martedì 23 settembre 2008

Repubblica 23.9.08
L’incubatrice del razzismo
di Stefano Rodotà


Colonia, 20 settembre: divieto di una manifestazione razzista. Venezia, 15 settembre, esempi di oratoria all´annuale raduno della Lega: «Macché moschee, gli immigrati vadano a pregare e pisciare nel deserto» (Giancarlo Gentilini, che rivendica la primogenitura come "sindaco-sceriffo" d´Italia); «Non ci rompete più i coglioni con gli immigrati, vecchie facce di merda» (Mario Borghezio, parlamentare). Le storie parallele possono essere ingannevoli, e vanno maneggiate con cautela. Ma questo accostamento mostra il diverso senso di responsabilità di chi governa, dietro il quale vi è una diversa sensibilità delle opinioni pubbliche. Le parole dette a Venezia sono il segno d´un degrado pericoloso, e non del parlar schietto di cui i leghisti si vantano. Nella loro brutalità, dovrebbero aiutare a comprendere meglio che cosa sta diventando questo Paese. Il linguaggio anticipa, accompagna, spiega.
Invece, viene ormai ignorato (silenzio di quasi tutto il sistema dell´informazione sulla qualità dell´oratoria veneziana), mentre offre una traccia preziosa, seguendo la quale si chiariscono fenomeni che vanno ben al di là del mondo leghista.
1) La Lega e il territorio. I risultati delle ultime elezioni politiche ci hanno consegnato la Lega come vera vincitrice. E si è improvvisamente scoperto che la ragione forse più importante del suo successo sta nel rapporto che i leghisti e i loro amministratori hanno saputo stabilire con il "territorio". Da qui molte considerazioni: non è vero che servono soltanto partiti "leggeri"; non è vero che tutto può essere affidato alle pure strategie comunicative; non è vero che i cittadini possono essere considerati solo come carne da sondaggio; non è vero che l´amministrazione oculata non paga. Indicazioni in sé importanti, se non altro perché mostrano come non esista solo il modello berlusconiano di raccolta del consenso, e dunque la vanità e l´insensatezza della corsa verso una indistinta postmodernità che consegnerebbe i partiti "popolari" soltanto all´archeologia politica (altra cosa, evidentemente, sono le tecniche nuove di costruzione d´un partito popolare nel terzo millennio). Ma l´esperienza e il successo leghista sono fatti anche di altre cose, esattamente quelle che danno radici locali agli spiriti che i leader affidano, e non è la prima volta, alle alate parole citate all´inizio. Non siamo solo di fronte ad una esasperazione dell´intolleranza. Si sta costruendo anche un territorio in senso "etologico", rispondendo appunto a quell´"imperativo territoriale" di cui parlava Robert Andrey, che spinge molte specie a marcare confini, invalicabili anche se fisicamente invisibili, all´interno dei quali nessuno può penetrare e, se lo fa, scatta istintivamente una reazione anche violenta. Andate altrove, ripetono ossessivamente i leghisti all´"altro" - immigrato, rom, omosessuale - riprendendo (inconsapevoli?) i paradigmi terribili del razzismo. Su questo s´innesta una identità esasperata che, in molte situazioni, diviene il più forte collante sociale. Di questo fenomeno profondo, di quest´idea premoderna impastata di terra e sangue, regressiva, lontanissima dal modo in cui i partiti popolari storici avevano costruito il rapporto con il territorio, vogliamo riconoscere l´esistenza, discuterne seriamente e mettere a punto strategie politiche per contrastarlo?
2) Un Paese mitridatizzato. Se questo non avviene, è perché si è creata nel tempo un´abitudine, un´assuefazione, in definitiva una rassegnazione. Uno storicismo da quattro soldi induce a pensare e ad agire registrando un successo della Lega di cui non resterebbe che prendere atto realisticamente. Di fronte a questo dato dovrebbe tacere la lotta politica, quella vera, che va alle radici culturali e sociali dei fenomeni. Ecco, allora, le debolezze delle varie sinistre, che si sono mosse senza essere capaci di sciogliere l´intreccio tra la nuova dimensione del localismo, ben individuata dalla Lega, e una serie di manifestazioni che non possono essere derubricate come folklore. A questo si è aggiunta la narrazione berlusconiana, che va avanti da anni e che, quali che siano le "intemperanze" di Bossi e dei suoi, blandisce, rassicura, ammicca, dice che in fondo sono ragazzate che avranno un epilogo rassicurante nelle bicchierate del lunedì ad Arcore. Si coglie qui una furberia politica ed un messaggio rassicurante. Vi garantisco che la Lega può essere addomesticata, che i leghisti non impugneranno mai i fucili di cui parlano. Si legittima così la politica della Lega in tutte le sue manifestazioni che, proprio perché appaiono paganti, finiscono per divenire un modello per alleati e concorrenti. Inoltre, fino a quando la Lega continua ad esibire anche questa faccia, finisce in qualche modo con il dipendere dalla mediazione, politica o personale, di qualcun altro. Ma, in questo modo, nulla si fa per arrestare il degrado civile, l´involgarirsi generale del linguaggio che rivela l´abbandono di criteri fondativi della democrazia, l´eguaglianza e il rispetto della dignità delle persone in primo luogo. E non è soltanto la Lega a portare la responsabilità della situazione che si è determinata.
3) Europa. Altri Paesi hanno conosciuto fenomeni simili ma, per intelligenza politica e consapevolezza culturale, hanno fatto in modo che potessero essere circoscritti. Questo spiega l´attenzione preoccupata dell´Unione europea per una serie di vicende italiane: assistiamo all´accelerarsi di dinamiche politiche e sociali che rendono evidenti non il rischio, ma la realtà di pratiche discriminatorie e di vere e proprie aggressioni razziste. La risonanza europea di quel che sta accadendo non può essere attenuata esibendo qualche modifica di norme inizialmente più aggressive. È il contesto che, giustamente, inquieta. Vi è una preoccupazione delle istituzioni europee per il modo in cui le norme vengono concretamente applicate, e permangono i giudizi negativi sull´aggravante prevista per i reati commessi dagli immigrati. Una delegazione della Commissione per le libertà pubbliche del Parlamento europeo ha appena concluso una sua visita in Italia proprio per acquisire direttamente elementi per valutare la situazione dei rom. L´Agenzia europea per i diritti fondamentali ha pubblicato un rapporto sull´assalto al campo rom di Ponticelli. Da qui vengono le contestazioni a rappresentanti del Governo italiano nel corso di una conferenza a Bruxelles: e i nostri diplomatici, invece di levare inutili proteste, dovrebbero aiutare il Governo a comprendere le reazioni europee, il clima che ormai avvolge le politiche italiane in materia di immigrazione, e non solo.
4) Immigrati buoni e cattivi. Questa distinzione ricorre continuamente nelle discussioni, per mettere in evidenza che le politiche ispirate alla sicurezza pubblica non devono essere temute da chi è venuto nel nostro paese con buone intenzioni, e qui lavora e si comporta correttamente. Ma chiunque conosca la realtà di molte prefetture e questure, delle modalità dei controlli di polizia, sa che troppo spesso le cose vanno in modo diverso. Mi riferisco ai casi in cui è certo che ci si trova di fronte ad immigrati regolari, a situazioni in cui non esiste alcun pericolo. Molte volte, parlando con immigrati regolari alle prese con le estenuanti e inutili trafile per i continui rinnovi del permesso di soggiorno, ho sentito questa frase: «ci trattano come animali». Vorrei che il ministro Maroni impartisse disposizioni severe perché ogni persona venga rispettata, soprattutto quando si trova nella condizione di non poter nemmeno protestare, non dico abbozzare una reazione. No, allora, alle urla, agli atteggiamenti intimidatori, all´uso del tu come se ci si rivolgesse ad esseri inferiori, agli apprezzamenti sui tratti del viso o sulle donne, all´insofferenza verso qualsiasi richiesta di spiegazioni. Lì, in quei luoghi, l´immigrato incontra lo Stato. Solo se lo vedrà accogliente riuscirà a rispettarlo.
5) Razzismo? La parola spaventa, ma dev´essere pronunciata. Di fronte a vicende drammatiche, e spaventosamente eloquenti, ecco subito l´esorcismo: Milano non è razzista, Roma non è razzista e via elencando paesi e città. Che cosa vuol dire? Vi è una specie di immunizzazione territoriale per cui qualsiasi cosa accada in certi luoghi il contagio razzista è impossibile? Sappiamo che non è così. I razzisti sono tra noi, non in Italia soltanto, ma noi dobbiamo chiederci se stiamo facendo abbastanza non solo per combatterli, ma per evitare che si sentano i veri rappresentanti del tempo.

l’Unità 23.9.08
Il Paese dei «negrazzi»
di Ulderico Pesce


Gli scarti umani mitragliati a Castel Volturno; Abdul ucciso con i biscotti nella mano sinistra a Milano, che se avesse mangiato con la destra l’avrebbero lasciato in pace. Chi sono «questi negrazzi di merda»?
Questi negrazzi erano su quel barcone. Ne partirono 100 dalla Libia con un sogno: l’Italia. Il viaggio doveva durare poche ore ma il motore si inceppò e allora ne passarono 17 di giorni.
La guardia costiera portò quel barcone davanti alla capitaneria di porto di Lampedusa. I clandestini rimasti vivi erano sette, i morti 93. Una diecina di corpi senza vita erano ancora là sul barcone, Abdul disse che li avevano usati per riempire il fondo dello scafo pieno d’acqua così la notte si stendevano sui morti, all’asciutto.
Il barcone fu lasciato a due passi dal ristorante «Il saraceno», dove i sette negrazzi videro la proprietaria del ristorante, vestita di verde, che urlava: «A casa vostra dovete andare». Angela Maraventano, raccoglieva firme per portare Lampedusa nella provincia di Bergamo. Oggi è senatrice per la Lega Nord.
Dopo mesi di torture nei Cpt, i negrazzi si sparpagliarono per l’Italia. Abdul era stato rinchiuso nel Cpt di Modena dove per ogni clandestino lo Stato spende circa 100 euro al giorno, manco fosse un tre stelle e poi ne tengono dieci in ogni stanza. È caro come hotel ma il presidente è il fratello dell’ex ministro Giovanardi. Gli altri sei ragazzi furono rinchiusi nel Cpt Regina Pacis di San Foca vicino a Lecce dove don Cesare Lo Deserto gli dava calci e pugni e li costringeva a mangiare carne di maiale solo perché erano musulmani.
I sei scarti umani scappati dalle grinfie del prete se ne andarono a Castel Volturno. Assoldati da caporali del clan dei Casalesi cominciarono a raccogliere pomodori a due euro all’ora abitando in casoppole senza luce e senza bagno. Dopo qualche anno cominciarono a lavorare nell’edilizia, sempre per il clan. Partenza all’alba, ritorno a notte fonda. Guadagno: venti euro al giorno. Ma le cose che più disgustavano i sei negrazzi erano due, la prima, che dovevano costruire delle case abusive, sul lungo mare, orrende: colonne doriche in cucina, vasche da bagno nelle camere da letto... Ai sei quelle costruzioni non gli andavano proprio giù. Erano negrazzi d’accordo, ma i loro nonni avevano scolpito le maschere africane che facevano impazzire Picasso, e che una mattina, rivoluzionò la pittura proprio grazie a quelle maschere.
La seconda cosa che dava fastidio ai sei era che il capo cantiere li chiamava sempre «negrazzi di merda». Uno di loro, Alaji, il ghanese, ci piangeva. Gli altri cinque ci ridevano sopra. Erano più mortificati dalle case di merda che dovevano costruire. Nessuno dei sei si era mai drogato, mai spacciato, solo uno, Samuel, qualche volta si era fatto una canna con Peppe Letizia detto ò stuort.
All’epoca delle canne, Peppe ò stuort, nel clan dei Casalesi contava poco. I capi erano Sandokan, Cicciotto Mezzanotte e altri, poi però le cose cambiano, arrivano i nuovi e allora oggi Peppe ò stuort conta parecchio, è uno dei capi e non si farebbe più una canna con Samuel ma se la farebbe magari con il sottosegretario Cosentino. Insomma i sei negrazzi hanno fatto per anni i manovali in cambio di niente, assoldati da costruttori affamati di soldi, appoggiati da politici affamati di potere, circondati da gente indifferente pronta ad emarginare i «negrazzi di merda». E come sa essere razzista un certo Sud dell’Italia lo si può sapere solo abitandoci. I sei, l’altra sera erano davanti ad una sartoria a Castel Volturno, gestita da sarti neri, dove si aggiustano vestiti per neri e dove, quando nonna Immacolata si va a riprendere il cappottino che fa rattoppare ogni anno, si pitta la faccia di nero con il sughero affumicato per non farsi riconoscere. Ed è proprio la signora Immacolata che ha capito perché sono stati uccisi i sei ragazzi e lo racconta al telefono a suo figlio: «È quasi distrutto il clan dei Casalesi, ma lo Stato non è sceso, e mò la Campania è rimasta senza clan e senza Stato. E allora al nuovo clan, serve stabilire chi comanna, un’azione forte, sparare co le mitragliatrici come nei film, sparare per pubblicità e vedere assai sangue al telegiornale. E chi si spara? Si sparano scarti umani, indifesi, negrazzi di merda, ce ne sono 11mila irregolari qui».
Il figlio malavitoso, dal tir che porta tonnellate di arsenico dal Nord su un terreno agricolo a due passi da Castel Volturno: «Mà, t’voglio bene, ma fatt’i cazzi tuoi». E getta il cellulare sul cruscotto che finisce dietro Padre Pio appiccicato al parabrezza.
Forse la senatrice aveva ragione, era meglio se tornavano al paese loro. Magari morivano solo di fame.
Ma Abdul, il settimo negrazzo?
Scappato dal Cpt prima andò a raccogliere mele nel Nord Est, poi arrivò a Milano dove è stato venditore di borsette, distributore di giornali, addetto alle pulizie in un albergo, sempre al nero. E proprio in questo albergo si era innamorato di una calabrese che rifaceva le camere, Maria, che va pazza per i biscotti "pan di stelle". L’altra settimana erano tutti e due al parco su una panchina quando un furgone carico di biscotti miracolosamente ha aperto le porte. Abdul si era alzato per Maria, era una sorpresa per lei che era rimasta ad aspettarlo sulla panchina. L’hanno ucciso con le spranghe i padroni dei biscotti al grido che si espande in tutt’Italia: «Negrazzo di merda».
Per molti Abdul è morto come un fesso per un pacco di biscotti. Per pochi altri Abdul è morto da eroe. Voleva i biscotti per Maria.

l’Unità 23.9.08
«Razza Padana» di Signore e Trocino: storia e origini del Carroccio tra populismo, folklore celtico e venature razziste. In nome della sicurezza contro neri, musulmani e nomadi
Tutti i nemici della Lega: da Bingo Bongo alle moschee
di Federica Fantozzi


La Lega degli Uomini Spaventati ha sempre bisogno di un nemico, e in un quarto di secolo ne ha trovati molti.
Negli anni 80 erano i neri, i «Bingo Bongo» venuti a rubarci gli alloggi, le nigeriane disinfettate da Borghezio sui treni della notte, le katanghesi dallo stesso «provate» con soddisfazione: «Un prodotto locale notevole». Il decennio successivo ecco la correzione di tiro: lo straniero impossibile da assimilare, lo spauracchio dell’Occidente diventa l’Islam. Due gli spettri: il proselitismo dei musulmani unito alla loro prolificità e il terrorismo internazionale.
Ma se l’11 Settembre è il D-Day della Lega Globale, gli anni recenti riportano le camicie verdi in ambito glocal. L’ultimo avversario è «il fattore campi rom» da declinare come insicurezza domestica, lucchetto al garage e mano sul portafoglio in metro. Vedi alla voce ronde, «barachine» sotto i cavalcavia, paura per i propri bambini. L’evoluzione porta al Carroccio degli amministratori locali, annacquato tra destra e sinistra, forte di un territorio da amministrare e di cittadini da proteggere.
La Lega insomma è razzista? Ai lettori (e agli elettori) l’ardua sentenza scorrendo le pagine di Razza Padana, il saggio scritto per Rcs da Adalberto Signore e Alessandro Trocino, giornalisti rispettivamente del Giornale e del Corriere. Origini, storia e assalto al potere del movimento federalista. Un florilegio degli umori padani, delle voglie di secessione, del populismo in salsa celtica, dei voti in fabbrica strappati alla sinistra, del cattoleghismo e della nuova Emilia verde.
Ecco il paradosso: l’Istat disegna l’Italia come «il Paese più sicuro in Europa», un forte calo di scippi e furti, omicidi scesi dal 13,1 per milione di abitanti del 2000 al 10,3 del 2005. Eppure, scrivono i due autori, «la Lega è il partito che più di ogni altro regge la fiaccola dell’insicurezza. Promette mano dura, inflessibilità, si allea con i cittadini per difenderli dai criminali». La ricetta, come abbiamo visto, cambia.
Si comincia con il rivolgersi ai lumbard per un aiuto contro «l’invasione nera»: una massa d’urto che «nell’immaginario padano rischia di travolgere il Nord, di minarne la cultura, di corromperne le tradizioni». È l’epoca di Bossi su Radio Padania: «C’è gente che ha lavorato una vita e non ha la casa e noi la diamo al primo Bingo Bongo che arriva?». Di figure ormai sbiadite come Erminio Boso secondo cui «per i negri bisognerebbe usare pallottole di gomma» e «prendergli le impronte dei piedi» per «risalire ai tracciati particolari delle tribù».
Sua la teoria del rimpatrio a bordo di Hercules 130 anziché aerei di linea: «Così non possono violentare le hostess, e va bene che certe sono porcellone e ci provano gusto, e poi puzzano... ma con una bella pompa li annaffiano, e vengono forniti di paracadute così in zona loro si apre il portellone e zac». È il periodo della caccia «al leprotto» dello sceriffo Gentilini, dei «Pelli Oliva» via dalle panchine.
Poi la virata: il «mamma li turchi» con il cavallo di Troia dei ricongiungimenti familiari, la campagna contro le moschee.
Nel 1993 i leghisti manifestano contro la costruzione di un centro di culto islamico a Lodi. «L’Islam moderato non esiste» spiega il capogruppo Gibelli. L’uomo immagine è Calderoli: deve dimettersi da ministro dopo che la sua maglietta blasfema è costata 11 morti in Libia, passeggia per Bologna con suino al guinzaglio per «infettare» il terreno, chiama Rula Jebreal «signora abbronzata».
Ma nel 2008, secondo l’Osservatorio sociale sull’Immigrazione, un italiano su tre è contrario alle moschee. È l’anno in cui le ronde vengono sdoganate a sinistra: «Con un opportuno restyling semantico diventano volontari per la sicurezza, cittadini vigilanti, assistenti civici». A Opera, la battaglia contro il campo nomadi fa volare la Lega dal 4,7 al 12, 4%. Il Pd del Nord tentenna. Il presidente della Provincia Penati chiede lo sgombero: «Ripartirli? No, farli ripartire. Non sono i Gipsy Kings».
Allora la Lega è razzista? Forse ha ragione Giorgio Bocca: «Il suo non è altro che il razzismo degli italiani, che non c’è finché non ci sono i diversi o sono turisti di passaggio, che affiora quando gli immigrati superano il 7%, che esplode se la convivenza diventa conflitto d’interessi».

l’Unità 23.9.08
Leopardi antropologo. l’Oriente oltre la siepe
di Antonio Prete


IL CONVEGNO La scrittura del poeta muove spesso da una prospettiva antropologica, che si affida di volta in volta all’altro, all’antico, o al lontano... come accade per i versi orientali che scorrono nella sua lingua. È l’inzio di una nuova stagione di studi leopardiani? Forse sì...

A Recanati quattro giorni con studiosi di tutto il mondo
Torna a Recanati, dopo quasi un decennio, un grande convegno internazionale organizzato dal Centro Nazionale di Studi Leopardiani. Da oggi a venerdì si discuterà su La prospettiva antropologica nel pensiero e nella poesia di Giacomo Leopardi. Aprirà il convegno, nell’aula Magna del Comune, Antonio Prete con un intervento su «Nomadismo dello sguardo e pensiero dell’alterità. Sull’antropologia poetica di Leopardi». A seguire Pietro Clemente («Comparazioni immaginative: Leopardi preantropologo»), Ernesto Miranda («Sulla natura degli uomini. Leopardi e l’antropologia filosofica»), Gilberto Lonardi («Prima della scrittura: il “qualunque”, il lontano, il canto con le ali del pastore dell’Asia»), Perle Abbrugiati («Se ben vi si guardasse. La critica leopardiana del pensiero a priori, tra filosofia e antropologia»). E ancora Marco Moneta («Dal bosco a civiltade. Antropologia e storia in Leopardi»), Alessandra Aloisi («Esperienza del sublime e dinamica del desiderio in Giacomo Leopardi»), Gilda Policastro («La ragion perché i morti ebber sotterra.... Per un’antropologia dell’Ade»). Nei giorni successivi interverranno, tra gli altri, Jean-Charles Vegliante, Joanna Ugniewska, Nicola Feo, Giulio Ferroni, Sebastian Neumeister, Massimo Natale, Michael Caesar, Gaspare Polizzi, Stefano Biancu, Maurizio Bettini, Gianni D’Elia, Alberto Folin, Marino Niola.

Il convegno che si apre oggi a Recanati ha per tema La prospettiva antropologica nel pensiero e nella poesia di Giacomo Leopardi. Per quattro giorni studiosi non solo italiani, e appartenenti a generazioni diverse, si incontreranno intorno alla grande esperienza di colui che della modernità ha colto, con straordinaria passione critica, il gioco delle maschere, il dominio dell’opinione e del danaro, le forme di astrazione e di violenza, la dimenticanza del «poetico», e dunque del vivente e corporeo, la trama resistente dell’egoismo e gli stili di sopraffazione.
Questo convegno, proposto dal Centro nazionale di studi leopardiani (ora rinnovato nel suo Comitato scientifico, diretto da Lucio Felici, e con la nuova presidenza del sindaco di Recanati, Fabio Corvatta) è dedicato alla memoria di Franco Foschi, che per vent’anni del Centro studi è stato Presidente attivissimo e solerte.
Nella grande Sala del Palazzo comunale di Recanati - inaugurata nel 1898 con una prolusione leopardiana di Carducci - si succederanno letture e interpretazioni: il vero soggetto della scena sarà, dunque, la scrittura leopardiana. Con la sua distanza da ogni sistematica e dottrinaria postura. Con le sue variabilissime forme (il testo poetico, il frammento teorico, il dialogo, il saggio, la lettera, l’indagine filologica, la traduzione). Con la sua libertà inventiva, che sempre prelude e domanda e mai si acquieta. Con la sua singolare capacità di unire meditazione e canto, interrogazione sul tragico dell’esistenza e invenzione poetica.
I convegni leopardiani a Recanati hanno scadenza quadriennale: per qualche giorno, nella città di vento e di pietra, dove la luce giunge, da una parte, dal mare, e dall’altra, dalla sconfinata onda collinare, accade che gli incontri di studiosi e le discussioni diano origine a solide amicizie intellettuali e anche a concreti progetti di ricerca. Molto devono gli studiosi a quegli incontri (quanto alla mia esperienza, tra tanti nomi, voglio fare quelli di Cesare Luporini e di Giuseppe Pacella).
Questo convegno cade in un momento in cui la presenza di Leopardi nelle diverse lingue appare consolidata nel solo modo per dir così duraturo, cioè attraverso le traduzioni, le edizioni, i commenti. Da pochi anni, presso Allia, è uscita l’edizione francese di tutto lo Zibaldone, nella traduzione di Bertrand Schefer. Le edizioni Allia - quasi in analogia a quello che in Italia hanno fatto Boringhieri per Freud e Adelphi per Nietzsche - hanno tradotto quasi tutto Leopardi: l’anno scorso è uscito l’intero Epistolario, nella bella traduzione di Monique Baccelli. È ora in corso la traduzione inglese dello Zibaldone, affidata a un’équipe diretta a Birmingham da Mike Caesar e Franco D’Intino. E il progetto di una traduzione spagnola dello Zibaldone sta per muovere i primi passi in Spagna, a cura di Blanca Muñiz che aveva già tradotto e commentato i Canti.
Tornando al tema del convegno, si potrebbe dire che nelle rappresentazioni dell’antico, della sua poesia, dei suoi miti, nella ricerca assidua intorno ai modi della civilizzazione, nello sguardo sui rapporti che intercorrono tra individui e nazioni, tra popoli e lingue, la riflessione di Leopardi muove spesso da una prospettiva antropologica. Anzi quella prospettiva per molti aspetti inaugura o contribuisce a definire. Ma, come accade per il rapporto tra filosofia e poesia, anche per il rapporto tra antropologia e poesia, ogni distinzione di genere è destinata a naufragare: lo sguardo antropologico, cioè quello sguardo capace di dislocarsi ogni volta nel punto di vista dell’altro, o del lontano, o dell’antico, o del fanciullo, o del cosiddetto primitivo, non si fissa in nessuna forma disciplinare o di sapere precostituito, e si affida di volta in volta alla narrazione, al dialogo, al frammento, al ritmo della poesia. Se le forme di questo sguardo hanno qualche precedente, esso va cercato nella capacità di incantamento degli antichi, nella grande tensione comparativa di Vico - nella sua genealogia della conoscenza -, nell’affabulazone critica di Montaigne, dei suoi Essais.
Per Leopardi la disposizione etnografica negli studi adolescenziali - dalle Dissertazioni filosofiche alla Storia della astronomia al Saggio sopra gli errori popolari degli antichi - non è mai abbandonata, e l’interesse per le rappresentazioni di culture e popoli lontani trascorre in molti passaggi dello Zibaldone. Singolare è, in questo senso, l’attenzione alle cronache del Nuovo Mondo. Non solo è criticata in più occasioni la «pretesa perfezione» della nostra civiltà, la quale sulla miseria dei molti fonda il benessere dei pochi, ma è rifiutata l’opposizione tra barbarie e civiltà («E generalmente noi chiamiamo barbaro quel ch’è diverso dalle nostre assuefazioni ecc.» ). Ed è rovesciato il senso delle immagini che gli europei hanno dei «Californi»: in analogia a quanto aveva fatto Montaigne nel saggio su Les Cannibales, a proposito dell’idea europea di sauvage, idea riportata alla sua vera radice, cioè intesa come relazione spontanea con la natura, sottratta dunque all’opposizione con «civilizzato».
Per Leopardi non solo il lontano, ma anche il vicino è oggetto di un’attenzione antropologica: va ricordato il rilievo che il poeta dà alle tradizioni popolari, in particolare a quelle marchigiane, al loro rapporto con l’oralità, il canto, la musica, la poesia.
Racconto fantastico dell’etnos e critica della civiltà, delle sue credenze, si uniscono nelle Operette morali: dalla Storia del genere umano alla Scommessa di Prometeo al dialogo della Moda e la Morte al Tristano il sapere della civiltà mostra la sua astrazione dal corpo, dai sensi, dal desiderio. E si dovrebbe ancora dire, nell’orizzonte di un’antropologia critica, del particolare orientalismo di Leopardi, di fatto assai poco studiato sino ad oggi. L’Oriente è per Leopardi una figura dello sguardo. Un principio di alterità. Da assumere come soglia per la critica. Ha la stessa funzione che ha la lontananza. Ci sono, nella scrittura leopardiana, passaggi rilevantissimi su un’idea di poesia «orientale» - accesa, piena di vita e di immaginazione, fortemente metaforica -, sulla poesia biblica e l’Oriente, sugli alfabeti orientali e il loro rapporto con le vocali, intese come le vere animatrici «di tutta la favella», e che di fatto scorrono in tutto il corpo della lingua «come il sangue per le vene degli animali». La stessa antropologia del male, quando nello Zibaldone si dispiega come meditazione sul «Tutto è male», è affidata allo sguardo di «un filosofo antico, indiano...».
L’origine, poi, della poesia, è osservata nella relazione tra memoria, oralità e canto. L’idea della radice musicale e popolare della poesia, del rapporto tra la voce e il ritmo, tra l’oralità e il verso non abbandonerà mai Leopardi e mostrerà del resto i suoi riflessi nella stessa poesia dei Canti. In particolare il Canto notturno di un pastore errante nell’Asia raccoglierà i tanti motivi fin qui esposti (l’occasione stessa di quel canto è dovuta, si sa, a una notizia antropologica sui canti lunari e malinconici dei nomadi Kirghisi).
E si dovrebbe ricordare lo studio leopardiano, nello Zibaldone, sul ruolo che ha l’assuefazione nella formazione delle opinioni, del gusto, e nelle rappresentazioni dell’altro. E ancora: lo studio della lingua e delle lingue dal punto di vista dei rapporti tra le culture, i popoli, i caratteri nazionali. La comparazione tra la società italiana - usanze, convenzioni, caratteri, uniformità, morale pubblica - e le società di altre nazioni «civili», così come appare nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani. Infine la riscrittura dell’idea di animalità, di linguaggio e pensiero animale, come prende forma al margine della lettura dell’Histoire naturelle di Buffon. Tutti motivi che il convegno recanatese esplorerà, avviando, c’è da augurarsi, una nuova stagione di studi leopardiani.

Repubblica 23.9.08
Testamento biologico
Le reazioni all'"apertura" della Cei
di Michele Bocci


Il neurologo del caso Englaro: escludere dalla normativa il capitolo-nutrizione vorrebbe dire fare una legge vuota

"Cibo e acqua, il malato deve poter rinunciare"

ROMA - L´alimentazione e l´idratazione dei malati immobilizzati sono cure mediche, e il paziente può rifiutarle. Nel mondo medico le reazioni alle parole del cardinale Bagnasco sono pressoché unanimi. A partire da Lorenzo D´Avack, vicepresidente del Comitato nazionale di bioetica, organismo nominato dal presidente del Consiglio, tutti si appellano alla comune definizione scientifica di nutrizione artificiale. «Dire che si tratta di un intervento di base condiviso da tutto il mondo medico mi sembra discutibile - dice il bioeticista - dal momento che la stessa Oms riconosce tali trattamenti come interventi medici, che quindi richiedono il consenso del paziente. Io credo che una persona abbia il diritto, sotto il profilo costituzionale, di rifiutarli». Dello stesso parere Carlo Alberto De Fanti, neurologo che ha cura Eluana Englaro, che aggiunge: «Una legge sul testamento biologico che escludesse la nutrizione sarebbe vuota, addirittura un passo indietro rispetto ad oggi. Del resto la Cassazione esprimendosi sul caso Englaro ha definito l´alimentazione un intervento sanitario». Il medico di Piergiorgio Welby, Mario Riccio, aggiunge che la legge «la vogliono fare per limitare il testamento biologico, per burocratizzarlo. Come hanno per con la fecondazione assistita, che con la legge è stata limitata». Sulle stesso posizioni l´Associazione Luca Coscioni. «Per nutrire e idratare quelle persone bisogna fare un intervento invasivo, dunque medico - spiega Alessandro Capriccioli -. E comunque sia, per assurdo, se anche ci trovassimo di fronte ad azioni non mediche non si capisce come mai la persona che deve subirle non può rifiutarle». Dalla Società italiana di nutrizione artificiale e metabolismo (Sinpe), Maurizio Muscaritoli spiega che non bisogna confondere «l´alimentazione con la nutrizione artificiale, che è la somministrazione di nutrienti, attraverso una via di accesso artificiale, a persone alle quali è preclusa l´assunzione di alimenti per la via naturale».
Il deputato Pd Enzo Carra sostiene che «le indicazioni del presidente dei vescovi italiani devono essere considerate con molta attenzione. Sono infatti un´apertura a una legge di cui non si può più fare a meno». Il suo collega del Pdl Benedetto Dalla Vedova aggiunge che «le parole del cardinal Bagnasco sono meritevoli di attenzione ma il Parlamento deve affrontare la questione senza pregiudizi, considerando le posizioni espresse dalla comunità medica e scientifica, la consapevolezza dell´opinione pubblica e i testi già prodotti in sede parlamentare».

Repubblica 23.9.08
I misteri delle donne
Due o tre cose che non so delle donne
di Pietro Citati


Per secoli sono state tenute lontano dai libri e tuttavia non esecrano la letteratura. Nutrono per i libri un desiderio appassionato

I misteri dell´universo sono infiniti. Non vorrei parlare dei grandi misteri: Dio, il big bang, il Male, il tempo, l´evoluzione; in primo luogo perché non è argomento da giornali, e poi non ne so nulla. Ma di un piccolo mistero, che gli uomini di sesso maschile contemplano ogni giorno, e contro il quale talvolta si scontrano: le donne.
Mi ha sempre colpito la differenza dei rapporti femminili con il tempo e lo spazio. Di solito, la donna ha una relazione buonissima con il tempo, sia pure non cronologico: distingue gli anni, i mesi, i giorni, i minuti: coglie l´atmosfera, il colore e il profumo di ogni istante di vita: ricorda i vestiti, i golf, le scarpe, i costumi da bagno, i cappelli portati durante la propria esistenza: vibra e cambia col passare dei minuti; e difficilmente sa dimenticare il passato. I maschi non posseggono questa sensibilità molecolare per il tempo, e si muovono con meraviglia e goffaggine in questa dimensione che non capiscono, o che capiscono soltanto leggendo Anna Karenina e La signora Dalloway.
In compenso, la donna non ha sovente nessun senso dello spazio. Non sa leggere una carta geografica, né una carta stradale, o un orario ferroviario. Se camminate per Roma o Milano, state attenti a non chiedere informazioni ad una di loro: vi manderà certamente in un luogo sbagliato. Per tre anni ho preso di continuo il treno da Monaco di Baviera a Roma: mia moglie è convinta ancora oggi che passi per Milano e non per Verona. Forse una donna, che capisce mirabilmente la molteplicità del tempo, non comprende la molteplicità dei luoghi. Conosce il luogo dove passeggia in questo momento: per lei, il resto del mondo non esiste, o è nascosto da una nuvola grigia. Ma quando arriva in un luogo, lo possiede con la mente: la sua attenzione è spasmodica. Osserva ogni particolare: conosce ogni pietra di via Montenapoleone o di corso Venezia o di via Condotti o di qualsiasi altra strada e piazza le interessi.
Per secoli le donne sono state tenute lontane dai libri, come dalle navate centrali delle chiese cristiane; e qualcuno potrebbe credere che esecrino la letteratura. Invece nutrono per i libri un desiderio e una nostalgia appassionati. Cacciate o chiuse o auto-rinchiuse nei conventi, hanno creato una meravigliosa letteratura mistica, sprofondandosi nell´abisso di Dio, o trasformando Cristo in un corpo vivente accanto al loro, o nel loro stesso corpo. Se volete cogliere la differenza tra la sensibilità di una donna e la superficialità di un maschio, leggete le lettere tra Eloisa ed Abelardo, dove la debolezza del filosofo si annulla davanti all´ardore e alla verità della monaca.
Quando sono stati aperti i salotti, con quale finezza le padrone di casa studiarono i sentimenti, le sfumature e le contraddizioni che occupavano il cuore dei loro invitati. Mentre incideva aforismi col bisturi, La Rochefoucauld aveva sempre una donna accanto a sé. Nel diciannovesimo e ventesimo secolo, la lirica, il romanzo e il racconto sono state il terreno naturale dove le donne, da Jane Austen a Flannery O´Connor, sono cresciute. Quanto alla filosofia, le donne evitano, di solito, la forza e lo schematismo del "sistema". Ma, in Virginia Woolf e Simone Weil, la mens non è meno intensa di quella dei filosofi di professione. Entrambe posseggono un dono rarissimo: il coraggio dell´estremo.
Nei monasteri e negli studi, le donne non hanno mai rivelato un istinto pittorico così straordinario. Quando parlano o scrivono, posseggono una sensibilità sottilissima per i colori, le forme e i profumi, che di rado concentrano in un quadro. Le loro mani orchestrano bellissimi mazzi di fiori, ma rifiutano di usare il pennello e di fondere i colori sulla tavolozza. Vermeer non è una donna. Chardin non è una donna. I maestri dell´impressionismo sono maschi dalla foltissima barba. Eppure essi incarnano quanto di più femminile esiste al mondo: le stanze chiuse, le cose impregnate di luce, il riflesso degli argenti e delle vesti, una bambina col volano, i gatti, la fioritura delle ninfee sotto i cieli rosa che si riflettono nell´acqua rosa. Non ne capisco la ragione. Forse le donne amano il colore delle cose, e non quello dipinto: forse dipingere è, per loro, un´offesa all´immensa fantasia della natura.

Repubblica 23.9.08
Tentazioni
La capacità di non cedere all´istinto è un´arte che richiede applicazione, ma che migliora la vita Lo sostiene uno studio di New Scientist. Tra le scoperte il ruolo dei lobi frontali del cervello
Resistere si può, basta imparare
Le donne avrebbero maggiore controllo degli impulsi
di Paola Coppola


«Le cose più belle della vita o sono immorali o sono illegali, oppure fanno ingrassare», diceva il drammaturgo irlandese George Bernard Shaw. Il segreto della battaglia quotidiana contro le tentazioni potrebbe essere racchiuso in questa frase. È la fatica di resistere, di tenere lontano qualcosa che al tempo stesso attrae, la capacità di non cedere all´istinto.
L´autocontrollo, che premia a lungo termine con le scelte migliori, è «la chiave di una vita sana e felice» ed è una qualità che si dovrebbe imparare da bambini ma che, se manca da adulti, si può esercitare, migliorare. È quanto afferma il settimanale New Scientist che all´arte di resistere alle tentazioni ha dedicato un servizio che racchiude le più recenti scoperte sull´argomento.
Come quelle di Hugh Garavan, neuroscienziato del Trinity College di Dublino che, attraverso la risonanza magnetica, ha dimostrato che l´autocontrollo è un´attività che coinvolge soprattutto i lobi frontali del cervello, in particolare il lato destro. Un´area che continua a crescere e a modificarsi anche oltre i 20 anni: ecco perché, secondo il ricercatore, gli adolescenti provano piacere e gratificazione come gli adulti ma hanno una diversa capacità di tenere a freno gli impulsi.
Il controllo sulle emozioni, la capacità di perseguire un obiettivo come smettere di fumare, o di perdere chili seguendo una dieta sono diversi negli uomini e nelle donne. Differenze di genere che il gruppo di Garavan ha testato sui bambini a partire dai 4 anni di età. Risultato: le donne avrebbero maggiore controllo degli impulsi, un dato che, secondo il ricercatore irlandese, si spiega con le aspettative sociali ma anche con l´influenza degli ormoni sessuali sul cervello. Alle volte non basta dire "no", come suggeriscono alcune campagne contro il fumo o contro l´uso di droghe: il gruppo di ricercatori irlandesi ha scoperto che nelle persone che fanno uso di cocaina, le aree dei lobi frontali del cervello sono meno attive del normale. «È compromessa la capacità di tenere a freno tutti i tipi di impulsi», dice Garavan. «Dopo l´assunzione di cocaina l´attività cerebrale ritorna a livelli normali». E suggerisce: la ricerca sulle dipendenze che oggi si concentra soprattutto sui meccanismi del piacere e della gratificazione dovrebbe tenere conto anche dell´alterazione del controllo degli impulsi. Ma alle tentazioni si può imparare a resistere. L´area del cervello che si attiva diventa più efficiente con l´uso. Per Peter Gollwitzer della New York University per riprendere il controllo di se stessi bisogna partire con un piano semplice e dettagliato. E fissare un obiettivo alla volta. Raggiungerlo è il primo passo per migliorare l´autostima. I benefici si vedranno anche in altre situazioni, dice.

il manifesto 21.9.08
EDITORIA
Come uccidono la nostra libertà
Dopo la cancellazione per legge del «diritto soggettivo» e i tagli della Finanziaria, il governo vara un regolamento per ciò che resta dei finanziamenti pubblici all'editoria non profit. Norme aleatorie e vincolate alla «variabilità» dei bilanci. La stampa libera perde cittadinanza e diventa suddita
di Giancarlo Aresta


Mercoledì 17 settembre è stato presentata alle associazioni degli editori, ai sindacati e alle organizzazioni del settore una bozza del Regolamento, che - sulla base dell'art. 44 del Decreto Tremonti - definisce i nuovi criteri di erogazione dei contributi sia diretti che indiretti all'editoria. Erano presenti il sottosegretario con delega all'Editoria Bonaiuti, il ministro della Semplificazione Calderoli e il professor Masi, segretario generale alla presidenza del Consiglio e capo del dipartimento Editoria. Ne scriviamo solo oggi, perché c'è voluto un po' di tempo per riprenderci dal trauma di quell'incontro. Il settore è in una crisi profonda, che ha toccato oggi - dopo anni di utili assai alti - anche i grandi gruppi, colpiti dalla liquefazione delle vendite degli «allegati» (enciclopedie, libri e quant'altro), che per oltre 5 anni hanno rappresentato la droga dei loro bilanci, anche quando le vendite delle proprie testate scendevano. Ma di questo malessere nell'incontro non si vedeva traccia. Mentre era assai forte la tendenza a mettersi al servizio del nuovo «principe». Ma veniamo al merito. Per quanto riguarda i contributi diretti, il nuovo Regolamento cambia profondamente le vecchie norme legislative, ma va collocato all'interno della nuova norma, prevista dall'articolo 44 del Decreto Tremonti. In sintesi, non stabilisce i contributi, che i giornali cooperativi, non profit e di partito avranno, ma quanto gli spetterebbe se ci fossero i soldi (che fino a oggi non ci sono, o in ogni caso non bastano). Ed interviene anche sui criteri di erogazione degli indiretti. Rappresenta, insomma, il profilo virtuale del riparto delle risorse nel settore.

Meno diritti
Sui criteri di attribuzione dei contributi diretti, c'è un'operazione di semplificazione fortissima. Le testate ammesse riceveranno 2 milioni, purché non superino il 50% dei costi di testata, più 0,90 centesimi a copia, fino a 25 milioni di copie diffuse nell'anno (entro il limite massimo del 60% dei costi). Si tratta di una leggera tosatura (dal 4 al 7%) per la maggioranza dei quotidiani, mentre ha un esito molto diseguale, in specifici casi veramente pesante, sui periodici. Il limite dei 25 milioni di copie bastona tre testate, le più grandi, l'Unità, l'Avvenire e Libero (con quest'ultima, che lascerebbe sul campo oltre il 40% degli aiuti di Stato, che peraltro riceve a forza di espedienti). I giornali di partito vengono equiparati ai non profit (e questa è una cosa positiva), e perdono mediamente attorno al 15% Viene accolta una rivendicazione da tanto tempo avanzata da Mediacoop, che riteneva indecente che venisse permesso agli ex giornali di movimento politico (quelli ammessi negli scorsi decenni ai contributi in rappresentanza di fantomatici movimenti creati da un deputato e un senatore, norma poi cancellata) di continuare a percepire i contributi, se trasformati in cooperative, anche se non di lavoro. Domani anche questi dovranno avere almeno la metà dei giornalisti tra i loro soci, almeno la metà dei loro soci dipendenti, e fare entrare in cooperativa tutti i giornalisti dipendenti che ne facciano richiesta. Un fatto, che coinvolge, ad esempio, Il Foglio e Il Riformista , ma a cui sfugge Libero, che si è sottratto a questo rischio trasformandosi in quotidiano controllato da una Fondazione l'ultimo giorno in cui questo era possibile (da tre anni le Fondazioni non sono più ammesse ai finanziamenti, se non le preesistenti). Si passa, per attribuire le risorse, dal concetto di «tiratura» a quello di «distribuzione»: verranno cioè conteggiate non tutte le copie stampate, ma solo quelle diffuse nel circuito delle edicole o in quello della sperimentazione (supermercati, bar e altri negozi) o vendute in abbonamento. E anche questa dovrebbe essere un'indicazione positiva. E non si tiene conto, al fine dei contributi, delle copie vendute in blocco, che rappresentavano uno scandalo, perché permettevano ad alcuni editori di far risultare più alta la diffusione, con vendite di comodo a prezzi irrisori. Ma nello stesso tempo si abbassa di molto il parametro tra distribuzione e vendita (dal 25% al 15% per i giornali nazionali e dal 40% al 30% per i locali), che era e resta un requisito di accesso ai contributi, permettendo a molti 'amichetti' di rifarsi per le perdite subite: soprattutto ai giornali che stampano 4 o 6 pagine. Si fissano parametri di occupazione (altra richiesta «storica» di Mediacoop), ma sinceramente ridicoli per i quotidiani (almeno 5 dipendenti giornalisti o poligrafici, per chi dovrebbe ricevere 2 milioni di contributo). Mentre sono più rigorosi per i periodici, le radio e le agenzie.

Più pubblicità
Dulcis in fundo Si abolisce, in modo apparentemente incomprensibile, il tetto del 30% di entrate pubblicitarie sui costi. Ma se questa legge era nata per sostenere quelle testate, che avevano un carattere autogestionario e non profit, ma soprattutto erano discriminate sul mercato pubblicitario, che rappresenta circa le metà delle entrate di tutti gli altri editori? Si tratta di una spinta agli editori finanziati ad «andare sul mercato»? Non diciamo sciocchezze. È il mercato che discrimina i giornali politici e di idee, per quanti sforzi facciano e malgrado l'influenza seria che queste testate hanno sui loro lettori (dal manifesto all' Avvenire , dall' Unità a Liberazione o Il Secolo ). Pur avendo una grande forza di attrazione su di essi, non arrivano a toccare il 15%. Semmai può essere una valvola di sfogo per Libero , che recentemente ha visto crescere in modo esponenziale le entrate pubblicitarie (dai 4,788 milioni del 2006 agli 8,294 del 2007, pur in presenza di un leggero calo di vendite: da 28,099 milioni a 28,013), e che con un 'aiutino' potrebbe recuperare di qui ciò che perde per altra via. Sui contributi postali, c'è un'innovazione seria, che può produrre un risparmio significativo. Lo Stato si ripromette di smetterla di fare la parte del cretino, che - trattando a nome del più grosso cliente italiano: tutti gli editori di giornali e periodici, le forze politiche, le associazioni, il volontariato - concorda con le poste la tariffa piena, rispetto alla quale sostiene gli editori, pagandone il 60%. Chiede che le Poste italiane, che da società per azioni quale sono negoziano da 10 anni le tariffe con i loro maggiori utenti, diano all'editoria il trattamento della migliore convenzione fatta con i privati. Così la spesa si può ridurre almeno del 40%. Il governo interverrebbe, alleggerendo gli editori del 50% dei costi, «nei limiti dello stanziamento disponibile». Insomma, anche i contributi indiretti perderebbero la qualità di diritto soggettivo, ma questo solo tra un anno.

Soluzione pessima
La nostra campagna sulla montagna di soldi percepiti dagli editori quotati in borsa sembrerebbe aver lasciato il segno nel comma 2 dell'art. 22 del Regolamento. Ma la soluzione fa un po' rabbrividire. Lì si stabilisce che il ministro dell'Economia e delle Finanze «definisce annualmente le tariffe agevolate delle imprese editoriali quotate in Borsa, tenendo almeno conto delle variazioni dell'indice dei prezzi al consumo». Insomma, il governo tratta con i più grandi editori italiani le sue elargizioni annuali (ma questi ultimi hanno già una garanzia di incremento, seppur quello misero «delle famiglie degli operai e degli impiegati rilevato dall'Istat»), così come annualmente decide quanto dare ai non profit e ai giornali politici e - volendo - con che criteri darlo. Complimenti! Stiamo tornando, senza darlo a vedere, al Minculprop? L'insieme di questi criteri definiscono soltanto un diritto virtuale. Possono, in parte, introdurre un cambiamento utile. Ma sono, lasciatecelo dire schiettamente, l'abito con cui il condannato a morte viene accompagnato al patibolo, se non si ricostruiranno certezze - come è necessario e urgente fare - e non si doterà il Fondo editoria delle risorse necessarie.

Mosaic, Volume 41 - No. 3 (September 2008)
Castrating Antigone: The Cliche of Terror in Marco Bellocchio's Devil in the Flesh
Posted on: Sunday, 7 September 2008, 03:00 CDT
By Stout, Graeme


This essay argues that Antigone serves as both a subtext and a material example of misreading within Marco Bellocchio's Devil in the Flesh. The emergence of Sophocles's text in the final scene of the film is read through Pasolini's concept of the cinema of poetry and Deleuze's notion of the cliche. After two decades of neglect, Marco Bellocchio's Devil in the Flesh [Il Diavolo in corpo], is once again attracting the attention of the scholars of Italian cinema interested in gli anni di piombo. In part, this is due to a renewed interest both in the cultural representation of terrorism and in Bellocchio's more than forty years of cinematic output. Both of these trends are further accentuated by the release of Bellocchio's Good Morning, Night (Buongiorno, Notte), a film that tells the story of the kidnapping and murder of Aldo Moro by the Red Brigades (brigate rosse). Unlike Good Morning, Night which is based on the memoir of former Red Brigades member Anna
Laura Braghetti, the textual origins of Devil in the Flesh are far more obscure. This is, of course, an odd statement as it seems obvious that Bellocchio's film is an adaptation of Raymond Radiguet's 1923 novel. Devil in the Flesh, however, is neither a retelling nor a restaging of the novel. It would be an error to read the film as an adaptation of the novel.1 But such an error would itself be part of a greater practice of misreading at work in the film: a practice that is witnessed in the use of textual references; a form of misreading that starts with the initial reference to Radiguet's novel in the title of the film and continues to the final scene of the film when Sophocles's Antigone enters into the diegetic structure of the film.

In this final scene, Antigone enters as a possible subtext that potentially explains the political and dramatic references and forms within the film. Here, Sophocles's tragedy appears, not only as a potential subtext of the film, but also as an object of textual analysis at the end of the film. This object of interpretation is not only the point in the film where the subtext is manifest as a text, but it is also the point where the act of misreading emerges as the central form of reading within the film. The very moment when Sophocles's tragedy appears, we believe that the true source of the film's textual origin has been revealed. And, yet, with the appearance of the text as an object of discussion and interpretation that is instantly misread, we are faced with the possibility that the play-the transcendent, eternal source of tragedy-is nothing other than an impediment to interpretation.

The entrance of the text within the film offers us two modes of interpretation borrowed from Gilles Deleuze and Pier Paolo Pasolini: that of the cliche (subtext) and that of the image. Here, the text serves as a catalyst that both offers us a point of reference-a subtext that is itself a cliche, a sign within a system, the text of political resistance-and destroys the simplistic reading that is the cliche, offering in its place a singular image that resists interpretation. The arrival of the play marks the moment when tragedy fails to fulfill its promise as tragedy and we are left with doubt and without the cathartic release that revelation should provide. This impasse is manifested in the final shot of the film in which we see Giulia (Maruschka Detmers), the film's protagonist reacting to this act of misreading. In this final image, we see what Pasolini would call the "extremely crude, almost animal-like" (168) quality of the cinematic image, an image
that is sovereign and resists the power of a "language of prose" and which, at the very end of the film, reveals the "hypnotic monstrum that a film always is" (172). It is in this "demonstration" of the image and its power that Bellocchio's film not only fulfills the promise that Pasolini saw in cinema but offers a clear example of Gilles Deleuze's reading of cinema's desire to break free from the cliche form.

Set in the early years of the 1980s, Devil in the Flesh tells the story of Giulia, the daughter of a colonel slain by terrorists. As the narrative begins, we discover that Giulia is engaged to Giacomo Pulcini (Riccardo de Torrebruna), a member of the Red Brigades who, with the encouragement of his pious mother and influential family friends, has become one of the pentiti-those who have renounced their political beliefs and fervour through the mediating influence of the Catholic Church, and have agreed (as a sign of their break with the violent past) to denounce others. As she awaits the final verdict on her fiance's fate, Giulia meets Andrea Raimondi (Federico Pitzalis), an eighteen-year-old student about to take his final exams. Andrea pursues Giulia and the two begin a relationship: for Andrea it is first love, for Giulia, it is a release from the constant observation of her domineering mother-in-law. Andrea's father, a professor of clinical psychiatry
and Giulia's former analyst, is made aware of the relationship between his son and Giulia. He tries to convince Andrea that Giulia is dangerous (she had once been his patient but he soundly declares that she is truly mad, "an incurable"), but to no avail. As their relationship develops, Andrea becomes more complacent and is transformed into a repetition of Giacomo-a lazy, weak man who seeks the shelter of mediocrity. Giacomo is released from prison after making public renunciation of his errors on television. He awaits Giulia at the altar in order to begin his new life of domestic bliss. Giulia, however, does not appear, and when he is told that she will not come, Giacomo is indifferent.

In this final scene,Andrea sits for his graduating exams. First, he is asked to interpret a passage from Dante's Paradiso, which he does in a clear and calculating manner to the mild dissatisfaction of one of his examiners. He is then asked to read from Antigone, the passage that describes Creon's cathartic moment when he admits and accepts his own blindness and guilt.When Andrea is asked to interpret the passage and its relationship to the concept of conflict and antagonism within the play, he states that the tragedy expresses the conflict between two irreconcilable philosophies: one which honours the dead as demanded by the bonds of blood and the edicts of the gods, and another that demands the rational and pragmatic justification of action through recourse to a notion of political and social stability. In Sophocles's text, it is Antigone who upholds the laws of the gods, who argues that "I did not think your edicts strong enough to overrule the
unwritten unalterable laws of God and heaven, you being only a man. They are not of yesterday or today, but everlasting" (Watling 454-57). It is, of course, Creon who bases his rule on the denial or repression of these eternal laws in favour of the expediency or pragmatism of choice and decision. He denies Antigone's claim that there is a higher, more primal power upon which all laws must be based or that supersede all human laws. "Well may she pray to Zeus, the God of Family Love. How, if I tolerate a traitor at home, shall I rule those abroad?" (657-59).

The problem with Andrea's interpretation is that it confuses the embodiment of these two opposing moral or political systems: Creon is presented as the one who upholds the eternal laws of the gods and Antigone is the one who represents transitory human intent and desire. At the exam however, no one other than Giulia recognizes this mistake. For Andrea, and those around him, Creon's concept of law has become the eternal law of the gods, fate: the transitory is now the eternal. Antigone comes to represent the human world of passing desire: error. It is this mis-interpretation and condemnation of Antigone that reinscribes Andrea within the castrated world of bourgeois mediocrity.Andrea's unemotional response to the poetry of Dante and his misinterpretation of Sophocles prove to Giulia that he has indeed graduated into the adult world of domestic and professional responsibility. Despite his proclamation of love, his desire is reduced to mere sexual
gratification that increasingly threatens to develop into a form of domestic bliss-the very thing that Giulia seeks to escape. Even as Andrea rebels against the authority of his father, he finds himself drawn to the same order for which his father stands. During the examination, Andrea speaks through the voice of paternal or patriarchal authority: during his recitation of Dante he cites Cacciaguida2 (Dante's great-grandfather) and during his reading and translation of Antigone, he speaks the part of Creon.

It is important that this misreading takes place at the very site of bourgeois adulthood: the graduating examination where the acceptance of structures and formalities is the moment of acquiescence, of self-interpellation. The importance of misreading within the film is doubly stressed by the fact that no one in the room draws attention to it or recognizes it. The reason for this is that his examiners are only interested in his politics. His misreading is itself misread; his passivity is read as rebellion instead of an honest and submissive form of indifference. This multiplication of errors leads to the final re-entry of politics into this rather apolitical political film, as Andrea is questioned about his political leanings instead of his (mis)understanding of classic literature. It is at this point when a long series of errors and miscommunications gives way to a sudden clarity, namely that Andrea's apathy is not a form of rebellion but the opposite;
it is a recognition and avowal on his part that his sexual pleasure is completely tied to the maintenance of the structures of power whose gatekeepers are currently examining him. Unlike Haemon, whose rebellion leads to the rejection of his father's authority, to which he is heir, and his very life, Andrea acquiesces without resistance and, in this moment, Giulia becomes the one person who is able to see this proliferation of errors for what it actually is. It is Giulia who realizes his error but, more importantly, she is able to understand what this misreading demonstrates. This textual misreading also reveals that acts of interpretation, both within the diegetic structure of the film and within our own encounter with it, are now suspect.What we take to be a cliche is suddenly presented in a very different light.3 If Bellocchio's film is not an adaptation of Antigone it is still important to realize the text's role within the film as both a sign (a
cliche) and lack of meaning (a misreading). First, Sophocles's text resonates throughout the film as a subtext of rebellion and opposition against a social order that regards its own temporal rules as eternal laws. It is the case that there are multiple parallels between Antigone and Devil in the Flesh (and there are far more between these two texts than between the film and Radiguet's novel), but also that the theme of misreading is common to both texts. Second, the text's entry into the narrative proper and its importance as a misread text points to this misreading as a feature that problematizes any interpretation of the film as an adaptation of the tragedy-or any other text for that matter. It is only in the figure of Giulia that one might find a tragic element within the film, but her fate is one suffered in silence. Her resistance to the world of middle class respectability is misunderstood by all the men around her and, because of this, the
possibility of conflict is neutralized. But, it should be noted, the neutralization of conflict is also a theme in Antigone where we also see a form of misreading take place as two forms of law confront one another.

Antigone's resistance to Creon's edict, which forbids the burial and sacrilization of the body of Polyneices, bases itself on the moral primacy of the laws of the gods, which demand that the dead be honoured by their family as they themselves honour the gods and they are honoured by the gods through the gift of life. These are unquestionable laws that underlie and supersede every other notion and form of human law. The punishment for their violation is eternal, as opposed to that of the temporal laws of humanity. Creon, on the other hand, appeals to a form of rational, political calculus with which he intends to control the behaviour of his fellow citizens within the potentially unruly space of the polis. If Creon represents and exercises sovereign power, he is, by no means, a tyrant, as his laws are based on pragmatic arguments that seek to promote the greater good and the survival of the community.

This opposition of forces, two different readings of Law, is at the heart of Hegel's reading of Antigone. Antigone is passive, unlike Creon who is the figure who decides, divides and denies: he is the sovereign who does not appeal to any transcendent notion of sovereignty beyond the immediate needs of the polis. It is no wonder that Hegel saw in the figure of Antigone a notion of innate, preconscious, and pre-rational law4 as she is nothing more than a screen for Creon's paranoid projections. Judith Butler argues, contra Hegel, that Creon and Antigone do not represent, in their essence, an opposition of forces. They are, instead, read through their deeds which reveal "the social deformation of both idealized kinship and political sovereignty" (6). Creon's and Antigone's deeds reflect one another as distortions of the very model of gender opposition that Hegel claims to be implicit within the text (10). Butler argues that Antigone is neither passive nor
preconscious, but a model of sovereignty that counters that of Creon: not an alternative to his sovereignty, but an alternative claim to or about sovereignty-"hers becomes a politics not of oppositional purity but of the scandalously impure" (5). Antigone is outside of the dualistic model of politics that Creon embodies. But Creon, as the sovereign who decides, is the one who also interprets within the play. In his encounters with Antigone, he misreads her as a political rival (a female Polyneices). This paranoid projection on his part leads him to undermine the very foundation of his authority within a model of sensible and moderate rule."For my part, I have always held the view, and hold it still, that a king whose lips are sealed by fear, unwilling to seek advice, is damned" (Watling 180- 182). Creon embodies the limits of binary thought in that his logic leads to the downfall of his reign, and in that he literally is the limits of binary thought: in
Creon is contained the two poles of political opposition existing only as a self-contained system of paranoid projection. To this internalized system of identification and projection, Antigone is completely external.

The question of misreading is at the heart of Sophocles's play, for this provides the basis for Creon's fall. It is only at the point when Creon admits the errors of his edict-first, that it is unjust by denying the eternal laws of the gods, and second, that it runs counter to the consensual and conservative model of political rationality with which he sought to rule Thebes-that the tragedy unfolds through the deaths of Antigone, Haemon, and Eurydice, and, finally, Creon's reign. But what then is the source of Creon's downfall? It is not Antigone, nor is it his model of political rule. Rather, it is a form of paranoid projection that runs throughout the play and defines Creon's actions.Antigone is nothing more than a screen upon which Creon's anxieties are projected. It is in this process of projection that we see misreading, as a form of misrecognition, develop into tragedy. This process of misreading also serves as the practice that ties these two
texts-Sophocles's drama and Bellocchio's film-together as reflections on political psychology. On a more specific level, the misreading of Antigone by Creon is a function of tragedy (it is this misreading and the form of paranoid projection that generates it that is at the heart of Sophocles's text) and the misreading of Giulia by all the men around her is a product, a critique of the cinema. Giulia serves as a screen for male anxieties. Here one also finds another discourse of projection at work within the film, one that refers back to a well established cinematic and critical discourse of femininity, that of the castrating woman, the femme fatale.

If Giulia appears as a cliche in her own right, this is because she exists within a system of cinematic of cliches. The way that Giulia is presented so overtly as a primal sexual force suggests that she is not a femme fatale, but the femme fatale. Throughout the film, she takes on the role of the castrating woman who seeks to ensnare and destroy men. In one scene, a sleeping Andrea becomes the object of Giulia's malicious and child-like attentions, she lifts the sheets with one hand, producing scissors with the other. She tells the still sleeping Andrea that she could "cut it off" and then proceeds to go through the motions of doing so.

One must read Giulia against the men around her, as she is, according to the logic of castration,5 only their projection. They are willingly weak and mediocre. If she is the screen for their projections, it is only out of an overwhelming sense of masculine apathy or laziness. Giacomo, for example, is always described by other characters in the film as a dangerous man due to his political affiliations. When, however, he first appears on screen, his manner is anything but dangerous. He acts as if he were a naughty child whose infractions have earned him his parents' disapproval.When he speaks with Giulia (who greets him as if he were a passionate and sexual being) he discusses how, when he is released from prison, he would like to live a "small and simple life." When Giacomo is told of Giulia's refusal to marry him, his unemotional state reads as a complete lack of desire. There is no vitalist hatred or fear on the part of masculine identity at work in the
film-men are passive producers of images which, by the very nature of the apathy that generates them, have no force or threat behind them. There is no threat of the paternal violence that stood behind Creon's edict. Giulia represents a model of difficult freedom from which all others flee. And, at the same time, her sovereignty is completely neutralized by the lack of desire on the part of everyone around her. Whatever power she has is negated by the void of psychic energies that typifies the male order.

Here, Bellocchio's film reads post-war Italian society as being a "society of mammoni's," in which the Oedipal complex is overcome by the simplification of desire to such a degree that even the sexual drive is subsumed within a system of banal expectations and rewards. Akin, in many ways, to Adorno and Horkheimer's reading of the authoritarian personality, Bellocchio's contribution to the psychology of gender takes particular aim at Italian political virility in the post-war economic boom of consumerist prosperity. The oedipal hatred and jealousy of the father is transformed into an acceptance of, and identification with, authority.

In the central confrontation between Andrea and his father, Professor Raimondi, the nature and ramifications of Andrea's relationship with Giulia are brought to the forefront. His father warns Andrea that he should have nothing to do with Giulia. At first, he attempts to be subtle, suggesting to Andrea that "insanity is brutal." When Andrea refuses to listen, no doubt aware of where his father is going with the conversation, a more direct approach is required on the part of Prof. Raimondi. The fatherfigure as jealous tyrant emerges and Andrea is told that "Giulia is completely crazy" and that "they [women, the mad] cling to you. It's hard not to be torn to pieces." But Prof. Raimondi relents, realizing that his son's relationship is nothing more than a dalliance, which, in time, will pass. Giulia is feared and presented to us through the eyes of Prof. Raimondi as a castrating animal. But this fear takes place on the level of projection and fantasy alone
and there is no real threat to the domestic peace of the Raimondi household. In this confrontation between father and son, Andrea's eternalization of Creon's pragmatism echoes Giacomo's discourse of mediocrity. Andrea does only as much as he needs to do in order to get what he wants from the world around him.He, like all the other men in the film, has sacrificed his desire to a system that ensures his comfort in return for his act of self-castration. He becomes the castrated, mediocre husband whom Giulia rejects in the figure of Giacomo. But Prof. Raimondi's interest in Giulia is not out of concern for his son's welfare; nor is it a simple issue of his desire to control her. Whenever Giulia enters into his world,we find her effect to be a destabilizing one, but it is not one that is seen with fear. Just the opposite, she is a source of fantasy for the patriarch.6 One could turn to Deleuze and Guattari's discussion of the relationship between the
paranoiac despotic sign and the sign-figure of the schizo and think of Prof. Raimondi's reaction as a desire to become Giulia, to lose control and relinquish his power (Deleuze and Guattari 9, 67, 105). During a session with a patient who informs him of the relationship between Andrea and Giulia, Prof. Raimondi becomes distracted by this news and ignores his patient. As he hides behind the head of the couch, visibly disturbed by the news of his son's actions, the narrative breaks and we enter into a world of fantasy as Giulia rises naked from the couch. She beckons the professor to approach and when he makes an attempt to escape, she rushes to the door, locks it, and throws the key out the window. Giulia then moves to the centre of the frame and orders her former analyst to appear before her as her lover.

But there is no confrontation or antagonism between the sovereign, the figure of power, and the rebel, the figure of terror outside that which takes place on the level of fantasy. At best, the possibility of confrontation presents itself when Giulia returns to her analyst after a one-year absence. She sits down on the couch and, before the session can begin, Prof. Raimondi makes certain to place a handkerchief behind Giulia's head in order to control her contagious presence. He cannot, however, resist recognizing the scent of lavender that he has always associated with her. After some reassuring words from the professor on the subject of how psychoanalysis is a process in which one attempts to work through anxiety in order to control psychic disturbances, Giulia rises from the couch, screams, and storms out of the office. She realizes that Raimondi's intention is to control her, to re-institutionalize her within a system of power and normalcy. She denies
conflict and he is untroubled, seemingly reassured (perhaps even excited) by her actions. Dr. Raimondi fears Giulia because she is viral: she appears at random, disrupts the controlled environments of both his office and his home, and then vanishes.

It is not that Giulia's "sexual powers" threaten to castrate the men around her,7 nor is it simply the case that she is a screen for their projections, their anxieties. Giulia is not a screen because men do not fear her and she does not drive them mad. They abandon her without the slightest thought or misgiving. Dr. Raimondi is the only example of such an anxiety and this seems to have more to do with his own desire-a desire that plays itself out as a fantasy. In both their confrontations, we suspect that we witness nothing more than a fantasy, a projection of Dr. Raimondi's desire. Her sexuality points beyond what is symbolically, or literally, presented: "it is necessary to make holes, to introduce voids and white spaces" (Deleuze, Cinema 2 21). Although represented as a cliche, Giulia's sexual nature points to something else. She becomes a cinematic image that, even when she makes direct reference to figures of castration, is not that. Giulia is, in
many ways, outside of the logic of castration as all the men around her are self-castrating: they accept power and limit their desires. She is, at once, a cliche (for what could be more banal than the femme fatale) and the very escape from this structure of meaning. As Deleuze argues in Cinema 2: The Time Image, post-war cinema needed to reinvent the role of the image in order to go beyond forms of cinematic expression that had developed into institutions of meaning, institutions developed into cliched forms of expression. In order to move away from the image's natural tendency toward the cliche as a fixed form of meaning (a sign), as well as the cliche as the site of power within systems of images, Deleuze posits that cinema salvages the image through a process of experimentation and defamiliarization in which the cliche is presented as either a surplus or a lack of meaning (21). The cliche of castration points out that it is not castration anxiety-one
could and will be castrated-and, instead, indicates the self-castrating order of the bourgeois world-one is always, already castrated by the social (Deleuze and Guattari 295). Giulia points to a cinematic image of desire that turns back on its own methods and forms with a solemn silence. This silence (a non-discursive language of the body) is presented as an image that offers an interpretive excess and lack at the same time. Giulia's nature is always marked by this form of ambiguity. Here, Giulia serves as a double-cliche: in her guise of the femme fatale, she is easily recognizable as such; as the "figure" of Antigone, she is the literary and cinematic cliche of the revolutionary. Following Deleuze's argument, one then needs to discover how she "attempts to break through the cliche, to get out of the cliche" (21).

Throughout Devil in the Flesh, Giulia is presented in a series of centre shots and close-ups in which she moves toward such a "break through." In the final scene of the film, Giulia once again dominates the screen. This image provides no form of resolution within the narrative of the film but stands as the last, and lasting, image-with its intensity of emotions moving toward a crisis, the film ends abruptly and we are left in a state of interpretive uncertainty. This break has an unexpected quality, given that the action takes place in the exam room, the place of interpretation and evaluation, and this is exactly what is not offered. Instead, one must ignore the actual work of interpretation presented in the diegetic structure of the film and read according to the structures and images present within it.

The central opposition between Andrea and Giulia, between the interpretive act and the image, is echoed in the visual structure of this scene. During the question concerning Dante, we see Andrea occupying the frame with an air of passive irreverence: he slouches, smiles slyly in order to charm the examiners and the audience seated behind him (an audience which includes, unbeknownst to Andrea, Giulia). Here, the camera is situated amongst the examiners, directly across from Andrea. When the examination shifts to a discussion of Sophocles, the camera shifts to Giulia, who sits at the back of the room. She is centred within the frame and will remain there for the next two minutes while Andrea reads, translates, and discusses Antigone. During this time, the sole focus of the camera is a seemingly motionless and emotionally overwrought Giulia.

Here, one could follow Deleuze's reading of the close-up in Cinema 1: The Movement-Image and see this moment as an image in which we find an intense concentration of power and quality. "There is no close-up of the face. The close-up is the face, but the face precisely in so far as it destroys its triple function-a nudity of the face much greater than that of the body, an inhumanity much greater than that of animals" (99). But one must also think of the close-up itself as a cliche within the lexicon of cinema. This is certainly true but, as with Bellocchio's use of other cliches, the close-up is that moment where the image exceeds itself and breaks free of the ossified form of the cliche. Giulia's image becomes pure emotion-not any single emotion, just emotion. One can see rage, happiness, humour and pain but the sign of one emotion slips into another. The intensification of emotion does not move the film, but stops it. In a film that is propelled by the
discourse of the cliche, the end is reached when the cliche form is exposed as just that: a cliche.

Andrea's indifference to the poetic text and his misinterpretation of the tragic is met with silence on the part of Giulia, who finds him cold and calculating, and, at heart, truly bourgeois. Yet one cannot help but struggle to interpret this silence and the tears that accompany it. Misreading is, after all, the literary and semiotic act with which the film ends. Perhaps this scene is best read as a paradox in which we find two conflicting interpretative scenarios: on the one hand, we find Giulia's ambiguous, yet emotionally overwrought, response; on the other hand, we see Andrea's calculating nature and submission to authority. But this interpretative paradox might be nothing more than what Gilles Deleuze discusses as the imperative behind cinema in the postwar era: an imperative that is driven by the desire to liberate the image from the cliche form: "the image constantly sinks to the state of the cliche: because it is introduced into sensory-motor
linkages, because it itself organizes or induces these linkages, because we never perceive everything that is in the image, because it is made for that purpose (so that we do not perceive everything, so that the cliche hides the image from us . . .). Civilization of the image? In fact, it is a civilization of the cliche where all the powers have an interest in hiding images from us, but in hiding something in the image" (21). Here, Deleuze comes very close to Pasolini's characterization of cinema after neo-realism as one that moves toward a "cinema of poetry" and away from a "cinema of prose." Pasolini argues that cinema had been a medium through which information and ideas are communicated but that, in the late 1960s, cinema shows signs of moving away from this role. The "cinema of poetry" liberates the image from this subservient role and installs it as a sovereign presence. Here, in both Deleuze and Pasolini, we see described a tension between two
forms of cinema: the first of symbols within codes and systems of meaning, the second of images that break free of these codes and systems. What we see in Bellocchio's film is this very tension: on the one hand, we have a series of cliches embodied not only in Giulia as the femme fatale, the castrating woman, but also in Antigone as a cliched political subtext; on the other hand, we also have this final image trying to break through this language of cliches-in particular, the final image of Giulia. This is the primary tension at work in Devil in the Flesh: when the cliches of terror-Antigone read as a parable of terrorism and the terror of the femme fatale-give way to the sovereignty of the image. The difficulty that this tension produces is one of reading, as we see in Bellocchio's film both an appeal to the literary and historical referents (e.g., Antigone, Radiguet's novel, the history of terrorism in Italy) and an attempt to break free from this
model of cinema as a simple reflection of external reality or realities. This double reading is at once the problem of Devil in the Flesh as well as its interesting contribution to the history of Italian cinema after neo-realism. NOTES

1/ For a reading of Bellocchio's film as thematic adaptation and updating of Radiguet's novel, see Maurice Yacowar's "The Bedevilled Flesh: Bellocchio's Radiguet" (Literature/Film Quarterly 17.3 [1989]: 188-92). Yacowar argues that the film should be understood in trialogue with Radiguet's novel and Bertolucci's Last Tango in Paris.What Bellocchio offers, according to Yacowar, is reworking of the male bias in both these objects. Such a reading does not entertain the possibility that Bellocchio's film only relies on Radiguet's novel as a signifier and not as a source. Such a possibility would radically change the way that we think about cinematic adaptation when analyzing the film; as it would also demand a far more nuanced reading of the novel if it is a signifier and not a signified, primary textual source for the film. It should be noted that, although the film's original promotional materials make reference to Radiguet's novel, neither the novel nor
its author is listed in the film's credits.

2/ Andrea comments that the passage (Paradiso Canto XVII) refers to the theory of free will. In fact, it is an attempt to reconcile free will with an already determined future. Here, Cacciaguida prophesies that Dante will be exiled from Florence. This initial and additional misreading offers an equally interesting object of investigation. But given the limits of the current project, it must be set aside for the moment.

3/ Bellocchio's reinterpretation of the Antigone narrative echoes Liliana Cavani's use of the Sophocles's text in I cannibali. In Cavani's film, the play becomes an allegory for youth rebellion in the face of authoritarian rule, identified through a mixture of fascist and Christian symbolism. Antigone also finds an equally important role in German cinema and literature's engagement with rebellion and terrorism in the 1970s and 1980s. For a discussion of Antigone in the German context see Thomas Elsaesser's "Antigone Agonistes: Urban Guerilla of Guerilla Urbanism? The Red Army Faction, Germany in Autumn and Death Game" in Giving Ground: The Politics of Propinquity, eds. Joan Copjec and Michael Sorkin (London: Verso, 1999), 276-302. By the mid-nineteen-eighties, Antigone had become a cliche of political cinema. The use of the play-and, more importantly its misreading-in Devil in the Flesh offers a critique of the political cinema and the interpretative
expectations of the audience.

4/ In both the Phenomenology of Spirit ([section]437 - [section]470), and the Philosophy of Right ([section]166), Hegel argues that the ethical consciousness acts with knowledge of its own guilt and recognizes that which it opposes as its own actuality. In section 470 of the Phenomenology of Spirit, Hegel associates Antigone with the ethical consciousness as one whose "guilt is more inexcusable" by the very fact that it knowingly opposes power. Power and resistance are thereby established as a dialectical opposition, the two sides of which can only be understood by their mutual interpenetration and definition. In the Philosophy of Right, Hegel associates Antigone with a feminine and domestic sphere of law that has not been actualized and that is necessarily opposed to the "law of the land" by its inherently individualized application. This distinction between public and private law is claimed by Hegel to represent the "opposing natures of man and woman"
(115).

5/ "During its history, the cinema seems to have evolved a particular illusion of reality in which the contradiction between libido and ego has found a beautifully complementary phantasy world. In reality the phantasy world of the screen is subject to the law which produces it. Sexual instincts and identification processes have a meaning within the symbolic order which articulates desire. Desire born with language, allows the possibility of transcending the instinctual and the imaginary, but its point of reference continually returns to the traumatic moment of its birth: the castration complex. Hence the look, pleasurable in form, can be threatened in content, and it is woman as representation/image that crystallizes this paradox" (Laura Mulvey in "Visual Pleasure and Narrative Cinema," Screen 16.3 [1975], 11).

6/ In "Beyond Controversy: Marco Bellocchio and Fagiolian Psychoanalysis," Clodagh Brook argues that Devil in the Flesh's overt psychoanalytic themes are best explained by the influence of psychoanalyst Massimo Fagioli on Bellocchio's work and life (Fagioli advised Bellocchio on set during filming) (in Italian Quarterly, 42.163-164 [2005]: 55-66). Fagioli "critiqued" Freud's theories of the psyche and, instead, saw the unconscious as a creative and unified field that needed to escape from the desire of the conscious mind (and psychoanalysis) to control it. In many ways, Fagioli's theories are reminiscent of new age philosophy's desire to see the unconscious mind as the primary unifying entity that has been subverted by our conscious lives. Here, Brook argues that Giulia, the film's protagonist, is the embodiment of the Fagiolian principle of creativity and liberation. Although of interest, Brook's interprets the film as a simple representation of
Fagioli's theory. I would like to think of Devil in the Flesh as a far more subversive text.

7/ There are certainly numerous instances within the film in which the act of castration is acted out by Giulia and presented to us as a referent. In these instances, Giulia's actions are playful mockeries of male anxiety, pointing more to the infantile nature of masculinity's rites and rituals of self-preservation. While visiting Giacomo in prison, Giulia takes advantage of the lax security in order to give her fiance a "handjob" under an interview table. More interested in his own banal poetry, Giacomo pleads (whines really) with her to stop as "it hurts."

WORKS CITED

Bellocchio,Marco, dir. Devil in the Flesh [Il Diavolo in Carpo]. Perf.Maruschka Detmers, Federico Pitzalis, Alberto do Stasio, and Riccardo de Torrebruna. Orion Classics, 1986.

Butler, Judith. Antigone's Claim: Kinship between Life and Death. New York: Columbia UP, 2000.

Deleuze, Gilles. Cinema 1: The Movement-Image. Trans. Hugh Tomlinson and Barbara Habberjam. Minneapolis: U of Minnesota P, 1986.

_____. Cinema 2: The Time-Image. Trans. Hugh Tomlinson and Robert Galeta.Minneapolis: U of Minnesota P, 1989.

Deleuze, Gilles and Felix Guattari. Anti-Oedipus: Capitalism and Schizophrenia. Trans. Robert Hurley,Mark Sem, and Helen R. Lane. Minneapolis: U of Minnesota P, 1983.

Hegel, G.W.F. Phenomenology of Spirit. Trans. A.V. Miller. Oxford: Claredon Press, 1977.

Pasolini, Pier Paolo. Heretical Empiricism. Ed. Louise K. Barnett. Trans. Ben Lawton and Louise K. Barnett. Bloomington: U of Indiana P, 1988.

Radiguet, Raymond. The Devil in the Flesh. Trans. A.M. Sheridan Smith. London: Marion Boyars, 1989.

Watling, E.F., trans. Sophocles: The Theban Plays. New York: Penguin Books, 1974.

GRAEME STOUT lectures at the Minneapolis College of Art and Design and at the University of Minnesota, where he received his doctorate in comparative literature in 2006. Currently, while searching for a tenure track position, he writes on the cultural histories of terrorism during the seventies and eighties and the cinema of Michael Winterbottom.

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lunedì 22 settembre 2008

Repubblica 22.9.08
L'Italia degli immigrati che rompe il silenzio
di Renzo Guolo


La passività è finita. Questo dicono i segnali che provengono da episodi assai diversi, ma legati dalla comune protesta di immigrati, come quelli di Castel Volturno, Milano e Treviso. Gli immigrati , o i loro figli divenuti cittadini italiani, non intendono più subire.
Che si tratti della reazione alla mattanza dei Casalesi, di quella all´efferato omicidio, seguito alla consumazione di un reato, a colpi di spranga di Abba, o della protesta dei giovani musulmani che per sfuggire ai diktat degli amministratori leghisti sulle "moschee" mobilitano al Jazeera, il muro del silenzio pare definitivamente rotto. Gli immigrati, almeno i più giovani, quelli che conoscono gli stessi codici culturali dei loro coetanei italiani, ai quali sono stati socializzati da tv, industria del consumo e scuola, irrompono nella sfera pubblica come attori sociali collettivi. Soggetti e non più solo oggetto della politica. Lo fanno, come a Gomorra o nella Milano futura sede dell´Expo gridando il loro rancore, e la loro rabbia, contro una società che accusano di essere razzista. Ma anche invocando la tutela di uno Stato che, nei meandri di un ciclo politico egemonizzato dalla concreta tentazione di un ordine pubblico differenziato, repressivo soprattutto verso le categorie "potenzialmente pericolose", sembra lasciare gli immigrati in balia dei poteri criminali, dello sfruttamento economico, della quotidiana torsione dei diritti costituzionali.
Quello che si è visto in questo crepuscolare settembre italiano, non è, come alcuni ritengono, il prodromo della banlieuizzazione della società. Può essere persino peggio. Perché le problematiche periferie urbane francesi hanno almeno il vantaggio di concentrare le aree di crisi; e dunque di tarare i possibili interventi, non solo di ordine pubblico, in zone circoscritte. In Italia il policentrismo urbano, così come la stessa configurazione del tessuto economico che richiama manodopera straniera, è tale da rendere non circoscrivibile alle grandi città il potenziale conflitto su base razziale o religiosa. L´immigrazione è ovunque, non ci sono zone franche. Lungo la Domitiana come nel Nordest, nelle serre del Ragusano come in Brianza. Socialmente e geograficamente, l´Italia è una banlieue diffusa.
Certo, le rivolte francesi, così come alcuni riots avvenuti nelle città britanniche, vedono protagonisti cittadini che accusano il loro Paese di non averli saputi integrare. Tra gli immigrati in Italia, invece, pochi sono cittadini e votano. Ma sarebbe un errore guardare alla vicenda solo in questa chiave. Ritenere le loro "vite di scarto" che, dopo le emergenze contingenti, si possono anche dimenticare, sarebbe un boomerang. Perché la trama di una collettività è fatta di integrazione nella vita quotidiana; e se questa non avviene proliferano le identità antagoniste.
Nonostante quello che si è visto in questi giorni, compresa la ingiustificabile tendenza a giustificare l´illegalità che da sempre convive con le situazioni di emarginazione e marginalità, il presente non è ancora caratterizzato da un conflitto aspro e irriducibile. Tra le seconde generazioni; tra gli stessi immigrati centroafricani, come i senegalesi che si dividono tra la privatissima appartenenza alle loro confraternite e la partecipazione, pubblica, all´attività nell´associazionismo e nel volontariato; tra gli italiani figli di coppie miste; anche tra i musulmani cui è impedito di pregare collettivamente, si fa strada la convinzione che sia auspicabile anche in Italia la nascita di un´organizzazione tipo "Sos racisme": movimento che da anni agisce Oltralpe contro la discriminazione razziale. Una sorta di organizzazione trasversale che operi da facilitatore e garante dell´integrazione. Uno sbocco che, in questa fase politica, necessita di alleanze che in Italia paiono non impossibili ma comunque più problematiche che in Francia. Anche perché qui nessuno rinuncerebbe ai voti dei lepenisti nostrani e il contrasto agli immigrati, non certo la loro integrazione, è oggi un fattore di sicura rendita elettorale. Una situazione che costringe anche chi è a favore dell´integrazione a non giocarsi il destino politico su questa issue. Che dopo queste difficili settimane gli immigrati, diventino soggetti e non più solo oggetto della politica, è, però, nelle cose.

Repubblica 22.9.08
"Mica sono io il razzista è lui che è un negro"
di Mario Pirani


«Minga sün mi che sün rasista, lè lü che lè negher!». Deve essere questo vecchio detto meneghino il principio giurisprudenziale di diritto lombardo-veneto che ha ispirato poche ore dopo il delitto il pubblico ministero Roberta Brera nello stabilire che non c´entra nulla il razzismo nell´uccisione a sprangate al grido di «sporco negro di merda!» di un ragazzo di colore, Abdoul Guiebrè, colpevole di non aver pagato un pacchetto di biscotti Ringo. Dopo di che, sia il premier Berlusconi che il sindaco di Milano, hanno proclamato che nel «deprecato episodio non c´entra il colore della pelle». Un copione che assomiglia alla trama di quei film americani che descrivevano qualche linciaggio in Alabama dove poliziotti, giudici e testimoni bianchi depistavano le indagini e giuravano che non era il caso di parlare di razzismo, tanto è vero che quando i negri si comportavano bene, non davano retta agli agitatori e stavano al loro posto, nessun bianco si sognava di torcer loro un capello.
Anche se tutti i giornali hanno scritto sulla vicenda, accaduta non in una degradata periferia ma nei pressi della Stazione Centrale di Milano, al bar Shining (un nome significativo, per chi ricorda la pellicola di Kubrick), mi permetterò egualmente di aggiungere qualche nota sulle riflessioni che alcuni intellettuali hanno rilasciato. Ne scelgo due come esempio di una tematica che ha preso largamente piede e tende a derubricare non la gravità dei delitti ma la loro natura: si tratterebbe di violenza urbana, generata dalla paura, e non di razzismo che sarebbe sbagliato evocare in questo e in altri casi, come le aggressioni contro i gay a Roma, gli incendi dei campi rom, i fermi di ragazze extracomunitarie scambiate per prostitute e quant´altro. Il professor Stefano Zecchi, docente di Estetica alla Statale di Milano, in una dichiarazione al "Corriere" si dice convinto che «anche sul piano culturale e sociale parlare di razzismo è fuorviante. Si tratta di disagio economico e sociale, di gente in difficoltà che reagisce e si difende in modo esagerato... L´importante è che le persone oneste non si sentano fragili e indifese... Gli episodi come quello accaduto a Milano sono comprensibili. Tutto sommato le violenze da stadio sono peggiori».
Più sofisticato e meno indulgente l´articolo sul "Riformista" di Benedetto Ippolito, docente di Filosofia medievale alla Pontificia Università della Santa Croce a Roma, giovane e valente studioso cattolico. Anche per lui «le indagini hanno scongiurato la motivazione razziale... mentre, d´altra parte, l´appellativo intollerante "sporco negro", urlato dagli aggressori ripetutamente, potrebbe esser stata soltanto una esclamazione di rabbia e non il motivo ultimo dell´omicidio». Dopo una puntuale disamina della emarginazione urbana e dell´ultima ricerca del Censis sulla «paura percepita», che a Roma colpirebbe addirittura la metà dei cittadini, Benedetto Ippolito conclude: «È sacrosanto pretendere che non si denominino razzisti atti che non lo sono, anche se non è da responsabili sentirsi rassicurati dal fatto che ci sono nostri concittadini pronti a uccidere unicamente per quel "futile motivo" che si chiama paura inconsapevole dello sconosciuto e del diverso». I distinguo della Scolastica tomistica possono a volte produrre travisamenti gravi, al contrario del buon senso parrocchiale e solidale di "Famiglia cristiana" o dei militanti di Sant´Egidio che sul razzismo non hanno incertezze e sanno bene che alla sua base c´è proprio, come elemento insito fondamentale, la paura dell´altro. Che si è sempre inverata nei casi più ricorrenti nella paura dell´ebreo, del negro, dello zingaro, del diverso sessuale, attraverso secoli di persecuzioni, stragi e genocidi. Lo stesso teorico del revisionismo tedesco, Nolte, sostiene che «nella misura in cui Hitler e Himmler addossavano agli ebrei la responsabilità di un processo che li aveva gettati nel panico (il trionfo del bolscevismo, ndr), portarono l´originario orientamento di annientamento dei bolscevichi entro una nuova dimensione (l´annientamento degli ebrei)».
Il «panico» di Hitler si rifletteva nella «paura percepita» da milioni di singoli cittadini tedeschi. In Italia oggi non siamo a questo ma la «paura percepita» di cui parlano i succitati professori non è solo il risvolto dell´ondata migratoria ma della predicazione di disprezzo, odio e diffidenza che ha accompagnato l´azione della Destra e che porta non solo i più scalmanati ma tanti uomini d´ordine e, talvolta, chi dovrebbe tutelarlo, a tollerare l´inevitabilità della «giustizia fai da te». Dopo di che nascondono la violenza razzista dietro la maschera dei «futili motivi».

l'Unità 22.9.08
Nel buco nero di Castel Volturno dove la vita vale 25 euro al giorno
di Eduardo Di Blasi inviato a Castel Volturno


Si chiama Nency, ma il nome l'ha da tempo napoletanizzato in Nunzia. Viene dal Kenya, anche se quando le poni la domanda risponde: «Da Roma, ho fatto due anni per spaccio di droga a Rebibbia». Ha quasi cinquant'anni, i capelli bianchi, tre figlie e un ex marito che le passa 500 euro al mese. È una madre di famiglia che in questi due anni ha inventato una bugia («ho detto che sono andata in convento») per non raccontare alle figlie una verità difficile da nascondere.
Oggi, uscita da quel convento, è tornata a Castel Volturno e ha lasciato le figlie a Roma. Ha fame, in tasca non ha nemmeno i soldi per le sigarette, gira per strada con uno scialle leggero mentre inizia a fare veramente freddo. Eppure è tornata qui. Perché? Perché solo qui Nunzia può sopravvivere, può arrangiarsi, può grattare qualcosa per se, può nascondersi assieme agli altri suoi connazionali nell'enorme buco nero che da quasi trent'anni cancella le storie degli africani d'Italia. Troverà un tetto, troverà dei soldi, spacciando o mettendosi sul ciglio della strada a vendere quello che resta di se stessa. Ce la farà: sopravviverà. Troverà la sua fetta di vita alle spalle della Domitiana, in queste case basse attraversate da stradine piene di rifiuti e di facce di neri. Manderà i soldi a casa da questo nuovo convento senza indirizzo. Nessuno le chiederà nulla.
Come nessuno chiederà mai niente ad Alex, ghanese di 30 anni, faccia incazzata mentre cerca di mettere in fila due parole in italiano. Nessuno gli chiederà nulla, tranne l'affitto per il letto (150 euro al mese) e le sue braccia, che sono in vendita tutte le mattine alle cinque, in una piazza di Pianura, davanti al bar Ferrara. Una giornata di lavoro senza alcuna copertura assicurativa viene via per 20-25 euro, sei giorni la settimana domenica esclusa, sempre che il padrone non decida che preferisce picchiarti e non darti nulla, perché tu, in fondo, non sei niente.
Ecco perché nessuno chiede loro nulla, perché loro non esistono. Sono ventimila gli immigrati irregolari nella provincia di Caserta, almeno 11mila quelli di Castel Volturno, che sono per la stragrande maggioranza africani.
«Non esiste un posto così nel mondo», avvisa Antonio Casale, direttore del centro Fernandes, da 12 anni fiore all'occhiello della Caritas di Capua nel cuore di questo buco nero. Non esiste, non fa fatica a rispondere, perché qui, in 30 anni, non è successo niente. «Prima arrivavano i francofoni del Benin e della Costa D'Avorio, poi è stata la volta dei ghanesi, dei togolesi, dei nigeriani. Oggi arrivano i sudanesi, i liberiani, sempre più poveri e più ignoranti». Arrivano a Castel Volturno per due motivi fondamentali. Il primo è che in nessun posto del mondo un immigrato irregolare potrebbe trovare una casa. Non ci sono barboni a Castel Volturno. Tutti hanno un tetto dove ripararsi in questo paradiso di seconde case cadenti. La seconda ragione è che qui ci sono gli altri africani, da sempre. E allora puoi creare una microcomunità.
Eccolo il «modello Castel Volturno», la non integrazione di bianchi e neri che ha portato a quella che Casale definisce «la separatezza». Nel buco nero senza legge, dove anche un occupante di casa napoletano può chiedere l'affitto a un africano e la cosa sembra normale, dove le automobili non solo non hanno l'assicurazione esposta, ma alcune nemmeno il posto dove esporla, le comunità vivono per conto proprio.
«Hanno i loro negozi, i loro quartieri, anche le loro chiese». Tutti. Ognuno per sè. Ecco perché anche quelli che vivono qui da dieci anni non parlano una parola di italiano: perché sembra non dovergli servire. «Se ne accorgono appena vanno via da Castel Volturno». È un circolo vizioso che crea questi mondi paralleli, questi traffici leciti e illeciti. È l'obiettivo di trovare i sessanta euro a settimana, le due-tre giornate di lavoro.
«Cacciar via gli immigrati non è la soluzione al problema di quest’area. Per Castel Volturno e il litorale Domizio occorre altro: un organico progetto di riqualificazione». A parlare è l’arcivescovo di Capua, monsignor Bruno Schettino, che presiede la fondazione Fernandez, che accoglie ogni giorno 60 immigrati con un servizio mensa che offre il pranzo a 100 persone. «Hanno paura ed è comprensibile: per mia esperienza personale questa è gente che non fa alcun male». Ma quel che ci vuole è una strategia: «Il discorso è più ampio e non si risolve mandando via alcune centinaia di stranieri, che qui fanno lavori che altri non intendono svolgere».
Fabio Basile, anche lui da anni nella trincea di Castel Volturno a metterci tutto quello che può metterci la società civile in un processo del genere (è tra gli animatori del centro sociale "Ex canapificio" di Caserta da sempre impegnato sul mondo migrante), non fa fatica a descrivere il modello suddetto: «È così, e nessuno se ne importa. Il governo, ancora una volta, pensa di farne un problema di sicurezza pubblica, ma qui è chiaro che stiamo parlando d'altro».
Vediamo bene di cosa stiamo parlando allora. «Noi siamo un piccolo comune campano con i problemi di una metropoli», sintetizza il sindaco di Castel Volturno Francesco Nuzzo e per fare un esempio dell'enorme mole di lavoro che si trova a fronteggiare nella sua scomoda posizione spiega: «Abbiamo ventimila irregolari, venti vigili urbani e una sola assistente sociale, perché con i tetti di spesa non possiamo assumerne nemmeno un'altra, e non sto dicendo che ne servono due».
Non va meglio a polizia e carabinieri che dovrebbero presidiare un territorio in cui le regole non solo non esistono, ma sembra quasi non possano esistere, con la camorra che possiede case, negozi e bar, che spara e commercia, costruisce, investe, interra rifiuti speciali e fa mozzarelle. E queste centinaia di facce scure, schiavi composti di questa terra, che solo per identificarli ci vorrebbero 5mila giorni e per sequestrargli la macchina un deposito giudiziario di diversi chilometri quadri. Angelo Papadimitra, segretario della Cgil di Caserta, non ha dubbi: «Da questa storia si esce solo con una legge speciale per Castel Volturno. Ci vuole una sanatoria». Invece il governo si fa portabandiera di un nuovo «ordine pubblico», in un posto in cui i sei africani ammazzati giovedì scorso aspettano ancora un funerale. Tra sabato e domenica non si è trovato nessuno che facesse l'autopsia di quei corpi crivellati di colpi.

Repubblica 22.9.08
Il mistero delle migrazioni svelato dal Dna
di Elena Dusi


La rivista "Le Scienze" dedica il numero in edicola agli spostamenti di massa degli uomini del passato Sono le raffinatissime tecniche di analisi genetica a permettere la ricostruzione di questa grande mappa

E sono poi tutte queste tracce a imprimersi nel codice genetico di ognuno di noi
Le malattie, gli accoppiamenti il clima e il cibo selezionano gli individui

La coppia che non ti aspetti è fatta da un archeologo con la piccozza in mano e un genetista in camice bianco. Diversi, ognuno con la sua tecnica. Ma entrambi lavorano alla ricostruzione della storia dell´uomo.
Il passato della nostra specie lascia le sue impronte non solo nel terreno, ma anche nel Dna. Malattie, accoppiamenti, migrazioni, adattamenti a nuovi climi e nuovi cibi, difficoltà che selezionano un individuo piuttosto che un altro. Tutte queste tracce si imprimono in quel codice genetico che a livello individuale garantisce la nostra identità per il corso della vita. E a livello collettivo preserva le caratteristiche della specie, che si trasmettono da una generazione all´altra con variazioni minime. Alla ricostruzione delle "migrazioni del passato" tramite tecniche di analisi genetica sempre più sopraffine dedica il suo numero attuale la rivista "Le Scienze".
I punti fermi in origine erano pochi. Alla lettura dei tre miliardi di "lettere" che costituiscono il nostro genoma è stato affidato il compito di completare il quadro e tracciare le linee mancanti, a partire da quel primo salto che gli uomini spiccarono - tra 50 e 60mila anni fa - fuori dall´Africa attraversando il Mar Rosso. Da lì il percorso dei nostri antenati iniziò a ramificarsi in maniera molto complessa. I genetisti oggi cercano di dipanare la matassa seguendo due percorsi: l´analisi del Dna degli uomini moderni, che si basa sulle minuscole variazioni da individuo a individuo. E l´affascinante e complicato studio dei frammenti di codice genetico che ci sono arrivati direttamente dal passato.
Con questa seconda tecnica, per esempio, è stata pressoché completata la lettura del Dna dell´uomo di Neanderthal, il cugino perdente dell´Homo sapiens sapiens, che si è estinto lasciando molti misteri dietro di sé. Scoprire l´aspetto fisico, le abitudini e il percorso migratorio di questo antenato partendo da una polvere che contiene frammenti di materiale genetico spesso deteriorato è uno dei risultati più affascinanti compiuti dalla scienza. «Si parte da un osso antico, ma non ancora fossilizzato, affinché contenga ancora materiale biologico. A questo punto, il problema principale è evitare qualunque contaminazione con il Dna moderno» racconta Olga Rickards che insegna antropologia molecolare all´università Tor Vergata di Roma e dello studio genetico sui Neanderthal è stata fra i protagonisti.
Una pubblicazione recente aveva lanciato l´ipotesi straordinaria che fra Neanderthal e Sapiens ci fossero stati degli incroci e degli scambi di materiale genetico. La notizia rischiò di scuotere completamente l´albero genealogico dei nostri antenati, fino a quando non si scoprì che il Dna proveniente dalle mani o dal respiro dei ricercatori aveva contaminato i campioni antichi, falsando completamente i risultati. «Quando troviamo un resto umano - prosegue la Rickards - cerchiamo di prelevarlo direttamente nel sito, con la collaborazione degli archeologi. Poi lo puliamo sfregandolo (da evitare l´acqua, che permea l´osso e trasporta le eventuali contaminazioni al suo interno), ne preleviamo un tassello laddove gli antropologi non trovano elementi significativi e lo riduciamo in polvere, con tecniche complesse come dei mortai raffreddati ad azoto liquido affinché il calore non comprometta la qualità del Dna».
Raggi ultravioletti per uccidere i microrganismi, camere sterili dove indossare le tute da laboratorio, indumenti e maschere ingombranti come quelli visti in ET diventano da questo punto in poi i compagni di lavoro dei genetisti. «Perché spesso - prosegue la specialista di Roma - il Dna moderno è più vitale di quello antico. E anche se si è introdotto in frazioni minime, salta più facilmente agli occhi dei nostri strumenti».
Sia l´analisi sul genoma antico che gli studi sulle variazioni dei moderni hanno confermato l´origine africana degli uomini. La ricerca del secondo tipo si basa sul fatto che il 99,9 per cento del Dna umano rimane identico tra gli individui. Ma nel restante 0,1 per cento si nascondono differenze che si sono introdotte in un certo momento e in un certo luogo nel corso della storia genealogica. Tanto minute e complesse sono diventate le mappe della variabilità genetica, da aver assunto l´aspetto di veri e propri caleidoscopi. E da aver completamente frantumato il concetto di razza. L´Africa per esempio, culla dell´umanità, è il continente in cui maggiore è il numero di tasselli colorati.

Repubblica 22.9.08
Come cambia l´esistenza nel XXI secolo
Nel nuovo saggio "Conditio Humana" il sociologo approfondisce la tesi di una società globale esposta a minacce impossibili da arginare
D´ora in poi nulla di ciò che accade nel mondo è un evento soltanto locale
La situazione di ogni singola etnia ci riguarda e dobbiamo farcene carico
di Ulrich Beck


Dal nuovo saggio di Ulrich Beck, "Conditio humana. Il rischio nell´età globale" (Laterza, pagg. 416, euro 18), anticipiamo parte di un capitolo

Viviamo in una società mondiale del rischio, non solo nel senso che tutto si trasforma in decisioni le cui conseguenze diventano imprevedibili, o nel senso delle società della gestione del rischio, o in quello delle società del discorso sul rischio. Società del rischio significa, precisamente, una costellazione nella quale l´idea che guida la modernità, cioè l´idea della controllabilità degli effetti collaterali e dei pericoli prodotti dalle decisioni, è diventata problematica; una costellazione nella quale il nuovo sapere serve a trasformare i rischi imprevedibili in rischi calcolabili, ma in questo modo a sua volta produce nuove imprevedibilità, ciò che costringe alla riflessione sui rischi. Attraverso questa "riflessività dell´incertezza" l´indeterminabilità del rischio nel presente diventa per la prima volta fondamentale per l´intera società, sicché dobbiamo ridefinire la nostra concezione della società e i nostri concetti sociologici.
Nello stesso tempo la società mondiale del rischio genera una "spinta cosmopolitica", ad esempio nel confronto storico con l´antico cosmopolitismo (Stoà), con lo jus cosmopoliticum dell´illuminismo (Kant) o con i crimini contro l´umanità (Hannah Arendt, Karl Jaspers): i rischi globali ci mettono a confronto con "l´altro", apparentemente escluso. Essi abbattono i confini nazionali e mescolano l´indigeno con l´estraneo.(...)
Entrambe le tendenze ? la riflessività dell´incertezza e la spinta cosmopolitica ? sono riconducibili a un meta-mutamento complessivo della "società" nel XXI secolo:
a) le messe in scena, le esperienze e i conflitti del rischio mondiale compenetrano e modificano i fondamenti della convivenza e dell´agire in tutti gli ambiti, a livello nazionale e a livello globale;
b) dal rischio mondiale si può evincere la nuova forma di rapporto con le questioni aperte, il modo in cui il futuro viene integrato nel presente, quali forme assumono le società ad opera dell´interiorizzazione del rischio, come si trasformano le istituzioni esistenti e quali modelli organizzativi finora sconosciuti si creano;
c) ora, da un lato, vengono in primo piano i grandi rischi (non voluti), come il mutamento climatico; dall´altro, l´anticipazione delle minacce di nuovo tipo provenienti dagli attacchi terroristici (voluti) crea una costante aspettativa pubblica;
d) si compie un mutamento culturale generale. Nasce un altro modo di intendere la natura e il suo rapporto con la società, ma anche di intendere noi e gli altri, la razionalità sociale, la libertà, la democrazia e la legittimazione ? e perfino l´individuo. (...)
Il significato onnicomprensivo del rischio mondiale ha conseguenze molto rilevanti, poiché ad esso si lega un intero repertorio di nuove rappresentazioni, timori, paure, speranze, norme di comportamento e conflitti di fede. Queste paure hanno un effetto collaterale particolarmente fatale: le persone o i gruppi che diventano (o sono fatti diventare) "persone a rischio" o "gruppi a rischio" sono considerati come non-persone, i cui diritti fondamentali sono minacciati. Il rischio separa, esclude, stigmatizza. Si formano così nuovi confini della percezione e della comunicazione ? ma nello stesso tempo vengono anche compiuti sforzi che travalicano i confini per risolvere problemi sottoposti per la prima volta a un´influenza pubblica. Di conseguenza, la messa in scena del rischio mondiale dà luogo a una produzione e costruzione sociale della realtà. Il rischio diventa così la causa e il medium della riconfigurazione della società. Ed è strettamente connesso alle nuove forme di classificazione, interpretazione e organizzazione della nostra vita quotidiana, al nuovo modo di mettere in scena e di organizzare, di vivere e di configurare la società in riferimento al presente del futuro.
***
Il salto dalla società del rischio alla società mondiale del rischio può essere chiarito richiamandosi a due testimoni: Max Weber e John Maynard Keynes, i classici della sociologia e dell´economia moderne. In Max Weber la logica del controllo vince nel confronto moderno con il rischio, e vince in modo così irreversibile che l´ottimismo culturale (Kulturoptimismus) e il pessimismo culturale (Kulturpessimismus) vengono riconosciuti come due lati della medesima dinamica. In forza del dispiegamento e della radicalizzazione dei princìpi basilari della modernità, e in particolare della radicalizzazione della razionalità scientifica ed economica, incombe un regime dispotico, come conseguenza, da un lato, dello sviluppo della democrazia moderna e, dall´altro, del trionfo del capitalismo orientato al profitto. Speranza e preoccupazione si condizionano a vicenda: dal momento che le incertezze e gli effetti collaterali imprevisti e non voluti prodotti dalla razionalità del rischio non cessano di essere affrontati "ottimisticamente" grazie a un incremento della razionalizzazione e della logica del mercato, la preoccupazione di Weber non riguardava ? a differenza di Comte e Durkheim ? la mancanza di ordine e integrazione sociale. Egli non temeva il "caos delle incertezze" (come Comte). Al contrario, egli vedeva e affermava che la sintesi tra scienza, burocrazia e capitalismo trasforma il Moderno in una sorta di "prigione". Questa minaccia non emerge come un fenomeno marginale, ma come conseguenza logica della razionalizzazione del rischio riuscita: se tutto va bene, sarà sempre peggio. La razionalità strumentale depoliticizza la politica e mina la libertà degli individui.
Allo stesso tempo, nel modello di Max Weber è contenuta un´idea che spiega perché il rischio diventa un fenomeno globale, anche se non spiega ancora perché esso dà luogo alla società mondiale del rischio. Secondo Weber la globalizzazione del rischio non è legata al colonialismo o all´imperialismo, cioè non è portata avanti con il fuoco e con la spada. Piuttosto, essa procede lungo la via della coazione non coatta dell´argomento migliore. La marcia trionfale della razionalizzazione si basa sulla promessa di beneficio del rischio e sulla delimitazione a sua volta razionale degli effetti collaterali, delle incertezze e dei pericoli ad esso collegati. È questa autoapplicazione del rischio al rischio, finalizzata al perfezionamento dell´autocontrollo, a globalizzare l´"universalismo". L´idea che proprio l´imprevisto, l´indesiderato, l´incalcolabile, l´inatteso, l´incerto, reso permanente dal rischio, possa diventare la fonte di possibilità e pericoli non anticipabili che mettono seriamente in questione l´idea-guida della razionalità del controllo nel modello weberiano è un´idea impensabile. Essa sta alla base della mia teoria della società mondiale del rischio. (...)
All´inizio del XXI secolo vediamo la società moderna con occhi diversi ? e questa nascita di uno "sguardo cosmopolita" fa parte dell´inatteso, dal quale deriva una società mondiale del rischio ancora indeterminata. D´ora in poi nulla di ciò che accade è più un evento soltanto locale. Tutti i pericoli essenziali sono diventati pericoli mondiali, la situazione di ogni nazione, di ogni etnia, di ogni religione, di ogni classe, di ogni singolo individuo è anche il risultato e l´origine della situazione dell´umanità. Il punto decisivo è che d´ora in poi il compito principale è la preoccupazione per il tutto. Non si tratta di un´opzione, ma della condizione. Nessuno lo ha mai previsto, voluto o scelto, ma è scaturito dalle decisioni, dalla somma delle loro conseguenze, ed è diventato conditio humana. Nessuno vi si può sottrarre. Si profila così un cambiamento della società, della politica e della storia che finora è rimasto incompreso e che già da qualche tempo indico con il concetto di "società mondiale del rischio". Quello che finora conosciamo è soltanto l´inizio.

l'Unità 22.9.08
Borghezio con i nazisti, un caso europeo
Lo show di Colonia arriva a Bruxelles. Persino Bossi prende le distanze
di Federica Fantozzi


Dopo il gelo di Castelli e Calderoli, arriva la netta presa di distanze di Umberto Bossi: «Non si accettano tutti gli inviti». Sotto accusa Mario Borghezio, l’europarlamentare leghista presente al comizio flop contro una moschea a Colonia. Ma la vicenda non crea imbarazzi solo nella maggioranza di governo, particolarmente silenziosa e parca di commenti nonostante l’accaduto. Lo «spettacolo» indecoroso di Borghezio, unico europarlamentare a Colonia (neppure la destra più estrema ha partecipato alla manifestazione), verrà discusso oggi durante la sessione plenaria a Bruxelles. Pasqualina Napoletano, vicepresidente del gruppo Pse: «Inqualificabile, ma non stupisce. Piuttosto, riflettano gli elettori»

«IO NON CI SAREI ANDATO» dice Bossi, ed è la pietra tombale. Dopo Castelli e Calderoli, la sconfessione della «gita tedesca» di Borghezio da parte del suo partito è totale. Gli europarlamentari italiani giudicano «inqualificabile» il gesto, di cui oggi Bruxelles
discuterà durante la sessione plenaria.
La presenza di Borghezio al raduno neonazista di Colonia imbarazza la maggioranza di centrodestra: l’italiano era l’unico rappresentante sia del Parlamento Europeo che di un partito di governo alla manifestazione contro la moschea islamica. Che, tra l’altro, si è trasformata in flop grazie alla reazione compatta della città renana. Anche Fiore e Romagnoli, l’estrema destra a Strasburgo, l’hanno disertata. Se dunque dalle file del PdL non si strappa un commento «perché la faccenda riguarda la Lega», quest’ultima è obbligata ad affrontarla.
Nei giorni scorsi l’ex ministro Castelli aveva messo le mani avanti: «Borghezio dovrebbe valutare bene, io starei lontano da certe formazioni politiche». Ieri, a cosa fatta, il ministro della Semplificazione Calderoli confermava il gelo: «Non avrei mai aderito, abbiamo sempre detto no all’estrema destra. Borghezio ha partecipato a titolo personale». Fino all’epitaffio bossiano (condiviso dal capogruppo alla Camera Cota): «Non tutti gli inviti vanno accettati».
Pasqualina Napoletano (Sinistra Democratica) è vicepresidente del gruppo Pse: «Il comportamento di Borghezio è inqualificabile ma non mi stupisce. Si è già distinto per iniziative simili». L’eurodeputata ricorda «l’iniziativa di portare maiali a urinare sul terreno destinato a una moschea» e, in generale, «gli atteggiamenti razzisti e islamofobici». La Napoletano auspica una reazione dell’emiciclo, come fu quando il deputato leghista interruppe l’allora capo dello Stato Ciampi. Padroni del gioco, tuttavia, sono gli elettori: «Riflettano, dato che le elezioni Europee sono vicine».
Trova motivi di preoccupazione anche Monica Frassoni, eurocapogruppo dei Verdi: «È stato messo in risalto l’isolamento italiano, Bossi ha preso atto che all’interno di un sistema certi strappi non passano inosservati».
Ma se è stata importante la reazione di Colonia, «l’Italia è una realtà diversa. Le posizioni di Maroni e Gentilini, la morte di Abdul a Milano, i neri di Castelvolturno etichettati come delinquenti: dire che non è grave e non siamo razzisti significa velarsi la faccia di fronte all’Europa».
Daniele Marantelli, deputato del Pd in terra padana, ieri rappresentava il suo partito alle celebrazioni della «Prealpina», con Bossi. Per il Senatùr un compleanno di popolo in attesa della «barcolada» sul Lago Maggiore. «Borghezio? - spiega Marantelli - Lì siamo ben oltre la destra europea. Quel raduno è stato uno spettacolo inqualificabile. Bene hanno fatto le autorità a impedirlo: quando il nostro governo vara misure di sicurezza che riguardano i bambini rom non capisce che Italia e Germania in Europa sono ancora degli osservati speciali».
Ma l’elettorato leghista sta con Bossi o Borghezio? «La maggioranza è con Bossi ma ci sono venature razziste da non sottovalutare. Il Pd deve sfidare il gruppo dirigente del Carroccio a sconfessare ogni fenomeno di intolleranza».

l'Unità 22.9.08
Fascista e secessionista, l’ultima raffica della Padania
di Oreste Pivetta


L’ultima raffica della Padania ha lasciato ancora il segno. Più degli altri, meglio degli altri. Al contrario dei suoi colleghi bloccati all’aereoporto, Mario Borghezio ce l’ha fatta a raggiungere Heumarkt, a salire sul palco brandendo come una spada contro l’Islam il libro della Fallaci, “La rabbia e l’orgoglio”. Non è andato oltre. Cancellata la manifestazione. Peccato: ci siamo persi onde su onde di merda, culo, pedate, bastonate, vaffanculo, eccetera eccetera. Borghezio dal palco è un uragano in piena: «La folla mi eccita», si era spiegato una volta. Ne sa qualcosa chiunque sia capitato dalle parte di Riva degli Schiavoni, a Venezia, il giorno delle celebrazioni leghiste, il giorno in cui dall’ampolla miracolosa retta dalla mano di Bossi l’acqua del Po si versa nell’Adriatico. Borghezio è capace di dirne di tutti i colori: oratoria violenta, tono trascinante, slogan di eccitante potenza, agitati tra parte anatomiche e resti organici, insulti e argomenti alla rinfusa, tanto chissenefrega.
Non immaginatelo rozzo e ignorante, è persino gentile quando scende dalla tribuna e abbandona il megafono. Il fisico non l’aiuta: un metro e 76 di altezza e una circonferenza che nessuno s’è mai azzardato a misurare di una flaccidissima polpa che non fa certo onore alla stirpe padana. Ma è un uomo di molte letture e di autentica bibliofilia: tra le antichità quella che si tiene più stretta al cuore è un manoscritto del Settecento sull’esoterismo. Dei contenuti non si sa.
Avvicinandosi agli amici neonazi radunati a Colonia, si è riavvicinato al suo passato che peraltro non ha mai smentito. Il giovane e magro Borghezio era un duro, tremendo, che nei fatidici anni 60 (è nato a Torino il 3 dicembre 1947 e si è laureato in legge) frequentava la destra più destra, prima monarchico e poi vicino al Msi, il partito allora di Almirante che non gli piaceva tanto, accusandolo di pigrizia e di moderatismo. Il senatore Ugo Martinat, Settimo Torinese, ora di An, lo ricordava così: «In gioventù lui bazzicava attorno a Europa civiltà, che dissentiva da Ordine Nuovo, che dissentiva dal Msi. Per un certo periodo ha girato fra i ragazzi della Giovine Italia, che era l’organizzazione missina dell’epoca. Ma dissentiva anche da quelli: basta, me ne vado, siete troppo moderati». Stava dunque alla destra della destra della destra e fu così, da destra, che si imbattè nel leader che l’avrebbe definitivamente conquistato: Umberto Bossi. Avviandosi con Bossi lungo un gratificante percorso, che lo vide consigliere comunale, deputato, persino sottosegretario alla giustizia, parlamentare europeo e, massima gloria, presidente del governo della Padania, tra il 1999 e il 2004, quando Bossi convocava i suoi parlamenti tra Pavia e Mantova. Poi se ne dimenticò e lasciò perdere, smarrendo anche quella vena secessionista, che aveva sedotto Borghezio, che non s’appassiona invece all’acqua fresca del federalismo. Fedele alla vecchia idea, nemico del “poltronismo” che aveva invece impigrito molti suoi colleghi all’ombra del Carroccio. Borghezio, malgrado il peso, è un uomo di strada: organizzatore, camminatore, faticatore, megafono in pugno per “esternare” nella situazioni più disparate.
Epiche le sue battaglie contro le peripatetiche nigeriane a colpi di flit sul treno, per le impronte digitali (anticipando di gran lunga Maroni), contro la Chiesa di Roma per la Chiesa del Nord (in questo caso, rara volta, suscitando l’ira di Bossi), contro quei «culi in aria” degli islamici, contro i venditori ambulanti e contro i poveracci che dormivano sotto i ponti. Strattonò per un braccio un ragazzo marocchino di dodici anni per consegnarlo ai carabinieri e fu condannato a pagare (nel 1994) 750mila lire di multa per violenza privata. Incendiò (nel 2000) i materassi di alcuni nordafricani e anche stavolta fu condannato: a due mesi e venti giorni di reclusione, commutati poi in tremila euro di multa, per l’aggravante della finalità di discriminazione. Inventò con Max Bastoni (non poteva trovare alleato più degno), le ronde padane, le camicie verdi, chiese le pallottole di gomma per i poliziotti, disse e smentì che «lo squadrismo padano deve usare il bastone contro gli immigrati».
Diego Novelli, che lo aveva conosciuto giovane consigliere comunale, ci ha lasciato di lui un ritratto persino benevolo: «L’uomo è un generoso, convinto delle sue idee, ha un grande disinteresse personale, tratti che costituiscono spesso le caratteristiche di tutte le forme di fanatismo». Fanatico, non c’è dubbio. Ma con moderazione calcolata, per sopravvivere (più longevo di Haider o di Le Pen). Con astuzia politica, con consumato mestiere dentro un partito che impone a tutti dei limiti e dove la fedeltà è un dogma. Altro che dibattito: quanti ne ha tolti di mezzo Bossi, avversari o presunti avversari, comunque ambiziosi. «Scarafaggi padani» li definiva Borghezio. La cui biografia politica non è un caso e neppure un episodio di folklore ma si ritaglia perfettamente tra le rovine della storia nazionale nazionale. Tra le rovine lui in fondo è rimasto in piedi, come gli «raccomandavano» gli scritti del maestro Julius Evola. Ci scandalizzavano le ronde o le impronte digitali, ma siamo stati lì lì perché diventassero pratiche di governo.
L’ultima battaglia Mario Borghezio l’ha guidata a Milano contro la moschea di viale Jenner: fazzolettone verde al collo, megafono in mano e via... Alla fine, come si è visto, la battaglia l’ha vinta proprio lui.

l'Unità 22.9.08
La vita artificiale è vicina. Ci dobbiamo rinunciare?
di Pietro Greco


A GENNAIO 2008 alcuni ricercatori annunciarono di aver sintetizzato in laboratorio un batterio già conosciuto in natura. Da quel momento c’è chi pensa che debba nascere anche una nuova bioetica
Siamo lontani dal creare nuove forme di vita ma forse presto «assembleremo» organismi complessi
Ma «Science» sostiene che non c’è bisogno di principi etici diversi per affrontare la novità

Abbiamo bisogno di una «bioetica sintetica»? Abbiamo proprio bisogno di un’altra branca dell’etica applicata che rifletta in maniera specifica sulle questioni di principio, sulle opportunità e sui rischi associati alla creazione in laboratorio di nuove forme di vita, artificiali?
Il problema non è immediato. Tutto sommato la possibilità di progettare e sintetizzare in laboratorio nuovi organismi o, addirittura esseri umani, non è per domani. E, forse, neppure per dopodomani. E tuttavia il tema - abbiamo bisogno di nuove regole per inedite possibilità - è stato autorevolmente sollevato, nei giorni scorsi, dalla rivista Science per mano di Erik Parens e da due suoi colleghi bioeticisti dell’Hastings Center di Garrison, Usa. La loro risposta alle domande è tranchant: no, non abbiamo bisogno di una nuova bioetica, di sintesi. E tuttavia il fatto stesso che le domande siano state sollevate è la dimostrazione che c’è un’inquietudine - una nuova inquietudine - che attraversa il mondo di coloro che osservano l’evoluzione della ricerca in biologia.
I fatti sono davvero recenti. Risalgono solo a qualche mese fa. Allo scorso gennaio, per la precisione. Quando un gruppo di scienziati del Institute for Systems Biology di Seattle annunciò di aver sintetizzato con successo in laboratorio l’intero genoma del più piccolo batterio conosciuto, quello del Mycoplasma genitalium. Non si trattava, dunque, di una nuova forma di vita. E neppure di una sintesi integrale: in realtà i ricercatori di Seattle avevano assemblato pezzi diversi di Dna esistenti in natura e ottenuto il genoma funzionante del minuscolo batterio. Si trattava, dunque, di un primo, timidissimo passo verso la «biologia di sintesi» e la creazione di «vita artificiale».
Ma tanto è bastato per accendere la discussione. Siamo di fronte a problemi nuovi e abbiamo bisogno di nuove regole, hanno immediatamente scritto, su Nature Biotecnology, due bioeticisti tedeschi, Boldt e Muller. L’argomento è stato ripreso, con una certe enfasi, dai media: ecco i biologi che vogliono «giocare a fare Dio» e aprire il vaso di Pandora di nuove forme di vita, artificiali. L’interesse degli studiosi e i riflettori dei mezzi di comunicazione di massa hanno indotto lo scorso mese di maggio studiosi finanziati dall’Unione Europea ad aprire una e-conference, una conferenza elettronica, sulla synbiosafe, la sicurezza della biologia di sintesi, per discutere tre diverse categorie di problemi: verificare l’esistenza di questioni di principio inedite associate alla «nuova biologia»; verificare l’esistenza di rischi inediti; discutere l’opportunità di creare un’istituzione europea che segua da vicino in maniera sistematica questi problemi.
La conferenza non ha trovato le risposte definitive. Ma certo un merito lo ha avuto: ha contribuito a chiarire le domande. Di cosa, dunque, stiamo parlando? Beh, stiamo parlando del fatto che i biologi stanno acquisendo la crescente capacità sia di sintetizzare in laboratorio le macromolecole della vita (proteine, Dna, Rna) sia di ricostruire, come a Seattle, un intero genoma assemblando pezzi di genomi naturali esistenti. Non è, dunque, lontana la possibilità che un giorno si riesca a replicare in laboratorio a partire dai costituenti di base (amminoacidi e acidi nucleici) un intero virus o il genoma di un batterio e - perché no - di un organismo più complesso. Molto più distante nel tempo appare, invece, la possibilità di sintetizzare forme di vita sconosciute in natura o, addirittura, organismi auto replicanti che utilizzano una biochimica diversa da quella operante in natura.
Di qui la prima categoria di domande: quelle di principio. C’è qualcosa che in linea di principio, appunto, consigli (obblighi) i biologi a rinunciare a queste possibilità? Le nuove strutture biologiche create (o che saranno create) in laboratorio devono essere considerate, anche sul piano etico, omologhe, analoghe o del tutto diverse rispetto a quelle che troviamo in natura? La biologia di sintesi costituisce davvero una novità? Cosa intendiamo, esattamente, per «vita artificiale»?
Il dibattito ha consentito di verificare come non esistano risposte semplici a queste domande. Che le distinzioni in biologia non sono così nette come appare. Che non sappiamo, ancora, rispondere in maniera definitiva a domande fondamentali, compresa quella primaria in biologia: cosa dobbiamo intendere per vita? E che l’insieme di queste incapacità ci induce a seguire, anche sulle questioni di fondo, non le vie delle affermazioni assolute, ma quella della verifica caso per caso.
Il che ci rimanda alla seconda categoria di domande: esistono rischi sanitari e/o ecologici associati alla biologia di sintesi? Anche in questo caso le risposte non possono essere assolute, ma si tratta di verificare caso per caso qual è il rapporto tra i rischi e i benefici.
Una risposta univoca non esiste neppure per la terza categoria di domande: dobbiamo istituire nuove agenzie - in Europa o altrove - che seguano con sistematicità temi e problemi della biologia sintetica?
A questo punto - con le idee un po’ più chiare e con molte domande in più da porre - possiamo tornare all’articolo pubblicato da Parens e dai suoi colleghi su Science e dare loro ragione: no, non abbiamo bisogno di una nuova «bioetica sintetica». Non perché non esistano problemi nuovi. Ma perché è sbagliato frammentare la riflessione sull’etica applicata alle nuove conoscenze scientifiche in tante minidiscipline incomunicanti. Sia perché non c’è soluzione di continuità tra la biochimica, la genetica e la biologia di sintesi. E quindi non può esserci soluzione di continuità nella riflessione etica intorno alla biochimica, alla genetica e alla biologia di sintesi. Sia perché le risposte puntuali ai singoli problemi sollevati dalle nuove conoscenze in ogni campo possono e devono essere risolte in un cotesto unitario: la responsabilità che l’uomo si assume per le sue azioni.

Corriere della Sera 22.9.08
Revisioni storiche
Porta Pia e il senso del ridicolo
di Paolo Franchi


Può essere? A prima vista almeno no, non può capitare che il generale dei Granatieri Antonio Torre, commemorando il 138˚anniversario della Breccia di Porta Pia, taccia sui 49 caduti italiani.
E che lo stesso generale legga invece uno ad uno i nomi dei 19 caduti papalini. Però è successo.
E' successo pure, se è per questo, che il vicesindaco Antonio Cutrufo, che rappresentava alla cerimonia il sindaco di Roma Gianni Alemanno, non abbia provato a porre riparo alla dimenticanza, chiamiamola così, del generale, probabilmente perché nemmeno se ne è accorto; e che il succitato Alemanno, almeno a stare alle sue dichiarazioni, abbia fatto mostra di non essersi accorto neanche lui della gaffe. Sempre che soltanto di una gaffe si sia trattato, e che anche questa vicenda, in sé alquanto grottesca, non ci segnali, al pari di varie altre succedutesi nelle ultime settimane, qualcosa di più complesso e di più preoccupante. Sembra pensarla così Giovanni Sabbatucci, intervistato ieri dal Corriere, che si chiede, ironicamente ma non troppo, se, andando avanti di questo passo, d'ora in avanti il 4 novembre saranno ricordati i caduti delle truppe austroungariche a Vittorio Veneto. E non è il primo a porsi domande di questo tipo. Già nei giorni scorsi, all'indomani delle improvvide affermazioni del sindaco Alemanno e del ministro La Russa sul fascismo male più o meno assoluto e sull'amor di patria dei ragazzi di Salò, Emilio Gentile si era interrogato (anche lui facendo ricorso, si capisce, all'ironia) su che cosa possiamo aspettarci, di qui a poco, dalle celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia: un sofferto omaggio a Metternich e Cecco Beppe, magari?
Sabbatucci e Gentile sono due storici di vaglia, e non fanno parte in alcun modo delle schiere degli indignati in servizio permanente effettivo, sempre pronti a lanciare denunce accorate contro gli infami disegni di chi, si dice, vorrebbe procedere a buttare giù tutto, oggi la Resistenza, domani il Risorgimento, dopodomani chissà. Quello che ci segnalano è però forse più preoccupante di un'offensiva politica e ideologica, o di un consapevole tentativo di spingere il revisionismo storico verso lidi fino a qualche tempo fa letteralmente inimmaginabili, sottoponendo ad aperta e radicale contestazione certezze più o meno consolidate e miti fondativi della storia nazionale. Per restare al 20 settembre, l'ultimo caso in ordine di tempo: forse gli ultratradizionalisti di Militia Christi, gli unici ad esultare, sarebbero ben contenti anche della restaurazione del potere temporale dei papi, e di certo non escludono che, con l'aria che tira, la questione possa in qualche modo tornare di attualità. Ma tenderemmo ad escludere che il generale, il vicesindaco e il sindaco di Roma siano dei nostalgici del Papa Re. E' molto più probabile, piuttosto, che siano ad un tempo vittime e propagatori di una nuova, e diffusa, malattia nazionale, il cui sintomo più evidente è la caduta del senso del ridicolo. Una caduta così vistosa che pochi si sorprendono se agli aspiranti infermieri specializzati, come ci ha ricordato sabato sul Corriere Paolo Macrì, viene chiesto di pronunciarsi in sede di esame sulla tesi di Alberto Asor Rosa, secondo il quale il fascismo sarebbe stata cosa ben più alta e nobile del berlusconismo; e nessuno si meraviglierebbe troppo se qualcuno saltasse su a segnalarci la buona fede degli zuavi di Pio IX che restarono fedeli a costo della vita alla consegna pur sapendo che la causa dello Stato pontificio era votato alla sconfitta.
Forse (forse) il generale, il vicesindaco e, seppure in forma indiretta, il sindaco di Roma hanno semplicemente creduto, celebrando i soldati del Papa nel giorno della Breccia di Porta Pia, di interpretare lo spirito di marmellata dei tempi. Secondo il quale, essendosi fatto tutto assai vago e incerto, il modo migliore di cavarsela è quello di rendere omaggio alle buone ragioni che, c'è da giurarlo, dovevano pure albergare in fondo al cuore di ciascuno, quali che fossero la causa e la bandiera per cui militava. Forse (forse) il generale, il vicesindaco e, seppure in forma indiretta, il sindaco di Roma hanno semplicemente pensato di uniformarsi alla logica che sommariamente definiamo bipartisan, estendendola dai rapporti politici tra maggioranza e opposizione sui grandi problemi nazionali aperti alla storia patria, questione romana compresa; e solo per eccesso di zelo bipartisan si sono ricordati degli zuavi, ma hanno dimenticato i bersaglieri e i fanti. Capita. Può capitare. Non è il caso di farne un dramma o, Dio ci scampi, di chiedere, a mo' di risarcimento, che il 20 settembre torni ad essere festa nazionale: in fondo 138 anni fa si è solo realizzato il sogno di generazioni e generazioni di italiani. Ma non è nemmeno il caso di dimenticare che di ridicolo si può anche, e ingloriosamente, morire.

Corriere della Sera 22.9.08
Sulla rivista «Storia dell'arte» Maurizio Calvesi conferma la tesi di Luciano Canfora
Artemidoro? Sembra proprio Dürer
Il papiro porta al falsario Simonidis, che s'ispirò all'artista tedesco
di Maurizio Calvesi


Lo sguardo dello storico dell'arte può aggiungere, all'esame «interno» del papiro di Artemidoro, qualche osservazione sul segno, che appare uniforme in alcune delle figure, nonché nella mappa. Si veda come il tratto ondulato e sottile dei fiumi si ripeta nella chioma del sapiente che è stampato di profilo nell'agraphon, davanti alla colonna di apertura. Almeno le due figure dell'agraphon sembrano della stessa mano della mappa (ovvero di quella di Simonidis).
Allievo di un allievo di David fu quest'ultimo, che è certamente l'autore del testo. Ma egli era, per l'appunto, anche un artista. Che il suo maggiore maestro sia stato alla scuola di David, lo ha lasciato scritto Callinico Jeromonaco nella notizia biografica posta al principio dei Symmiga (Mosca 1853).
La figura più grintosa del papiro è senza dubbio la testa posta di profilo di fronte alla prima colonna, in basso: lo sguardo fermo, il naso rincagnato nel primo tratto e poi sporgente, la bocca stretta, i capelli come anche la ruga della fronte e il sopracciglio delineati con un tratto più leggero, la barba riconfusa con i capelli, e presentata con tratti anche orizzontali. Questa strana barba, pettinata lungo la gota in direzione della nuca, è un elemento classico che possiamo trovare nella scultura romana (si veda il Pugile delle Terme, nel Museo Nazionale Romano) come nei disegni neo-classici, proprio di David, tenendo anche presente il gusto del maestro per i profili dell'antico; ma nel complesso a me sembra che l'impronta severa della figura richiami soprattutto Dürer, come potrebbe suggerire un confronto con la testa di Nicodemo nel Compianto di Monaco, Alte Pinakothek, o anche con alcune delle teste barbute che così frequentemente compaiono nella grafica düreriana.
Ancora nel recto, lemani e i piedi sono disposti con regolarità secondo un gusto accademico (non già «alla rinfusa» come vorrebbe Settis): quattro mani ordinate a losanga, la losanga che penetra nel triangolo formato dai tre piedi sottostanti. Il motivo delle mani ha un buon riscontro, nel libro di Canfora Il papiro di Artemidoro, con una tavola dell'Enciclopédie. Tuttavia il più famoso esempio di una composizione di quattro mani è quello visibile al centro del Gesù tra i dottori di Dürer (in collezione Thyssen) dove le quattro mani formano un quadrato e non una losanga, ma possono indurre l'imitatore a riprodurre un disegno geometrico e centrale formato da due mani sinistre e due destre, come nel papiro. È un motivo celebre che ha sedotto più pittori, anche della nostra stagione: una mano sinistra e una destra, una sinistra e una destra. E che una delle mani di Simonidis sia ricalcata — come propone puntualmente Canfora — da Raffaello, con il medio e l'anulare congiunti, il pollice aperto, e le fossette laddove la mano è più paffuta, è una conferma dell'attenzione accademica di Simonidis ai grandi maestri del Rinascimento.
Ma l'interesse per Dürer sembra decisamente confermato da un'altra figurazione del verso. Un cervo assale un lupo che gli punta contro le zampe come rattrappite. Canfora ha scovato un eccellente confronto con il centauro che assale un lupo nella Uranographia di Hevelius. Si tratta di una mappa delle costellazioni, che Simonidis — segnalo — può aver osservato anche in altre versioni, come quella, bellissima, di Andreas Cellarius (Keller) verso il 1660, dove il
lupus prende il nome di fera, o in altre e forse soprattutto nel suo prototipo che risale proprio a Dürer, a una sua incisione dello stesso soggetto in cui il gruppo (centaurus contro fera) assume una fisionomia altrettanto prossima all'immagine del papiro: è verosimile che proprio da qui Simonidis abbia attinto. Sostituita la testa del cervo a quella del centauro, la figura (dunque notissima) si è adattata pienamente alla fantasia del falsario.
Piccole glosse: l'elefante è detto «sterile» in Artemidoro-Simonidis.
«Apprendiamo dalla didascalia che l'elefante che combatte con il serpente — scrive Stefano Micunco nel libro di Canfora — sarebbe steiros, sterile. L'unico possibile raffronto è con il testo del Physiologus, il quale afferma che l'elefante "non ha naturale desiderio di unione sessuale"». È possibile aggiungere che una frase simile è reperibile anche nel Bestiaire di Philippe de Thaün (che del resto riprende dal Physiologus): l'elefante «non procrea spesso»; e nel Bestiaire
di Gervaise: «Non si accoppia mai con la sua compagna se non ha deciso di generare». E veniamo alla mappa: «una carta geografica — l'unica del genere che si sia conservata dall'antichità»; «sarebbe in ogni caso l'unica mappa antica pervenuta, e per di più tramandata sullo stesso rotolo che conteneva il testo geografico. Ciò che non è ad oggi documentato né da altre testimonianze pervenuteci, né dalle fonti antiche. Le quali anzi informano che le mappe geografiche erano di norma riportate su supporti materiali autonomi »; «una fantasiosa mappa piena di impressionistiche vignette adattabili a qualunque parte del mondo fornita di fiumi». Forse la carta è di pura invenzione.
Se cerchiamo, nel disegno dei fiumi, qualcosa di vicino al tratto sottile e leggero, delicatamente ondulato, con cui i fiumi sono segnati nella mappa del papiro, potremmo guardare alla cartografia del Kircher. Qui ricorre frequentemente, per quel che può valere, anche quella biforcazione finale del segno- fiume che indica un delta e trova riscontri nella carta dell'Artemidoro simonideo. Kircher poteva essere un autore ben conosciuto da Simonidis, che era interessato ai geroglifici.
A sinistra, un particolare dall'incisione «I disperati» di Dürer. A destra, un'immagine dal «papiro di Artemidoro»

Repubblica 22.9.08
A Vicenza i progetti e i modelli dell´architetto veneto nato nel 1508
Palladio, un successo lungo cinquecento anni


VICENZA. Nel vicentino c´è la più alta concentrazione di opere di Andrea Palladio di cui si celebrano i cinquecento anni dalla nascita. La sua architettura non è solo a Vicenza e Venezia, centri capitali del suo lavoro, ma nel padovano, nel trevigiano e nel veronese: da questa pianta è gemmata una forma mirabilis di architettura che s´è diffusa nell´Europa del nord, in Russia e nelle Americhe. Nessun architetto è tanto celebre e nessuno tra essi ha mai avuto tale e tanta influenza. Nato a Padova nel 1508 e morto a Vicenza nel 1580 Palladio ha costruito ville, palazzi pubblici e privati, chiese, opere pubbliche che sono nel cuore e nell´anima di chi ama la verità dell´arte e la sua assoluta perfezione.
In Palazzo Barbaran da Porto, l´unico palazzo che l´architetto realizzò integralmente (fino al 5 gennaio, poi alla Royal Academy of Arts di Londra) si può distesamente dialogare con lui e avere sotto gli occhi 78 disegni di sua mano, molti dei quali sono in Gran Bretagna: per l´occasione tornano a casa dopo che nel 1614 il grande architetto Inigo Jones li acquistò dalle mani di Vicenzo Scamozzi. Già solo questo è un evento anche per chi, nelle belle sale del Riba, in gioventù, si è chinato su queste reliquie con spirito devoto. E non è forma retorica la mia, ma davvero i disegni di Palladio ispirano devozione per la calibrata misura di ogni tratto di penna o di matita, per la minuziosa precisione degli appunti che ingombrano questi fogli taluni di piccolo formato. Ma si sa che i disegni non sono sempre di agevole lettura e per tale ragione Guido Beltramini e Howard Burns che curano la mostra (catalogo Marsilio) hanno disposto decine di modelli che rendono visibili quanto tracciato sui fogli di carta. I modelli, in tal caso, sono didatticamente efficaci ma restano algide sembianze: poco utili quando replicano architetture esistenti.
Palladio, nome d´arte che gli diede il suo amico e mecenate Giangiorgio Trissino, ebbe modeste origini e a Padova visse da scalpellino fino all´età di sedici anni. Ma lentamente con l´aiuto dello studioso vicentino, scrittore e cultore anch´egli d´architettura, fece viaggi a Roma e imparò a vedere l´Antico. Come aveva fatto prima di lui Leon Battista Alberti: come questi non assunse quasi mai il ruolo di responsabile dei cantieri, fatto che da un lato non gli consentì lauti guadagni, come spiega Beltramini in un delizioso libretto su Palladio privato, dall´altro lo indusse a intraprendere la via del trattatista. I Quattro libri dell´architettura (Venezia, 1570) ebbero fortuna eccezionale, furono tradotti in più lingue e propagandarono il suo linguaggio e le opere nei quattro angoli del mondo. Innumerevoli architetti che mai visitarono il Veneto ebbero sul tavolo da disegno questo tomo assunto a Bibbia.
Tra le molte architetture del Palladio non esito a partire dalla Basilica di Vicenza, che, con uno scrigno lapideo riveste una preesistente fabbrica tardo medievale: l´incarico gli fu conferito nel 1546 e l´architetto adottò il partito della serliana che gli consentì di assorbire le differenti ampiezze di campata. Geniale trovata il cui funzionamento risulta chiaro nelle arcate d´angolo: qui le aperture architravate sono così ridotte quasi da scomparire. Ma il palazzo della Ragione col solenne rivestimento lapideo è anche un grande intervento d´architettura urbana, che con l´antistante Loggia del Capitanio dominata dall´ordine gigante, forma una delle più belle piazze d´Italia. Trent´anni circa separano le due architetture così differenti per articolazione tettonica e cromia, così che nella piazza dei Signori abbiamo a confronto l´incipit e la piena maturità dell´architettura palladiana.
Preziosa per la ricchezza delle informazioni la veduta a volo d´uccello di Vicenza incisa introno al 1580 dalla quale si deduce che alla morte di Palladio molte fabbriche come i palazzi Chiericati, Thiene e Barbaran da Porto non erano conclusi. L´altro polo si diceva è Venezia dove Palladio trovò amici come Daniele Barbaro e committenti: tra questi massime i monaci benedettini nell´isola di San Giorgio per i quali costruì la chiesa, il refettorio e il chiostro. Una delle novità più interessanti è che nella chiesa Palladio adottò la vernice rossa per porre in risalto le diverse parti degli ordini architettonici. In molte chiese veneziane era già dal Quattrocento in uso il grigio, ma il rosso ebbe certo un altro effetto. Fu la cultura neoclassica a sottoporre a candeggina gli interni di San Giorgio, così come altre ville dove solo il mattone e la pietra hanno retto all´imbiancatura. La facciata di San Giorgio disegnata da Andrea aveva un portico sporgente con colonne giganti, come attesta un disegno: quella esistente è più tarda.
Divenne dunque Palladio l´architetto del patriziato veneto che volle non piccole ville agricole come nel vicentino, ma sontuose residenze realizzate nel corso degli anni: da villa Cornaro a Piombino a villa Ema a Fanzolo, da villa Foscari detta Malcontenta alle porte di Venezia a villa Barbaro a Maser dove intervenne Paolo Veronese con gli affreschi. Questo patriziato ha l´ambizione di far di Venezia una seconda Roma e trova in Andrea - l´architetto dotato della mediocritas albertiana - ideale interlocutore per un disegno politico di egemonia. Se il progetto del palazzo ducale rimasto sulla carta fu un bene per Venezia, certo il progetto per il Ponte di Rialto, così come lo dipinse Canaletto, ci incanta. Come in ogni festa che si rispetti sono invitati anche altri colleghi: alcuni amati come Veronese, El Greco, Giulio Romano nel ritratto di Tiziano, devoti ammiratori come Inigo Jones ritratto da Van Dyck ma anche rivali acerrimi come Jacopo Sansovino ritratto da Tintoretto: noblesse oblige!

Repubblica 22.9.08
Van Gogh. Alcuni capolavori dell´artista, che sembrano quasi un testamento, all´Albertina di Vienna
Tre fogli raffigurano l´ospedale psichiatrico di Saint-Rémy


VIENNA. L´Albertina, splendida e davvero imperiale dopo il recente restauro, ospita una mostra di Van Gogh di grande impegno: è incentrata sull´idea del disegno, che si vuol riscoprire - non solo nell´opera su carta - come componente essenziale di un artista universalmente noto per l´invenzione d´un nuovo colore, arbitrario ed estremo, che va comunque sempre oltre la realtà, non accontentandosi di imitarla.
A differenza della mostra dedicata esclusivamente al disegno allestita dal Kröller-Müller di Otterlo nel centenario della morte di Van Gogh (1990), questa di Vienna (fino all´8 dicembre) guarda al disegno non solo nella sua specificità, sovente di studio o progetto, ma come struttura profonda della creatività dell´artista, e ne rintraccia la presenza accanto al colore - spesso da esso velata o inglobata - nei vari tempi e nelle varie tecniche, ivi compresa la pittura a olio su tela. E sono tante le sorprese che si susseguono di sala in sala, attraverso le centocinquanta opere che documentano i dieci anni di lavoro - non più di tanti, furono - della parabola tesa di quell´esistenza.
Van Gogh ha usato il disegno ogni giorno della sua vita, da quando, vicino oramai ai trent´anni, decise di volgersi alla pittura: tanto che il suo catalogo conta oltre mille opere su carta conosciute. Spesso, soprattutto nel tempo suo ultimo, i fogli che lo accolgono sono di una notevole dimensione. Quasi sempre essi sono lungamente lavorati, e alla matita, ai gessetti e alla penna s´unisce sovente il pennello, a stendervi gli inchiostri bruni o colorati, l´acquerello e talvolta un olio magro. Occupano i luoghi e i ruoli più diversi nel corpo del lavoro: sono talvolta fogli isolati, indagini condotte all´aperto per catturare un motivo, ma più di frequente sono episodi di una serie che ripete l´identico tema, variandolo di poco. Precedono o seguono, indifferentemente, la pittura, rispetto alla quale essi non sono comunque mai solamente propedeutici: spesso sono orgogliosamente firmati; ancor più spesso sono ricordati e discussi nelle lunghe lettere che Van Gogh scrive quasi quotidianamente al fratello Theo. Sono eseguiti per sé, certo, ma anche per farne dono a Theo stesso (nei confronti del quale Vincent continuò sempre a provare scrupolo e un lancinante senso di colpa per il denaro che il fratello destinava al suo sostentamento), o agli amici, o infine per tentare di sedurre qualche compratore.
Talvolta si sostituiscono interamente alla pittura: come avviene ad esempio l´anno ultimo, a Saint-Rémy. Van Gogh vi è ricoverato in una clinica psichiatrica: s´è fatto rinchiudere volontariamente in quelle mura, per scontare la sua offesa a Paul Gauguin, l´amico che aveva tanto atteso ad Arles, nella speranza di costruire assieme a lui una solidarietà profonda di pensieri, affetti, lavoro, ma col quale l´incipiente malattia mentale non gli aveva consentito di trascorrere serenamente che poche settimane. Non basta l´auto mutilazione all´orecchio che, per espiare, s´impone: poco dopo le ansie e la depressione lo convincono a farsi internare a Saint-Rémy. Qui i medici, nell´estate del 1889, dopo un´ennesima crisi, gli fanno togliere i colori a olio, con i quali temono che s´avveleni. Dura forse solo qualche settimana, questo provvedimento; ma certo esso dà a Van Gogh la misura del suo stato: che egli allegorizzerà pochi mesi dopo nel Cortile della prigione, un´opera - in mostra oggi a Vienna - tratta da un´incisione di Gustave Doré (Vincent s´era fatto inviare in ospedale da Theo la sua collezione di stampe, per poterne trarre ispirazione nell´assenza di un libero contatto con la natura), in cui una lunga fila di carcerati camminano in circolo, fra alte incombenti mura, durante la loro ora d´aria.
Ebbene, è durante questo tempo in cui anche la possibilità della pittura gli è tolta che nascono tre grandi fogli, due attualmente conservati al museo Van Gogh di Amsterdam, l´altro al Metropolitan di New York, che quasi basterebbero da soli a giustificare la mostra odierna. Raffigurano i luoghi dell´ospedale, il Vestibolo, un Corridoio, e La finestra nello studio (una stanzetta che gli venne assegnata per dipingere). Le linee tracciate sommariamente con il gessetto nero rinserrano pochi, pallidi, smunti colori: ocra in gamma ristretta, qualche verde, qualche grigio; «colori semplici», come aveva annunciato al fratello di voler tentare, poco innanzi. Nulla, in questi fogli che sembrano un testamento, richiama il vortice orgoglioso di materia, gli scoppi cromatici, il vento il sole o la pioggia dei suoi quadri più celebrati. Le nitide prospettive rinserrano il dolore di un animo che non può, adesso, sperare neanche quell´aria aperta in cui erano scoppiate le ultime, violente crisi. La vita si piega sulla pittura, come d´altronde è sempre avvenuto in Van Gogh - fino a smangiarne la forma, le preoccupazioni di lingua. E le inferriate che si scorgono oltre la finestra, oltre il davanzale dove s´allineano poche bottigliette e barattoli, miseri emblemi di una pittura che fu, hanno un bel dire le ultime esegesi tentate su questo piccolo gruppo di disegni, che non siano simboliche: dicono d´una esistenza che si spegne, proprio come tanto tempo dopo faranno le ultime nature morte di De Pisis, rinchiuso a Villa Fiorita, anch´egli a scontare la sua follia.
Sono questi i fogli che m´hanno più sedotto; ad altri potrà parere diversamente, e nella grande mostra di Vienna sceglierà allora i fogli finitissimi del periodo olandese, influenzati dalla malinconia di Israels o Van Rappard (Acquitrino con ninfee, il primo disegno esposto all´Albertina, del 1881, è già un capolavoro), o quelli di Drenthe, invasi da una luce lenta che ripensa la grande lezione di Millet; o quelli aspri di Nuenen, illividiti come un Dupré o un Daubigny, ma già con una carica fantasmatica da dir proto-simbolista (Covoni e mulino, 1885); o quelli di Parigi, dove Van Gogh giunge all´inizio dell´86, in tempo per amare l´impressionismo, e odiare le separazioni che laceravano il gruppo; o infine gli ultimi di Arles, dove il segno si frantuma in mille rigagnoli, e pullula ovunque, come impazzito, facendosi quasi interamente astratto: al di là, tanto al di là, di quella realtà che aveva disperatamente inseguito.