domenica 21 settembre 2008

l'Unità 21.9.08
La paura è di destra
di Concita De Gregorio


Cara Unità. Sei persone massacrate da chili di piombo nella “Campania felix” raccontata da Berlusconi, la terra salvata dall’immondizia e quindi dall’illegalità. Il governo ci ha detto che la nostra è la nazione più sicura al mondo grazie alla “tolleranza zero” del ministro leghista che siede al Viminale e che spedisce l’esercito a presidiare le città. Quali città? Villa Literno o Grazzanise non fanno parte di questa Italia sotto controllo, linda e pulita? O questa campagna della sicurezza colpisce solo i più deboli e lascia impunita la criminalità vera? È facile prendersela con un bimbo nomade o una ragazza sfruttata su un marciapiede. Meno facile è affrontare Gomorra che come un cancro si mangia il Paese e la coscienza civile di un popolo.
Vincenzo Cosimi

Il governo (il ministro Maroni) è stato ieri chiuso in riunione diverse ore coi capi delle forze di polizia i quali devono avergli illustrato l’esistenza dei clan dei Casalesi, della Camorra in Campania e più in generale della rete internazionale di latitanti che controlla e stabilisce chi debba essere ucciso e quando, si tratti di traffico di droga di armi o di immondizia. Uno, gli hanno detto per esempio, è stato arrestato ieri a Barcellona: viveva lì da nababbo da anni e comandava omicidi. Dunque ora Maroni lo sa, possiamo stare tranquilli. Difatti ha deciso di spostare dal Fontanone del Gianicolo una certa quantità di camionette militari che (immaginiamo controvoglia, il cambio è foriero di rischi) si recheranno in quella terra di nessuno fra Villa Literno e Castel Volturno dove pure, a dispetto della speranza, vive ancora qualche italiano. Quattrocento uomini, ha promesso. Domani, ha detto. Vedremo. La questione è complessa perché il decreto che ha reso le piazze urbane scenari di guerra prevede l’uso dei militari solo nelle città e non nelle campagne. Una sbadataggine: il governo, ora che ha appreso dell’esistenza della camorra, è pronto a rimediare. Maroni si metterà certo in contatto con Borghezio, suo collega di partito ed altissimo esponente della Lega di governo, europarlamentare esperto in sicurezza. Non prima però che costui sia rientrato da Colonia dove, unico politico al mondo, è salito sul palco di una manifestazione neonazista sventolando la bandiera tricolore. La piazza era vuota, la polizia ha bloccato i manifestanti mascherati da SS. È arrivato solo Borghezio, cravatta verde e Padania in mano, a parlare di Oriana Fallaci. I tedeschi l’hanno portato via di peso. Ora quando torna potrebbe essere dislocato anche lui insieme ai quattrocento militari nei dintorni di Grazzanise a fare comizi contro il pericolo islamico: è un’idea. In alternativa Berlusconi potrebbe dire che Borghezio è una vergogna nazionale e chiedere a Bossi di cacciarlo dal partito. Non lo farà perché non ha tempo. Sta lavorando. Prepara la nuova soluzione del caso Alitalia e ha da fare con la sconcia presenza delle schiave nigeriane per strada: combatte la paura dei cittadini onesti. La paura. La fabbrica della paura studiata apposta per farci guardare la pagliuzza, mai la trave. È di ieri una ricerca pubblicata su ‘Science’ da tre universitari usa: la biologia condiziona l’ideologia, dicono. Le persone più inclini a spaventarsi (davanti a immagini o rumori orribili) aderiscono a partiti conservatori. La paura è di destra, s’intitola l’articolo. Siamo a posto. L’alleato della sinistra temeraria è in arrivo. Non serve la politica, che idea fuori moda. Ci salverà la scienza.

l'Unità 21.9.08
Cronache razziste
di Maria Novella Oppo


IL RAZZISMO è in primo piano nella cronaca nera come in quella politica (che, purtroppo, sempre più spesso è nera). Leghisti, ex fascisti e berluscones (compresi alcuni sedicenti socialisti), pur dicendo di non essere razzisti, non prendono mai le distanze dalle più schifose azioni o dichiarazioni razziste: si limitano a dire che si tratta di tutt'altro. Così, per esempio, uccidere un ragazzo gridandogli sporco negro, non è razzismo. Non è razzismo schedare i bambini rom. E non è razzismo gettare escrementi sul luogo dove deve nascere una moschea. Ma, se non è razzismo, che cos’è? Nessuno lo spiega e non lo ha spiegato, ieri ad Omnibus, neanche il sindaco di Verona, Tosi, al quale la conduttrice Luisella Costamagna chiedeva di condannare Borghezio e la manifestazione nazista di Colonia. Tosi si è limitato a rispondere: «Io non ci andrei». Così la Lega minimizza il razzismo e questo sappiamo a che cosa può portare. E più di tutti lo sanno i tedeschi, che ieri hanno proibito ai vari Borghezio di sfilare, mentre da noi sono al governo.

l'Unità 21.9.08
Baba e gli altri, vite spezzate senza un perché
Le vittime: c’è chi faceva l’elettricista, chi cuciva t-shirt
di Eduardo Di Blasi inviato a Castel Volturno


GIULIUS KWAME ANTWI aveva 32 anni. Era nato a Nkoranza Pinihin, in Ghana, e faceva piccoli lavori di elettrotecnico. Dalla Clio grigia crivellata di colpi al chilomentro 43 della via Domitiana, un amico tira via di prima mattina la sua valigetta di plastica con il trapano, i chiodi a pressione e i cacciaviti senza neanche aprire il cofano, ormai senza vetro. Era venuto in Italia otto anni fa, Giulius. Prima a Milano, poi a Varcaturo. Infine qui, a Castel Volturno, sopra la sartoria «Ob.Ob. Exotic Fashions», in una casa dove ancora abita suo zio Stephen, detto il "russo" per aver passato otto anni a Mosca, dove ha moglie (russa) e figlia di dieci anni nera e con le treccine. La casa di Giulius è al primo piano dello stabile sopra al portico con i tre negozi «etnici». Sotto c’è un barbiere che ha un poster di Mohamed Alì con la frase beffarda «niente è impossibile» e il logo Adidas. In mezzo la sartoria. Infine un parrucchiere con la saracinesca abbassata.
La casa di Giulius ha un piccolo cucinino, una stanza centrale, quella del "russo" che è piena fino a metà muro di vestiti, cappelli con visiera degli impiegati della base Nato di Lago Patria presso i quali Stephen ha lavorato in questi anni e attrezzi del mestiere. Infine la sua stanza, che dà sul terrazzo grande affacciato sulla strada: in perfetto ordine. Un armadio bianco laccato, una bandiera dell’America con un angolo blu e due calendari di Antonella Mosetti nuda. Nelle foto Giulius sorride assieme agli amici con una birra in mano e una ragazza. La stanza centrale era anche il suo laboratorio: televisori con il tubo catodico scoperto, mangianastri, dvd, autoradio. «Questo faceva. Venivano da lui per avere la musica nella macchina o se si rompeva la tv», dice Stephen mentre indica uno per uno tutti gli oggetti da lavoro, da una fresa arrugginita, al trapano nella valigetta, alle scarpe sporche di calce, al saldatore. Aveva anche il permesso di soggiorno, mugugna: «Non è giusto. Muore lui che era regolare e vivo io che non ho il permesso». La vita, si direbbe vedendo questa casa vacanze trasformata in un ripostiglio di oggetti, è beffarda.
Il sangue di "Baba" Alhaji è quello secco e nero che è rimasto stampato sulle mattonelle marroni sotto a questo portico crivellato di colpi. I segni dei bossoli alle pareti sono stati cerchiati in rosso dai suoi connazionali. Su ognuno hanno scritto "R.i.p" (riposa in pace), prima di farsi prendere dalla rabbia cieca che ha distrutto la Domitiana.
Alhaji aveva 28 anni ed era ghanese. Era arrivato in Italia nel 2004 ed era un buon sarto. Quando nel 2006 lasciò il lavoro in un negozio di scarpe a Varcaturo, fu presentato a Victor, il padrone della sartoria «Ob.Ob. Exotic Faschions», che non ebbe dubbi nello scegliere quel ragazzo musulmano. Apriva il negozio alle sette, lo chiudeva quando finiva il lavoro. Anche una signora italiana bionda che abita alle spalle dello stabile lo ricorda come una persona sempre cortese: «Portavamo i pantaloni a riparare da lui. È sempre stato gentile. Mi dispiace che sia morto». «A Natale prossimo - ricorda il suo amico Alì - voleva tornare in Ghana a sposare la sua fidanzata».
Anche "Awanga" era musulmano. Per questo gli amici, più di ogni altro, difendono loro due dall’accusa infamante di spacciare droga. La spiegazione? Erano musulmani. Anche Awanga (tutti lo chiamavano così "Awanga e basta", ma anche la Questura incontra difficoltà nel reperire la documentazione sui deceduti, tanto che lo stesso ambasciatore ghanese, giunto ieri sul luogo della mattanza, ha chiesto aiuto alla sua gente) lavorava. Comprava i vestiti nei mercati di Napoli e li rivendeva alla comunità. Un lavoro "porta a porta". "Quando serviva un pantalone lui veniva a portarlo". Aveva imparato anche a fare il piastrellista. Lascia una moglie e una figlia piccola.
Eric Taller, ghanese trentenne, lavorava al campo sportivo di Casal di Principe. Tagliava l’erba, dicono gli amici. È quello ucciso all’interno dell’Alfa bordeaux. Spiegano che aveva un pantalone rotto e stava aspettando che glielo riparassero.
Alex Geemes era liberiano. Era nato nel 1980 a Monrovia. Aveva fatto richiesta per ottenere un permesso di soggiorno per motivi umanitari, a causa della guerra civile che stava dilaniando il suo Paese. L’aveva ottenuto due mesi fa e stava per ricevere anche il "titolo di viaggio" per potersi muovere dall’Italia (gli mancava una marca da bollo e non aveva i soldi, spiega suo fratello, che lavora in un’agenzia della Western Union e si occupa delle rimesse nei Paesi d’origine). Anche lui faceva lavori saltuari di muratura, come tutti gli altri, quando serviva a mettere qualcosa nello stomaco. Nella pancia di Castel Volturno, dove la legge non è legge se non la scrive il vero detentore della forza, la camorra, queste biografie tirate via da bocche che masticano poco italiano e poco altro non spiegano in nessun modo la mattanza dell’altra notte. Ci dicono che in mezzo c’erano anche degli innocenti. Ma non ci dice più niente.
Forse parlano di più le macchine. Quelle crivellate di colpi, e quelle che girano per la Domitiana senza assicurazione (al commissariato di Castel Volturno un poliziotto ammette. "Ma come fai a levargli la macchina se ha solo quella per lavorare e vivere?"). O forse parlano anche le case, costruite per far fare le vacanze a napoletani e casertani, e, perché no, ai turisti, e finite per ospitare prima i terremotati e poi questi africani in fuga da guerre e fame. Nessun controllo. Quartieri interi.

l'Unità 21.9.08
Abdoul, razzismo e psicosi di massa
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi


L’uccisione di Abdul William Guibre, il giovane italiano di colore (ma possibile che non abbiamo un altro termine per definire un non occidentale? Anche questo è un segno di ritardo culturale) colpisce per la sua ferocia e la sua stupidità. Tanto quanto può colpire ogni episodio del genere: una colluttazione altrimenti evitabile, dove si alzano i toni, si perde la misura dei gesti. Ma c’è qualcosa di diverso in questo caso. Sembra che l’elemento etnico - il fattore "immigrazione" - giochi nella sensibilità collettiva un ruolo destabilizzante e inquinante, capace di sovvertire la percezione più banale (di "buon senso", verrebbe da dire) di quali siano i torti e le ragioni. Forse perché la colpa e l’innocenza sono scomposte e mai distribuite in maniera univoca e incontestabile. O, forse, perché sul giudizio del "fatto" grava l’ombra del "contesto": e appare impossibile prescindere da esso.
Si può anche ammettere che in uno scontro di strada, come quello che ha ucciso Abdul, l’ingiuria ci sia sempre ma che non sempre abbia motivazioni consistenti. E, dunque, si può urlare "negro di merda", a chi giace per terra in una pozza di sangue, perché davvero animati da un sentimento razzista: oppure si può urlare qualsiasi altra offesa se la vittima del nostro odio è, invece, giallo, ebreo, basso di statura, rosso di capelli, sovrappeso e via dicendo. Questo non toglierà dalla testa di molti immigrati, l’idea che se il colore della pelle di quel giovane fosse stato diverso il tutto si sarebbe risolto altrimenti. Non solo: al di là dell’esito giudiziario, è incontestabile che "l’aggravante di razzismo" si insinua nel clima sociale, legittimata dal discorso pubblico di parte del ceto di governo e dalla più recente produzione di intolleranza per via normativa. E dunque l’ossessiva volontà di negare non solo la motivazione ma anche qualunque implicazione "etnica" segnala un vero e proprio tic, una crescente psicosi collettiva, una tendenziale patologia. Il razzismo è un incubo che, nell’incapacità di elaborarlo, si rimuove nevroticamente.
Si dovrebbe riflettere sul fatto che vicende del genere (un adolescente che compie un furtarello in un negozio), in altri tempi, venivano risolte con maniere diverse: qualche imprecazione, un pestone nel didietro del ladruncolo, una lavata di capo se il responsabile veniva acciuffato e consegnato ai genitori o alle forze dell’ordine. Oggi per gesta simili si rischia la vita. Talvolta la si perde.
Per questo è assai importante discutere di ciò che pensa, dice e scrive la "gente". Prendiamo questa categoria nella sua anonima genericità, dal momento che gli orientamenti pubblici, non più riconducibili a differenze di classe, schieramento, fede, censo, genere, età e quanto altro, vanno fatalmente attribuiti a una collettività indistinta e multiforme, percorsa da tensioni cupe e sentimenti sinistri. Prendiamo la "gente" che si affaccia sul forum del sito di uno dei primi quotidiani nazionali: quelli che un tempo erano i composti lettori borghesi, piccolo-borghesi, ma anche popolari - mai ferocemente reazionari, se non nel chiuso delle loro camerette - del Corriere della Sera. E consideriamo quanto scrivono alcuni (molti) tra loro. Ci sono, certamente, messaggi di riprovazione per quanto accaduto. Ma c’è anche chi ’se la sono cercata’ (ovvero, la violenza, se indotta da un torto, anche dal più lieve, diviene infine ammissibile): "Fare una premessa è d’obbligo: la vita non va tolta per nessun motivo. Ciò detto se il 19enne non avesse rubato nessuno se la sarebbe presa con lui"; e chi l’ammissibilità di quella risposta la rinviene nel clima dei tempi; e la relativizza: "Non dimentichiamo il perché i due gestori del bar, comunque andando oltre il limite, hanno reagito. Non c’entra il razzismo, quella è speculazione politica, in Italia si è arrivati al limite della tollerabilità, c’è bisogno di ordine dopo gli anni di lassismo e perdonismo della sinistra".
La volontà di escludere, dalla considerazione di questa storia, ogni retorica emerge, poi, ancor più violenta: "Non se ne può più. È razzismo a rovescio. Basta che uno tocchi o dica una parolina in più ad un negro che scatta l’accusa di razzismo. Mi dite perché bisognava specificare che l’italiano ammazzato era negro? pardon: di colore! Se ammazzavano me avreste scritto "ammazzato italiano non di colore"? L’hanno ammazzato perché era un ladro NON perché era un negro. Cos’è, i negri sono diventati degli intoccabili perché, poverini, sono già stati abbastanza sfortunati da nascere con la pelle nera?". C’è chi, per conoscenza diretta, è disposto a giurare che una coppia di assassini sia moralmente più integra di un ragazzino che compie un furtarello: "Le due persone colpevoli di questo omicidio io li conosco. Ogni giorno andavo a pranzo in quel bar, e sono persone che si sono comportate bene, soprattutto il figlio è una persona sensibile e non farebbe male a nessuno. Penso si sia trattato di un attimo di follia. Il furto, l’ora cosi mattutina, il fatto che fossero in gruppo questi balordi o meglio LADRI. Purtroppo gli epiteti escono anche se una persona è di colore, o anziana, o meridionale o bassa o piena di brufoli. Smettiamo di dare la colpa al razzismo. Quando si litiga o si picchia escono frasi ingiuriose SEMPRE. Io sono vicino al figlio e alla mamma, persone veramente squisite... non certo a balordi e ladri".
Si potrebbe continuare a lungo in questa rassegna: è difficile individuare distinzioni di senso in un mare magno di odio che sconcerta e atterrisce. I pochi testi riportati sono solo un piccolo esempio delle centinaia e centinaia di messaggi del genere, sul sito del Corriere della Sera o altrove. Non vale, qui, esercitarsi in moti di riprovazione sul degrado delle relazioni sociali che quei messaggi manifestano: ma è indubbio che qualcosa è radicalmente cambiato. E lo sforzo di comprensione e analisi che si impone appare, come non mai, improbo. Una prima interpretazione, parzialissima, di quanto vediamo accadere in questo tempo ha a che fare col giustizialismo: o, meglio, con una sorta di sua interpretazione generale, per così dire, e totalizzante. In questa Italia percorsa dalla paura, la "colpa" diviene, vieppiù, "assoluta". Non importa se il torto o il reato commesso sia la sottrazione di un pacco di biscotti o uno stupro. Esso è, comunque e invariabilmente, "colpa": è un qualcosa cioè - una sostanza - che non ammette distinzioni, sfumature, varianti di intensità. Anzi, in questa fase, essa appare sempre come dotata della massima intensità. A questo grado assoluto corrisponde, potenzialmente, qualsiasi pena e qualsiasi afflizione. E, dunque, uccidere non è bene. Ma se la vittima ha rubato un pacco di biscotti diviene comprensibile o ammissibile o giustificabile o - manca poco, pochissimo, e per taluni è già così - legittimo. Sino a giungere a singolari perversioni di senso, laddove la pulsione alla violenza sembra sopravanzare ogni altro giudizio razionale, come in questo caso sopravanza qualcosa di "ideologico": "Quell’uomo di colore aveva rubato. E forse non era neanche la prima volta, data la sua estrazione sociale. Chi ruba commette un reato e per questo va punito. Questo vale per tutti i farabutti, quindi anche per Berlusconi. Perché a nessuno viene in mente di prenderlo a sprangate? Forse perché ha le guardie del corpo? Quindi solo chi ha le guardie del corpo può farla franca? Non mi sembra giusto..." Sia chiaro: non si può escludere che si tratti di un messaggio paradossale, venato di macabro sarcasmo, ma è possibile che invece sia "autentico". La domanda di punizione "assoluta" viene prima di qualunque frattura ideologica: una sorta di esaltazione giustizialista - afflittiva e vendicativa - che esige la massima esemplarità della sanzione contro chiunque appaia espressione del male. Non esiste più alcuna gradazione o misura del male. Non esiste alcuna proporzione tra la colpa (presunta colpa) e la sanzione. È la sanzione a costituire il fondamento dell’organizzazione sociale e della sua legittimazione. Essa non ha più il compito di ripristinare la regola violata e l’ordine infranto: costituisce, piuttosto, l’essenza della morale pubblica. Se questa idea si diffondesse, a prescindere da quanto può accadere nel sistema politico e istituzionale, il dispotismo sarebbe già penetrato nelle nostre menti.

l'Unità 21.9.08
Il vangelo di Gentilini
di Ferdinando Camon


Esce il testo pressoché integrale del discorso che Gentilini ha tenuto alla festa della Lega, domenica scorsa a Venezia, ed è un testo di così rozza violenza, che merita di essere analizzato: è la prima volta che càpita di veder condensato in una colonna il sistema del primo sceriffo d’Italia. "Popolo della Legaaaaa! - esordisce -. La Lega si è svegliataaaaaaa!": appena salito sul palco aizza l’orgoglio dei leghisti, annunciando che la Lega che sembrava impotente in realtà dormiva, adesso si è svegliata e mangerà il mondo. "Le mura di Roma stanno crollando sotto i colpi di maglio della Lega": il nemico è sempre Roma, ma adesso i leghisti sono arrivati sotto le sue mura e le abbattono, sono i nuovi barbari. "Questo è il vangelo secondo Gentilini": la parola vangelo manda una luce che vorrebb’essere sacrale su tutto il proclama. "Voglio la rivoluzione contro i campi dei nomadi e degli zingari": non leggi, che rispettino i codici, ma la rivoluzione, che scatena il furore. "Io ne ho distrutti due a Treviso": non messi in regola o bonificati, ma distrutti, dunque il problema degli zingari non è come si comportano, ma il fatto che esistono. "Voglio eliminare i bambini che vanno a rubare agli anzianiiiiiii!": non rieducarli ma eliminarli, toglierli dalla vita. Molto più di quello che chiede la Lega. Infatti: "Se Maroni ha detto tolleranza zero, io voglio tolleranza doppio zero". Questo è uno slogan a uso interno, stabilisce una supremazia da leghista dentro la Lega, non c’è nessun leghista più leghista di lui. "Prenderò dei turaccioli per ficcarli in bocca e su per il c… ai giornalisti che infangano la Lega": l’allusione oscena serve a cementare l’oratore con chi ascolta, crea intimità, non c’è intimità più forte di quella sessuale, e infatti a questo punto gli applausi scrosciano. "Voglio la rivoluzione contro quelli che vogliono aprire le moschee e i centri islamici": ma tra questi ci sono anche le gerarchie ecclesiastiche, e allora? "Le gerarchie ecclesiastiche dicono: Lasciamoli pregare. Noooo! Vanno a pregare nei desertiiii!": ma vengono dai deserti, e allora questa è una cacciata indietro con l’uso della forza, il loro voler pregare è un oltraggio che ci autorizza a usar ogni mezzo per rispedirli a casa. La presenza degli islamici diventa oltraggiosa quando si comportano da islamici. "Ho scritto anche al papa: gli islamici, che tornino a pregare nei loro paesi": probabilmente è vero, avrà scritto al papa, ma il papa non ha risposto e lui adesso, annunciandolo pubblicamente, si presenta come più cristiano del capo dei cristiani. "Voglio la rivoluzione contro la Magistratura: ad applicare le leggi devono essere i giudici veneti": qui c’è l’idea che il potere gudiziario, per essere un potere, deve rappresentare il popolo, ma per rappresentare il popolo dev’essere eletto dal popolo, e questo è il programma sottinteso: giudici eletti. "Questo è il vangelo di Gentilini: tutto a noi e se avanza qualcosa agli altri. Voglio la rivoluzione contro i phone center i cui avventori si mettono a mangiare in piena notte e poi pisciano sui muri: che vadano a pisciare nelle loro moscheeeee!": il discorso tocca l’apice, "pisciare nelle moschee" è il motto che muove una spedizione punitiva, e lui urlando la guida. "Voglio la rivoluzione contro il burqa e i veli delle donne, che mostrino l’ombelico caso mai… Non voglio veder neri, marroni o grigi che insegnano ai nostri bambini, cosa insegnano, la civiltà del deserto? Ho scritto al presidente della repubblica": probabilmente anche questo è vero, avrà scritto a Napolitano ma Napolitano non ha risposto, e denunciando la cosa pubblicamente il vicesindaco di Treviso comunica: non c’è da fidarsi del presidente della repubblica. Ognuno è la propria origine: patria, cultura e razza sono unite. "Queste sono le parole del vangelo secondo Gentilini, ho bisogno di voi, statemi vicini": nel vangelo secondo qualcun altro, quando il protagonista sentiva avvicinarsi l’ora della morte, pregava i seguaci di vegliare con lui. Anche per Gentilini è un’ora brutta, l’ora dell’estremo pericolo. Le ultime parole: "Viva la Lega!" e il coro di risposta saldano l’abbraccio.
fercamon@alice.it

l'Unità 21.9.08
«Science», la paura è di destra. Chi mantiene la calma vota a sinistra
di Cristiana Pulcinelli


Vuole la pena di morte, più soldi da spendere per la difesa militare, una politica dura contro l’immigrazione, la preghiera nella scuola. Il conservatore forse non lo sa, ma le sue posizioni politiche probabilmente sono dovute al fatto che ha paura. Ha più paura di altri. Sicuramente ha più paura di chi difende una politica che favorisce aiuti ai paesi poveri, controllo sulle armi, difesa dell’aborto e dei diritti degli immigrati.
Una nuova ricerca pubblicata sulla rivista scientifica americana «Science» ribalta un’idea finora generalmente accettata, ovvero che le convinzioni politiche di una persona derivino dalle sue esperienze. Per i ricercatori dell’università del Nebraska e dell’Illinois (Stati Uniti) che hanno condotto la ricerca, invece, potrebbe essere la biologia a guidare la nostra mano quando indichiamo le preferenze nella cabina elettorale. In particolare, il modo in cui le persone percepiscono e rispondono alle minacce potrebbe condizionare le loro idee.
Come sono arrivati a questa conclusione? La prima cosa che gli scienziati hanno fatto è stata quella di fare delle interviste telefoniche agli abitanti di Lincoln, una città del Nebraska. Le domande riguardavano le loro convinzioni politiche e le posizioni sui temi più scottanti, come appunto la pena di morte o l’immigrazione. Sulla base di questo test, sono state scelte 46 persone tra quelle con le convinzioni politiche più forti, sia tra i conservatori che tra i progressisti. Dopo due mesi, queste persone sono state invitate in laboratorio e qui sono state sottoposte a due test per misurare le loro risposte fisiologiche ad alcuni stimoli.
Nel primo test alle 46 persone sono state mostrate immagini spaventose (una ferita aperta piena di larve, un uomo terrorizzato con la faccia insanguinata e un ragno che cammina sul viso di una persona) all’interno di una sequenza di immagini neutre. Si è quindi misurata la conduttività elettrica della pelle delle persone sottoposte al test. È stato dimostrato infatti che la conduttività elettrica della pelle è una spia dell’attivazione del sistema nervoso simpatico che lavora di più quando siamo sottoposti a una forte emozione. In parole povere, più l’emozione è forte, più la nostra pelle diventa umida e quindi conduce elettricità. Ebbene, il risultato dell’esperimento dice che le persone con una conduttività elettrica della pelle più alta (ovvero con una reazione emotiva più forte di fronte alle immagini) sono quelle che difendono idee conservatrici. Mentre tra quelli che hanno idee progressiste sono più frequenti quelli che mantengono la calma.
La scoperta è stata confermata dal secondo test. Ai 46 cittadini di Lincoln è stato fatto ascoltare un suono intermittente molto fastidioso e nello stesso tempo si è misurata la quantità di battiti delle loro palpebre. Battere spesso le palpebre è correlato a stati di paura. Anche in questo caso, le persone che vogliono prima di tutto difendere l’ordine sociale sono quelle che mostrano più timore.
«L’ideologia non dipende solo da questo - ha sottolineato John Hidding, uno dei firmatari dell’articolo - e non si può dire che tutti i conservatori siano spaventati, ma se uno è spaventato è più facile che sia conservatore».
I ricercatori sostengono che il loro studio può far capire perché è difficile far cambiare opinione politica a qualcuno. Tuttavia, dicono, non si possono trarre conclusioni sulle cause di questo fenomeno. Sono le risposte fisiologiche alle minacce che determinano certe preferenze politiche, o invece chi ha maturato alcune convinzioni politiche è portato a rispondere in un certo modo alle minacce esterne? Forse, concludono i ricercatori, nessuna delle due cose è vera. Forse, la paura eccessiva e le convinzioni conservatrici derivano entrambe da una stessa fonte. Che, almeno per ora, rimane ignota.

Corriere della Sera 21.9.08
Il sociologo Bonomi: «Anche l'Italia alla prova banlieue»
di Dino Martirano


ROMA — «Il rischio c'è, eccome». L'incendio sociale delle
banlieues è dietro l'angolo nella ricca Milano come nella disgraziata provincia di Caserta. La dinamica prevedibile — anche escludendo le punte di guerriglia viste nelle periferia parigina di Clichy-sous-Bois nell'ottobre del 2005 — è quella dei tanti «micro-conflitti molecolari»: una «guerra civile diffusa molto preoccupante» perché, argomenta il sociologo Aldo Bonomi, ormai le presenze degli immigrati in Italia hanno travalicato i due alvei protettivi, le famiglie e le imprese, che dai primi anni Novanta assicuravano una buona pace sociale. Oggi, invece, «lo scenario è cambiato radicalmente, si è incrinato un meccanismo di convivenza che pure aveva retto quasi 20 anni».
Davanti a gravi episodi criminali compiuti contro di loro, gli immigrati non si nascondono più. Si ribellano a viso aperto anche contro la camorra e, dopo la strage di Castelvolturno, si fanno riprendere dalle telecamere mentre devastano la Domiziana. Cosa è cambiato in questi anni di immigrazione massiccia?
«Noi abbiamo evitato quello che molti chiamano il rischio banlieue fino a quando l'immigrazione ha seguito il flusso del lavoro nelle famiglie e nelle imprese. Dai primi anni Novanta, da quando siamo diventati un Paese di immigrazione, questo è stato un fattore di coesione perché i nuovi arrivati si sono adattati alla nostra composizione tecnico- produttiva. L'immigrazione pur diffusa con alcune punte, e penso a Brescia e a Padova, non aveva mai provocato una fenomenologia da banlieue. L'equilibrio ha retto fin quando il codice del lavoro ha tirato».
Oggi, però, l'immigrato è meno estraneo alla società italiana. La scuola, i matrimoni misti, le seconde generazioni, la capacità di impresa: apparentemente c'è più integrazione, eppure, a Roma come a Milano c'è più odio nell'aria.
«Oggi non mi sentirei più di escludere il rischio di quella che io chiamo guerra civile molecolare dei mille conflitti diffusi. Non mi sentirei di escludere questo rischio perché il fenomeno non è più rinchiuso dentro le mura domestiche con le badanti o all'interno delle imprese con gli operai. I problemi dell'immigrazione sono tutti proiettati fuori da questi ambiti. Gli episodi di Milano e di Castelvolturno, seppure in maniera diversissima, evidenziano come si sia incrinato il meccanismo della convivenza con questioni aperte che se non si affrontano rischiano di degenerare».
La società italiana, dunque, è impreparata alla convivenza diffusa con gli immigrati emancipati?
«L'immigrazione non è più solo un problema giuslavorista. È una questione aperta che tocca tutti i nervi scoperti della società. Compresi quelli della camorra».

Corriere della Sera 21.9.08
Nel 2005 il 26 per cento di nostri connazionali approvava la pena capitale
Pena di morte, a favore un italiano su tre
La maggioranza boccia il principio «meglio un colpevole fuori di un innocente in galera»


Il rapporto tra gli italiani e il sistema giudiziario è sempre più controverso e caratterizzato da un esplosivo mix tra fiducia residua e insoddisfazione in aumento. Ma è quest'ultima a caratterizzare in misura crescente l'atteggiamento dei cittadini: gli italiani sono sempre meno contenti dell'attuale ordinamento giudiziario e, spesso, anche dell'azione dei magistrati. E chiedono soprattutto un maggiore rigore — talvolta addirittura durezza e inflessibilità — nel giudicare e combattere la criminalità. È quanto emerge da un recente studio su «italiani e giustizia», che verrà presentato la prossima settimana al convegno di LibertàEguale
a Orvieto. Si nota in primo luogo una informazione molto (troppo) contenuta del funzionamento del sistema giudiziario: solo il 40% dichiara di conoscerlo, almeno a grandi linee. Il giudizio, poi, è assai critico: il 68% lo valuta in modo nettamente sfavorevole. E l'accentuazione di questo atteggiamento negativo, rilevabile tra gli strati meno centrali socialmente come le persone con più basso titolo di studio, le casalinghe, ecc., mostra come proprio costoro — i più deboli — si sentano meno protetti.
È significativo osservare come ci sia meno fiducia dichiarata nel sistema giudiziario complessivamente inteso, anche rispetto a quella espressa nei confronti dei suoi attori principali, i magistrati, che raccolgono comunque il consenso del 51% della popolazione. Proprio il «sistema» appare farraginoso, troppo complicato, obsoleto, ostile al cittadino. Per questo se ne vuole la riforma: secondo il 59% degli elettori (specie i giovanissimi) è da fare al più presto e, a parere di un altro 33%, è comunque opportuna anche se non costituisce una priorità. Ma quali sono i principi di giustizia cui occorre ispirarsi? Gli italiani appaiono per molti versi «giustizialisti» (così potrebbe essere definito almeno il 60% dei nostri concittadini), fautori sempre più di una linea dura nei confronti della criminalità. Tanto che, ad esempio, la maggioranza (66%, con un'accentuazione, ancora una volta, tra i più giovani) si dichiara decisamente in disaccordo con il vecchio (e condiviso da tanti giuristi) principio «meglio un colpevole libero che un innocente in galera », preferendo al contrario rinchiudere in prigione quanti più criminali — veri o potenziali — possibile. Ancora, non a caso, quasi un terzo (31%) dei nostri concittadini arriva addirittura a proporre l'introduzione della pena di morte in occasione di delitti particolarmente gravi. Un netto aumento rispetto al 26 per cento di soli tre anni fa (sondaggio Euro Rscg dell'aprile 2005).
Queste risposte riflettono evidentemente lo stato di paura e di insicurezza che caratterizza sempre più gran parte della popolazione, specie di fronte a fenomeni nuovi ed epocali quali, in primo luogo, le ondate migratorie.

l'Unità 21.9.08
La visione della Gelmini: una scuola di classe
di Eugenio Mazzarella


La ripresa legislativa per la scuola italiana è stata amara in Commissione Cultura e Istruzione della Camera con l’arrivo della conversione in legge del decreto Berlusconi-Gelmini sul maestro unico nella scuola primaria. Sostanzialmente il piatto forte del decreto, con il contorno scenico del ritorno del voto in decimi, della valutazione della condotta, e del libro di testo adottabile per un quinquennio. Questo piatto forte del decreto è stato presentato dal Governo e, con qualche dissimulata sofferenza dalla maggioranza, come la panacea di tutti i mali della scuola primaria italiana, affetta da bulimia di spese (lo stipendificio per lo più rivolto a pessimi docenti meridionali con cui ci ha deliziato la Gelmini quest’estate) e anoressia di risultati di qualità. Eppure la scuola primaria è l’unico segmento formativo italiano collocato nelle prime posizioni di tutte le classifiche del settore, anche quelle richiamate dal governo. Ma l’argomento per il Governo è debole, a fronte dell’esigenza di ridurre il rapporto studenti-docenti, troppo alto rispetto alla media europea, e di dare alle famiglie più libertà formativa per i loro figlioli, liberandoli da un tempo in classe troppo prolungato, che gli consenta qualche ora quotidiana in più per attività formative extrascolastiche. Il maestro unico e l’orario obbligatorio di fatto ridotto saranno più efficienti per le casse dello Stato e per la formazione dei bambini. Questa è la tesi del Governo. Il cui idealtipo educativo, su cui concentrare gli sforzi, è un bambino di buona famiglia, ben seguito da genitori attenti, che abbiano la disponibilità economica, e a discendere organizzativa familiare, per attingere liberamente fuori della scuola, in modo magari più creativo, quel quanto di formazione extracurriculare che gli viene tolto in classe. In buona sostanza, per strappare un sorriso, la filosofia ’creativa’ di Linus: "meglio ricchi e felici, che poveri e malati". Facendo grazia al Governo dell’obiezione che il rapporto docenti-allievi, per il Governo da abbassare portandolo a medie europee, è incrementato da dati non depurati (ad esempio i docenti di sostegno e di religione), l’antitesi a questa boutade didattica e formativa è nel realtipo educativo italiano presente in vaste fasce sociali, soprattutto quelle più deboli, che si ampliano sempre di più, cominciando ovviamente dal Sud, ai cui peggiori risultati scolastici medi il Governo pure dice di voler porre riparo. E questo realtipo parla di famiglie nient’affatto in grado di sostenere costi aggiuntivi extrascolastici per la formazione dei loro ragazzi, tanto più che non saranno certamente i Comuni, a loro volta messi in difficoltà dall’abolizione dell’Ici a poter fornire ai ceti medio-bassi, che sono la maggioranza del Paese, gratis o a prezzi "popolari" le opportunità formative extracurriculari portate fuori della scuola. In sostanza il progetto del Governo è una formazione flessibile in una società flessibile, dove chi può irrobustirà la sua formazione con mezzi propri, e chi non può starà a guardare. Alla società flessibile serve una formazione "di classe", questa sembra essere lo spot del Governo, nel senso che la qualità formativa, un mix tra quello che lo Stato offrirà nella scuola, e quello che dovrai procurarti a tue spese fuori della scuola, sarà appannaggio privilegiato di chi se la potrà permettere in termini di censo, cioè appunto di classe. Né a dire che i risparmi previsti dall’introduzione del maestro unico e dalla riduzione dell’orario scolastico saranno investiti sulla scuola secondaria o sull’università, dove il confronto con l’Europa mano a mano che si sale nella filiera della formazione ci imporrebbe investimenti maggiori. Anzi, anche qui Gelmini taglia, per fare cassa. Alla fine la pagheranno le 87.000 maestre in meno e i 42.000 esuberi del personale ATA. Bel modo di far volare l’Italia. Ma anche a voler tenere in conto la franchezza di Tremonti, che l’ha fatta breve dichiarando a Ballarò che la scuola primaria italiana sarà pure di qualità, ma non ce la possiamo permettere, anche come mera manovra di cassa per il Paese il decreto è una manovra sbagliata. Se si guarda ai costi sociali allargati del decreto - per le famiglie che dovranno integrare di tasca propria, se lo potranno, il deficit i formazione extracurriculare prodotto dal combinato disposto maestro unico-riduzione a 24 ore settimanali del tempo curriculare obbligatorio; per gli enti locali, se potranno e vorranno sostituirsi, ricorrendo a nuova imposizione, agli impegni formativi cui lo Stato viene meno; per la spesa sociale, ovviamente sollecitata da 130.000 disoccupati in più - il decreto rischia di essere a somma zero per il sistema Paese. Inspiegabile resta, su una materia così delicata, su cui ci sarebbe stato bisogno un ampio confronto in Parlamento e con le parti sociali, nella quasi totalità - come risulta dalle audizioni in Commissione Cultura - contrarie al maestro unico e all’orario ridotto, il ricorso al decreto, se l’urgenza di fare cassa per sostenere i costi di qualche promessa elettorale del premier, a cominciare dall’Alitalia. E, per restare in tema, se qualche perverso risparmio avanzerà, molto probabilmente sarà usato per costituire un tesoretto cui far ricorso a fine legislatura per finanziare in extremis qualche meschino ed elettoralistico taglio dell’Irpef da vendere agli elettori e recuperare il consenso perso strada con gli infortuni sociali prevedibili con l’approccio di Tremonti alla finanza pubblica, impegnato con una cura di magra per lo Stato. Però a Tremonti andrebbe ricordato che lo Stato e la sua spesa pubblica sono un po’ come la pecora famosa del capitalismo, la puoi tosare non oltre lo spellamento; dopo l’ammazzi e basta.
* docente di filosofia teoretica all’Università Federico II di Bari, deputato Pd

l'Unità 21.9.08
Si mette in moto la sinistra, prima pietra della «Costituente»
Riunione di cinquanta intellettuali da Sd a Rc, da Fava a Vendola. Accordo sul fine, ma su tempi e modalità strada in salita
di Simone Collini


MOVIMENTI A SINISTRA cominciano a vedersi di nuovo, ma dove porteranno è assai difficile a dirsi. Ieri una cinquantina tra politici e intellettuali d’area si sono riuniti a Roma, raccogliendo l’appello lanciato da Sinistra democratica. Claudio Fava e Fabio Mussi per Sd, Nichi Vendola e Franco Giordano per la minoranza Prc, Umberto Guidoni per quella Pdci, Paolo Cento per i Verdi e poi Morena Piccinini (Cgil), Achille Occhetto, Alberto Asor Rosa, Ascanio Celestini, Moni Ovadia e tutti gli altri, per sei ore hanno discusso a porte chiuse delle ragioni della sconfitta di aprile e di come ripartire.
Se l’unanimità è stata registrata sulla necessità di avviare una costituente di sinistra, sui modi e sui tempi la discussione è stata tutt’altro che semplice. Tanto che il coordinatore di Sd Fava, facendo un bilancio dell’incontro, ha definito questo appuntamento «la prima pietra della costituente», mentre Vendola ha ridimensionato la portata dell’iniziativa con queste parole: «Abbiamo definito un percorso, l’agenda di una partenza». Un modo per non bruciare troppo le tappe, vista la situazione che vive il Prc. Ma al di là di questo, c’è anche una difficoltà insita nell’operazione, che ha bene evidenziato il presidente del Centro per la riforma dello Stato Mario Tronti sottolineando che a questo punto c’è l’esigenza di fare in fretta, ma anche di riflettere molto sul perché del disastro elettorale, sui cambiamenti epocali in corso, su come rispondere alle istanze che vengono dalla società. E se anche una delle ragioni della sconfitta è chiara a tutti - l’operazione da ceto politico della Sinistra arcobaleno - e se tutti dicono di non voler ripetere una simile esperienza, nessuno è riuscito a essere convincente su come coinvolgere a livello di massa gli elettori nella costituente. Una delle proposte che ha suscitato più consensi è stata comunque quella di Aldo Tortorella, che pur non essendo tenero con il Pd ha citato come esempio da seguire le primarie.
Tutto da sciogliere è anche il nodo del rapporto col Pd e col governo. Fava ha insistito sul concetto «sinistra di governo», mentre Giordano ha fatto notare che un conto è dire che il nuovo soggetto non dovrà essere minoritario e identitario, altra cosa è dire che dovrà avere la vocazione a governare: «L’opportunità dipende dal momento particolare, dalla situazione sociale». Piuttosto, l’ex leader del Prc si è trovato d’accordo con il segretario della Fiom Gianni Rinaldini, per il quale la sinistra deve andare al governo quando può mantenere ciò che ha promesso stando all’opposizione.
È escluso che questo processo costituente si concretizzi in una lista per le amministrative o le europee della prossima primavera. Però prima della manifestazione dell’11 ottobre potrebbe essere nominato un coordinamento di quest’area. La maggior parte di quelli che erano ieri alla riunione saranno sabato prossimo alla manifestazione che segna la nascita di “Rifondazione per la sinistra”, l’area «interna-esterna» (come la definiscono loro stessi) di cui fanno parte i vendoliani del Prc. Due giorni prima, tornerà in campo anche Fausto Bertinotti, che nel quartiere romano della Garbatella parlerà di capitalismo e sinistra.

l'Unità 21.9.08
Mi rifaccio lo stadio, il nuovo affare dello sport
di Pippo Russo


Lo sport come volano di un’economia locale, e l’edificazione di un nuovo stadio come principale strumento per rivitalizzare politiche d’investimento: ecco sintetizzati i principi di una new political economy che soltanto adesso si affaccia in Italia, ma che negli Usa detiene una solida tradizione e nel Nord Europa ha preso a strutturarsi con l’inizio del nuovo secolo. Lo schema consiste nel mettere al centro l’industria dell’entertainment (considerando lo sport un segmento di essa, e non un fenomeno sociale a sé stante) e da lì tracciare programmi di sviluppo di enorme impatto dal punto di vista economico, urbanistico, territoriale.
La “Cittadella dello Sport” progettata per Firenze dalla famiglia Della Valle, che insisterà su un terreno che negli ultimi anni ha visto moltiplicare il proprio valore e che sarà tema della campagna per l’elezione del sindaco della prossima primavera, è l’ultimo esempio in ordine di tempo; certamente il più avanzato nella realtà di questo paese, dove un’ipotesi di più corto raggio come quella che porterebbe i club a essere proprietari degli impianti appare quasi ovunque difficile da realizzare. In altri paesi il disegno è stato condotto al termine, con conseguenze profonde. È innanzitutto cambiato il profilo delle città, che hanno visto ridisegnato in profondità il loro equilibrio strutturale in conseguenza di insediamenti pesanti e complessi come quelli legati alla costruzione di un impianto sportivo di nuova generazione. In secondo luogo, grazie alla proprietà dell’impianto sportivo e delle strutture collaterali è stata messa a disposizione dei club una formidabile leva finanziaria, consentendo loro di programmare economie di scala altrimenti inimmaginabili. E infine si è dovuto fare i conti coi sentimenti dei tifosi, restii a lasciare i vecchi impianti per accomodarsi nei nuovi: nessun argomento legato alla maggiore funzionalità del nuovo stadio è sufficiente a vincere la diffidenza che sorge quando si deve lasciare la “vecchia casa”. Specie quando gli stadi in chiusura sono destinati alla demolizione - ciò che imprime una ferita insanabile nel sentimento di intere comunità, formate non soltanto da tifosi. In questo senso, l’ultimo della serie è lo Yankee Stadium di New York, il “tempio” del baseball, pieno Bronx, mito e riferimento per i newyorchesi, dove oggi verrà disputata l’ultima partita prima di dare il via alla demolizione. Al suo posto, nelle vicinanze, sorgerà un nuovo impianto il cui costo stimato è di 900 milioni di dollari. Stessa sorte toccherà nel 2010 a un altro luogo sacro dello sport americano, il Giants Stadium di East Rutherford, New Jersey. Anche in questo caso il vecchio impianto farà spazio a un complesso di nuova generazione, Meadowlands Sport Complex. Pure il calcio europeo ha fatto i conti con dolorosi cambiamenti di questo genere, il più significativo dei quali si è avuto con la chiusura della vecchia casa dell’Arsenal, il mitico Highbury (in via di abbattimento, con riconversione a uso residenziale dell’area), e il trasferimento del club nell’avveniristico Emirates Stadium.
Gli ultimi elementi sopra accennati (rottura con il patrimonio sentimentale collegato ai vecchi luoghi e ricerca della massimizzazione finanziaria a tutti i costi) coincidono coi lati oscuri della new political economy dello sport incentrata sulla costruzione di nuovi impianti e aree multifunzionali. Tali lati oscuri causano due rischi dei quali bisogna tenere conto seriamente: quello della perdita d’identità, e quello della speculazione ai danni delle collettività sulle quali i nuovi impianti hanno impatto. Il primo rischio riguarda un fattore culturale. Esso fa riferimento alla profonda mutazione che lo sport attraversa nell’epoca della sua finanziarizzazione, e che dal geografo umano John Bale è stata etichettata come un fenomeno di mallification. Vale a dire, la trasformazione dell’area circostante lo stadio in un gigantesco shopping mall, una vasta area commerciale multifunzionale in cui l’esercizio della passione tifosa in gara è soltanto un elemento (e, spesso, nemmeno quello centrale) dell’intero sistema di attività. L’altro rischio riguarda il fattore economico, e di esso è stata presa coscienza nel paese che prima di ogni altro ha spinto nella direzione della political economy incentrata sugli impianti sportivi: gli Usa. Da quelle parti vengono pubblicati libri dal tono allarmato e allarmante. Come «Public dollars, private stadiums», dato alle stampe nel 2003 da Kevin J. Delaney e Rick Eckstein, dove si sostiene che i benefici (privati, a favore dei club) determinati dalla costruzione degli stadi vengono finanziati con soldi e agevolazioni di natura pubblica. O come «Playing the field», volume andato in libreria nel 1993 e firmato da Charles C. Euchner il cui sottotitolo è eloquente: «Perché i club sportivi si trasferiscono e le città lottano per acquisirli». La realtà Usa è particolare perché in essa vige il modello delle leghe sportive private a numero chiuso, ciò che permette ai proprietari delle “franchigie” (i club) di disporre d’un potere di ricatto esorbitante. Spesso questo potere è stato esercitato sulle municipalità per ottenere benefici economici (finanziamenti diretti, facilitazioni fiscali, trattamenti di favore nell’acquisto e nella gestione di aree) o la costruzione - appunto - di nuovi stadi; benefici ottenuti agitando la minaccia (talvolta eseguita) di accettare le offerte provenienti da altre municipalità rimaste fuori dal grande business delle leghe professionistiche e spostare altrove la franchigia. Per mettere a fuoco questo malcostume (che ha come conseguenza lo sperpero di denaro pubblico) si svolse nel 1995 un ciclo di audizioni presso il senato Usa. Enza che ciò sia servito a arginare il fenomeno.
Certo, la realtà europea è diversa. Ma anche qui la speculazione attorno alla costruzione di nuovi stadi è un fenomeno già fortemente presente. Soprattutto in Inghilterra; dove, per esempio, un club di modesta levatura come il Luton Town (precipitato in Football Division Two, la quarta serie) è stato oggetto nei mesi scorsi di pesanti giochi finanziari. Motivo: la prossima costruzione di un nuovo stadio. A causa di irregolarità amministrative il Luton Town è partito in questa stagione con una penalizzazione-shock: 30 punti. Auguri ai tifosi, ai quali del nuovo stadio interessa relativamente e che, si tratti di “old” o “new” economy, patiscono sempre allo stesso modo per i propri colori.

Corriere della Sera 21.9.08
Documenti Nuove prove sulle audaci ricerche del biologo russo Ivanov
Lo scienziato che voleva creare l'uomo-scimmia
Stalin inizialmente lo finanziò; poi lo mise al bando
Il seme animale nel corpo della donna fu la fantasia più inquietante del famoso «pioniere» che piaceva al regime
di Ruggiero Corcella


Argomento da criptozoologia. Meglio, fantascienza genetica. Né l'uno, né l'altro. O, forse, entrambi. Una cosa è certa: gli esperimenti di Iljia Ivanov, il «Frankenstein rosso» come fu ribattezzato dalla stampa occidentale degli anni Venti, sono una delle pagine più inquietanti della storia della medicina.
Ivanov, biologo e zoologo, «discepolo» del premio Nobel Ivan Pavlov (quello del riflesso condizionato scoperto nei cani) fu forse il massimo esperto di inseminazione artificiale del suo tempo. Ma si spinse oltre il confine estremo tra eugenetica e utopia: cercò davvero di creare l'uomo-scimmia. I suoi progetti, finanziati dal Cremlino con la cifra astronomica (all'epoca) di 10 mila dollari, fallirono e furono sepolti negli archivi di Stato. Nel 1990, la perestrojka
di Gorbaciov mise i documenti a disposizione degli studiosi e la verità cominciò a venire a galla. Perché Ivanov portò avanti i suoi esperimenti e perché il Partito bolscevico appoggiò lo scienziato, contro il parere dell'intero mondo accademico (o quasi) e fino al suo arresto?
Alexander Etkind, professore di Storia russa — con radici russe — dell'università di Cambridge, ricostruisce la vicenda sulla rivista
Studies in history and philosophy of biological and biomedical sciences. E porta nuove prove, sulla notorietà degli studi e sulle reali intenzioni del governo comunista. Ivanov presentò il suo progetto di ibridare uomini e scimmie con l'inseminazione artificiale al congresso internazionale di zoologia, nel 1910 a Graz, allora Austria- Ungheria. Forse i suoi colleghi pensavano che l'illustre biologo enunciasse solo teorie. Certo non sapevano che a sostenerle ci fosse Stalin in persona. Invece, con i soldi dell'Urss e la benedizione dell'Istituto Pasteur di Parigi (con il quale collaborava), Ivanov partì nel 1926 con il figlio alla volta di Kindia, la stazione sperimentale dell'istituto Pasteur nella Guinea Francese. La sperimentazione prevedeva di fecondare un certo numero di scimpanzé femmine con spermatozoi umani. L'impresa si rivelò più complicata del previsto e il viaggio di ritorno via Marsiglia assieme a tre scimmie fecondate («da donatori umani», forse Ivanov stesso) e ad altri dieci scimpanzé fu un disastro. Gli animali morirono tutti di dissenteria e tubercolosi, prima ancora di toccare terra o subito dopo l'arrivo a destinazione, nell'Istituto di patologia e terapia sperimentale a Sukhumi sul Mar Nero, scelta per il clima subtropicale.
Nella capitale dell'Abkhazia, tornata un mese fa alla ribalta con la «guerra di agosto» tra Georgia e Russia, l'Istituto esiste ancora. Ma è ormai l'ombra del centro pionieristico che nella Seconda guerra mondiale salvò migliaia di vite con la penicillina, testata sulle scimmie. Al suo apogeo, l'Istituto ne ospitò 2.500. Oggi, ne sono rimaste 300, la maggior parte anziane o in fin di vita. I tre esemplari di Ivanov non restarono gravide, come accertarono gli esami post-mortem. «Bisogna moltiplicare gli esperimenti», scriveva allora lo zoologo nei suoi diari.
Così pensò di provare l'incrocio inverso: fecondare donne con il seme delle scimmie. Non riuscì a portare a termine il progetto, nonostante l'arruolamento di cinque «compagne volontarie ». Il vento cambiò. Il 13 dicembre 1930, Ivanov fu arrestato per «attività ostile all'Urss, spionaggio, complicità con la borghesia internazionale» condannato a cinque anni di lager. Sei mesi dopo, la pena fu commutata in esilio ad Alma Ata, allora capitale del Kazakistan, dove nel 1932 Ivanov morì a 62 anni, onorato da Pavlov che volle firmare il necrologio del suo discepolo, caduto in disgrazia con il regime.
Perché un progetto tanto ambizioso, dunque? La prima spiegazione, riportata nei documenti ufficiali, è che il successo di Ivanov avrebbe significato la vittoria definitiva del materialismo e dell'ateismo. Gli esperimenti furono acclamati anche sull'altra sponda dell'oceano: l'associazione americana per il progresso dell'ateismo si dichiarò pronta a raccogliere 100 mila dollari. In secondo luogo, avrebbe provato la superiorità della scienza sovietica. Si è anche ipotizzato che in realtà l'élite bolscevica volesse perfezionare una terapia — nota come chirurgia di ringiovanimento — sviluppata a Parigi da Sergei Voronov, membro del Collegio medico di Francia.
Prevedeva l'impianto di ghiandole sessuali di scimpanzé nell'uomo, per migliorare le prestazioni psico- fisiche generali. Etkind fa sua una terza risposta. L'incrocio avrebbe aperto la strada al «nuovo uomo socialista», che nei piani del Partito bolscevico doveva essere «costruito con mezzi scientifici». Forte e condizionato: un cittadino modello, un soldato invincibile.

Corriere della Sera 21.9.08
Gli esperti I progressi della genetica e gli ibridi mostruosi
Incroci impossibili
di R. Cor.


Ivanov? E chi non lo ha studiato? Il genetista Carlo Alberto Redi e il ginecologo Carlo Flamigni se ne ricordano, eccome. Non cercano di riabilitarlo, come alcuni tabloid e la televisione russa cercano di fare. Ma con altrettanta convinzione respingono timori e orrori evocati dalla sperimentazione «estrema» dello scienziato russo.
«L'uomo-scimmia? La scienza ha già dimostrato che è impossibile riprodurlo: l'uomo ha 46 cromosomi, le scimmie ne hanno 48». L'incrocio dei loro geni, dunque, non è in grado di creare un essere vivente perché la natura, come diceva Linneo, uno dei fondatori dell'Accademia svedese delle scienze, non fa salti. Questa considerazione, ammoniscono però i due esperti, non deve diventare un'arma contro la ricerca scientifica. «Non dobbiamo temere sviluppi sconcertanti — aggiunge Redi, direttore scientifico del Policlinico San Matteo di Pavia —. Il chimerismo è stato sempre uno strumento di lavoro degli scienziati. L'aspetto mostruoso deve restare nell' immaginario, la pratica biologica è altra cosa». Eppure, la parentela è provata al di là di ogni ragionevole dubbio. Nella sua ricerca più recente Richard Gibbs, direttore dello Human Genome Sequencing Center al Baylor College of Medicine di Houston, e la sua équipe hanno decifrato il genoma del macaco e lo hanno confrontato con quelli, già noti, dello scimpanzé e dell'uomo. Se il Dna del macaco assomiglia per il 97,5 per cento a quello umano, lo scimpanzé condivide con i cugini una somiglianza genetica del 99 per cento.
«Cerchiamo di essere pragmatici — è l'invito di Flamigni —: dove andrebbe a nascondersi l'uomo-scimmia? A chi servirebbe?». E Il rischio che la scienza possa prendere derive pericolose? «Credo che il problema esista, ma modestissimo perché lo scienziato non è uno stregone — aggiunge il ginecologo — . Oggi la situazione è diversa da quella di ottant'anni fa: l'accademia è al servizio della società».

Corriere della Sera 21.9.08
Indagine Italia ultima in prevenzione del disagio
Lo psicologo a scuola? Assente
Solo consulenze episodiche e brevi
di Gustavo Pietropolli Charmet


Le emozioni nello zaino. Questa generazione di bambini e adolescenti porta tutto a scuola: la mente, le passioni, il corpo. Non è più come un tempo: non ha diritto d'accesso solo la capacità di apprendere e la motivazione a sapere. La scuola è oggi il luogo nel quale si scaricano e si evidenziano tutte le contraddizioni sociali ed educative, alla ricerca di una soluzione intelligente. Da ciò deriva il bisogno di un nuovo patto educativo fra scuola e famiglia e istituzioni. La psicologia può dare un contributo, ritagliarsi spazi di ascolto propri e mettersi al servizio del progetto educativo. Gli studenti sono alla ricerca di adulti competenti: gli psicologi a volte lo sono.

Due scuole su tre chiedono aiuto allo psicologo ma da noi i soli interventi possibili sono brevi e non continuativi

Fanalino di coda in Europa: siamo l'unico Paese che non ha un servizio di psicologia scolastica strutturato. All'estero è invece prevista la presenza continuativa di uno specialista a fianco degli insegnanti; persino in Germania dove gli psicologi scolastici sono pochi la loro presenza è continuativa ( vedi tabella). Eppure, nell'ultimo triennio due scuole italiane su tre hanno richiesto l'intervento di uno psicologo, aiuto che ha potuto essere solo episodico.
Questa la fotografia che emerge dai dati raccolti dal Consiglio nazionale dell'Ordine degli psicologi (Cnop). L'indagine, svolta in collaborazione con gli Istituti regionali per la ricerca educativa, ha coinvolto 1.511 psicologi e 1.921 scuole pubbliche di ogni ordine e grado in tutta Italia. L'intervento dell'esperto riguarda soprattutto gli alunni che non s'impegnano nello studio, o che hanno comportamenti aggressivi e violenti in classe. «In alcune Regioni — sottolinea Giuseppe Luigi Palma, presidente del Cnop — 15 studenti su cento non completano nemmeno il percorso dell'obbligo. E il 41% di alunni delle scuole elementari dice di subire atti di prepotenza nelle aule». La consulenza dello psicologo è richiesta anche per l'orientamento scolastico e professionale dei ragazzi, per corsi rivolti ai genitori, per offrire supporto agli insegnanti ( vedi box).
Sottolinea uno degli autori della ricerca, Carlo Trombetta, docente di psicologia dell'educazione alla Lumsa (Libera Università SS. Maria Assunta) di Roma: «La scuola oggi deve fare i conti con le tante trasformazioni in atto sia al suo interno sia nella società. E chiede aiuto allo psicologo che dovrebbe avere competenze che spaziano dai processi di apprendimento all'orientamento, dall'organizzazione scolastica alla consulenza individuale e di gruppo. Competenze difficili da trovare nella stessa persona, motivo in più per pensare a un servizio strutturato, affidato a una équipe di esperti e non a un singolo».
Inoltre, riprende Palma: «Visto che oggi lo psicologo interviene in seguito a richieste specifiche, lavora "a progetto", può operare per periodi molto limitati, di solito meno di tre mesi. Noi invece chiediamo una legge quadro nazionale che istituisca servizi di psicologia scolastica continuativi; spetterebbe poi alle Regioni programmare e finanziare i servizi a livello territoriale, in base alle necessità delle diverse scuole».

Corriere della Sera 21.9.08
Lavoro difficile. Anche i «prof» chiedono aiuto


«Quando entro in classe nessuno mi ascolta...» «Perché i colleghi non eseguono le mie direttive? Eppure sono il capo».
Anche insegnanti e dirigenti scolastici hanno bisogno dello psicologo. È quanto emerge dall'indagine del Consiglio nazionale dell'Ordine degli Psicologi. «I docenti chiedono consiglio per gestire una classe o alunni "difficili", — chiarisce il vicepresidente del Cnop, Claudio Tonzar — i dirigenti scolastici, invece, per migliorare la comunicazione con gli insegnanti e l'organizzazione quanto mai problematica viste le continue innovazioni e riforme».

Il Sole 24Ore Domenica 21.9.08
La folgorazione di Martin

II saggio curato da Aniceto Molinaro svela i rapporti tra Heidegger e il cattolicesimo. Individuava in alcune lettere di San Paolo i fondamenti dell'esperienza cristiana.
di Gianfranco Ravasi


Nel semestre invernale 1920-21, Martin Heidegger, poco più che trentenne, propose all'università te desca di Friburgo un corso di Introduzione alla fenomenologia re ligiosa, il cui manoscritto non sarà mai ritrovato e rimarranno solo le trascri zioni stenografìche degli uditori (accu rata la traduzione italiana di G. Gurisatti, pubblicata da Adelphi nel 2003). Ora, la seconda parte di quell'Introduzione era dedicata a un'«Explikation» feno menologica» dell’«esperienza cristia na della vita» sulla base di tre Lettere paoline, quella ai Calati e le due ai Tessalonicesi. Nella massa di testi che vengo no sfornati per il bimillenario della na scita di san Paolo attualmente in corso, un'originalità particolare se non unica acquista la suggestiva raccolta di saggi che Aniceto Molinaro ha approntato, convocando i più bei nomi dell'esegesi heideggeriana (soprattutto sul versan te "teologico"), a partire dal discepolo e collaboratore Friedrich-Wilhelm von Herrmann, per passare a Bernhard Casper e ai nostri Umberto Regina e Pie tro De Vitiis.

Nato cattolico, divenuto seminarista e alunno di uno scolasticato gesuita, Heidegger si staccò da quell'orizzonte, optando inizialmente per una sacralità di stampo neopagano-romantico sulla scia del poeta Hölderlin. Ma il legame con le radici cristiane riaffiorò ben pre sto e queste lezioni ne sono un'attesta zione; ma sono pure la culla della sua futura ramificata architettura ideale che avrà una prima grandiosa compo nente nell'Essere e tempo del 1927. Infat ti, nelle lezioni esegetiche paoline affio rano già temi come quelli del «compi mento», ossia del vissuto (della fede), della «temporalizzazione» opposta a una visione oggettiva del tempo, della storicità e della sua meta o «destinalità». Così, nell'analisi della lettera paolina ai Calati è il vissuto a dominare: esso ospita nel suo grembo il morire alla «legge». L'apostolo, quindi, vive il tem po in quanto egli muore a ciò che vor rebbe far morire il tempo. La morte di Cristo, emblematicamente incarnata nello «scandalo della croce», obbliga il credente a vivere il tempo e non sempli cemente nel tempo o con la paura del tempo perché esso diventa un grembo di vita, di salvezza, di «compimento».

Similmente le Lettere ai Tessalonicesi riescono nitidamente a intrecciare storicità ed escatologia o, per dirla heideggerianamente, compimento e destinalità. Infatti, il tempo è irradiato dall'at tesa della parousía, cioè della venuta ultima di Cristo, che è già in azione gene rando così fin da ora pienezza di vita, «compimento» appunto. Per questo, la temporalità cristiana è gioiosa anche se appesantita dalle tribolazioni, è già in risa della pienezza escatologica, non è una mera sequenza oggettiva cronolo gica, ma un'esperienza esistenziale, «la ita non è un puro scorrere di vissuti, la nta è solo in quanto la si ha». La paroua non è, quindi, soltanto attesa, ma è già un compimento che è però in cresci ta dinamica come lo sono la vera vita e a temporalità vissuta e non puramente scandita cronologicamente: «II pisteuein [nel greco paolino è il "crede re"] è un contesto di compimento capa ce di aumento». Naturalmente molti al tri sono gli aspetti che emergono dagli studi raccolti in questo prezioso libret to, per certi versi originale nel panora ma della bibliografia paolina. Così, ad esempio, rilevante - nello sguardo che il filosofo allarga oltre la trilogia episto lare citata - è «il confronto tra la filoso fia greca e l'esistenza cristiana, destina to a mostrare la deformazione operata dall'influsso di una filosofia greca pessi ma ed epigonale», come scrive il cura tore Molinaro nella sua premessa. Inte ressante è anche l'approccio fenomeno­logico adottato da Heidegger, dialetti co rispetto a quello teoretico di Husserl e concepito piuttosto come analisi del vissuto, della "fattualità" dell'esistenza e dell'esperienza, in questo caso cristia­na. Significativo è anche il processo di elaborazione di una filosofìa/teologia cristiana partendo non da presupposti teorici quanto piuttosto dall'analisi del dato religioso.

È proprio per queste (e altre) ragio ni che il filosofo di Friburgo ha esercita to un forte e controverso influsso sulla teologia del Novecento. Solo per evo care due "giganti", antitetici però negli esiti, si pensi a Rudolf Bultmann (che fu collega di Heidegger a Marburg) e alla sua interpretazione esistenziale e "demitizzante" del messaggio cristia no e a Karl Rahner che dichiarava di considerare Heidegger il suo unico "maestro" tra tanti "insegnanti" avuti. Casper, nelle pagine del suo interven to, ricorda la risposta alla domanda sul la fede che il filosofo offrì durante un incontro nell'estate del 1951: «Sono 40 anni che sto pensando al problema di Dio e credo di non avervi ancora pensa to sufficientemente». Aveva, allora, ra gione il filosofo della religione Ber nhard Welte, nato anche lui nella citta dina di Messkirch (Baden), patria di Heidegger, quando definiva il suo con terraneo «il più grande ricercante del nostro secolo».

Aa.Vv., «Heidegger e San Paolo», a cura di Aniceto Molinaro, Urbaniana University Press, Città del Vaticano, pagg. 158, €14,00.

venerdì 19 settembre 2008

l’Unità 19.9.08
Immigrazione, l’Italia finirà davanti alla Corte di giustizia
La Ue: sicurezza, ricongiungimenti, rifugiati, tutto da riscrivere
Clandestinità, ieri la prima impugnazione per incostituzionalità
di Paolo Soldini


TUTTO SBAGLIATO, tutto da rifare, come diceva Gino Bartali. Ma non c’è purtroppo da scherzare: l’intera legislazione italiana sugli stranieri dell’era Maroni è contraria alla normativa europea. L’Italia, per l’Europa, è fuori legge. È illegale non solo il decreto
del cosiddetto «pacchetto sicurezza» con la norma che prevede come aggravante di reato la condizione di clandestinità (norma palesemente contraria anche alla Costituzione italiana e da parte di un giudice, ieri, c’è stata la prima impugnazione), ma lo sono anche i tre decreti legislativi di attuazione delle direttive comunitarie fatti ingoiare dal governo al parlamento. Se non verranno cambiati l’Italia finirà dritta dritta sui banchi degli accusati alla Corte di Giustizia. È vero che sono molte le procedure di infrazione adottate dalla Commissione Ue contro le autorità italiane (fra le più recenti: legge Gasparri, rifiuti a Napoli, progetto del il ponte di Messina), ma non è mai accaduto, finora, che uno stato membro si sia dovuto difendere davanti ai massimi giudici europei dall’accusa di aver violato diritti fondamentali delle persone.
A questo punto se Berlusconi e il suo incauto ministro dell’Interno tengono duro e si fanno deferire alla Corte mettono in conto una sentenza sicuramente negativa. Se poi non la rispettano, rischiano pesanti sanzioni pecuniarie da parte della Commissione. Ma, soprattutto, espongono il Paese al ludibrio. L’alternativa è che gli inquilini di Palazzo Chigi e del Viminale facciano macchina indietro tutta, accettino le osservazioni di Bruxelles e smantellino i provvedimenti con cui si presentarono agli italiani, mesi fa, spacciando la propria pietosa insipienza per una impietosa "tolleranza zero". La precipitosa marcia indietro di Maroni sulle impronte dei piccoli rom, l’assicurazione che le norme in materia di sicurezza sarebbero state inviate al Barleymont per un «esame preventivo» e una confusa promessa di «tenere aperti i tempi» dell’attuazione delle direttive lascerebbero pensare che ci si avvii per la seconda strada. Ma se è così, il ministro leghista e tutto il governo dovranno pagare un prezzo altissimo. Sarà come confessare che nei mesi scorsi si è fatta solo demagogia.
Una specie di legge del contrappasso ha fatto sì che la mazzata sul capo del ministro italiano sia venuta proprio dall’uomo che aveva cercato, nei giorni scorsi, di salvargli la faccia. Sono stati infatti i servizi del commissario alla Giustizia Jacques Barrot a spiegare nei dettagli tecnici che cosa intendeva il loro capo quando sosteneva che le nuove norme italiane abbisognavano ancora di qualche «correzione». Vediamo qualcuna delle obiezioni.
1) Le modifiche apportate dal governo Berlusconi al decreto legislativo del febbraio 2007 che recepiva la direttiva Ue 2004/38 sulla libera circolazione dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari sono illegittime sotto vari aspetti: tra l’altro, l’introduzione di termini temporali, l’allontanamento in base a criteri di «pericolosità sociale» e la detenzione di cittadini comunitari nei centri di identificazione.
2) Vanno riscritte anche le norme, introdotte con modifica del decreto di attuazione della direttiva 2005/85 sulle procedure per il riconoscimento e la revoca dello status di rifugiato. Procedure - dicono tra l’altro i servizi europei - caratterizzate da un inaccettabile pregiudizio di diffidenza.
3) Tutte sbagliate, infine, le norme introdotte da Maroni in materia di ricongiungimenti familiari. Per il diritto comunitario è inammissibile stabilire un’età minima per il coniuge che si voglia ricongiungere, è illecito (oltre che odioso) escludere gli invalidi e i figli maggiorenni che non provino il possesso di risorse proprie.
Si tratta solo di qualche esempio. Ma basta a far comprendere come la legislazione maronesca abbia bisogno di ben altro che di qualche «correzione». I decreti, che ora come ora sono legge dello Stato, andranno riscritti dalla prima all’ultima parola. Oppure resteremo i fuorilegge dell’Europa.

Corriere della Sera 19.9.08
Deputata olandese: rom torturati Al Senato insorge il Pdl


ROMA — «È vero che i carabinieri nei campi rom infilano la testa di ragazzi e bambini dentro secchi pieni d'acqua?».
Deputati e senatori italiani delle commissioni Affari costituzionali e politiche comunitarie di Camera e Senato strabuzzano gli occhi nell'ascoltare la domanda dell'europarlamentare verde Elly de Groen Kouwenhoven.
Assieme ad altri deputati di Strasburgo la de Groen è in Italia per discutere della situazione dei campi nomadi e delle misure adottate dal governo in materia di sicurezza. La de Groen, che a detta dei presenti ha usato «un tono provocatorio, ha provocato una vibrata reazione dei parlamentari. La rissa è stata evitata grazie agli interventi del deputato Mario Pescante (Pdl) e della senatrice Rossana Boldi, presidente leghista della commissione Politiche comunitarie. Il primo ha detto: «Forse si confonde con Auschwitz. Le sue accuse sono un insulto».
La de Groen ha criticato i provvedimenti dell'esecutivo. La Boldi ha rimarcato: «Non è ammissibile che una parlamentare rivolga accuse gratuite ai carabinieri».

l’Unità 19.9.08
Borghezio e neo-nazi, paura a Colonia
Raduno europeo anti-islamico, si temono scontri. Contro-corteo di 40 mila persone
di Roberto Brunelli


LA PLACIDA COLONIA ha paura. C’è chi, dalle pagine dei quotidiani tedeschi, lancia appelli ai cittadini comuni, ai negozianti agli «uomini degni»: quello di tirare giù le serrande, chiudere le botteghe e le finestre, disertare le strade. Qui, a due passi dal Duomo, oggi è domani arriverà la crème de la crème dell’ultradestra europea, dall’Fpö di Jörg Haider, ai separatisti fiamminghi del «Vlaams Belang», passando per simpatizzanti del Front National, fino organizzazioni xenofobe di varia estrazione, e non sono esclusi arrivi di elementi di chiara estrazione neonazista. Anche l’Italia è ben rappresentata: in mezzo a qualche croce celtica e vibrazioni razziste ci sarà Mario Borghezio, eurodeputato della Lega. Sì, lo stesso che voleva disinfettare con tanto di spray alcuni treni dalla presenza di donne africane, lo stesso che fa dichiarò, a proposito delle medaglie olimpiche tricolori, che erano la logica conseguenza della «superiorità padana».
Qualche migliaio gli ultra-destri attesi, così come è annunciata una contromanifestazione di 40 mila persone, alla cui testa dovrebbe sfilare lo stesso sindaco di Colonia, il democristiano Fritz Schramma. La polizia, che teme scontri, ritiene che quella che ha dinnanzi sarà «la prova più difficile di sempre». «No all’islamizzazione dell’Europa», gridano i manifestini diffusi in tutta la città e, tramite i siti internet, in tutto il Vecchio Continente. L’obiettivo degli organizzatori non è soltanto quello di bloccare la costruzione di una grande moschea nella «città degli immigrati»: la sfida è quella di far fare al movimento dell’estrema destra europea «il vero salto di qualità». Creare un’alleanza su scala continentale, in nome di quella che loro chiamano «l’Europa delle patrie fiera e libera, contro il terrorismo islamico, i predicatori d’odio, le bande criminali di giovani turchi e arabi, i copricapo in stoffa, burqa, veli...» e quant’altro. Il loro sogno: metter su una lista comune per le elezioni europee del 2009. Tra i nomi più sbandierati, tuttavia, si registrano nelle ultime ore alcune defezioni eccellenti. Non ci sarà Jean-Marie Le Pen. Non ci sarà il candidato cancelliere dell’Fpö, Heinz-Christian Strache. Markus Beisicht, il leader del gruppo che ha lanciato l’inziativa («Pro-Köln»), teme invece altre visite non gradite: «Non sarebbe una buona cosa se i neonazisti facessero concentrare su di noi un’attenzione sbagliata». Borghezio, che sarà accolto da una squadra di poliziotti in tenuta antisommossa e sarà accompagnato da un gruppo di vetero-leghisti di Mantova, di tutto ciò non si cura: lui ci sarà, e a tradurre il suo comizio sarà una dirigente del Pdl in Germania. Chissà se sa, da europarlamentare, che l’Iran ha chiesto all’Ue di proibire il congresso degli ultra-destri. Non importa: oggi qui è uno degli oratori più attesi.

l’Unità 19.9.08
Abba era a terra, l’hanno colpito più volte
I risultati dell’autopsia sul giovane preso a sprangate. Tensioni a Milano
di Giuseppe Caruso


VERITÀ Non un solo colpo, ma diverse sprangate. L’autopsia sul corpo di Abdul “Abba” Guibre ha confermato la ricostruzio-
ne degli amici del ragazzo, sconfessando Fausto e Daniele Cristofoli, che davanti al gip Micaela Curami avevano sostenuto di aver sferrato un solo colpo. Nelle motivazione il giudice aveva parlato di «zone d’ombra» nella loro testimonianza, con riferimento anche al numero di colpi dati al povero Abdul quando era a terra, incosciente.
Ancora da chiarire però quando e come le sprangate siano state portate e chi ha sferrato quella che ha provocato la morte di Abba. Daniele Cristofoli, il figlio, 31 anni ed un piccolo precedente penale per un reto commesso nei confronti di un compagno di classe, se ne è presa la responsabilità. Ma gli inquirenti vogliono capire se invece non possa essere stato il padre Fausto, 53 anni, con alle spalle condanne per rapina a mano armata e stupro, a dare il colpo mortale
Intanto i genitori di Abdul hanno voluto lanciare un appello alle persone che si trovavano alla finestra quel mattino e che hanno assistito all’episodio, affinché vadano dal magistrato o alla polizia per raccontare ciò che hanno visto.
«Vogliamo ringraziare tutti coloro che ci sono stati vicini in questi giorni tragici» hanno detto «soprattutto il Comune di Cernusco sul Naviglio. Parteciperemo alla manifestazione indetta sabato alle 14.30 a Milano, perché vogliamo che nessuno muoia a causa del colore della propria pelle». I genitori di Abdul ieri mattina hanno effettuato il riconoscimento del corpo del figlio sul quale hanno riscontrato le svariate ferite accertate poi dall’autopsia.
Ieri si sono vissuti attimi di tensione durante il corteo organizzato dal Coordinamento dei Collettivi Studenteschi in memoria di Abdul. Mentre il corteo, formato da circa 200 ragazzi, transitava vicino al bar Shining di via Zuretti di proprietà dei Cristofoli, alcuni giovani hanno lanciato un secchio di vernice bianca e una bottiglia di vetro contro la saracinesca del locale.
Dopo pochi minuti di confusione, con la polizia in assetto antisommossa schierata a difesa del bar, la manifestazione, partita da Largo Cairoli intorno alle 9.30, è ripresa senza incidenti . Molti gli slogan antirazzisti e contro le «politiche dell’insicurezza e dell’ignoranza» del governo. Al corteo ha partecipato anche la sorella di Abba.

l’Unità 19.9.08
Materie e prof, così si decapita l’istruzione
Ecco il piano del ministro dell’Istruzione: via 48mila insegnanti già dal prossimo anno
di Maristella Iervasi


MAESTRO unico anche alla materna, accesso all’università solo per gli studenti con maturità liceale. Tutti in classe ma solo di mattina e circa 60mila docenti «rispediti» a scuola di lingua inglese per una formazione specializzata obbligatoria. Ecco come la «cu-
ra» Tremonti-Gelmini si abbatte sulla scuola pubblica. Oggi alle 15 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini illustrerà ai sindacati Flc-Cgil, Cisl e Uil scuola lo schema di piano programmatico. 24 pagine fitte fitte che stravolgono l’attuale «sistema scolastico»: dai quadri orari ai piani di studio. Uno tsunami senza precedenti per le famiglie italiane, i docenti, i precari e tutto il personale della scuola. Una contro-riforma a tutto tondo portata avanti senza mai ascoltare la voce dei diretti interessati che in tutto lo Stivale si alternano a staffetta nella raccolta di petizioni sotto gli istituti contro il piano «da restaurazione» di viale Trastevere.
Per il duetto Tremonti-Gelmini la scuola è vista come un capitolo di bilancio. Il decreto legge 112 prevede esplicitamente che siano tagliati nel triennio 2009-2012 circa 87mila 341 posti docenti e 44.500 posti di personale Ata (collaboratori scolastici, amministrativi e assistenti tecnici). Così ecco pronto il calcolo dello strumento contabile a scapito della qualità: nell’anno scolastico 2009-2010, ad esempio, verranno tagliati 42.105 posti docenti e 15.166 di personale Ata. Dalle prime anticipazioni solo a partire dal prossimo anno ci saranno 15.740 maestri in meno nella scuola elementare; 16.431 prof in meno alle medie; 12mila nella scuola superiore e 15.166 posti in meno tra collaboratori scolastici, amministrativi e assistenti tecnici. Tagli agli organici e alla didattica, solo per risparmiare circa 8 miliardi di euro nel prossimo triennio. Tra le regioni più penalizzate la Campania di Bassolino e la Lombardia di Formigoni, quest’ultima è in testa anche per l’impiego di classi a tempo pieno (oltre 9mila). Enrico Panini, segretario generale della Flc-Cgil, prende in castagna la Gelmini: «Non è vero che la spesa per la scuola non è fuori controllo. Non è vero che aumentano i docenti e diminuiscono i bambini: dal 2001 al 2008 gli alunni sono costantemente cresciuti mentre i docenti sono diminuiti del 4-5%. Non è vero - insiste il sindacalista - che il 97% della spesa della scuola è destinata agli stipendi. La spesa è così composta: 42 miliardi dello Stato, 10 miliardi da regioni ed enti locali. Un totale di 52 miliardi. Per gli stipendi del personale si spendono 40 miliardi circa». E Massimo Di Menna della Uil-scuola, avverte: «L’incontro non si può ridurre a un’informativa. La via maestra non può essere l’ossessione del risparmio. Il maestro unico non è una ascia ideologica da abbattere sulla scuola primaria. Gli aspetti legati al piano non devono mettere in ombra la questione centrale: le basse retribuzioni e il personale precario. Aumenti retributivi da subito nel contratto, altrimenti forte mobilitazione». Un faccia a faccia insomma per niente facile, viste le premesse della vigilia. Con la Gelmini che ripete a mo’ di litania le stesse parole: «Liberare risorse per garantire libertà di scelta alle famiglie». Una mossa politica che la Flc-Cgil sintetizza così: «Si vuole chiudere con il peso economico della scuola statale per tutti, per svenderla ai privati».
MATERNE «L’orario obbligatorio delle attività educative si svolge anche solamente nella fascia antimeridiana, impiegando una sola unità di personale docente per sezione» - si legge nello schema piano programmatico Gelmini-Tremonti. Oggi il rapporto nelle scuole materne è di 2 maestre ogni 25-28 bambini con orario prolungato fino al pomeriggio e non tassativo alle 12.30. Con la maestra unica i piccoli dai 3 ai 5 anni non potranno più andare neppure in giardino, visto che per le «uscite» didattiche il rapporto previsto per legge è di un docente ogni 15 bambini.
ELEMENTARI «Va privilegiata l’attivazione di classi affidate ad un unico docente e funzionanti per un orario di 24 ore settimanali», è l’aut-aut della bozza-programmatica. Il piano Gelmini-Tremonti ipotizza anche una articolazione del tempo scuola su 27-30 ore di insegnamento tutta da inventare e a carico delle scuole. Mentre l’attuale tempo pieno verrebbe cancellato per far posto agli inevitabili doposcuola-parcheggio.
LINGUA INGLESE L’insegnamento verrà «affidato» ad un docente di classe «opportunamente specializzato». Gli attuali oltre 11mila docenti specialisti di lingua straniera verranno «progressivamente» eliminati nel tempo. Oltre 60mila insegnanti verranno quindi obbligati a seguire una formazione linguista di 150/200 ore. Verrebbe cancellata la norma contrattuale sull’aggiornamento come attività non obbligatoria.
TECNICI E PROFESSIONALI Meno orari, meno indirizzi e meno discipline. Di fatto, passo sbarrato per l’accesso all’università. Se ne discuterà nei prossimi giorni in un tavolo tecnico.

l’Unità 19.9.08
L’immaginazione è soprattutto rivoluzione
di Georges Didi-Huberman


IL GRANDE STORICO DELL’ARTE spiega come l’esperienza psichica dell’immaginare non solo consenta di mobilitare uno sguardo nuovo sul mondo ma soprattutto offra un enorme potere politico

Walter Benjamin ha parlato del surrealismo, questo straordinario dispiegamento dei poteri dell’immaginazione, come dell’«ultima istantanea sugli intellettuali europei». Con ciò, egli intendeva collocare l’immaginazione in un contesto immediatamente filosofico, se non addirittura politico. La questione, infatti, è anzitutto quella del rapporto «tra fronda anarchica e disciplina rivoluzionaria», tra libertà poetica ereditata da Rimbaud (di cui cita un passaggio tratto dalle Illuminazioni) e vincoli inerenti ad ogni azione politica collettiva. La vulnerabilità del rapporto tra illuminazione e azione è dovuta alla differenza, che può essere del tutto trascurabile o invece radicale, tra prendere posizione e prendere partito. Per esempio, non è sicuro che Aragon prenda già partito in Une vague de rêves, pubblicato nel 1924. Ma il «nucleo dialettico» del suo lavoro, come ebbe a dire Benjamin, è ben leggibile nella sua propensione a sperimentare, «là dove la soglia tra veglia e sonno (è)in ciascuno attraversata dal flusso e riflusso di un’enorme massa di immagini».
Descrivendo questa situazione poetica sperimentale e scoprendola agitata dal «flusso e riflusso di un’enorme massa di immagini», Benjamin utilizza una terminologia inaspettata per chi è solito associare questa «massa di immagini» alla «fantasia» personale del creatore ispirato. In effetti, non si tratta di fantasia, ma di una «esattezza automatica», qualità oggettiva di cui ogni flusso o riflusso di immagini risulta investito. In questo caso, dunque, l’illuminazione è automatica. Semplificando un po’ - giacché in ogni opera, in ogni esperienza concreta, tutto ovviamente si mescola e si complica - si potrebbe dire che, secondo Benjamin, il fondamento del surrealismo consiste proprio nell’associare, nel combinare, nel montare assieme due automatismi simmetrici: da una parte, il reflusso automatico delle immagini «interiori»; dall’altra, il flusso automatico delle immagini «esteriori».
Il primo automatismo è di natura psichica: è quello che va, nel libero impiego che ne fanno i surrealisti, dall’«automatismo mentale» di cui parla Pierre Janet alla «coazione a ripetere» di cui parla Freud. Automatismo di ripetizione e di ebbrezza che comporta, dice Benjamin, un «vero e proprio superamento creatore dell’illuminazione religiosa». La propedeutica a questo tipo di illuminazione non è dunque più il credo o l’esercizio spirituale alla maniera gesuitica, cose che Georges Bataille respingeva anche nella propria tecnica di «esperienza interiore», ma, eventualmente, il ricorso agli stupefacenti: una propedeutica «materialistica», dice Benjamin, «ma pericolosa». In Nadja di André Breton - che, su questo piano, rinnova la «dialettica dell’ebrezza» già presente in Dante, il Dante poeta del mondo terreno analizzato da Erich Auerbach e citato in questo saggio da Benjamin - è l’amore, e non la droga, a condurre all’illuminazione. Analogamente, nella Storia dell’occhio di Bataille, questa funzione sarà svolta dall’esperienza erotica.
Ebbene, in queste esperienze surrealistiche Benjamin scorge un’autentica unione di «energie rivoluzionarie»: uno «sguardo politico» finalmente rivolto al mondo in generale. L’esperienza psichica dell’immaginazione ha, qui, la vocazione di trasformarsi in presa di posizione: vi è «passaggio da un atteggiamento estremamente contemplativo all’opposizione rivoluzionaria». E ciò avviene grazie a una doppia conversione, a una doppia deviazione: l’ebbrezza interiore si trasforma in pensiero reminiscente (deviazione attraverso la durata), e quest’ultima mobilita uno sguardo nuovo sul mondo esteriore (deviazione attraverso le cose).
È a questo punto, ricorda Benjamin, che interviene «la fotografia (…)in maniera assai singolare». Grazie alle sue possibilità tecniche, quali l’inquadratura (ovvero i difetti di inquadratura), la messa in serie e la frammentazione (ovvero lo smontaggio e il rimontaggio), la fotografia rende visibile o, piuttosto, illumina un mondo «dove ogni giorno affiorano inimmaginabili analogie e intrecci di eventi». Benjamin la chiama capacità di lirismo - a condizione di sapere che il lirismo e l’illuminazione di cui si parla dipendono dalle possibilità dischiuse dal medium fotografico, ossia da un automatismo di riproduzione e di oggettività. Da ciò deriva il carattere a un tempo fantasmatico e documentario, testimoniale e rivoluzionario della produzione di immagini fotografiche, divenuta il principio paradigmatico del surrealismo letterario e artistico in generale.
Benjamin, com’è noto, chiama questo potere della fotografia «illuminazione profana» (profane Erleuchtung), espressione divenuta famosa, benché sia ancora tutta da charire. La sua «ispirazione», precisa Benjamin, è «materialista» e «antropologica». In quanto esperienza di illuminazione, essa scaturisce ormai direttamente dagli oggetti più umili e, soprattutto, dai corpi, che il surrealismo aveva riconosciuto come il primo luogo delle energie rivoluzionarie. Fare della poetica una politica equivale dunque a deviare, a trasformare - senza per questo negarla - la sorpresa da cui probabilmente traggono origine i gesti artistici: (…)
Il legame stabilito da Benjamin tra l’«illuminazione profana» e la tecnica fotografica rivela che il «flusso» dell’ebbrezza non sarebbe nulla - nulla che valga, che duri, che abbia valore critico - senza la costruzione delle sue immagini nel tempo. Costruzione della durata che non potrebbe effettuarsi, in effetti, senza una mediazione tecnica. Ciò che l’ebbrezza fa sorgere come illuminazione o «istante utopico» dell’immagine, tocca all’immaginazione - concepibile come «durata utopica» dell’immagine - trasformare in una esperienza di pensiero, in una «immagine di pensiero». Proprio perché è un gioco, proprio perché smonta continuamente ogni cosa, l’immaginazione è costruzione imprevedibile e infinita, ripresa perpetua di movimenti iniziati, contraddetti, sorpresi nelle loro inedite possibilità di cambiamento.
Ora, questa costruzione si svolge, dialetticamente, su due piani nello stesso tempo: essa dispone le cose per meglio esporne le relazioni. Crea rapporti insieme a differenze, lancia dei ponti sopra gli abissi che essa stessa ha dischiuso. È dunque montaggio, attività in cui l’immaginazione diviene una tecnica - un artigianato, un’attività manuale e strumentale - che produce pensiero alternando incessantemente differenze e relazioni. (…)
Diviso tra la posizione di Martin Buber e quella di Bertolt Brecht, Benjamin non fu compreso da nessuno dei due. La sua dialettica era troppo arrischiata, troppo esigente, così come il suo rapporto con la tradizione, da una parte, e la rivoluzione, dall’altra, era troppo anacronistico, apparentemente votato all’impossibile. Ma così facendo Benjamin toccava il cuore stesso della questione che qui ci interessa, e cioè il rapporto tra immaginazione e storia.
L’immaginazione del veggente - che si tratti di Rimbaud, di Kafka o dello stesso Benjamin - si appoggia necessariamente sui documenti dell’osservatore, ma si sente anche autorizzata a prendere il materiale storico in contropelo, disorganizzando, allegramente o dolorosamente, ciò che viene suggerito dalle evidenze causali di superficie. Occorrono delle immagini per fare la storia, soprattutto nell’epoca della fotografia e del cinema. Ma ci vuole l’immaginazione per rivedere le immagini e, dunque, per ripensare la storia.

Corriere della Sera 19.9.08
Parigi Simbolica protesta alla «Tour d'Argent» contro il lavoro irregolare. La proprietà: sistemeremo tutti
Occupato il «ristorante dei re» In sala siedono solo i lavapiatti
di Massimo Nava


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PARIGI — Persino il più famoso ristorante di Parigi impiega immigrati irregolari. Non è un'accusa, ma un fatto, denunciato da una quarantina di «sans papiers» che hanno organizzato mercoledì sera un'occupazione simbolica della «Tour d'Argent», il celebre tempio della gastronomia, dove si gusta (e si paga come «argent ») l'anatra numerata per ogni cliente. Fra essi, alcuni dipendenti del locale — a quanto pare sette lavapiatti impiegati da diversi anni — e altri clandestini che si sono uniti alla protesta per solidarietà. In sostanza, autodenunciandosi, i lavoratori sperano in una regolarizzazione.
«Lavoro qui da nove mesi, cinque giorni su sette, dalle 10 alle 19, per 1.200 euro al mese, pago persino i contributi sociali a mio carico e potrei essere espulso dalla Francia dall'oggi al domani», dice Mediba, un giovane del Mali, seduto con i suoi compagni di lavoro sulle sedie in raso dei lussuosi saloni della «Tour».
Per evitare danni eccessivi all'immagine del locale — i clienti ieri sono entrati da una porta secondaria — la direzione ha immediatamente reagito. Fabrice Rollo, responsabile delle risorse umane, ha dichiarato di non essere al corrente della presenza di lavoratori clandestini, ma si è impegnato ad avviare subito le procedure burocratiche per la regolarizzazione. «È una buona notizia, ma restiamo vigili», ha detto il rappresentante della Cgt, il sindacato che ha avviato da tempo la battaglia in difesa dei sans papiers, in particolare nei settori della ristorazione e dei servizi.
Nella giornata di ieri, su ordine della direzione, i clandestini sono stati costretti a lasciare il ristorante. Ne sarebbe nato qualche parapiglia fra impiegati regolari, addetti alla sicurezza e al servizio e sans papiers. Alcuni hanno sporto denuncia per violenza. «Anche la Tour d'Argent dovrà rispondere alla giustizia e rispettare i diritti dei lavoratori», ha fatto sapere la Cgt, che intende rivolgersi alla magistratura.
Nei mesi scorsi, altri famosi ristoranti e ritrovi parigini sono stati occupati per denunciare un fenomeno che — comprendendo imprese di pulizie, fast food e bar — riguarderebbe migliaia di persone. In alcuni casi, come avvenuto la primavera scorsa al Bistro Romain, una nota brasserie sugli Champs-Elysées, i proprietari del ristorante hanno dichiarato di essere solidali con i lavoratori in sciopero e di aver depositato presso la prefettura di Parigi i dossier di regolarizzazione. Ma si è scoperto che almeno una settantina di impiegati erano irregolari.
Di fronte al giro di vita imposto dal governo, che negli ultimi mesi ha intensificato controlli ed espulsioni, l'autodenuncia dei camerieri e la solidarietà dei datori di lavoro può sembrare un risvolto grottesco e paradossale del problema, ma in sostanza conferma la scarsa sintonia fra misure di carattere politico e la realtà sociale ed economica di attività produttive (servizi, ristorazione, servizi alla persona) che non potrebbero funzionare a regime senza l'apporto di lavoratori stranieri.
Il primo maggio scorso, per la prima volta migliaia di sans papiers sono sfilati in testa al corteo assieme ai lavoratori regolari.
Negli ambienti del ministero dell'Immigrazione si ritiene che la solidarietà dei datori di lavoro e la pubblicità data all'avvio delle pratiche di regolarizzazione sia in qualche caso un modo per tirare una riga sulle irregolarità del passato, ma nello stesso tempo si è deciso di ampliare le possibilità di regolarizzazione, pur sottoponendo le richieste ad un esame caso per caso dei dossier. Dall'inizio del movimento, su circa 1.700 domande, più di 900 sono state accolte. E la regolarizzazione alimenta d'altra parte la speranza di nuove possibilità. Proprio ieri, alcune imprese di pulizia e artigianato sono state bloccate dallo sciopero di dipendenti irregolari, mentre proteste e astensioni dal lavoro si segnalano in alcune aziende editoriali.
Il sindacato, come dice Raymond Chauveau della Cgt, non chiede sanatorie generalizzate, ma regole uguali su tutto il territorio nazionale. «Oggi si hanno differenze di trattamento da una prefettura all'altra o da un'azienda all'altra». A quanto pare, anche da un ristorante all'altro, come alla Tour d'Argent: anatre numerate e lavapiatti senza documenti.

Corriere della Sera 19.9.08
Anteprima Lo scrittore, che oggi inaugura Pordenonelegge, racconta il nuovo libro, viaggio in un'epoca in cui «la letteratura diventa esplorazione»
Baudelaire, la follia che travolge Parigi
Roberto Calasso: ecco perché siamo ancora immersi nell'onda culturale creata dal poeta
di Cristina Taglietti


C'è un'onda Baudelaire che da tempo si infrange sulle pagine di Roberto Calasso. Un'onda lunga che è facile seguire in molti capitoli di quel grande romanzo di famiglia ancora in corso (formato da La rovina di Kasch, Le nozze di Cadmo e Armonia, Ka, K. e Il rosa Tiepolo, un insieme a oggi di oltre 2.500 pagine) che elabora materiali diversi, tutti strettamente connessi tra loro, senza che possano essere assegnati a un genere preciso. Risponde a queste caratteristiche anche il sesto pannello, La Folie Baudelaire, in uscita ad ottobre da Adelphi (pp. 425, e 36), indagine eruditissima e avvolgente, dall'andamento romanzesco, su un'epoca straordinaria che ha il suo centro nell'autore di «Les Fleurs du mal». La Folie del titolo infatti non fa riferimento soltanto a ciò che si sottrae al ragionevole controllo, ma anche a «certe incantevoli maisons de plaisance », padiglioni settecenteschi destinati all'ozio e al piacere. Questo «chiosco bizzarro, civettuolo e misterioso» (così lo definì Sainte-Beuve) che Baudelaire avrebbe trovato il modo di costruirsi in una sorta di Kamchatka, «all'estremità di una lingua di terra reputata inabitabile e al di là dei confini del romanticismo conosciuto», si rivelerà essere il luogo stesso della letteratura e finirà con l'incarnare l'intera città di Parigi nel periodo che va da Chateaubriand a Proust. «La vera letteratura si situa lì — spiega Calasso —. Lì vanno a finire i grandi scrittori, questo diventa la letteratura di quegli anni: un'esplorazione di territori non conosciuti prima». Dall'onda Baudelaire, che ha inizio prima di lui, verranno raggiunti in molti: Chateaubriand, Stendhal, Ingres, Delacroix, Rimbaud, Nietzsche, Flaubert, Manet, Degas, Lautréamont. Le loro storie si intrecciano in questo libro, in un continuo gioco di rapporti, risonanze, divergenze. «È un periodo estremamente affascinante — spiega Calasso —. Allora Parigi era la città più importante d'Europa, almeno in quanto cardine di una certa sensibilità. Infatti uno dei titoli che Benjamin aveva in testa era Parigi capitale del XIX secolo. Ma la cosa interessante è come quella fase, quell'onda, si proiettino fino ad oggi. Quella tastiera intellettuale è la stessa che noi usiamo ancora, se sappiamo usarla. È un'eredità preziosa e non c'è che da procedere al suo interno».
Il primo incontro di Calasso con Baudelaire risale agli anni Cinquanta. «È stato il primo grande poeta non italiano che ho letto. In quegli anni la nostra cultura subiva l'enorme influenza di Croce. Leggere il suo saggio Poesia e non poesia era d'obbligo. Il capitolo su Baudelaire era una severa condanna e quando lo lessi ebbi subito il senso che le mie inclinazioni andavano proprio nella direzione biasimata». Curioso, per colui che diventerà l'editore di Croce. «Sono ben felice di esserlo, però quell'idea di letteratura Croce non l'ha colta e tutta la tradizione italiana ha fatto molta fatica a seguirla».
Il cuore del libro, da cui si diramano tutte le altre storie, è un sogno di Baudelaire ambientato in un bordello-museo. Nel sogno il poeta appare in tutta la sua peculiarità, che implica un certo senso di estraneità al mondo, la percezione di essere «indecente comunque, veicolo di un elemento squilibrante che turba con equanimità la virtù e il vizio». Condannato suo malgrado a quella che Calasso, citando Bobi Bazlen, chiama «primavoltità » e che già Laforgue aveva identificato, Baudelaire lo si capisce innanzitutto all'interno della triade moderno-nuovo-décadence, tre parole che si irradiano da ogni sua frase e che ricadono su tutto ciò che avverrà dopo. «La parola modernité
appare per la prima volta nel lessico francese proprio in quel periodo — dice Calasso — ma è stato Baudelaire a darle un profilo netto. La categoria della décadence è paradossale perché il suo vero senso, quello che va più lontano, lo raggiunge con Nietzsche, che lo deriva direttamente da Baudelaire, l'unico francese nel quale avverte l'antenna metafisica. Sotto la categoria del "nuovo" invece si muovevano cose che attraevano moltissimo Baudelaire ma che gli sembravano anche una macchina atroce, una tenebra incombente sotto l'apparenza del progresso. E infatti fu tra i critici più feroci della nuova società».
Quanto alla rivoluzione poetica di Baudelaire, la si può benissimo situare all'interno della tradizione: per lui la poesia occupava lo stesso posto che aveva avuto per Orazio o per Racine, eppure nei suoi versi si cristallizza una «costellazione percettiva» che non era mai apparsa prima. «Baudelaire non ha avuto la preoccupazione di mutare radicalmente le forme, non è mai caduto nella trappola dell'avanguardia, il mutamento è tutto dall'interno, è la sensibilità che cambia — spiega Calasso —. È un po' come Chopin: ci sono timbri che appaiono lì per la prima volta. Baudelaire scriveva con fatica, si sente sempre un certo cigolio nei suoi versi. Hugo era un artigiano molto più inventivo, però in lui non si ha mai quella percezione della novità timbrica e speculativa che si ha in Baudelaire. D'altra parte, fu lo stesso Hugo a riconoscere che Baudelaire aveva dato "un brivido nuovo" alla poesia. Quel brivido lo si avverte oggi come allora». Non è un caso che Calasso riprenda un'acuta osservazione di Laforgue sull'«americanismo » di Baudelaire. «Sull'America in genere Baudelaire scriveva cose abbastanza banali — spiega Calasso —. La vedeva in modo stereotipato, come il regno dell'utilitarismo e della grossolanità, contrario alla cultura, ignorando che i più grandi scrittori americani, come Melville, Dickinson, Hawthorne operavano proprio in quel periodo. Il suo americanismo, secondo Laforgue, risiede invece in una sorta di vocazione per l'eccesso. L'esasperazione, lo stridore voluto, la sproporzione delle immagini, certi paragoni in cui si vedono i fili di ferro e i trucchi, tutte cose che esploderanno in Rimbaud, appaiono per la prima volta in Baudelaire».
D'altro canto il vero moderno che prende corpo proprio con lui è la caccia alle immagini. Questo fa di lui il passaggio obbligato anche per comprendere la pittura del suo tempo. «Baudelaire è stato il più grande critico d'arte dell'Ottocento. Quello che ha scritto sui pittori che aveva intorno è ancora oggi stupefacente. Il suo saggio "Le peintre de la vie moderne" è un testo provocatorio perché prende come pittore esemplare della vita moderna Guys, un illustratore che faceva schizzi per un giornale inglese, una specie di reporter, attività che allora suonava poco seria. A partire dalla sua opera, Baudelaire costruisce un meraviglioso edificio che si regge benissimo e serve a capire anche tutto l'impressionismo. La sua intuizione poi si proietta all'indietro. In un altro libro ho provato a mostrare come il pittore della vita moderna che più corrisponde ai suoi canoni sia un artista che Baudelaire non ha mai avuto modo di vedere, Tiepolo, il quale passava per essere l'ultimo, attardato esempio della pittura veneziana». Il riferimento al pittore rivela anche lo stretto legame tra Il rosa Tiepolo e La Folie Baudelaire:
«Sono nati insieme, anzi Il rosa Tiepolo era una parte di La Folie Baudelaire che si è staccata quasi spontaneamente. Andrebbero letti uno dentro l'altro».
Da Baudelaire si irradia e ricade su tutta l'arte del tempo anche un motivo ispiratore fondamentale, la figura femminile. In particolare per Manet e Degas, che sono fra i personaggi principali del libro. «Manet e Degas senza la figura femminile non esisterebbero e Renoir disse, con una certa brutalità, che se Dio non avesse creato "le carni della donna" lui non sarebbe mai stato pittore. Anche in questo caso Baudelaire è il perno: le immagini femminili che evoca e vanno dal diabolico all'angelico sono un ventaglio variegato, che si riproporrà in variazioni innumerevoli fino a oggi. Non è solo un fatto sentimentale o sensuale, ma metafisico: dietro la donna c'è la natura, lì viene fuori tutta la teologia implicita in Baudelaire».

Repubblica 19.9.08
I segreti dei disegni di Leonardo svelati da un grande fisico
di Fritjof Capra


Lo scienziato l´artista e creatore di forme. La lezione di Fritjof Capra, autore di "Il punto di svolta" alla rassegna Pordenonelegge
Lavorò con la natura invece di dominarla La sua era una scienza gentile
Chiamava tutte le creazioni umane "invenzioni" e si è sempre definito un inventore

Leonardo da Vinci, il grande maestro della pittura e genio del Rinascimento, è stato l´argomento di centinaia di libri sia dotti che popolari. Tuttavia, ci sono sorprendentemente pochi libri sulla scienza di Leonardo, anche se ha lasciato taccuini voluminosi pieni di descrizioni dettagliate dei suoi esperimenti, meravigliosi disegni, e lunghe analisi delle sue scoperte.
Inoltre, la maggior parte degli autori che hanno parlato del suo lavoro scientifico, lo hanno fatto guardandolo attraverso le lenti newtoniane. Questo ha spesso impedito loro di comprendere la natura essenziale della sua scienza, che è una scienza delle forme organiche, una scienza delle qualità, completamente differente dalla scienza meccanicistica di Galileo, di Cartesio e di Newton. (...)
Nella storia intellettuale occidentale, il Rinascimento segna il periodo della transizione dal medioevo all´età moderna. Negli anni 60 a 70 del Quattrocento, quando il giovane Leonardo ricevette la sua formazione come pittore, scultore ed ingegnere a Firenze, la visione del mondo dei suoi contemporanei era ancora avvolto nel pensiero medioevale.
La scienza in senso moderno, come metodo sistematico empirico per ottenere conoscenza sul mondo naturale, non esisteva. La conoscenza dei fenomeni naturali fu trasmessa da Aristotele e da altri filosofi dell´antichità ed è stata poi fusa con la dottrina cristiana dai teologi scolastici che la presentavano come la dottrina ufficiale. Esperimenti scientifici vennero condannati come sovversivi, e si considerava qualsiasi attacco alla scienza aristotelica come un attacco alla chiesa stessa. Leonardo da Vinci ruppe con questa tradizione (...).
Cento anni prima di Galileo e Bacone, Leonardo sviluppò da solo un nuovo approccio empirico, coinvolgendo l´osservazione sistematica della natura, il ragionamento e la matematica - cioè le caratteristiche principali di quello che oggi si conosce come il metodo scientifico. (...).
Leonardo si rese conto che la fantasia non è limitata agli artisti, ma è una qualità generale della mente umana. Chiamava tutte le creazioni umane - tanto i manufatti come le opere d´arte - «invenzioni», e per tutta la sua vita si è visto come inventore. Dal suo punto di vista, un inventore era qualcuno che generava un manufatto o un´opera d´arte, riunendo vari elementi in una configurazione nuova che non compariva in natura. Questa definizione si avvicina molto alla nostra nozione di un designer, che non esisteva nel Rinascimento. Il concetto di design, come una professione separata, è emerso soltanto nel ventesimo secolo. Durante l´era pre-industriale, il design era sempre una parte integrante di un processo più grande che includeva la soluzione di problemi, l´innovazione, il dare-forma, la decorazione, e la produzione.
Quindi, Leonardo non separò il processo del design - ossia la configurazione astratta di vari elementi - dal loro incorporamento materiale. Tuttavia, sembrava sempre più interessato al processo del design che alla relativa realizzazione fisica. La maggior parte delle macchine e dei dispositivi meccanici che inventò e che presentò in disegni magnifici, non fu costruita; la maggior parte dei suoi schemi d´ingegneria, sia militare o civile, non fu realizzata; e anche se era famoso come architetto, il suo nome non è collegato con alcun edificio conosciuto. Perfino come pittore, sembrava spesso più interessato alla soluzione dei problemi di composizione che al completamento effettivo dell´opera. Leonardo da Vinci, l´archétipo "uomo universale", era un artista, uno scienziato e un designer, e lui integrava quelle tre discipline in un tutto armonioso. (...)
Leonardo non ha perseguito la scienza e l´ingegneria per dominare la natura, come Francesco Bacone sosteneva un secolo più tardi. Quella di Leonardo era una scienza gentile. Egli aborriva la violenza e provava una compassione particolare per gli animali. Era vegetariano perché non voleva provocare soffrenza agli animali uccidendoli per cibarsene. Comprava al mercato gli uccelli tenuti in gabbia per liberarli, e osservava il loro volo non soltanto con l´occhio acuto dello scienziato, ma anche con una grande empatia (...).
Invece di cercare di dominare la natura, l´intento di Leonardo era sempre di imparare da lei quanto più possibile. Aveva un grande timore reverenziale per la bellezza che vedeva nella complessità delle forme, degli schemi e dei processi naturali, ed era consapevole del fatto che l´ingegno della natura era di gran lunga superiore alle invenzioni umane (...).
Come Leonardo da Vinci 500 anni fa, il moderno ecodesigner studia gli schemi e i flussi del mondo naturale e cerca di incorporare i principi che ne sono alla base nelle sue progettazioni. Quando Leonardo progettava ville e palazzi, dedicava un´attenzione particolare ai movimenti delle persone e delle cose negli edifici, applicando la metafora dei processi metabolici ai suoi progetti architettonici. E considerava anche i giardini come parte degli edifici, nel tentativo costante di integrare architettura e natura. Applicava gli stessi principi alla progettazione urbana, poiché in una città vedeva una specie di organismo in cui le persone, i beni materiali, il cibo, l´acqua, e gli scarti dovevano fluire liberamente perché la città fosse in buona salute.
Questi esempi di trattare i processi naturali come modelli per il design umano, e di lavorare con la natura invece di cercare di dominarla, ci mostrano che Leonardo, come designer, lavorava nello spirito che il movimento dell´ecodesign propone oggi. Alla base di questo atteggiamento di stima e rispetto per la natura c´è un orientamento filosofico che non considera gli essseri umani separati dal resto del mondo vivente, ma fondamentalmente inseriti nell´intera comunità vivente della biosfera, e da essa dipendenti.
Oggi questa filosofia è sviluppata dalla scuola di pensiero conosciuta come «ecologia profonda.

il Riformista 19.9.08
Cremaschi: «Bravo Epifani, adesso devi continuare così»
«Dal governo solo un thatcherismo alle vongole»
di Alessandro De Angelis


«Bravo Guglielmo. Continua così». Il leader della Rete 28 Aprile Giorgio Cremaschi sottoscrive il no di Epifani su Alitalia e la linea dura sulla riforma del modello contrattuale. E afferma: «Una Cgil antagonista serve al paese».
Cremaschi, avete fatto ritirare Cai.
«Abbiamo assunto una posizione seria e responsabile. Come lei sa non mi capita spesso di condividere le scelte di Epifani. Ma bisognava dire no agli ultimatum».
In che senso?
«Una trattativa vera non c'è mai stata. Ma c'è dell'altro: è in atto, con Alitalia e con la riforma del sistema contrattuale, una operazione politica tesa a ridisegnare un nuovo sistema sindacale, su misura di Berlusconi e Confindustria»
Torniamo ad Alitalia.
«Il governo ha gestito malissimo la vicenda: ultimatum, tavoli che saltavano. Praticamente un thatcherismo alle vongole che identifica il nemico nel lavoratore. Ma al di là di questo mi colpisce un fatto».
Dica.
«In questa situazione di crisi gli aerei hanno volato regolarmente in tutto il mondo. Mi viene in mente un titolo dell'Avanti degli anni venti: "La produzione continua senza l'inutile intromissione padronale". Anche Alitalia in questi mesi è stata praticamente gestita dai lavoratori. L'autogestione va rivalutata».
Sta difendendo i piloti?
«Un conto sono i privilegi, un conto è la disponibilità dei piloti a fare sacrifici. Dico che nelle crisi aziendali dobbiamo puntare di più sull'autogestione. L'epoca dei bocconiani che parlano inglese e non sanno che cosa è una biella è finito».
Vuole dire che è finito il capitalismo?
«Purtroppo no, anche se non piango vedendo i broker di Lehman Brother con gli scatoloni».
E Alitalia?
«Se fallisce la Cgil non c'entra. La responsabilità, per il presente è di Berlusconi e della sua cordata. Io non vedo Colaninno come un capitano coraggioso ma come uno che si è sempre lasciato dietro macerie, esuberi, ristrutturazioni discutibili. Pensi a Olivetti, Telecom…».
E il piano fenice?
«Una classica operazione in cui tutti i costi andavano ai cittadini, tutti i profitti agli imprenditori».
Cisl e Uil lo hanno firmato.
«Sacconi nel suo libro verde dice che si deve instaurare una nuova complicità sindacale. Mi pare che Cisl e Uil siano d'accordo».
Anche sul sistema contrattuale?
«Soprattutto. L'ipotesi di accordo presentata da Confindustria disegna un sistema burocratico e autoritario. Che esalta la casta burocratica dell'impresa e del sindacato».
Si spieghi.
«Ha presente l'Unione sovietica? Stiamo lì. Il sistema confederale controlla quello nazionale di categoria che a sua volta controlla il sistema aziendale che a sua volta controlla i lavoratori. Non è vero che così si aumenta la contrattazione. È vero invece che diminuiscono i salari, e che si realizza lo scambio di affari comuni tra sindacati e imprese sia negli enti bilaterali che nel mercato del lavoro».
Epifani ha respinto l'impianto.
«E infatti sia su Alitalia che su questo gli ho detto: bravo Guglielmo. Guardi glielo ho detto di persona e ci è venuto da ridere visto che è un po' che non eravamo d'accordo»
È una svolta?
«Spero di sì. Ma direi che questi no sono nella storia della Cgil. Sui contratti ora va fatto saltare il tavolo».
Cioè?
«La concertazione è finita e si è aperta una nuova fase. Come Cgil dobbiamo ripartire dal conflitto mettendo al centro il lavoro: fabbriche, uffici, luoghi di lavoro. L'era dei tavoli a palazzo Chigi e a viale dell'astronomia è finita»
Epifani è d'accordo?
«La Cgil sta cambiando dopo una lunga bonaccia moderata. Ora c'è il tifone. Ma quando sarà passato si capirà quale è l'obiettivo del governo e di Confindustria: un nuovo sistema delle relazioni sindacali fondato su una nuova triplice Cisl, Uil e Ugl. A quel punto la Cgil dovrà decidere che fare».
E che farà?
«Guardi l'antagonismo crescerà nella società e noi dobbiamo accompagnarlo. Una Cgil antagonista serve al paese».
Che dice a Epifani?
«Vorrei che continuasse così. E, soprattutto, vorrei che si convincesse che quello che sta accadendo non è un episodio ma una nuova fase della lotta di classe».