venerdì 19 settembre 2008

l’Unità 19.9.08
Immigrazione, l’Italia finirà davanti alla Corte di giustizia
La Ue: sicurezza, ricongiungimenti, rifugiati, tutto da riscrivere
Clandestinità, ieri la prima impugnazione per incostituzionalità
di Paolo Soldini


TUTTO SBAGLIATO, tutto da rifare, come diceva Gino Bartali. Ma non c’è purtroppo da scherzare: l’intera legislazione italiana sugli stranieri dell’era Maroni è contraria alla normativa europea. L’Italia, per l’Europa, è fuori legge. È illegale non solo il decreto
del cosiddetto «pacchetto sicurezza» con la norma che prevede come aggravante di reato la condizione di clandestinità (norma palesemente contraria anche alla Costituzione italiana e da parte di un giudice, ieri, c’è stata la prima impugnazione), ma lo sono anche i tre decreti legislativi di attuazione delle direttive comunitarie fatti ingoiare dal governo al parlamento. Se non verranno cambiati l’Italia finirà dritta dritta sui banchi degli accusati alla Corte di Giustizia. È vero che sono molte le procedure di infrazione adottate dalla Commissione Ue contro le autorità italiane (fra le più recenti: legge Gasparri, rifiuti a Napoli, progetto del il ponte di Messina), ma non è mai accaduto, finora, che uno stato membro si sia dovuto difendere davanti ai massimi giudici europei dall’accusa di aver violato diritti fondamentali delle persone.
A questo punto se Berlusconi e il suo incauto ministro dell’Interno tengono duro e si fanno deferire alla Corte mettono in conto una sentenza sicuramente negativa. Se poi non la rispettano, rischiano pesanti sanzioni pecuniarie da parte della Commissione. Ma, soprattutto, espongono il Paese al ludibrio. L’alternativa è che gli inquilini di Palazzo Chigi e del Viminale facciano macchina indietro tutta, accettino le osservazioni di Bruxelles e smantellino i provvedimenti con cui si presentarono agli italiani, mesi fa, spacciando la propria pietosa insipienza per una impietosa "tolleranza zero". La precipitosa marcia indietro di Maroni sulle impronte dei piccoli rom, l’assicurazione che le norme in materia di sicurezza sarebbero state inviate al Barleymont per un «esame preventivo» e una confusa promessa di «tenere aperti i tempi» dell’attuazione delle direttive lascerebbero pensare che ci si avvii per la seconda strada. Ma se è così, il ministro leghista e tutto il governo dovranno pagare un prezzo altissimo. Sarà come confessare che nei mesi scorsi si è fatta solo demagogia.
Una specie di legge del contrappasso ha fatto sì che la mazzata sul capo del ministro italiano sia venuta proprio dall’uomo che aveva cercato, nei giorni scorsi, di salvargli la faccia. Sono stati infatti i servizi del commissario alla Giustizia Jacques Barrot a spiegare nei dettagli tecnici che cosa intendeva il loro capo quando sosteneva che le nuove norme italiane abbisognavano ancora di qualche «correzione». Vediamo qualcuna delle obiezioni.
1) Le modifiche apportate dal governo Berlusconi al decreto legislativo del febbraio 2007 che recepiva la direttiva Ue 2004/38 sulla libera circolazione dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari sono illegittime sotto vari aspetti: tra l’altro, l’introduzione di termini temporali, l’allontanamento in base a criteri di «pericolosità sociale» e la detenzione di cittadini comunitari nei centri di identificazione.
2) Vanno riscritte anche le norme, introdotte con modifica del decreto di attuazione della direttiva 2005/85 sulle procedure per il riconoscimento e la revoca dello status di rifugiato. Procedure - dicono tra l’altro i servizi europei - caratterizzate da un inaccettabile pregiudizio di diffidenza.
3) Tutte sbagliate, infine, le norme introdotte da Maroni in materia di ricongiungimenti familiari. Per il diritto comunitario è inammissibile stabilire un’età minima per il coniuge che si voglia ricongiungere, è illecito (oltre che odioso) escludere gli invalidi e i figli maggiorenni che non provino il possesso di risorse proprie.
Si tratta solo di qualche esempio. Ma basta a far comprendere come la legislazione maronesca abbia bisogno di ben altro che di qualche «correzione». I decreti, che ora come ora sono legge dello Stato, andranno riscritti dalla prima all’ultima parola. Oppure resteremo i fuorilegge dell’Europa.

Corriere della Sera 19.9.08
Deputata olandese: rom torturati Al Senato insorge il Pdl


ROMA — «È vero che i carabinieri nei campi rom infilano la testa di ragazzi e bambini dentro secchi pieni d'acqua?».
Deputati e senatori italiani delle commissioni Affari costituzionali e politiche comunitarie di Camera e Senato strabuzzano gli occhi nell'ascoltare la domanda dell'europarlamentare verde Elly de Groen Kouwenhoven.
Assieme ad altri deputati di Strasburgo la de Groen è in Italia per discutere della situazione dei campi nomadi e delle misure adottate dal governo in materia di sicurezza. La de Groen, che a detta dei presenti ha usato «un tono provocatorio, ha provocato una vibrata reazione dei parlamentari. La rissa è stata evitata grazie agli interventi del deputato Mario Pescante (Pdl) e della senatrice Rossana Boldi, presidente leghista della commissione Politiche comunitarie. Il primo ha detto: «Forse si confonde con Auschwitz. Le sue accuse sono un insulto».
La de Groen ha criticato i provvedimenti dell'esecutivo. La Boldi ha rimarcato: «Non è ammissibile che una parlamentare rivolga accuse gratuite ai carabinieri».

l’Unità 19.9.08
Borghezio e neo-nazi, paura a Colonia
Raduno europeo anti-islamico, si temono scontri. Contro-corteo di 40 mila persone
di Roberto Brunelli


LA PLACIDA COLONIA ha paura. C’è chi, dalle pagine dei quotidiani tedeschi, lancia appelli ai cittadini comuni, ai negozianti agli «uomini degni»: quello di tirare giù le serrande, chiudere le botteghe e le finestre, disertare le strade. Qui, a due passi dal Duomo, oggi è domani arriverà la crème de la crème dell’ultradestra europea, dall’Fpö di Jörg Haider, ai separatisti fiamminghi del «Vlaams Belang», passando per simpatizzanti del Front National, fino organizzazioni xenofobe di varia estrazione, e non sono esclusi arrivi di elementi di chiara estrazione neonazista. Anche l’Italia è ben rappresentata: in mezzo a qualche croce celtica e vibrazioni razziste ci sarà Mario Borghezio, eurodeputato della Lega. Sì, lo stesso che voleva disinfettare con tanto di spray alcuni treni dalla presenza di donne africane, lo stesso che fa dichiarò, a proposito delle medaglie olimpiche tricolori, che erano la logica conseguenza della «superiorità padana».
Qualche migliaio gli ultra-destri attesi, così come è annunciata una contromanifestazione di 40 mila persone, alla cui testa dovrebbe sfilare lo stesso sindaco di Colonia, il democristiano Fritz Schramma. La polizia, che teme scontri, ritiene che quella che ha dinnanzi sarà «la prova più difficile di sempre». «No all’islamizzazione dell’Europa», gridano i manifestini diffusi in tutta la città e, tramite i siti internet, in tutto il Vecchio Continente. L’obiettivo degli organizzatori non è soltanto quello di bloccare la costruzione di una grande moschea nella «città degli immigrati»: la sfida è quella di far fare al movimento dell’estrema destra europea «il vero salto di qualità». Creare un’alleanza su scala continentale, in nome di quella che loro chiamano «l’Europa delle patrie fiera e libera, contro il terrorismo islamico, i predicatori d’odio, le bande criminali di giovani turchi e arabi, i copricapo in stoffa, burqa, veli...» e quant’altro. Il loro sogno: metter su una lista comune per le elezioni europee del 2009. Tra i nomi più sbandierati, tuttavia, si registrano nelle ultime ore alcune defezioni eccellenti. Non ci sarà Jean-Marie Le Pen. Non ci sarà il candidato cancelliere dell’Fpö, Heinz-Christian Strache. Markus Beisicht, il leader del gruppo che ha lanciato l’inziativa («Pro-Köln»), teme invece altre visite non gradite: «Non sarebbe una buona cosa se i neonazisti facessero concentrare su di noi un’attenzione sbagliata». Borghezio, che sarà accolto da una squadra di poliziotti in tenuta antisommossa e sarà accompagnato da un gruppo di vetero-leghisti di Mantova, di tutto ciò non si cura: lui ci sarà, e a tradurre il suo comizio sarà una dirigente del Pdl in Germania. Chissà se sa, da europarlamentare, che l’Iran ha chiesto all’Ue di proibire il congresso degli ultra-destri. Non importa: oggi qui è uno degli oratori più attesi.

l’Unità 19.9.08
Abba era a terra, l’hanno colpito più volte
I risultati dell’autopsia sul giovane preso a sprangate. Tensioni a Milano
di Giuseppe Caruso


VERITÀ Non un solo colpo, ma diverse sprangate. L’autopsia sul corpo di Abdul “Abba” Guibre ha confermato la ricostruzio-
ne degli amici del ragazzo, sconfessando Fausto e Daniele Cristofoli, che davanti al gip Micaela Curami avevano sostenuto di aver sferrato un solo colpo. Nelle motivazione il giudice aveva parlato di «zone d’ombra» nella loro testimonianza, con riferimento anche al numero di colpi dati al povero Abdul quando era a terra, incosciente.
Ancora da chiarire però quando e come le sprangate siano state portate e chi ha sferrato quella che ha provocato la morte di Abba. Daniele Cristofoli, il figlio, 31 anni ed un piccolo precedente penale per un reto commesso nei confronti di un compagno di classe, se ne è presa la responsabilità. Ma gli inquirenti vogliono capire se invece non possa essere stato il padre Fausto, 53 anni, con alle spalle condanne per rapina a mano armata e stupro, a dare il colpo mortale
Intanto i genitori di Abdul hanno voluto lanciare un appello alle persone che si trovavano alla finestra quel mattino e che hanno assistito all’episodio, affinché vadano dal magistrato o alla polizia per raccontare ciò che hanno visto.
«Vogliamo ringraziare tutti coloro che ci sono stati vicini in questi giorni tragici» hanno detto «soprattutto il Comune di Cernusco sul Naviglio. Parteciperemo alla manifestazione indetta sabato alle 14.30 a Milano, perché vogliamo che nessuno muoia a causa del colore della propria pelle». I genitori di Abdul ieri mattina hanno effettuato il riconoscimento del corpo del figlio sul quale hanno riscontrato le svariate ferite accertate poi dall’autopsia.
Ieri si sono vissuti attimi di tensione durante il corteo organizzato dal Coordinamento dei Collettivi Studenteschi in memoria di Abdul. Mentre il corteo, formato da circa 200 ragazzi, transitava vicino al bar Shining di via Zuretti di proprietà dei Cristofoli, alcuni giovani hanno lanciato un secchio di vernice bianca e una bottiglia di vetro contro la saracinesca del locale.
Dopo pochi minuti di confusione, con la polizia in assetto antisommossa schierata a difesa del bar, la manifestazione, partita da Largo Cairoli intorno alle 9.30, è ripresa senza incidenti . Molti gli slogan antirazzisti e contro le «politiche dell’insicurezza e dell’ignoranza» del governo. Al corteo ha partecipato anche la sorella di Abba.

l’Unità 19.9.08
Materie e prof, così si decapita l’istruzione
Ecco il piano del ministro dell’Istruzione: via 48mila insegnanti già dal prossimo anno
di Maristella Iervasi


MAESTRO unico anche alla materna, accesso all’università solo per gli studenti con maturità liceale. Tutti in classe ma solo di mattina e circa 60mila docenti «rispediti» a scuola di lingua inglese per una formazione specializzata obbligatoria. Ecco come la «cu-
ra» Tremonti-Gelmini si abbatte sulla scuola pubblica. Oggi alle 15 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini illustrerà ai sindacati Flc-Cgil, Cisl e Uil scuola lo schema di piano programmatico. 24 pagine fitte fitte che stravolgono l’attuale «sistema scolastico»: dai quadri orari ai piani di studio. Uno tsunami senza precedenti per le famiglie italiane, i docenti, i precari e tutto il personale della scuola. Una contro-riforma a tutto tondo portata avanti senza mai ascoltare la voce dei diretti interessati che in tutto lo Stivale si alternano a staffetta nella raccolta di petizioni sotto gli istituti contro il piano «da restaurazione» di viale Trastevere.
Per il duetto Tremonti-Gelmini la scuola è vista come un capitolo di bilancio. Il decreto legge 112 prevede esplicitamente che siano tagliati nel triennio 2009-2012 circa 87mila 341 posti docenti e 44.500 posti di personale Ata (collaboratori scolastici, amministrativi e assistenti tecnici). Così ecco pronto il calcolo dello strumento contabile a scapito della qualità: nell’anno scolastico 2009-2010, ad esempio, verranno tagliati 42.105 posti docenti e 15.166 di personale Ata. Dalle prime anticipazioni solo a partire dal prossimo anno ci saranno 15.740 maestri in meno nella scuola elementare; 16.431 prof in meno alle medie; 12mila nella scuola superiore e 15.166 posti in meno tra collaboratori scolastici, amministrativi e assistenti tecnici. Tagli agli organici e alla didattica, solo per risparmiare circa 8 miliardi di euro nel prossimo triennio. Tra le regioni più penalizzate la Campania di Bassolino e la Lombardia di Formigoni, quest’ultima è in testa anche per l’impiego di classi a tempo pieno (oltre 9mila). Enrico Panini, segretario generale della Flc-Cgil, prende in castagna la Gelmini: «Non è vero che la spesa per la scuola non è fuori controllo. Non è vero che aumentano i docenti e diminuiscono i bambini: dal 2001 al 2008 gli alunni sono costantemente cresciuti mentre i docenti sono diminuiti del 4-5%. Non è vero - insiste il sindacalista - che il 97% della spesa della scuola è destinata agli stipendi. La spesa è così composta: 42 miliardi dello Stato, 10 miliardi da regioni ed enti locali. Un totale di 52 miliardi. Per gli stipendi del personale si spendono 40 miliardi circa». E Massimo Di Menna della Uil-scuola, avverte: «L’incontro non si può ridurre a un’informativa. La via maestra non può essere l’ossessione del risparmio. Il maestro unico non è una ascia ideologica da abbattere sulla scuola primaria. Gli aspetti legati al piano non devono mettere in ombra la questione centrale: le basse retribuzioni e il personale precario. Aumenti retributivi da subito nel contratto, altrimenti forte mobilitazione». Un faccia a faccia insomma per niente facile, viste le premesse della vigilia. Con la Gelmini che ripete a mo’ di litania le stesse parole: «Liberare risorse per garantire libertà di scelta alle famiglie». Una mossa politica che la Flc-Cgil sintetizza così: «Si vuole chiudere con il peso economico della scuola statale per tutti, per svenderla ai privati».
MATERNE «L’orario obbligatorio delle attività educative si svolge anche solamente nella fascia antimeridiana, impiegando una sola unità di personale docente per sezione» - si legge nello schema piano programmatico Gelmini-Tremonti. Oggi il rapporto nelle scuole materne è di 2 maestre ogni 25-28 bambini con orario prolungato fino al pomeriggio e non tassativo alle 12.30. Con la maestra unica i piccoli dai 3 ai 5 anni non potranno più andare neppure in giardino, visto che per le «uscite» didattiche il rapporto previsto per legge è di un docente ogni 15 bambini.
ELEMENTARI «Va privilegiata l’attivazione di classi affidate ad un unico docente e funzionanti per un orario di 24 ore settimanali», è l’aut-aut della bozza-programmatica. Il piano Gelmini-Tremonti ipotizza anche una articolazione del tempo scuola su 27-30 ore di insegnamento tutta da inventare e a carico delle scuole. Mentre l’attuale tempo pieno verrebbe cancellato per far posto agli inevitabili doposcuola-parcheggio.
LINGUA INGLESE L’insegnamento verrà «affidato» ad un docente di classe «opportunamente specializzato». Gli attuali oltre 11mila docenti specialisti di lingua straniera verranno «progressivamente» eliminati nel tempo. Oltre 60mila insegnanti verranno quindi obbligati a seguire una formazione linguista di 150/200 ore. Verrebbe cancellata la norma contrattuale sull’aggiornamento come attività non obbligatoria.
TECNICI E PROFESSIONALI Meno orari, meno indirizzi e meno discipline. Di fatto, passo sbarrato per l’accesso all’università. Se ne discuterà nei prossimi giorni in un tavolo tecnico.

l’Unità 19.9.08
L’immaginazione è soprattutto rivoluzione
di Georges Didi-Huberman


IL GRANDE STORICO DELL’ARTE spiega come l’esperienza psichica dell’immaginare non solo consenta di mobilitare uno sguardo nuovo sul mondo ma soprattutto offra un enorme potere politico

Walter Benjamin ha parlato del surrealismo, questo straordinario dispiegamento dei poteri dell’immaginazione, come dell’«ultima istantanea sugli intellettuali europei». Con ciò, egli intendeva collocare l’immaginazione in un contesto immediatamente filosofico, se non addirittura politico. La questione, infatti, è anzitutto quella del rapporto «tra fronda anarchica e disciplina rivoluzionaria», tra libertà poetica ereditata da Rimbaud (di cui cita un passaggio tratto dalle Illuminazioni) e vincoli inerenti ad ogni azione politica collettiva. La vulnerabilità del rapporto tra illuminazione e azione è dovuta alla differenza, che può essere del tutto trascurabile o invece radicale, tra prendere posizione e prendere partito. Per esempio, non è sicuro che Aragon prenda già partito in Une vague de rêves, pubblicato nel 1924. Ma il «nucleo dialettico» del suo lavoro, come ebbe a dire Benjamin, è ben leggibile nella sua propensione a sperimentare, «là dove la soglia tra veglia e sonno (è)in ciascuno attraversata dal flusso e riflusso di un’enorme massa di immagini».
Descrivendo questa situazione poetica sperimentale e scoprendola agitata dal «flusso e riflusso di un’enorme massa di immagini», Benjamin utilizza una terminologia inaspettata per chi è solito associare questa «massa di immagini» alla «fantasia» personale del creatore ispirato. In effetti, non si tratta di fantasia, ma di una «esattezza automatica», qualità oggettiva di cui ogni flusso o riflusso di immagini risulta investito. In questo caso, dunque, l’illuminazione è automatica. Semplificando un po’ - giacché in ogni opera, in ogni esperienza concreta, tutto ovviamente si mescola e si complica - si potrebbe dire che, secondo Benjamin, il fondamento del surrealismo consiste proprio nell’associare, nel combinare, nel montare assieme due automatismi simmetrici: da una parte, il reflusso automatico delle immagini «interiori»; dall’altra, il flusso automatico delle immagini «esteriori».
Il primo automatismo è di natura psichica: è quello che va, nel libero impiego che ne fanno i surrealisti, dall’«automatismo mentale» di cui parla Pierre Janet alla «coazione a ripetere» di cui parla Freud. Automatismo di ripetizione e di ebbrezza che comporta, dice Benjamin, un «vero e proprio superamento creatore dell’illuminazione religiosa». La propedeutica a questo tipo di illuminazione non è dunque più il credo o l’esercizio spirituale alla maniera gesuitica, cose che Georges Bataille respingeva anche nella propria tecnica di «esperienza interiore», ma, eventualmente, il ricorso agli stupefacenti: una propedeutica «materialistica», dice Benjamin, «ma pericolosa». In Nadja di André Breton - che, su questo piano, rinnova la «dialettica dell’ebrezza» già presente in Dante, il Dante poeta del mondo terreno analizzato da Erich Auerbach e citato in questo saggio da Benjamin - è l’amore, e non la droga, a condurre all’illuminazione. Analogamente, nella Storia dell’occhio di Bataille, questa funzione sarà svolta dall’esperienza erotica.
Ebbene, in queste esperienze surrealistiche Benjamin scorge un’autentica unione di «energie rivoluzionarie»: uno «sguardo politico» finalmente rivolto al mondo in generale. L’esperienza psichica dell’immaginazione ha, qui, la vocazione di trasformarsi in presa di posizione: vi è «passaggio da un atteggiamento estremamente contemplativo all’opposizione rivoluzionaria». E ciò avviene grazie a una doppia conversione, a una doppia deviazione: l’ebbrezza interiore si trasforma in pensiero reminiscente (deviazione attraverso la durata), e quest’ultima mobilita uno sguardo nuovo sul mondo esteriore (deviazione attraverso le cose).
È a questo punto, ricorda Benjamin, che interviene «la fotografia (…)in maniera assai singolare». Grazie alle sue possibilità tecniche, quali l’inquadratura (ovvero i difetti di inquadratura), la messa in serie e la frammentazione (ovvero lo smontaggio e il rimontaggio), la fotografia rende visibile o, piuttosto, illumina un mondo «dove ogni giorno affiorano inimmaginabili analogie e intrecci di eventi». Benjamin la chiama capacità di lirismo - a condizione di sapere che il lirismo e l’illuminazione di cui si parla dipendono dalle possibilità dischiuse dal medium fotografico, ossia da un automatismo di riproduzione e di oggettività. Da ciò deriva il carattere a un tempo fantasmatico e documentario, testimoniale e rivoluzionario della produzione di immagini fotografiche, divenuta il principio paradigmatico del surrealismo letterario e artistico in generale.
Benjamin, com’è noto, chiama questo potere della fotografia «illuminazione profana» (profane Erleuchtung), espressione divenuta famosa, benché sia ancora tutta da charire. La sua «ispirazione», precisa Benjamin, è «materialista» e «antropologica». In quanto esperienza di illuminazione, essa scaturisce ormai direttamente dagli oggetti più umili e, soprattutto, dai corpi, che il surrealismo aveva riconosciuto come il primo luogo delle energie rivoluzionarie. Fare della poetica una politica equivale dunque a deviare, a trasformare - senza per questo negarla - la sorpresa da cui probabilmente traggono origine i gesti artistici: (…)
Il legame stabilito da Benjamin tra l’«illuminazione profana» e la tecnica fotografica rivela che il «flusso» dell’ebbrezza non sarebbe nulla - nulla che valga, che duri, che abbia valore critico - senza la costruzione delle sue immagini nel tempo. Costruzione della durata che non potrebbe effettuarsi, in effetti, senza una mediazione tecnica. Ciò che l’ebbrezza fa sorgere come illuminazione o «istante utopico» dell’immagine, tocca all’immaginazione - concepibile come «durata utopica» dell’immagine - trasformare in una esperienza di pensiero, in una «immagine di pensiero». Proprio perché è un gioco, proprio perché smonta continuamente ogni cosa, l’immaginazione è costruzione imprevedibile e infinita, ripresa perpetua di movimenti iniziati, contraddetti, sorpresi nelle loro inedite possibilità di cambiamento.
Ora, questa costruzione si svolge, dialetticamente, su due piani nello stesso tempo: essa dispone le cose per meglio esporne le relazioni. Crea rapporti insieme a differenze, lancia dei ponti sopra gli abissi che essa stessa ha dischiuso. È dunque montaggio, attività in cui l’immaginazione diviene una tecnica - un artigianato, un’attività manuale e strumentale - che produce pensiero alternando incessantemente differenze e relazioni. (…)
Diviso tra la posizione di Martin Buber e quella di Bertolt Brecht, Benjamin non fu compreso da nessuno dei due. La sua dialettica era troppo arrischiata, troppo esigente, così come il suo rapporto con la tradizione, da una parte, e la rivoluzione, dall’altra, era troppo anacronistico, apparentemente votato all’impossibile. Ma così facendo Benjamin toccava il cuore stesso della questione che qui ci interessa, e cioè il rapporto tra immaginazione e storia.
L’immaginazione del veggente - che si tratti di Rimbaud, di Kafka o dello stesso Benjamin - si appoggia necessariamente sui documenti dell’osservatore, ma si sente anche autorizzata a prendere il materiale storico in contropelo, disorganizzando, allegramente o dolorosamente, ciò che viene suggerito dalle evidenze causali di superficie. Occorrono delle immagini per fare la storia, soprattutto nell’epoca della fotografia e del cinema. Ma ci vuole l’immaginazione per rivedere le immagini e, dunque, per ripensare la storia.

Corriere della Sera 19.9.08
Parigi Simbolica protesta alla «Tour d'Argent» contro il lavoro irregolare. La proprietà: sistemeremo tutti
Occupato il «ristorante dei re» In sala siedono solo i lavapiatti
di Massimo Nava


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PARIGI — Persino il più famoso ristorante di Parigi impiega immigrati irregolari. Non è un'accusa, ma un fatto, denunciato da una quarantina di «sans papiers» che hanno organizzato mercoledì sera un'occupazione simbolica della «Tour d'Argent», il celebre tempio della gastronomia, dove si gusta (e si paga come «argent ») l'anatra numerata per ogni cliente. Fra essi, alcuni dipendenti del locale — a quanto pare sette lavapiatti impiegati da diversi anni — e altri clandestini che si sono uniti alla protesta per solidarietà. In sostanza, autodenunciandosi, i lavoratori sperano in una regolarizzazione.
«Lavoro qui da nove mesi, cinque giorni su sette, dalle 10 alle 19, per 1.200 euro al mese, pago persino i contributi sociali a mio carico e potrei essere espulso dalla Francia dall'oggi al domani», dice Mediba, un giovane del Mali, seduto con i suoi compagni di lavoro sulle sedie in raso dei lussuosi saloni della «Tour».
Per evitare danni eccessivi all'immagine del locale — i clienti ieri sono entrati da una porta secondaria — la direzione ha immediatamente reagito. Fabrice Rollo, responsabile delle risorse umane, ha dichiarato di non essere al corrente della presenza di lavoratori clandestini, ma si è impegnato ad avviare subito le procedure burocratiche per la regolarizzazione. «È una buona notizia, ma restiamo vigili», ha detto il rappresentante della Cgt, il sindacato che ha avviato da tempo la battaglia in difesa dei sans papiers, in particolare nei settori della ristorazione e dei servizi.
Nella giornata di ieri, su ordine della direzione, i clandestini sono stati costretti a lasciare il ristorante. Ne sarebbe nato qualche parapiglia fra impiegati regolari, addetti alla sicurezza e al servizio e sans papiers. Alcuni hanno sporto denuncia per violenza. «Anche la Tour d'Argent dovrà rispondere alla giustizia e rispettare i diritti dei lavoratori», ha fatto sapere la Cgt, che intende rivolgersi alla magistratura.
Nei mesi scorsi, altri famosi ristoranti e ritrovi parigini sono stati occupati per denunciare un fenomeno che — comprendendo imprese di pulizie, fast food e bar — riguarderebbe migliaia di persone. In alcuni casi, come avvenuto la primavera scorsa al Bistro Romain, una nota brasserie sugli Champs-Elysées, i proprietari del ristorante hanno dichiarato di essere solidali con i lavoratori in sciopero e di aver depositato presso la prefettura di Parigi i dossier di regolarizzazione. Ma si è scoperto che almeno una settantina di impiegati erano irregolari.
Di fronte al giro di vita imposto dal governo, che negli ultimi mesi ha intensificato controlli ed espulsioni, l'autodenuncia dei camerieri e la solidarietà dei datori di lavoro può sembrare un risvolto grottesco e paradossale del problema, ma in sostanza conferma la scarsa sintonia fra misure di carattere politico e la realtà sociale ed economica di attività produttive (servizi, ristorazione, servizi alla persona) che non potrebbero funzionare a regime senza l'apporto di lavoratori stranieri.
Il primo maggio scorso, per la prima volta migliaia di sans papiers sono sfilati in testa al corteo assieme ai lavoratori regolari.
Negli ambienti del ministero dell'Immigrazione si ritiene che la solidarietà dei datori di lavoro e la pubblicità data all'avvio delle pratiche di regolarizzazione sia in qualche caso un modo per tirare una riga sulle irregolarità del passato, ma nello stesso tempo si è deciso di ampliare le possibilità di regolarizzazione, pur sottoponendo le richieste ad un esame caso per caso dei dossier. Dall'inizio del movimento, su circa 1.700 domande, più di 900 sono state accolte. E la regolarizzazione alimenta d'altra parte la speranza di nuove possibilità. Proprio ieri, alcune imprese di pulizia e artigianato sono state bloccate dallo sciopero di dipendenti irregolari, mentre proteste e astensioni dal lavoro si segnalano in alcune aziende editoriali.
Il sindacato, come dice Raymond Chauveau della Cgt, non chiede sanatorie generalizzate, ma regole uguali su tutto il territorio nazionale. «Oggi si hanno differenze di trattamento da una prefettura all'altra o da un'azienda all'altra». A quanto pare, anche da un ristorante all'altro, come alla Tour d'Argent: anatre numerate e lavapiatti senza documenti.

Corriere della Sera 19.9.08
Anteprima Lo scrittore, che oggi inaugura Pordenonelegge, racconta il nuovo libro, viaggio in un'epoca in cui «la letteratura diventa esplorazione»
Baudelaire, la follia che travolge Parigi
Roberto Calasso: ecco perché siamo ancora immersi nell'onda culturale creata dal poeta
di Cristina Taglietti


C'è un'onda Baudelaire che da tempo si infrange sulle pagine di Roberto Calasso. Un'onda lunga che è facile seguire in molti capitoli di quel grande romanzo di famiglia ancora in corso (formato da La rovina di Kasch, Le nozze di Cadmo e Armonia, Ka, K. e Il rosa Tiepolo, un insieme a oggi di oltre 2.500 pagine) che elabora materiali diversi, tutti strettamente connessi tra loro, senza che possano essere assegnati a un genere preciso. Risponde a queste caratteristiche anche il sesto pannello, La Folie Baudelaire, in uscita ad ottobre da Adelphi (pp. 425, e 36), indagine eruditissima e avvolgente, dall'andamento romanzesco, su un'epoca straordinaria che ha il suo centro nell'autore di «Les Fleurs du mal». La Folie del titolo infatti non fa riferimento soltanto a ciò che si sottrae al ragionevole controllo, ma anche a «certe incantevoli maisons de plaisance », padiglioni settecenteschi destinati all'ozio e al piacere. Questo «chiosco bizzarro, civettuolo e misterioso» (così lo definì Sainte-Beuve) che Baudelaire avrebbe trovato il modo di costruirsi in una sorta di Kamchatka, «all'estremità di una lingua di terra reputata inabitabile e al di là dei confini del romanticismo conosciuto», si rivelerà essere il luogo stesso della letteratura e finirà con l'incarnare l'intera città di Parigi nel periodo che va da Chateaubriand a Proust. «La vera letteratura si situa lì — spiega Calasso —. Lì vanno a finire i grandi scrittori, questo diventa la letteratura di quegli anni: un'esplorazione di territori non conosciuti prima». Dall'onda Baudelaire, che ha inizio prima di lui, verranno raggiunti in molti: Chateaubriand, Stendhal, Ingres, Delacroix, Rimbaud, Nietzsche, Flaubert, Manet, Degas, Lautréamont. Le loro storie si intrecciano in questo libro, in un continuo gioco di rapporti, risonanze, divergenze. «È un periodo estremamente affascinante — spiega Calasso —. Allora Parigi era la città più importante d'Europa, almeno in quanto cardine di una certa sensibilità. Infatti uno dei titoli che Benjamin aveva in testa era Parigi capitale del XIX secolo. Ma la cosa interessante è come quella fase, quell'onda, si proiettino fino ad oggi. Quella tastiera intellettuale è la stessa che noi usiamo ancora, se sappiamo usarla. È un'eredità preziosa e non c'è che da procedere al suo interno».
Il primo incontro di Calasso con Baudelaire risale agli anni Cinquanta. «È stato il primo grande poeta non italiano che ho letto. In quegli anni la nostra cultura subiva l'enorme influenza di Croce. Leggere il suo saggio Poesia e non poesia era d'obbligo. Il capitolo su Baudelaire era una severa condanna e quando lo lessi ebbi subito il senso che le mie inclinazioni andavano proprio nella direzione biasimata». Curioso, per colui che diventerà l'editore di Croce. «Sono ben felice di esserlo, però quell'idea di letteratura Croce non l'ha colta e tutta la tradizione italiana ha fatto molta fatica a seguirla».
Il cuore del libro, da cui si diramano tutte le altre storie, è un sogno di Baudelaire ambientato in un bordello-museo. Nel sogno il poeta appare in tutta la sua peculiarità, che implica un certo senso di estraneità al mondo, la percezione di essere «indecente comunque, veicolo di un elemento squilibrante che turba con equanimità la virtù e il vizio». Condannato suo malgrado a quella che Calasso, citando Bobi Bazlen, chiama «primavoltità » e che già Laforgue aveva identificato, Baudelaire lo si capisce innanzitutto all'interno della triade moderno-nuovo-décadence, tre parole che si irradiano da ogni sua frase e che ricadono su tutto ciò che avverrà dopo. «La parola modernité
appare per la prima volta nel lessico francese proprio in quel periodo — dice Calasso — ma è stato Baudelaire a darle un profilo netto. La categoria della décadence è paradossale perché il suo vero senso, quello che va più lontano, lo raggiunge con Nietzsche, che lo deriva direttamente da Baudelaire, l'unico francese nel quale avverte l'antenna metafisica. Sotto la categoria del "nuovo" invece si muovevano cose che attraevano moltissimo Baudelaire ma che gli sembravano anche una macchina atroce, una tenebra incombente sotto l'apparenza del progresso. E infatti fu tra i critici più feroci della nuova società».
Quanto alla rivoluzione poetica di Baudelaire, la si può benissimo situare all'interno della tradizione: per lui la poesia occupava lo stesso posto che aveva avuto per Orazio o per Racine, eppure nei suoi versi si cristallizza una «costellazione percettiva» che non era mai apparsa prima. «Baudelaire non ha avuto la preoccupazione di mutare radicalmente le forme, non è mai caduto nella trappola dell'avanguardia, il mutamento è tutto dall'interno, è la sensibilità che cambia — spiega Calasso —. È un po' come Chopin: ci sono timbri che appaiono lì per la prima volta. Baudelaire scriveva con fatica, si sente sempre un certo cigolio nei suoi versi. Hugo era un artigiano molto più inventivo, però in lui non si ha mai quella percezione della novità timbrica e speculativa che si ha in Baudelaire. D'altra parte, fu lo stesso Hugo a riconoscere che Baudelaire aveva dato "un brivido nuovo" alla poesia. Quel brivido lo si avverte oggi come allora». Non è un caso che Calasso riprenda un'acuta osservazione di Laforgue sull'«americanismo » di Baudelaire. «Sull'America in genere Baudelaire scriveva cose abbastanza banali — spiega Calasso —. La vedeva in modo stereotipato, come il regno dell'utilitarismo e della grossolanità, contrario alla cultura, ignorando che i più grandi scrittori americani, come Melville, Dickinson, Hawthorne operavano proprio in quel periodo. Il suo americanismo, secondo Laforgue, risiede invece in una sorta di vocazione per l'eccesso. L'esasperazione, lo stridore voluto, la sproporzione delle immagini, certi paragoni in cui si vedono i fili di ferro e i trucchi, tutte cose che esploderanno in Rimbaud, appaiono per la prima volta in Baudelaire».
D'altro canto il vero moderno che prende corpo proprio con lui è la caccia alle immagini. Questo fa di lui il passaggio obbligato anche per comprendere la pittura del suo tempo. «Baudelaire è stato il più grande critico d'arte dell'Ottocento. Quello che ha scritto sui pittori che aveva intorno è ancora oggi stupefacente. Il suo saggio "Le peintre de la vie moderne" è un testo provocatorio perché prende come pittore esemplare della vita moderna Guys, un illustratore che faceva schizzi per un giornale inglese, una specie di reporter, attività che allora suonava poco seria. A partire dalla sua opera, Baudelaire costruisce un meraviglioso edificio che si regge benissimo e serve a capire anche tutto l'impressionismo. La sua intuizione poi si proietta all'indietro. In un altro libro ho provato a mostrare come il pittore della vita moderna che più corrisponde ai suoi canoni sia un artista che Baudelaire non ha mai avuto modo di vedere, Tiepolo, il quale passava per essere l'ultimo, attardato esempio della pittura veneziana». Il riferimento al pittore rivela anche lo stretto legame tra Il rosa Tiepolo e La Folie Baudelaire:
«Sono nati insieme, anzi Il rosa Tiepolo era una parte di La Folie Baudelaire che si è staccata quasi spontaneamente. Andrebbero letti uno dentro l'altro».
Da Baudelaire si irradia e ricade su tutta l'arte del tempo anche un motivo ispiratore fondamentale, la figura femminile. In particolare per Manet e Degas, che sono fra i personaggi principali del libro. «Manet e Degas senza la figura femminile non esisterebbero e Renoir disse, con una certa brutalità, che se Dio non avesse creato "le carni della donna" lui non sarebbe mai stato pittore. Anche in questo caso Baudelaire è il perno: le immagini femminili che evoca e vanno dal diabolico all'angelico sono un ventaglio variegato, che si riproporrà in variazioni innumerevoli fino a oggi. Non è solo un fatto sentimentale o sensuale, ma metafisico: dietro la donna c'è la natura, lì viene fuori tutta la teologia implicita in Baudelaire».

Repubblica 19.9.08
I segreti dei disegni di Leonardo svelati da un grande fisico
di Fritjof Capra


Lo scienziato l´artista e creatore di forme. La lezione di Fritjof Capra, autore di "Il punto di svolta" alla rassegna Pordenonelegge
Lavorò con la natura invece di dominarla La sua era una scienza gentile
Chiamava tutte le creazioni umane "invenzioni" e si è sempre definito un inventore

Leonardo da Vinci, il grande maestro della pittura e genio del Rinascimento, è stato l´argomento di centinaia di libri sia dotti che popolari. Tuttavia, ci sono sorprendentemente pochi libri sulla scienza di Leonardo, anche se ha lasciato taccuini voluminosi pieni di descrizioni dettagliate dei suoi esperimenti, meravigliosi disegni, e lunghe analisi delle sue scoperte.
Inoltre, la maggior parte degli autori che hanno parlato del suo lavoro scientifico, lo hanno fatto guardandolo attraverso le lenti newtoniane. Questo ha spesso impedito loro di comprendere la natura essenziale della sua scienza, che è una scienza delle forme organiche, una scienza delle qualità, completamente differente dalla scienza meccanicistica di Galileo, di Cartesio e di Newton. (...)
Nella storia intellettuale occidentale, il Rinascimento segna il periodo della transizione dal medioevo all´età moderna. Negli anni 60 a 70 del Quattrocento, quando il giovane Leonardo ricevette la sua formazione come pittore, scultore ed ingegnere a Firenze, la visione del mondo dei suoi contemporanei era ancora avvolto nel pensiero medioevale.
La scienza in senso moderno, come metodo sistematico empirico per ottenere conoscenza sul mondo naturale, non esisteva. La conoscenza dei fenomeni naturali fu trasmessa da Aristotele e da altri filosofi dell´antichità ed è stata poi fusa con la dottrina cristiana dai teologi scolastici che la presentavano come la dottrina ufficiale. Esperimenti scientifici vennero condannati come sovversivi, e si considerava qualsiasi attacco alla scienza aristotelica come un attacco alla chiesa stessa. Leonardo da Vinci ruppe con questa tradizione (...).
Cento anni prima di Galileo e Bacone, Leonardo sviluppò da solo un nuovo approccio empirico, coinvolgendo l´osservazione sistematica della natura, il ragionamento e la matematica - cioè le caratteristiche principali di quello che oggi si conosce come il metodo scientifico. (...).
Leonardo si rese conto che la fantasia non è limitata agli artisti, ma è una qualità generale della mente umana. Chiamava tutte le creazioni umane - tanto i manufatti come le opere d´arte - «invenzioni», e per tutta la sua vita si è visto come inventore. Dal suo punto di vista, un inventore era qualcuno che generava un manufatto o un´opera d´arte, riunendo vari elementi in una configurazione nuova che non compariva in natura. Questa definizione si avvicina molto alla nostra nozione di un designer, che non esisteva nel Rinascimento. Il concetto di design, come una professione separata, è emerso soltanto nel ventesimo secolo. Durante l´era pre-industriale, il design era sempre una parte integrante di un processo più grande che includeva la soluzione di problemi, l´innovazione, il dare-forma, la decorazione, e la produzione.
Quindi, Leonardo non separò il processo del design - ossia la configurazione astratta di vari elementi - dal loro incorporamento materiale. Tuttavia, sembrava sempre più interessato al processo del design che alla relativa realizzazione fisica. La maggior parte delle macchine e dei dispositivi meccanici che inventò e che presentò in disegni magnifici, non fu costruita; la maggior parte dei suoi schemi d´ingegneria, sia militare o civile, non fu realizzata; e anche se era famoso come architetto, il suo nome non è collegato con alcun edificio conosciuto. Perfino come pittore, sembrava spesso più interessato alla soluzione dei problemi di composizione che al completamento effettivo dell´opera. Leonardo da Vinci, l´archétipo "uomo universale", era un artista, uno scienziato e un designer, e lui integrava quelle tre discipline in un tutto armonioso. (...)
Leonardo non ha perseguito la scienza e l´ingegneria per dominare la natura, come Francesco Bacone sosteneva un secolo più tardi. Quella di Leonardo era una scienza gentile. Egli aborriva la violenza e provava una compassione particolare per gli animali. Era vegetariano perché non voleva provocare soffrenza agli animali uccidendoli per cibarsene. Comprava al mercato gli uccelli tenuti in gabbia per liberarli, e osservava il loro volo non soltanto con l´occhio acuto dello scienziato, ma anche con una grande empatia (...).
Invece di cercare di dominare la natura, l´intento di Leonardo era sempre di imparare da lei quanto più possibile. Aveva un grande timore reverenziale per la bellezza che vedeva nella complessità delle forme, degli schemi e dei processi naturali, ed era consapevole del fatto che l´ingegno della natura era di gran lunga superiore alle invenzioni umane (...).
Come Leonardo da Vinci 500 anni fa, il moderno ecodesigner studia gli schemi e i flussi del mondo naturale e cerca di incorporare i principi che ne sono alla base nelle sue progettazioni. Quando Leonardo progettava ville e palazzi, dedicava un´attenzione particolare ai movimenti delle persone e delle cose negli edifici, applicando la metafora dei processi metabolici ai suoi progetti architettonici. E considerava anche i giardini come parte degli edifici, nel tentativo costante di integrare architettura e natura. Applicava gli stessi principi alla progettazione urbana, poiché in una città vedeva una specie di organismo in cui le persone, i beni materiali, il cibo, l´acqua, e gli scarti dovevano fluire liberamente perché la città fosse in buona salute.
Questi esempi di trattare i processi naturali come modelli per il design umano, e di lavorare con la natura invece di cercare di dominarla, ci mostrano che Leonardo, come designer, lavorava nello spirito che il movimento dell´ecodesign propone oggi. Alla base di questo atteggiamento di stima e rispetto per la natura c´è un orientamento filosofico che non considera gli essseri umani separati dal resto del mondo vivente, ma fondamentalmente inseriti nell´intera comunità vivente della biosfera, e da essa dipendenti.
Oggi questa filosofia è sviluppata dalla scuola di pensiero conosciuta come «ecologia profonda.

il Riformista 19.9.08
Cremaschi: «Bravo Epifani, adesso devi continuare così»
«Dal governo solo un thatcherismo alle vongole»
di Alessandro De Angelis


«Bravo Guglielmo. Continua così». Il leader della Rete 28 Aprile Giorgio Cremaschi sottoscrive il no di Epifani su Alitalia e la linea dura sulla riforma del modello contrattuale. E afferma: «Una Cgil antagonista serve al paese».
Cremaschi, avete fatto ritirare Cai.
«Abbiamo assunto una posizione seria e responsabile. Come lei sa non mi capita spesso di condividere le scelte di Epifani. Ma bisognava dire no agli ultimatum».
In che senso?
«Una trattativa vera non c'è mai stata. Ma c'è dell'altro: è in atto, con Alitalia e con la riforma del sistema contrattuale, una operazione politica tesa a ridisegnare un nuovo sistema sindacale, su misura di Berlusconi e Confindustria»
Torniamo ad Alitalia.
«Il governo ha gestito malissimo la vicenda: ultimatum, tavoli che saltavano. Praticamente un thatcherismo alle vongole che identifica il nemico nel lavoratore. Ma al di là di questo mi colpisce un fatto».
Dica.
«In questa situazione di crisi gli aerei hanno volato regolarmente in tutto il mondo. Mi viene in mente un titolo dell'Avanti degli anni venti: "La produzione continua senza l'inutile intromissione padronale". Anche Alitalia in questi mesi è stata praticamente gestita dai lavoratori. L'autogestione va rivalutata».
Sta difendendo i piloti?
«Un conto sono i privilegi, un conto è la disponibilità dei piloti a fare sacrifici. Dico che nelle crisi aziendali dobbiamo puntare di più sull'autogestione. L'epoca dei bocconiani che parlano inglese e non sanno che cosa è una biella è finito».
Vuole dire che è finito il capitalismo?
«Purtroppo no, anche se non piango vedendo i broker di Lehman Brother con gli scatoloni».
E Alitalia?
«Se fallisce la Cgil non c'entra. La responsabilità, per il presente è di Berlusconi e della sua cordata. Io non vedo Colaninno come un capitano coraggioso ma come uno che si è sempre lasciato dietro macerie, esuberi, ristrutturazioni discutibili. Pensi a Olivetti, Telecom…».
E il piano fenice?
«Una classica operazione in cui tutti i costi andavano ai cittadini, tutti i profitti agli imprenditori».
Cisl e Uil lo hanno firmato.
«Sacconi nel suo libro verde dice che si deve instaurare una nuova complicità sindacale. Mi pare che Cisl e Uil siano d'accordo».
Anche sul sistema contrattuale?
«Soprattutto. L'ipotesi di accordo presentata da Confindustria disegna un sistema burocratico e autoritario. Che esalta la casta burocratica dell'impresa e del sindacato».
Si spieghi.
«Ha presente l'Unione sovietica? Stiamo lì. Il sistema confederale controlla quello nazionale di categoria che a sua volta controlla il sistema aziendale che a sua volta controlla i lavoratori. Non è vero che così si aumenta la contrattazione. È vero invece che diminuiscono i salari, e che si realizza lo scambio di affari comuni tra sindacati e imprese sia negli enti bilaterali che nel mercato del lavoro».
Epifani ha respinto l'impianto.
«E infatti sia su Alitalia che su questo gli ho detto: bravo Guglielmo. Guardi glielo ho detto di persona e ci è venuto da ridere visto che è un po' che non eravamo d'accordo»
È una svolta?
«Spero di sì. Ma direi che questi no sono nella storia della Cgil. Sui contratti ora va fatto saltare il tavolo».
Cioè?
«La concertazione è finita e si è aperta una nuova fase. Come Cgil dobbiamo ripartire dal conflitto mettendo al centro il lavoro: fabbriche, uffici, luoghi di lavoro. L'era dei tavoli a palazzo Chigi e a viale dell'astronomia è finita»
Epifani è d'accordo?
«La Cgil sta cambiando dopo una lunga bonaccia moderata. Ora c'è il tifone. Ma quando sarà passato si capirà quale è l'obiettivo del governo e di Confindustria: un nuovo sistema delle relazioni sindacali fondato su una nuova triplice Cisl, Uil e Ugl. A quel punto la Cgil dovrà decidere che fare».
E che farà?
«Guardi l'antagonismo crescerà nella società e noi dobbiamo accompagnarlo. Una Cgil antagonista serve al paese».
Che dice a Epifani?
«Vorrei che continuasse così. E, soprattutto, vorrei che si convincesse che quello che sta accadendo non è un episodio ma una nuova fase della lotta di classe».

giovedì 18 settembre 2008

l’Unità 18.9.08
Clandestinità. Europa, alt a Maroni
di Paolo Soldini

Sarà pure di cattivo gusto, ma è difficile sottrarsi alla tentazione del «noi lo avevamo detto». La norma del decreto sicurezza che introduce l’aggravante di «clandestinità» sui reati penali commessi da stranieri non è conforme al diritto comunitario. Va annullata e subito, se l’Italia vuole evitare, oltre che nuove brutte figure, severe sanzioni della Ue.
Secondo molti, l’aggravante non è conforme neppure alla Costituzione italiana, come hanno sostenuto questo giornale, i parlamentari dell’opposizione e i più autorevoli costituzionalisti che si sono espressi sull’argomento. Si tratta, insomma, dell’ennesima rodomontata del governo e particolarmente del ministro dell’Interno Roberto Maroni, il quale la sua "tolleranza zero" tende a manifestarla più verso il diritto e la logica che verso i criminali.
L’aspetto "europeo" della (s)maronata è stato ieri evocato dal commissario Ue alla Giustizia Jacques Barrot. Il quale non è, per così dire, il più prevenuto nei confronti del governo di Roma, avendo mostrato molta, molta (forse anche troppa) pazienza nel far correggere e limare a dovere l’ordinanza sulla rivelazione delle impronte dei piccoli rom, fino a renderla quasi potabile alle autorità di Bruxelles. Ma di fronte a una violazione del diritto comunitario tanto palese come quella contenuta nel decreto, nel punto in cui modifica l’art. 61 del codice penale, nemmeno Barrot ha potuto far finta di niente. Il punto principale dell’argomentazione del commissario, così come l’ha riferita ieri il suo portavoce, è che la modifica dell’art. 61, introducendo la residenza illegale tra le circostanze aggravanti di eventuali reati non fa distinzione tra cittadini extracomunitari e cittadini della Ue (la norma è diretta principalmente colntro i rom di origine rumena). Per questo motivo, che era stato richiamato anche dai parlamentari del Pd durante la discussione per la ratifica, il servizio giuridico del Parlamento europeo, su richiesta della deputata rumena Adina Valean, aveva emesso un parere di "incompatibilità" con la normativa Ue, ignorato allegramente, va da sé, dai servizi giuridici del ministero dell’Interno (ma che ci stanno a fare?). Il problema, però, non riguarda solo la mancata distinzione tra comunitari e no. Il decreto, che è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 25 luglio ed è in vigore dal 26, viola un principio giuridico fondamentale, e non solo nella giurisprudenza Ue: quello secondo il quale le aggravanti di reato debbono sempre attenere alla condotta del reo e non alla sua condizione. Un principio semplice semplice, che qualunque studente di Giurisprudenza sarebbe in grado di spiegare perfino al ministro leghista.
E non è tutto. Il portavoce di Barrot ha aggiunto che l’intera materia della sicurezza, con i tre decreti ancora non ratificati, è più che discutibile. Ci sono modifiche da fare, ha spiegato e l’intera legislazione è sotto esame. Vediamo ora se Maroni e soci continueranno a far finta di niente.

l’Unità 18.9.08
Pacchetto sicurezza
L’Europa boccia l’Italia «Norme da rivedere»
Per la Ue l’aggravante di clandestinità non si può applicare ai cittadini comunitari
di Marco Mongiello

L’eurodeputato Claudio Fava: si dimostra falso il via libera dell’Unione al governo

L’AGGRAVANTE di clandestinità per i reati commessi da persone residenti illegalmente in Italia non può essere applicato ai cittadini comunitari. Lo ha spiegato la Commissione europea al Governo italiano, ricevendo assicurazioni da Roma che la norma entrata in vigore a luglio sarà cambiata. Dopo la schedatura delle impronte digitali dei rom salta così un altro tassello fondamentale della strategia del ministro dell’Interno Roberto Maroni, e la celebrata benedizione di Bruxelles ai provvedimenti sulla sicurezza si è rivelata un pasticcio giuridico che costringe Palazzo Chigi ad un’imbarazzante marcia indietro.
Nel mirino dell’Ue, ha confermato ieri il portavoce del commissario alla Giustizia Jacques Barrot, Michele Cercone, «ci sono tre decreti che non sono ancora entrati in vigore», e il commissario francese «ha già chiaramente fatto capire al Governo italiano che ci sono delle modifiche da apportare affinché questa legislazione sia effettivamente in linea con il diritto comunitario». Inoltre «ci sono anche delle modifiche che abbiamo chiesto su una parte della legislazione che è già in vigore, ma che non ci è stata notificata». Si tratta proprio della controversa modifica dell’articolo 61 del codice penale che prevede un aumento della pena fino ad un terzo «se il fatto è commesso da un soggetto che si trovi illegalmente sul territorio nazionale».
Sulla provvedimento è stato sollecitato il servizio giuridico del Parlamento europeo che ha spiegato che «le disposizioni pertinenti del diritto comunitario si oppongono ad una legislazione nazionale che stabilisce come circostanza aggravante rispetto ad un crimine o un delitto il solo fatto che la persona coinvolta proveniente da uno Stato membro si trovi irregolarmente sul territorio di un altro Stato membro». Insomma, i cittadini comunitari non possono essere discriminati rispetto ai cittadini italiani e per la stessa ragione, ha spiegato una fonte della Commissione, «il Governo italiano dovrà eliminare tutte le norme che prevedono delle espulsioni o dei trattamenti automatici per i cittadini comunitari, che possono essere solamente valutati caso per caso».
Il risultato è che l’efficacia della norma che avrebbe dovuto mettere in riga gli immigrati delinquenti «è assolutamente annullata», ha spiegato l’eurodeputato di Prc Giusto Catania, coordinatore per il gruppo della sinistra europea nella commissione Giustizia e Libertà pubbliche dell’Parlamento europeo. In Italia la più grande comunità di cittadini stranieri è rappresentata dai romeni, cittadini dell’Ue dal 2007, così come la grande maggioranza dei rom sono cittadini italiani o comunitari. «Dopo le puntualizzazioni di Barrot il clima di autocelebrazione del Governo italiano sul presunto via libera della Commissione europea si è rivelato completamente falso», ha sottolineato Claudio Fava, eurodeputato coordinatore di Sinistra Democratica e coordinatore del Pse nella stessa commissione. Per il ministro dell’Interno del governo ombra del Pd, Marco Minniti, si tratta di «una severa bocciatura» dei provvedimenti di Maroni che conferma che «alcune scelte del Governo sui temi dell’immigrazione hanno collocato il nostro Paese in una posizione eccentrica rispetto agli altri Paesi europei». Secondo il servizio giuridico dell’Europarlamento infine la decisione su un’aggravante di pena per i cittadini extracomunitari compete agli Stati membri. Ma all’Assemblea di Strasburgo gli eurodeputati della sinistra si preparano a dare battaglia anche su questo punto.

l’Unità 18.9.08
Quell’Italia che rifiuta la libertà delle donne
di Chiara Valentini

SILVIA BALLESTRA Da oggi è in libreria Piove sul nostro amore (Feltrinelli), un viaggio nel mondo inospitale dell’aborto, in un paese, l’Italia, dove sta accadendo qualcosa di inquietante...

Un paese che ha una passione neanche tanto segreta per tormentare le donne. È questa alla fine dei conti l’immagine che vien fuori dal viaggio che la scrittrice Silvia Ballestra ha voluto compiere su un terreno dove ben poche della generazione under 40 si era finora avventurata, il terreno malfido e pieno di contraddizioni dell’aborto. Capisco bene che non deve essere semplice, per chi come Ballestra aveva nove anni quando la legge 194 era stata votata e 11 quando un referendum che voleva cancellarla veniva respinto massicciamente dal 68 per cento degli italiani, riprendere in mano una vecchia storia derubricata a lungo dal senso comune come fatto privato. Ma chi era cresciuta in quel «dopo» anche troppo rassicurante (quante volte, ancora fino all’altro ieri, abbiamo sentito ripetere come un mantra «l’aborto non si tocca...») ha anche un vantaggio, la capacità di indignarsi che nasce dalla scoperta di qualcosa che non si credeva possibile. E infatti è dall’inimmaginabile 8 marzo 2008 di Giuliano Ferrara, e dalla sua scelta di lanciare proprio quel giorno la sua creatura elettorale a sostegno di una moratoria dell’aborto che parte il libro di Silvia Ballestra (Piove sul nostro amore - Una storia di donne, medici, aborti, predicatori e apprendisti stregoni, Feltrinelli, Serie Bianca, pp. 176, 14 euro).
I segni che in Italia sta succedendo qualcosa di inquietante la Ballestra se li ritrova dove meno se l’aspetta. È in un ambulatorio dell’Aied che scopre l’esistenza di un turismo di specie nuova, tante italiane che se ne vanno in Francia, in Olanda o in Svizzera non per tentare in ambienti migliori quella pratica a rischio che è da noi la fecondazione assistita, ma per interrompere una gravidanza. In Canton Ticino ci sarebbe un calo notevole degli aborti se non ci fossimo noi, le straniere in arrivo da un paese cosiddetto evoluto, a far alzare la percentuale del 25 per cento. Perché? Le ragioni sono molte, e attengono a quella guerra neanche tanto sotterranea alla libertà riproduttiva delle donne di cui la moratoria peraltro fallita di Ferrara è stata solo un sintomo. Una trovata così apparentemente paradossale d’altra parte non sarebbe stata pensabile senza quel retroterra di movimenti per la vita e di centri di aiuto a non interrompere la gravidanza o senza le schiere di militanti pro life appostati all’ingresso degli ospedali che gridano «stai per uccidere un bambino» e sventolano cartelli del genere «Mamma rivoglio bene, non farmi del male».
Ma nel mondo pro life non tutto è così scontato. Meno prevedibile per esempio è il ricorso alla psicoanalisi usata come barriera contro il relativismo culturale che viene fatto nelle scuole di formazione per gli attivisti della vita. In parte inatteso anche lo stile di comunicazione più amichevole di una parte dei centri di aiuto, dove cartelli e volantini rinunciano al terrorismo iconografico per mostrare pance rotonde e mazzi di margherite. Più che donne assassine, sembrano suggerire queste immagini, donne da aiutare e sostenere. Ma poi, approfondendo meglio, Ballestra scopre una specie di doppia morale. «Non sei assassina, ma commetti un omicidio» è il messaggio sotterraneo. Assistendo ad una lezione del professor Mario Palmaro, docente alla Pontificia università Regina Apostolorum, l’astro nascente della bioetica più integrista, comincia a capire la ratio di questa offensiva che specie dopo il fallito referendum sulla fecondazione assistita sta avvolgendo la 194. L’obiettivo, almeno per il momento, non è tanto di mettere mano alla legge, ma di trasformare in senso sempre più negativo la percezione che la società ha dell’aborto. «Far vedere che esiste una 194 percepita e una 194 reale, che ha trasformato un delitto in un diritto», predica il professor Palmaro. Ed ecco la sua ricetta, obiezione di coscienza ad oltranza, «da parte di ciascuno di noi». Non solo insomma della moltitudine crescente dei ginecologi, che in varie regioni ha quasi paralizzato il servizio. No, qualunque strumento che in qualche modo si opponga al dispiegarsi della vita va mandato in tilt. E così i medici del pronto soccorso rifiutino di prescrivere la pillola del giorno dopo e i farmacisti di venderla, per non parlare di quella bestia nera che è la Ru486, la killer pill nel linguaggio antiaborista. Questo farmaco che consente di evitare i ferri e l’anestesia, in uso da tempo in tutto l’Occidente, ha infatti la grave colpa di «banalizzare l’aborto» cancellandone l’aspetto cruento, di renderlo più leggero e accettabile. E quindi in Italia, nonostante la sperimentazione di Silvio Viale a Torino e qualche tentativo in Emilia e Toscana, le donne devono continuare ad «abortire con dolore».
In questo territorio sempre più inospitale che è oggi l’interruzione di gravidanza si aggiranno perplesse ragazze e giovani donne. Sono in numero molto ridotto rispetto al passato, visto che la 194 ha dimezzato le cifre. E sono più isolate. Scrive Ballestra che oggi la grande maggioranza delle giovani si considera immune da qualcosa di cui si parla così poco, non crede che toccherà proprio a lei. Quando succede il problema è grande, come la vergogna che le accompagna in un percorso accidentato di visite e certificati spesso difficili da ottenere, mentre le settimane passano e la paura di non fare in tempo cresce. È forse la parte più bella del libro il racconto di questi aborti legali a cui si arriva avendo sentito parlare in modo piuttosto vago di libera scelta e di autodeterminazione femminile. Come la ragazzina appena diciottenne che piomba in ospedale senza neanche una camicia da notte visto che nessuno le ha detto di portarla, e si ritrova annichilita davanti ai medici «con certi sandaletti azzurri ai piedi e la gonna tirata su, lo slip appallottolato in una mano e gli occhi fissi al soffitto» e poi si trascina per anni un lutto difficilmente gestibile. O quell’altra che seduta in attesa su una panchetta davanti alla «stanza 194» dell’ospedale milanese di Niguarda «sente uno strano rumore, come di aspirapolvere... un rumore assordante, lancinante, che ferisce dentro e fuori».
C’è da dire che in trent’anni è cambiata la percezione stessa della gravidanza, anche per quelle ecografie che ti fanno vedere il feto, quegli esami che ti fanno sapere molto presto se sarà maschio o femmina. La rinuncia può essere più dura, più lacerante. Ma di questi mutamenti e sentimenti c’è poco spazio per parlare. In un paese come l’Italia è pericoloso farlo, puoi sempre trovare un ateo devoto o un militante per la vita che sta lì pronto a ritorcerti contro il tuo dolore, a trasformarlo in un’arma contundente. E così quel poco di riflessione che si è sviluppata negli ultimi anni è stata più uno scontro all’arma bianca che un’analisi meditata. Con qualche femminista come Eugenia Roccella che è passata dall’altra parte e poche altre che invece hanno cercato di aprire nuove porte. Con una di loro, la storica Anna Bravo, Ballestra si sente in sintonia, per quel suo coraggio a sostenere che nell’aborto ci sono due vittime, la donna e anche il feto. È una riflessione che scotta, in presenza di quei «diritti del concepito», perno della legge sulla fecondazione assistita, che ha contrapposto il nascituro alla madre, con quel che ne è conseguito. Allo stesso tempo sono evidenti i prezzi che stiamo pagando proprio per aver lasciato alla Chiesa il monopolio della riflessione etica sui temi della vita. Anche questo viaggio su territori poco frequentati ha il merito di ricordarcelo.

Corriere della Sera 18.9.08
Un libro inchiesta sul mondo dei consultori, dei reparti maternità, dei medici. E il lacerante dibattito sulla vita
Il mio viaggio nell'Italia della 194
Silvia Ballestra: «È in corso una campagna che trascura la realtà»
di Ranieri Polese

Il titolo, Piove sul nostro amore (Feltrinelli, pp. 174, e 14), ripreso com'è da Modugno — Piove: ma piove piove sul nostro amor — farebbe pensare a un romanzo sentimentale riveduto in chiave post-avanguardia, visto che l'autrice è Silvia Ballestra ( Il compleanno dell'Iguana, La guerra degli Anto'). Invece non è un romanzo. E se di un sentimento si deve parlare, è l'indignazione con cui la scrittrice compie un viaggio nell'Italia del 2008 per vedere se c'è davvero, come dicono i cattolici e i pro life, «un'emergenza legata ai temi della vita, se davvero italiane e italiani si sentono minacciati dal dilagare dell'aborto, dall'abuso della pillola del giorno dopo, dal rischio dell'eugenetica». A 30 anni dalla 194 (promulgata il 22 maggio 1978, confermata tre anni dopo dalla sconfitta del referendum abrogativo proposto dal Movimento per la vita: il 67,9% di no), l'interruzione volontaria di gravidanza funziona: il numero di aborti è dimezzato.
Perché dunque l'indignazione? «Perché — dice Ballestra — è in atto una campagna feroce contro l'aborto, che si prende grandissimi spazi su giornali e tv, e che vede un fronte d'attacco composito che va dal Papa — dai Papi, direi, anche Giovanni Paolo II non ci andava leggero — ai medici obiettori sempre più numerosi, dai movimenti pro life diffusi ovunque fino a Giuliano Ferrara, che ha partecipato alle ultime elezioni politiche con una lista a sostegno della sua proposta di moratoria sull'aborto». Sì, ma la lista Ferrara ha preso solo lo 0,3 per cento dei voti. «È vero. Però, intanto, si è creato un clima di demonizzazione dell'aborto. Si sono usati termini come "assassinio" o "eugenetica", equiparando l'aborto terapeutico previsto dalla legge alle pratiche naziste. Quando, in febbraio, a Napoli la polizia entrò nel reparto di Ostetricia e ginecologia dove una donna aveva fatto un aborto terapeutico perché il figlio concepito era affetto da gravi malformazioni... ». La polizia era stata chiamata da un portantino che denunciava un infanticidio: falso, ma il giudice autorizzò l'invio di una donna poliziotto. Il giornale di Ferrara denunciò quel caso come l'omicidio di un bambino malato, un caso di eugenetica nazista. «È stato uno dei picchi raggiunti da questa ondata anti-abortista. Tutto era cominciato qualche anno prima, con la brutta legge 40 (19 febbraio 2004) sulla procreazione assistita: il riconoscimento dei diritti per l'embrione è un primo passo per togliere diritti alle donne. È chiaro che se quello è un essere vivente con i suoi diritti, chi abortisce è un'assassina. È assurdo, perché la donna e l'embrione non sono esseri indipendenti».
Da allora, ricorda Ballestra nel libro, le donne sono tornate in piazza: nel 2006 con la manifestazione Usciamo dal silenzio, quest'anno per protestare contro i fatti di Napoli. «Le donne a quel diritto conquistato non vogliono più rinunciare. Ma non si può non vedere — dice Ballestra — come gli antiabortisti ormai, giorno dopo giorno, si fanno più insistenti». Proliferano siti pro life che mostrano feti maciullati; nelle strutture pubbliche ci sono sempre più medici obiettori; farsi prescrivere la pillola del giorno dopo («un anticoncezionale, si badi bene — ribadisce l'autrice — che in altri Paesi è in vendita tra i prodotti da banco») è un'impresa; e per la Ru486 («un farmaco abortivo») è cominciato il turismo sanitario.
Indignata contro questo clima («sembra che tutti abbiano dimenticato la differenza sostanziale: i laici non vogliono imporre niente a nessuno, aborti o eutanasia; sono i cattolici che vogliono impedire agli altri di esercitare la propria libertà di scelta»), Ballestra va in giro nell'Italia 2008 raccogliendo storie di donne, di medici, di ospedali, di consultori, di antiabortisti. L'inizio è a Roma, l'8 marzo, con il ricevimento delle donne in Quirinale e il comizio della lista Ferrara a piazza Farnese; prosegue con la descrizione di due riunioni di Cav (Centri d'aiuto alla vita, ormai fortemente presenti anche negli ospedali), una a Magenta e una a Corbetta. A Corbetta parla il professor Mario Palmaro (docente di bioetica della Pontificia Università Regina Apostolorum) che dice che la legge 194 «trasforma un delitto in un diritto» e che contando 4 milioni e 800 mila aborti compiuti dall'entrata in vigore della legge, afferma che i 4 milioni e 800 mila donne che li hanno fatti «sono una bomba atomica antropologica spolverata sulla nostra società».
Ci sono, poi, tre lunghe interviste. Una al professor Francesco Dambrosio, il medico-simbolo della Mangiagalli di Milano oggi in pensione, denunciato nell'88 per gli aborti terapeutici con la sua équipe,
assolto nel 2000. Un'altra è con il dottor Silvio Viale di Torino, che usa la Ru486 ed è indagato per «violazione della legge 194». C'è infine un lungo colloquio con la storica Anna Bravo, che in un'intervista alla Repubblica
disse: «Tendevamo a sorvolare sul fatto che le vittime erano due, la donna e anche il feto». Scatenando le reazioni di tante che, preoccupate dalla crescente ondata cattolica, le rimproveravano di fare il gioco del nemico. Invece, sostiene la storica, proprio l'aver lasciato in ombra la questione etica ha concesso tanto terreno agli antiabortisti, che oggi si ergono come depositari della morale. Certo, di aborto le donne non parlano molto. Pochi film e libri ne trattano, anche se recentemente due pellicole — l'americano
Juno, il rumeno Quattro mesi, tre settimane, un giorno —
hanno fatto discutere. Rimane, l'aborto, l'oggetto di confidenze tra amiche, un pegno di complicità. «Nessuna donna — scrive Ballestra — ha mai abortito con leggerezza». Pesa, comunque, il silenzio. Ora soprattutto che i pro life alzano la voce. E magari, dice Ballestra, andrebbe ricordato che i pro choice sostengono la libertà per la donna di scegliere, e la donna può pure scegliere di avere il figlio. Senza forzature altrui, però. Del resto — ed è il tema del bellissimo ultimo capitolo — quelli che gridano tanto di essere «per la vita», che ne sanno davvero della vita?
È il messaggio con cui Betty, infermiera in pediatria all'Ospedale di Padova, invita a visitare quelle corsie «dove si trovano bimbi costretti a una vita di sofferenze ». In molti casi, dice, non c'è stata una diagnosi prenatale, o è stata fatta male. Ci sono i prematuri che vengono rianimati una, due, dieci volte: «A un certo punto, quando i genitori non ce la fanno più, quando il bambino non ce la fa più, lo lasci andare». A Padova, nella Basilica del Santo, dietro la tomba di Sant'Antonio ci sono le foto dei bambini che ce l'hanno fatta; ma anche i biglietti delle mamme che i bambini li hanno persi, ma ringraziano Dio che ha posto fine alle sofferenze di quei poverini.
Sopra, «Donna indecisa», disegno di Andrea Eberbach (Corbis).
Sotto, la scrittrice Silvia Ballestra Anna Bravo, militante femminista di lunga data, è una studiosa e autrice di numerosi saggi.

l’Unità 18.9.08
Allarme Fao: in un anno 75 milioni di affamati in più sulla terra
La crescita delle materie prime agricole mette in ginocchio i Paesi poveri. Berlusconi dimezza i fondi per la cooperazione
di Toni Fontana

LA FAME NEL MONDO
925 MILIONI gli affamati nel mondo. Nel 1996 i leader avevano promesso di dimezzare il loro numero entro il 2015.
75 MILIONI le persone che, dal 2007, si sono aggiunte a quelle che vivono con meno di 2 dollari al giorno.
30 MILIARDI la cifra che il direttore della Fao Diouf ha indicato per raddoppiare la produzione agricola nel pianeta.
1204 MILIARDI di dollari. A tanto ammontano le spese per gli armamenti. La Russia le aumenterà del 27% nel 2009, ma gli Usa spendono cinque volte di più.
376 MILIARDI di dollari vengono spesi ogni anno per i sussidi all’agricoltura dei Paesi ricchi.

PERIODICAMENTE seguendo un copione lamentoso e ormai logoro, alcuni grandi attori sulla scena mondiale, in questo caso il direttore della Fao Jacques
Diouf, sono costretti a ripetere che il numero di affamati del pianeta, sta aumentando, senza tuttavia indicare strade da percorrere. Così non si può far altro che prendere nota del fatto che, mentre i mercati finanziari internazionali stanno impazzendo, e a pochi mesi dal fallimentare vertice della Fao che si è risolto in una baruffa planetaria, l’Onu lancia l’ennesimo allarme. Dodici anni fa capi di Stato e di governo riuniti a Roma promisero di dimezzare i numero degli affamati nel mondo «entro il 2015». Ieri il capo della Fao, intervenuto ad un’audizione nel parlamento italiano davanti alle commissioni Esteri ed Agricoltura, ha detto che dallo scorso anno il numero degli affamati è aumentato di 75 milioni. In totale sono 925 milioni gli abitanti della terra che vivono con meno di 2 dollari al giorno. Secondo Diouf ci vorrebbero 30 miliardi di dollari per raddoppiare la produzione agricola e alimentare allo scopo di produrre cibo per tutti gli attuali abitanti del globo che, nel 2050, saranno 9 miliardi. Le cause, secondo il direttore dell’agenzia Onu, sono da ricercare principalmente nel vorticoso aumento dei prezzi delle materie prime agricole. Alcuni dati elencati ieri da Diouf fanno rabbrividire: nel periodo 2005-2006 i prezzi sono aumentati del 12%, del 24% nel 2007 e addirittura del 50% nell’anno in corso. La ricaduta di questa impennata è rappresentata dallo scoppio di violente ribellioni nell’emisfero sud della terra. Diouf ha proposto altre riflessioni a senatori e deputati. Ha ad esempio ricordato che nel 2006 le spese per gli armamenti hanno raggiunto la considerevole cifra di 1204 miliardi. Nei giorni scorsi la Russia ha annunciato un incremento del 27% del bilancio della Difesa per produrre nuove armi. Diouf non ha parlato di questo, ma ha detto di sperare che Mosca decida di estendere le superfici destinate alla produzione di grano. Non sembra tuttavia questa la principale preoccupazione di Putin che spende tuttavia per la Difesa un quinto di quanto investono gli americani. Fin qui dati interessanti e drammatici, ma nessuna analisi sul da farsi. Diouf batte cassa, ma ha dovuto ammettere che anche le promesse fatte solo qualche mese fa (giugno, nuovo vertice Fao a Roma) sono rimaste in gran parte tali, i soldi non sono cioè arrivati. In quella occasione, nonostante l’assenza dei leader dei Paesi più ricchi, vennero alla luce i nodi irrisolti: 376 miliardi di dollari spesi ogni anni dalle economie avanzate per finanziare i sussidi all’agricoltura che «drogano» il mercato e penalizzano i soggetti più poveri, il dilagare dei biocarburanti (benzine derivate da prodotti agricoli) che sottraggono terra al coltivazioni destinate a produrre cibo.
Su questo, a maggior ragione in un periodo di crisi economica, non è all’orizzonte alcun accordo tra i Paesi più forti e sviluppati. Ci sono poi, ma non da ultimo, pesanti responsabilità politiche anche delle istituzioni internazionali. Nel libro «la banca dei ricchi» Luca Manes e Antonio Tricarico puntano il dito contro la Banca Mondiale che si è distinta come «garante delle imprese private dei paese del nord». Tra gli esempi che citano la costruzione di dighe che producono energia elettrica per l’esportazione, ma causano l’inondazione di milioni di ettari, oppure faraonici oleodotti che devastano l’ambiente».
Le Ong, come ad esempio ActionAid, avanzano inoltre stime ancor più pessimistiche del direttore della Fao. Il segretario Marco De Ponte fa notare che «le cifre rese pubbliche ieri non riflettono il reale numero delle persone che soffrono la fame, riferendosi al solo 2007. Secondo i dati elaborati da ActionAid, che rimango comunque conservativi, l’aumento dei prezzi nel solo 2008 ha in realtà fatto lievitare il numero delle persone affamate di altri 100 milioni». Diouf ha anche lodato l’impegno dell’Italia, ma i conti non tornano. Per la Finanziaria 2009 si parla di tagli alla cooperazione del 60% rispetto al 2007 e del 40% rispetto al 2008. I fondi verrebbero dimezzati e le Ong sono in rivolta.

Corriere della Sera 18.9.08
Metropoli. Un volume dedicato alla città millenaria che è il cuore di tradizioni cristiane, ebree e musulmane
I tre volti di Istanbul dove convivono fede bellezza e tolleranza
di Carlo Bertelli

L'alta colonna di porfido cerchiata di corone di bronzo, che Costantino aveva eretto nell'anno 330, domina ancora, protetta com'è da profezie che la legano alla città e addirittura alla durata del mondo, il mercato dei libri, vecchi o nuovi, che da secoli si svolge alla sua base in un quartiere di Istanbul. Come in questo caso, è stupefacente constatare quante cose si sono tramandate, in questa città, lungo un tempo millenario, nonostante le distruzioni e i saccheggi dei crociati, il passaggio all'impero ottomano, il suo crollo e infine l'aggressione della modernità.
Costantinopoli, Eis-ten-polin, Istanbul: nelle sue metamorfosi, la città appare come un'immortale fenice. Ha fatto dimenticare il suo nome antico, Byzantion, e l'ha esteso a un'intera civiltà. Città di cambiamenti radicali, prima Costantino e Teodosio la ridisegnarono completamente, poi i crociati la distrussero per quanto poterono, quindi risorse e infine fu radicalmente ridisegnata da Maometto II il Conquistatore. Eppure non dimenticò mai se stessa, la sua posizione eccezionale di ponte tra l'Asia e l'Europa, i suoi panorami e i suoi ricordi storici. Come la torre che ricorda la fine di Eleandro, i castelli che segnano il punto in cui Alessandro attraversò l'Ellesponto, ossia il Bosforo, ovvero Karadeniz Bogazi. Pronta a interrogarsi e rimodellarsi, Istanbul trasformò profondamente l'architettura ottomana mostrandole il prodigio architettonico di Santa Sofia, che poi affidò all'architetto ticinese Gaspare Fossati per un restauro razionale e moderno. Nel XX secolo, si aprì al grande architetto berlinese Bruno Taut, che trovò una convergenza tra le sue architetture cristalline e il taglio netto degli spigoli nelle trombe d'angolo delle cupole ottomane.
Benvenuto dunque un libro, Bisanzio, Costantinopoli, Istanbul
(Jaca Book), ampiamente illustrato e condotto a più mani sotto la guida di Tania Velmans, che ha il merito di non interrompere la storia al 1453, l'anno della conquista turca, e anzi unisce Costantinopoli a Istanbul.
Fino a che non fu sorpassata da Londra e Parigi, Costantinopoli fu la più grande città d'Europa, la più grande, la più produttiva e la più ricca. E senza dubbio la città dai modi di vita più cittadini. Liutprando da Cremona, che la visitò nel X secolo, rimase sorpreso di quanta poca servitù avesse il patriarca. Mentre oggi sappiamo che il problema della servitù è tipico delle metropoli e del loro modo di vivere. Ed è appunto in questa lunga prospettiva che l'amore di un cittadino per la propria città diventa, nei libri di Orhan Pamuk, la ricognizione dell'essenza urbana filtrata attraverso le generazioni.
Costantinopoli era vissuta nella glorificazione della bellezza. Splendida la liturgia delle sue chiese, che aveva scosso e convertito il mondo slavo, dolce e incantevole il volto della Madre di Dio nelle icone. Era la bellezza che guidava nella scelta della moglie destinata all'imperatore, la quale veniva selezionata attraverso una specie di concorso. Anzi gli ultimi tempi di Costantinopoli imperiale dimostrano un attaccamento quasi disperato alla bellezza, come nei raffinati mosaici di Kariye Cami, dove, peraltro, il ricco committente, il primo ministro Teodoro Metochites, si presenta alla Madre di Dio con indosso un prezioso turbante turco.
L'ingresso nella modernità avvenne in un modo brutale, con la conquista turca. La vecchia città era stata abbandonata dai crociati e gli ultimi imperatori avevano cercato di farla risorgere. Ma ormai le mura del IV secolo erano diventate troppo ampie e racchiudevano più spazi vuoti che case. Costantinopoli era un guscio vuoto. Era divenuta la capitale del breve territorio cui si era ridotto l'antico impero. Con i Turchi, diventava la capitale di un impero vastissimo, armato e in crescente espansione. Rotto il vincolo religioso, che aveva dato un senso profondo alla sua vita, la città si proponeva a una totale rifondazione, come capitale d'un governo centrale dotato di burocrazia, d'un esercito permanente, di tribunali e dove i doveri religiosi si sarebbero esplicati nelle moschee e nelle scuole. Come indica assai Cigdem Kafescioglu, nel volume, modello di riferimento era quanto stava avvenendo in Italia, in particolare con le idee di pianificazione più ardite concepite dal Filarete.
L'Istanbul di oggi non è certo meglio, non è soltanto - la città di Costantino, e Giustiniano. Di lontano, è la straordinaria corona di cupole e minareti che ne definisce il profilo. La prima moschea fu eretta da Maometto II nel 1463, ma già con una visione complessiva della città, che comprendeva la collocazione del palazzo del sovrano a Topkapi, la trasformazione di Sant'Irene in arsenale, la conversione a moschea di Santa Sofia e infine la conservazione dell'ippodromo come piazza per le feste popolari.
Entro queste linee direttrici, restava aperta la fantasia alle innumerevoli soluzioni di bagni pubblici, mercati, case in legno o in pietra. Istanbul restava una città multietnica e cosmopolita, dove fino a pochi anni or sono si poteva comprare Shalom, il giornale scritto in castigliano della comunità israelita che aveva dovuto lasciare la Spagna. Dove a Kadikoy si compravano i dolci degli Armeni e nelle Isole dei Principi, nel Mare di Marmara, conducevano una vita serena i borghesi greci. Tutto ciò appartiene al passato. Nella chiesa bizantina trasformata nella moschea di Kilissé Cami, i mosaici dell'atrio sono stati imbiancati.
Al di là dell'insorgente fondamentalismo, è ancora vivo il ricordo dell'ultima metamorfosi. Fu quando, per un poeta francese, Pierre Loti, Istanbul s'immedesimò nel grande e dolente amore per la bellissima Aziyadé. Ancora oggi, i giovani che al tramonto salgono silenziosi la collina di Eyup, in fondo al Corno d'Oro, per raggiungere il luogo dove scriveva il poeta, guardano i riflessi sull'acqua rivivendo ciascuno la propria storia romantica. Il libro si conclude con una bella scelta di fotografie dell'epoca di Pierre Loti.

Corriere della Sera 18.9.08
Fascismo Docenti e dirigenti d'azienda estromessi dopo i provvedimenti del 1938. Convegno alla Bocconi
Leggi razziali, i conti che l'economia non ha mai fatto
di Antonio Carioti

Al di là del titolo «Le leggi razziali e l'economia italiana», il convegno tenuto ieri a Milano, presso l'Università Bocconi, ha spaziato in modo ampio su molti altri aspetti della campagna antisemita avviata da Benito Mussolini nel 1938. Soprattutto i relatori hanno chiarito che la legislazione razziale non cadde dal cielo e che il suo nefasto influsso non venne completamente meno con la sconfitta del fascismo. Tra coloro che posero le premesse culturali di quella pagina nera, ha ricordato lo storico Luca Michelini, ci fu un grande economista come Maffeo Pantaleoni — scomparso nel 1924, ma di fatto artefice del primo programma finanziario del fascismo — che era un feroce antisemita e promosse la pubblicazione in Italia dei famigerati (e falsi) Protocolli dei savi di Sion.
D'altronde, ha osservato Gian Luca Podestà, dell'Università di Parma, il Duce cominciò a parlare di «rigenerazione della razza» già negli anni Venti, nel quadro della sua campagna demografica. E ancora prima, ha spiegato David Bidussa, della Fondazione Feltrinelli, nel razzismo novecentesco erano confluiti motivi identitari antichi di secoli e linguaggi che tuttora affiorano nel discorso pubblico.
Il filo della continuità ha diversi altri risvolti. Le leggi razziali arrecarono danni permanenti all'Italia, emarginando e spesso costringendo all'emigrazione validi studiosi: oltre agli scienziati, di cui si è parlato parecchio, anche letterati, giuristi, economisti. Per esempio la Bocconi perse il rettore Gustavo Del Vecchio, futuro ministro del Tesoro, e il direttore dell'Istituto di statistica Giorgio Mortara. Anche ai vertici delle aziende ci fu un depauperamento rilevante, con la perdita dei dirigenti allontanati per ragioni razziali: lo hanno illustrato nella loro relazione Renato Giannetti e Michelangelo Vasta, che stanno raccogliendo in un database informazioni riguardanti tutte le società per azioni.
Per giunta, ha sottolineato Piergaetano Marchetti, docente della Bocconi e presidente di Rcs Media Group, le leggi riparatrici che avrebbero dovuto risarcire gli ebrei ebbero un'efficacia parziale, se non altro perché non venne mai preso in considerazione il danno morale subito dalle vittime. Mentre personalità compromesse con l'antisemitismo fascista proseguirono le loro carriere dopo la guerra: l'esempio più clamoroso riguarda il magistrato Gaetano Azzariti, presidente del tribunale della razza sotto il regime e poi presidente della Corte costituzionale dal 1957 al 1961.
D'altronde la vicenda delle leggi razziali è stata a lungo rimossa dalla coscienza nazionale. E ancora oggi, ha osservato Giorgio Sacerdoti, presidente della Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea, l'Italia appare in ritardo, specie sul piano della riflessione pubblica, rispetto ad altri Paesi europei.

Corriere della Sera 18.9.08
Kolossal Correggio
Gli affreschi e 35 capolavori: Parma celebra il suo gigante «di provincia»
di Francesca Montorfano

Pittore della grazia e degli affetti, dei sensi e della voluttà. Insuperabile interprete di soggetti sacri e motivi squisitamente profani. Capace come pochi altri di dipingere lo splendore della luce, i volti ridenti dei fanciulli e la seta dei capelli femminili, di rendere anche l'aria, anche i vapori e i profumi, anche le nuvole, quelle nuvole soltanto sue, dense, materiche, libere di muoversi nei cieli. «Nessuno meglio di lui toccò colori, né con maggior vaghezza o con più rilievo alcun artefice dipinse meglio di lui, tanta era la morbidezza delle carni ch'egli faceva e la grazia con che e' finiva i suoi lavori», scrisse di lui Giorgio Vasari, accompagnando la vita del Correggio a quelle di Leonardo e di Giorgione, quasi a indicarlo come l'erede, come il punto d'incontro tra le tante voci dell'arte italiana del primo Cinquecento.
È un genio, quello di Antonio Allegri da Correggio, da accostare ai maestri del Rinascimento, a Michelangelo e Raffaello, a Leonardo e Tiziano, ma forse non altrettanto riconosciuto per l'importanza del suo ruolo e l'originalità espressiva. La sua è una scelta pittorica in stupefacente equilibrio tra sensibilità naturalistica lombarda e cromatismo veneziano, una scelta rielaborata in piena autonomia, personalissima, già anticipatrice di una maniera moderna. Ma il pittore è anche l'unico grande artista della sua epoca a non aver mai lavorato nelle capitali culturali del tempo, a Roma, Firenze o Venezia, né stabilmente per una corte. La sua carriera fulminante, quel ventennio di attività febbrile che va dal 1514 al '34, si è svolta quasi esclusivamente tra il paese natale, Correggio, allora una piccola corte aristocratica, Mantova con le suggestioni di Mantegna e il ruolo di primo piano giocato da Isabella d'Este e Parma, allora un brulichio di intelligenze artistiche e di atelier, la città che lo adotta e gli consente di realizzare alcuni dei suoi più alti capolavori. E proprio Parma dedica oggi al pittore la più ampia e organica rassegna che gli sia mai stata riservata e che vede per la prima volta riunita gran parte dei dipinti trasportabili dell'artista in arrivo da alcuni dei più prestigiosi musei del mondo.
«Questa mostra sarà una riscoperta assoluta anche per chi già conosce Correggio», afferma Lucia Fornari Schianchi, curatrice dell'evento parmense. «Abbiamo voluto ricostruire la biografia umana e artistica del pittore, approfondendola nei suoi vari aspetti attraverso un racconto che illustri il clima culturale del tempo e i luoghi che hanno visto nascere ed esplodere la sua arte: quella pianura intorno alla valle del Po dove si è svolta gran parte della sua vita e che ritorna anche nella resa atmosferica, nell'attenzione al paesaggio che Correggio anticipa come un soggetto autonomo, in una visione già protobarocca degli spazi. Sarà anche l'occasione di vedere finalmente a confronto opere di soggetto religioso e tele di carattere mitologico e profano, come "L'educazione di Amore" della National Gallery di Londra o "Venere, satiro e Cupido" del Louvre, che rivelano come il linguaggio dell'artista sia ugualmente caldo e coinvolgente, ugualmente seduttivo nei due generi, nella resa dei sentimenti e delle emozioni, nei capelli scompigliati dal vento o scarmigliati dal dolore, come in quel "Compianto sul Cristo morto" così denso di pathos e carnalità. Un linguaggio che si rivela profano quando è sacro e sacrale anche nella pittura erotica».
Alla Galleria Nazionale saranno così esposti 35 dipinti tra i più significativi dell'artista, tra cui una recente attribuzione, il «Volto di Cristo» di collezione privata inglese accanto a una tavola di uguale soggetto del Getty Museum di Los Angeles. In più saranno visibili circa quaranta studi e disegni preparatori, in un emozionante riscontro con le opere finite. Il percorso racconterà la formazione del pittore, la sua crescita professionale, i committenti, l'officina creativa e i rapporti con la cultura del tempo, documentata da più di 90 opere tra maioliche, sculture, codici e dipinti, tra cui alcuni capolavori di Leonardo, Mantegna, Giorgione, Dosso Dossi o Lorenzo Lotto, i grandi maestri con cui questo artista «di provincia» ha saputo dialogare alla pari. La rassegna costituirà comunque solo la prima tappa dell'itinerario. A poche centinaia di metri saranno visitabili con una visione ravvicinata grazie a speciali ponteggi dotati di ascensore anche i grandi cicli affrescati: nella camera picta della badessa nel convento di San Paolo, nella chiesa del monastero di San Giovanni Evangelista e nel Duomo. Ed è qui, in questa cupola definita da Anton Raphael Mengs «la più bella di tutte», ma ritenuta scandalosa dai contemporanei, in questo Paradiso affollato di personaggi raffigurati in audaci scorci illusionistici, che Correggio dà un'ulteriore, stupefacente prova della sua arte.

Corriere della Sera 18.9.08
La sua arte Una scrittura pittorica fluida che rappresentava la continuità del creato
Tra profili addolciti e colori sfumati creò un mondo agli antipodi di Raffaello
Conosceva la lezione di Leonardo ed entrò nella famiglia dei neoplatonici
di Arturo Carlo Quintavalle

Provate a fare un esperimento: in mostra andate a vedere la sinopia del «Cristo Deposto» che era nell'atrio della chiesa di Sant'Andrea a Mantova e che sta agli inizi definiti mantegneschi della ricerca di Correggio; poi andate e osservate il frammento di sinopia staccato dalla cupola del Duomo di Parma alla fine del percorso del-l'artista: sono dipinti con la stessa, diluita, vibrante, morbida pennellata; infine passate a vedere i disegni, decine e decine, dove il contorno della sanguigna è volutamente incerto, ritornante, fluido. Dunque a Giorgio Vasari quel segno non poteva piacere, era l'opposto di quello degli artefici fiorentini, era l'opposto del segno sublime di Raffaello e dei suoi sottili, raffinati contorni, era l'opposto del segno — terribile — del Michelangelo della volta della Sistina. Ma allora da dove origina questa novità di scrittura pittorica che è tanto diversa da quella del Mantegna, un pittore certo da Correggio molto ammirato ma che era scomparso nel 1506 quando Correggio doveva avere 16 o 17 anni? Gli storici dell'arte hanno suggerito molti nomi e sopra tutti Leonardo: a ben vedere proprio il vibrare dello sfumato leonardesco si avverte anche nella cappella funebre del Mantegna, nella volta e nei quattro evangelisti dei pennacchi che si attribuiscono proprio a lui, a un Correggio giovanissimo. Del resto sono omaggi a Leonardo il «Cristo giovane» e il «Matrimonio di Santa Caterina » di Washington e tante altre opere del secondo decennio del XVI secolo.
Forse, per capire questi paesaggi morbidi, questi cieli fumiganti, questi contorni sfumati, non vi è miglior commento che questo passo del così detto «Trattato della pittura» di Leonardo sul rapporto fra ombre e figure: «Quella parte ch'è illuminata dal sole si dimostra partecipare del colore del sole; e questo vedrai molto speditamente, quando il sole cala all'orizzonte, infra il rossore de' nuvoli, ch'essi nuvoli si tingono del colore che li illumina; il qual rossore de' nuvoli, insieme col rossore del sole, fa rosseggiare ciò che piglia lume da loro; e la parte dei corpi che non vede esso rossore, resta del color dell'aria». No, certo Correggio non poteva conoscere queste parole, ma la pittura di Leonardo e dei seguaci sì; da qui parte la novità della sua invenzione nelle opere giovanili, sospese nella penombra del tramonto, figure contro paesaggi che sfumano, trasformazione di pietre e verzure, acque e cieli, segni della continuità del creato secondo la filosofia neoplatonica, la filosofia che ispira anche Giorgione e il primo Tiziano. E dopo?
Correggio certo va a Roma, senza quel viaggio la Camera di San Paolo con i suoi putti controluce che evocano quelli della Galatea di Raffaello sarebbe impensabile, e impensabile senza il Raffaello delle ultime Stanze e il Michelangelo della volta della Sistina sarebbe la cupola della chiesa di San Giovanni Evangelista a Parma, coi suoi incredibili controluce degli Apostoli e il Cristo alto, nel cielo di luce. Già al San Giovanni e poi nella cupola del Duomo la trasformazione del segno è totale: Apostoli davanti alla balaustra, angeli e putti fra le nubi accompagnano la Assunzione della Madonna in un turbine di trasparenze luminose, e qui lo stile, il segno, muove da una riflessione, da una idea del mondo e delle cose, che era di Sant'Agostino — neoplatonico — e quindi di Marsilio Ficino. Infatti il filosofo nella sua «Teologia Platonica» (1482) scrive: «Lo splendore del sommo bene stesso rifulge nelle singole cose e, là dove più perfettamente rifulge... trascina e occupa tutto chi vi s'avvicina, costringendolo a venerare uno splendore di tal genere, più d'ogni altro, come si venera una divinità, e infine a non tendere a null'altro se non a che, deposta la precedente natura, egli stesso si trasformi in splendore ». Come la Madonna Assunta della cupola del Duomo che, salendo, si fa di luce con il vortice delle figure che monta a spirale fino al culmine trascinando putti, nubi, santi verso la conoscenza del divino che è, appunto, splendore. Dunque quel segno che Correggio ha scoperto dialogando con gli adepti, dal neoplatonismo al settentrione, quel segno che tanto lo distingue dal mondo raffaellesco, quel segno che fa vibrare i volti, rendere morbide le verzure, addolcire i profili dei monti e degli orizzonti come suggeriva Leonardo, quel segno nasce da una consapevo-lezza: Correggio vuol leggere il mondo secondo la filosofia neoplatonica. Raffaello dipinge, invece, secondo l'idea aristotelica della conoscenza e della Storia.

Corriere della Sera 18.9.08
La storia Le decorazioni che Correggio realizzò per Giovanna da Piacenza andarono ben oltre le richieste
E la badessa arrossì: festa dei sensi in camera
di Francesca Bonazzoli

Arrossire! Proprio lei che per difendere i suoi privilegi di badessa si era destreggiata fra le faide delle famiglie parmensi culminate addirittura in un omicidio. Proprio a lei toccava ora sentire il sangue fluire improvviso sulle guance immacolate, lei che si era appellata niente meno che al papa finché Giulio II — quello che si faceva dipingere le stanze da Raffaello e scolpire la tomba da Michelangelo, quello che, come lei stessa, si preoccupava più del potere temporale che di fare la guida spirituale — non le rilasciò una bolla che la autorizzava ad esautorare l'amministratore del convento sostituendolo con il proprio cognato.
Non era certo tipo da arrossire, lei, Giovanna da Piacenza, entrata nel monastero benedettino di San Paolo a diciannove anni e divenutane badessa a vita a soli ventotto.
Eppure, probabilmente, un lieve rossore comparve sul volto di Donna Giovanna quando vide quale spregiudicata decorazione il giovane pittore Antonio, allora quasi sconosciuto, aveva apparecchiato nella stanza dove riceveva amici e letterati come a corte, vestita di abiti sfarzosi. Quel trentenne che lei aveva chiamato a Parma dal paese di Correggio l'aveva superata nelle intenzioni andando a indovinare fantasie che teneva ben nascoste anche a se stessa: lei, è vero, gli aveva detto cosa dipingere, e cioè un programma di motti latini ed exempla classici, secondo il gusto degli umanisti; ma quel pittore timido e male in arnese ne aveva tirato fuori un'atmosfera birichina che circolava adesso nella stanza passando dagli amorini intenti a giocare, nudi e felici, alla figura di Diana, in piedi sul cocchio mentre si gode il vento che le scompiglia vesti e capelli. Non solo: aveva aggiunto una tenerezza di cera fusa persino a quelle figure che lei aveva immaginato come statue così che le tre Grazie, il giovane nudo con la lancia o il satiro, sembravano scaldate dall'interno e fremere come fossero di carne e ossa. Come avevano potuto le sue indicazioni su un programma iconografico cristiano trasformarsi in una meravigliosa festa dei sensi pagana? Forse ora quella stanza si sarebbe rivelata un po' imbarazzante, ma che gioia rispetto a quella accanto, affrescata solo pochi anni prima da Alessandro Araldi con figure rigide e convenzionali: sembrava che nel frattempo fosse passata un'epoca! .
Che genio quel ragazzo gracilino; gli erano bastati un viaggio a Milano, dove aveva visto il gran pergolato che Leonardo da Vinci aveva dipinto nel Castello di Ludovico il Moro, e un secondo a Roma dove si era intrufolato nei cantieri di Raffaello in Vaticano e alla villa Farnesina, per capire che aria tirava: dolcezza dei sensi, voluttà, libertà delle figure di muoversi nello spazio senza più bisogno delle rigide briglie della prospettiva. Ora tutto si poteva giocare sulla luce e i suoi ambigui chiaro scuri, sui trapassi tonali, sui moti dell'animo, ovvero sulle espressioni degli occhi o di un sorriso. E lui, tornato a Parma, ne aveva subito approfittato per trasformare la vecchia volta goticheggiante del soffitto in un fresco pergolato dalle cui aperture ovali si intravedevano putti irrequieti dai capelli dorati, più simili agli erotes dell'antica Grecia che agli angeli cristiani. Sotto di loro, nelle lunette, aveva affrescato divinità classiche in finto marmo ma che in realtà palpitavano di sensualità e bellezza classica da far innamorare. E infine, sopra il camino, aveva dipinto lei, Giovanna da Piacenza nelle vesti di Diana, con la mezzaluna sulla testa, simbolo della dea ma anche emblema araldico di famiglia perché fosse chiaro che la badessa, come la dea, era una vergine combattiva, pronta a difendere le donne, ovvero le consorelle, dalle insidie esterne.
Insidie che si chiamavano clausura, comunione dei beni ed elezione annuale della badessa. Alla fine la riforma passò, ma alla combattiva Donna Giovanna venne concesso il privilegio di rimanere badessa fino alla morte che la portò via a soli 45 anni, la stessa età in cui la Parca recise il filo della vita anche del suo pittore Antonio che le aveva apparecchiato la sua ultima festa pagana.

Corriere della Sera Roma 18.9.08
Cucuteni
Forse sono loro gli uomini di Atlantide In mostra il popolo più antico d'Europa
di Lauretta Colonnelli

Una grande mostra dedicata ai Cucuteni- Trypillia. Popolo sconosciuto ai più, almeno in Italia. Eppure gli archeologi sanno della loro esistenza dalla fine dell'Ottocento, quando, grazie agli scavi effettuati a partire dal 1884 in Romania e dal 1893 in Ucraina, furono portati alla luce i primi segni di questa civiltà che risale al 5000 a. C. Vale a dire a prima dei Sumeri, considerati tra le più antiche culture dell'Europa e del vicino Oriente. Anzi, alcuni studiosi fanno risalire proprio ai Cuteni l'origine, fino ad oggi misteriosa, dei Sumeri, comparsi sui monti a nord della Mesopotamia intorno al 4000 a.C. Altri archeologi ipotizzano che ad essi sia riferibile addirittura il mito di Atlantide. Di questi temi già si discuteva nel 1889 in un congresso convocato a Parigi per presentare alla comunità scientifica internazioanle le prime eccezionali scoperte sui Cucuteni: le belle ceramiche dipinte con motivi a spirale e le statuette di terracotta raffiguranti donne, uomini e animali. Congresso a cui parteciparono nomi mitici dell'archeologia: da Schliemann a Evans, da de Mortillet a Montelius, i quali convalidarono il legame tra le scoperte dei Cucuteni e quelle del bacino egeo e dell'Asia Minore.
Da allora gli scavi sono andati avanti e hanno portato alla luce un'infinità di testimonianze. In questa mostra, che è la più grande allestita sui Cucuteni- Trypillia e viene presentata a Roma in anteprima mondiale, si possono ammirare oltre 450 reperti, che hanno permesso agli studiosi di ricostruire la vita quotidiana, i miti, la religione, le fonti di sopravvivenza, le attività artigianali e quelle belliche. Tuttavia gli archeologi sostengono che più gli studi vanno avanti e più questa popolazione risulta misteriosa. Soprattutto per quello che riguarda la loro scomparsa, intorno al 3000 a.C.
Tra le domande alle quali si può invece rispondere, c'è innanzitutto quella del nome, Cucuteni-Trypillia, che deriva dalle località dove sono venuti alla luce i resti dell'antica civiltà: Cucuteni (vicino alla città di Iasi, Romania) e Trypillia (vicino a Kiev, Ucraina). Ma il terriorio delle ricerche si estende su tutta l'area che va dal sud-est della Transilvania all'ovest dell'Ucraina, includendo anche tutta la Moldavia. Nel periodo di massima estensione della civiltà, l'area misurava oltre 350 mila chilometri quadrati. In questo territorio i Cucuteni- Trypillia edificarono prima villaggi e poi delle vere e proprie città, che si sviluppavano su centinaia di ettari, con elaborate fortificazioni e abitazioni che variavano da capanne interrate a costruzioni fino a due piani. Le case, realizzate in paglia e argilla intorno a una intelaiatura di legno, erano diposte in cerchi concentrici oppure in linee parallele o in gruppi, intorno a piazze destinate ad attività pubbliche. Alcune abitazioni erano molto grandi, da 300 a 600 metri di lunghezza, composte da molte stanze. Tutti i muri esterni ed interni, i soffitti, i letti e gli arredi erano decorati con disegni complicati in bianco, nero e rosso, gli stessi colori delle ceramiche.
Dentro ogni casa, una delle quali è stata ricostruita in mostra a grandezza reale, c'erano un piccolo forno, un telaio, una pietra per macinare i cereali, vasi per mantenere l'acqua, contenitori per provviste e suppellettili, compresi i gioielli in rame, argento e oro. Gli oggetti in metallo erano accumulati come tesori. Quello scoperto ad Ariusd (Romania) conteneva ben 1992 oggetti in rame e oro, quello di Carbuna (Moldavia) 444 oggetti in metallo. Mentre nell'insediamento di Nebelivka (Ucraina) gli archeologi portarono alla luce quello che potrebbe essere considerato il più antico servizio da tavola in ceramica dell'Europa dell'Est, con piatti, ciotole e coppe tutti con lo stesso decoro.
Le case erano abitate da agricoltori che coltivavano cereali, ortaggi e alberi da frutto, lavorando la terra con mezzi tecnici molto avanzati per l'epoca, cioè con una specie di aratro il cui vomere era costruito con corna di cervo ed era trainato da un animale. Si allevavano mucche dalle grandi corna, pecore, capre, maiali. Si domavano cavalli. Tra la popolazione c'erano poi artigiani e guaritori, cacciatori e pescatori. Uno dei misteri dei Cucuteni-Trypillia sono le numerose statuette che ci hanno tramandato: quelle degli uomini hanno tutte una maschera sul volto, quelle femminili il volto non ce l'hanno affatto. Sono plasmate nell'argilla con grandi fianchi e seni minuscoli, indossano gonne con frange e qualche volta stivali rossi.

Repubblica 18.9.08
Se la legge regola la vita e la morte
di Stefano Rodotà

Ai politici prepotenti, ai giuristi impazienti, agli eticisti saccenti si addice l´ammonimento di Michel de Montaigne: «La vita è un movimento ineguale, irregolare e multiforme». Quest´intima sua natura fa sì che la vita appaia come irriducibile ad un carattere proprio del diritto: il dover essere eguale, regolare, uniforme. Da qui, da quest´antico e ineliminabile conflitto, nascono le difficoltà che oggi registriamo, più intense di quelle del passato perché l´innovazione scientifica e tecnologica fa progressivamente venir meno le barriere che le leggi naturali ponevano alla libertà di scelta sul modo di nascere e di morire. Proprio la natura, con le sue leggi che apparivano sottratte alla volontà umana, allontanava dal diritto l´obbligo di misurarsi con quel conflitto. I grandi codici, pur aprendosi tutti con una parte dedicata alle "persone", ne ignoravano del tutto la fisicità, facendo minimi accenni al nascere e al morire. Di questi punti estremi del ciclo vitale si limitavano a registrare la naturalità. Era la natura che governava, e il diritto poteva silenziosamente stare a guardare.
«Nella disciplina storica per molto tempo ha prevalso l´idea che il corpo appartenesse alla natura». Questa confessione di Jacques Le Goff può apparire sorprendente, perché da sempre riti e regole del potere, ma pure i ritmi della vita quotidiana e le pratiche mediche e magiche, hanno scandito le modalità d´uso del corpo, la sua libertà o il suo essere oggetto d´implacabile coercizione. Coglieva, però, un dato culturale, oggi sempre più respinto sullo sfondo da una artificialità che ci avvolge sempre più intensamente, che supera le barriere naturali, che consente scelte dove prima era solo caso o necessità. Di questo ci ha parlato la vicenda di Piergiorgio Welby e ci parla oggi quella di Eluana Englaro. Di questo ci parlano i tre milioni di bambini nati con le tecniche di procreazione assistita. Di questo ci parla Oscar Pistorius che, privo della parte inferiore delle gambe, le sostituisce con protesi in fibra di carbonio e non solo corre e vince nelle paraolimpiadi, ma si vede riconosciuto anche il diritto a partecipare alle olimpiadi vere e proprie, fa cadere la barriera tra "normodotati" e portatori di protesi e impone così una nuova nozione di normalità.
Lo sappiamo da molti anni, almeno da quando nel 1970 si inventò il termine bioetica, che un mondo nuovo s´apriva davanti alle riflessioni ed alle pratiche concrete, e ciò evocava pure un nuovo bisogno di regole, tanto che si è cominciato a parlare di biodiritto. Vi è un campo di regole ? etiche, giuridiche ? alle quali la vita dovrebbe essere sottoposta. Come, però? Ed è questa domanda, ineludibile, che fa del rapporto tra vita e regole un tema che sopravanza tutti gli altri, e sembra essere uno di quelli che, con intensità maggiore, danno il tono al nostro tempo, alla nostra civiltà.
È vero, una nuova riflessione è necessaria, perché la tecnoscienza ha sconvolto paradigmi consolidati, incide sull´antropologia stessa quale si era venuta costruendo nella storia dell´umanità. Ma questo invito è spesso accompagnato da una contraddizione, nella discussione italiana soprattutto. Si invocano categorie nuove ma, quando viene il momento di dare spazio alla regola giuridica, troppo spesso si impugnano gli strumenti vecchi. Timorosi del nuovo, l´unica norma possibile sembra essere il divieto. No all´interruzione dei trattamenti di sopravvivenza, no al testamento biologico, no alla procreazione assistita (e no a quel nuovo modo di organizzare le relazioni personali rappresentato dalle unioni di fatto). Ma può il diritto divenire solo il custode delle arretratezze e delle paure?
La strumentazione giuridica, costruita in altro clima e per altri obiettivi, deve essere profondamente rimeditata. L´unico protagonista non può essere un legislatore che s´impadronisce d´ogni dettaglio, e giudica e manda una volta per tutte. L´unica tecnica giuridica disponibile non può essere ritrovata nel divieto, al tempo stesso eccessivo e vano. La vita non può essere sacrificata da una norma costrittiva, che dovrebbe ricostruire una situazione artificiale di impossibilità al posto di quella naturale, travolta dal progresso scientifico. Questa è pretesa vana, verrebbe quasi da dire innaturale, mentre la parola giusta è autoritaria.
Questo significa abbandonare ogni ancoraggio, muoversi senza bussola nel mare aperto e drammatico di innovazioni che danno alla vita e al suo governo tratti sconvolgenti e persino drammatici? Niente affatto. Vi è un forte nucleo di principi dai quali muovere, che possono essere riassunti nella formula della "costituzionalizzazione della persona", resa evidente non solo dalla Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea, ma soprattutto dalla progressiva riscoperta della trama profonda della nostra Costituzione. Una trama che fa emergere libertà e dignità nella duplice dimensione individuale e sociale, legandole indissolubilmente (l´"esistenza libera e dignitosa" di cui parla l´articolo 36) e, quindi, escludendo che il riferimento alla dignità possa divenire tramite per l´imposizione di punti di vista limitativi della libertà e della coscienza della persona; che ribadisce il diritti alla libertà personale (articolo 13); che fa del "rispetto della persona umana" (articolo 32) un limite che lo stesso legislatore non può valicare; che esclude la possibilità di discriminazioni sulla base delle "condizioni personali" (articolo 3).
Il governo della vita è così posto anzitutto nelle mani della persona, e ciò esige un diverso modo d´intendere la regola giuridica, che si fa flessibile, discreta, capace di seguire la vita nelle varie sue sfaccettature, singolarità, irregolarità, mutevolezze. Riferimento a principi comuni, ma non chiusura in un unico schema. La contraddizione disvelata dall´ammonimento di Montaigne è così superata? Conclusione eccessiva: ma è certo che ci si muove in una dimensione dove il conflitto trova diversi e più adeguati strumenti di composizione.
Torniamo al caso di Eluana Englaro, drammaticamente ancora aperto. Il punto di svolta è stato rappresentato dalla sentenza della Corte di Cassazione dell´ottobre 2007 che, dopo aver ricostruito i principi di riferimento con un rigore raro anche in analoghe sentenze di altri paesi, li ha poi riferiti al caso concreto, affidando alla Corte d´appello di Milano il compito di attuarli. Sono poi venuti le ripulse e le resistenze, l´illegittimo rifiuto della Regione Lombardia di dare attuazione alla decisione dei giudici nelle proprie strutture ospedaliere, addirittura il conflitto di attribuzione sollevato davanti alla Corte costituzionale dal Parlamento, che afferma d´essere stato espropriato dai giudici del suo esclusivo potere legislativo.
Una guerriglia istituzionale è in corso, che nega l´umana pietà, ma che mette pure in evidenza un impasto tra arretratezza culturale e piccola furbizia politica. Non è pensabile che il Parlamento segua con una regolazione minuta, di dettaglio, ogni innovazione prodotta da scienza e tecnologia. Compito suo è quello della legislazione per principi che esige, poi, l´ineliminabile mediazione giudiziaria, sul duplice versante dell´adattamento alle specifiche vicende individuali e della risposta ai quesiti via via posti dall´innovazione, ai quali non ci si può sottrarre senza negare giustizia a chi la chiede.
Ma l´insistenza sulle prerogative del Parlamento ha un obiettivo di breve periodo. Sostenendo che il legislatore è il solo ad aver diritto di parola in determinate materie, si crea la premessa per norme che formalmente riconoscono le nuove esigenze, ma sostanzialmente le rinchiudono nei vecchi schemi. Gli oppositori di ieri si dichiarano pronti a sostenere una legge sul testamento biologico. In che modo, però? Escludendo che si possa rinunciare all´idratazione e all´alimentazione forzata e che le decisioni dell´interessato possano avere valore vincolante per il medico. Così, quello che viene presentato come il riconoscimento d´un diritto assume i colori d´una restaurazione, perché è una forzatura l´esclusione dalle terapie rifiutabili dell´idratazione e dell´alimentazione (Ignazio Marino non si stanca di ricordarci quanti siano gli interventi terapeutici che devono accompagnarle e lo stesso cardinale Barragan riconosce che vi sono casi in cui esse altro non sono che accanimento terapeutico). E perché subordinare alla valutazione del medico la portata del testamento biologico contraddice il principio consolidato del valore del consenso informato dell´interessato.
Così una politica intimamente debole cerca di impadronirsi della vita delle persone. Ma così segna una distanza, mostra la sua incapacità di comprendere il mondo che cambia, rinuncia a fare del diritto uno strumento rispettoso della libertà e della stessa umanità delle persone.