leggero e accettabile. E quindi in Italia, nonostante la sperimentazione di Silvio Viale a Torino e qualche tentativo in Emilia e Toscana, le donne devono continuare ad «abortire con dolore».
In questo territorio sempre più inospitale che è oggi l’interruzione di gravidanza si aggiranno perplesse ragazze e giovani donne. Sono in numero molto ridotto rispetto al passato, visto che la 194 ha dimezzato le cifre. E sono più isolate. Scrive Ballestra che oggi la grande maggioranza delle giovani si considera immune da qualcosa di cui si parla così poco, non crede che toccherà proprio a lei. Quando succede il problema è grande, come la vergogna che le accompagna in un percorso accidentato di visite e certificati spesso difficili da ottenere, mentre le settimane passano e la paura di non fare in tempo cresce. È forse la parte più bella del libro il racconto di questi aborti legali a cui si arriva avendo sentito parlare in modo piuttosto vago di libera scelta e di autodeterminazione femminile. Come la ragazzina appena diciottenne che piomba in ospedale senza neanche una camicia da notte visto che nessuno le ha detto di portarla, e si ritrova annichilita davanti ai medici «con certi sandaletti azzurri ai piedi e la gonna tirata su, lo slip appallottolato in una mano e gli occhi fissi al soffitto» e poi si trascina per anni un lutto difficilmente gestibile. O quell’altra che seduta in attesa su una panchetta davanti alla «stanza 194» dell’ospedale milanese di Niguarda «sente uno strano rumore, come di aspirapolvere... un rumore assordante, lancinante, che ferisce dentro e fuori».
C’è da dire che in trent’anni è cambiata la percezione stessa della gravidanza, anche per quelle ecografie che ti fanno vedere il feto, quegli esami che ti fanno sapere molto presto se sarà maschio o femmina. La rinuncia può essere più dura, più lacerante. Ma di questi mutamenti e sentimenti c’è poco spazio per parlare. In un paese come l’Italia è pericoloso farlo, puoi sempre trovare un ateo devoto o un militante per la vita che sta lì pronto a ritorcerti contro il tuo dolore, a trasformarlo in un’arma contundente. E così quel poco di riflessione che si è sviluppata negli ultimi anni è stata più uno scontro all’arma bianca che un’analisi meditata. Con qualche femminista come Eugenia Roccella che è passata dall’altra parte e poche altre che invece hanno cercato di aprire nuove porte. Con una di loro, la storica Anna Bravo, Ballestra si sente in sintonia, per quel suo coraggio a sostenere che nell’aborto ci sono due vittime, la donna e anche il feto. È una riflessione che scotta, in presenza di quei «diritti del concepito», perno della legge sulla fecondazione assistita, che ha contrapposto il nascituro alla madre, con quel che ne è conseguito. Allo stesso tempo sono evidenti i prezzi che stiamo pagando proprio per aver lasciato alla Chiesa il monopolio della riflessione etica sui temi della vita. Anche questo viaggio su territori poco frequentati ha il merito di ricordarcelo.

Corriere della Sera 18.9.08
Un libro inchiesta sul mondo dei consultori, dei reparti maternità, dei medici. E il lacerante dibattito sulla vita
Il mio viaggio nell'Italia della 194
Silvia Ballestra: «È in corso una campagna che trascura la realtà»
di Ranieri Polese

Il titolo, Piove sul nostro amore (Feltrinelli, pp. 174, e 14), ripreso com'è da Modugno — Piove: ma piove piove sul nostro amor — farebbe pensare a un romanzo sentimentale riveduto in chiave post-avanguardia, visto che l'autrice è Silvia Ballestra ( Il compleanno dell'Iguana, La guerra degli Anto'). Invece non è un romanzo. E se di un sentimento si deve parlare, è l'indignazione con cui la scrittrice compie un viaggio nell'Italia del 2008 per vedere se c'è davvero, come dicono i cattolici e i pro life, «un'emergenza legata ai temi della vita, se davvero italiane e italiani si sentono minacciati dal dilagare dell'aborto, dall'abuso della pillola del giorno dopo, dal rischio dell'eugenetica». A 30 anni dalla 194 (promulgata il 22 maggio 1978, confermata tre anni dopo dalla sconfitta del referendum abrogativo proposto dal Movimento per la vita: il 67,9% di no), l'interruzione volontaria di gravidanza funziona: il numero di aborti è dimezzato.
Perché dunque l'indignazione? «Perché — dice Ballestra — è in atto una campagna feroce contro l'aborto, che si prende grandissimi spazi su giornali e tv, e che vede un fronte d'attacco composito che va dal Papa — dai Papi, direi, anche Giovanni Paolo II non ci andava leggero — ai medici obiettori sempre più numerosi, dai movimenti pro life diffusi ovunque fino a Giuliano Ferrara, che ha partecipato alle ultime elezioni politiche con una lista a sostegno della sua proposta di moratoria sull'aborto». Sì, ma la lista Ferrara ha preso solo lo 0,3 per cento dei voti. «È vero. Però, intanto, si è creato un clima di demonizzazione dell'aborto. Si sono usati termini come "assassinio" o "eugenetica", equiparando l'aborto terapeutico previsto dalla legge alle pratiche naziste. Quando, in febbraio, a Napoli la polizia entrò nel reparto di Ostetricia e ginecologia dove una donna aveva fatto un aborto terapeutico perché il figlio concepito era affetto da gravi malformazioni... ». La polizia era stata chiamata da un portantino che denunciava un infanticidio: falso, ma il giudice autorizzò l'invio di una donna poliziotto. Il giornale di Ferrara denunciò quel caso come l'omicidio di un bambino malato, un caso di eugenetica nazista. «È stato uno dei picchi raggiunti da questa ondata anti-abortista. Tutto era cominciato qualche anno prima, con la brutta legge 40 (19 febbraio 2004) sulla procreazione assistita: il riconoscimento dei diritti per l'embrione è un primo passo per togliere diritti alle donne. È chiaro che se quello è un essere vivente con i suoi diritti, chi abortisce è un'assassina. È assurdo, perché la donna e l'embrione non sono esseri indipendenti».
Da allora, ricorda Ballestra nel libro, le donne sono tornate in piazza: nel 2006 con la manifestazione Usciamo dal silenzio, quest'anno per protestare contro i fatti di Napoli. «Le donne a quel diritto conquistato non vogliono più rinunciare. Ma non si può non vedere — dice Ballestra — come gli antiabortisti ormai, giorno dopo giorno, si fanno più insistenti». Proliferano siti pro life che mostrano feti maciullati; nelle strutture pubbliche ci sono sempre più medici obiettori; farsi prescrivere la pillola del giorno dopo («un anticoncezionale, si badi bene — ribadisce l'autrice — che in altri Paesi è in vendita tra i prodotti da banco») è un'impresa; e per la Ru486 («un farmaco abortivo») è cominciato il turismo sanitario.
Indignata contro questo clima («sembra che tutti abbiano dimenticato la differenza sostanziale: i laici non vogliono imporre niente a nessuno, aborti o eutanasia; sono i cattolici che vogliono impedire agli altri di esercitare la propria libertà di scelta»), Ballestra va in giro nell'Italia 2008 raccogliendo storie di donne, di medici, di ospedali, di consultori, di antiabortisti. L'inizio è a Roma, l'8 marzo, con il ricevimento delle donne in Quirinale e il comizio della lista Ferrara a piazza Farnese; prosegue con la descrizione di due riunioni di Cav (Centri d'aiuto alla vita, ormai fortemente presenti anche negli ospedali), una a Magenta e una a Corbetta. A Corbetta parla il professor Mario Palmaro (docente di bioetica della Pontificia Università Regina Apostolorum) che dice che la legge 194 «trasforma un delitto in un diritto» e che contando 4 milioni e 800 mila aborti compiuti dall'entrata in vigore della legge, afferma che i 4 milioni e 800 mila donne che li hanno fatti «sono una bomba atomica antropologica spolverata sulla nostra società».
Ci sono, poi, tre lunghe interviste. Una al professor Francesco Dambrosio, il medico-simbolo della Mangiagalli di Milano oggi in pensione, denunciato nell'88 per gli aborti terapeutici con la sua équipe,
assolto nel 2000. Un'altra è con il dottor Silvio Viale di Torino, che usa la Ru486 ed è indagato per «violazione della legge 194». C'è infine un lungo colloquio con la storica Anna Bravo, che in un'intervista alla Repubblica
disse: «Tendevamo a sorvolare sul fatto che le vittime erano due, la donna e anche il feto». Scatenando le reazioni di tante che, preoccupate dalla crescente ondata cattolica, le rimproveravano di fare il gioco del nemico. Invece, sostiene la storica, proprio l'aver lasciato in ombra la questione etica ha concesso tanto terreno agli antiabortisti, che oggi si ergono come depositari della morale. Certo, di aborto le donne non parlano molto. Pochi film e libri ne trattano, anche se recentemente due pellicole — l'americano
Juno, il rumeno Quattro mesi, tre settimane, un giorno —
hanno fatto discutere. Rimane, l'aborto, l'oggetto di confidenze tra amiche, un pegno di complicità. «Nessuna donna — scrive Ballestra — ha mai abortito con leggerezza». Pesa, comunque, il silenzio. Ora soprattutto che i pro life alzano la voce. E magari, dice Ballestra, andrebbe ricordato che i pro choice sostengono la libertà per la donna di scegliere, e la donna può pure scegliere di avere il figlio. Senza forzature altrui, però. Del resto — ed è il tema del bellissimo ultimo capitolo — quelli che gridano tanto di essere «per la vita», che ne sanno davvero della vita?
È il messaggio con cui Betty, infermiera in pediatria all'Ospedale di Padova, invita a visitare quelle corsie «dove si trovano bimbi costretti a una vita di sofferenze ». In molti casi, dice, non c'è stata una diagnosi prenatale, o è stata fatta male. Ci sono i prematuri che vengono rianimati una, due, dieci volte: «A un certo punto, quando i genitori non ce la fanno più, quando il bambino non ce la fa più, lo lasci andare». A Padova, nella Basilica del Santo, dietro la tomba di Sant'Antonio ci sono le foto dei bambini che ce l'hanno fatta; ma anche i biglietti delle mamme che i bambini li hanno persi, ma ringraziano Dio che ha posto fine alle sofferenze di quei poverini.
Sopra, «Donna indecisa», disegno di Andrea Eberbach (Corbis).
Sotto, la scrittrice Silvia Ballestra Anna Bravo, militante femminista di lunga data, è una studiosa e autrice di numerosi saggi.

l’Unità 18.9.08
Allarme Fao: in un anno 75 milioni di affamati in più sulla terra
La crescita delle materie prime agricole mette in ginocchio i Paesi poveri. Berlusconi dimezza i fondi per la cooperazione
di Toni Fontana

LA FAME NEL MONDO
925 MILIONI gli affamati nel mondo. Nel 1996 i leader avevano promesso di dimezzare il loro numero entro il 2015.
75 MILIONI le persone che, dal 2007, si sono aggiunte a quelle che vivono con meno di 2 dollari al giorno.
30 MILIARDI la cifra che il direttore della Fao Diouf ha indicato per raddoppiare la produzione agricola nel pianeta.
1204 MILIARDI di dollari. A tanto ammontano le spese per gli armamenti. La Russia le aumenterà del 27% nel 2009, ma gli Usa spendono cinque volte di più.
376 MILIARDI di dollari vengono spesi ogni anno per i sussidi all’agricoltura dei Paesi ricchi.

PERIODICAMENTE seguendo un copione lamentoso e ormai logoro, alcuni grandi attori sulla scena mondiale, in questo caso il direttore della Fao Jacques
Diouf, sono costretti a ripetere che il numero di affamati del pianeta, sta aumentando, senza tuttavia indicare strade da percorrere. Così non si può far altro che prendere nota del fatto che, mentre i mercati finanziari internazionali stanno impazzendo, e a pochi mesi dal fallimentare vertice della Fao che si è risolto in una baruffa planetaria, l’Onu lancia l’ennesimo allarme. Dodici anni fa capi di Stato e di governo riuniti a Roma promisero di dimezzare i numero degli affamati nel mondo «entro il 2015». Ieri il capo della Fao, intervenuto ad un’audizione nel parlamento italiano davanti alle commissioni Esteri ed Agricoltura, ha detto che dallo scorso anno il numero degli affamati è aumentato di 75 milioni. In totale sono 925 milioni gli abitanti della terra che vivono con meno di 2 dollari al giorno. Secondo Diouf ci vorrebbero 30 miliardi di dollari per raddoppiare la produzione agricola e alimentare allo scopo di produrre cibo per tutti gli attuali abitanti del globo che, nel 2050, saranno 9 miliardi. Le cause, secondo il direttore dell’agenzia Onu, sono da ricercare principalmente nel vorticoso aumento dei prezzi delle materie prime agricole. Alcuni dati elencati ieri da Diouf fanno rabbrividire: nel periodo 2005-2006 i prezzi sono aumentati del 12%, del 24% nel 2007 e addirittura del 50% nell’anno in corso. La ricaduta di questa impennata è rappresentata dallo scoppio di violente ribellioni nell’emisfero sud della terra. Diouf ha proposto altre riflessioni a senatori e deputati. Ha ad esempio ricordato che nel 2006 le spese per gli armamenti hanno raggiunto la considerevole cifra di 1204 miliardi. Nei giorni scorsi la Russia ha annunciato un incremento del 27% del bilancio della Difesa per produrre nuove armi. Diouf non ha parlato di questo, ma ha detto di sperare che Mosca decida di estendere le superfici destinate alla produzione di grano. Non sembra tuttavia questa la principale preoccupazione di Putin che spende tuttavia per la Difesa un quinto di quanto investono gli americani. Fin qui dati interessanti e drammatici, ma nessuna analisi sul da farsi. Diouf batte cassa, ma ha dovuto ammettere che anche le promesse fatte solo qualche mese fa (giugno, nuovo vertice Fao a Roma) sono rimaste in gran parte tali, i soldi non sono cioè arrivati. In quella occasione, nonostante l’assenza dei leader dei Paesi più ricchi, vennero alla luce i nodi irrisolti: 376 miliardi di dollari spesi ogni anni dalle economie avanzate per finanziare i sussidi all’agricoltura che «drogano» il mercato e penalizzano i soggetti più poveri, il dilagare dei biocarburanti (benzine derivate da prodotti agricoli) che sottraggono terra al coltivazioni destinate a produrre cibo.
Su questo, a maggior ragione in un periodo di crisi economica, non è all’orizzonte alcun accordo tra i Paesi più forti e sviluppati. Ci sono poi, ma non da ultimo, pesanti responsabilità politiche anche delle istituzioni internazionali. Nel libro «la banca dei ricchi» Luca Manes e Antonio Tricarico puntano il dito contro la Banca Mondiale che si è distinta come «garante delle imprese private dei paese del nord». Tra gli esempi che citano la costruzione di dighe che producono energia elettrica per l’esportazione, ma causano l’inondazione di milioni di ettari, oppure faraonici oleodotti che devastano l’ambiente».
Le Ong, come ad esempio ActionAid, avanzano inoltre stime ancor più pessimistiche del direttore della Fao. Il segretario Marco De Ponte fa notare che «le cifre rese pubbliche ieri non riflettono il reale numero delle persone che soffrono la fame, riferendosi al solo 2007. Secondo i dati elaborati da ActionAid, che rimango comunque conservativi, l’aumento dei prezzi nel solo 2008 ha in realtà fatto lievitare il numero delle persone affamate di altri 100 milioni». Diouf ha anche lodato l’impegno dell’Italia, ma i conti non tornano. Per la Finanziaria 2009 si parla di tagli alla cooperazione del 60% rispetto al 2007 e del 40% rispetto al 2008. I fondi verrebbero dimezzati e le Ong sono in rivolta.

Corriere della Sera 18.9.08
Metropoli. Un volume dedicato alla città millenaria che è il cuore di tradizioni cristiane, ebree e musulmane
I tre volti di Istanbul dove convivono fede bellezza e tolleranza
di Carlo Bertelli

L'alta colonna di porfido cerchiata di corone di bronzo, che Costantino aveva eretto nell'anno 330, domina ancora, protetta com'è da profezie che la legano alla città e addirittura alla durata del mondo, il mercato dei libri, vecchi o nuovi, che da secoli si svolge alla sua base in un quartiere di Istanbul. Come in questo caso, è stupefacente constatare quante cose si sono tramandate, in questa città, lungo un tempo millenario, nonostante le distruzioni e i saccheggi dei crociati, il passaggio all'impero ottomano, il suo crollo e infine l'aggressione della modernità.
Costantinopoli, Eis-ten-polin, Istanbul: nelle sue metamorfosi, la città appare come un'immortale fenice. Ha fatto dimenticare il suo nome antico, Byzantion, e l'ha esteso a un'intera civiltà. Città di cambiamenti radicali, prima Costantino e Teodosio la ridisegnarono completamente, poi i crociati la distrussero per quanto poterono, quindi risorse e infine fu radicalmente ridisegnata da Maometto II il Conquistatore. Eppure non dimenticò mai se stessa, la sua posizione eccezionale di ponte tra l'Asia e l'Europa, i suoi panorami e i suoi ricordi storici. Come la torre che ricorda la fine di Eleandro, i castelli che segnano il punto in cui Alessandro attraversò l'Ellesponto, ossia il Bosforo, ovvero Karadeniz Bogazi. Pronta a interrogarsi e rimodellarsi, Istanbul trasformò profondamente l'architettura ottomana mostrandole il prodigio architettonico di Santa Sofia, che poi affidò all'architetto ticinese Gaspare Fossati per un restauro razionale e moderno. Nel XX secolo, si aprì al grande architetto berlinese Bruno Taut, che trovò una convergenza tra le sue architetture cristalline e il taglio netto degli spigoli nelle trombe d'angolo delle cupole ottomane.
Benvenuto dunque un libro, Bisanzio, Costantinopoli, Istanbul
(Jaca Book), ampiamente illustrato e condotto a più mani sotto la guida di Tania Velmans, che ha il merito di non interrompere la storia al 1453, l'anno della conquista turca, e anzi unisce Costantinopoli a Istanbul.
Fino a che non fu sorpassata da Londra e Parigi, Costantinopoli fu la più grande città d'Europa, la più grande, la più produttiva e la più ricca. E senza dubbio la città dai modi di vita più cittadini. Liutprando da Cremona, che la visitò nel X secolo, rimase sorpreso di quanta poca servitù avesse il patriarca. Mentre oggi sappiamo che il problema della servitù è tipico delle metropoli e del loro modo di vivere. Ed è appunto in questa lunga prospettiva che l'amore di un cittadino per la propria città diventa, nei libri di Orhan Pamuk, la ricognizione dell'essenza urbana filtrata attraverso le generazioni.
Costantinopoli era vissuta nella glorificazione della bellezza. Splendida la liturgia delle sue chiese, che aveva scosso e convertito il mondo slavo, dolce e incantevole il volto della Madre di Dio nelle icone. Era la bellezza che guidava nella scelta della moglie destinata all'imperatore, la quale veniva selezionata attraverso una specie di concorso. Anzi gli ultimi tempi di Costantinopoli imperiale dimostrano un attaccamento quasi disperato alla bellezza, come nei raffinati mosaici di Kariye Cami, dove, peraltro, il ricco committente, il primo ministro Teodoro Metochites, si presenta alla Madre di Dio con indosso un prezioso turbante turco.
L'ingresso nella modernità avvenne in un modo brutale, con la conquista turca. La vecchia città era stata abbandonata dai crociati e gli ultimi imperatori avevano cercato di farla risorgere. Ma ormai le mura del IV secolo erano diventate troppo ampie e racchiudevano più spazi vuoti che case. Costantinopoli era un guscio vuoto. Era divenuta la capitale del breve territorio cui si era ridotto l'antico impero. Con i Turchi, diventava la capitale di un impero vastissimo, armato e in crescente espansione. Rotto il vincolo religioso, che aveva dato un senso profondo alla sua vita, la città si proponeva a una totale rifondazione, come capitale d'un governo centrale dotato di burocrazia, d'un esercito permanente, di tribunali e dove i doveri religiosi si sarebbero esplicati nelle moschee e nelle scuole. Come indica assai Cigdem Kafescioglu, nel volume, modello di riferimento era quanto stava avvenendo in Italia, in particolare con le idee di pianificazione più ardite concepite dal Filarete.
L'Istanbul di oggi non è certo meglio, non è soltanto - la città di Costantino, e Giustiniano. Di lontano, è la straordinaria corona di cupole e minareti che ne definisce il profilo. La prima moschea fu eretta da Maometto II nel 1463, ma già con una visione complessiva della città, che comprendeva la collocazione del palazzo del sovrano a Topkapi, la trasformazione di Sant'Irene in arsenale, la conversione a moschea di Santa Sofia e infine la conservazione dell'ippodromo come piazza per le feste popolari.
Entro queste linee direttrici, restava aperta la fantasia alle innumerevoli soluzioni di bagni pubblici, mercati, case in legno o in pietra. Istanbul restava una città multietnica e cosmopolita, dove fino a pochi anni or sono si poteva comprare Shalom, il giornale scritto in castigliano della comunità israelita che aveva dovuto lasciare la Spagna. Dove a Kadikoy si compravano i dolci degli Armeni e nelle Isole dei Principi, nel Mare di Marmara, conducevano una vita serena i borghesi greci. Tutto ciò appartiene al passato. Nella chiesa bizantina trasformata nella moschea di Kilissé Cami, i mosaici dell'atrio sono stati imbiancati.
Al di là dell'insorgente fondamentalismo, è ancora vivo il ricordo dell'ultima metamorfosi. Fu quando, per un poeta francese, Pierre Loti, Istanbul s'immedesimò nel grande e dolente amore per la bellissima Aziyadé. Ancora oggi, i giovani che al tramonto salgono silenziosi la collina di Eyup, in fondo al Corno d'Oro, per raggiungere il luogo dove scriveva il poeta, guardano i riflessi sull'acqua rivivendo ciascuno la propria storia romantica. Il libro si conclude con una bella scelta di fotografie dell'epoca di Pierre Loti.

Corriere della Sera 18.9.08
Fascismo Docenti e dirigenti d'azienda estromessi dopo i provvedimenti del 1938. Convegno alla Bocconi
Leggi razziali, i conti che l'economia non ha mai fatto
di Antonio Carioti

Al di là del titolo «Le leggi razziali e l'economia italiana», il convegno tenuto ieri a Milano, presso l'Università Bocconi, ha spaziato in modo ampio su molti altri aspetti della campagna antisemita avviata da Benito Mussolini nel 1938. Soprattutto i relatori hanno chiarito che la legislazione razziale non cadde dal cielo e che il suo nefasto influsso non venne completamente meno con la sconfitta del fascismo. Tra coloro che posero le premesse culturali di quella pagina nera, ha ricordato lo storico Luca Michelini, ci fu un grande economista come Maffeo Pantaleoni — scomparso nel 1924, ma di fatto artefice del primo programma finanziario del fascismo — che era un feroce antisemita e promosse la pubblicazione in Italia dei famigerati (e falsi) Protocolli dei savi di Sion.
D'altronde, ha osservato Gian Luca Podestà, dell'Università di Parma, il Duce cominciò a parlare di «rigenerazione della razza» già negli anni Venti, nel quadro della sua campagna demografica. E ancora prima, ha spiegato David Bidussa, della Fondazione Feltrinelli, nel razzismo novecentesco erano confluiti motivi identitari antichi di secoli e linguaggi che tuttora affiorano nel discorso pubblico.
Il filo della continuità ha diversi altri risvolti. Le leggi razziali arrecarono danni permanenti all'Italia, emarginando e spesso costringendo all'emigrazione validi studiosi: oltre agli scienziati, di cui si è parlato parecchio, anche letterati, giuristi, economisti. Per esempio la Bocconi perse il rettore Gustavo Del Vecchio, futuro ministro del Tesoro, e il direttore dell'Istituto di statistica Giorgio Mortara. Anche ai vertici delle aziende ci fu un depauperamento rilevante, con la perdita dei dirigenti allontanati per ragioni razziali: lo hanno illustrato nella loro relazione Renato Giannetti e Michelangelo Vasta, che stanno raccogliendo in un database informazioni riguardanti tutte le società per azioni.
Per giunta, ha sottolineato Piergaetano Marchetti, docente della Bocconi e presidente di Rcs Media Group, le leggi riparatrici che avrebbero dovuto risarcire gli ebrei ebbero un'efficacia parziale, se non altro perché non venne mai preso in considerazione il danno morale subito dalle vittime. Mentre personalità compromesse con l'antisemitismo fascista proseguirono le loro carriere dopo la guerra: l'esempio più clamoroso riguarda il magistrato Gaetano Azzariti, presidente del tribunale della razza sotto il regime e poi presidente della Corte costituzionale dal 1957 al 1961.
D'altronde la vicenda delle leggi razziali è stata a lungo rimossa dalla coscienza nazionale. E ancora oggi, ha osservato Giorgio Sacerdoti, presidente della Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea, l'Italia appare in ritardo, specie sul piano della riflessione pubblica, rispetto ad altri Paesi europei.

Corriere della Sera 18.9.08
Kolossal Correggio
Gli affreschi e 35 capolavori: Parma celebra il suo gigante «di provincia»
di Francesca Montorfano

Pittore della grazia e degli affetti, dei sensi e della voluttà. Insuperabile interprete di soggetti sacri e motivi squisitamente profani. Capace come pochi altri di dipingere lo splendore della luce, i volti ridenti dei fanciulli e la seta dei capelli femminili, di rendere anche l'aria, anche i vapori e i profumi, anche le nuvole, quelle nuvole soltanto sue, dense, materiche, libere di muoversi nei cieli. «Nessuno meglio di lui toccò colori, né con maggior vaghezza o con più rilievo alcun artefice dipinse meglio di lui, tanta era la morbidezza delle carni ch'egli faceva e la grazia con che e' finiva i suoi lavori», scrisse di lui Giorgio Vasari, accompagnando la vita del Correggio a quelle di Leonardo e di Giorgione, quasi a indicarlo come l'erede, come il punto d'incontro tra le tante voci dell'arte italiana del primo Cinquecento.
È un genio, quello di Antonio Allegri da Correggio, da accostare ai maestri del Rinascimento, a Michelangelo e Raffaello, a Leonardo e Tiziano, ma forse non altrettanto riconosciuto per l'importanza del suo ruolo e l'originalità espressiva. La sua è una scelta pittorica in stupefacente equilibrio tra sensibilità naturalistica lombarda e cromatismo veneziano, una scelta rielaborata in piena autonomia, personalissima, già anticipatrice di una maniera moderna. Ma il pittore è anche l'unico grande artista della sua epoca a non aver mai lavorato nelle capitali culturali del tempo, a Roma, Firenze o Venezia, né stabilmente per una corte. La sua carriera fulminante, quel ventennio di attività febbrile che va dal 1514 al '34, si è svolta quasi esclusivamente tra il paese natale, Correggio, allora una piccola corte aristocratica, Mantova con le suggestioni di Mantegna e il ruolo di primo piano giocato da Isabella d'Este e Parma, allora un brulichio di intelligenze artistiche e di atelier, la città che lo adotta e gli consente di realizzare alcuni dei suoi più alti capolavori. E proprio Parma dedica oggi al pittore la più ampia e organica rassegna che gli sia mai stata riservata e che vede per la prima volta riunita gran parte dei dipinti trasportabili dell'artista in arrivo da alcuni dei più prestigiosi musei del mondo.
«Questa mostra sarà una riscoperta assoluta anche per chi già conosce Correggio», afferma Lucia Fornari Schianchi, curatrice dell'evento parmense. «Abbiamo voluto ricostruire la biografia umana e artistica del pittore, approfondendola nei suoi vari aspetti attraverso un racconto che illustri il clima culturale del tempo e i luoghi che hanno visto nascere ed esplodere la sua arte: quella pianura intorno alla valle del Po dove si è svolta gran parte della sua vita e che ritorna anche nella resa atmosferica, nell'attenzione al paesaggio che Correggio anticipa come un soggetto autonomo, in una visione già protobarocca degli spazi. Sarà anche l'occasione di vedere finalmente a confronto opere di soggetto religioso e tele di carattere mitologico e profano, come "L'educazione di Amore" della National Gallery di Londra o "Venere, satiro e Cupido" del Louvre, che rivelano come il linguaggio dell'artista sia ugualmente caldo e coinvolgente, ugualmente seduttivo nei due generi, nella resa dei sentimenti e delle emozioni, nei capelli scompigliati dal vento o scarmigliati dal dolore, come in quel "Compianto sul Cristo morto" così denso di pathos e carnalità. Un linguaggio che si rivela profano quando è sacro e sacrale anche nella pittura erotica».
Alla Galleria Nazionale saranno così esposti 35 dipinti tra i più significativi dell'artista, tra cui una recente attribuzione, il «Volto di Cristo» di collezione privata inglese accanto a una tavola di uguale soggetto del Getty Museum di Los Angeles. In più saranno visibili circa quaranta studi e disegni preparatori, in un emozionante riscontro con le opere finite. Il percorso racconterà la formazione del pittore, la sua crescita professionale, i committenti, l'officina creativa e i rapporti con la cultura del tempo, documentata da più di 90 opere tra maioliche, sculture, codici e dipinti, tra cui alcuni capolavori di Leonardo, Mantegna, Giorgione, Dosso Dossi o Lorenzo Lotto, i grandi maestri con cui questo artista «di provincia» ha saputo dialogare alla pari. La rassegna costituirà comunque solo la prima tappa dell'itinerario. A poche centinaia di metri saranno visitabili con una visione ravvicinata grazie a speciali ponteggi dotati di ascensore anche i grandi cicli affrescati: nella camera picta della badessa nel convento di San Paolo, nella chiesa del monastero di San Giovanni Evangelista e nel Duomo. Ed è qui, in questa cupola definita da Anton Raphael Mengs «la più bella di tutte», ma ritenuta scandalosa dai contemporanei, in questo Paradiso affollato di personaggi raffigurati in audaci scorci illusionistici, che Correggio dà un'ulteriore, stupefacente prova della sua arte.

Corriere della Sera 18.9.08
La sua arte Una scrittura pittorica fluida che rappresentava la continuità del creato
Tra profili addolciti e colori sfumati creò un mondo agli antipodi di Raffaello
Conosceva la lezione di Leonardo ed entrò nella famiglia dei neoplatonici
di Arturo Carlo Quintavalle

Provate a fare un esperimento: in mostra andate a vedere la sinopia del «Cristo Deposto» che era nell'atrio della chiesa di Sant'Andrea a Mantova e che sta agli inizi definiti mantegneschi della ricerca di Correggio; poi andate e osservate il frammento di sinopia staccato dalla cupola del Duomo di Parma alla fine del percorso del-l'artista: sono dipinti con la stessa, diluita, vibrante, morbida pennellata; infine passate a vedere i disegni, decine e decine, dove il contorno della sanguigna è volutamente incerto, ritornante, fluido. Dunque a Giorgio Vasari quel segno non poteva piacere, era l'opposto di quello degli artefici fiorentini, era l'opposto del segno sublime di Raffaello e dei suoi sottili, raffinati contorni, era l'opposto del segno — terribile — del Michelangelo della volta della Sistina. Ma allora da dove origina questa novità di scrittura pittorica che è tanto diversa da quella del Mantegna, un pittore certo da Correggio molto ammirato ma che era scomparso nel 1506 quando Correggio doveva avere 16 o 17 anni? Gli storici dell'arte hanno suggerito molti nomi e sopra tutti Leonardo: a ben vedere proprio il vibrare dello sfumato leonardesco si avverte anche nella cappella funebre del Mantegna, nella volta e nei quattro evangelisti dei pennacchi che si attribuiscono proprio a lui, a un Correggio giovanissimo. Del resto sono omaggi a Leonardo il «Cristo giovane» e il «Matrimonio di Santa Caterina » di Washington e tante altre opere del secondo decennio del XVI secolo.
Forse, per capire questi paesaggi morbidi, questi cieli fumiganti, questi contorni sfumati, non vi è miglior commento che questo passo del così detto «Trattato della pittura» di Leonardo sul rapporto fra ombre e figure: «Quella parte ch'è illuminata dal sole si dimostra partecipare del colore del sole; e questo vedrai molto speditamente, quando il sole cala all'orizzonte, infra il rossore de' nuvoli, ch'essi nuvoli si tingono del colore che li illumina; il qual rossore de' nuvoli, insieme col rossore del sole, fa rosseggiare ciò che piglia lume da loro; e la parte dei corpi che non vede esso rossore, resta del color dell'aria». No, certo Correggio non poteva conoscere queste parole, ma la pittura di Leonardo e dei seguaci sì; da qui parte la novità della sua invenzione nelle opere giovanili, sospese nella penombra del tramonto, figure contro paesaggi che sfumano, trasformazione di pietre e verzure, acque e cieli, segni della continuità del creato secondo la filosofia neoplatonica, la filosofia che ispira anche Giorgione e il primo Tiziano. E dopo?
Correggio certo va a Roma, senza quel viaggio la Camera di San Paolo con i suoi putti controluce che evocano quelli della Galatea di Raffaello sarebbe impensabile, e impensabile senza il Raffaello delle ultime Stanze e il Michelangelo della volta della Sistina sarebbe la cupola della chiesa di San Giovanni Evangelista a Parma, coi suoi incredibili controluce degli Apostoli e il Cristo alto, nel cielo di luce. Già al San Giovanni e poi nella cupola del Duomo la trasformazione del segno è totale: Apostoli davanti alla balaustra, angeli e putti fra le nubi accompagnano la Assunzione della Madonna in un turbine di trasparenze luminose, e qui lo stile, il segno, muove da una riflessione, da una idea del mondo e delle cose, che era di Sant'Agostino — neoplatonico — e quindi di Marsilio Ficino. Infatti il filosofo nella sua «Teologia Platonica» (1482) scrive: «Lo splendore del sommo bene stesso rifulge nelle singole cose e, là dove più perfettamente rifulge... trascina e occupa tutto chi vi s'avvicina, costringendolo a venerare uno splendore di tal genere, più d'ogni altro, come si venera una divinità, e infine a non tendere a null'altro se non a che, deposta la precedente natura, egli stesso si trasformi in splendore ». Come la Madonna Assunta della cupola del Duomo che, salendo, si fa di luce con il vortice delle figure che monta a spirale fino al culmine trascinando putti, nubi, santi verso la conoscenza del divino che è, appunto, splendore. Dunque quel segno che Correggio ha scoperto dialogando con gli adepti, dal neoplatonismo al settentrione, quel segno che tanto lo distingue dal mondo raffaellesco, quel segno che fa vibrare i volti, rendere morbide le verzure, addolcire i profili dei monti e degli orizzonti come suggeriva Leonardo, quel segno nasce da una consapevo-lezza: Correggio vuol leggere il mondo secondo la filosofia neoplatonica. Raffaello dipinge, invece, secondo l'idea aristotelica della conoscenza e della Storia.

Corriere della Sera 18.9.08
La storia Le decorazioni che Correggio realizzò per Giovanna da Piacenza andarono ben oltre le richieste
E la badessa arrossì: festa dei sensi in camera
di Francesca Bonazzoli

Arrossire! Proprio lei che per difendere i suoi privilegi di badessa si era destreggiata fra le faide delle famiglie parmensi culminate addirittura in un omicidio. Proprio a lei toccava ora sentire il sangue fluire improvviso sulle guance immacolate, lei che si era appellata niente meno che al papa finché Giulio II — quello che si faceva dipingere le stanze da Raffaello e scolpire la tomba da Michelangelo, quello che, come lei stessa, si preoccupava più del potere temporale che di fare la guida spirituale — non le rilasciò una bolla che la autorizzava ad esautorare l'amministratore del convento sostituendolo con il proprio cognato.
Non era certo tipo da arrossire, lei, Giovanna da Piacenza, entrata nel monastero benedettino di San Paolo a diciannove anni e divenutane badessa a vita a soli ventotto.
Eppure, probabilmente, un lieve rossore comparve sul volto di Donna Giovanna quando vide quale spregiudicata decorazione il giovane pittore Antonio, allora quasi sconosciuto, aveva apparecchiato nella stanza dove riceveva amici e letterati come a corte, vestita di abiti sfarzosi. Quel trentenne che lei aveva chiamato a Parma dal paese di Correggio l'aveva superata nelle intenzioni andando a indovinare fantasie che teneva ben nascoste anche a se stessa: lei, è vero, gli aveva detto cosa dipingere, e cioè un programma di motti latini ed exempla classici, secondo il gusto degli umanisti; ma quel pittore timido e male in arnese ne aveva tirato fuori un'atmosfera birichina che circolava adesso nella stanza passando dagli amorini intenti a giocare, nudi e felici, alla figura di Diana, in piedi sul cocchio mentre si gode il vento che le scompiglia vesti e capelli. Non solo: aveva aggiunto una tenerezza di cera fusa persino a quelle figure che lei aveva immaginato come statue così che le tre Grazie, il giovane nudo con la lancia o il satiro, sembravano scaldate dall'interno e fremere come fossero di carne e ossa. Come avevano potuto le sue indicazioni su un programma iconografico cristiano trasformarsi in una meravigliosa festa dei sensi pagana? Forse ora quella stanza si sarebbe rivelata un po' imbarazzante, ma che gioia rispetto a quella accanto, affrescata solo pochi anni prima da Alessandro Araldi con figure rigide e convenzionali: sembrava che nel frattempo fosse passata un'epoca! .
Che genio quel ragazzo gracilino; gli erano bastati un viaggio a Milano, dove aveva visto il gran pergolato che Leonardo da Vinci aveva dipinto nel Castello di Ludovico il Moro, e un secondo a Roma dove si era intrufolato nei cantieri di Raffaello in Vaticano e alla villa Farnesina, per capire che aria tirava: dolcezza dei sensi, voluttà, libertà delle figure di muoversi nello spazio senza più bisogno delle rigide briglie della prospettiva. Ora tutto si poteva giocare sulla luce e i suoi ambigui chiaro scuri, sui trapassi tonali, sui moti dell'animo, ovvero sulle espressioni degli occhi o di un sorriso. E lui, tornato a Parma, ne aveva subito approfittato per trasformare la vecchia volta goticheggiante del soffitto in un fresco pergolato dalle cui aperture ovali si intravedevano putti irrequieti dai capelli dorati, più simili agli erotes dell'antica Grecia che agli angeli cristiani. Sotto di loro, nelle lunette, aveva affrescato divinità classiche in finto marmo ma che in realtà palpitavano di sensualità e bellezza classica da far innamorare. E infine, sopra il camino, aveva dipinto lei, Giovanna da Piacenza nelle vesti di Diana, con la mezzaluna sulla testa, simbolo della dea ma anche emblema araldico di famiglia perché fosse chiaro che la badessa, come la dea, era una vergine combattiva, pronta a difendere le donne, ovvero le consorelle, dalle insidie esterne.
Insidie che si chiamavano clausura, comunione dei beni ed elezione annuale della badessa. Alla fine la riforma passò, ma alla combattiva Donna Giovanna venne concesso il privilegio di rimanere badessa fino alla morte che la portò via a soli 45 anni, la stessa età in cui la Parca recise il filo della vita anche del suo pittore Antonio che le aveva apparecchiato la sua ultima festa pagana.

Corriere della Sera Roma 18.9.08
Cucuteni
Forse sono loro gli uomini di Atlantide In mostra il popolo più antico d'Europa
di Lauretta Colonnelli

Una grande mostra dedicata ai Cucuteni- Trypillia. Popolo sconosciuto ai più, almeno in Italia. Eppure gli archeologi sanno della loro esistenza dalla fine dell'Ottocento, quando, grazie agli scavi effettuati a partire dal 1884 in Romania e dal 1893 in Ucraina, furono portati alla luce i primi segni di questa civiltà che risale al 5000 a. C. Vale a dire a prima dei Sumeri, considerati tra le più antiche culture dell'Europa e del vicino Oriente. Anzi, alcuni studiosi fanno risalire proprio ai Cuteni l'origine, fino ad oggi misteriosa, dei Sumeri, comparsi sui monti a nord della Mesopotamia intorno al 4000 a.C. Altri archeologi ipotizzano che ad essi sia riferibile addirittura il mito di Atlantide. Di questi temi già si discuteva nel 1889 in un congresso convocato a Parigi per presentare alla comunità scientifica internazioanle le prime eccezionali scoperte sui Cucuteni: le belle ceramiche dipinte con motivi a spirale e le statuette di terracotta raffiguranti donne, uomini e animali. Congresso a cui parteciparono nomi mitici dell'archeologia: da Schliemann a Evans, da de Mortillet a Montelius, i quali convalidarono il legame tra le scoperte dei Cucuteni e quelle del bacino egeo e dell'Asia Minore.
Da allora gli scavi sono andati avanti e hanno portato alla luce un'infinità di testimonianze. In questa mostra, che è la più grande allestita sui Cucuteni- Trypillia e viene presentata a Roma in anteprima mondiale, si possono ammirare oltre 450 reperti, che hanno permesso agli studiosi di ricostruire la vita quotidiana, i miti, la religione, le fonti di sopravvivenza, le attività artigianali e quelle belliche. Tuttavia gli archeologi sostengono che più gli studi vanno avanti e più questa popolazione risulta misteriosa. Soprattutto per quello che riguarda la loro scomparsa, intorno al 3000 a.C.
Tra le domande alle quali si può invece rispondere, c'è innanzitutto quella del nome, Cucuteni-Trypillia, che deriva dalle località dove sono venuti alla luce i resti dell'antica civiltà: Cucuteni (vicino alla città di Iasi, Romania) e Trypillia (vicino a Kiev, Ucraina). Ma il terriorio delle ricerche si estende su tutta l'area che va dal sud-est della Transilvania all'ovest dell'Ucraina, includendo anche tutta la Moldavia. Nel periodo di massima estensione della civiltà, l'area misurava oltre 350 mila chilometri quadrati. In questo territorio i Cucuteni- Trypillia edificarono prima villaggi e poi delle vere e proprie città, che si sviluppavano su centinaia di ettari, con elaborate fortificazioni e abitazioni che variavano da capanne interrate a costruzioni fino a due piani. Le case, realizzate in paglia e argilla intorno a una intelaiatura di legno, erano diposte in cerchi concentrici oppure in linee parallele o in gruppi, intorno a piazze destinate ad attività pubbliche. Alcune abitazioni erano molto grandi, da 300 a 600 metri di lunghezza, composte da molte stanze. Tutti i muri esterni ed interni, i soffitti, i letti e gli arredi erano decorati con disegni complicati in bianco, nero e rosso, gli stessi colori delle ceramiche.
Dentro ogni casa, una delle quali è stata ricostruita in mostra a grandezza reale, c'erano un piccolo forno, un telaio, una pietra per macinare i cereali, vasi per mantenere l'acqua, contenitori per provviste e suppellettili, compresi i gioielli in rame, argento e oro. Gli oggetti in metallo erano accumulati come tesori. Quello scoperto ad Ariusd (Romania) conteneva ben 1992 oggetti in rame e oro, quello di Carbuna (Moldavia) 444 oggetti in metallo. Mentre nell'insediamento di Nebelivka (Ucraina) gli archeologi portarono alla luce quello che potrebbe essere considerato il più antico servizio da tavola in ceramica dell'Europa dell'Est, con piatti, ciotole e coppe tutti con lo stesso decoro.
Le case erano abitate da agricoltori che coltivavano cereali, ortaggi e alberi da frutto, lavorando la terra con mezzi tecnici molto avanzati per l'epoca, cioè con una specie di aratro il cui vomere era costruito con corna di cervo ed era trainato da un animale. Si allevavano mucche dalle grandi corna, pecore, capre, maiali. Si domavano cavalli. Tra la popolazione c'erano poi artigiani e guaritori, cacciatori e pescatori. Uno dei misteri dei Cucuteni-Trypillia sono le numerose statuette che ci hanno tramandato: quelle degli uomini hanno tutte una maschera sul volto, quelle femminili il volto non ce l'hanno affatto. Sono plasmate nell'argilla con grandi fianchi e seni minuscoli, indossano gonne con frange e qualche volta stivali rossi.

Repubblica 18.9.08
Se la legge regola la vita e la morte
di Stefano Rodotà

Ai politici prepotenti, ai giuristi impazienti, agli eticisti saccenti si addice l´ammonimento di Michel de Montaigne: «La vita è un movimento ineguale, irregolare e multiforme». Quest´intima sua natura fa sì che la vita appaia come irriducibile ad un carattere proprio del diritto: il dover essere eguale, regolare, uniforme. Da qui, da quest´antico e ineliminabile conflitto, nascono le difficoltà che oggi registriamo, più intense di quelle del passato perché l´innovazione scientifica e tecnologica fa progressivamente venir meno le barriere che le leggi naturali ponevano alla libertà di scelta sul modo di nascere e di morire. Proprio la natura, con le sue leggi che apparivano sottratte alla volontà umana, allontanava dal diritto l´obbligo di misurarsi con quel conflitto. I grandi codici, pur aprendosi tutti con una parte dedicata alle "persone", ne ignoravano del tutto la fisicità, facendo minimi accenni al nascere e al morire. Di questi punti estremi del ciclo vitale si limitavano a registrare la naturalità. Era la natura che governava, e il diritto poteva silenziosamente stare a guardare.
«Nella disciplina storica per molto tempo ha prevalso l´idea che il corpo appartenesse alla natura». Questa confessione di Jacques Le Goff può apparire sorprendente, perché da sempre riti e regole del potere, ma pure i ritmi della vita quotidiana e le pratiche mediche e magiche, hanno scandito le modalità d´uso del corpo, la sua libertà o il suo essere oggetto d´implacabile coercizione. Coglieva, però, un dato culturale, oggi sempre più respinto sullo sfondo da una artificialità che ci avvolge sempre più intensamente, che supera le barriere naturali, che consente scelte dove prima era solo caso o necessità. Di questo ci ha parlato la vicenda di Piergiorgio Welby e ci parla oggi quella di Eluana Englaro. Di questo ci parlano i tre milioni di bambini nati con le tecniche di procreazione assistita. Di questo ci parla Oscar Pistorius che, privo della parte inferiore delle gambe, le sostituisce con protesi in fibra di carbonio e non solo corre e vince nelle paraolimpiadi, ma si vede riconosciuto anche il diritto a partecipare alle olimpiadi vere e proprie, fa cadere la barriera tra "normodotati" e portatori di protesi e impone così una nuova nozione di normalità.
Lo sappiamo da molti anni, almeno da quando nel 1970 si inventò il termine bioetica, che un mondo nuovo s´apriva davanti alle riflessioni ed alle pratiche concrete, e ciò evocava pure un nuovo bisogno di regole, tanto che si è cominciato a parlare di biodiritto. Vi è un campo di regole ? etiche, giuridiche ? alle quali la vita dovrebbe essere sottoposta. Come, però? Ed è questa domanda, ineludibile, che fa del rapporto tra vita e regole un tema che sopravanza tutti gli altri, e sembra essere uno di quelli che, con intensità maggiore, danno il tono al nostro tempo, alla nostra civiltà.
È vero, una nuova riflessione è necessaria, perché la tecnoscienza ha sconvolto paradigmi consolidati, incide sull´antropologia stessa quale si era venuta costruendo nella storia dell´umanità. Ma questo invito è spesso accompagnato da una contraddizione, nella discussione italiana soprattutto. Si invocano categorie nuove ma, quando viene il momento di dare spazio alla regola giuridica, troppo spesso si impugnano gli strumenti vecchi. Timorosi del nuovo, l´unica norma possibile sembra essere il divieto. No all´interruzione dei trattamenti di sopravvivenza, no al testamento biologico, no alla procreazione assistita (e no a quel nuovo modo di organizzare le relazioni personali rappresentato dalle unioni di fatto). Ma può il diritto divenire solo il custode delle arretratezze e delle paure?
La strumentazione giuridica, costruita in altro clima e per altri obiettivi, deve essere profondamente rimeditata. L´unico protagonista non può essere un legislatore che s´impadronisce d´ogni dettaglio, e giudica e manda una volta per tutte. L´unica tecnica giuridica disponibile non può essere ritrovata nel divieto, al tempo stesso eccessivo e vano. La vita non può essere sacrificata da una norma costrittiva, che dovrebbe ricostruire una situazione artificiale di impossibilità al posto di quella naturale, travolta dal progresso scientifico. Questa è pretesa vana, verrebbe quasi da dire innaturale, mentre la parola giusta è autoritaria.
Questo significa abbandonare ogni ancoraggio, muoversi senza bussola nel mare aperto e drammatico di innovazioni che danno alla vita e al suo governo tratti sconvolgenti e persino drammatici? Niente affatto. Vi è un forte nucleo di principi dai quali muovere, che possono essere riassunti nella formula della "costituzionalizzazione della persona", resa evidente non solo dalla Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea, ma soprattutto dalla progressiva riscoperta della trama profonda della nostra Costituzione. Una trama che fa emergere libertà e dignità nella duplice dimensione individuale e sociale, legandole indissolubilmente (l´"esistenza libera e dignitosa" di cui parla l´articolo 36) e, quindi, escludendo che il riferimento alla dignità possa divenire tramite per l´imposizione di punti di vista limitativi della libertà e della coscienza della persona; che ribadisce il diritti alla libertà personale (articolo 13); che fa del "rispetto della persona umana" (articolo 32) un limite che lo stesso legislatore non può valicare; che esclude la possibilità di discriminazioni sulla base delle "condizioni personali" (articolo 3).
Il governo della vita è così posto anzitutto nelle mani della persona, e ciò esige un diverso modo d´intendere la regola giuridica, che si fa flessibile, discreta, capace di seguire la vita nelle varie sue sfaccettature, singolarità, irregolarità, mutevolezze. Riferimento a principi comuni, ma non chiusura in un unico schema. La contraddizione disvelata dall´ammonimento di Montaigne è così superata? Conclusione eccessiva: ma è certo che ci si muove in una dimensione dove il conflitto trova diversi e più adeguati strumenti di composizione.
Torniamo al caso di Eluana Englaro, drammaticamente ancora aperto. Il punto di svolta è stato rappresentato dalla sentenza della Corte di Cassazione dell´ottobre 2007 che, dopo aver ricostruito i principi di riferimento con un rigore raro anche in analoghe sentenze di altri paesi, li ha poi riferiti al caso concreto, affidando alla Corte d´appello di Milano il compito di attuarli. Sono poi venuti le ripulse e le resistenze, l´illegittimo rifiuto della Regione Lombardia di dare attuazione alla decisione dei giudici nelle proprie strutture ospedaliere, addirittura il conflitto di attribuzione sollevato davanti alla Corte costituzionale dal Parlamento, che afferma d´essere stato espropriato dai giudici del suo esclusivo potere legislativo.
Una guerriglia istituzionale è in corso, che nega l´umana pietà, ma che mette pure in evidenza un impasto tra arretratezza culturale e piccola furbizia politica. Non è pensabile che il Parlamento segua con una regolazione minuta, di dettaglio, ogni innovazione prodotta da scienza e tecnologia. Compito suo è quello della legislazione per principi che esige, poi, l´ineliminabile mediazione giudiziaria, sul duplice versante dell´adattamento alle specifiche vicende individuali e della risposta ai quesiti via via posti dall´innovazione, ai quali non ci si può sottrarre senza negare giustizia a chi la chiede.
Ma l´insistenza sulle prerogative del Parlamento ha un obiettivo di breve periodo. Sostenendo che il legislatore è il solo ad aver diritto di parola in determinate materie, si crea la premessa per norme che formalmente riconoscono le nuove esigenze, ma sostanzialmente le rinchiudono nei vecchi schemi. Gli oppositori di ieri si dichiarano pronti a sostenere una legge sul testamento biologico. In che modo, però? Escludendo che si possa rinunciare all´idratazione e all´alimentazione forzata e che le decisioni dell´interessato possano avere valore vincolante per il medico. Così, quello che viene presentato come il riconoscimento d´un diritto assume i colori d´una restaurazione, perché è una forzatura l´esclusione dalle terapie rifiutabili dell´idratazione e dell´alimentazione (Ignazio Marino non si stanca di ricordarci quanti siano gli interventi terapeutici che devono accompagnarle e lo stesso cardinale Barragan riconosce che vi sono casi in cui esse altro non sono che accanimento terapeutico). E perché subordinare alla valutazione del medico la portata del testamento biologico contraddice il principio consolidato del valore del consenso informato dell´interessato.
Così una politica intimamente debole cerca di impadronirsi della vita delle persone. Ma così segna una distanza, mostra la sua incapacità di comprendere il mondo che cambia, rinuncia a fare del diritto uno strumento rispettoso della libertà e della stessa umanità delle persone.

mercoledì 17 settembre 2008

l’Unità 17.9.08
I ragazzi di An: «Antifascisti? Mai»
Bufera su Azione Giovani Roma. Alemanno: «Anche l’anticomunismo nella Costituzione»
di Federica Fantozzi


L’ULTIMO MIGLIO antifascista di Gianfranco Fini fatica ad essere percorso dai suoi. Alemanno regge due giorni e poi distingue: «Accetto i valori dell’antifascismo, però sono anticomunista e ci tengo che venga messo in Costituzione anche l’anticomunismo». Ma a far discutere è soprattutto la «lettera aperta a ogni italiano» apparsa sul sito di Azione Giovani Roma e firmata dal suo presidente Federico Iadicicco: «Noi non possiamo essere, non vogliamo essere e non saremo mai antifascisti».
Un altolà forte alle parole del leader di An, che fa chiedere al Pd «che cosa dice Giorgia Meloni», ministro tuttora alla guida dei “pulcini” del partito e, da padrona di casa, sul palco di Atreju con il presidente della Camera. Mentre il segretario di Rc Ferrero chiama in causa Berlusconi: «Attendiamo parole chiare, smetta di fare il furbo, non si gioca con il giudizio sul fascismo e sui campi di concentramento. Quelle dei giovani di An sono dichiarazioni gravissime».
Scrive Iadicicco: «Ce l'ho messa tutta per trovare un motivo valido per essere antifascista ma non l’ho proprio trovato, anzi ne ho trovati molti per non esserlo». Ad esempio, il fatto che il sito Indymedia «ritenne utile mettere vicino al mio nome anche il mio indirizzo di casa, con l’intento di puntare l’indice contro di me e indicarmi come bersaglio da colpire. Ho pensato: Come potrei aderire alla cerchia dei miei aguzzini? Come potrei dichiararmi antifascista?».
E dunque: «Prego Dio affinché ci dia la forza di perdonare chi in nome dell’antifascismo ha ucciso giovani innocenti. Ma cerca di comprenderci, noi non possiamo, non vogliamo e non saremo mai antifascisti».
Uno stop secco alle parole di Fini sul palco del Celio, accolte con freddezza immediata e malumori successivi. Un documento che la ministra-ombra delle Politiche Giovanili Pina Picierno definisce «preoccupante».
Una lettera che non piace neppure al senatore aennino Augello: «Questa polemica sul fascismo è stata un regalo all’opposizione per eccesso di ingenuità». Al punto che in serata Iadicicco sarà costretto alla parziale retromarcia; «Tutta AG si riconosce nei valori costituzionali ma c’è un altro antifascismo in cui è impossibile ritrovarsi».
La sua orgogliosa rivendicazione di «non antifascismo» però resta a incarnare un malessere diffuso. Su Internet, nei siti di destra, il linguaggio è meno rispettoso delle gerarchie. Feroce il blog Radici Profonde, che sopra la foto del presidente della Camera titola: «La smorfia di Fini».
Poi attacca: «È giusto spendere due parole sul pubblico che ha ascoltato la sua delirante congettura storica. Un pubblico di ex giovani che ha messo da parte l’appartenenza, ha chiuso nel cassetto le bandiere e si vergogna di esporre la fiamma - scrive Gianfranco da Catanzaro - Meglio un più "democratico" tricolore per non urtare la sensibilità delle new entry di Fi».
Ecco perché alla «lezione» di Fini non è seguita «nessuna contestazione o moto d’orgoglio. Gli ex camerati hanno rinnegato l’ultimo pezzo di storia. Ora, la smettano di definirsi di destra».

Corriere 17.9.08
Il caso Insorgono Pd e Prc. Imbarazzo nel Pdl: questa polemica è un regalo all'opposizione
Azione giovani di Roma si ribella «Non possiamo essere antifascisti»
Gasparri: Fini ha chiarito, ricordando che non tutto quel fronte era anche democratico
Il leader dei giovani di An scrive una lettera aperta sul web: decine di ragazzi come me uccisi dall'odio. Poi corregge


ROMA — Si era capito subito, sabato scorso, alla festa di Atreju, che ai giovani di An non era piaciuto granché il discorso di Fini sui «valori dell'antifascismo ». Forse per dovere di ospitalità, quel giorno al Parco del Celio reagirono solo con tiepidi battimani e un sostanziale gelo. Ieri, però, dopo tre giorni di sofferte riflessioni e maldipancia, il presidente romano di Azione giovani e consigliere provinciale del Pdl, Federico Iadicicco, classe 1974, ha rotto gli indugi e ha scritto una lettera aperta sul web ( www. azionegiovaniroma. org) indirizzata formalmente «ad ogni italiano», ma in realtà diretta al Presidente della Camera. «Ce l'ho messa tutta per trovare un motivo valido per essere antifascista — scrive Iadicicco — ma non l'ho proprio trovato, anzi ne ho trovati molti per non esserlo. A questo punto ti prego di capirmi e con me tutti i ragazzi di Azione giovani. Prego Dio affinché ci dia la forza di perdonare chi in nome dell'antifascismo ha ucciso giovani vite innocenti. Ma cerca di comprenderci: noi non possiamo essere, non vogliamo essere e non saremo mai antifascisti».
Dopo giorni di faticose precisazioni e riallineamenti, i «colonnelli » del partito stavolta si tengono alla larga dal dichiarare: Alemanno, La Russa, Meloni, Ronchi, nessuno commenta le frasi di Iadicicco, temendo di alzare nuovi polveroni. Ma poi qualcuno deve averlo chiamato a rapporto perché più tardi, alle dieci di sera, il presidente romano di Ag preciserà: «Ovviamente tutta Azioni Giovani si riconosce nei valori della Costituzione italiana ed è consapevole che in essa sono rappresentati alcuni valori fondamentali dell'antifascismo. Io volevo solo sottolineare che, purtroppo, è esistito un altro antifascismo che si è lasciato dietro una scia di odio e di sangue nel quale è impossibile riconoscersi». Un tono ben diverso da quello usato nella lettera aperta contro l'antifascismo finiano: «Circa due anni fa, il più importante sito della rete antifascista italiana, Indymedia, pubblicò un articolo di commento a una iniziativa di Azione giovani di Roma e ritenne utile mettere vicino al mio nome anche il mio indirizzo di casa, con l'evidente intento di puntare l'indice contro di me e di indicarmi come bersaglio da colpire. E allora ho pensato: come potrei aderire alla cerchia dei miei aguzzini? Come potrei dichiararmi antifascista? Inoltre, sono andato un po' indietro nel tempo, fra gli anni Settanta e Ottanta, comunque non nel 1943, e mi è venuto alla mente che alcune decine di ragazzi come me, che facevano quello che faccio io oggi, sono stati uccisi dall'odio degli antifascisti».
Dall'opposizione, comunque, reagiscono indignati. «Ignorare la storia apre a rischi politici», ammonisce lo storico Nicola Tranfaglia sul sito del Pd (www.partitodemocratico. it). «Che i giovani di An non si dichiarino antifascisti anzi lo rivendichino, è grave», aggiunge il segretario di Rifondazione comunista, Paolo Ferrero. L'unico «colonnello» di An che parla è Maurizio Gasparri, capogruppo dei senatori della Pdl: «Io condivido quello che ha detto il presidente della Camera.
Lo stesso Fini, del resto, sabato scorso aveva ricordato che non tutto l'antifascismo è stato democratico. Penso a Stalin e a Curcio. E ai tanti ragazzi di destra, ai tanti martiri, vittime della violenza dell'antifascismo. Anche Sofri è antifascista ma non democratico, visto che ha fatto l'apologia dell'omicidio Calabresi...». Il senatore del Pdl, Andrea Augello, prova infine a mettere tutti d'accordo: «Il fascismo e l'antifascismo non esistono più. Credo che questa polemica sia stata un regalo all' opposizione».

l’Unità 17.9.08
L’oltraggio fascista ai martiri «Sono come i delatori di allora»
La lapide imbrattata e la memoria ferita
di Gioia Salvatori


A Paolo Pierantoni, 66 anni, ex ispettore della Banca d’Italia, figlio di un martire delle Fosse ardeatine, non è andata giù l’ennesima scritta sulla lapide che ricorda suo padre, Luigi Pierantoni, in piazza Leandro a Roma, quartiere Trieste. Onore alla Rsi e Fini partigiano, impresso nero su bianco la notte tra sabato e domenica 14; stessa data, chissà se è un caso, in cui la lapide venne oltraggiata l’anno scorso. La scritta sulla lastra e sul muro è stata cancellata dall’ufficio decoro urbano del Comune, domenica mattina.
Ma la ferita che quel segno lascia nel cuore di un figlio che non ha mai conosciuto le abitudini, i gesti, l'affetto di un padre azionista trucidato a 38 anni, non si può cancellare. «Io, che ho incamerato l'antifascismo con il latte materno, non mi sognerei mai di andare ad oltraggiare la lapide di chicchessia, fosse pure il nemico più odiato - denuncia Paolo - Questo perché da antifascista, so quanto sia importante la libertà di ognuno di esprimersi nel rispetto delle regole democratiche».
Paolo, occhi chiari e commozione trattenuta a stento, parla con la verve di chi è intenzionato ad andare fino in fondo. Aveva due anni quando nel 1943 suo padre Luigi, tenente medico, venne arrestato nel presidio della Croce Rossa di Tor Fiorenza a Roma, nel giorno del suo dodicesimo anniversario di nozze, l'8 febbraio 1943. Poi conobbe il carcere di via Tasso e il III braccio di Regina Coeli dove improvvisò un'infermeria e si distinse per l'attività medica in favore dei detenuti. Da lì partì per il suo ultimo viaggio. Membro del partito d'azione, tisiologo, Luigi Pierantoni, usava la sua abitazione-ambulatorio nel quartiere Trieste, in piazza Leandro, come base per l'attività politica. Con la scusa delle visite mediche nella casa entravano azionisti e comunisti amici del padre Amedeo (delegato al congresso di Livorno del 1921 e tra i fondatori del Pci), venivano scambiati volantini e armi. Mamma Lea, moglie di Luigi, era a fianco del marito nell'attività clandestina. Incinta del quarto figlio, impavida, trasportava armi e stampa clandestina nel doppio fondo del passeggino del terzo figlio, Paolo. Poi Lea, una volta riconosciuto il marito, nel caldo giugno del 1944 alle Fosse ardeatine, non parlò più di quegli anni e di quella tragedia: papà Luigi era la salma 334, uno degli ultimi ad essere recuperati dalla cava, uno dei primi ad essere stati uccisi. Vedova 39enne con un neonato appena morto e tre figli da crescere, Lea perse ogni gioia, si chiuse nella routine di un lavoro da impiegata e nel silenzio. «Ho conosciuto mio padre, un grande appassionato di sport e di lettura, medico e collaboratore della Gazzetta dello sport, attraverso i suoi libri - racconta Paolo - Usava sottolinearli ed io li leggevo e rileggevo stando attento a quei segni, cercando di farmi così un'idea di lui. Lo immaginavo studioso e serioso, poi qualcuno mi raccontò di un suo lato gioviale, pieno di allegria».
Così, alla ricerca del padre che non ha mai conosciuto, Paolo ha sollecitato i parenti a raccontare della famiglia. Lo zio Armando, 86 anni ben portati, comunista da sempre come il padre Amedeo, ha raccolto l'appello: sua moglie Maria, in questi giorni, scrive a macchina appunti che diventeranno un diario famigliare. Armando racconta del nonno garibaldino, fuggito da casa ragazzo per partecipare alla spedizione dei Mille e poi alla presa di Porta Pia, del padre comunista attivo nella Resistenza romana, e del suo 8 settembre, quando soldato «preferii andare a combattere i tedeschi lungo la linea Gustav con il battaglione Curtatone e Montanara, piuttosto che darmi alla macchia». Armando, che ha la mente lucida e il piglio deciso di chi ci tiene a tramandare la memoria, piange come fosse successo un anno fa quando ricorda il giorno in cui seppe che suo fratello Luigi era tra i martiri delle Fosse. «E oggi vengono a fare le scritte sulla lapide. Io sa come li considero? Mi fanno repulsione come il delatore che si finse malato, si intrufolò nell'ospedale di Tor Fiorenza e tradì mio fratello. Li considero così anche se le scritte in sé, dopo averne viste tante, da vecchio, non mi toccano più di tanto. Li considero così perché anche loro, magari una banda di teppistelli qualunque, hanno tradito e violato le regole».
«A fare quella scritta sono stati dei cretini qualificati, ovvero cretini di destra: un cretino semplice va a imbrattare un'altra cosa - rincara Paolo - Siccome questi hanno raggiunto il loro scopo, e cioè che quella lapide a furia di scritte e ripuliture non si legga più, ci piacerebbe che il sindaco Gianni Alemanno ce ne mettesse una nuova e che si costituisse parte civile in un eventuale processo. Sarebbe un modo per dimostrare coi fatti di aver elaborato, come dice, le tesi di Fiuggi. Lo chiedo anche perché ritengo che certa cretineria di destra, non a caso ribadita dopo i discorsi dell'8 settembre, sia alimentata dalle parole di chi tentenna nel riconoscere l'antifascismo come valore, per legittimare certe fasce del suo elettorato. Quelle scritte non sono solo un vandalismo ma una violazione delle regole della convivenza civile e della libertà».
Violazione della libertà di Armando, fratello 86enne con le lacrime agli occhi, e di Paolo, figlio 66enne, di ricordare il loro congiunto vittima dei nazi-fascisti. Ricordarlo con una lapide sul muro \dell'abitazione dove visse e lottò per la libertà di tutti.

l’Unità 17.9.08
Alessandro Portelli. Storico e responsabile della Casa della Memoria di Roma
«Questa destra legittima gli atti vandalici»
di g.s.


Nome, cognome, professione, data di nascita e morte più le scritte «Qui visse» e «Martire delle Fosse Ardeatine». Ogni quartiere di Roma che già esistesse durante la Seconda guerra mondiale, ha palazzi segnati da lapidi alla memoria di una vittima dell’eccidio nazi-fascista del 23 marzo 1944. Con pietre incise annerite dallo smog e talvolta accompagnate da una piccola corona di fiori, la città ricorda, con una memoria che percorre i quartieri, una delle stragi più drammatiche mai subite. Lo storico Alessandro Portelli, responsabile della Casa della Memoria a Roma, spiega perché questi epitaffi abbiano un forte significato simbolico per tutti.
Dopo sessantaquattro anni queste lapidi sono ancora disseminate in tutta la città...
«Questi epitaffi non raccontano solo la storia e i suoi protagonisti, ma la coscienza collettiva di una città, per cui ancora oggi l’eccidio delle Fosse ardeatine è una ferita aperta. Di queste lapidi colpisce e commuove la semplicità. Spesso, sono state apposte sui muri da vicini di casa del defunto, da conoscenti o compagni di partito, senza troppe cerimonie. Sarebbe bello che venissero valorizzate e che anche sui cartelli delle strade intitolate ai partigiani, per esempio nei quartieri Trionfale e Giustiniana venisse indicato, sotto il nome, chi era quella persona, come avviene per fisici e matematici».
Cosa rappresentano, a livello simbolico, atti vandalici ai danni di questi epitaffi?
«Chi li compie vuole cancellare la memoria cittadina e, esprimendo loro solidarietà, riabilitare gli assassini. Questa idea è viva in una minoranza che rifiuta gli insegnamenti della storia. Una minoranza fatta da gente che disegna svastiche, imbratta i nomi dei partigiani e scrive sui muri solidarietà a Priebke».
Quali sono le responsabilità dei singoli e delle istituzioni rispetto a questi atti di inciviltà?
«Veltroni, da sindaco di Roma, andò di persona a cancellare le scritte nazi-fasciste per dare un segnale. Oggi c’è un altro governo: le parole di certa destra conservatrice e reazionaria sulla Rsi e sul fascismo, indirettamente, legittimano gli autori di questi atti che operano senza paura, anche in luoghi ben esposti, probabilmente sentendo di incarnare lo spirito del tempo. Reputo grave, poi, che la società civile con i centri sociali, le sedi di partito, le parrocchie, non rappresenti più una rete di protezione della memoria e dei suoi simboli. Sia perché la protezione della memoria rientra nella pratica quotidiana di pochi di questi soggetti, sia perché la loro presenza di certo non intimorisce chi, per l’appunto, sente di incarnare lo spirito del tempo».

l’Unità 17.9.08
Borghezio si unisce ai neonazisti tedeschi
Congresso a Colonia «contro l’islamizzazione»


I leghisti cercano alleanze con l’estrema destra europea per dar manforte alle loro "crociate" contro le moschee. L’eurodeputato leghista Mario Borghezio, parteciperà, dal 19 al 21 settembre, al "Congresso contro l’islamizzazione" indetto a Colonia dal movimento di destra "Pro Köln". Ne ha dato notizia per primo il sito francese Rue 89, ma poi il tam tam della Rete ha fatto circolare l’informazione. In Italia, tra i primi, il blog di Daniele Sensi (danielesensi.blogspot.com), da dove è partito un diluvio di reazioni e commenti.
Quella stessa galassia della destra xenofoba europea si ritroverà nella città tedesca per cercare di innalzare muri ideologici e anche fisici contro quella che viene chiamata l’"invasione musulmana", a difesa delle città "cristiane" europee. Si sa che l’ultradestra rivendica da sempre la superiorità cristiana contro "il cattivo" musulmano dalla scimitarra affilata, rievocando episodi epici come la battaglia di Lepanto o quella di Poitiers dove il re cristiano Carlo Martello "cacciò" dalla Francia le truppe musulmane nel 732.
Ma, a differenza di un anno fa, Borghezio non può pretendere di essere un libero pensatore. Il suo partito ora è al governo e un suo collega di partito è Ministro degli Interni.
D’altronde la Lega è un partito molto complesso, che si potrebbe definire "multilivello". La Lega di Borghezio è quella populista e xenofoba, quella che nel Nord Est mantiene rapporti con l’estrema destra più razzista come "Forza Nuova". Quella Lega capitanata da Mario Borghezio che arringa le folle inneggiando violentemente alla superiorità della Padania e alla "cacciata" dei mussulmani e degli immigrati dal nostro Paese.
Tra i movimenti che interverranno ci sarà il fiammingo Vlaams Belang, erede di un movimento sciolto per incitamento alla discriminazione e all’odio razziale. C’è l’Npd, il partito neonazista tedesco, ben noto per le sue manifestazioni antisemite. Due anni fa alcuni senatori dell’ Npd eletti al Bundestraart (il Senato federale) uscirono dall’aula mentre la Camera osservava un minuto di silenzio in memoria delle vittime di Auschwitz.
Al convegno hanno aderito anche i "pezzi grossi" dell’estrema destra del Vecchio continente. L’austriaco Fpö, partito dell’ex governatore della Carinzia, Jorge Haider, ma soprattutto il leader del Front National, il francese Jean Marie Le Pen, da sempre punto di riferimento politico delle destre ultranazionaliste. Mario Borghezio intanto ha confermato in una recente intervista la sua presenza, dichiarando di non sapere della partecipazione di gruppi neonazisti.
Altre presenze inquietanti sono quelle dei cosiddetti teorici della destra radicale come ci sarà la rivista Nation-Europa, fondata da ex Ss dove possiamo trovare la firma dell’ideologo della nuova destra francese, Alain de Benoist, che tanto successo riscuote anche a casa nostra, soprattutto tra i "Giovani Padani", l’organizzazione giovanile della Lega. Ultime adesione vengono da altri movimenti xenofobi tedeschi come i "Republikaner" e la "Deutsche Liga für Volk und Heimat" (cioè lega tedesca per il popolo e la patria), con il deputato Henry Nitzsche. Ci saranno anche ospiti provenienti dal mondo anglosassone e da Oltreoceano. Dagli Usa arriverà il "Robert Taft Group", e dalla Gran Bretagna gli ultranazionalisti del "British National Party", protagonisti della protesta contro la più grande moschea d’Europa, quella di Finsbury Park a Londra, famosa per essere stata perquisita dopo gli attentati alla metro del 7 luglio 2005.
Secondo lo storico francese Jean-Yves Camus, uno dei maggiori studiosi dei movimenti dell’estrema destra in Europa, gli organizzatori dell’evento si sarebbero riuniti qualche tempo fa ad Anversa per lanciare un movimento europeo contro l’islamizzazione delle città.
Quella di Colonia potrebbe essere solo una prima tappa di una strategia comune ben più ampia e pericolosa.

l’Unità 17.9.08
Norme anti-rom, l’Europa riapre il caso Italia
Barrot costretto a sbugiardare Maroni davanti agli eurodeputati della commissione Libertà civili
Polemica sulla delegazione che visiterà i campi nomadi a Roma, nella lista esponenti della destra xenofoba italiana
di Paolo Soldini


LA VERTENZA tra il governo italiano e la Ue sulle impronte ai bimbi rom non è affatto «chiusa» come avevano cercato di farci credere. Sono bastate le indiscrezioni (di fonte certa) sull’audizione del commissario alla Giustizia Jacques Barrot davanti agli eurodeputati della commissione parlamentare Libertà civili per demolire le bugie di Maroni e del governo con cui si era accreditato, in Italia, l’«accordo» dell’esecutivo comunitario con le misure anti-nomadi. Come se non bastasse, mentre nel vertice sui rom ieri a Bruxelles, la rappresentante del governo italiano veniva pesantemente contestata, si è andata profilando una nuova occasione di scontro. Alla delegazione di sette deputati della commissione Libertà civili che da domani saranno a Roma, si sono aggregati, senza che nessuno li avesse invitati, alcuni tra i peggiori esponenti della destra razzista e xenofoba di casa nostra, tra cui i fascisti Roberto Fiore e Luca Romagnoli e il collega di partito di Maroni Mario Borghezio, con la trasparente intenzione di «bilanciare» le prevedibili critiche della delegazione «vera».
Ma andiamo con ordine. Barrot, forse di malavoglia, davanti ai parlamentari europei ha dovuto sbugiardare Maroni su due punti. Il primo sono le assicurazioni distribuite a destra e a manca dal ministro sul fatto che la sua risposta alle sollecitazioni al chiarimento venute dalla Commissione di Bruxelles era consistita sic et simpliciter nell’invio dell’ordinanza originaria e che quindi era stata quella l’oggetto dell’«assoluzione» di Bruxelles. Falso, falsissimo. Barrot ha chiarito che da Maroni sono state inviate alla Commissione «spiegazioni» dell’ordinanza che escludevano, tra l’altro, che la raccolta dei dati fosse prevista su base etnica e correggevano precedenti indicazioni inaccettabili.
Ma c’è di più e (per Maroni) di peggio: secondo il commissario le ordinanze italiane contemplano comunque due misure che contrastano esplicitamente con il diritto comunitario. Si tratta dell’obbligo di registrarsi imposto ai nomadi, anche a quelli di cittadinanza europea, entro tre mesi e dell’obbligo di certificare la provenienza delle proprie risorse. Ufficialmente la Commissione non può emettere giudizi su questi due aspetti, mancando ancora la loro approvazione da parte delle Camere italiane, ma ufficiosamente Bruxelles manda a dire a Roma che se non ci sarà una nuova correzione, la normativa italiana verrà considerata illegittima. Il rischio dell’apertura di una procedura di infrazione, oltreché di una pioggia di ricorsi alla Corte europea, dunque, non è affatto sventato. Il problema (per Maroni) è che cedendo anche su questi punti, dell’ordinanza sbandierata a suo tempo ai quattro venti come fulgido esempio di «tolleranza zero» non rimarrà assolutamente nulla. Zero, appunto.
Mentre Barrot a porte chiuse metteva mestamente la parola fine sull’operazione «salvate il soldato Maroni» che era stata messa in piedi nei giorni scorsi tra Bruxelles, Roma e Parigi, ieri si consumava un’altra indegnissima farsa. Per la visita a Roma decisa un paio di settimane fa dalla commissione parlamentare Libertà civili è stata scelta una delegazione che, com’è abitudine, rappresenta tutte le componenti politiche dell’europarlamento. Oltre al presidente Gérard Deprez (liberale), ne fanno parte, infatti, Roberta Angelilli (destra Uen), Giusto Catania (sinistra Gue), Claudio Fava (Pse), Elly de Groen-Kouwenhoven (Verdi) e le due deputate di origine rom Lìvia Jàròka e Viktòria Mohàcsi. Accanto ai sette designati, però, si sono autonominati Fiore, Romagnoli, Borghezio più un gruppetto di esponenti del Pdl come Alfredo Antoniozzi (candidato trombato alle provinciali di Roma), l’ineffabile Elisabetta Gardini, Stefano Zappalà e l’indimenticato Carlo Casini del «movimento per la vita» con l’evidente missione di fare numero e rumore durante la visita ai campi nomadi. A questo punto, le organizzazioni di difesa dei diritti civili e molti parlamentari socialisti, liberali, verdi e di sinistra hanno deciso anch’essi di presentarsi venerdi nei campi rom che saranno oggetto della visita, quello in via Tenuta Piccirilli, quello di Salone e il famigerato Casilino 900.

l’Unità 17.9.08
Polemiche e fischi contro il governo italiano
La sottosegretaria Roccella contestata dai rom. Roma protesta con la Ue
di Marco Mongiello


No alle schedature su base etnica. Al primo vertice a livello europeo sull’integrazione delle comunità Rom nell’Ue che si è tenuto ieri a Bruxelles il governo italiano è finito nuovamente sulla graticola, additato da tutti, più o meno esplicitamente, come il cattivo esempio da non imitare e contestato a suon di fischi dalle associazioni non governative. A sedere sul banco degli imputati è toccato al sottosegretario per le Politiche sociali Eugenia Roccella, del Pdl, spedita da Roma a parlare di integrazione nella conferenza che ha riunito rappresentanti della comunità Rom, delle istituzioni europee e dei governi. Che tirava aria di contestazioni lo si era capito già in mattinata quando, per protesta contro le misure decise dal ministro dell’Interno Roberto Maroni sull’uso delle impronte digitali per censire i Rom, i rappresentanti delle associazioni non governative hanno sfoggiato nell’aula della conferenza la maglietta con la scritta «Against Ethnic Profiling» (contro la schedatura su base etnica), stampata su un ingrandimento di un’impronta digitale. «Sono d’accordo con la maglietta” si è affrettato ad assicurare il presidente della Commissione Josè Manuel Barroso, aprendo i lavori, i Rom «rappresentano il più grande gruppo etnico sul nostro territorio che deve affrontare povertà estrema, esclusione sociale, discriminazione sociale e razzismo».
Oggi, ha ricordato Barroso, «il 77% degli europei pensa che essere rom è uno svantaggio, un livello pari a quello indicato per i disabili», 79%. Fuori dall’aula le associazioni per i diritti umani e in difesa dei Rom intanto distribuivano rapporti e opuscoli con i dettagli delle misure del Governo di Roma e la cronaca degli assalti ai campi nomadi italiani.
Quando nel pomeriggio ha preso la parola il sottosegretario Roccella dall’aula si è levato un coro di fischi. Le misure servono ad «assicurare la legalità e la sicurezza, poiché in caso contrario sarebbero la paura e la diffidenza reciproca ad avere la meglio» ha tentato di spiegare la rappresentante del Governo Berlusconi, ma i leader delle associazioni hanno iniziato a lasciare la sala in piccoli gruppi e l’intervento è rimasto a metà. In serata è partita una lettera di protesta del governo italiano al commissario Ue Wladimir Spidla. Fuori dall’aula il sottosegretario ha liquidato i fischi come delle «contestazioni di tipo ideologico dovute alla mancanza di informazione» e quando dopo di lei è salito al microfono il commissario alla Giustizia Jacques Barrot, a cui alcuni rimproverano di aver avvallato le misure di Maroni, le parole sono accuratamente dosate: «Sono stato molto fermo sulla questione dei Rom e il governo italiano ha riconosciuto che effettivamente c’erano stati dei provvedimenti non positivi, ma ha anche detto che era pronto a seguire le istruzioni chiare impartite da Bruxelles». Quindi, ha continuato il commissario francese, «sulla base della relazione che abbiamo ricevuto il primo agosto, abbiamo dovuto riconoscere che il governo italiano ha definito degli ordinamenti che non potevano essere passibili di osservazioni da parte nostra» anche se «ora bisogna vedere come la misura sarà applicata». Per il commissario alle Politiche sociali Vladimir Spidla non ci sono dubbi: «Una classificazione su base etnica è inaccettabile» e «la Commissione europea deve usare tutte le risorse possibili per assicurare il rispetto della legislazione comunitaria contro la discriminazione, sulla libera circolazione e sulla protezione dei dati». Ancora più duro il filantropo di origine ungherese George Soros, presidente dell’Open Society Institute, che nel suo intervento si è detto «profondamente turbato dal precedente creato dalla schedatura dei Rom in Italia e preoccupato che questo possa diventare “de facto” uno standard europeo». Secondo Soros «il modo in cui le autorità italiane hanno affrontato la questione dei Rom è profondamente sbagliato».

l’Unità 17.9.08
Attenti al Cav post-fascista
di Bruno Gravagnuolo


Salvate il soldato Fini. Ancora sulla svolta «antifascista» di Fini. Inequivoca, netta, s’è detto. E conferma plateale della giusta battaglia «antirevisionista» contro le ambivalenze di An. E contro tutti quelli che hanno sempre negato la centralità del fondamento antifascista di Costituzione e Repubblica: da Della Loggia, a Pera, a Pansa, etc. Ora anche Fini lo dice chiaro e tondo: valore positivo e costituzionale, l’antifascismo! Nondimeno Fini è un po’ solo, dentro e fuori An. E Berlusconi tace e parla d’altro: «siamo tutti democratici e questo basta». Lo ha ribadito nel corso del grottesco Porta a Porta di ieri l’altro. Con la Vezzali e Miss Italia «coccodè», e Vespa scambiato... per Fede. Dunque, insidia trasformista. Con il Cav post-fascista e anti-antifascista (vedi lodi a Balbo). La Russa e Alemanno (post?) fascisti. E Fini all’angolo, e devitalizzato, da liberal-conservatore. Salvate il soldato Fini? Sì, nel senso di insistere sul tema. Ma fino a un certo punto, perché l’uomo è flessibile e ambizioso. E potrebbe finire da sgabello premierale del Cav post-fascista al Quirinale. Per meriti antifascisti...
Attali adieu. Evviva! Qualche volta il... bene trionfa. La «Attali» alla romana è naufragata. E Amato ha deciso di dare forfait. Ora è vero che stavolta ex malo bonum: il motivo addotto è stata la rivalutazione di Alemanno del fascismo. Ma quella commissione papocchio non andava fatta a prescindere. Per motivi di decenza politica. Non si progettano, in commissione bypartisan, futuro e sviluppo di Roma. Con famosi e non, e un ex premier (post)socialista nominato da un sindaco An. Adesso se la facciano loro la «commissione». Con l’ex ministro di Fi. Non più alla romana ma alla napoletana. Alla San Marzano.
Balbo assassinato? Un lettore di Ravenna, Tommaso Pagnani, ci chiama, dopo aver letto un nostro pezzo su Italo Balbo. E ci dice: «Mio padre Salvatore era a Tobruk, il 6 giugno 1940. Vide con chiarezza i due aerei italiani che volavano basso e rientravano verso il porto. Avevano lo stemma del fascio dipinto e ben visibile, e solo uno dei due fu mitragliato: quello di Balbo». Interessante. E però Folco Quilici, figlio di una delle vittime con Balbo (era il suo uomo di fiducia) ha scritto Tobruk 1940 (Mondadori). Dove esclude il complotto, pur confermando l’idea del «Balbo anti-Mussolini». Ricerca puntigliosa. E attendibile.

l’Unità 17.9.08
Giuliano Pisapia. Bastano i «futili motivi» per chiedere il massimo della pena, l’ergastolo
«Si sta diffondendo la voglia di farsi giustizia da sé»
di Luigina Venturelli


«È passata l’idea che il cittadino possa farsi giustizia da sè, che possa aggredire la vita delle persone per reagire ad un semplice danno patrimoniale. È questa l’aberrazione. È questa l’enorme responsabilità politica che grava sulle spalle del centrodestra».
L’avvocato Giuliano Pisapia parte dallo stretto dato giuridico, commenta l’omicidio del giovane Abdul Guiebrè con l’occhio tecnico del penalista. Ma l’analisi si conclude con un drammatico allarme sociale e politico.
L’odio razziale non è stato contestato ai due aggressori. Che cosa ne pensa?
«Dal punto di vista giuridico condivido la scelta della procura di Milano: l’aggravante ha una disciplina ben precisa e prevede che il reato sia commesso con finalità di discriminazione. In questo caso la discriminazione razziale non è stata lo scopo della condotta criminale, semmai la condotta criminale ne è stata una conseguenza».
Quali differenze comporta questa scelta dal punto di vista processuale?
«È stata contestata l’aggravante dei futili motivi, quindi ci sono i presupposti per la pena massima, ovvero l’ergastolo. Di fronte ad un fatto così terribile, segno purtroppo dell’involuzione dei rapporti sociali nelle città italiane, è importante che si giunga in tempi brevi ad una pena adeguata alla gravità del reato. È l’unico deterrente di cui disponiamo per evitare che episodi simili si ripetano».
Come si è giunti a questo clima di odio e di intolleranza?
«L’aspetto più allarmante di questa vicenda non sta nel colore della pelle della vittima, ma nel fatto che sia stata uccisa per un pacco di biscotti: si è diffusa l’idea che i cittadini possano farsi giustizia da sè senza alcuna proporzione tra l’offesa ricevuta e la reazione».
Si riferisce a qualche provvedimento particolare?
«Sì, a quell’aberrazione giuridica e culturale costituita dalle recenti norme sulla “legittima” difesa, che hanno attecchito nel terreno di generale sfiducia verso l’operato della giustizia istituzionale. Da tempo è passata l’idea che il cittadino possa provvedere da solo a farsi giustizia, anche mettendo a rischio la vita delle persone per rispondere a un danno patrimoniale, spesso di lieve entità come nel caso dell’uccisione di Abdul Guibrè».
Si uccide per salvare i soldi in cassa. Purtroppo, non è la prima che succede a Milano e nelle altre città italiane.
«Da questo punto di vista esistono responsabilità politiche enormi del centrodestra. Si sono strumentalizzati problemi reali per finalità che nulla hanno a che vedere con la garanzia dei cittadini alla giustizia e alla sicurezza. I provvedimenti adottati per creare consenso intorno all’emergenza si sono sempre rivelati fallimentari».
In effetti, c’è solo l’imbarazzo della scelta.
«Negli ultimi dieci anni hanno visto la luce cinque cosiddetti pacchetti sicurezza, che io mi ricordi, ma nessuno di essi ha mai sortito il benchè minimo risultato concreto».
Perché?
«È inutile minacciare la faccia feroce quando si è incapaci di accertare e punire le responsabilità. Il 90% dei reati di strada, quelli che più alimentano la percezione d’insicurezza della gente come gli scippi violenti, rimane senza un colpevole. E nel restante 10% dei casi spesso non si arriva nemmeno al processo. Così si è creato un generale senso d’impunità che ha aperto la via alla giustizia del singolo. Se davvero vogliamo garantire sicurezza e giustizia, dobbiamo decisamente cambiare strada».
In quale modo?
«Non serve a nulla inasprire le pene e minacciare più carcere, scuola di crimini e criminalità. Bisogna investire in pene certe ed effettivamente eseguite, ma con sanzioni diverse. Chi ha scontato la propria pena in carcere entro cinque anni torna a delinquere nel 68% dei casi, ma questa percentuale scende sotto il 18% nel caso di pene diverse da quella detentiva. È un dato oggettivo e ampiamente verificato».

Corriere della Sera 17.9.08
Il caso Dal movimento studentesco al terrorismo: la pellicola indaga sulla nascita dell'organizzazione «nel cuore della società»
Mitra, carcere, amore: esce tra le polemiche il film sulla Raf
Ieri la prima a Monaco di «La banda Baader-Meinhof». Il protagonista: metodi sbagliati ma fini giusti
di D. Ta.


BERLINO — Torna l'autunno della Germania. È meno romantico di come spesso è stato ricordato ma sempre lacerante. La stella a cinque punte della Raf dietro al mitra Mp5, Ulrike Meinhof e Andreas Baader e Gudrun Ensslin e compagni, le rivoltelle, l'amore per i movimenti terzomondisti, le carceri di sicurezza: tutto sta per tornare davanti agli occhi dei tedeschi, in un film oltremodo atteso e già molto discusso. Contraddittorio, ma che comunque ridimensiona il mito di quei «ragazzi terroristi » degli Anni Settanta: non erano eroi, erano senza scrupoli, figli e nipoti di ex nazisti e come loro illusi di potere falciare vite per un bene superiore.
Il film che mezza Germania non vede l'ora di guardare è Der Baader-Meinhof Komplex: fine Sessanta e inizio Settanta, quando la banda di extraparlamentari di sinistra che si era raccolta attorno ad alcuni dei leader più radicali entrò prima in clandestinità, iniziò a uccidere e finì a Stoccarda, carcere di Stammheim, con una morte collettiva che lascia ancora oggi aperti alcuni dubbi. Il film — la prima ieri sera a Monaco, nelle sale tedesche dal 25 settembre — è ai massimi livelli del cinema tedesco: un grande regista, Uli Edel ( Christiane F.), il miglior sceneggiatore, Bernd Eichinger ( Le particelle elementari), e gli attori del momento, Moritz Bleibtreu (Baad er), Martina Gedeck (Meinhof), Johanna Wokalek (Ensslin). Le star tedesche più brillanti, perfette per alzare onde.
Cosa che, in effetti, hanno già fatto. Bleibtreu, per esempio, ha banalmente sostenuto che la Raf usava metodi sbagliati ma in fondo i fini erano giusti: fischi diffusi.
Fatto sta che il film pone la questione su binari diversi rispetto a ricostruzioni precedenti. È tratto da un libro, stesso titolo, di Stefan Aust, fino a poco tempo fa direttore del settimanale Der Spiegel, il giornalista che più ha lavorato sui misteri della Rote Armee Fraktion.
Questa volta, la storia non è centrata sul caso Stammheim, per stabilire se la morte di Baader, Ensslin e Jan-Carl Raspe fu suicidio o, come gli amici sostennero, un omicidio condotto dalle autorità tedesche. Il cuore del film sta nella nascita del gruppo Baader-Meinhof. Nel 1966, la Repubblica federale si trovò con un governo di Grande Coalizione (cristiano-democratici e socialdemocratici) guidato da Kurt Georg Kiesinger, un ex del ministero della propaganda nazista. Durò fino al 1969, con una maggioranza in parlamento attorno al 95%. Parti consistenti del movimento studentesco di quegli anni si costituirono in organizzazioni extraparlamentari, convinti che la repubblica di Bonn stesse avviandosi verso un nuovo fascismo.
Aust vede la formazione del gruppo terrorista come una degenerazione prodottasi nel movimento degli studenti, quegli stessi incendiati dai comizi di Rudi Dutschke, poi dall'attentato che questi subì nel 1968 e dalla guerriglia urbana a Berlino Ovest, Norimberga, Amburgo. Non, però, come qualcosa di esterno alla società. «L'attacco — dice — venne dal cuore della società, dai suoi stessi figli». Di più. Vedevano se stessi, aggiunge, «come signori della vita e della morte e molti diventarono colpevoli come la generazione dei loro padri».
Non che Der Baader-Meinhof Komplex spazzi via del tutto l'alone di mito che per anni ha circondato i terroristi della Raf: la relazione tra Baader e Esslin, per dire, è vista come un apice di romanticismo. E non chiude nemmeno la questione: ieri, il quotidiano Welt si domandava per quale motivo si debba fare un film sulla Raf. Quarant'anni dopo, forse un po' ridimensionato, il complesso di Baader-Meinhof in Germania rimane.

Corriere della Sera Roma 17.9.08
I deportati L'annuncio del presidente Pavia. Ma Pacifici è critico
«No ad Auschwitz col sindaco»
di Paolo Brogi


Anche l'Aned, l'associazione nazionale dei deportati, in rotta di collisione con Alemanno. Il presidente Aldo Pavia ha annunciato: «Sono orientato a non andare ad Auschwitz... ». Dopo Piero Terracina, che per primo dopo le dichiarazioni di Alemanno si è detto non più disponibile per i viaggi della memoria, ora è la volta di Pavia, che ha avuto tutta la famiglia sterminata. «Ma quel viaggio non è per accompagnare le istituzioni, bensì i giovani », ha ribattuto Riccardo Pacifici presidente della Comunità ebraica.
Arriva come una nuova sferzata il «no» di Aldo Pavia. Il presidente dell'Aned, l'associazione degli ex deportati col fazzoletto bianco azzurro al collo, non dimentica tutta la sua famiglia inghiottita nel buio dei lager nazi- fascisti. Per giorni è rimasto in silenzio, preceduto solo da un secco «no» pronunciato a caldo da uno dei pochi sopravvisuti al rastrellamento del Ghetto, Piero Terracina. Dopo il giudizio espresso dal sindaco Alemanno sul fascismo, Terracina aveva subito detto: «In queste condizioni non me la sento di partecipare più ai viaggi della memoria...».
Ieri Aldo Pavia ha aggiunto: «Sono orientato a non andare ad Auschwitz ». Pavia ha parlato con cautela, perché vuole ancora sottoporre la sua decisione al congresso nazionale dell'Aned, che si terrà il 26 e 27 settembre a Marzabotto. In precedenza, nei prossimi giorni, ne discuterà col consiglio direttivo di Roma, dove siedono figure come Piero Terracina, Vera Michelin, Ida Marcheria, Rosario Militello, Mario Limentani. In quella sede l'orientamento del presidente, così come quello di Piero Terracina, troverà più di un appoggio.
«Penso sia corretto decidere però nella sede nazionale l'orientamento dell'Aned verso le iniziative del Comune - dice Pavia - . Ma certo, dopo le considerazioni di Alemanno sul fascismo, io sono più intenzionato a non andare». Non è solo un problema di parole e giudizi. Pavia solleva anche altre questioni, a cominciare dal coinvolgimento dell'Aned nel Progetto della Memoria del Comune: un coinvolgimento «storico», che ha visto l'associazione in prima linea nella formazione dei ragazzi delle scuole romane. E che ora traballa.
«Penso che il Comune si sia mosso in ritardo, ma in ogni caso non ci hanno fatto sapere nulla - dice - . Nessuno ci ha chiamato. Inoltre la nuova dicitura del programma, che chiama in causa "la tragedia del '900", mi lascia molto freddo. Che cosa vuol dire? Non abbiamo mai respinto l'idea di parlare anche delle foibe, tanto per essere chiari, ma un conto è come se ne parla e un altro sviluppare martirologi acritici. Se se ne vuole parlare bisogna partire dall'incendio dell'hotel Balcan a Trieste, nel '24, che innescò l'isteria antislava...».
Una mediazione è stata cercata ieri da Riccardo Pacifici, presidente della Comunità Ebraica. «Ad Auschwitz ha ricordato Pacifici - ci si va non per accompagnare le istituzioni, ma i giovani studenti. Di fronte al rischio di errate interpretazioni della storia è importante allora prendervi parte. Quanto alle polemiche sul fascismo, mi pare che Giancarlo Fini abbia chiuso la discussione in maniera egregia». No comment di Pavia.

Corriere della Sera Roma 17.9.08
I volti del potere
Lezioni di storia all'Auditorium da Pericle a Giovanni Paolo II
di Lauretta Colonnelli


Sono due le novità di «Lezioni di storia », la rassegna che per il terzo anno consecutivo si svolge all'Auditorium Parco della Musica con il contributo degli editori Laterza e di Unicredit Group. La prima è che il numero delle Lezioni, grazie anche al successo registrato negli scorsi anni (biglietti esauriti prima che cominciassero gli incontri) è aumentato da nove a undici. La seconda novità è il tema: «I volti del potere». Gli storici che si alterneranno sul palco della Sala Sinopoli sveleranno l'ambivalenza del potere, il modo in cui ha fatto associare o dividere gli uomini, come si è sposato con la giustizia o ha esercitato l'uso brutale della forza. I vari volti del potere verranno raccontati attraverso le vicende di persone che sono diventate incarnazioni del potere stesso, diventando simboli destinati a sopravvivere nei secoli. Si passerà da Pericle a Papa Wojtyla, passando per Augusto, Napoleone, Stalin, De Gasperi. Si cercherà di capire, attraverso l'analisi della loro personalità, quanto sia stata forte la loro impronta nella storia e quanto ancora oggi ne siamo condizionati.
Si comincia il 12 ottobre con Luciano Canfora che presenta la democrazia di Pericle, cercando di scoprire perché il grande storico Tucidide, che di Pericle fu un ammiratore, scrisse tuttavia che il suo regime ad Atene era stato democratico solo a parole, di fatto un regime personale. E di capire come mai la tradizione ha riservato a Pericle un monumento e al suo vero erede, Alcibiade, la taccia di avventuriero. E come ha fatto l'antico governante a conservare nei secoli una tradizione storiografica benevola, nonostante i numerosi documenti ostili e gli avversari che non esitarono a bollarlo come tiranno. Forse, insinua Canfora, per la sua imponente strategia di opere pubbliche e di coinvolgimento degli artisti nel quale fu maestro per i politici di ogni tempo, fino ad oggi.
Dal potere «democratico» si passa a quello spirituale, con la lezione di Chiara Frugoni dedicata ai tre papi (Innocenzo III, Onorio III e Gregorio IX) che attraversano la vita di san Francesco contrastandone il desiderio innovatore della vita cristiana. Al potere da Mille e una notte si dedica invece Alessandro Barbero che rievoca il mitico sultano Solimano il Magnifico, protettore della Mecca, Cesare dei Cesari di un impero ottomano abitato quasi per metà da cristiani autorizzati a praticare pubblicamente la loro religione, quando in occidente non era permessa la residenza a nessun musulmano e inconcepibile l'esistenza di una moschea. Solimano aveva potere di vita e di morte e tutti i suoi ministri erano giuridicamente degli schiavi, ma proprio questa autocrazia creava paradossalmente la mobilità sociale perché non esisteva nobiltà di nascita bensì un sistema di selezione dei talenti che permetteva a figli di pastori di diventare pascià e visir, con grande scandalo degli osservatori europei. E questo spiega anche come tanti marinai, artigiani, fonditori di cannoni, scegliessero di «farsi turchi», cercando sotto la protezione del sultano un'ascesa sociale impensabile nell'Europa delle gerarchie nobiliari e del diritto di sangue.
Con Alberto Mario Banti si passa a Napoleone, generale ad appena 26 anni, provinciale, ambizioso e intelligente protagonista della vicenda che lo porterà ad una ascesa vertiginosa e ad una altrettanto sconvolgente caduta. Con lui si afferma la prima dittatura «democratica » ratificata, almeno formalmente, da un plebiscito popolare e la sua esperienza politica continua a far sentire la propria influenza anche molti decenni dopo la morte. La carrellata dei personaggi continua con l'imperatore Augusto (tratteggiato da Andrea Giardina), che riesce a raccogliere quel che resta della repubblica romana alla vigilia di una tremenda guerra civile e a creare un nuovo regime di tipo monarchico realizzando uno dei più grandi successi politici di tutti i tempi. E ancora: Mussolini e Stalin, Hitler e De Gasperi, fino a Wojtyla. Infine Michelle Perrot si interroga sul perché le donne potenti in politica siano in netta minoranza rispetto agli uomini. Omissione della storia o le «grandi» donne sono davvero così poche? O forse quello politico non è che una delle tante forme di potere.

Repubblica 17.9.08
La Cassazione e il rifiuto di curarsi "Un diritto, ma il paziente sia chiaro"
Dopo il caso Eluana, la polemica su un testimone di Geova
di Caterina Pasolini


ROMA - Rifiutare le cure, anche quelle salvavita, è un diritto. Lo ribadisce la Cassazione che in una nuova sentenza va oltre, e da indicazioni concrete affinché la libertà di scelta del paziente venga rispettata anche nel caso in cui non sia in grado di comunicarla ai medici. Davanti al vuoto legislativo e alle recenti polemiche sul caso di Eluana Englaro la suprema corte chiarisce, definisce. Offre spunti concreti alla politica che negli ultimi anni ha visto più di dieci disegni di legge sul testamento biologico presentati senza riuscire a trovare un accordo di massima tra le diverse anime del parlamento.
Gli ermellini stabiliscono infatti due requisiti perché i medici eseguano le volontà del malato nel caso questi sia incosciente. È necessario che il paziente abbia con se una dichiarazione dove manifesta in modo «articolato ed inequivoco» il dissenso a ricevere taluni trattamenti. O un atto nel quale nomina un tutore che si esprima al posto suo.
Così recita la sentenza nata dal ricorso presentato da Mirko, testimone di Geova che nel '90, arrivato moribondo dopo un incidente, venne trasfuso nonostante avesse in tasca un pezzo di carta con scritto: niente sangue. Nel ricorso chiedeva il risarcimento dei danni morali e biologici (ha contratto l'epatite b) per essere stato trasfuso nonostante il suo rifiuto per motivi religiosi. Ma quel foglietto per i magistrati è un'indicazione troppo vaga, ci vuole un consenso «chiaro, attuale e informato» perché venga rispettato il diritto sancito dalla Costituzione a rifiutare le cure.
Le prime reazioni sulla sentenza della Cassazione sono positive: dall´onorevole teodem Paola Binetti, ai radicali, passando per il senatore del Pd Ignazio Marino.
«È giusto che la magistratura metta dei paletti su un argomento così delicato, sospeso tra la libertà del paziente e la responsabilità dei medici. Il diritto dell'ammalato a non curarsi lo riconosco, anche se per me è sempre una sconfitta lasciare che qualcuno rinunci alla vita», dice la senatrice teodem, numeraria dell'Opus Dei, Paola Binetti.
«Ottima sentenza», commenta Rita Bernardini, segretario dei Radicali, «perché ribadisce il diritto a rifiutare i trattamenti e sottolinea il bisogno di una legge che dia indicazioni concrete, semplici. In fondo in quella figura di fiduciario io vedo il padre di Eluana che da anni si batte per rispettare il volere della figlia».
Latore di un disegno di legge sul testamento biologico è il professor Marino che giudica molto positiva la sentenza «che ribadisce la libertà di cura. E indica, come nel mio testo la necessità di un fiduciario perché venga rispettata la volontà del malato se questi non può parlare. Nel caso del testimone di Geova penso che se in emergenza, come dopo un incidente, non si possa perdere tempo a cercare documenti sulle sue volontà, si cerca di salvare una vita. Una volta stabilizzato il paziente potrà decidere se rifiutare le cure».

Repubblica 17.9.08
Esce in Italia il best seller americano sulla sessualità Dalle teorie dell'800 alle "verifiche sul campo"
Da Freud al Viagra la scienza svela i misteri del sesso
di Alessandra Retico


Quale è la variabile dell´orgasmo di lei? La questione resta controversa
Marie Bonaparte si fece asportare la clitoride perché si credeva fosse mal funzionante

È argomento facile nei talk show e illustra con impudenza copertine, tutti ne sanno qualcosa e troppi hanno la loro da dire. Semplice pare il sesso, e invece a guardare bene nelle camere da letto e nelle cliniche, che guazzabuglio di incertezze. La storia della sessualità è nata sotto una faticosa stella, si è raccontata nel silenzio e nella reticenza, va avanti lenta. E con quante illusioni e solitudini in mezzo, paradossi e follie, molta paura. L´orgasmo vaginale è un mito? È possibile raggiungerlo con il solo pensiero? Perché il Viagra non è di nessuna utilità per le donne, e nemmeno per i panda? Attraversa le domande, le assurde risposte o gli imbarazzati silenzi Mary Roach, giornalista scientifica del New York Times. Il suo Godere, sottotitolo Orgasmo: il curioso accoppiamento fra scienza e sesso, è un libro competente e leggero che esce oggi per Einaudi Stile Libero. Bestseller negli Usa, lo merita per ricchezza di dati e ironia, per il suo excursus dalle prime azzardate teorie dell´800 ai più recenti e sofisticati esperimenti cui vengono sottoposti i genitali con la risonanza magnetica: un viaggio documentato ma anche divertito, e pure esperienze in prima persona, da reporter sul campo. Roach si era già occupata con successo di anima in Spettri e di cadaveri in Stecchiti (altro bestseller, sempre Einaudi), ma più che nei precedenti soggetti, confessa l´autrice californiana, sesso è argomento che anche oggi desta sospetti. «Ti danno del pervertito».
Trattiamo disinvolti bit e volatilità, ma siamo impacciati di fronte alla carne. Qualche progresso sì, da quando nel 1851 il ginecologo James Platt White fu espulso dall´American Medical Association per aver invitato i suoi studenti ad assistere a un parto (donna consenziente). Nei ´70 il ricercatore e storico Vern Bullough fu iscritto nella lista dell´Fbi degli «americani pericolosi» per le sue «attività sovversive», cioè cooperare con l´American Civil Liberties Union per depenalizzare il sesso orale e il travestitismo maschile, oltre che per aver pubblicato testi sulla prostituzione.
Parecchie credenze smentite, molte altre ancora lì a tormentarci. L´interdipendenza: risale a Leonardo da Vinci e ai suoi disegni sul coito, trattava della difficoltà a procreare e si spiegava con un "aggancio" mal riuscito dei genitali, «una specie di attracco mancato dello Shuttle». E poi la controversa, sfuggente, rocambolesca vicenda dell´orgasmo di lei. «Qual è la variabile? Emotiva o mentale? Il punto G? Nessuno ne sa qualcosa». Marie Bonaparte, pronipote di Napoleone e allieva di Freud, si fece spostare la clitoride, colpevole secondo le tesi dell´epoca di un cattivo funzionamento perché troppo distante dalla vagina. Nel capitolo La principessa e il suo pisello si racconta dell´insoddisfatta Marie, moglie del principe Giorgio di Grecia (fama di omosessuale) e di come chiamò il chirurgo viennese Joseph Halban a traslocare più vicino il piacere. L´operazione fallì disperatamente (due volte). Oggi sesso medicalizzato, e sesso industrializzato: al Centre for sex & Culture di San Francisco sono esposte sex machine più improbabili di quelle leonardesche, nella letteratura si incontrano dotti scritti «sull´uso dell´aspirapolvere nell´autoerotismo mortale», alla NuGyn, azienda di attrezzature per disfunzioni maschili nel Minnesota, producono oggetti di oscuro discernimento formale, a Taiwan trovi sapienti specialisti nell´allungamento del pene. Non hanno avuto e non hanno vita facile gli inquirenti del sesso, c´è ancora un mondo da scoprire. Meno male che, ci rassicura la Roach, «i loro cocktail party sono i migliori».

Repubblica 17.9.08
Piero Calamandrei. Se la legge è uguale per tutti
di Gustavo Zagrebelsky


Anticipazioni / La prefazione di Zagrebelsky a una conferenza inedita del grande giurista

Anticipiamo parte dell´introduzione di a un testo inedito di una conferenza che Piero Calamandrei pronunciò nel gennaio del 1940 e che ora viene raccolto in un volume intitolato Fede nel diritto (a cura di Silvia Calamandrei, Laterza, pagg. 148, euro 12)
La conferenza (di Calamandrei, n.d.r.) è un´apologia della legalità. La legalità non è solo un elemento della forma mentis del giurista, o di quel tipo di giurista (legalitario, appunto) nel quale Calamandrei si riconosceva. È per lui un elemento morale, che corrisponde esso stesso a un´idea di giustizia: nella legge e nel suo rigoroso rispetto sta la giustizia dei giuristi, giudici, avvocati, studiosi del diritto. E non perché egli creda in un legislatore-giusto, che è tale perché e in quanto da lui promanino leggi giuste, come possono ritenere i giusnaturalisti di ogni specie; e nemmeno perché creda in un giusto-legislatore, dal quale, per qualche qualità sua propria, provengano leggi giuste per definizione, come ritengono i gius-positivisti ideologici; ma perché crede che la legge in se stessa, in quanto cosa diversa dall´ordine particolare o dalla decisione caso per caso, contenga un elemento morale di importanza tale da sopravanzare addirittura l´ingiustizia eventuale del suo contenuto.
Questo elemento morale risiede nella forma-legge in quanto tale, cioè nella forma generale e astratta in forza della quale si esprime, poiché questa è la "forma logica" della solidarietà e della reciprocità tra gli esseri umani, su cui soltanto società e civiltà possono edificarsi. I toni attraverso i quali è tratteggiata questa concezione della legge, tipicamente razionalista, sono particolarmente appassionati: la legge generale e astratta «significa che il diritto non è fatto per me o per te, ma per tutti gli uomini che vengano domani a trovarsi nella stessa condizione in cui io mi trovo. Questa è la grande virtù civilizzatrice e educatrice del diritto, del diritto anche se inteso come pura forma, indipendentemente dalla bontà del suo contenuto: che esso non può essere pensato se non in forma di correlazione reciproca; che esso non può essere affermato in me senza esser affermato contemporaneamente in tutti i miei simili; che esso non può essere offeso nel mio simile senza offendere me, senza offendere tutti coloro che potranno essere domani i soggetti dello stesso diritto, le vittime della stessa offesa. Nel principio della legalità c´è il riconoscimento della uguale dignità morale di tutti gli uomini, nell´osservanza individuale della legge c´è la garanzia della pace e della libertà di ognuno. Attraverso l´astrattezza della legge, della legge fatta non per un solo caso ma per tutti i casi simili, è dato a tutti noi sentire nella sorte altrui la nostra stessa sorte».
«Indipendentemente dalla bontà del suo contenuto», «anche quando il contenuto della legge gli fa orrore». Queste proposizioni non possono non colpire profondamente, sia per l´immagine ch´esse rendono del giurista e della giurisprudenza, sia per il carattere assolutorio del servizio che i giuristi prestino all´arbitrio che si manifesta in legge: il servizio allo "Stato di delitto" (per usare la formula di Gustav Radbruch) che si fa schermo delle forme dello Stato di diritto. Il giurista come puro esecutore della forza messa in forma di legge? Non è questa una concezione servile del "giurista, giudice o sapiens", che riduce il coetus doctorum a "una sorta di congregazione di evirati"?, ha domandato polemicamente. Tutto questo sembra scandaloso - si può aggiungere -, soprattutto in un´epoca nella quale la legge aveva dimostrato tutta intera la sua disponibilità a qualunque avventura, nelle mani di despoti e perfino di criminali comuni, impadronitisi del potere. In Italia, non si trattava solo delle leggi che avevano istituzionalizzato l´arbitrio poliziesco e la vocazione autoritaria del fascismo (per esempio, il codice penale del '31, o il Testo Unico delle leggi di p.s. del '34). Si trattava, niente di meno, delle leggi razziali del '38, sulle quali non una parola è spesa nella conferenza: leggi che paiono dunque essere tacitamente comprese, nella sua argomentazione, tra quelle cui si deve "culto a ogni costo" e ossequio, sia pure, eventualmente "sconsolato", un ossequio dovuto, da parte dei giuristi consapevoli del compito che è loro proprio, come atto di "freddo e meditato eroismo". Queste espressioni, che sono state intese come manifestazione di piaggeria verso il regime, non si leggono oggi senza scandalo.
Ma è proprio così? Il silenzio tenuto in proposito si può spiegare certo col clima d´intimidazione poliziesca del tempo. Ma non è questo il punto che qui interessa. Interessa piuttosto sottolineare che nella nozione "formale" di legge, cui Calamandrei si riferiva, non potevano rientrare leggi come quelle razziali, leggi discriminatici per antonomasia, con riguardo alle quali non si sarebbe certo potuto parlare di reciprocità, capacità di valere oggi per uno e domani per l´altro, solidarietà in una sorte comune, virtù educatrice e civilizzatrice: caratteristiche proprie della legge generale e astratta cui Calamandrei si riferiva, che sono invece puntualmente contraddette da atti in forma di legge aventi lo scopo di spaccare la comunità di diritto, espellendone una parte. Chi potrebbe parlare, per quelle leggi, di reciprocità, valenza generale, solidarietà, eccetera? L´elogio della legalità non era dunque riferito alla pura e semplice forma del potere che si fosse espresso nel rispetto delle vigenti procedure per la produzione di atti d´imperio, chiamati leggi. Era rivolta a quella legalità che esige una determinata struttura della prescrizione: la generalità e l´astrattezza, alle quali soltanto si possono riferire virtù come la reciprocità, la solidarietà, ecc., del tutto estranee alle misure che creano discriminazioni. Queste ultime, dunque, a ben leggere, non sono da comprendere nell´elogio alla legalità, anche se assumono l´aspetto esteriore della legge. (...)
«La scienza giuridica deve mirare soltanto a "sapere qual è il diritto", non a crearlo; solo in quanto il giurista abbia coscienza di questo suo limite e non tenti di sovrapporsi al dato positivo che trova dinanzi a sé, l´opera sua è benefica per il diritto. Io mi immagino il giurista come un osservatore umile e attento». La certezza del diritto è il valore che primariamente è in gioco, un valore strettamente intrecciato alla sicurezza del singolo, affinché possa «vivere in laboriosa pace la certezza dei suoi doveri, e con essa la sicurezza che intorno al suo focolare e intorno alla sua coscienza la legge ha innalzato un sicuro recinto dentro il quale è intangibile, nei limiti della legge, la sua libertà». Anche a questo proposito, sarebbe facile osservare che queste parole possono sembrare addirittura beffarde, se riferite a leggi che legittimano l´arbitrio. Delle leggi dei regimi autoritari o, peggio ancora, totalitari, tutto si può dire, ma non che esse valgano a protezione della sicurezza delle persone. Ma la preoccupazione di Calamandrei, risultante con evidenza dalla conferenza e da numerosi passi di altri scritti coevi, era la difesa, se non contro l´autoritarismo o il totalitarismo, almeno contro l´arbitrarietà del potere. Era un´ultima e minima linea difensiva, contro quello che in altri tempi si sarebbe detto il dispotismo, cioè il potere capriccioso, imprevedibile, casuale. Così, si spiega l´attaccamento alla legge e, per converso, la polemica contro quello che viene definito il "diritto libero", considerato il regno dell´arbitrio. (?)
Il "diritto libero" cui Calamandrei si riferisce è un movimento che "libera" la giurisprudenza dall´osservanza stretta della legge, ma allo scopo di sottoporla a una devastante soggezione, la soggezione alle minaccianti pressioni ideologiche e politiche dell´epoca. Gli esempi ch´egli porta, tratti dall´esperienza sovietica e nazista, non sono quelli che ci si aspetterebbe siano forniti da regimi politici e sociali in disfacimento, ma sono quelli di regimi che si sono affermati con durezza e integrità totalitaria. Se non ci si rendesse conto di questo punto, il "chiodo fisso" di Calamandrei ? l´incubo del diritto libero - resterebbe incomprensibile. Forse ci si avvicina al vero, osservando che il "diritto libero" che veniva offrendosi all´attenzione degli studiosi negli anni di Calamandrei era tutt´altro che "libero": era un diritto fortemente ideologizzato, era un diritto che si alimentava direttamente nella "legalità socialista" o nel Volksgeist nazista e nei loro "valori". L´attuazione di tali valori, una volta posta come compito dei giudici, avrebbe travolto ogni limite e legittimato ogni azione, perché di fronte ai valori "che devono valere" in maniera assoluta come fini, ogni mezzo è autorizzato. (?)
Ritorniamo, per un momento, alla "politica razziale", lo scoglio che la conferenza, nell´elogio della legalità, evita accuratamente. Certo, abbiamo difficoltà a vedere differenze di abiezione tra la persecuzione e lo sterminio pianificati per legge, da un lato, o, dall´altro, lasciati all´attivismo dei pogrom, delle azioni "spontanee" della "notte dei cristalli", delle direttive di partito e dei suoi funzionari, assunte fuori di ogni procedura legale in un raduno di gerarchi (la "conferenza di Wannsee", ad esempio), diramate illegalmente e in segreto (come avvenne in Germania e poi, dopo l´8 settembre, da noi, nella Repubblica sociale) ed eseguite con zelo creativo anche se, talora, con improvvisazioni controproducenti. Anzi, sotto certi aspetti, la procedura "legale" ci appare ancor più ributtante perché apparentemente "oggettiva", apparentemente "non coinvolgente" le responsabilità personali, apparentemente più "pulita". Sotto altri aspetti, però, pubblicizzando e burocratizzando le procedure, almeno si evitava di mettere direttamente in movimento il fanatismo ideologico e l´odio razziale che lo Stato etico diffonde nella società, facendo di ogni suo membro un organo o una vittima. Lo Stato, per quanto criminale, evitava almeno di trasformarsi in orda. La difesa della legalità aveva questo estremo significato. Calamandrei, per la sua concezione della legalità, probabilmente non avrebbe rifiutato la famosa immagine di Eraclito delle leggi come le "mura della città".