L'Italia degli immigrati che rompe il silenzio
di Renzo Guolo
La passività è finita. Questo dicono i segnali che provengono da episodi assai diversi, ma legati dalla comune protesta di immigrati, come quelli di Castel Volturno, Milano e Treviso. Gli immigrati , o i loro figli divenuti cittadini italiani, non intendono più subire.
Che si tratti della reazione alla mattanza dei Casalesi, di quella all´efferato omicidio, seguito alla consumazione di un reato, a colpi di spranga di Abba, o della protesta dei giovani musulmani che per sfuggire ai diktat degli amministratori leghisti sulle "moschee" mobilitano al Jazeera, il muro del silenzio pare definitivamente rotto. Gli immigrati, almeno i più giovani, quelli che conoscono gli stessi codici culturali dei loro coetanei italiani, ai quali sono stati socializzati da tv, industria del consumo e scuola, irrompono nella sfera pubblica come attori sociali collettivi. Soggetti e non più solo oggetto della politica. Lo fanno, come a Gomorra o nella Milano futura sede dell´Expo gridando il loro rancore, e la loro rabbia, contro una società che accusano di essere razzista. Ma anche invocando la tutela di uno Stato che, nei meandri di un ciclo politico egemonizzato dalla concreta tentazione di un ordine pubblico differenziato, repressivo soprattutto verso le categorie "potenzialmente pericolose", sembra lasciare gli immigrati in balia dei poteri criminali, dello sfruttamento economico, della quotidiana torsione dei diritti costituzionali.
Quello che si è visto in questo crepuscolare settembre italiano, non è, come alcuni ritengono, il prodromo della banlieuizzazione della società. Può essere persino peggio. Perché le problematiche periferie urbane francesi hanno almeno il vantaggio di concentrare le aree di crisi; e dunque di tarare i possibili interventi, non solo di ordine pubblico, in zone circoscritte. In Italia il policentrismo urbano, così come la stessa configurazione del tessuto economico che richiama manodopera straniera, è tale da rendere non circoscrivibile alle grandi città il potenziale conflitto su base razziale o religiosa. L´immigrazione è ovunque, non ci sono zone franche. Lungo la Domitiana come nel Nordest, nelle serre del Ragusano come in Brianza. Socialmente e geograficamente, l´Italia è una banlieue diffusa.
Certo, le rivolte francesi, così come alcuni riots avvenuti nelle città britanniche, vedono protagonisti cittadini che accusano il loro Paese di non averli saputi integrare. Tra gli immigrati in Italia, invece, pochi sono cittadini e votano. Ma sarebbe un errore guardare alla vicenda solo in questa chiave. Ritenere le loro "vite di scarto" che, dopo le emergenze contingenti, si possono anche dimenticare, sarebbe un boomerang. Perché la trama di una collettività è fatta di integrazione nella vita quotidiana; e se questa non avviene proliferano le identità antagoniste.
Nonostante quello che si è visto in questi giorni, compresa la ingiustificabile tendenza a giustificare l´illegalità che da sempre convive con le situazioni di emarginazione e marginalità, il presente non è ancora caratterizzato da un conflitto aspro e irriducibile. Tra le seconde generazioni; tra gli stessi immigrati centroafricani, come i senegalesi che si dividono tra la privatissima appartenenza alle loro confraternite e la partecipazione, pubblica, all´attività nell´associazionismo e nel volontariato; tra gli italiani figli di coppie miste; anche tra i musulmani cui è impedito di pregare collettivamente, si fa strada la convinzione che sia auspicabile anche in Italia la nascita di un´organizzazione tipo "Sos racisme": movimento che da anni agisce Oltralpe contro la discriminazione razziale. Una sorta di organizzazione trasversale che operi da facilitatore e garante dell´integrazione. Uno sbocco che, in questa fase politica, necessita di alleanze che in Italia paiono non impossibili ma comunque più problematiche che in Francia. Anche perché qui nessuno rinuncerebbe ai voti dei lepenisti nostrani e il contrasto agli immigrati, non certo la loro integrazione, è oggi un fattore di sicura rendita elettorale. Una situazione che costringe anche chi è a favore dell´integrazione a non giocarsi il destino politico su questa issue. Che dopo queste difficili settimane gli immigrati, diventino soggetti e non più solo oggetto della politica, è, però, nelle cose.
Repubblica 22.9.08
"Mica sono io il razzista è lui che è un negro"
di Mario Pirani
«Minga sün mi che sün rasista, lè lü che lè negher!». Deve essere questo vecchio detto meneghino il principio giurisprudenziale di diritto lombardo-veneto che ha ispirato poche ore dopo il delitto il pubblico ministero Roberta Brera nello stabilire che non c´entra nulla il razzismo nell´uccisione a sprangate al grido di «sporco negro di merda!» di un ragazzo di colore, Abdoul Guiebrè, colpevole di non aver pagato un pacchetto di biscotti Ringo. Dopo di che, sia il premier Berlusconi che il sindaco di Milano, hanno proclamato che nel «deprecato episodio non c´entra il colore della pelle». Un copione che assomiglia alla trama di quei film americani che descrivevano qualche linciaggio in Alabama dove poliziotti, giudici e testimoni bianchi depistavano le indagini e giuravano che non era il caso di parlare di razzismo, tanto è vero che quando i negri si comportavano bene, non davano retta agli agitatori e stavano al loro posto, nessun bianco si sognava di torcer loro un capello.
Anche se tutti i giornali hanno scritto sulla vicenda, accaduta non in una degradata periferia ma nei pressi della Stazione Centrale di Milano, al bar Shining (un nome significativo, per chi ricorda la pellicola di Kubrick), mi permetterò egualmente di aggiungere qualche nota sulle riflessioni che alcuni intellettuali hanno rilasciato. Ne scelgo due come esempio di una tematica che ha preso largamente piede e tende a derubricare non la gravità dei delitti ma la loro natura: si tratterebbe di violenza urbana, generata dalla paura, e non di razzismo che sarebbe sbagliato evocare in questo e in altri casi, come le aggressioni contro i gay a Roma, gli incendi dei campi rom, i fermi di ragazze extracomunitarie scambiate per prostitute e quant´altro. Il professor Stefano Zecchi, docente di Estetica alla Statale di Milano, in una dichiarazione al "Corriere" si dice convinto che «anche sul piano culturale e sociale parlare di razzismo è fuorviante. Si tratta di disagio economico e sociale, di gente in difficoltà che reagisce e si difende in modo esagerato... L´importante è che le persone oneste non si sentano fragili e indifese... Gli episodi come quello accaduto a Milano sono comprensibili. Tutto sommato le violenze da stadio sono peggiori».
Più sofisticato e meno indulgente l´articolo sul "Riformista" di Benedetto Ippolito, docente di Filosofia medievale alla Pontificia Università della Santa Croce a Roma, giovane e valente studioso cattolico. Anche per lui «le indagini hanno scongiurato la motivazione razziale... mentre, d´altra parte, l´appellativo intollerante "sporco negro", urlato dagli aggressori ripetutamente, potrebbe esser stata soltanto una esclamazione di rabbia e non il motivo ultimo dell´omicidio». Dopo una puntuale disamina della emarginazione urbana e dell´ultima ricerca del Censis sulla «paura percepita», che a Roma colpirebbe addirittura la metà dei cittadini, Benedetto Ippolito conclude: «È sacrosanto pretendere che non si denominino razzisti atti che non lo sono, anche se non è da responsabili sentirsi rassicurati dal fatto che ci sono nostri concittadini pronti a uccidere unicamente per quel "futile motivo" che si chiama paura inconsapevole dello sconosciuto e del diverso». I distinguo della Scolastica tomistica possono a volte produrre travisamenti gravi, al contrario del buon senso parrocchiale e solidale di "Famiglia cristiana" o dei militanti di Sant´Egidio che sul razzismo non hanno incertezze e sanno bene che alla sua base c´è proprio, come elemento insito fondamentale, la paura dell´altro. Che si è sempre inverata nei casi più ricorrenti nella paura dell´ebreo, del negro, dello zingaro, del diverso sessuale, attraverso secoli di persecuzioni, stragi e genocidi. Lo stesso teorico del revisionismo tedesco, Nolte, sostiene che «nella misura in cui Hitler e Himmler addossavano agli ebrei la responsabilità di un processo che li aveva gettati nel panico (il trionfo del bolscevismo, ndr), portarono l´originario orientamento di annientamento dei bolscevichi entro una nuova dimensione (l´annientamento degli ebrei)».
Il «panico» di Hitler si rifletteva nella «paura percepita» da milioni di singoli cittadini tedeschi. In Italia oggi non siamo a questo ma la «paura percepita» di cui parlano i succitati professori non è solo il risvolto dell´ondata migratoria ma della predicazione di disprezzo, odio e diffidenza che ha accompagnato l´azione della Destra e che porta non solo i più scalmanati ma tanti uomini d´ordine e, talvolta, chi dovrebbe tutelarlo, a tollerare l´inevitabilità della «giustizia fai da te». Dopo di che nascondono la violenza razzista dietro la maschera dei «futili motivi».
l'Unità 22.9.08
Nel buco nero di Castel Volturno dove la vita vale 25 euro al giorno
di Eduardo Di Blasi inviato a Castel Volturno
Si chiama Nency, ma il nome l'ha da tempo napoletanizzato in Nunzia. Viene dal Kenya, anche se quando le poni la domanda risponde: «Da Roma, ho fatto due anni per spaccio di droga a Rebibbia». Ha quasi cinquant'anni, i capelli bianchi, tre figlie e un ex marito che le passa 500 euro al mese. È una madre di famiglia che in questi due anni ha inventato una bugia («ho detto che sono andata in convento») per non raccontare alle figlie una verità difficile da nascondere.
Oggi, uscita da quel convento, è tornata a Castel Volturno e ha lasciato le figlie a Roma. Ha fame, in tasca non ha nemmeno i soldi per le sigarette, gira per strada con uno scialle leggero mentre inizia a fare veramente freddo. Eppure è tornata qui. Perché? Perché solo qui Nunzia può sopravvivere, può arrangiarsi, può grattare qualcosa per se, può nascondersi assieme agli altri suoi connazionali nell'enorme buco nero che da quasi trent'anni cancella le storie degli africani d'Italia. Troverà un tetto, troverà dei soldi, spacciando o mettendosi sul ciglio della strada a vendere quello che resta di se stessa. Ce la farà: sopravviverà. Troverà la sua fetta di vita alle spalle della Domitiana, in queste case basse attraversate da stradine piene di rifiuti e di facce di neri. Manderà i soldi a casa da questo nuovo convento senza indirizzo. Nessuno le chiederà nulla.
Come nessuno chiederà mai niente ad Alex, ghanese di 30 anni, faccia incazzata mentre cerca di mettere in fila due parole in italiano. Nessuno gli chiederà nulla, tranne l'affitto per il letto (150 euro al mese) e le sue braccia, che sono in vendita tutte le mattine alle cinque, in una piazza di Pianura, davanti al bar Ferrara. Una giornata di lavoro senza alcuna copertura assicurativa viene via per 20-25 euro, sei giorni la settimana domenica esclusa, sempre che il padrone non decida che preferisce picchiarti e non darti nulla, perché tu, in fondo, non sei niente.
Ecco perché nessuno chiede loro nulla, perché loro non esistono. Sono ventimila gli immigrati irregolari nella provincia di Caserta, almeno 11mila quelli di Castel Volturno, che sono per la stragrande maggioranza africani.
«Non esiste un posto così nel mondo», avvisa Antonio Casale, direttore del centro Fernandes, da 12 anni fiore all'occhiello della Caritas di Capua nel cuore di questo buco nero. Non esiste, non fa fatica a rispondere, perché qui, in 30 anni, non è successo niente. «Prima arrivavano i francofoni del Benin e della Costa D'Avorio, poi è stata la volta dei ghanesi, dei togolesi, dei nigeriani. Oggi arrivano i sudanesi, i liberiani, sempre più poveri e più ignoranti». Arrivano a Castel Volturno per due motivi fondamentali. Il primo è che in nessun posto del mondo un immigrato irregolare potrebbe trovare una casa. Non ci sono barboni a Castel Volturno. Tutti hanno un tetto dove ripararsi in questo paradiso di seconde case cadenti. La seconda ragione è che qui ci sono gli altri africani, da sempre. E allora puoi creare una microcomunità.
Eccolo il «modello Castel Volturno», la non integrazione di bianchi e neri che ha portato a quella che Casale definisce «la separatezza». Nel buco nero senza legge, dove anche un occupante di casa napoletano può chiedere l'affitto a un africano e la cosa sembra normale, dove le automobili non solo non hanno l'assicurazione esposta, ma alcune nemmeno il posto dove esporla, le comunità vivono per conto proprio.
«Hanno i loro negozi, i loro quartieri, anche le loro chiese». Tutti. Ognuno per sè. Ecco perché anche quelli che vivono qui da dieci anni non parlano una parola di italiano: perché sembra non dovergli servire. «Se ne accorgono appena vanno via da Castel Volturno». È un circolo vizioso che crea questi mondi paralleli, questi traffici leciti e illeciti. È l'obiettivo di trovare i sessanta euro a settimana, le due-tre giornate di lavoro.
«Cacciar via gli immigrati non è la soluzione al problema di quest’area. Per Castel Volturno e il litorale Domizio occorre altro: un organico progetto di riqualificazione». A parlare è l’arcivescovo di Capua, monsignor Bruno Schettino, che presiede la fondazione Fernandez, che accoglie ogni giorno 60 immigrati con un servizio mensa che offre il pranzo a 100 persone. «Hanno paura ed è comprensibile: per mia esperienza personale questa è gente che non fa alcun male». Ma quel che ci vuole è una strategia: «Il discorso è più ampio e non si risolve mandando via alcune centinaia di stranieri, che qui fanno lavori che altri non intendono svolgere».
Fabio Basile, anche lui da anni nella trincea di Castel Volturno a metterci tutto quello che può metterci la società civile in un processo del genere (è tra gli animatori del centro sociale "Ex canapificio" di Caserta da sempre impegnato sul mondo migrante), non fa fatica a descrivere il modello suddetto: «È così, e nessuno se ne importa. Il governo, ancora una volta, pensa di farne un problema di sicurezza pubblica, ma qui è chiaro che stiamo parlando d'altro».
Vediamo bene di cosa stiamo parlando allora. «Noi siamo un piccolo comune campano con i problemi di una metropoli», sintetizza il sindaco di Castel Volturno Francesco Nuzzo e per fare un esempio dell'enorme mole di lavoro che si trova a fronteggiare nella sua scomoda posizione spiega: «Abbiamo ventimila irregolari, venti vigili urbani e una sola assistente sociale, perché con i tetti di spesa non possiamo assumerne nemmeno un'altra, e non sto dicendo che ne servono due».
Non va meglio a polizia e carabinieri che dovrebbero presidiare un territorio in cui le regole non solo non esistono, ma sembra quasi non possano esistere, con la camorra che possiede case, negozi e bar, che spara e commercia, costruisce, investe, interra rifiuti speciali e fa mozzarelle. E queste centinaia di facce scure, schiavi composti di questa terra, che solo per identificarli ci vorrebbero 5mila giorni e per sequestrargli la macchina un deposito giudiziario di diversi chilometri quadri. Angelo Papadimitra, segretario della Cgil di Caserta, non ha dubbi: «Da questa storia si esce solo con una legge speciale per Castel Volturno. Ci vuole una sanatoria». Invece il governo si fa portabandiera di un nuovo «ordine pubblico», in un posto in cui i sei africani ammazzati giovedì scorso aspettano ancora un funerale. Tra sabato e domenica non si è trovato nessuno che facesse l'autopsia di quei corpi crivellati di colpi.
Repubblica 22.9.08
Il mistero delle migrazioni svelato dal Dna
di Elena Dusi
La rivista "Le Scienze" dedica il numero in edicola agli spostamenti di massa degli uomini del passato Sono le raffinatissime tecniche di analisi genetica a permettere la ricostruzione di questa grande mappa
E sono poi tutte queste tracce a imprimersi nel codice genetico di ognuno di noi
Le malattie, gli accoppiamenti il clima e il cibo selezionano gli individui
La coppia che non ti aspetti è fatta da un archeologo con la piccozza in mano e un genetista in camice bianco. Diversi, ognuno con la sua tecnica. Ma entrambi lavorano alla ricostruzione della storia dell´uomo.
Il passato della nostra specie lascia le sue impronte non solo nel terreno, ma anche nel Dna. Malattie, accoppiamenti, migrazioni, adattamenti a nuovi climi e nuovi cibi, difficoltà che selezionano un individuo piuttosto che un altro. Tutte queste tracce si imprimono in quel codice genetico che a livello individuale garantisce la nostra identità per il corso della vita. E a livello collettivo preserva le caratteristiche della specie, che si trasmettono da una generazione all´altra con variazioni minime. Alla ricostruzione delle "migrazioni del passato" tramite tecniche di analisi genetica sempre più sopraffine dedica il suo numero attuale la rivista "Le Scienze".
I punti fermi in origine erano pochi. Alla lettura dei tre miliardi di "lettere" che costituiscono il nostro genoma è stato affidato il compito di completare il quadro e tracciare le linee mancanti, a partire da quel primo salto che gli uomini spiccarono - tra 50 e 60mila anni fa - fuori dall´Africa attraversando il Mar Rosso. Da lì il percorso dei nostri antenati iniziò a ramificarsi in maniera molto complessa. I genetisti oggi cercano di dipanare la matassa seguendo due percorsi: l´analisi del Dna degli uomini moderni, che si basa sulle minuscole variazioni da individuo a individuo. E l´affascinante e complicato studio dei frammenti di codice genetico che ci sono arrivati direttamente dal passato.
Con questa seconda tecnica, per esempio, è stata pressoché completata la lettura del Dna dell´uomo di Neanderthal, il cugino perdente dell´Homo sapiens sapiens, che si è estinto lasciando molti misteri dietro di sé. Scoprire l´aspetto fisico, le abitudini e il percorso migratorio di questo antenato partendo da una polvere che contiene frammenti di materiale genetico spesso deteriorato è uno dei risultati più affascinanti compiuti dalla scienza. «Si parte da un osso antico, ma non ancora fossilizzato, affinché contenga ancora materiale biologico. A questo punto, il problema principale è evitare qualunque contaminazione con il Dna moderno» racconta Olga Rickards che insegna antropologia molecolare all´università Tor Vergata di Roma e dello studio genetico sui Neanderthal è stata fra i protagonisti.
Una pubblicazione recente aveva lanciato l´ipotesi straordinaria che fra Neanderthal e Sapiens ci fossero stati degli incroci e degli scambi di materiale genetico. La notizia rischiò di scuotere completamente l´albero genealogico dei nostri antenati, fino a quando non si scoprì che il Dna proveniente dalle mani o dal respiro dei ricercatori aveva contaminato i campioni antichi, falsando completamente i risultati. «Quando troviamo un resto umano - prosegue la Rickards - cerchiamo di prelevarlo direttamente nel sito, con la collaborazione degli archeologi. Poi lo puliamo sfregandolo (da evitare l´acqua, che permea l´osso e trasporta le eventuali contaminazioni al suo interno), ne preleviamo un tassello laddove gli antropologi non trovano elementi significativi e lo riduciamo in polvere, con tecniche complesse come dei mortai raffreddati ad azoto liquido affinché il calore non comprometta la qualità del Dna».
Raggi ultravioletti per uccidere i microrganismi, camere sterili dove indossare le tute da laboratorio, indumenti e maschere ingombranti come quelli visti in ET diventano da questo punto in poi i compagni di lavoro dei genetisti. «Perché spesso - prosegue la specialista di Roma - il Dna moderno è più vitale di quello antico. E anche se si è introdotto in frazioni minime, salta più facilmente agli occhi dei nostri strumenti».
Sia l´analisi sul genoma antico che gli studi sulle variazioni dei moderni hanno confermato l´origine africana degli uomini. La ricerca del secondo tipo si basa sul fatto che il 99,9 per cento del Dna umano rimane identico tra gli individui. Ma nel restante 0,1 per cento si nascondono differenze che si sono introdotte in un certo momento e in un certo luogo nel corso della storia genealogica. Tanto minute e complesse sono diventate le mappe della variabilità genetica, da aver assunto l´aspetto di veri e propri caleidoscopi. E da aver completamente frantumato il concetto di razza. L´Africa per esempio, culla dell´umanità, è il continente in cui maggiore è il numero di tasselli colorati.
Repubblica 22.9.08
Come cambia l´esistenza nel XXI secolo
Nel nuovo saggio "Conditio Humana" il sociologo approfondisce la tesi di una società globale esposta a minacce impossibili da arginare
D´ora in poi nulla di ciò che accade nel mondo è un evento soltanto locale
La situazione di ogni singola etnia ci riguarda e dobbiamo farcene carico
di Ulrich Beck
Dal nuovo saggio di Ulrich Beck, "Conditio humana. Il rischio nell´età globale" (Laterza, pagg. 416, euro 18), anticipiamo parte di un capitolo
Viviamo in una società mondiale del rischio, non solo nel senso che tutto si trasforma in decisioni le cui conseguenze diventano imprevedibili, o nel senso delle società della gestione del rischio, o in quello delle società del discorso sul rischio. Società del rischio significa, precisamente, una costellazione nella quale l´idea che guida la modernità, cioè l´idea della controllabilità degli effetti collaterali e dei pericoli prodotti dalle decisioni, è diventata problematica; una costellazione nella quale il nuovo sapere serve a trasformare i rischi imprevedibili in rischi calcolabili, ma in questo modo a sua volta produce nuove imprevedibilità, ciò che costringe alla riflessione sui rischi. Attraverso questa "riflessività dell´incertezza" l´indeterminabilità del rischio nel presente diventa per la prima volta fondamentale per l´intera società, sicché dobbiamo ridefinire la nostra concezione della società e i nostri concetti sociologici.
Nello stesso tempo la società mondiale del rischio genera una "spinta cosmopolitica", ad esempio nel confronto storico con l´antico cosmopolitismo (Stoà), con lo jus cosmopoliticum dell´illuminismo (Kant) o con i crimini contro l´umanità (Hannah Arendt, Karl Jaspers): i rischi globali ci mettono a confronto con "l´altro", apparentemente escluso. Essi abbattono i confini nazionali e mescolano l´indigeno con l´estraneo.(...)
Entrambe le tendenze ? la riflessività dell´incertezza e la spinta cosmopolitica ? sono riconducibili a un meta-mutamento complessivo della "società" nel XXI secolo:
a) le messe in scena, le esperienze e i conflitti del rischio mondiale compenetrano e modificano i fondamenti della convivenza e dell´agire in tutti gli ambiti, a livello nazionale e a livello globale;
b) dal rischio mondiale si può evincere la nuova forma di rapporto con le questioni aperte, il modo in cui il futuro viene integrato nel presente, quali forme assumono le società ad opera dell´interiorizzazione del rischio, come si trasformano le istituzioni esistenti e quali modelli organizzativi finora sconosciuti si creano;
c) ora, da un lato, vengono in primo piano i grandi rischi (non voluti), come il mutamento climatico; dall´altro, l´anticipazione delle minacce di nuovo tipo provenienti dagli attacchi terroristici (voluti) crea una costante aspettativa pubblica;
d) si compie un mutamento culturale generale. Nasce un altro modo di intendere la natura e il suo rapporto con la società, ma anche di intendere noi e gli altri, la razionalità sociale, la libertà, la democrazia e la legittimazione ? e perfino l´individuo. (...)
Il significato onnicomprensivo del rischio mondiale ha conseguenze molto rilevanti, poiché ad esso si lega un intero repertorio di nuove rappresentazioni, timori, paure, speranze, norme di comportamento e conflitti di fede. Queste paure hanno un effetto collaterale particolarmente fatale: le persone o i gruppi che diventano (o sono fatti diventare) "persone a rischio" o "gruppi a rischio" sono considerati come non-persone, i cui diritti fondamentali sono minacciati. Il rischio separa, esclude, stigmatizza. Si formano così nuovi confini della percezione e della comunicazione ? ma nello stesso tempo vengono anche compiuti sforzi che travalicano i confini per risolvere problemi sottoposti per la prima volta a un´influenza pubblica. Di conseguenza, la messa in scena del rischio mondiale dà luogo a una produzione e costruzione sociale della realtà. Il rischio diventa così la causa e il medium della riconfigurazione della società. Ed è strettamente connesso alle nuove forme di classificazione, interpretazione e organizzazione della nostra vita quotidiana, al nuovo modo di mettere in scena e di organizzare, di vivere e di configurare la società in riferimento al presente del futuro.
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Il salto dalla società del rischio alla società mondiale del rischio può essere chiarito richiamandosi a due testimoni: Max Weber e John Maynard Keynes, i classici della sociologia e dell´economia moderne. In Max Weber la logica del controllo vince nel confronto moderno con il rischio, e vince in modo così irreversibile che l´ottimismo culturale (Kulturoptimismus) e il pessimismo culturale (Kulturpessimismus) vengono riconosciuti come due lati della medesima dinamica. In forza del dispiegamento e della radicalizzazione dei princìpi basilari della modernità, e in particolare della radicalizzazione della razionalità scientifica ed economica, incombe un regime dispotico, come conseguenza, da un lato, dello sviluppo della democrazia moderna e, dall´altro, del trionfo del capitalismo orientato al profitto. Speranza e preoccupazione si condizionano a vicenda: dal momento che le incertezze e gli effetti collaterali imprevisti e non voluti prodotti dalla razionalità del rischio non cessano di essere affrontati "ottimisticamente" grazie a un incremento della razionalizzazione e della logica del mercato, la preoccupazione di Weber non riguardava ? a differenza di Comte e Durkheim ? la mancanza di ordine e integrazione sociale. Egli non temeva il "caos delle incertezze" (come Comte). Al contrario, egli vedeva e affermava che la sintesi tra scienza, burocrazia e capitalismo trasforma il Moderno in una sorta di "prigione". Questa minaccia non emerge come un fenomeno marginale, ma come conseguenza logica della razionalizzazione del rischio riuscita: se tutto va bene, sarà sempre peggio. La razionalità strumentale depoliticizza la politica e mina la libertà degli individui.Allo stesso tempo, nel modello di Max Weber è contenuta un´idea che spiega perché il rischio diventa un fenomeno globale, anche se non spiega ancora perché esso dà luogo alla società mondiale del rischio. Secondo Weber la globalizzazione del rischio non è legata al colonialismo o all´imperialismo, cioè non è portata avanti con il fuoco e con la spada. Piuttosto, essa procede lungo la via della coazione non coatta dell´argomento migliore. La marcia trionfale della razionalizzazione si basa sulla promessa di beneficio del rischio e sulla delimitazione a sua volta razionale degli effetti collaterali, delle incertezze e dei pericoli ad esso collegati. È questa autoapplicazione del rischio al rischio, finalizzata al perfezionamento dell´autocontrollo, a globalizzare l´"universalismo". L´idea che proprio l´imprevisto, l´indesiderato, l´incalcolabile, l´inatteso, l´incerto, reso permanente dal rischio, possa diventare la fonte di possibilità e pericoli non anticipabili che mettono seriamente in questione l´idea-guida della razionalità del controllo nel modello weberiano è un´idea impensabile. Essa sta alla base della mia teoria della società mondiale del rischio. (...)
All´inizio del XXI secolo vediamo la società moderna con occhi diversi ? e questa nascita di uno "sguardo cosmopolita" fa parte dell´inatteso, dal quale deriva una società mondiale del rischio ancora indeterminata. D´ora in poi nulla di ciò che accade è più un evento soltanto locale. Tutti i pericoli essenziali sono diventati pericoli mondiali, la situazione di ogni nazione, di ogni etnia, di ogni religione, di ogni classe, di ogni singolo individuo è anche il risultato e l´origine della situazione dell´umanità. Il punto decisivo è che d´ora in poi il compito principale è la preoccupazione per il tutto. Non si tratta di un´opzione, ma della condizione. Nessuno lo ha mai previsto, voluto o scelto, ma è scaturito dalle decisioni, dalla somma delle loro conseguenze, ed è diventato conditio humana. Nessuno vi si può sottrarre. Si profila così un cambiamento della società, della politica e della storia che finora è rimasto incompreso e che già da qualche tempo indico con il concetto di "società mondiale del rischio". Quello che finora conosciamo è soltanto l´inizio.
l'Unità 22.9.08
Borghezio con i nazisti, un caso europeo
Lo show di Colonia arriva a Bruxelles. Persino Bossi prende le distanze
di Federica Fantozzi
Dopo il gelo di Castelli e Calderoli, arriva la netta presa di distanze di Umberto Bossi: «Non si accettano tutti gli inviti». Sotto accusa Mario Borghezio, l’europarlamentare leghista presente al comizio flop contro una moschea a Colonia. Ma la vicenda non crea imbarazzi solo nella maggioranza di governo, particolarmente silenziosa e parca di commenti nonostante l’accaduto. Lo «spettacolo» indecoroso di Borghezio, unico europarlamentare a Colonia (neppure la destra più estrema ha partecipato alla manifestazione), verrà discusso oggi durante la sessione plenaria a Bruxelles. Pasqualina Napoletano, vicepresidente del gruppo Pse: «Inqualificabile, ma non stupisce. Piuttosto, riflettano gli elettori»
«IO NON CI SAREI ANDATO» dice Bossi, ed è la pietra tombale. Dopo Castelli e Calderoli, la sconfessione della «gita tedesca» di Borghezio da parte del suo partito è totale. Gli europarlamentari italiani giudicano «inqualificabile» il gesto, di cui oggi Bruxelles
discuterà durante la sessione plenaria.
La presenza di Borghezio al raduno neonazista di Colonia imbarazza la maggioranza di centrodestra: l’italiano era l’unico rappresentante sia del Parlamento Europeo che di un partito di governo alla manifestazione contro la moschea islamica. Che, tra l’altro, si è trasformata in flop grazie alla reazione compatta della città renana. Anche Fiore e Romagnoli, l’estrema destra a Strasburgo, l’hanno disertata. Se dunque dalle file del PdL non si strappa un commento «perché la faccenda riguarda la Lega», quest’ultima è obbligata ad affrontarla.
Nei giorni scorsi l’ex ministro Castelli aveva messo le mani avanti: «Borghezio dovrebbe valutare bene, io starei lontano da certe formazioni politiche». Ieri, a cosa fatta, il ministro della Semplificazione Calderoli confermava il gelo: «Non avrei mai aderito, abbiamo sempre detto no all’estrema destra. Borghezio ha partecipato a titolo personale». Fino all’epitaffio bossiano (condiviso dal capogruppo alla Camera Cota): «Non tutti gli inviti vanno accettati».
Pasqualina Napoletano (Sinistra Democratica) è vicepresidente del gruppo Pse: «Il comportamento di Borghezio è inqualificabile ma non mi stupisce. Si è già distinto per iniziative simili». L’eurodeputata ricorda «l’iniziativa di portare maiali a urinare sul terreno destinato a una moschea» e, in generale, «gli atteggiamenti razzisti e islamofobici». La Napoletano auspica una reazione dell’emiciclo, come fu quando il deputato leghista interruppe l’allora capo dello Stato Ciampi. Padroni del gioco, tuttavia, sono gli elettori: «Riflettano, dato che le elezioni Europee sono vicine».
Trova motivi di preoccupazione anche Monica Frassoni, eurocapogruppo dei Verdi: «È stato messo in risalto l’isolamento italiano, Bossi ha preso atto che all’interno di un sistema certi strappi non passano inosservati».
Ma se è stata importante la reazione di Colonia, «l’Italia è una realtà diversa. Le posizioni di Maroni e Gentilini, la morte di Abdul a Milano, i neri di Castelvolturno etichettati come delinquenti: dire che non è grave e non siamo razzisti significa velarsi la faccia di fronte all’Europa».
Daniele Marantelli, deputato del Pd in terra padana, ieri rappresentava il suo partito alle celebrazioni della «Prealpina», con Bossi. Per il Senatùr un compleanno di popolo in attesa della «barcolada» sul Lago Maggiore. «Borghezio? - spiega Marantelli - Lì siamo ben oltre la destra europea. Quel raduno è stato uno spettacolo inqualificabile. Bene hanno fatto le autorità a impedirlo: quando il nostro governo vara misure di sicurezza che riguardano i bambini rom non capisce che Italia e Germania in Europa sono ancora degli osservati speciali».
Ma l’elettorato leghista sta con Bossi o Borghezio? «La maggioranza è con Bossi ma ci sono venature razziste da non sottovalutare. Il Pd deve sfidare il gruppo dirigente del Carroccio a sconfessare ogni fenomeno di intolleranza».
l'Unità 22.9.08
Fascista e secessionista, l’ultima raffica della Padania
di Oreste Pivetta
L’ultima raffica della Padania ha lasciato ancora il segno. Più degli altri, meglio degli altri. Al contrario dei suoi colleghi bloccati all’aereoporto, Mario Borghezio ce l’ha fatta a raggiungere Heumarkt, a salire sul palco brandendo come una spada contro l’Islam il libro della Fallaci, “La rabbia e l’orgoglio”. Non è andato oltre. Cancellata la manifestazione. Peccato: ci siamo persi onde su onde di merda, culo, pedate, bastonate, vaffanculo, eccetera eccetera. Borghezio dal palco è un uragano in piena: «La folla mi eccita», si era spiegato una volta. Ne sa qualcosa chiunque sia capitato dalle parte di Riva degli Schiavoni, a Venezia, il giorno delle celebrazioni leghiste, il giorno in cui dall’ampolla miracolosa retta dalla mano di Bossi l’acqua del Po si versa nell’Adriatico. Borghezio è capace di dirne di tutti i colori: oratoria violenta, tono trascinante, slogan di eccitante potenza, agitati tra parte anatomiche e resti organici, insulti e argomenti alla rinfusa, tanto chissenefrega.
Non immaginatelo rozzo e ignorante, è persino gentile quando scende dalla tribuna e abbandona il megafono. Il fisico non l’aiuta: un metro e 76 di altezza e una circonferenza che nessuno s’è mai azzardato a misurare di una flaccidissima polpa che non fa certo onore alla stirpe padana. Ma è un uomo di molte letture e di autentica bibliofilia: tra le antichità quella che si tiene più stretta al cuore è un manoscritto del Settecento sull’esoterismo. Dei contenuti non si sa.
Avvicinandosi agli amici neonazi radunati a Colonia, si è riavvicinato al suo passato che peraltro non ha mai smentito. Il giovane e magro Borghezio era un duro, tremendo, che nei fatidici anni 60 (è nato a Torino il 3 dicembre 1947 e si è laureato in legge) frequentava la destra più destra, prima monarchico e poi vicino al Msi, il partito allora di Almirante che non gli piaceva tanto, accusandolo di pigrizia e di moderatismo. Il senatore Ugo Martinat, Settimo Torinese, ora di An, lo ricordava così: «In gioventù lui bazzicava attorno a Europa civiltà, che dissentiva da Ordine Nuovo, che dissentiva dal Msi. Per un certo periodo ha girato fra i ragazzi della Giovine Italia, che era l’organizzazione missina dell’epoca. Ma dissentiva anche da quelli: basta, me ne vado, siete troppo moderati». Stava dunque alla destra della destra della destra e fu così, da destra, che si imbattè nel leader che l’avrebbe definitivamente conquistato: Umberto Bossi. Avviandosi con Bossi lungo un gratificante percorso, che lo vide consigliere comunale, deputato, persino sottosegretario alla giustizia, parlamentare europeo e, massima gloria, presidente del governo della Padania, tra il 1999 e il 2004, quando Bossi convocava i suoi parlamenti tra Pavia e Mantova. Poi se ne dimenticò e lasciò perdere, smarrendo anche quella vena secessionista, che aveva sedotto Borghezio, che non s’appassiona invece all’acqua fresca del federalismo. Fedele alla vecchia idea, nemico del “poltronismo” che aveva invece impigrito molti suoi colleghi all’ombra del Carroccio. Borghezio, malgrado il peso, è un uomo di strada: organizzatore, camminatore, faticatore, megafono in pugno per “esternare” nella situazioni più disparate.
Epiche le sue battaglie contro le peripatetiche nigeriane a colpi di flit sul treno, per le impronte digitali (anticipando di gran lunga Maroni), contro la Chiesa di Roma per la Chiesa del Nord (in questo caso, rara volta, suscitando l’ira di Bossi), contro quei «culi in aria” degli islamici, contro i venditori ambulanti e contro i poveracci che dormivano sotto i ponti. Strattonò per un braccio un ragazzo marocchino di dodici anni per consegnarlo ai carabinieri e fu condannato a pagare (nel 1994) 750mila lire di multa per violenza privata. Incendiò (nel 2000) i materassi di alcuni nordafricani e anche stavolta fu condannato: a due mesi e venti giorni di reclusione, commutati poi in tremila euro di multa, per l’aggravante della finalità di discriminazione. Inventò con Max Bastoni (non poteva trovare alleato più degno), le ronde padane, le camicie verdi, chiese le pallottole di gomma per i poliziotti, disse e smentì che «lo squadrismo padano deve usare il bastone contro gli immigrati».
Diego Novelli, che lo aveva conosciuto giovane consigliere comunale, ci ha lasciato di lui un ritratto persino benevolo: «L’uomo è un generoso, convinto delle sue idee, ha un grande disinteresse personale, tratti che costituiscono spesso le caratteristiche di tutte le forme di fanatismo». Fanatico, non c’è dubbio. Ma con moderazione calcolata, per sopravvivere (più longevo di Haider o di Le Pen). Con astuzia politica, con consumato mestiere dentro un partito che impone a tutti dei limiti e dove la fedeltà è un dogma. Altro che dibattito: quanti ne ha tolti di mezzo Bossi, avversari o presunti avversari, comunque ambiziosi. «Scarafaggi padani» li definiva Borghezio. La cui biografia politica non è un caso e neppure un episodio di folklore ma si ritaglia perfettamente tra le rovine della storia nazionale nazionale. Tra le rovine lui in fondo è rimasto in piedi, come gli «raccomandavano» gli scritti del maestro Julius Evola. Ci scandalizzavano le ronde o le impronte digitali, ma siamo stati lì lì perché diventassero pratiche di governo.
L’ultima battaglia Mario Borghezio l’ha guidata a Milano contro la moschea di viale Jenner: fazzolettone verde al collo, megafono in mano e via... Alla fine, come si è visto, la battaglia l’ha vinta proprio lui.
l'Unità 22.9.08
La vita artificiale è vicina. Ci dobbiamo rinunciare?
di Pietro Greco
A GENNAIO 2008 alcuni ricercatori annunciarono di aver sintetizzato in laboratorio un batterio già conosciuto in natura. Da quel momento c’è chi pensa che debba nascere anche una nuova bioetica
Siamo lontani dal creare nuove forme di vita ma forse presto «assembleremo» organismi complessi
Ma «Science» sostiene che non c’è bisogno di principi etici diversi per affrontare la novità
Abbiamo bisogno di una «bioetica sintetica»? Abbiamo proprio bisogno di un’altra branca dell’etica applicata che rifletta in maniera specifica sulle questioni di principio, sulle opportunità e sui rischi associati alla creazione in laboratorio di nuove forme di vita, artificiali?
Il problema non è immediato. Tutto sommato la possibilità di progettare e sintetizzare in laboratorio nuovi organismi o, addirittura esseri umani, non è per domani. E, forse, neppure per dopodomani. E tuttavia il tema - abbiamo bisogno di nuove regole per inedite possibilità - è stato autorevolmente sollevato, nei giorni scorsi, dalla rivista Science per mano di Erik Parens e da due suoi colleghi bioeticisti dell’Hastings Center di Garrison, Usa. La loro risposta alle domande è tranchant: no, non abbiamo bisogno di una nuova bioetica, di sintesi. E tuttavia il fatto stesso che le domande siano state sollevate è la dimostrazione che c’è un’inquietudine - una nuova inquietudine - che attraversa il mondo di coloro che osservano l’evoluzione della ricerca in biologia.
I fatti sono davvero recenti. Risalgono solo a qualche mese fa. Allo scorso gennaio, per la precisione. Quando un gruppo di scienziati del Institute for Systems Biology di Seattle annunciò di aver sintetizzato con successo in laboratorio l’intero genoma del più piccolo batterio conosciuto, quello del Mycoplasma genitalium. Non si trattava, dunque, di una nuova forma di vita. E neppure di una sintesi integrale: in realtà i ricercatori di Seattle avevano assemblato pezzi diversi di Dna esistenti in natura e ottenuto il genoma funzionante del minuscolo batterio. Si trattava, dunque, di un primo, timidissimo passo verso la «biologia di sintesi» e la creazione di «vita artificiale».
Ma tanto è bastato per accendere la discussione. Siamo di fronte a problemi nuovi e abbiamo bisogno di nuove regole, hanno immediatamente scritto, su Nature Biotecnology, due bioeticisti tedeschi, Boldt e Muller. L’argomento è stato ripreso, con una certe enfasi, dai media: ecco i biologi che vogliono «giocare a fare Dio» e aprire il vaso di Pandora di nuove forme di vita, artificiali. L’interesse degli studiosi e i riflettori dei mezzi di comunicazione di massa hanno indotto lo scorso mese di maggio studiosi finanziati dall’Unione Europea ad aprire una e-conference, una conferenza elettronica, sulla synbiosafe, la sicurezza della biologia di sintesi, per discutere tre diverse categorie di problemi: verificare l’esistenza di questioni di principio inedite associate alla «nuova biologia»; verificare l’esistenza di rischi inediti; discutere l’opportunità di creare un’istituzione europea che segua da vicino in maniera sistematica questi problemi.
La conferenza non ha trovato le risposte definitive. Ma certo un merito lo ha avuto: ha contribuito a chiarire le domande. Di cosa, dunque, stiamo parlando? Beh, stiamo parlando del fatto che i biologi stanno acquisendo la crescente capacità sia di sintetizzare in laboratorio le macromolecole della vita (proteine, Dna, Rna) sia di ricostruire, come a Seattle, un intero genoma assemblando pezzi di genomi naturali esistenti. Non è, dunque, lontana la possibilità che un giorno si riesca a replicare in laboratorio a partire dai costituenti di base (amminoacidi e acidi nucleici) un intero virus o il genoma di un batterio e - perché no - di un organismo più complesso. Molto più distante nel tempo appare, invece, la possibilità di sintetizzare forme di vita sconosciute in natura o, addirittura, organismi auto replicanti che utilizzano una biochimica diversa da quella operante in natura.
Di qui la prima categoria di domande: quelle di principio. C’è qualcosa che in linea di principio, appunto, consigli (obblighi) i biologi a rinunciare a queste possibilità? Le nuove strutture biologiche create (o che saranno create) in laboratorio devono essere considerate, anche sul piano etico, omologhe, analoghe o del tutto diverse rispetto a quelle che troviamo in natura? La biologia di sintesi costituisce davvero una novità? Cosa intendiamo, esattamente, per «vita artificiale»?
Il dibattito ha consentito di verificare come non esistano risposte semplici a queste domande. Che le distinzioni in biologia non sono così nette come appare. Che non sappiamo, ancora, rispondere in maniera definitiva a domande fondamentali, compresa quella primaria in biologia: cosa dobbiamo intendere per vita? E che l’insieme di queste incapacità ci induce a seguire, anche sulle questioni di fondo, non le vie delle affermazioni assolute, ma quella della verifica caso per caso.
Il che ci rimanda alla seconda categoria di domande: esistono rischi sanitari e/o ecologici associati alla biologia di sintesi? Anche in questo caso le risposte non possono essere assolute, ma si tratta di verificare caso per caso qual è il rapporto tra i rischi e i benefici.
Una risposta univoca non esiste neppure per la terza categoria di domande: dobbiamo istituire nuove agenzie - in Europa o altrove - che seguano con sistematicità temi e problemi della biologia sintetica?
A questo punto - con le idee un po’ più chiare e con molte domande in più da porre - possiamo tornare all’articolo pubblicato da Parens e dai suoi colleghi su Science e dare loro ragione: no, non abbiamo bisogno di una nuova «bioetica sintetica». Non perché non esistano problemi nuovi. Ma perché è sbagliato frammentare la riflessione sull’etica applicata alle nuove conoscenze scientifiche in tante minidiscipline incomunicanti. Sia perché non c’è soluzione di continuità tra la biochimica, la genetica e la biologia di sintesi. E quindi non può esserci soluzione di continuità nella riflessione etica intorno alla biochimica, alla genetica e alla biologia di sintesi. Sia perché le risposte puntuali ai singoli problemi sollevati dalle nuove conoscenze in ogni campo possono e devono essere risolte in un cotesto unitario: la responsabilità che l’uomo si assume per le sue azioni.
Corriere della Sera 22.9.08
Revisioni storiche
Porta Pia e il senso del ridicolo
di Paolo Franchi
Può essere? A prima vista almeno no, non può capitare che il generale dei Granatieri Antonio Torre, commemorando il 138˚anniversario della Breccia di Porta Pia, taccia sui 49 caduti italiani.
E che lo stesso generale legga invece uno ad uno i nomi dei 19 caduti papalini. Però è successo.
E' successo pure, se è per questo, che il vicesindaco Antonio Cutrufo, che rappresentava alla cerimonia il sindaco di Roma Gianni Alemanno, non abbia provato a porre riparo alla dimenticanza, chiamiamola così, del generale, probabilmente perché nemmeno se ne è accorto; e che il succitato Alemanno, almeno a stare alle sue dichiarazioni, abbia fatto mostra di non essersi accorto neanche lui della gaffe. Sempre che soltanto di una gaffe si sia trattato, e che anche questa vicenda, in sé alquanto grottesca, non ci segnali, al pari di varie altre succedutesi nelle ultime settimane, qualcosa di più complesso e di più preoccupante. Sembra pensarla così Giovanni Sabbatucci, intervistato ieri dal Corriere, che si chiede, ironicamente ma non troppo, se, andando avanti di questo passo, d'ora in avanti il 4 novembre saranno ricordati i caduti delle truppe austroungariche a Vittorio Veneto. E non è il primo a porsi domande di questo tipo. Già nei giorni scorsi, all'indomani delle improvvide affermazioni del sindaco Alemanno e del ministro La Russa sul fascismo male più o meno assoluto e sull'amor di patria dei ragazzi di Salò, Emilio Gentile si era interrogato (anche lui facendo ricorso, si capisce, all'ironia) su che cosa possiamo aspettarci, di qui a poco, dalle celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia: un sofferto omaggio a Metternich e Cecco Beppe, magari?
Sabbatucci e Gentile sono due storici di vaglia, e non fanno parte in alcun modo delle schiere degli indignati in servizio permanente effettivo, sempre pronti a lanciare denunce accorate contro gli infami disegni di chi, si dice, vorrebbe procedere a buttare giù tutto, oggi la Resistenza, domani il Risorgimento, dopodomani chissà. Quello che ci segnalano è però forse più preoccupante di un'offensiva politica e ideologica, o di un consapevole tentativo di spingere il revisionismo storico verso lidi fino a qualche tempo fa letteralmente inimmaginabili, sottoponendo ad aperta e radicale contestazione certezze più o meno consolidate e miti fondativi della storia nazionale. Per restare al 20 settembre, l'ultimo caso in ordine di tempo: forse gli ultratradizionalisti di Militia Christi, gli unici ad esultare, sarebbero ben contenti anche della restaurazione del potere temporale dei papi, e di certo non escludono che, con l'aria che tira, la questione possa in qualche modo tornare di attualità. Ma tenderemmo ad escludere che il generale, il vicesindaco e il sindaco di Roma siano dei nostalgici del Papa Re. E' molto più probabile, piuttosto, che siano ad un tempo vittime e propagatori di una nuova, e diffusa, malattia nazionale, il cui sintomo più evidente è la caduta del senso del ridicolo. Una caduta così vistosa che pochi si sorprendono se agli aspiranti infermieri specializzati, come ci ha ricordato sabato sul Corriere Paolo Macrì, viene chiesto di pronunciarsi in sede di esame sulla tesi di Alberto Asor Rosa, secondo il quale il fascismo sarebbe stata cosa ben più alta e nobile del berlusconismo; e nessuno si meraviglierebbe troppo se qualcuno saltasse su a segnalarci la buona fede degli zuavi di Pio IX che restarono fedeli a costo della vita alla consegna pur sapendo che la causa dello Stato pontificio era votato alla sconfitta.
Forse (forse) il generale, il vicesindaco e, seppure in forma indiretta, il sindaco di Roma hanno semplicemente creduto, celebrando i soldati del Papa nel giorno della Breccia di Porta Pia, di interpretare lo spirito di marmellata dei tempi. Secondo il quale, essendosi fatto tutto assai vago e incerto, il modo migliore di cavarsela è quello di rendere omaggio alle buone ragioni che, c'è da giurarlo, dovevano pure albergare in fondo al cuore di ciascuno, quali che fossero la causa e la bandiera per cui militava. Forse (forse) il generale, il vicesindaco e, seppure in forma indiretta, il sindaco di Roma hanno semplicemente pensato di uniformarsi alla logica che sommariamente definiamo bipartisan, estendendola dai rapporti politici tra maggioranza e opposizione sui grandi problemi nazionali aperti alla storia patria, questione romana compresa; e solo per eccesso di zelo bipartisan si sono ricordati degli zuavi, ma hanno dimenticato i bersaglieri e i fanti. Capita. Può capitare. Non è il caso di farne un dramma o, Dio ci scampi, di chiedere, a mo' di risarcimento, che il 20 settembre torni ad essere festa nazionale: in fondo 138 anni fa si è solo realizzato il sogno di generazioni e generazioni di italiani. Ma non è nemmeno il caso di dimenticare che di ridicolo si può anche, e ingloriosamente, morire.
Corriere della Sera 22.9.08
Sulla rivista «Storia dell'arte» Maurizio Calvesi conferma la tesi di Luciano Canfora
Artemidoro? Sembra proprio Dürer
Il papiro porta al falsario Simonidis, che s'ispirò all'artista tedesco
di Maurizio Calvesi
Lo sguardo dello storico dell'arte può aggiungere, all'esame «interno» del papiro di Artemidoro, qualche osservazione sul segno, che appare uniforme in alcune delle figure, nonché nella mappa. Si veda come il tratto ondulato e sottile dei fiumi si ripeta nella chioma del sapiente che è stampato di profilo nell'agraphon, davanti alla colonna di apertura. Almeno le due figure dell'agraphon sembrano della stessa mano della mappa (ovvero di quella di Simonidis).
Allievo di un allievo di David fu quest'ultimo, che è certamente l'autore del testo. Ma egli era, per l'appunto, anche un artista. Che il suo maggiore maestro sia stato alla scuola di David, lo ha lasciato scritto Callinico Jeromonaco nella notizia biografica posta al principio dei Symmiga (Mosca 1853).
La figura più grintosa del papiro è senza dubbio la testa posta di profilo di fronte alla prima colonna, in basso: lo sguardo fermo, il naso rincagnato nel primo tratto e poi sporgente, la bocca stretta, i capelli come anche la ruga della fronte e il sopracciglio delineati con un tratto più leggero, la barba riconfusa con i capelli, e presentata con tratti anche orizzontali. Questa strana barba, pettinata lungo la gota in direzione della nuca, è un elemento classico che possiamo trovare nella scultura romana (si veda il Pugile delle Terme, nel Museo Nazionale Romano) come nei disegni neo-classici, proprio di David, tenendo anche presente il gusto del maestro per i profili dell'antico; ma nel complesso a me sembra che l'impronta severa della figura richiami soprattutto Dürer, come potrebbe suggerire un confronto con la testa di Nicodemo nel Compianto di Monaco, Alte Pinakothek, o anche con alcune delle teste barbute che così frequentemente compaiono nella grafica düreriana.
Ancora nel recto, lemani e i piedi sono disposti con regolarità secondo un gusto accademico (non già «alla rinfusa» come vorrebbe Settis): quattro mani ordinate a losanga, la losanga che penetra nel triangolo formato dai tre piedi sottostanti. Il motivo delle mani ha un buon riscontro, nel libro di Canfora Il papiro di Artemidoro, con una tavola dell'Enciclopédie. Tuttavia il più famoso esempio di una composizione di quattro mani è quello visibile al centro del Gesù tra i dottori di Dürer (in collezione Thyssen) dove le quattro mani formano un quadrato e non una losanga, ma possono indurre l'imitatore a riprodurre un disegno geometrico e centrale formato da due mani sinistre e due destre, come nel papiro. È un motivo celebre che ha sedotto più pittori, anche della nostra stagione: una mano sinistra e una destra, una sinistra e una destra. E che una delle mani di Simonidis sia ricalcata — come propone puntualmente Canfora — da Raffaello, con il medio e l'anulare congiunti, il pollice aperto, e le fossette laddove la mano è più paffuta, è una conferma dell'attenzione accademica di Simonidis ai grandi maestri del Rinascimento.
Ma l'interesse per Dürer sembra decisamente confermato da un'altra figurazione del verso. Un cervo assale un lupo che gli punta contro le zampe come rattrappite. Canfora ha scovato un eccellente confronto con il centauro che assale un lupo nella Uranographia di Hevelius. Si tratta di una mappa delle costellazioni, che Simonidis — segnalo — può aver osservato anche in altre versioni, come quella, bellissima, di Andreas Cellarius (Keller) verso il 1660, dove il
lupus prende il nome di fera, o in altre e forse soprattutto nel suo prototipo che risale proprio a Dürer, a una sua incisione dello stesso soggetto in cui il gruppo (centaurus contro fera) assume una fisionomia altrettanto prossima all'immagine del papiro: è verosimile che proprio da qui Simonidis abbia attinto. Sostituita la testa del cervo a quella del centauro, la figura (dunque notissima) si è adattata pienamente alla fantasia del falsario.
Piccole glosse: l'elefante è detto «sterile» in Artemidoro-Simonidis.
«Apprendiamo dalla didascalia che l'elefante che combatte con il serpente — scrive Stefano Micunco nel libro di Canfora — sarebbe steiros, sterile. L'unico possibile raffronto è con il testo del Physiologus, il quale afferma che l'elefante "non ha naturale desiderio di unione sessuale"». È possibile aggiungere che una frase simile è reperibile anche nel Bestiaire di Philippe de Thaün (che del resto riprende dal Physiologus): l'elefante «non procrea spesso»; e nel Bestiaire
di Gervaise: «Non si accoppia mai con la sua compagna se non ha deciso di generare». E veniamo alla mappa: «una carta geografica — l'unica del genere che si sia conservata dall'antichità»; «sarebbe in ogni caso l'unica mappa antica pervenuta, e per di più tramandata sullo stesso rotolo che conteneva il testo geografico. Ciò che non è ad oggi documentato né da altre testimonianze pervenuteci, né dalle fonti antiche. Le quali anzi informano che le mappe geografiche erano di norma riportate su supporti materiali autonomi »; «una fantasiosa mappa piena di impressionistiche vignette adattabili a qualunque parte del mondo fornita di fiumi». Forse la carta è di pura invenzione.
Se cerchiamo, nel disegno dei fiumi, qualcosa di vicino al tratto sottile e leggero, delicatamente ondulato, con cui i fiumi sono segnati nella mappa del papiro, potremmo guardare alla cartografia del Kircher. Qui ricorre frequentemente, per quel che può valere, anche quella biforcazione finale del segno- fiume che indica un delta e trova riscontri nella carta dell'Artemidoro simonideo. Kircher poteva essere un autore ben conosciuto da Simonidis, che era interessato ai geroglifici.
A sinistra, un particolare dall'incisione «I disperati» di Dürer. A destra, un'immagine dal «papiro di Artemidoro»
Repubblica 22.9.08
A Vicenza i progetti e i modelli dell´architetto veneto nato nel 1508
Palladio, un successo lungo cinquecento anni
VICENZA. Nel vicentino c´è la più alta concentrazione di opere di Andrea Palladio di cui si celebrano i cinquecento anni dalla nascita. La sua architettura non è solo a Vicenza e Venezia, centri capitali del suo lavoro, ma nel padovano, nel trevigiano e nel veronese: da questa pianta è gemmata una forma mirabilis di architettura che s´è diffusa nell´Europa del nord, in Russia e nelle Americhe. Nessun architetto è tanto celebre e nessuno tra essi ha mai avuto tale e tanta influenza. Nato a Padova nel 1508 e morto a Vicenza nel 1580 Palladio ha costruito ville, palazzi pubblici e privati, chiese, opere pubbliche che sono nel cuore e nell´anima di chi ama la verità dell´arte e la sua assoluta perfezione.
In Palazzo Barbaran da Porto, l´unico palazzo che l´architetto realizzò integralmente (fino al 5 gennaio, poi alla Royal Academy of Arts di Londra) si può distesamente dialogare con lui e avere sotto gli occhi 78 disegni di sua mano, molti dei quali sono in Gran Bretagna: per l´occasione tornano a casa dopo che nel 1614 il grande architetto Inigo Jones li acquistò dalle mani di Vicenzo Scamozzi. Già solo questo è un evento anche per chi, nelle belle sale del Riba, in gioventù, si è chinato su queste reliquie con spirito devoto. E non è forma retorica la mia, ma davvero i disegni di Palladio ispirano devozione per la calibrata misura di ogni tratto di penna o di matita, per la minuziosa precisione degli appunti che ingombrano questi fogli taluni di piccolo formato. Ma si sa che i disegni non sono sempre di agevole lettura e per tale ragione Guido Beltramini e Howard Burns che curano la mostra (catalogo Marsilio) hanno disposto decine di modelli che rendono visibili quanto tracciato sui fogli di carta. I modelli, in tal caso, sono didatticamente efficaci ma restano algide sembianze: poco utili quando replicano architetture esistenti.
Palladio, nome d´arte che gli diede il suo amico e mecenate Giangiorgio Trissino, ebbe modeste origini e a Padova visse da scalpellino fino all´età di sedici anni. Ma lentamente con l´aiuto dello studioso vicentino, scrittore e cultore anch´egli d´architettura, fece viaggi a Roma e imparò a vedere l´Antico. Come aveva fatto prima di lui Leon Battista Alberti: come questi non assunse quasi mai il ruolo di responsabile dei cantieri, fatto che da un lato non gli consentì lauti guadagni, come spiega Beltramini in un delizioso libretto su Palladio privato, dall´altro lo indusse a intraprendere la via del trattatista. I Quattro libri dell´architettura (Venezia, 1570) ebbero fortuna eccezionale, furono tradotti in più lingue e propagandarono il suo linguaggio e le opere nei quattro angoli del mondo. Innumerevoli architetti che mai visitarono il Veneto ebbero sul tavolo da disegno questo tomo assunto a Bibbia.
Tra le molte architetture del Palladio non esito a partire dalla Basilica di Vicenza, che, con uno scrigno lapideo riveste una preesistente fabbrica tardo medievale: l´incarico gli fu conferito nel 1546 e l´architetto adottò il partito della serliana che gli consentì di assorbire le differenti ampiezze di campata. Geniale trovata il cui funzionamento risulta chiaro nelle arcate d´angolo: qui le aperture architravate sono così ridotte quasi da scomparire. Ma il palazzo della Ragione col solenne rivestimento lapideo è anche un grande intervento d´architettura urbana, che con l´antistante Loggia del Capitanio dominata dall´ordine gigante, forma una delle più belle piazze d´Italia. Trent´anni circa separano le due architetture così differenti per articolazione tettonica e cromia, così che nella piazza dei Signori abbiamo a confronto l´incipit e la piena maturità dell´architettura palladiana.
Preziosa per la ricchezza delle informazioni la veduta a volo d´uccello di Vicenza incisa introno al 1580 dalla quale si deduce che alla morte di Palladio molte fabbriche come i palazzi Chiericati, Thiene e Barbaran da Porto non erano conclusi. L´altro polo si diceva è Venezia dove Palladio trovò amici come Daniele Barbaro e committenti: tra questi massime i monaci benedettini nell´isola di San Giorgio per i quali costruì la chiesa, il refettorio e il chiostro. Una delle novità più interessanti è che nella chiesa Palladio adottò la vernice rossa per porre in risalto le diverse parti degli ordini architettonici. In molte chiese veneziane era già dal Quattrocento in uso il grigio, ma il rosso ebbe certo un altro effetto. Fu la cultura neoclassica a sottoporre a candeggina gli interni di San Giorgio, così come altre ville dove solo il mattone e la pietra hanno retto all´imbiancatura. La facciata di San Giorgio disegnata da Andrea aveva un portico sporgente con colonne giganti, come attesta un disegno: quella esistente è più tarda.
Divenne dunque Palladio l´architetto del patriziato veneto che volle non piccole ville agricole come nel vicentino, ma sontuose residenze realizzate nel corso degli anni: da villa Cornaro a Piombino a villa Ema a Fanzolo, da villa Foscari detta Malcontenta alle porte di Venezia a villa Barbaro a Maser dove intervenne Paolo Veronese con gli affreschi. Questo patriziato ha l´ambizione di far di Venezia una seconda Roma e trova in Andrea - l´architetto dotato della mediocritas albertiana - ideale interlocutore per un disegno politico di egemonia. Se il progetto del palazzo ducale rimasto sulla carta fu un bene per Venezia, certo il progetto per il Ponte di Rialto, così come lo dipinse Canaletto, ci incanta. Come in ogni festa che si rispetti sono invitati anche altri colleghi: alcuni amati come Veronese, El Greco, Giulio Romano nel ritratto di Tiziano, devoti ammiratori come Inigo Jones ritratto da Van Dyck ma anche rivali acerrimi come Jacopo Sansovino ritratto da Tintoretto: noblesse oblige!
Repubblica 22.9.08
Van Gogh. Alcuni capolavori dell´artista, che sembrano quasi un testamento, all´Albertina di Vienna
Tre fogli raffigurano l´ospedale psichiatrico di Saint-Rémy
VIENNA. L´Albertina, splendida e davvero imperiale dopo il recente restauro, ospita una mostra di Van Gogh di grande impegno: è incentrata sull´idea del disegno, che si vuol riscoprire - non solo nell´opera su carta - come componente essenziale di un artista universalmente noto per l´invenzione d´un nuovo colore, arbitrario ed estremo, che va comunque sempre oltre la realtà, non accontentandosi di imitarla.
A differenza della mostra dedicata esclusivamente al disegno allestita dal Kröller-Müller di Otterlo nel centenario della morte di Van Gogh (1990), questa di Vienna (fino all´8 dicembre) guarda al disegno non solo nella sua specificità, sovente di studio o progetto, ma come struttura profonda della creatività dell´artista, e ne rintraccia la presenza accanto al colore - spesso da esso velata o inglobata - nei vari tempi e nelle varie tecniche, ivi compresa la pittura a olio su tela. E sono tante le sorprese che si susseguono di sala in sala, attraverso le centocinquanta opere che documentano i dieci anni di lavoro - non più di tanti, furono - della parabola tesa di quell´esistenza.
Van Gogh ha usato il disegno ogni giorno della sua vita, da quando, vicino oramai ai trent´anni, decise di volgersi alla pittura: tanto che il suo catalogo conta oltre mille opere su carta conosciute. Spesso, soprattutto nel tempo suo ultimo, i fogli che lo accolgono sono di una notevole dimensione. Quasi sempre essi sono lungamente lavorati, e alla matita, ai gessetti e alla penna s´unisce sovente il pennello, a stendervi gli inchiostri bruni o colorati, l´acquerello e talvolta un olio magro. Occupano i luoghi e i ruoli più diversi nel corpo del lavoro: sono talvolta fogli isolati, indagini condotte all´aperto per catturare un motivo, ma più di frequente sono episodi di una serie che ripete l´identico tema, variandolo di poco. Precedono o seguono, indifferentemente, la pittura, rispetto alla quale essi non sono comunque mai solamente propedeutici: spesso sono orgogliosamente firmati; ancor più spesso sono ricordati e discussi nelle lunghe lettere che Van Gogh scrive quasi quotidianamente al fratello Theo. Sono eseguiti per sé, certo, ma anche per farne dono a Theo stesso (nei confronti del quale Vincent continuò sempre a provare scrupolo e un lancinante senso di colpa per il denaro che il fratello destinava al suo sostentamento), o agli amici, o infine per tentare di sedurre qualche compratore.
Talvolta si sostituiscono interamente alla pittura: come avviene ad esempio l´anno ultimo, a Saint-Rémy. Van Gogh vi è ricoverato in una clinica psichiatrica: s´è fatto rinchiudere volontariamente in quelle mura, per scontare la sua offesa a Paul Gauguin, l´amico che aveva tanto atteso ad Arles, nella speranza di costruire assieme a lui una solidarietà profonda di pensieri, affetti, lavoro, ma col quale l´incipiente malattia mentale non gli aveva consentito di trascorrere serenamente che poche settimane. Non basta l´auto mutilazione all´orecchio che, per espiare, s´impone: poco dopo le ansie e la depressione lo convincono a farsi internare a Saint-Rémy. Qui i medici, nell´estate del 1889, dopo un´ennesima crisi, gli fanno togliere i colori a olio, con i quali temono che s´avveleni. Dura forse solo qualche settimana, questo provvedimento; ma certo esso dà a Van Gogh la misura del suo stato: che egli allegorizzerà pochi mesi dopo nel Cortile della prigione, un´opera - in mostra oggi a Vienna - tratta da un´incisione di Gustave Doré (Vincent s´era fatto inviare in ospedale da Theo la sua collezione di stampe, per poterne trarre ispirazione nell´assenza di un libero contatto con la natura), in cui una lunga fila di carcerati camminano in circolo, fra alte incombenti mura, durante la loro ora d´aria.
Ebbene, è durante questo tempo in cui anche la possibilità della pittura gli è tolta che nascono tre grandi fogli, due attualmente conservati al museo Van Gogh di Amsterdam, l´altro al Metropolitan di New York, che quasi basterebbero da soli a giustificare la mostra odierna. Raffigurano i luoghi dell´ospedale, il Vestibolo, un Corridoio, e La finestra nello studio (una stanzetta che gli venne assegnata per dipingere). Le linee tracciate sommariamente con il gessetto nero rinserrano pochi, pallidi, smunti colori: ocra in gamma ristretta, qualche verde, qualche grigio; «colori semplici», come aveva annunciato al fratello di voler tentare, poco innanzi. Nulla, in questi fogli che sembrano un testamento, richiama il vortice orgoglioso di materia, gli scoppi cromatici, il vento il sole o la pioggia dei suoi quadri più celebrati. Le nitide prospettive rinserrano il dolore di un animo che non può, adesso, sperare neanche quell´aria aperta in cui erano scoppiate le ultime, violente crisi. La vita si piega sulla pittura, come d´altronde è sempre avvenuto in Van Gogh - fino a smangiarne la forma, le preoccupazioni di lingua. E le inferriate che si scorgono oltre la finestra, oltre il davanzale dove s´allineano poche bottigliette e barattoli, miseri emblemi di una pittura che fu, hanno un bel dire le ultime esegesi tentate su questo piccolo gruppo di disegni, che non siano simboliche: dicono d´una esistenza che si spegne, proprio come tanto tempo dopo faranno le ultime nature morte di De Pisis, rinchiuso a Villa Fiorita, anch´egli a scontare la sua follia.
Sono questi i fogli che m´hanno più sedotto; ad altri potrà parere diversamente, e nella grande mostra di Vienna sceglierà allora i fogli finitissimi del periodo olandese, influenzati dalla malinconia di Israels o Van Rappard (Acquitrino con ninfee, il primo disegno esposto all´Albertina, del 1881, è già un capolavoro), o quelli di Drenthe, invasi da una luce lenta che ripensa la grande lezione di Millet; o quelli aspri di Nuenen, illividiti come un Dupré o un Daubigny, ma già con una carica fantasmatica da dir proto-simbolista (Covoni e mulino, 1885); o quelli di Parigi, dove Van Gogh giunge all´inizio dell´86, in tempo per amare l´impressionismo, e odiare le separazioni che laceravano il gruppo; o infine gli ultimi di Arles, dove il segno si frantuma in mille rigagnoli, e pullula ovunque, come impazzito, facendosi quasi interamente astratto: al di là, tanto al di là, di quella realtà che aveva disperatamente inseguito.