mercoledì 24 settembre 2008

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“PERCHE’ QUELLA DEI GIUDICI DI MILANO E’ UN’OTTIMA SENTENZA”

Condividiamo pienamente la decisione dei giudici della Corte d’Appello di Milano sul caso Englaro, decisione che costituisce un ulteriore passo verso l’allargamento dell’autodeterminazione delle persone essenziale per la modernizzazione del paese in campo biomedico.
L’idea alla base della decisione dei giudici è l’applicazione del principio dell’eguaglianza di tutti i cittadini sancito dalla Costituzione anche nella finalità “di rendere possibile la libera espressione della loro personalità, della loro dignità e dei loro valori”. Poiché come osserva sempre la Corte “la prosecuzione della vita non può essere imposta a nessun malato, mediante trattamenti artificiali, quando il malato stesso liberamente decida di rifiutarli”, il principio di eguaglianza va esteso anche a Eluana che ora non può più esprimere la propria volontà.
La sentenza di Milano non pretende di risolvere tutti i problemi del vegetativo permanente né di sostituirsi ad eventuali leggi, ma risponde come è giusto che sia al caso specifico di Eluana Englaro. E’ forse bene ricordare che la famiglia ha fatto di tutto per cercare il risveglio di Eluana rivolgendosi ai migliori centri: tutto è stato vano. Nonostante ripetuti e straordinari sforzi durati anni, la situazione di Eluana è sempre stata stabile e senza variazioni: è pertanto certa la irreversibilità del suo stato.
Eluana aveva un forte senso della libertà e della propria dignità, non avrebbe mai accettato di rimanere nello stato di vegetativo permanente. Infatti, esistono numerose prove testimoniali delle ripetute affermazioni di Eluana –prima dell’incidente- di non voler rimanere nello stato vegetativo permanente. Queste due condizioni giustificano ampiamente la decisione presa dalla Corte d’Appello di Milano.
Le sue volontà sono quindi acclarate ed indubitabili: sono quindi obiezioni da Azzeccagarbugli quelle che si nascondono dietro la mancanza di una firma su un documento.
Ci preoccupa invece il commento di Monsignor Fisichella, tutto centrato su aspetti giuridici: che il Presidente di una Accademia di uno stato estero discetti con piglio normativo sulla legislazione italiana criticando i giudici e soprattutto dia consigli su strategie legali ci pare andare al di là del legittimo intervento su questioni morali che è proprio della Chiesa. Questo sul piano formale. Sul piano sostanziale è trito il rifermento all’eutanasia come altrettanto trito è il richiamo all’idea che questa sentenza scardini il principio di non disponibilità della vita umana o il dovere di prendersi cura dei pazienti: si tratta di forme che ripropongono un obsoleto vitalismo in cui la mera vita biologica sarebbe il valore supremo.
Né vale la critica – avanzata da Giuliano Ferrara e dal Cardinale Bagnasco- che attuare la sentenza condurrebbe Eluana alla morte per fame e per sete. Questo argomento usa le parole non per descrivere e trasmettere idee ma per evocare istinti e sentimenti profondi. Infatti, Eluana non mangia e non beve dal giorno dell’incidente. Eluana assume una terapia nutrizionale senza gusto né sapore; ecco perché è lecito sospendere quella terapia del tutto analoga alla terapia ventilatoria, lasciando che Eluana muoia secondo la sua volontà.
I giudici di Milano pertanto non hanno invaso un campo non loro ma hanno interpretato la legge recependo istanze emergenti dalla coscienza civile degli italiani che è secolarizzata. La gente vive ormai in base ai valori laici e secolari che purtroppo non trovano adeguata rappresentanza sul piano pubblico. Speriamo che chi ha responsabilità pubbliche dia voce ai valori secolari e faccia valere i diritti civili di tutti. Ci auguriamo, quindi, che i politici italiani di destra e di sinistra manifestino coraggio nel portare avanti la battaglia per la laicità, conformando i comportamenti alle idee.

Emilio D’Orazio Direttore del Centro Studi Politeia
Maurizio Mori Presidente della Consulta di Bioetica
l’Unità 24.9.08
L’ultimo addio: Una folla in lacrime per Abdul


Parenti, amici, politici, semplici cittadini. Erano in centinaia, ieri, per dare l’ultimo saluto ad Abdul “Abba” Guibre, nell’Auditorium della scuola media Aldo Moro a Cernusco sul Naviglio, il paese in cui Abdul abitava assieme alla famiglia.
Hanno sfilato in lacrime davanti alla bara, che aveva attorno tante foto di Abba, lasciando una firma sul libro della memoria e provando a dare un gesto o una parola di conforto ai genitori, distrutti dal dolore. Poi il silenzio, lungo e surreale, mentre la bara veniva caricata sul carro funebre, diretto all'aeroporto di Malpensa, per raggiungere il Burkina Faso, il paese d’origine di Abdul, dove verrà seppellito.
Lo scrittore senegalese, ma da decenni residente in Italia, Pap Chouma, ha detto di aver preso parte alla commemorazione «in quanto padre e per parlare delle responsabilità dei politici, incapaci di trovare soluzioni. Loro indicano nell'immigrato il nemico e la gente comune cerca di sfogarsi sul più debole. In un quarto di secolo non mi sono mai incazzato così tanto».
Filippo Penati, presidente della provincia, ha ricordato come «questo episodio debba costituire un inizio di riflessione su modi in cui questa città impaurita possa adoperarsi per accogliere chi viene qui a lavorare. È doveroso essere vicino ai familiari di Abdul perché questa è una morte che non ha ragione di esistere e da tutti deve venire una condanna alla giustizia fai da te».

l’Unità 24.9.08
Laura Boldrini. Portavoce per l’Italia dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati: il dna non è una novità assoluta
«Ma il rischio peggiore è il reato di clandestinità»
di Andrea Carugati


«Non positivi». Questo il giudizio di Laura Boldrini, portavoce per l’Italia dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, sui decreti del governo che rendono più difficili i ricongiungimenti familiari per gli immigrati. E tuttavia, spiega, «rispetto alla prima versione del decreto sull’asilo c’è stato un miglioramento, anche grazie alla battaglia che abbiamo condotto».
Quale miglioramento?
«Nel decreto vengono alzati i tetti di reddito per il ricongiungimento, e questo è negativo, ma da questa stretta vengono esclusi i rifugiati e i beneficiari di protezione sussidiaria, cioè gli immigrati che fuggono da situazioni di guerra e violenza diffusa. Questa nostra proposta è stata accolta ed è un fatto positivo. Un altro è che ora, in caso di diniego alla richiesta di asilo, l’immigrato non potrà essere espulso prima della scadenza dei termini per fare ricorso ed è ripristinata la possibilità di fare istanza al giudice per chiedere che il ricorso sospenda il provvedimento di allontanamento».
L’aspetto più negativo dei decreti?
«Fino ad oggi chi faceva richiesta di asilo dopo aver subito un provvedimento di espulsione poteva uscire dal Cpt, con i decreti dovrà rimanere trattenuto nel Cpt fino a quando non avrà avuto riposta alla sua domanda».
Come valuta l’introduzione del test del dna per ricostruire i legami di parentela?
«È una misura da applicare solo quando vi siano seri dubbi sui legami di parentela, e può essere anche a tutela del minore, visto che è successo che sedicenti genitori utilizzassero il ricongiungimento per far entrare in Italia dei minori con altri scopi. Non è una novità assoluta, è già successo che i tribunali richiedessero l’esame del dna. La cosa fondamentale è che, in attesa degli esiti dell’esame, i minori non siano separati dal nucleo familiare e che questo strumento non venga utilizzato in modo sistematico».
E il fatto che il test sia a carico degli immigrati?
«Potrebbe essere un problema, visti i costi elevati dell’esame. In passato per i richiedenti asilo ci sono state associazioni che si sono fatte carico dei costi».
Ritiene che, come ha detto il ministro Maroni, ci siano rischi di abuso dello strumento della richiesta di asilo?
«Non mi pare. Da gennaio ad agosto 2008 il 50% di chi ha fatto domanda ha ottenuto una qualche forma di protezione: l’8% lo status di rifugiato, il 30% la protezione sussidiaria e il 12% un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Nel 2007 la percentuale era oltre il 55%. Si tratta quindi di persone che hanno un bisogno effettivo di protezione. E questa percentuale aumenta sensibilmente per chi arriva con le carrette del mare: il 65% di chi è arrivato via mare nel 2007 ha ottenuto una forma di protezione. E solo il 10% degli irregolari arriva via mare».
Vede il rischio di un peggioramento del clima per chi chiede asilo in Italia?
«Il rischio peggiore è nel reato di clandestinità su cui il Parlamento dovrà pronunciarsi. Deve essere assolutamente escluso chi fa richiesta di asilo, come prevede l’articolo 31 della Convenzione di Ginevra, Altrimenti si rischia una criminalizzazione del diritto di asilo».

l’Unità 24.9.08
Famiglia cristiana accusa: «Paese verso la semidemocrazia»


ROMA «Italiani brava gente, si diceva una volta», ma di fronte agli ultimi episodi di intolleranza, secondo Famiglia cristiana, sembra che l’Italia stia «cambiando pelle». «Oggi - commenta Famiglia cristiana - a leggere certi recenti episodi di cronaca, sembra di essere diventati il Paese dell’intolleranza. Una intolleranza che non è di matrice razzista, ma che può diventarlo».
Ma il settimanale affronta anche un altro tema scottante. Neppure alle europee «potremo sceglierci i rappresentanti con lo strumento delle preferenze» perché Berlusconi, ricorda Famiglia Cristiana, ha deciso di servire la «porcata numero due» (come la chiamò il suo creatore, il leghista Calderoli), ovvero - scrive la rivista dei paolini nell’editoriale del prossimo numero - una copia delle disposizioni più antidemocratiche della legge elettorale con cui abbiamo votato alle ultime politiche». Dalle leggi elettorali, osserva Famiglia cristiana nell’editoriale intitolato «Declino e metamorfosi della nostra democrazia», «dipende la qualità della democrazia» e «abolire le preferenze equivale a scippare i cittadini di un diritto di rappresentanza democratica». Per Berlusconi, commenta la rivista, le liste bloccate permettono di avere «professionisti che possono autorevolmente rappresentare il Paese in Europa», ma affermare questo è «un insulto all’intelligenza degli elettori». Per capirlo «basta fare un giro tra Camera e Senato per vedere le aule affollate di portaborse, segretari, cortigiani e figli di papà». «Quando non si riconosce il ruolo dell’opposizione (e il suo leader viene definito inesistente), - commenta l’editoriale - quando si toglie autonomia al potere giudiziario, quando l’opinione pubblica (addomesticata o narcotizzata grazie al controllo dei media) non è più in grado di effettuare un costante controllo sulle scelte politiche, ci si avvia, come dice il sociologo Campanini, a una semi-democrazia, a un processo degenerativo che svuota il Parlamento delle sue funzioni, sulla scia della Russia di Putin o del Venezuela di Chavez».

l’Unità 24.9.08
Manifestazione neonazi, Borghezio si imbavaglia al Parlamento europeo
di Marco Mongiello


BRUXELLES «Il Parlamento Europeo difenda la libertà di parola in tutta Europa e quindi anche a Colonia dove mi è stato impedito di parlare». Così l’eurodeputato leghista Mario Borghezio ha annunciato la protesta di ieri al Parlamento europeo a Bruxelles dove, nel corso di un dibattito sul terrorismo, si è imbavagliato con il fazzoletto verde «padano» ed è restato in silenzio per il minuto di intervento assegnato. Al pasionario del Carroccio non è andata giù la decisione di sabato delle autorità tedesche di interrompere la manifestazione delle ultra-destre contro le moschee. «L’Europa dà lezioni a tutti sulla libertà di espressione e potrebbe anche indignarsi per il fatto che degli eurodeputati, che sono arrivati lì senza bastoni, non hanno potuto parlare», ha spiegato in seguito a l’Unità, «io avevo il mio testo scritto che era super pacifico».
Ma ancora più dura da digerire è la presa di distanza che è seguita al flop di Colonia degli esponenti del governo italiano e degli stessi vertici della Lega. «Io sono andato a titolo personale e l’adesione non è stata della Lega», si è giustificato Borghezio, ma in ogni caso «non ho trovato un clima molto diverso da quello che ho trovato in cento manifestazioni contro le moschee a cui ho partecipato in Italia». L’Austria ha protestato ufficialmente perché è stato impedito di parlare ai rappresentanti del partito nazionalista Fpö, racconta l’eurodeputato leghista, ma sul fatto che il governo italiano faccia la stessa cosa «non nutro molte speranze». Anzi, «se mi arrestavano, non essendo più ministro degli Esteri D’Alema che mi aveva tirato fuori di galera a Bruxelles, stavolta me la vedevo dura». Insomma, questa che siede a Palazzo Chigi, ha concluso Borghezio, è «una Lega di governo, ma io mi trovo bene con la Lega di lotta» e negli interventi a Telelombardia e Radiopadania «erano tutti con me».

l’Unità 24.9.08
L’immigrato chiama la famiglia? Si paghi il test del Dna
di Paolo Soldini


Europa, salvaci tu. Da oggi, se un povero cristo, per non morire di fame o di solitudine, vorrà raggiungere un parente stretto in Italia - il padre, un figlio, un fratello - e le autorità consolari avranno qualche dubbio, dovrà sottoporsi al test del Dna. E dovrà farlo a spese proprie. E non in Italia, ma nel paese di provenienza. Il test costa, nei Paesi sviluppati, tra 600 e 1500 euro. In molti paesi poveri, quelli da cui normalmente provengono gli immigrati, non esistono neppure strutture in grado di farlo, tant’è che gli Stati della Ue che hanno introdotto la procedura (anche la Francia, dopo furibonde polemiche) hanno specificato che gli esami si fanno nel Paese di accoglienza e, ça va sans dire, a spese del sistema sanitario. Più che cinica, la misura approvata insieme con altre infamie dal consiglio dei Ministri ieri appare insensata. A meno che non sia un modo per bloccare, senza dirlo, la gran parte dei ricongiungimenti familiari nel Paese in cui la destra ci predica un giorno sì e l’altro pure i «valori della famiglia». Basterà dare opportune disposizione ai consolati perché siano molto fiscali nell’accertamento delle identità e il gioco è fatto: figli, genitori, fratelli, sorelle resteranno a casa e Maroni sarà contento.
In attesa di risolvere il problema dei «troppi» famigliari in arrivo, il ministro dell’Interno deve però pensare ai problemi che va creandosi da solo con la sua ormai quasi patologica propensione a mentire ogni volta che ha a che fare con Bruxelles. Ieri, mentre con i colleghi faceva esercizi di crudeltà d’animo, il leghista si è beccato una smentita secca dal Commissario Ue alla Giustizia Jacques Barrot. Uscendo dall’aula del Parlamento Europeo in cui Mario Borghezio si era imbavagliato, purtroppo brevemente, perché non lo hanno fatto parlare a Colonia, Barrot ha detto che la Commissione non ha deciso ancora nulla sui decreti legislativi con cui il governo italiano ha dato (a modo suo) applicazione alle direttive Ue in materia di stranieri. Testuale: «Non c’è alcuna decisione da parte nostra e perciò io non ho notificato alcunché all’Italia». Maroni, venerdì scorso, incontrando la delegazione della commissione europarlamentare venuta a visitare i campi nomadi, aveva invece giurato e spergiurato che su uno dei decreti, sì, quello sulla libera circolazione, c’erano delle riserve dell’esecutivo bruxellese, ma che gli altri due erano stati promossi.
Barrot aveva fatto la sua dichiarazione all’ora di pranzo, suscitando, come ovvio, un’ondata di pesanti critiche alle bugie di Maroni. Ma all’ora del tè, e presumibilmente con i telefoni dei suoi uffici che bollivano per le sollecitazioni dal Viminale e da Palazzo Chigi, l’intrepido commissario francese aveva già cambiato versione, offrendone una appena meno imbarazzante per i governanti di Roma. Sui tre decreti non c’è decisione - si legge su un comunicato - ma l’analisi preliminare dei testi inviati da Maroni rileva che quello sulla libera circolazione «pone problemi di compatibilità con il diritto comunitario» e quindi l’Italia deve cambiarlo subito se vuole evitare la procedura di infrazione, mentre gli altri due (ricongiungimenti familiari e status dei rifugiati) non pongono «allo stato» problemi «viste le precisazioni apportate dalle autorità italiane su domanda della Commissione».
Resta da capire come abbiano fatto gli uffici di Barrot a valutare alle cinque del pomeriggio a Bruxelles provvedimenti che erano stati approvati in Italia a mezzogiorno. A meno che il surreale provvedimento su Dna a carico dei parenti non fosse contenuto già nei testi «preliminari» inviati da Maroni insieme con altre infamie, come il proposito di segregare anche i richiedenti asilo nei centri di identificazione «chiusi e controllati, da cui non si può uscire» e le «strette» sui ricongiungimenti delle quali il ministro zerotollerante (del buonsenso) andava gongolando ieri: tra l’altro l’obbligo di stipulare una assicurazione sanitaria per gli ultra sessantacinquenni - economicissima, come si può immaginare, una quisquilia per i vecchietti africani o bengalesi che raggiungono figli o nipoti - e l’abolizione del principio del silenzio-assenso sulle domande di ricongiungimento. Come dire: se un giorno a un funzionario viene il ghiribizzo di andare a leggere carte vecchie anche di dieci anni, una moglie, un figlio, un padre può essere prelevato, impacchettato e rispedito nel Paese di origine. Con il quale magari non ha più rapporti e di cui, come accade spesso ai bambini, non parla neppure la lingua.
Poiché ci sembra davvero strano che qualcuno a Bruxelles possa aver trovato «conformi al diritto comunitario» simili scempiaggini, vorremmo sapere da Maroni e da Barrot se erano davvero contenute nelle «anticipazioni» inviate alla Commissione per l’esame preventivo. Oppure, come è costume di questo governo, si è cercato di farle passare alla chetichella. Chi risponde?

l’Unità 24.9.08
Castel Volturno, di agenti nemmeno l’ombra
Viaggio attraverso il regno dei Casalesi: una sola pattuglia davanti alla tv. Ora il governo manderà 500 militari
di Massimiliano Amato


CHISSÀ se i cinquecento militari che il Consiglio dei Ministri ha destinato alla terra dei morti che camminano, in cui come dice Maroni «è in atto una guerra civile», saranno più visibili dei quattrocento tra carabinieri, poliziotti e finanzieri inviati due giorni fa. Non fosse altro per rassicurare la signora che, passando davanti alla sartoria dell'orrore, dove meno di una settimana fa sono stati massacrati sei immigrati nordafricani, si sporge dal finestrino di un'auto e indirizza uno sprezzante «ma miettete scuorno» al sindaco di Castel Volturno, Francesco Nuzzo, impegnato in una diretta televisiva. Il povero Nuzzo, purtroppo, non ha colpe se, nel giro di un centinaio di chilometri, lungo le strade che attraversano il regno dei casalesi, gli unici poliziotti che s'incontrano sono quelli che fanno da cordone tra la Domitiana e il marciapiedi sul quale sono state montate le telecamere Rai. Sono cinque, hanno l'aspetto pacioso dei padri di famiglia. Di loro colleghi, in giro, non se ne vedono. Alle 11 il viaggio alla ricerca dei quattrocento rinforzi inizia dall'Asse mediano: una striscia d'asfalto che collega il pomiglianese con Lago Patria. Non un posto di blocco, nemmeno una pattuglia. Si sospetta che la banda di sicari che ha commesso 18 omicidi in pochi mesi si nasconda qui, tra le ville abusive e gli albergoni che hanno occupato ogni centimetro di spazio libero.
La tappa successiva è la Domitiana, con i lidi sbarrati, i motel, le piazze di spaccio di ogni schifezza possibile, e le case vacanze, i villaggi turistici e una ininterrotta teoria di migranti sui marciapiedi: senegalesi, congolesi, ghanesi, nigeriani. Il mare che è solo un'intuizione. Le macchine sfrecciano indisturbate, sfiorando donne e pensionati che attraversano carichi di buste della spesa. A bordo potrebbe esserci chiunque: nessuno controlla. All'incrocio con la superstrada che porta a Formia il viaggio devia in direzione Caserta, sulla Villa Literno - Nola, la strada utilizzata dalla banda di Sandro Cirillo e Peppe Setola per rientrare alla base: ai margini di questa scorrimento veloce hanno ritrovato le carcasse mangiate dal fuoco delle auto utilizzate per «le botte di San Gennaro». Anche qui, dei quattrocento rinforzi nemmeno l'ombra.
Sono le 13, e in due ore gli unici poliziotti incontrati sono sempre i cinque di prima. Meglio tornare indietro, allora, per ascoltare il sindaco Nuzzo che ti porta lontano dalla folla di curiosi dietro le telecamere: «Ha visto da solo, no? Inutile aggiungere altro, se non che le misure poliziesche servono relativamente. Occorrono interventi strutturali». Ma gli animi sono tesi, basta un nonnulla per far scattare il riflesso condizionato della paura. Ne hanno tanta gli abitanti di Castel Volturno, che rimproverano al sindaco di essere stato «troppo morbido» con gli immigrati sulle devastazioni di venerdì: «mors tua vita mea», filosofeggia un passante. Niente, però, al confronto del terrore che si legge sui volti dei ghanesi. Un loro amico, unico sopravvissuto alla strage, ha riconosciuto i killer: Cirillo e Oreste Spagnuolo, ha raccontato, avevano il kalashnikov e sparavano come invasati, Alfonso Cesarano, l'unico fermato finora, una pistola. Temono ritorsioni, adesso. Ma la pietà è più forte della paura: chiedono al sindaco lumi sui funerali. Nuzzo è drastico: «Meglio se li fate al Paese vostro, le salme sono a disposizione». Poi, conciliante: «Per i soldi chiamerò io Roma».

l’Unità 24.9.08
Roma ha paura, ma soprattutto del futuro
di Jolanda Bufalini


Sulla ciclabile, lungo gli argini del Tevere la presenza dei senza fissa dimora è piu’ discreta: dove c’erano materassi e vecchie poltrone ora i giacigli sono fogli di cartone. Le suppellettili, specchio, pettine, camicia di ricambio sono ben nascosti nei sacchetti neri di plastica appesi ai bastioni. Non è tanto l’effetto dei controlli, piuttosto è che l’estate romana è appena finita, si stanno ancora smontando i tubi innocenti delle manifestazioni. Non c’è piu’, sotto il ponte di Ferro la baracca dove qualche mese fa è morto di morte naturale un neonato rom. Qui sì, è l’effetto degli sgomberi. Ma la riqualificazione delle rive del Tevere è ancora un miraggio lontano. Le stazioni dell’anello ferroviario sono ancora paurosamente deserte.
STRANEZZEIl sondaggio del Censis che ha lanciato il World Social Summit (da oggi a palazzo Cipolla in via del Corso a Roma) ci ha rivelato che Roma è la città più spaventata del globo. Spaventata da che? Una campagna elettorale infinita ci bombarda col problema «securitario». Il sindaco Gianni Alemanno ha subito scaricato il problema: «è l’eredità di Veltroni». Eppure, a leggere quei dati, la cifra che salta agli occhi è un’altra. Su un campione di 500 persone, i ragazzi fra i 18 e i 29 anni hanno risposto che ad angosciarli è l’incertezza(51,2%).
Negli ultimi anni il lavoro, a Roma, si trova. Il problema è che non è un lavoro che consenta di costruirsi un futuro: se tuo padre è riuscito a mettere da parte un gruzzolo, a comprare una casa, - dice Roberto, giovane barista - ce la puoi fare, altrimenti è molto difficile affittare una casa o combinare qualcosa. Nel Lazio, racconta una ricerca Ires Cgil del 2008 il 75,4% dei lavoratori del commercio è precario, precario l’87,9% degli insegnanti e il 57,1 degli impiegati. Anche nelle fabbriche, ormai, quasi il 49% degli operai lavora a tempo e, nelle professioni, nella ricerca, la quasi totalità degli under 35 non ha stabilità.
MODELLO ROMA In queste cifre c’è una parte della spiegazione della sconfitta subita alle scorse elezioni dal centro sinistra. La pensa così Walter Schiavella, che è stato segretario della camera del lavoro di Roma e del Lazio fino a pochi giorni fa; la pensa così Marco Causi, economista e assessore al bilancio al comune di Roma per 7 anni, nelle giunte Veltroni. Il modello Roma ha retto trasformazioni grandiose e ristrutturazioni spaventose, come quella Telecom o quella del sistema bancario. Ma la tensione verso lo sviluppo, che ha fatto di Roma una capitale della cultura, ha creato anche disagio e paura di non farcela.
PERIFERIE si fa presto a dire Roma: lungo le consolari e verso il mare la città arriva ben oltre il raccordo, dove i nuovi insediamenti si mescolano all’Agro romano, dove può capitare a una coppia di turisti olandesi che la moglie sia violentata di fronte al marito. Il nuovo Prg prevede il collegamento su ”ferro” (metro, treno, tram) per i nuovi quartieri e prevede anche che diventino ”centralità” con trasferimento di funzioni e servizi. Il quadro attuale è, però, un altro (a parte il fatto che Alemanno ha già abolito il tram che doveva collegare la zona di Acilia- Tor de’Cenci): case, centri commerciali e multisale sorgono (con poche eccezioni) come fortilizi in un nulla di svincoli autostradali e campagna incolta. Quando il traffico si ingorga vecchie vie secondarie diventano strade a scorrimento veloce. Così può accadere, come è accaduto nel comune di Fiumicino, che due giovani mamme e tre bambine in attesa dello scuolabus siano falciate e uccise da un auto in corsa. A La Rustica la città abusiva finisce contro un muro delle ferrovie, a Settecamini le nuove case non sono collegate con la borgata dove c’è la parrocchia e la farmacia: quasi due km in auto per comprare un’ aspirina o un pacchetto di sigarette. A Tor Bella Monaca, raccontata da Walter Siti nel libro ”Il contagio”, ci sono stati investimenti importanti, c’è anche il teatro. Ma è ancora uno dei quartieri a più alta densità di problemi, dalla droga alla piccola criminalità, dal numero elevato di persone anziane e con handicap, alla scarsità degli alloggi.
PAUREÈ in queste periferie che la paura, quella fisica o quella legata alla difficoltà di convivere con i nuovi arrivati, gli immigrati romeni o africani, si fa piu’ palpabile. L’indagine Censis dice che nelle periferie la paura cresce al 14,2 % e fra le donne arriva al 16,2 mentre la media fra gli intervistati è del 12,2 %. Il governo di centro destra insiste per avere al Colosseo o a piazza Navona, i militari ben visibili. Ma è invece nelle sue estreme propaggini che spesso saltano gli standard di convivenza. Come al Pigneto dove il 24 maggio un romano del quartiere ha guidato il raid che ha distrutto due negozi per punire un piccolo sgarro alle regole malavitose.
La paura è a corrente alternata. Riguarda i romani, scioccati dalle morti assurde e diverse di Vanessa Russo e di Giovanna Reggiani. Ma la paura ha investito anche immigrati onesti che, dopo il delitto Reggiani, sono stati assaliti nei pressi di Torre Angela mentre uscivano dal supermercato, dopo aver fatto la spesa. In quei giorni erano tante le donne e i bambini che salivano sui pullman verso Bucarest. Persone oneste di cui si spezzava il sogno e il progetto per una vita migliore.

l’Unità 24.9.08
Il rapporto del Censis
L’incertezza che attanaglia i giovani
di Alessia Grossi


Incerti, sfiduciati ed inquieti. L'indagine del Censis da cui parte il World social summit, che si apre oggi a Roma, dice che sono proprio i romani i cittadini metropolitani più impauriti al mondo. Alla domanda «quale sentimento meglio descrive il suo rapporto con la vita?», il 46% risponde incertezza, il 12,2% paura. Totale: il 58,2% dei cittadini della capitale vive una condizione di disagio e tensione. La media generale delle altre città metropolitane indagate dallo studio del Censis - New York, Parigi, Pechino, Tokio, Bombay, Il Cairo, San Paolo, Mosca e Londra - arriva appena al 36%. Solo il 4,6% dei romani è entusiasta della vita mentre la media mondiale è del 12,1%. La fiducia è un sentimento che riguarda invece il 9,6% dei romani contro il 17,2% di «fiduciosi» mondiali. Primo timore dei romani è l’incertezza per il futuro. Lo teme il 51,2% dei giovani tra i 18 e 29 anni, ottimisti solo per il 31,8%. Con l’avanzare dell’età passa la paura e aumenta l’ottimismo. Tra i 65 e i 74 anni il futuro incerto preoccupa solo il 35,4% degli intervistai e il 36,7% si dichiara ottimista. La paura ha anche un genere e un indirizzo. La percentuale delle donne impaurite - il 16,2 - è il doppio di quella degli uomini - 7,7 - ed epicentro dei timori sono le periferie dove è il 14,2% a vivere nel disagio rispetto al 5% degli abitanti dei quartieri centrali. Solo Londra ha paura quanto Roma. «Non sono proprio Londra e Roma -fa notare il presidente del Censis, Giuseppe De Rita- le metropoli in cui alla scorse elezioni ha avuto più fortuna la fazione politica che ha cavalcato queste paure?». Politica e paura vanno di pari passo, dunque, e in molti casi una «amplifica l’altra» continua De Rita. La paura indagata dal Censis è la cifra interpretativa dei nostri tempi, dunque, la cifra della globalizzazione e del progresso. Ed è proprio la fiducia nel progresso a vacillare. Gli scettici metropolitani sono il 54,3% e oscillano tra un 41,2% per cui la scienza è un «male necessario», un 13% che la teme e un 8,3% che crede che Dio punirà l’umanità.

l’Unità 24.9.08
Quando vince la paura
di Valeria Viganò


Nel dilagante senso di insicurezza profonda che si respira nell’aria, pesante incerta inquinata aria del mondo, avanzato e libero che pretenderebbe di essere, si nutrono a vicenda due paure. Una paura reale, concreta, connessa alla socialità e alla sopravvivenza, e una paura più strisciante che tocca il significato dell’essere e della sua individualità. La contaminazione tra le due paure è costante, particelle si incontrano, si influenzano, si mescolano fino a produrre una paura ancora maggiore, che esplode nell’immaginario.
Nell’immaginario la paura si deforma ogni volta che la si pensa, prende nuove vie per riprodursi, escogita nuovi sbocchi per deflagrare in un istinto di difesa: per proteggere il presente, per assicurare il futuro. Ma non si protegge così il presente che muta alla velocità della luce e non si protegge il futuro che si allontana, come l’orizzonte al quale non si arriva mai. Così, con la paura si screditano entrambi. Presente e futuro. La paura di perdere il lavoro, o di non trovarlo affatto, di non avere identità sociale, di ciò che è sconosciuto e diverso, la paura di non essere omologato e quindi vivere la solitudine sono altre facce dell’enorme incertezza che ci pervade. Cerchiamo risposte certe e fisse in un flipper dove la pallina è talmente rapida da non essere mai in un punto determinato. La vediamo solo quando rallenta, e ci spaventa perché da lì non sappiamo dove rimbalzerà. I pulsanti del flipper sembrano non rispondere ai comandi. La paura diventa panico. Il panico sociale aggrega rabbiosamente e produce il nemico, il panico personale impedisce la la realizzazione di sé e devasta l’anima.
Ma non è tutto teorico. L’insicurezza colpisce in concreto, si tramuta in violenza, odio, frustrazione, avvilimento, depressione. Nascono trincee da cui sparare, baratri neri in cui sprofondare a seconda della scelta di colpire l’altro o se stessi. Accade continuamente in ogni età, fino ad assumere tratti di un’eterna incompiutezza adolescenziale. Si risponde a istinto, sembrerebbe una faccenda di bisogni tornati primari. Si difende senza scrupoli il territorio in modo egoistico, si respingono gli sconosciuti, ci si porta con sé un’arma. Non ci sono più la libertà di scelta, l’attuazione di un’idea e della propria identità. Perché ogni cosa viene canalizzata dal mercato.
Sta qui la praticità della questione paura-insicurezza-incertezza. È il sistema economico che guida i nostri sentimenti. Se un laureato a trent’anni deve provare il vuoto di prospettive in un call center o nei famigerati contratti a progetto, la stagnazione tronca entusiasmi, volontà e competenza, inghiotte il futuro. Nel vuoto che crea le giovani menti annaspano senza appiglio, rimangono sole o finiscono in gruppi per essere qualcosa, qualsivoglia cosa senza mai essere niente. Se un cinquantenne diventa un numero in esubero, e la sua vita azzerata nella disperazione, ogni ombra che incontra gli farà terrore. La paura attanaglia nelle regole sociali e economiche: devi essere efficiente, alla moda comunicativo, ambizioso, piuttosto cinico. Non devi mostrare incertezze, sfiducia in te, tristezza. Altrimenti sei fuori, out, espulso. Per l’angoscia di esserlo, che prende quando non si è all’altezza delle aspettative, si va in terapia una volta alla settimana, che sommate alla fine riescono a reintrodurre i comportamenti conformisticamente consoni che il dolore aveva fatto dimenticare. Anche le pasticche, oltre i consigli di qualcuno (disgregato come te) che dovrebbe aiutarti, seduto al di là della scrivania con il tuo cervello in mano, servono. Al mercato ritorniamo. Le pasticche, le gocce, una che tira su, l’altra che tira un po’ giù, le altre ancora che fanno dormire. Sono diventate pane quotidiano per una moltitudine, e bilanci da record esponenziali per chi ha scelto di investire nella farmacopea psichica. C’è sempre chi ci guadagna dalla paura. Ci guadagnano la politica che ci controlla dall'alto, l’economia che ci controlla dal basso. È brutto sentire la terra che frana sotto i piedi, e il vedersi derubati e impauriti, e uscire di senno e ammazzare chi ci spaventa. O a ammazzarsi nel caso ci spaventassimo di noi stessi. I matti, chiamiamoli per una volta sola così, finiscono nella malattia perché la paura della malattia è pur sempre preferibile alla paura di vivere.

l’Unità 24.9.08
E Pansa gridò: peggio per Fini!
di Bruno Gravagnuolo


A destra di Fini. Ci è finito Giampaolo Pansa, che sforna su l’Espresso un Bestiario senz’altro graditissimo a Storace e a quanti hanno vissuto come un attentato il «Fini antifascista». Schiuma rabbia Pansa, come avesse subito una scudisciata nell’onore! E urla: «antifascismo obbligatorio», peggio per Fini, mal gliene incoglierà... Roba da matti. Invece di dire, «beh visto che ora anche Fini è antifascista, ricominciamo a parlare di fascismo e Resistenza senza anatemi...», che fa Giampaolo? Strepita, e attacca l’idea stessa dell’antifascismo a base di eguaglianza e libertà (in Italia). Per lui è un assurdo, un che di irricevibile. Talché si conferma l’assunto in base a cui lo criticammo: Pansa non fa storiografia. Non vuole appurare fatti o sanare buchi di memoria. No, vuole smontare polemicamente (tutta) la tradizione antifascista. Il suo valore costituzionale e il suo ruolo simbolico fondante, costituente la Repubblica. D’accordo in questo con Berlusconi, Pera, La Russa, Alemanno, Storace e la destra storiografica e politica. D’accordo con la destra. E all’estrema destra di Fini.
Schizofrenia di Romano. Grottesca posizione quella di Sergio Romano sul Corsera su Silone. Da un lato dice di non potersi esprimere sul «Silone spia», reputato peraltro capace di esserlo una spia. Dall’altro non nutre «il benché minimo dubbio sulle sue virtù morali e intellettuali» (sic). Non capiamo come Romano non arrossisca di se stesso: per la contraddizion che nol consente. Dubita che Silone sia un delatore o meno. Ma non dubita della sua moralità! Comico, no?
La Porta Pia di Alemanno. Ben più che trionfo del «ridicolo» come scrive Paolo Franchi sul Corsera. No, riabilitare i papalini a Porta Pia è un segno di questa destra: post-fascista, bigotta, tradizionalista e trasformista. E dopo Fini anche un po’ antifascista. Il tutto prima d’esser cucinato in salsa presidenzialista.
Stroncare Ramadan. Senza citare testi e contesti di Islam e libertà. (Einaudi). Come fa Pierluigi Battista sempre sul Corsera. Che accusa Ramadan di far galleggiare nel vuoto le libertà occidentali, staccandole dall’Occidente. Falso. Ramadan parla di valori su cui «si fondano Europa e Occidente». Da integrare con gli apporti passati dell’Islam. Op. cit. senza leggere.

l’Unità 24.9.08
Testamento biologico, è già scontro. Come sulla procreazione
La Chiesa: «La volontà del paziente non sia vincolante». Nel partiro democratico si riapre la discussione
di Maria Zegarelli


«Di nuovo c’è l’idea di dire che si deve fare una legge dopodiché la novità cessa, perché già stabilisce come deve essere una legge, sostituendosi al Parlamento. Nell’idea di Bagnasco la legge dovrebbe dire che il paziente non ha diritto di decidere nulla». Non ci vede alcuna apertura Maurizio Mori, presidente della Consulta di Bioetica Onlus, nelle parole del presidente della Cei, Angelo Bagnasco sul testamento biologico. I «paletti» messi da Bagnasco sono, infatti, tali da rendere vuota di contenuto una legge sul testamento biologico. Quella a cui pensa il cardinale, è più una «legge di assistenza per la fine della vita», come precisa non a caso monsignor Elio Sgreccia. libera per una legge come quella che hanno in testa «i laici». Sottigliezza che non è sfuggita al centrodestra lanciato nella sfida a chi è più d’accordo con il Vaticano. Se Ignazio Marino, membro della Commissione Igiene e Sanità al Senato, nonché primo firmatario del ddl sul testamento biologico (sottoscritto da oltre 100 parlamentari) accoglie con favore l’apertura di Bagnasco, preoccupazioni nel Pd ce ne sono. I teodem sono sul piede di guerra, ieri Paola Binetti (ma anche Ilaria Argentin che teodem non è) ha accusato il partito di poca «democrazia» proprio su questo tema. La Binetti, che ha già depositato un testo che va nella direzione di Bagnasco, ha contestato insieme alla collega il seminario organizzato sul tema per oggi alle 14.30 nella Sala del Mappamondo dove sono chiamati a raccolta i 350 parlamentari del gruppo. Se lo scopo era tastare il polso del partito, la vigilia già annuncia febbre alta. È chiaro a tutti nel Pd che i paletti messi da Bagnasco stanno a significare che una legge come quella di Ignazio Marino verrà ostacolata con tutti i mezzi. Ed è chiaro ai teodem che rischiano di essere netta minoranza nel partito: per questo temono che domani si discuta solo della proposta del senatore e non anche delle loro. Il capogruppo alla Camera Antonello Soro ha spiegato che ogni parlamentare potrà illustrare il proprio ddl, ma è evidente che la spaccatura è dietro l’angolo. Anche stavolta il rischio è che si ripeta quanto avvenuto con la legge 40 sulla procreazione assistita e sul referendum per abrogarla. Anche su quella legge sono stati messi paletti così pesanti che la tutela della salute della donna e del nascituro sono stati schiacciati da altre logiche. Secondo il professor Carlo Alberto Defanti, medico di Eluana Englaro, primario neurologo emerito, anche sul testamento biologico l’obiettivo è lo stesso. «Svuotare la legge. Bagnasco è molto chiaro sulle questioni cruciali: impedire che la nutrizione venga considerata come una terapia rinunciabile, considerandola come assistenza al malato (pur sapendo che la letteratura italiana e internazionale dice esattamente il contrario) e rendere le ipotetiche dichiarazioni di volontà del paziente non vincolanti per il medico. Se le gerarchie vaticane riusciranno nel loro intento, se la politica lo permetterà, non solo non faremo un passo in avanti ma ne faremo due indietro».

l’Unità 24.9.08
Le idee della Gelmini
Sparirà il Latino dai licei scientifici
di Maristella Iervasi


Il maestro sarà unico ma avrà le lavagne interattive. Nei licei scientifici «salta» invece una delle materie letterarie: il latino. La lingua di Ovidio e Cicerone cederà via via il passo allo studio di una seconda lingua straniera. La sperimentazione partirà in alcune sezioni. Non solo. Tutti gli orari della scuola verranno rivisti (infanzia, primaria, medie, sistema dei licei e istituti tecnici e professionali). E per il personale docente ecco i criteri per la determinazione degli organici: le classi iniziali di ciclo «verranno costituite sulla base del numero degli iscritti» e i dirigenti scolastici saranno «personalmente responsabili». Di fatto, la Gelmini fa una chiamata in correo su una responsabilità che è invece di governo. Stop alla co-docenza e al «contenimento dell’attività in compresenza nelle scuole superiori tra docenti di teoria e insegnanti tecnico-pratici di laboratorio». Cioè, meno qualità e ore laboratorio. Riconduzione a 18 ore «di tutte le cattedre di scuole di I° e II° grado». Un modo per saturare l’impegno didattico senza più spazi per la flessibilità.
E ancora: le classi di concorso verranno accorpate con una «comune matrice culturale e professionale». Del tipo, matematica e scienze naturale «unitamente» all’insegnamento di tecnologia. Un modo per «cancellare» l’insegnamento dell’educazione tecnica alle medie. Infine i docenti in esubero: per loro si prevedono «compiti diversi dall’insegnamento». Con collocamenti fuori ruolo. Della serie, non ti posso licenziare ma ti metto in un cantuccio.
Il piano della Gelmini è pronto. Lo schema programmatico del ministero dell’Istruzione sui tagli alla scuola pubblica studiato in concerto con Tremonti, è stato «spedito» ieri sera ai sindacati Flc-Cgil, Cisl e Uil Scuola, Snals e all’Associazione presidi. La prima versione che circolava nelle redazioni, è stata rimanegiata. Con correttivi e ripensamenti sull’onda dello spauracchio della mobilitzione popolare e confederale dei settori della conoscenza, che è sempre dietro l’angolo come ha annunciato il neo segretario generale della Flc-Cgil Mimmo Pantaleo. E per via delle critiche unanime delle organizzazioni sindacali e professionali. Modifiche dell’ultima ora per rendere più delicato e digeribile la «cura dimagrante», con sempre lo stesso metro di misura: la scuola come capitolo di bilancio. Che resta immutato nei numeri da cannibalizzare: 87.400 docenti in meno nei prossimi 3 anni e anche 44.500 posti Ata (collaboratori scolastici, tecnici e segretari).
RETROMARCIA
SULLA MATERNA Non ci sarà soltanto la maestra unica. La Gelmini alla fine è stata costretta a riconfermare le due tipologie di scuola esistenti: 40 ore e 25 ore.
SPEZZATINO
ALL’ELEMENTARE L’indicazione per la primaria è quella di «privilegiare classi affidate ad un unico insegnante e funzionanti con orario di 24 ore settimanali». Poi l’attacco della signora dell’Istruzione alla disinformazione: «Il tempo pieno è un obiettivo prioritario di politica scolastica del ministero - di legge nello schema programmatico -. Per la sua particolare rilevanza sociale verrà non solo riconfermato nella sua attuale entità ma addirittura potenziato». Le opzioni alternative possibili al maestro unico, ma solo se gli organici lo consentono, sono le 27 ore e le 30 ore, con una possibile estensione di 10 ore comprensive della mensa. Di fatto, la scelta del tempo pieno è affidata alla bontà dei direttori scolastici.

l’Unità 24.9.08
I Tornado in Afghanistan
Mauro Del Vecchio. L’ex comandante Isaf in Afghanistan: «L’Italia deve sapere se si sta delineando una nuova strategia militare»
«Attenti, con quegli aerei si può anche cominciare a combattere»
di t. fon.


«In Afghanistan si sta delineando una nuova e diversa strategia? Qualcuno venga in Parlamento a spiegare. L’invio dei Tornado può essere utile se finalizzato alla protezione dei nostri soldati, ma prima di tutto occorre pensare a recuperare il rapporto con la popolazione, a inviare aiuti e finanziare la ricostruzione». È l’opinione del senatore Pd Mauro Del Vecchio, già comandante delle forze Nato in Afghanistan.
Il governo aveva detto di non avere soldi per finanziare l’invio dei Tornado, poi lei ha trovati..
«Con il bilancio che è stato definito non so proprio dove abbiano trovato il finanziamento; mandare in missione gli aerei costa. Ma soprattutto mi chiedo quale strategia intendono seguire. Nessuno ce lo ha spiegato. Se si tratta di cambiare l’impegno italiano in Afghanistan spero che qualcuno venga a dircelo».
Ma lei che ne pensa?
«In Afghanistan è evidente che si è di fronte ad una pericolosa recrudescenza degli attacchi, se si tratta di garantire maggiore sicurezza ai nostri soldati affinchè possano proseguire la loro missione allora l’invio dei Tornado può rivelarsi utile. Questi aerei possono assolvere a diversi ruoli. Possono compiere pattugliamenti e ricognizioni perchè posseggono le attrezzature adeguate ed essere quindi utili per l’intelligence, ma possono svolgere missioni di combat».
Quindi possono anche attaccare le postazioni della guerriglia..
«Per questo è opportuno che il governo spieghi. Ma il problema è un altro: in Afghanistan è assolutamente prioritario mettere in campo iniziative per favorire la ricostruzione. Questa è la cosa più urgente da fare».
Invece su questo fonte non si vede nulla di concreto?
«Se il problema è “vincere”, se si tratta cioè di andare avanti con l’obiettivo di portare a termine la missione che è stata avviata per ricostruire l’Afghanistan, favorire la nascita di un regime democratico e libero, aiutare la popolazione civile, allora occorrono finanziamenti e soprattutto strategie che permettano di avviare sul serio la ricostruzione. Su questo però non vediamo emergere un maggiore impegno».
Alcuni recenti bombardamenti con vittime civili, hanno incrinato il rapporto con la popolazione..
«Per questo occorre una nuova strategia che, al primo posto, ponga queste questioni: aiuti, ricostruzione, sostegno alle iniziative che servono per rafforzare il legittimo governo dell’Afghanistan».

l’Unità 24.9.08
Jean-Luc Nancy: «Filosofia è felicità senza desideri»
di Silvio Bernelli


JEAN-LUC NANCY parlerà stasera a «Torino spiritualità» sulla necessità di ripensare l’amore per poter rifondare il legame tra gli individui e la comunità. Perché, ci dice, nessun uomo è un’isola: persino il nostro corpo è un corpo «collettivo»

Il filosofo francese, padre del decostruzionismo
Jean-Luc Nancy (Bordeaux, 1940) è professore emerito di filosofia presso l’università di Strasburgo. Assieme a Jacques Derrida è considerato il maggior esponente del «decostruzionismo». Tra i suoi libri pubblicati in Italia ricordiamo Le differenze parallele. Deleuze e Derrida (Ombre Corte) ed Ego Sum (Bompiani), entrambi usciti quest’anno; Il giusto e l’ingiusto (Feltrinelli, 2007); La creazione del mondo o la mondializzazione (Einaudi 2003).

Filosofo tra i più importanti degli ultimi anni, il francese Jean-Luc Nancy si è interessato, nel corso della sua lunga e sfaccettata opera, a temi di grande interesse anche per coloro che di filosofia non sanno nulla: i legami che tengono insieme le comunità umane, l’immagine nell’arte, persino il sesso nella sua accezione più libera. Un pensatore curioso, insomma, molto noto anche in Italia, visto che qui i suoi libri sono stati pubblicati da diversi editori, tra i quali Bollati Boringhieri, Cronopio, Einaudi e SE. Non a caso Torino Spiritualità, il «festival delle coscienze» che va in scena nel capoluogo piemontese da oggi fino a domenica 28, lo ha invitato per uno degli incontri di apertura. Quasi settantenne, in forma perfetta, Jean-Luc Nancy si presenta all’intervista mattutina in camicia, maglioncino girocollo, pantaloni, calze e scarpe dello stesso identico nero. Il sorriso e lo sguardo che lampeggia attraverso le lenti degli occhiali però sono assai luminosi.
La comunità non è un rapporto astratto, o immateriale, è un essere in comune, un essere insieme», scriveva in «La comunità inoperosa», un libro del 1986. L’arrivo di immigrati provenienti da ogni parte del mondo nelle città europee ha cambiato questa idea di comunità?
«In Europa non esiste una vera idea condivisa di comunità, tanto meno di comunità europea. Non c’è un’identità europea, ma tante identità diverse: quella francese, quella tedesca, quella italiana... Ciascuna di queste identità è composta da tante diverse identità; nel caso di quella italiana, da quella siciliana, da quella veneta eccetera. L’arrivo degli immigrati non ha cambiato la pluralità di identità presenti nella società europea, al contrario, l’ha confermata».
Il corpo dell’uomo è da sempre al centro dei suoi interessi. Cosa pensa dei corpi di oggi, spesso alterati dalla chirurgia estetica o da protesi sempre più rivoluzionarie?
«Il nostro corpo è cambiato in un modo positivo e interessante e in un altro modo, più pericoloso. Il cambiamento positivo è dato dal fatto che protesi e trapianti hanno dato al corpo una nuova caratteristica, quella di essere condiviso. Oggi il corpo è costituito da altri corpi. Io stesso ho subìto un trapianto di cuore, e questo nuovo cuore mi è stato donato da un’altra persona. E poi ho una protesi d’anca in titanio. Il corpo di oggi quindi è anche una condivisione con le persone che hanno creato tutti questi marchingegni. Il cambiamento del corpo più pericoloso invece è la nascita di un corpo medico, un corpo fisico-organico da curare a ogni costo, come è nella missione della medicina, che è prolungare la vita qualunque essa sia. Questo atteggiamento porta a misurare la vita come quantità e non come qualità. E questo è profondamente sbagliato. Non bisogna tenere in vita le persone al di là dei naturali confini della vita. Non bisogna soffrire né far soffrire inutilmente».
Al suo trapianto di cuore lei ha dedicato il libro «L’intruso». Il trapianto è un’esperienza che le ha certamente lasciato più di una cicatrice, e non solo metaforica. A proposito delle cicatrici, il romanziere americano Cormac McCarthy scrive: “le cicatrici sono la prova che il nostro passato è esistito davvero”. È così anche per lei?
«Quando penso alle mie cicatrici, penso non tanto al passato, quanto al fatto che la cicatrice sia un’iscrizione, una traccia della relazione del corpo con il mondo esterno. È un modo per dire che il passato vive nel presente e anche nel futuro. La cicatrice è un segno, un apertura nella pelle che, anche se si è rimarginata, non è mai chiusa completamente, dà sempre la sensazione che un domani possa venire riaperta».
È il suo interesse per i corpi, per una filosofia che ad ogni costo vuole confrontarsi con la vita vera, che l’ha spinta a scrivere Il c’è del rapporto sessuale, un saggio sul rapporto sessuale?
«La sessualità è il rapporto per eccellenza, è il rapporto dei rapporti. Ha un potenziale fortissimo per cementare i legami tra le persone. Ed è la natura affettiva del legame che unisce gli esseri umani tra di loro, all’interno della famiglia o della società. Non si può comprendere la società di oggi senza comprendere l’importanza della relazione sessuale».
In «La rappresentazione interdetta», uno dei «Tre saggi sull’immagine», lei sottolinea come il nazismo abbia coltivato la rappresentazione, la messa in scena di simboli e masse militari e non, sotto ogni suo aspetto. Non è quello che stanno facendo da una ventina di anni a questa parte attraverso i mass media anche i governi delle democrazie occidentali?
«Attraverso i mass media la democrazia trasmette e si riflette in una molteplicità di immagini tra le quali non riesce a scegliere quella in cui identificarsi. Campioni dello sport, gli oggetti che ci circondano dai televisori ai telefonini, lusso. Cose tra cui è difficile scegliere l’immagine preponderante, che trasmette quella che chiamerei un’idea vaga di comfort, di benessere. La società democratica si nutre di questa sua rappresentazione e in questo senso si chiude su se stessa allo stesso modo di una società totalitaria. Ma il problema della democrazia oggi è che, al contrario della dittatura, non sa immaginare nulla oltre la propria rappresentazione. Oltre l’immagine c’è solo il vuoto».
Questa sera avrà un incontro con il pubblico di Torino Spiritualità. Può dare un’anticipazione del suo intervento ai nostri lettori?
«Parlerò della crisi dell’amore. È una condizione legata al concetto di libertà sessuale e all’idea di mercificazione del sesso tipica dell’età moderna. È entrata in crisi anche l’idea di matrimonio che è stata concepita fino adesso, non a caso i divorzi si moltiplicano. La società che è sempre più individualista è arrivata a un punto di rottura su certi argomenti. Stasera dirò che l’amore va ripensato. Le vecchie idee sul matrimonio e sulla fedeltà stanno strette alla nostra società e noi oggi forse stiamo cercando nuovi modi di vivere l’amore. I giovani ad esempio lo vivono in modo più distaccato e con una consapevolezza sessuale che noi non avevamo. Una volta il primo amore doveva essere quello definitivo. Io anche ho sposato la prima donna di cui mi sono innamorato, ma poi (e qui Nancy ridacchia,ndr) le cose non hanno affatto funzionato».
Tema di questa edizione di Torino Spiritualità è la speranza. Qual è la sua?
«Ne ho due. Una personale, che so completamente irrealizzabile, che è quella di vedere come sarà tra un secolo il mondo completamente “cinesizzato”. L’altra speranza invece, che auguro a tutti di avere, è di morire senza più desideri, visto che tutti gli obiettivi che si volevano raggiungere nella vita sono stati raggiunti. In fondo, non è una speranza da poco, non le sembra?»

Repubblica 24.9.08
Il decreto Tremonti mette in crisi coop e giornali di partito
Aboliti i contributi Manifesto e Liberazione a rischio chiusura
I direttori del quotidiano comunista denunciano: questo è un attacco alla libertà di stampa


ROMA - Il manifesto lancia l´allarme: da oggi siamo in emergenza. Stesso, drammatico grido di dolore sale da Liberazione: siamo agli sgoccioli. E non solo. In altri giornali di partito e in molte cooperative editoriali è scattato il livello di massima allerta: ci ritroviamo ad un passo dalla chiusura. Nel mirino, il decreto Tremonti che rivede e taglia i contributi ai giornali di partito e alle cooperative non profit. Finito perciò sotto accusa in un´assemblea straordinaria, presenti giornalisti e con il pieno sostegno di Cgil e Uil, da "Mediacoop" (l´associazione delle cooperative editoriali) e da "Media Non Profit": per salvare questi giornali - è la richiesta avanzata - serve un provvedimento urgente, da inserire in un decreto o nella Finanziaria.Da Valentino Parlato (presidente della cooperativa), e dai direttori del manifesto Mariuccia Ciotta e Garbiele Polo, il quadro della situazione. Il quotidiano, ricordano, da sempre fa i conti con un affannoso equilibrio economico ma ora ad aggravare la situazione è arrivato il decreto Tremonti, che «pone le basi per la nostra chiusura dopo 37 anni di difficile ma vitale presenza in edicola». Il punto dolente è la trasformazione di un "diritto soggettivo", quello ai finanziamenti, in una "concessione" (che dipende dalle disponibilità del bilancio pubblico). Risultato: la conseguente aleatorietà dei contributi pubblici. «Questo - accusano i direttori del manifesto - ci impedisce di ottenere quelle anticipazioni bancarie sui contributi pubblici, che arrivano - sarebbe meglio dire, arrivavano - con ritardo». In più, col decreto scattano nuovi tagli. Tutte misure, è l´accusa che si è levata dall´assemblea di ieri, che hanno un senso politico più generale: è un attacco alla libertà di stampa e un vulnus per la democrazia. Battaglia difficile per la sopravvivenza a questo punto anche se, come spiegava sul suo giornale il direttore di Liberazione Piero Sansonetti, le vendite del quotidiano non sono affatto crollate (la perdita è di 850 copie, la diffusione è di 8647 copie).Ricardo Franco Levi, ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, critica anche la bozza di regolamento messa a punto dal governo per «eccesso di delega», escludendo il parere anche consultivo delle commissioni parlamentari. Da Paolo Serventi Longhi, direttore di Rassegna Sindacale, ed ex segretario Fnsi, l´idea di una grande mobilitazione. Vincenzo Vita (Pd) annuncia l´intenzione di chiedere in Senato l´audizione del sottosegretario Bonaiuti.

il manifesto 24.9.08
FATECI USCIRE
UNA NUOVA EMERGENZA BUSSA ALLE NOSTRE PORTE.
Ha qualcosa di simile alle tante dei nostri 37 anni di vita, perché sempre di bilanci in rosso si tratta. Ma è molto diversa da tutte le altre che l'hanno preceduta, perché stavolta non si tratta di raccogliere i soldi per sopravvivere ma di trovare le risorse per una battaglia di libertà che non riguarda solo noi. Quello che ci assumiamo e a cui vi chiediamo di partecipare è un compito tutto politico. I tagli ai finanziamenti per l'editoria cooperativa e politica non sono misurabili «solo» in euro, in bilanci che precipitano nel rosso, in giornalisti e poligrafici che rischiano la disoccupazione. Sono lo specchio fedele di una «cultura» politica che, dall'alto di un oligopolio informativo, trasforma i diritti in concessioni, i cittadini in sudditi. Non sarà più lo stato (con le sue leggi) a sostenere giornali, radio, tv che non hanno un padrone né scopi di lucro. Sarà il governo (con i suoi regolamenti) a elargire qualcosa, se qualcosa ci sarà al fondo del bilancio annuale. Il meccanismo «tecnico» di questa controrivoluzione lo abbiamo spiegato tante volte in queste settimane (e continueremo a ricordarlo), ma il senso politico-culturale dell'operazione è una sorta di pulizia etnica dell'informazione, il considerare la comunicazione giornalistica una mercé come tante altre. Ed è la filosofia che ha colpito in questi ultimi anni tanti altri beni comuni, dal lavoro all'acqua. Noi ci batteremo con tutte le nostre forze e pubblicamente contro questa stretta: porteremo questo obiettivo in tutte le manifestazioni dell'autunno appena iniziato, stringeremo la cinghia come abbiamo imparato a fare in 37 anni di vita difficile ma libera, incalzeremo la politica e le istituzioni perché ne va della democrazia, spenderemo l'unico nostro patrimonio, cioè il nostro lavoro, per fornire il supporto giornalistico a questa battaglia di civiltà. E ci apriremo all'esterno ancor di più di quanto abbiamo fatto fino a oggi per raccogliere forze e saperi nuovi e capire come essere più utili a chi si oppone ai poteri che ci vogliono morti. Faremo tutto questo, come sempre e più di sempre. Ma oggi siamo di nuovo qui a chiedere aiuto ai nostri lettori e a tutti coloro che considerano un bene essenziale il pluralismo e la libertà d'informazione. A chiedervi di sostituire ciò che questo governo ci nega con uno sforzo collettivo. In un panorama politico e culturale disastrato, di fronte alla lunga sconfitta che in un ventennio ha smantellato la stessa idea di «sinistra», non ci rassegneremo alla scomparsa. Perché, a differenza del protagonista di «Buio a mezzogiorno» di Arthur Koestler, non crediamo che «morire in silenzio» sia una lodevole testimonianza finale. Se questo governo e i poteri che rappresenta vogliono chiuderci, noi vogliamo riaprire.
CON TUTTI VOI, PERCHE ALTRIMENTI E IMPOSSIBILE.

Repubblica 24.9.08
La crisi morale del capitalismo
di Giorgio Ruffolo


Credo che l´uragano passerà senza travolgere l´economia mondiale. Il segretario di Stato Paulson, quello cui, come dice l´Economist, si rizzano in testa i capelli che non ha, aveva fatto, finalmente, la cosa giusta. Aveva lasciato fallire una grande banca, evitando che gli rovinasse addosso con un altro salvataggio. Subito dopo però ha dovuto cedere alla pressione del mondo finanziario, intervenendo nel ben più costoso salvataggio del colosso assicurativo Aig. Così, una volta ancora, le voragini aperte nel libero mercato saranno colmate dai contribuenti. Quali saranno le conseguenze nessuno, neppure lui, lo sa. C´è chi teme che questo nuovo tremendo colpo possa coinvolgere l´intero sistema. Ma l´economia capitalistica è più forte della devastatrice finanza che ha generato. E tuttavia, questa crisi può essere fatale al capitalismo sotto un aspetto più generale e più profondo.Dal punto di vista strettamente economico, dietro l´inestricabile groviglio delle tecnicalità, c´è una realtà inoppugnabile: la sproporzione dell´indebitamento americano (di tutti, privati, banche, Stato) rispetto al reddito, e della finanza rispetto all´economia reale. Sul perché e sul come abbiamo ragionato tante volte. Non ci torno. È diventato presente ciò che era evidente. Tranne che per gli estatici ammiratori delle tecnicalità finanziarie.Vorrei parlare invece del colpo mortale che questa crisi di inizio secolo sta portando al «turbocapitalismo», minandone la credibilità morale. Ogni sistema storico di organizzazione della società ha bisogno di una base di legittimazione morale. Gli schiaccianti dominatori degli antichi imperi avevano bisogno di un dio che li sovrastasse, loro e le loro piccole regine. Quando i mercanti del Medioevo entrarono nella polis ebbero bisogno di un faticoso compromesso con la Chiesa, da loro abbondantemente finanziata, per superare tortuosamente lo scandalo dell´interesse. L´ideologia economica del nascente capitalismo ebbe origine nelle scuole di filosofia morale. La migliore legittimazione non gli fu offerta però dai dubbi princìpi delle virtù weberiane ma da quelli più pratici dell´utilitarismo che insegnavano a trarre dall´egoismo, e non dalla virtù, l´energia necessaria per promuovere la ricchezza, a vantaggio, si diceva, di tutti. Insomma, il capitalismo si giustifica non con le sue premesse, ma con i suoi risultati. E non c´è dubbio che, fino a tutta la metà del secolo ventesimo, i suoi risultati in termini non solo di crescita economica, ma di progresso sociale, siano stati tali, non dico da compensare ma da sopportare gli enormi costi impliciti nella crescita.Ciò che sta succedendo nel mondo ci dice che la promessa di una estensione universale del benessere è incrinata dall´esperienza di un mondo sempre più instabile e ingiusto. Il «miracolo» della finanza internazionale, che ha realizzato enormi spostamenti di ricchezza dai paesi più ricchi ai paesi più poveri si traduce, all´interno di quei paesi, in un gigantesco divario tra i gruppi sociali emergenti e quelli lasciati ai margini. In India l´estrema ricchezza e l´estrema povertà sono aumentate. La stessa cosa sta avvenendo in Cina. Dall´ultimo rapporto della Banca Mondiale risulta che il livello di povertà è aumentato nel mondo a 1,4 miliardi di uomini e di donne, che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno. L´indice Gini della disuguaglianza relativo alla popolazione mondiale è aumentato negli ultimi quindici anni di sette punti, poco meno del 20 per cento. Ma è soprattutto negli Stati Uniti che la disuguaglianza tra classi medie impoverite ed élites arricchite si è imposta. Lo stesso indice Gini che era caduto al 41 per cento nel 1970, è aumentato negli ultimi trent´anni a 47. Ciò che sta succedendo, dice Robert Reich, dice David Rothkorpf, non è solo un aumento delle disuguaglianze, ma una vera e propria secessione sociale: un 1 per cento della popolazione che dispone del 40 per cento del prodotto nazionale. Ma che c´entra tutto questo con i disastri finanziari di oggi? Moltissimo. Negli ultimi venti anni è proprio l´allocazione delle risorse della economia guidata dai mercati finanziari che si è tradotta in termini reali in un aumento delle disuguaglianze e in una devastante pressione sulle risorse naturali: in direzione opposta ai bisogni reali dell´umanità. Nel più ricco e indebitato paese del mondo, gli Stati Uniti, la sproporzione tra i guadagni dei condottieri delle grandi imprese, anche quelli che le hanno portate al disastro, e la gente comune sono diventati sbalorditivi. Le risorse mondiali sono state indirizzate da un sistema finanziario poderoso verso un gigantesco indebitamento, sostenuto da un credito sfrenato. Il nome turbocapitalismo si adatta bene a questo sistema sventato. La spesa mondiale annuale della pubblicità che alimenta i consumi e l´inquinamento, ammonta a 500 miliardi di dollari, quella della ricerca sanitaria a 70 miliardi. A 62 miliardi quella destinata dai paesi ricchi ai paesi poveri. Ripeto: non credo che siamo alla vigilia di un nuovo collasso capitalistico. L´economia mondiale dispone di immense risorse mobilitabili nell´emergenza. Siamo di fronte però al fallimento morale di una promessa. Quando un sistema perde la sua legittimazione etica, perde anche la sua vitalità storica. Un sistema fondato sulla dissipazione e sulla ingiustizia ha il futuro contato.Poco meno di trent´anni fa un brillante economista inglese immaturamente scomparso, Fred Hirsch, scrisse un libro profetico: i limiti sociali allo sviluppo. Ciò di cui soprattutto il capitalismo soffre, egli affermava, era uno sbriciolamento della sua base morale. Ciò di cui soprattutto aveva bisogno, era «un rientro morale». Non se ne vedono le tracce.

Repubblica 24.9.08
Il pensiero sbrigativo
La destra che sceglie di semplificare
La richiesta del maestro unico rivela un'avversione per la complessità
La pedagogia e la didattica sono giudicate come fastidiose complicazioni


La pedagogia e la didattica, così come sono andate evolvendosi nell´ultimo mezzo secolo, sono avvertite come discipline "di sinistra" non tanto e non solo per il tentativo di sostituire alla semplificazione autoritaria orientamenti più aperti, e a rischio di permissivismo "sessantottesco". Sono considerate di sinistra perché complicano l´atteggiamento educativo, aggiungono scrupoli culturali ed esitazioni psicologiche, si avvitano attorno alla collosa (e odiatissima) materia della correttezza politica, esprimono un´idea di società iper-garantita e per ciò stesso di ardua gestione, e in buona sostanza attentano al desiderio di tranquillità e di certezze di un corpo sociale disorientato e ansioso, pronto ad applaudire con convinzione qualunque demiurgo, anche settoriale, armato di scure. In questo senso la proposta Gelmini è quasi geniale. L´idea-forza, quella che arriva a una pubblica opinione sempre più tentata da modi bruschi, però semplificatori, è che gli arzigogoli "pedagogici", per giunta zavorrati da pretese sindacali, siano un lusso che la società non può più permettersi. Il vero "taglio", a ben vedere, non è quello di un personale docente comunque candidato - una volta liquidati i piloti, o i fannulloni, i sindacalisti o altri - al ruolo di ennesimo capro espiatorio. Il vero taglio è quello, gordiano, del nodo culturale. La nostalgia (molto diffusa) della maestra unica è la nostalgia di un´età dell´oro (irreale, ma seducente) nella quale la nefasta "complessità" non era ancora stata sdoganata da intellettuali, pedagogisti, psicologi, preti inquieti, agitatori politici e cercatori a vario titolo del pelo nell´uovo. Una società nella quale il principio autoritario era molto aiutato da una percezione dell´ordine di facile applicazione, nella quale il somaro era il somaro, l´operaio l´operaio e il dottore dottore. Una società che non prevedeva don Milani, non Mario Lodi, non Basaglia, ovviamente non il Sessantotto, e dunque, nella ricostruzione molto ideologica che se ne fa oggi a destra, è semplicemente caduta vittima di un agguato "comunista". In questo schemino, semplice ed efficace, la cultura e la politica, a qualunque titolo, non sono visti come interpreti dei conflitti, ma come provocatori degli stessi. Se la pedagogia "permissiva" esiste, non è perché il disagio di parecchi bambini o la legnosità e l´inadeguatezza delle vecchia didattica richiedevano (già quarant´anni fa) di essere individuati e affrontati, ma perché quello stesso problema è stato "creato" da un ceto intellettuale e politico malevolmente orientato alla distruzione della buona vecchia scuola di una volta. Insomma, se la politica è diventata un format, come ha scritto Edmondo Berselli, la sua parola d´ordine è semplificazione.Per questa destra popolare, e per il vasto e agguerrito blocco sociale che esprime, la complicazione è un vizio "borghese" (da professori, da intellettualoidi, beninteso da radical-chic, e poco conta che il personale scolastico sia tra i più proletarizzati d´Italia) che non possiamo più permetterci, e al quale abbiamo fatto malissimo a cedere. Non solo la pedagogia, anche la psicologia, la sociologia, la psichiatria, nella vulgata oggi egemone, non rappresentano più uno strumento di analisi della realtà, quanto la volontà di disturbo di manipolatori, di rematori contro, di attizzatori di fuochi sociali che una bella secchiata d´acqua, come quella della maestra unica, può finalmente spegnere. La lettura quotidiana della stampa di destra - specialmente Libero, da questo punto di vista paradigma assoluto dell´opinione pubblica filo-governativa - dimostra che il trionfo del pensiero sbrigativo, per meglio affermarsi, necessita di un disprezzo uguale e contrario per il pensiero complicato, per la massa indistinta di filosofemi e sociologismi dei quali i nuovi italiani "liberi" si considerano vittime non più disponibili, per il latinorum castale di politici e intellettuali libreschi, barbogi, causidici, che usano la cultura (e il ricatto della complessità) come un sonnifero per tenere a freno le fresche energie "popolari" di chi ne ha le scatole piene dei dubbi, delle esitazioni, della lagna sociale sugli immigrati e gli zingari, sui bambini in difficoltà, su chiunque attardi e appesantisca il quotidiano disbrigo delle dure faccende quotidiane. Già troppo dure, in sé, per potersi permettere le "menate" della sinistra sull´accoglienza o il tempo pieno o i diritti dei gay o altre fesserie.La sinistra ha molto di che riflettere: la formazione culturale e perfino esistenziale del suo personale umano (elettorato compreso) è avvenuta nel culto quasi sacrale della complessità del mondo e della società, con la cultura eletta a strumento insostituibile di comprensione anche a rischio di complicare la complicazione... Ma non c´è dubbio che tra il rispetto della complessità e il narcisismo dello smarrimento, il passo è così breve che è stato ampiamente fatto: nessuna legge obbliga un intellettuale o un politico a innamorarsi dell´analisi al punto di non rischiare mai una sintesi, né la semplificazione - in sé - è una bestemmia (al contrario: proprio da chi ha molto studiato e molto riflettuto, ci si aspetterebbe a volte una conclusione che sia "facile" non perché rozza o superficiale, ma perché intelligente e comprensibile). Ma la posta in gioco è molto più importante del solo destino della sinistra. La posta in gioco - semplificando, appunto - è il destino della cultura, degli strumenti critici che rischiano di diventare insopportabili impicci. Se questa destra continuerà a vincere, a parte il marketing non si vede quale delle discipline sociali possa sperare di riacquistare prestigio, e una diffusione non solo castale o accademica. Perché è molto, molto più facile pensare che l´umanità e la Terra siano stati creati da Dio settemila anni fa (cosa della quale è convinta ad esempio la popolarissima Sarah Palin) piuttosto che perdere tempo e quattrini studiando i fossili e l´evoluzione. È molto più rassicurante, convincente, consolante pensare che le buone maestre di una volta, con l´ausilio del cinque in condotta e di una mitraglia di bocciature, possano mantenere l´ordine e "educare" meglio i bambini ipercinetici, e consumatori bulimici, che la televisione crea e che la propaganda di destra ora lascia intendere di poter distruggere, perché è meglio avere consumatori docili (clienti, come dice Pennac) piuttosto che cittadini irrequieti. È meglio avere certezze che problemi.È molto più semplice pensare che il mondo sia semplice, non fosse che per una circostanza incresciosa per tutti: che non lo è. Il mondo è complicato, l´umanità pure, i bambini non parliamone neanche. Se le persone convinte di questo obbligatorio, salutare riconoscimento della complicazione non trovano la maniera di renderla "popolare", di spiegarla meglio, di proporne una credibile possibilità di governo, di discernimento dei principi, dei diritti, dei bisogni fondamentali, diciamo pure della democrazia, vedremo nei prossimi decenni il progressivo trionfo dei semplificatori insofferenti, dei Brunetta, delle Gelmini, delle Palin. Poi la realtà, come è ovvio, presenterà i suoi conti, sprofondando i semplificatori nella stessa melma in cui oggi si dibattono i poveri complicatori di minoranza. Nel frattempo, però, bisognerebbe darsi da fare, per sopravvivere con qualche dignità nell´Era della Semplificazione, limitandone il più possibile i danni, se non per noi per i nostri figli che rischiano di credere davvero, alla lunga, al mito reazionario dei bei tempi andati, quando la scuola sfornava Bravi Italiani, gli aerei volavano senza patemi, gli intellettuali non rompevano troppo le scatole e la cultura partiva dalla bella calligrafia e arrivava (in perfetto orario) alla più disciplinata delle rassegnazioni. Cioè al suo esatto contrario.

Corriere della Sera 24.9.08
Lo scrittore Marani ha vissuto a Helsinki
«I finlandesi vivono armati Imparano al catechismo»
di Roberto Rizzo


MILANO — Perché in Finlandia ci sono 56 armi ogni 100 abitanti e il Paese è il terzo al mondo per possessori di armi da fuoco? «I finlandesi sono armati per abitudine. L'abitudine alla minaccia russa, il nemico tradizionale, il potenziale invasore. È un timore ancestrale che connota tutta la storia della Finlandia. Questo non giustifica la presenza di armi in casa, ma stiamo parlando di un popolo guerriero e abituato alla resistenza».Diego Marani, scrittore ( L'amico delle donne, il suo ultimo romanzo per Bompiani), traduttore e profondo conoscitore della realtà finlandese ( Nuova grammatica finlandese è il titolo di uno dei suoi libri più celebrati), ha vissuto per lunghi periodi a Helsinki.«Senza dimenticare che anche la natura ha un suo peso».In che senso? «Che nei boschi ci sono orsi e altri animali selvaggi pronti ad attaccare l'uomo. Ecco perché non c'è da stupirsi se un finlandese se ne va in giro armato».Un conto è la natura, un altro è entrare in una scuola e fare una strage. «Certo, ma parliamo di un popolo particolare, legato alle proprie tradizioni. La modernità ha allontanato i finnici dalla loro vera natura, più vicina a quella orientale che alla nostra. Sono persone che comunicano poco tra di loro, la socialità è difficile, Internet ha scavato solchi ancora più profondi. E poi c'è l'addestramento».Che tipo di addestramento? «Militare. Il servizio di leva e l'insegnamento religioso sono una cosa sola. Sono luterani e il luteranesimo è duro, nazionalista e anticomunista. Per noi ha dell'incredibile, ma a catechismo si impara a sparare. Nelle scuole ai ragazzi si dà una formazione militare, vigono regole da caserma. Inoltre, la maggior parte dei finlandesi fa parte di associazioni di ex militari. Quella delle ex Guardie di frontiera è una delle più numerose».Dopo la strage di un anno fa non c'è stato alcun dibattito in seno alla società finlandese sulla diffusione delle armi? «C'è stato, ma non sul problema delle armi. Ciò che ha turbato di più è stato scoprire la perdita dell'innocenza, ritrovarsi in un clima di violenza simile a quello che si respira nelle città americane. Questo è stato il vero shock in un Paese dove, ancora oggi, in pochi chiudono a chiave la porta di casa».Diego Marani Roberto Rizzo

Corriere della Sera 24.9.08
A Roma. I pm indagano sulla rete dei guerriglieri colombiani. Tra i contatti l'ex parlamentare Mantovani
Farc, inchiesta sugli «amici» italiani nel Prc
di Alessandra Coppola


ROMA — La Procura di Roma ha aperto un'inchiesta sulla «rete italiana» delle Farc, coordinata dal procuratore capo Giovanni Ferrara e condotta dal sostituto Angelantonio Racanelli. Ancora una fase iniziale, non ci sono né indagati né ipotesi di reato. Ma è cominciato un «lavoro approfondito» su un materiale denso e voluminoso arrivato all'autorità giudiziaria dall'Ambasciata colombiana attraverso la Farnesina, con l'intento di verificare collegamenti e contatti. E accertare eventuali responsabilità.Proprio ieri Bogotà ha consegnato al ministero degli Esteri il secondo e ultimo dossier: 1.200 pagine di email e documenti di Word trovati nei computer di Raul Reyes, il numero due della guerriglia colombiana ucciso dall'esercito a marzo, nelle quali compaiono riferimenti all'Italia e ad «amici» italiani, in particolare a esponenti di Rifondazione comunista. Un materiale che da molte parti è stato messo in dubbio, perché suscettibile di manipolazioni. Bogotà ne difende l'attendibilità ed esibisce una certificazione dell'Interpol.Nella ricostruzione del governo colombiano al numero due delle Farc (responsabili di centinaia di sequestri, tra cui quello di Ingrid Betancourt) faceva riferimento una complessa rete internazionale. Di cui avrebbero fatto parte politici di Rifondazione, si fanno i nomi di Ramon Mantovani e Marco Consolo. E un non meglio identificato «Max», dell'associazione «Nuova Colombia» di Torino.Di una stretta relazione politica e di amicizia personale con Reyes, avviata prima che la guerriglia (nel 2002) fosse inserita da Ue e Onu nella lista dei terroristi, gli esponenti di Rifondazione non fanno mistero. Un rapporto fitto di email che avveniva «alla luce del sole» ed era motivato da tentativi di mediazione, sostengono. L'obiettivo era «favorire il processo di pace — così Mantovani, —. Avevamo contatti prima che quel processo fosse interrotto e li abbiamo mantenuti dopo, affinché potesse riprendere».La tesi delle autorità colombiane è che i rapporti andassero oltre, che si trattasse di una vera rete di appoggio, la più importante per le Farc in Europa. Reyes avrebbe usato la parola «cellula»: un nucleo della guerriglia radicato in Italia. Scambio di informazioni, raccolta fondi, aiuto logistico negli spostamenti di guerriglieri (o di loro parenti). E le prove sarebbero in quei file sulla scrivania dei magistrati italiani.

martedì 23 settembre 2008

Repubblica 23.9.08
L’incubatrice del razzismo
di Stefano Rodotà


Colonia, 20 settembre: divieto di una manifestazione razzista. Venezia, 15 settembre, esempi di oratoria all´annuale raduno della Lega: «Macché moschee, gli immigrati vadano a pregare e pisciare nel deserto» (Giancarlo Gentilini, che rivendica la primogenitura come "sindaco-sceriffo" d´Italia); «Non ci rompete più i coglioni con gli immigrati, vecchie facce di merda» (Mario Borghezio, parlamentare). Le storie parallele possono essere ingannevoli, e vanno maneggiate con cautela. Ma questo accostamento mostra il diverso senso di responsabilità di chi governa, dietro il quale vi è una diversa sensibilità delle opinioni pubbliche. Le parole dette a Venezia sono il segno d´un degrado pericoloso, e non del parlar schietto di cui i leghisti si vantano. Nella loro brutalità, dovrebbero aiutare a comprendere meglio che cosa sta diventando questo Paese. Il linguaggio anticipa, accompagna, spiega.
Invece, viene ormai ignorato (silenzio di quasi tutto il sistema dell´informazione sulla qualità dell´oratoria veneziana), mentre offre una traccia preziosa, seguendo la quale si chiariscono fenomeni che vanno ben al di là del mondo leghista.
1) La Lega e il territorio. I risultati delle ultime elezioni politiche ci hanno consegnato la Lega come vera vincitrice. E si è improvvisamente scoperto che la ragione forse più importante del suo successo sta nel rapporto che i leghisti e i loro amministratori hanno saputo stabilire con il "territorio". Da qui molte considerazioni: non è vero che servono soltanto partiti "leggeri"; non è vero che tutto può essere affidato alle pure strategie comunicative; non è vero che i cittadini possono essere considerati solo come carne da sondaggio; non è vero che l´amministrazione oculata non paga. Indicazioni in sé importanti, se non altro perché mostrano come non esista solo il modello berlusconiano di raccolta del consenso, e dunque la vanità e l´insensatezza della corsa verso una indistinta postmodernità che consegnerebbe i partiti "popolari" soltanto all´archeologia politica (altra cosa, evidentemente, sono le tecniche nuove di costruzione d´un partito popolare nel terzo millennio). Ma l´esperienza e il successo leghista sono fatti anche di altre cose, esattamente quelle che danno radici locali agli spiriti che i leader affidano, e non è la prima volta, alle alate parole citate all´inizio. Non siamo solo di fronte ad una esasperazione dell´intolleranza. Si sta costruendo anche un territorio in senso "etologico", rispondendo appunto a quell´"imperativo territoriale" di cui parlava Robert Andrey, che spinge molte specie a marcare confini, invalicabili anche se fisicamente invisibili, all´interno dei quali nessuno può penetrare e, se lo fa, scatta istintivamente una reazione anche violenta. Andate altrove, ripetono ossessivamente i leghisti all´"altro" - immigrato, rom, omosessuale - riprendendo (inconsapevoli?) i paradigmi terribili del razzismo. Su questo s´innesta una identità esasperata che, in molte situazioni, diviene il più forte collante sociale. Di questo fenomeno profondo, di quest´idea premoderna impastata di terra e sangue, regressiva, lontanissima dal modo in cui i partiti popolari storici avevano costruito il rapporto con il territorio, vogliamo riconoscere l´esistenza, discuterne seriamente e mettere a punto strategie politiche per contrastarlo?
2) Un Paese mitridatizzato. Se questo non avviene, è perché si è creata nel tempo un´abitudine, un´assuefazione, in definitiva una rassegnazione. Uno storicismo da quattro soldi induce a pensare e ad agire registrando un successo della Lega di cui non resterebbe che prendere atto realisticamente. Di fronte a questo dato dovrebbe tacere la lotta politica, quella vera, che va alle radici culturali e sociali dei fenomeni. Ecco, allora, le debolezze delle varie sinistre, che si sono mosse senza essere capaci di sciogliere l´intreccio tra la nuova dimensione del localismo, ben individuata dalla Lega, e una serie di manifestazioni che non possono essere derubricate come folklore. A questo si è aggiunta la narrazione berlusconiana, che va avanti da anni e che, quali che siano le "intemperanze" di Bossi e dei suoi, blandisce, rassicura, ammicca, dice che in fondo sono ragazzate che avranno un epilogo rassicurante nelle bicchierate del lunedì ad Arcore. Si coglie qui una furberia politica ed un messaggio rassicurante. Vi garantisco che la Lega può essere addomesticata, che i leghisti non impugneranno mai i fucili di cui parlano. Si legittima così la politica della Lega in tutte le sue manifestazioni che, proprio perché appaiono paganti, finiscono per divenire un modello per alleati e concorrenti. Inoltre, fino a quando la Lega continua ad esibire anche questa faccia, finisce in qualche modo con il dipendere dalla mediazione, politica o personale, di qualcun altro. Ma, in questo modo, nulla si fa per arrestare il degrado civile, l´involgarirsi generale del linguaggio che rivela l´abbandono di criteri fondativi della democrazia, l´eguaglianza e il rispetto della dignità delle persone in primo luogo. E non è soltanto la Lega a portare la responsabilità della situazione che si è determinata.
3) Europa. Altri Paesi hanno conosciuto fenomeni simili ma, per intelligenza politica e consapevolezza culturale, hanno fatto in modo che potessero essere circoscritti. Questo spiega l´attenzione preoccupata dell´Unione europea per una serie di vicende italiane: assistiamo all´accelerarsi di dinamiche politiche e sociali che rendono evidenti non il rischio, ma la realtà di pratiche discriminatorie e di vere e proprie aggressioni razziste. La risonanza europea di quel che sta accadendo non può essere attenuata esibendo qualche modifica di norme inizialmente più aggressive. È il contesto che, giustamente, inquieta. Vi è una preoccupazione delle istituzioni europee per il modo in cui le norme vengono concretamente applicate, e permangono i giudizi negativi sull´aggravante prevista per i reati commessi dagli immigrati. Una delegazione della Commissione per le libertà pubbliche del Parlamento europeo ha appena concluso una sua visita in Italia proprio per acquisire direttamente elementi per valutare la situazione dei rom. L´Agenzia europea per i diritti fondamentali ha pubblicato un rapporto sull´assalto al campo rom di Ponticelli. Da qui vengono le contestazioni a rappresentanti del Governo italiano nel corso di una conferenza a Bruxelles: e i nostri diplomatici, invece di levare inutili proteste, dovrebbero aiutare il Governo a comprendere le reazioni europee, il clima che ormai avvolge le politiche italiane in materia di immigrazione, e non solo.
4) Immigrati buoni e cattivi. Questa distinzione ricorre continuamente nelle discussioni, per mettere in evidenza che le politiche ispirate alla sicurezza pubblica non devono essere temute da chi è venuto nel nostro paese con buone intenzioni, e qui lavora e si comporta correttamente. Ma chiunque conosca la realtà di molte prefetture e questure, delle modalità dei controlli di polizia, sa che troppo spesso le cose vanno in modo diverso. Mi riferisco ai casi in cui è certo che ci si trova di fronte ad immigrati regolari, a situazioni in cui non esiste alcun pericolo. Molte volte, parlando con immigrati regolari alle prese con le estenuanti e inutili trafile per i continui rinnovi del permesso di soggiorno, ho sentito questa frase: «ci trattano come animali». Vorrei che il ministro Maroni impartisse disposizioni severe perché ogni persona venga rispettata, soprattutto quando si trova nella condizione di non poter nemmeno protestare, non dico abbozzare una reazione. No, allora, alle urla, agli atteggiamenti intimidatori, all´uso del tu come se ci si rivolgesse ad esseri inferiori, agli apprezzamenti sui tratti del viso o sulle donne, all´insofferenza verso qualsiasi richiesta di spiegazioni. Lì, in quei luoghi, l´immigrato incontra lo Stato. Solo se lo vedrà accogliente riuscirà a rispettarlo.
5) Razzismo? La parola spaventa, ma dev´essere pronunciata. Di fronte a vicende drammatiche, e spaventosamente eloquenti, ecco subito l´esorcismo: Milano non è razzista, Roma non è razzista e via elencando paesi e città. Che cosa vuol dire? Vi è una specie di immunizzazione territoriale per cui qualsiasi cosa accada in certi luoghi il contagio razzista è impossibile? Sappiamo che non è così. I razzisti sono tra noi, non in Italia soltanto, ma noi dobbiamo chiederci se stiamo facendo abbastanza non solo per combatterli, ma per evitare che si sentano i veri rappresentanti del tempo.

l’Unità 23.9.08
Il Paese dei «negrazzi»
di Ulderico Pesce


Gli scarti umani mitragliati a Castel Volturno; Abdul ucciso con i biscotti nella mano sinistra a Milano, che se avesse mangiato con la destra l’avrebbero lasciato in pace. Chi sono «questi negrazzi di merda»?
Questi negrazzi erano su quel barcone. Ne partirono 100 dalla Libia con un sogno: l’Italia. Il viaggio doveva durare poche ore ma il motore si inceppò e allora ne passarono 17 di giorni.
La guardia costiera portò quel barcone davanti alla capitaneria di porto di Lampedusa. I clandestini rimasti vivi erano sette, i morti 93. Una diecina di corpi senza vita erano ancora là sul barcone, Abdul disse che li avevano usati per riempire il fondo dello scafo pieno d’acqua così la notte si stendevano sui morti, all’asciutto.
Il barcone fu lasciato a due passi dal ristorante «Il saraceno», dove i sette negrazzi videro la proprietaria del ristorante, vestita di verde, che urlava: «A casa vostra dovete andare». Angela Maraventano, raccoglieva firme per portare Lampedusa nella provincia di Bergamo. Oggi è senatrice per la Lega Nord.
Dopo mesi di torture nei Cpt, i negrazzi si sparpagliarono per l’Italia. Abdul era stato rinchiuso nel Cpt di Modena dove per ogni clandestino lo Stato spende circa 100 euro al giorno, manco fosse un tre stelle e poi ne tengono dieci in ogni stanza. È caro come hotel ma il presidente è il fratello dell’ex ministro Giovanardi. Gli altri sei ragazzi furono rinchiusi nel Cpt Regina Pacis di San Foca vicino a Lecce dove don Cesare Lo Deserto gli dava calci e pugni e li costringeva a mangiare carne di maiale solo perché erano musulmani.
I sei scarti umani scappati dalle grinfie del prete se ne andarono a Castel Volturno. Assoldati da caporali del clan dei Casalesi cominciarono a raccogliere pomodori a due euro all’ora abitando in casoppole senza luce e senza bagno. Dopo qualche anno cominciarono a lavorare nell’edilizia, sempre per il clan. Partenza all’alba, ritorno a notte fonda. Guadagno: venti euro al giorno. Ma le cose che più disgustavano i sei negrazzi erano due, la prima, che dovevano costruire delle case abusive, sul lungo mare, orrende: colonne doriche in cucina, vasche da bagno nelle camere da letto... Ai sei quelle costruzioni non gli andavano proprio giù. Erano negrazzi d’accordo, ma i loro nonni avevano scolpito le maschere africane che facevano impazzire Picasso, e che una mattina, rivoluzionò la pittura proprio grazie a quelle maschere.
La seconda cosa che dava fastidio ai sei era che il capo cantiere li chiamava sempre «negrazzi di merda». Uno di loro, Alaji, il ghanese, ci piangeva. Gli altri cinque ci ridevano sopra. Erano più mortificati dalle case di merda che dovevano costruire. Nessuno dei sei si era mai drogato, mai spacciato, solo uno, Samuel, qualche volta si era fatto una canna con Peppe Letizia detto ò stuort.
All’epoca delle canne, Peppe ò stuort, nel clan dei Casalesi contava poco. I capi erano Sandokan, Cicciotto Mezzanotte e altri, poi però le cose cambiano, arrivano i nuovi e allora oggi Peppe ò stuort conta parecchio, è uno dei capi e non si farebbe più una canna con Samuel ma se la farebbe magari con il sottosegretario Cosentino. Insomma i sei negrazzi hanno fatto per anni i manovali in cambio di niente, assoldati da costruttori affamati di soldi, appoggiati da politici affamati di potere, circondati da gente indifferente pronta ad emarginare i «negrazzi di merda». E come sa essere razzista un certo Sud dell’Italia lo si può sapere solo abitandoci. I sei, l’altra sera erano davanti ad una sartoria a Castel Volturno, gestita da sarti neri, dove si aggiustano vestiti per neri e dove, quando nonna Immacolata si va a riprendere il cappottino che fa rattoppare ogni anno, si pitta la faccia di nero con il sughero affumicato per non farsi riconoscere. Ed è proprio la signora Immacolata che ha capito perché sono stati uccisi i sei ragazzi e lo racconta al telefono a suo figlio: «È quasi distrutto il clan dei Casalesi, ma lo Stato non è sceso, e mò la Campania è rimasta senza clan e senza Stato. E allora al nuovo clan, serve stabilire chi comanna, un’azione forte, sparare co le mitragliatrici come nei film, sparare per pubblicità e vedere assai sangue al telegiornale. E chi si spara? Si sparano scarti umani, indifesi, negrazzi di merda, ce ne sono 11mila irregolari qui».
Il figlio malavitoso, dal tir che porta tonnellate di arsenico dal Nord su un terreno agricolo a due passi da Castel Volturno: «Mà, t’voglio bene, ma fatt’i cazzi tuoi». E getta il cellulare sul cruscotto che finisce dietro Padre Pio appiccicato al parabrezza.
Forse la senatrice aveva ragione, era meglio se tornavano al paese loro. Magari morivano solo di fame.
Ma Abdul, il settimo negrazzo?
Scappato dal Cpt prima andò a raccogliere mele nel Nord Est, poi arrivò a Milano dove è stato venditore di borsette, distributore di giornali, addetto alle pulizie in un albergo, sempre al nero. E proprio in questo albergo si era innamorato di una calabrese che rifaceva le camere, Maria, che va pazza per i biscotti "pan di stelle". L’altra settimana erano tutti e due al parco su una panchina quando un furgone carico di biscotti miracolosamente ha aperto le porte. Abdul si era alzato per Maria, era una sorpresa per lei che era rimasta ad aspettarlo sulla panchina. L’hanno ucciso con le spranghe i padroni dei biscotti al grido che si espande in tutt’Italia: «Negrazzo di merda».
Per molti Abdul è morto come un fesso per un pacco di biscotti. Per pochi altri Abdul è morto da eroe. Voleva i biscotti per Maria.

l’Unità 23.9.08
«Razza Padana» di Signore e Trocino: storia e origini del Carroccio tra populismo, folklore celtico e venature razziste. In nome della sicurezza contro neri, musulmani e nomadi
Tutti i nemici della Lega: da Bingo Bongo alle moschee
di Federica Fantozzi


La Lega degli Uomini Spaventati ha sempre bisogno di un nemico, e in un quarto di secolo ne ha trovati molti.
Negli anni 80 erano i neri, i «Bingo Bongo» venuti a rubarci gli alloggi, le nigeriane disinfettate da Borghezio sui treni della notte, le katanghesi dallo stesso «provate» con soddisfazione: «Un prodotto locale notevole». Il decennio successivo ecco la correzione di tiro: lo straniero impossibile da assimilare, lo spauracchio dell’Occidente diventa l’Islam. Due gli spettri: il proselitismo dei musulmani unito alla loro prolificità e il terrorismo internazionale.
Ma se l’11 Settembre è il D-Day della Lega Globale, gli anni recenti riportano le camicie verdi in ambito glocal. L’ultimo avversario è «il fattore campi rom» da declinare come insicurezza domestica, lucchetto al garage e mano sul portafoglio in metro. Vedi alla voce ronde, «barachine» sotto i cavalcavia, paura per i propri bambini. L’evoluzione porta al Carroccio degli amministratori locali, annacquato tra destra e sinistra, forte di un territorio da amministrare e di cittadini da proteggere.
La Lega insomma è razzista? Ai lettori (e agli elettori) l’ardua sentenza scorrendo le pagine di Razza Padana, il saggio scritto per Rcs da Adalberto Signore e Alessandro Trocino, giornalisti rispettivamente del Giornale e del Corriere. Origini, storia e assalto al potere del movimento federalista. Un florilegio degli umori padani, delle voglie di secessione, del populismo in salsa celtica, dei voti in fabbrica strappati alla sinistra, del cattoleghismo e della nuova Emilia verde.
Ecco il paradosso: l’Istat disegna l’Italia come «il Paese più sicuro in Europa», un forte calo di scippi e furti, omicidi scesi dal 13,1 per milione di abitanti del 2000 al 10,3 del 2005. Eppure, scrivono i due autori, «la Lega è il partito che più di ogni altro regge la fiaccola dell’insicurezza. Promette mano dura, inflessibilità, si allea con i cittadini per difenderli dai criminali». La ricetta, come abbiamo visto, cambia.
Si comincia con il rivolgersi ai lumbard per un aiuto contro «l’invasione nera»: una massa d’urto che «nell’immaginario padano rischia di travolgere il Nord, di minarne la cultura, di corromperne le tradizioni». È l’epoca di Bossi su Radio Padania: «C’è gente che ha lavorato una vita e non ha la casa e noi la diamo al primo Bingo Bongo che arriva?». Di figure ormai sbiadite come Erminio Boso secondo cui «per i negri bisognerebbe usare pallottole di gomma» e «prendergli le impronte dei piedi» per «risalire ai tracciati particolari delle tribù».
Sua la teoria del rimpatrio a bordo di Hercules 130 anziché aerei di linea: «Così non possono violentare le hostess, e va bene che certe sono porcellone e ci provano gusto, e poi puzzano... ma con una bella pompa li annaffiano, e vengono forniti di paracadute così in zona loro si apre il portellone e zac». È il periodo della caccia «al leprotto» dello sceriffo Gentilini, dei «Pelli Oliva» via dalle panchine.
Poi la virata: il «mamma li turchi» con il cavallo di Troia dei ricongiungimenti familiari, la campagna contro le moschee.
Nel 1993 i leghisti manifestano contro la costruzione di un centro di culto islamico a Lodi. «L’Islam moderato non esiste» spiega il capogruppo Gibelli. L’uomo immagine è Calderoli: deve dimettersi da ministro dopo che la sua maglietta blasfema è costata 11 morti in Libia, passeggia per Bologna con suino al guinzaglio per «infettare» il terreno, chiama Rula Jebreal «signora abbronzata».
Ma nel 2008, secondo l’Osservatorio sociale sull’Immigrazione, un italiano su tre è contrario alle moschee. È l’anno in cui le ronde vengono sdoganate a sinistra: «Con un opportuno restyling semantico diventano volontari per la sicurezza, cittadini vigilanti, assistenti civici». A Opera, la battaglia contro il campo nomadi fa volare la Lega dal 4,7 al 12, 4%. Il Pd del Nord tentenna. Il presidente della Provincia Penati chiede lo sgombero: «Ripartirli? No, farli ripartire. Non sono i Gipsy Kings».
Allora la Lega è razzista? Forse ha ragione Giorgio Bocca: «Il suo non è altro che il razzismo degli italiani, che non c’è finché non ci sono i diversi o sono turisti di passaggio, che affiora quando gli immigrati superano il 7%, che esplode se la convivenza diventa conflitto d’interessi».

l’Unità 23.9.08
Leopardi antropologo. l’Oriente oltre la siepe
di Antonio Prete


IL CONVEGNO La scrittura del poeta muove spesso da una prospettiva antropologica, che si affida di volta in volta all’altro, all’antico, o al lontano... come accade per i versi orientali che scorrono nella sua lingua. È l’inzio di una nuova stagione di studi leopardiani? Forse sì...

A Recanati quattro giorni con studiosi di tutto il mondo
Torna a Recanati, dopo quasi un decennio, un grande convegno internazionale organizzato dal Centro Nazionale di Studi Leopardiani. Da oggi a venerdì si discuterà su La prospettiva antropologica nel pensiero e nella poesia di Giacomo Leopardi. Aprirà il convegno, nell’aula Magna del Comune, Antonio Prete con un intervento su «Nomadismo dello sguardo e pensiero dell’alterità. Sull’antropologia poetica di Leopardi». A seguire Pietro Clemente («Comparazioni immaginative: Leopardi preantropologo»), Ernesto Miranda («Sulla natura degli uomini. Leopardi e l’antropologia filosofica»), Gilberto Lonardi («Prima della scrittura: il “qualunque”, il lontano, il canto con le ali del pastore dell’Asia»), Perle Abbrugiati («Se ben vi si guardasse. La critica leopardiana del pensiero a priori, tra filosofia e antropologia»). E ancora Marco Moneta («Dal bosco a civiltade. Antropologia e storia in Leopardi»), Alessandra Aloisi («Esperienza del sublime e dinamica del desiderio in Giacomo Leopardi»), Gilda Policastro («La ragion perché i morti ebber sotterra.... Per un’antropologia dell’Ade»). Nei giorni successivi interverranno, tra gli altri, Jean-Charles Vegliante, Joanna Ugniewska, Nicola Feo, Giulio Ferroni, Sebastian Neumeister, Massimo Natale, Michael Caesar, Gaspare Polizzi, Stefano Biancu, Maurizio Bettini, Gianni D’Elia, Alberto Folin, Marino Niola.

Il convegno che si apre oggi a Recanati ha per tema La prospettiva antropologica nel pensiero e nella poesia di Giacomo Leopardi. Per quattro giorni studiosi non solo italiani, e appartenenti a generazioni diverse, si incontreranno intorno alla grande esperienza di colui che della modernità ha colto, con straordinaria passione critica, il gioco delle maschere, il dominio dell’opinione e del danaro, le forme di astrazione e di violenza, la dimenticanza del «poetico», e dunque del vivente e corporeo, la trama resistente dell’egoismo e gli stili di sopraffazione.
Questo convegno, proposto dal Centro nazionale di studi leopardiani (ora rinnovato nel suo Comitato scientifico, diretto da Lucio Felici, e con la nuova presidenza del sindaco di Recanati, Fabio Corvatta) è dedicato alla memoria di Franco Foschi, che per vent’anni del Centro studi è stato Presidente attivissimo e solerte.
Nella grande Sala del Palazzo comunale di Recanati - inaugurata nel 1898 con una prolusione leopardiana di Carducci - si succederanno letture e interpretazioni: il vero soggetto della scena sarà, dunque, la scrittura leopardiana. Con la sua distanza da ogni sistematica e dottrinaria postura. Con le sue variabilissime forme (il testo poetico, il frammento teorico, il dialogo, il saggio, la lettera, l’indagine filologica, la traduzione). Con la sua libertà inventiva, che sempre prelude e domanda e mai si acquieta. Con la sua singolare capacità di unire meditazione e canto, interrogazione sul tragico dell’esistenza e invenzione poetica.
I convegni leopardiani a Recanati hanno scadenza quadriennale: per qualche giorno, nella città di vento e di pietra, dove la luce giunge, da una parte, dal mare, e dall’altra, dalla sconfinata onda collinare, accade che gli incontri di studiosi e le discussioni diano origine a solide amicizie intellettuali e anche a concreti progetti di ricerca. Molto devono gli studiosi a quegli incontri (quanto alla mia esperienza, tra tanti nomi, voglio fare quelli di Cesare Luporini e di Giuseppe Pacella).
Questo convegno cade in un momento in cui la presenza di Leopardi nelle diverse lingue appare consolidata nel solo modo per dir così duraturo, cioè attraverso le traduzioni, le edizioni, i commenti. Da pochi anni, presso Allia, è uscita l’edizione francese di tutto lo Zibaldone, nella traduzione di Bertrand Schefer. Le edizioni Allia - quasi in analogia a quello che in Italia hanno fatto Boringhieri per Freud e Adelphi per Nietzsche - hanno tradotto quasi tutto Leopardi: l’anno scorso è uscito l’intero Epistolario, nella bella traduzione di Monique Baccelli. È ora in corso la traduzione inglese dello Zibaldone, affidata a un’équipe diretta a Birmingham da Mike Caesar e Franco D’Intino. E il progetto di una traduzione spagnola dello Zibaldone sta per muovere i primi passi in Spagna, a cura di Blanca Muñiz che aveva già tradotto e commentato i Canti.
Tornando al tema del convegno, si potrebbe dire che nelle rappresentazioni dell’antico, della sua poesia, dei suoi miti, nella ricerca assidua intorno ai modi della civilizzazione, nello sguardo sui rapporti che intercorrono tra individui e nazioni, tra popoli e lingue, la riflessione di Leopardi muove spesso da una prospettiva antropologica. Anzi quella prospettiva per molti aspetti inaugura o contribuisce a definire. Ma, come accade per il rapporto tra filosofia e poesia, anche per il rapporto tra antropologia e poesia, ogni distinzione di genere è destinata a naufragare: lo sguardo antropologico, cioè quello sguardo capace di dislocarsi ogni volta nel punto di vista dell’altro, o del lontano, o dell’antico, o del fanciullo, o del cosiddetto primitivo, non si fissa in nessuna forma disciplinare o di sapere precostituito, e si affida di volta in volta alla narrazione, al dialogo, al frammento, al ritmo della poesia. Se le forme di questo sguardo hanno qualche precedente, esso va cercato nella capacità di incantamento degli antichi, nella grande tensione comparativa di Vico - nella sua genealogia della conoscenza -, nell’affabulazone critica di Montaigne, dei suoi Essais.
Per Leopardi la disposizione etnografica negli studi adolescenziali - dalle Dissertazioni filosofiche alla Storia della astronomia al Saggio sopra gli errori popolari degli antichi - non è mai abbandonata, e l’interesse per le rappresentazioni di culture e popoli lontani trascorre in molti passaggi dello Zibaldone. Singolare è, in questo senso, l’attenzione alle cronache del Nuovo Mondo. Non solo è criticata in più occasioni la «pretesa perfezione» della nostra civiltà, la quale sulla miseria dei molti fonda il benessere dei pochi, ma è rifiutata l’opposizione tra barbarie e civiltà («E generalmente noi chiamiamo barbaro quel ch’è diverso dalle nostre assuefazioni ecc.» ). Ed è rovesciato il senso delle immagini che gli europei hanno dei «Californi»: in analogia a quanto aveva fatto Montaigne nel saggio su Les Cannibales, a proposito dell’idea europea di sauvage, idea riportata alla sua vera radice, cioè intesa come relazione spontanea con la natura, sottratta dunque all’opposizione con «civilizzato».
Per Leopardi non solo il lontano, ma anche il vicino è oggetto di un’attenzione antropologica: va ricordato il rilievo che il poeta dà alle tradizioni popolari, in particolare a quelle marchigiane, al loro rapporto con l’oralità, il canto, la musica, la poesia.
Racconto fantastico dell’etnos e critica della civiltà, delle sue credenze, si uniscono nelle Operette morali: dalla Storia del genere umano alla Scommessa di Prometeo al dialogo della Moda e la Morte al Tristano il sapere della civiltà mostra la sua astrazione dal corpo, dai sensi, dal desiderio. E si dovrebbe ancora dire, nell’orizzonte di un’antropologia critica, del particolare orientalismo di Leopardi, di fatto assai poco studiato sino ad oggi. L’Oriente è per Leopardi una figura dello sguardo. Un principio di alterità. Da assumere come soglia per la critica. Ha la stessa funzione che ha la lontananza. Ci sono, nella scrittura leopardiana, passaggi rilevantissimi su un’idea di poesia «orientale» - accesa, piena di vita e di immaginazione, fortemente metaforica -, sulla poesia biblica e l’Oriente, sugli alfabeti orientali e il loro rapporto con le vocali, intese come le vere animatrici «di tutta la favella», e che di fatto scorrono in tutto il corpo della lingua «come il sangue per le vene degli animali». La stessa antropologia del male, quando nello Zibaldone si dispiega come meditazione sul «Tutto è male», è affidata allo sguardo di «un filosofo antico, indiano...».
L’origine, poi, della poesia, è osservata nella relazione tra memoria, oralità e canto. L’idea della radice musicale e popolare della poesia, del rapporto tra la voce e il ritmo, tra l’oralità e il verso non abbandonerà mai Leopardi e mostrerà del resto i suoi riflessi nella stessa poesia dei Canti. In particolare il Canto notturno di un pastore errante nell’Asia raccoglierà i tanti motivi fin qui esposti (l’occasione stessa di quel canto è dovuta, si sa, a una notizia antropologica sui canti lunari e malinconici dei nomadi Kirghisi).
E si dovrebbe ricordare lo studio leopardiano, nello Zibaldone, sul ruolo che ha l’assuefazione nella formazione delle opinioni, del gusto, e nelle rappresentazioni dell’altro. E ancora: lo studio della lingua e delle lingue dal punto di vista dei rapporti tra le culture, i popoli, i caratteri nazionali. La comparazione tra la società italiana - usanze, convenzioni, caratteri, uniformità, morale pubblica - e le società di altre nazioni «civili», così come appare nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani. Infine la riscrittura dell’idea di animalità, di linguaggio e pensiero animale, come prende forma al margine della lettura dell’Histoire naturelle di Buffon. Tutti motivi che il convegno recanatese esplorerà, avviando, c’è da augurarsi, una nuova stagione di studi leopardiani.

Repubblica 23.9.08
Testamento biologico
Le reazioni all'"apertura" della Cei
di Michele Bocci


Il neurologo del caso Englaro: escludere dalla normativa il capitolo-nutrizione vorrebbe dire fare una legge vuota

"Cibo e acqua, il malato deve poter rinunciare"

ROMA - L´alimentazione e l´idratazione dei malati immobilizzati sono cure mediche, e il paziente può rifiutarle. Nel mondo medico le reazioni alle parole del cardinale Bagnasco sono pressoché unanimi. A partire da Lorenzo D´Avack, vicepresidente del Comitato nazionale di bioetica, organismo nominato dal presidente del Consiglio, tutti si appellano alla comune definizione scientifica di nutrizione artificiale. «Dire che si tratta di un intervento di base condiviso da tutto il mondo medico mi sembra discutibile - dice il bioeticista - dal momento che la stessa Oms riconosce tali trattamenti come interventi medici, che quindi richiedono il consenso del paziente. Io credo che una persona abbia il diritto, sotto il profilo costituzionale, di rifiutarli». Dello stesso parere Carlo Alberto De Fanti, neurologo che ha cura Eluana Englaro, che aggiunge: «Una legge sul testamento biologico che escludesse la nutrizione sarebbe vuota, addirittura un passo indietro rispetto ad oggi. Del resto la Cassazione esprimendosi sul caso Englaro ha definito l´alimentazione un intervento sanitario». Il medico di Piergiorgio Welby, Mario Riccio, aggiunge che la legge «la vogliono fare per limitare il testamento biologico, per burocratizzarlo. Come hanno per con la fecondazione assistita, che con la legge è stata limitata». Sulle stesso posizioni l´Associazione Luca Coscioni. «Per nutrire e idratare quelle persone bisogna fare un intervento invasivo, dunque medico - spiega Alessandro Capriccioli -. E comunque sia, per assurdo, se anche ci trovassimo di fronte ad azioni non mediche non si capisce come mai la persona che deve subirle non può rifiutarle». Dalla Società italiana di nutrizione artificiale e metabolismo (Sinpe), Maurizio Muscaritoli spiega che non bisogna confondere «l´alimentazione con la nutrizione artificiale, che è la somministrazione di nutrienti, attraverso una via di accesso artificiale, a persone alle quali è preclusa l´assunzione di alimenti per la via naturale».
Il deputato Pd Enzo Carra sostiene che «le indicazioni del presidente dei vescovi italiani devono essere considerate con molta attenzione. Sono infatti un´apertura a una legge di cui non si può più fare a meno». Il suo collega del Pdl Benedetto Dalla Vedova aggiunge che «le parole del cardinal Bagnasco sono meritevoli di attenzione ma il Parlamento deve affrontare la questione senza pregiudizi, considerando le posizioni espresse dalla comunità medica e scientifica, la consapevolezza dell´opinione pubblica e i testi già prodotti in sede parlamentare».

Repubblica 23.9.08
I misteri delle donne
Due o tre cose che non so delle donne
di Pietro Citati


Per secoli sono state tenute lontano dai libri e tuttavia non esecrano la letteratura. Nutrono per i libri un desiderio appassionato

I misteri dell´universo sono infiniti. Non vorrei parlare dei grandi misteri: Dio, il big bang, il Male, il tempo, l´evoluzione; in primo luogo perché non è argomento da giornali, e poi non ne so nulla. Ma di un piccolo mistero, che gli uomini di sesso maschile contemplano ogni giorno, e contro il quale talvolta si scontrano: le donne.
Mi ha sempre colpito la differenza dei rapporti femminili con il tempo e lo spazio. Di solito, la donna ha una relazione buonissima con il tempo, sia pure non cronologico: distingue gli anni, i mesi, i giorni, i minuti: coglie l´atmosfera, il colore e il profumo di ogni istante di vita: ricorda i vestiti, i golf, le scarpe, i costumi da bagno, i cappelli portati durante la propria esistenza: vibra e cambia col passare dei minuti; e difficilmente sa dimenticare il passato. I maschi non posseggono questa sensibilità molecolare per il tempo, e si muovono con meraviglia e goffaggine in questa dimensione che non capiscono, o che capiscono soltanto leggendo Anna Karenina e La signora Dalloway.
In compenso, la donna non ha sovente nessun senso dello spazio. Non sa leggere una carta geografica, né una carta stradale, o un orario ferroviario. Se camminate per Roma o Milano, state attenti a non chiedere informazioni ad una di loro: vi manderà certamente in un luogo sbagliato. Per tre anni ho preso di continuo il treno da Monaco di Baviera a Roma: mia moglie è convinta ancora oggi che passi per Milano e non per Verona. Forse una donna, che capisce mirabilmente la molteplicità del tempo, non comprende la molteplicità dei luoghi. Conosce il luogo dove passeggia in questo momento: per lei, il resto del mondo non esiste, o è nascosto da una nuvola grigia. Ma quando arriva in un luogo, lo possiede con la mente: la sua attenzione è spasmodica. Osserva ogni particolare: conosce ogni pietra di via Montenapoleone o di corso Venezia o di via Condotti o di qualsiasi altra strada e piazza le interessi.
Per secoli le donne sono state tenute lontane dai libri, come dalle navate centrali delle chiese cristiane; e qualcuno potrebbe credere che esecrino la letteratura. Invece nutrono per i libri un desiderio e una nostalgia appassionati. Cacciate o chiuse o auto-rinchiuse nei conventi, hanno creato una meravigliosa letteratura mistica, sprofondandosi nell´abisso di Dio, o trasformando Cristo in un corpo vivente accanto al loro, o nel loro stesso corpo. Se volete cogliere la differenza tra la sensibilità di una donna e la superficialità di un maschio, leggete le lettere tra Eloisa ed Abelardo, dove la debolezza del filosofo si annulla davanti all´ardore e alla verità della monaca.
Quando sono stati aperti i salotti, con quale finezza le padrone di casa studiarono i sentimenti, le sfumature e le contraddizioni che occupavano il cuore dei loro invitati. Mentre incideva aforismi col bisturi, La Rochefoucauld aveva sempre una donna accanto a sé. Nel diciannovesimo e ventesimo secolo, la lirica, il romanzo e il racconto sono state il terreno naturale dove le donne, da Jane Austen a Flannery O´Connor, sono cresciute. Quanto alla filosofia, le donne evitano, di solito, la forza e lo schematismo del "sistema". Ma, in Virginia Woolf e Simone Weil, la mens non è meno intensa di quella dei filosofi di professione. Entrambe posseggono un dono rarissimo: il coraggio dell´estremo.
Nei monasteri e negli studi, le donne non hanno mai rivelato un istinto pittorico così straordinario. Quando parlano o scrivono, posseggono una sensibilità sottilissima per i colori, le forme e i profumi, che di rado concentrano in un quadro. Le loro mani orchestrano bellissimi mazzi di fiori, ma rifiutano di usare il pennello e di fondere i colori sulla tavolozza. Vermeer non è una donna. Chardin non è una donna. I maestri dell´impressionismo sono maschi dalla foltissima barba. Eppure essi incarnano quanto di più femminile esiste al mondo: le stanze chiuse, le cose impregnate di luce, il riflesso degli argenti e delle vesti, una bambina col volano, i gatti, la fioritura delle ninfee sotto i cieli rosa che si riflettono nell´acqua rosa. Non ne capisco la ragione. Forse le donne amano il colore delle cose, e non quello dipinto: forse dipingere è, per loro, un´offesa all´immensa fantasia della natura.

Repubblica 23.9.08
Tentazioni
La capacità di non cedere all´istinto è un´arte che richiede applicazione, ma che migliora la vita Lo sostiene uno studio di New Scientist. Tra le scoperte il ruolo dei lobi frontali del cervello
Resistere si può, basta imparare
Le donne avrebbero maggiore controllo degli impulsi
di Paola Coppola


«Le cose più belle della vita o sono immorali o sono illegali, oppure fanno ingrassare», diceva il drammaturgo irlandese George Bernard Shaw. Il segreto della battaglia quotidiana contro le tentazioni potrebbe essere racchiuso in questa frase. È la fatica di resistere, di tenere lontano qualcosa che al tempo stesso attrae, la capacità di non cedere all´istinto.
L´autocontrollo, che premia a lungo termine con le scelte migliori, è «la chiave di una vita sana e felice» ed è una qualità che si dovrebbe imparare da bambini ma che, se manca da adulti, si può esercitare, migliorare. È quanto afferma il settimanale New Scientist che all´arte di resistere alle tentazioni ha dedicato un servizio che racchiude le più recenti scoperte sull´argomento.
Come quelle di Hugh Garavan, neuroscienziato del Trinity College di Dublino che, attraverso la risonanza magnetica, ha dimostrato che l´autocontrollo è un´attività che coinvolge soprattutto i lobi frontali del cervello, in particolare il lato destro. Un´area che continua a crescere e a modificarsi anche oltre i 20 anni: ecco perché, secondo il ricercatore, gli adolescenti provano piacere e gratificazione come gli adulti ma hanno una diversa capacità di tenere a freno gli impulsi.
Il controllo sulle emozioni, la capacità di perseguire un obiettivo come smettere di fumare, o di perdere chili seguendo una dieta sono diversi negli uomini e nelle donne. Differenze di genere che il gruppo di Garavan ha testato sui bambini a partire dai 4 anni di età. Risultato: le donne avrebbero maggiore controllo degli impulsi, un dato che, secondo il ricercatore irlandese, si spiega con le aspettative sociali ma anche con l´influenza degli ormoni sessuali sul cervello. Alle volte non basta dire "no", come suggeriscono alcune campagne contro il fumo o contro l´uso di droghe: il gruppo di ricercatori irlandesi ha scoperto che nelle persone che fanno uso di cocaina, le aree dei lobi frontali del cervello sono meno attive del normale. «È compromessa la capacità di tenere a freno tutti i tipi di impulsi», dice Garavan. «Dopo l´assunzione di cocaina l´attività cerebrale ritorna a livelli normali». E suggerisce: la ricerca sulle dipendenze che oggi si concentra soprattutto sui meccanismi del piacere e della gratificazione dovrebbe tenere conto anche dell´alterazione del controllo degli impulsi. Ma alle tentazioni si può imparare a resistere. L´area del cervello che si attiva diventa più efficiente con l´uso. Per Peter Gollwitzer della New York University per riprendere il controllo di se stessi bisogna partire con un piano semplice e dettagliato. E fissare un obiettivo alla volta. Raggiungerlo è il primo passo per migliorare l´autostima. I benefici si vedranno anche in altre situazioni, dice.

il manifesto 21.9.08
EDITORIA
Come uccidono la nostra libertà
Dopo la cancellazione per legge del «diritto soggettivo» e i tagli della Finanziaria, il governo vara un regolamento per ciò che resta dei finanziamenti pubblici all'editoria non profit. Norme aleatorie e vincolate alla «variabilità» dei bilanci. La stampa libera perde cittadinanza e diventa suddita
di Giancarlo Aresta


Mercoledì 17 settembre è stato presentata alle associazioni degli editori, ai sindacati e alle organizzazioni del settore una bozza del Regolamento, che - sulla base dell'art. 44 del Decreto Tremonti - definisce i nuovi criteri di erogazione dei contributi sia diretti che indiretti all'editoria. Erano presenti il sottosegretario con delega all'Editoria Bonaiuti, il ministro della Semplificazione Calderoli e il professor Masi, segretario generale alla presidenza del Consiglio e capo del dipartimento Editoria. Ne scriviamo solo oggi, perché c'è voluto un po' di tempo per riprenderci dal trauma di quell'incontro. Il settore è in una crisi profonda, che ha toccato oggi - dopo anni di utili assai alti - anche i grandi gruppi, colpiti dalla liquefazione delle vendite degli «allegati» (enciclopedie, libri e quant'altro), che per oltre 5 anni hanno rappresentato la droga dei loro bilanci, anche quando le vendite delle proprie testate scendevano. Ma di questo malessere nell'incontro non si vedeva traccia. Mentre era assai forte la tendenza a mettersi al servizio del nuovo «principe». Ma veniamo al merito. Per quanto riguarda i contributi diretti, il nuovo Regolamento cambia profondamente le vecchie norme legislative, ma va collocato all'interno della nuova norma, prevista dall'articolo 44 del Decreto Tremonti. In sintesi, non stabilisce i contributi, che i giornali cooperativi, non profit e di partito avranno, ma quanto gli spetterebbe se ci fossero i soldi (che fino a oggi non ci sono, o in ogni caso non bastano). Ed interviene anche sui criteri di erogazione degli indiretti. Rappresenta, insomma, il profilo virtuale del riparto delle risorse nel settore.

Meno diritti
Sui criteri di attribuzione dei contributi diretti, c'è un'operazione di semplificazione fortissima. Le testate ammesse riceveranno 2 milioni, purché non superino il 50% dei costi di testata, più 0,90 centesimi a copia, fino a 25 milioni di copie diffuse nell'anno (entro il limite massimo del 60% dei costi). Si tratta di una leggera tosatura (dal 4 al 7%) per la maggioranza dei quotidiani, mentre ha un esito molto diseguale, in specifici casi veramente pesante, sui periodici. Il limite dei 25 milioni di copie bastona tre testate, le più grandi, l'Unità, l'Avvenire e Libero (con quest'ultima, che lascerebbe sul campo oltre il 40% degli aiuti di Stato, che peraltro riceve a forza di espedienti). I giornali di partito vengono equiparati ai non profit (e questa è una cosa positiva), e perdono mediamente attorno al 15% Viene accolta una rivendicazione da tanto tempo avanzata da Mediacoop, che riteneva indecente che venisse permesso agli ex giornali di movimento politico (quelli ammessi negli scorsi decenni ai contributi in rappresentanza di fantomatici movimenti creati da un deputato e un senatore, norma poi cancellata) di continuare a percepire i contributi, se trasformati in cooperative, anche se non di lavoro. Domani anche questi dovranno avere almeno la metà dei giornalisti tra i loro soci, almeno la metà dei loro soci dipendenti, e fare entrare in cooperativa tutti i giornalisti dipendenti che ne facciano richiesta. Un fatto, che coinvolge, ad esempio, Il Foglio e Il Riformista , ma a cui sfugge Libero, che si è sottratto a questo rischio trasformandosi in quotidiano controllato da una Fondazione l'ultimo giorno in cui questo era possibile (da tre anni le Fondazioni non sono più ammesse ai finanziamenti, se non le preesistenti). Si passa, per attribuire le risorse, dal concetto di «tiratura» a quello di «distribuzione»: verranno cioè conteggiate non tutte le copie stampate, ma solo quelle diffuse nel circuito delle edicole o in quello della sperimentazione (supermercati, bar e altri negozi) o vendute in abbonamento. E anche questa dovrebbe essere un'indicazione positiva. E non si tiene conto, al fine dei contributi, delle copie vendute in blocco, che rappresentavano uno scandalo, perché permettevano ad alcuni editori di far risultare più alta la diffusione, con vendite di comodo a prezzi irrisori. Ma nello stesso tempo si abbassa di molto il parametro tra distribuzione e vendita (dal 25% al 15% per i giornali nazionali e dal 40% al 30% per i locali), che era e resta un requisito di accesso ai contributi, permettendo a molti 'amichetti' di rifarsi per le perdite subite: soprattutto ai giornali che stampano 4 o 6 pagine. Si fissano parametri di occupazione (altra richiesta «storica» di Mediacoop), ma sinceramente ridicoli per i quotidiani (almeno 5 dipendenti giornalisti o poligrafici, per chi dovrebbe ricevere 2 milioni di contributo). Mentre sono più rigorosi per i periodici, le radio e le agenzie.

Più pubblicità
Dulcis in fundo Si abolisce, in modo apparentemente incomprensibile, il tetto del 30% di entrate pubblicitarie sui costi. Ma se questa legge era nata per sostenere quelle testate, che avevano un carattere autogestionario e non profit, ma soprattutto erano discriminate sul mercato pubblicitario, che rappresenta circa le metà delle entrate di tutti gli altri editori? Si tratta di una spinta agli editori finanziati ad «andare sul mercato»? Non diciamo sciocchezze. È il mercato che discrimina i giornali politici e di idee, per quanti sforzi facciano e malgrado l'influenza seria che queste testate hanno sui loro lettori (dal manifesto all' Avvenire , dall' Unità a Liberazione o Il Secolo ). Pur avendo una grande forza di attrazione su di essi, non arrivano a toccare il 15%. Semmai può essere una valvola di sfogo per Libero , che recentemente ha visto crescere in modo esponenziale le entrate pubblicitarie (dai 4,788 milioni del 2006 agli 8,294 del 2007, pur in presenza di un leggero calo di vendite: da 28,099 milioni a 28,013), e che con un 'aiutino' potrebbe recuperare di qui ciò che perde per altra via. Sui contributi postali, c'è un'innovazione seria, che può produrre un risparmio significativo. Lo Stato si ripromette di smetterla di fare la parte del cretino, che - trattando a nome del più grosso cliente italiano: tutti gli editori di giornali e periodici, le forze politiche, le associazioni, il volontariato - concorda con le poste la tariffa piena, rispetto alla quale sostiene gli editori, pagandone il 60%. Chiede che le Poste italiane, che da società per azioni quale sono negoziano da 10 anni le tariffe con i loro maggiori utenti, diano all'editoria il trattamento della migliore convenzione fatta con i privati. Così la spesa si può ridurre almeno del 40%. Il governo interverrebbe, alleggerendo gli editori del 50% dei costi, «nei limiti dello stanziamento disponibile». Insomma, anche i contributi indiretti perderebbero la qualità di diritto soggettivo, ma questo solo tra un anno.

Soluzione pessima
La nostra campagna sulla montagna di soldi percepiti dagli editori quotati in borsa sembrerebbe aver lasciato il segno nel comma 2 dell'art. 22 del Regolamento. Ma la soluzione fa un po' rabbrividire. Lì si stabilisce che il ministro dell'Economia e delle Finanze «definisce annualmente le tariffe agevolate delle imprese editoriali quotate in Borsa, tenendo almeno conto delle variazioni dell'indice dei prezzi al consumo». Insomma, il governo tratta con i più grandi editori italiani le sue elargizioni annuali (ma questi ultimi hanno già una garanzia di incremento, seppur quello misero «delle famiglie degli operai e degli impiegati rilevato dall'Istat»), così come annualmente decide quanto dare ai non profit e ai giornali politici e - volendo - con che criteri darlo. Complimenti! Stiamo tornando, senza darlo a vedere, al Minculprop? L'insieme di questi criteri definiscono soltanto un diritto virtuale. Possono, in parte, introdurre un cambiamento utile. Ma sono, lasciatecelo dire schiettamente, l'abito con cui il condannato a morte viene accompagnato al patibolo, se non si ricostruiranno certezze - come è necessario e urgente fare - e non si doterà il Fondo editoria delle risorse necessarie.

Mosaic, Volume 41 - No. 3 (September 2008)
Castrating Antigone: The Cliche of Terror in Marco Bellocchio's Devil in the Flesh
Posted on: Sunday, 7 September 2008, 03:00 CDT
By Stout, Graeme


This essay argues that Antigone serves as both a subtext and a material example of misreading within Marco Bellocchio's Devil in the Flesh. The emergence of Sophocles's text in the final scene of the film is read through Pasolini's concept of the cinema of poetry and Deleuze's notion of the cliche. After two decades of neglect, Marco Bellocchio's Devil in the Flesh [Il Diavolo in corpo], is once again attracting the attention of the scholars of Italian cinema interested in gli anni di piombo. In part, this is due to a renewed interest both in the cultural representation of terrorism and in Bellocchio's more than forty years of cinematic output. Both of these trends are further accentuated by the release of Bellocchio's Good Morning, Night (Buongiorno, Notte), a film that tells the story of the kidnapping and murder of Aldo Moro by the Red Brigades (brigate rosse). Unlike Good Morning, Night which is based on the memoir of former Red Brigades member Anna
Laura Braghetti, the textual origins of Devil in the Flesh are far more obscure. This is, of course, an odd statement as it seems obvious that Bellocchio's film is an adaptation of Raymond Radiguet's 1923 novel. Devil in the Flesh, however, is neither a retelling nor a restaging of the novel. It would be an error to read the film as an adaptation of the novel.1 But such an error would itself be part of a greater practice of misreading at work in the film: a practice that is witnessed in the use of textual references; a form of misreading that starts with the initial reference to Radiguet's novel in the title of the film and continues to the final scene of the film when Sophocles's Antigone enters into the diegetic structure of the film.

In this final scene, Antigone enters as a possible subtext that potentially explains the political and dramatic references and forms within the film. Here, Sophocles's tragedy appears, not only as a potential subtext of the film, but also as an object of textual analysis at the end of the film. This object of interpretation is not only the point in the film where the subtext is manifest as a text, but it is also the point where the act of misreading emerges as the central form of reading within the film. The very moment when Sophocles's tragedy appears, we believe that the true source of the film's textual origin has been revealed. And, yet, with the appearance of the text as an object of discussion and interpretation that is instantly misread, we are faced with the possibility that the play-the transcendent, eternal source of tragedy-is nothing other than an impediment to interpretation.

The entrance of the text within the film offers us two modes of interpretation borrowed from Gilles Deleuze and Pier Paolo Pasolini: that of the cliche (subtext) and that of the image. Here, the text serves as a catalyst that both offers us a point of reference-a subtext that is itself a cliche, a sign within a system, the text of political resistance-and destroys the simplistic reading that is the cliche, offering in its place a singular image that resists interpretation. The arrival of the play marks the moment when tragedy fails to fulfill its promise as tragedy and we are left with doubt and without the cathartic release that revelation should provide. This impasse is manifested in the final shot of the film in which we see Giulia (Maruschka Detmers), the film's protagonist reacting to this act of misreading. In this final image, we see what Pasolini would call the "extremely crude, almost animal-like" (168) quality of the cinematic image, an image
that is sovereign and resists the power of a "language of prose" and which, at the very end of the film, reveals the "hypnotic monstrum that a film always is" (172). It is in this "demonstration" of the image and its power that Bellocchio's film not only fulfills the promise that Pasolini saw in cinema but offers a clear example of Gilles Deleuze's reading of cinema's desire to break free from the cliche form.

Set in the early years of the 1980s, Devil in the Flesh tells the story of Giulia, the daughter of a colonel slain by terrorists. As the narrative begins, we discover that Giulia is engaged to Giacomo Pulcini (Riccardo de Torrebruna), a member of the Red Brigades who, with the encouragement of his pious mother and influential family friends, has become one of the pentiti-those who have renounced their political beliefs and fervour through the mediating influence of the Catholic Church, and have agreed (as a sign of their break with the violent past) to denounce others. As she awaits the final verdict on her fiance's fate, Giulia meets Andrea Raimondi (Federico Pitzalis), an eighteen-year-old student about to take his final exams. Andrea pursues Giulia and the two begin a relationship: for Andrea it is first love, for Giulia, it is a release from the constant observation of her domineering mother-in-law. Andrea's father, a professor of clinical psychiatry
and Giulia's former analyst, is made aware of the relationship between his son and Giulia. He tries to convince Andrea that Giulia is dangerous (she had once been his patient but he soundly declares that she is truly mad, "an incurable"), but to no avail. As their relationship develops, Andrea becomes more complacent and is transformed into a repetition of Giacomo-a lazy, weak man who seeks the shelter of mediocrity. Giacomo is released from prison after making public renunciation of his errors on television. He awaits Giulia at the altar in order to begin his new life of domestic bliss. Giulia, however, does not appear, and when he is told that she will not come, Giacomo is indifferent.

In this final scene,Andrea sits for his graduating exams. First, he is asked to interpret a passage from Dante's Paradiso, which he does in a clear and calculating manner to the mild dissatisfaction of one of his examiners. He is then asked to read from Antigone, the passage that describes Creon's cathartic moment when he admits and accepts his own blindness and guilt.When Andrea is asked to interpret the passage and its relationship to the concept of conflict and antagonism within the play, he states that the tragedy expresses the conflict between two irreconcilable philosophies: one which honours the dead as demanded by the bonds of blood and the edicts of the gods, and another that demands the rational and pragmatic justification of action through recourse to a notion of political and social stability. In Sophocles's text, it is Antigone who upholds the laws of the gods, who argues that "I did not think your edicts strong enough to overrule the
unwritten unalterable laws of God and heaven, you being only a man. They are not of yesterday or today, but everlasting" (Watling 454-57). It is, of course, Creon who bases his rule on the denial or repression of these eternal laws in favour of the expediency or pragmatism of choice and decision. He denies Antigone's claim that there is a higher, more primal power upon which all laws must be based or that supersede all human laws. "Well may she pray to Zeus, the God of Family Love. How, if I tolerate a traitor at home, shall I rule those abroad?" (657-59).

The problem with Andrea's interpretation is that it confuses the embodiment of these two opposing moral or political systems: Creon is presented as the one who upholds the eternal laws of the gods and Antigone is the one who represents transitory human intent and desire. At the exam however, no one other than Giulia recognizes this mistake. For Andrea, and those around him, Creon's concept of law has become the eternal law of the gods, fate: the transitory is now the eternal. Antigone comes to represent the human world of passing desire: error. It is this mis-interpretation and condemnation of Antigone that reinscribes Andrea within the castrated world of bourgeois mediocrity.Andrea's unemotional response to the poetry of Dante and his misinterpretation of Sophocles prove to Giulia that he has indeed graduated into the adult world of domestic and professional responsibility. Despite his proclamation of love, his desire is reduced to mere sexual
gratification that increasingly threatens to develop into a form of domestic bliss-the very thing that Giulia seeks to escape. Even as Andrea rebels against the authority of his father, he finds himself drawn to the same order for which his father stands. During the examination, Andrea speaks through the voice of paternal or patriarchal authority: during his recitation of Dante he cites Cacciaguida2 (Dante's great-grandfather) and during his reading and translation of Antigone, he speaks the part of Creon.

It is important that this misreading takes place at the very site of bourgeois adulthood: the graduating examination where the acceptance of structures and formalities is the moment of acquiescence, of self-interpellation. The importance of misreading within the film is doubly stressed by the fact that no one in the room draws attention to it or recognizes it. The reason for this is that his examiners are only interested in his politics. His misreading is itself misread; his passivity is read as rebellion instead of an honest and submissive form of indifference. This multiplication of errors leads to the final re-entry of politics into this rather apolitical political film, as Andrea is questioned about his political leanings instead of his (mis)understanding of classic literature. It is at this point when a long series of errors and miscommunications gives way to a sudden clarity, namely that Andrea's apathy is not a form of rebellion but the opposite;
it is a recognition and avowal on his part that his sexual pleasure is completely tied to the maintenance of the structures of power whose gatekeepers are currently examining him. Unlike Haemon, whose rebellion leads to the rejection of his father's authority, to which he is heir, and his very life, Andrea acquiesces without resistance and, in this moment, Giulia becomes the one person who is able to see this proliferation of errors for what it actually is. It is Giulia who realizes his error but, more importantly, she is able to understand what this misreading demonstrates. This textual misreading also reveals that acts of interpretation, both within the diegetic structure of the film and within our own encounter with it, are now suspect.What we take to be a cliche is suddenly presented in a very different light.3 If Bellocchio's film is not an adaptation of Antigone it is still important to realize the text's role within the film as both a sign (a
cliche) and lack of meaning (a misreading). First, Sophocles's text resonates throughout the film as a subtext of rebellion and opposition against a social order that regards its own temporal rules as eternal laws. It is the case that there are multiple parallels between Antigone and Devil in the Flesh (and there are far more between these two texts than between the film and Radiguet's novel), but also that the theme of misreading is common to both texts. Second, the text's entry into the narrative proper and its importance as a misread text points to this misreading as a feature that problematizes any interpretation of the film as an adaptation of the tragedy-or any other text for that matter. It is only in the figure of Giulia that one might find a tragic element within the film, but her fate is one suffered in silence. Her resistance to the world of middle class respectability is misunderstood by all the men around her and, because of this, the
possibility of conflict is neutralized. But, it should be noted, the neutralization of conflict is also a theme in Antigone where we also see a form of misreading take place as two forms of law confront one another.

Antigone's resistance to Creon's edict, which forbids the burial and sacrilization of the body of Polyneices, bases itself on the moral primacy of the laws of the gods, which demand that the dead be honoured by their family as they themselves honour the gods and they are honoured by the gods through the gift of life. These are unquestionable laws that underlie and supersede every other notion and form of human law. The punishment for their violation is eternal, as opposed to that of the temporal laws of humanity. Creon, on the other hand, appeals to a form of rational, political calculus with which he intends to control the behaviour of his fellow citizens within the potentially unruly space of the polis. If Creon represents and exercises sovereign power, he is, by no means, a tyrant, as his laws are based on pragmatic arguments that seek to promote the greater good and the survival of the community.

This opposition of forces, two different readings of Law, is at the heart of Hegel's reading of Antigone. Antigone is passive, unlike Creon who is the figure who decides, divides and denies: he is the sovereign who does not appeal to any transcendent notion of sovereignty beyond the immediate needs of the polis. It is no wonder that Hegel saw in the figure of Antigone a notion of innate, preconscious, and pre-rational law4 as she is nothing more than a screen for Creon's paranoid projections. Judith Butler argues, contra Hegel, that Creon and Antigone do not represent, in their essence, an opposition of forces. They are, instead, read through their deeds which reveal "the social deformation of both idealized kinship and political sovereignty" (6). Creon's and Antigone's deeds reflect one another as distortions of the very model of gender opposition that Hegel claims to be implicit within the text (10). Butler argues that Antigone is neither passive nor
preconscious, but a model of sovereignty that counters that of Creon: not an alternative to his sovereignty, but an alternative claim to or about sovereignty-"hers becomes a politics not of oppositional purity but of the scandalously impure" (5). Antigone is outside of the dualistic model of politics that Creon embodies. But Creon, as the sovereign who decides, is the one who also interprets within the play. In his encounters with Antigone, he misreads her as a political rival (a female Polyneices). This paranoid projection on his part leads him to undermine the very foundation of his authority within a model of sensible and moderate rule."For my part, I have always held the view, and hold it still, that a king whose lips are sealed by fear, unwilling to seek advice, is damned" (Watling 180- 182). Creon embodies the limits of binary thought in that his logic leads to the downfall of his reign, and in that he literally is the limits of binary thought: in
Creon is contained the two poles of political opposition existing only as a self-contained system of paranoid projection. To this internalized system of identification and projection, Antigone is completely external.

The question of misreading is at the heart of Sophocles's play, for this provides the basis for Creon's fall. It is only at the point when Creon admits the errors of his edict-first, that it is unjust by denying the eternal laws of the gods, and second, that it runs counter to the consensual and conservative model of political rationality with which he sought to rule Thebes-that the tragedy unfolds through the deaths of Antigone, Haemon, and Eurydice, and, finally, Creon's reign. But what then is the source of Creon's downfall? It is not Antigone, nor is it his model of political rule. Rather, it is a form of paranoid projection that runs throughout the play and defines Creon's actions.Antigone is nothing more than a screen upon which Creon's anxieties are projected. It is in this process of projection that we see misreading, as a form of misrecognition, develop into tragedy. This process of misreading also serves as the practice that ties these two
texts-Sophocles's drama and Bellocchio's film-together as reflections on political psychology. On a more specific level, the misreading of Antigone by Creon is a function of tragedy (it is this misreading and the form of paranoid projection that generates it that is at the heart of Sophocles's text) and the misreading of Giulia by all the men around her is a product, a critique of the cinema. Giulia serves as a screen for male anxieties. Here one also finds another discourse of projection at work within the film, one that refers back to a well established cinematic and critical discourse of femininity, that of the castrating woman, the femme fatale.

If Giulia appears as a cliche in her own right, this is because she exists within a system of cinematic of cliches. The way that Giulia is presented so overtly as a primal sexual force suggests that she is not a femme fatale, but the femme fatale. Throughout the film, she takes on the role of the castrating woman who seeks to ensnare and destroy men. In one scene, a sleeping Andrea becomes the object of Giulia's malicious and child-like attentions, she lifts the sheets with one hand, producing scissors with the other. She tells the still sleeping Andrea that she could "cut it off" and then proceeds to go through the motions of doing so.

One must read Giulia against the men around her, as she is, according to the logic of castration,5 only their projection. They are willingly weak and mediocre. If she is the screen for their projections, it is only out of an overwhelming sense of masculine apathy or laziness. Giacomo, for example, is always described by other characters in the film as a dangerous man due to his political affiliations. When, however, he first appears on screen, his manner is anything but dangerous. He acts as if he were a naughty child whose infractions have earned him his parents' disapproval.When he speaks with Giulia (who greets him as if he were a passionate and sexual being) he discusses how, when he is released from prison, he would like to live a "small and simple life." When Giacomo is told of Giulia's refusal to marry him, his unemotional state reads as a complete lack of desire. There is no vitalist hatred or fear on the part of masculine identity at work in the
film-men are passive producers of images which, by the very nature of the apathy that generates them, have no force or threat behind them. There is no threat of the paternal violence that stood behind Creon's edict. Giulia represents a model of difficult freedom from which all others flee. And, at the same time, her sovereignty is completely neutralized by the lack of desire on the part of everyone around her. Whatever power she has is negated by the void of psychic energies that typifies the male order.

Here, Bellocchio's film reads post-war Italian society as being a "society of mammoni's," in which the Oedipal complex is overcome by the simplification of desire to such a degree that even the sexual drive is subsumed within a system of banal expectations and rewards. Akin, in many ways, to Adorno and Horkheimer's reading of the authoritarian personality, Bellocchio's contribution to the psychology of gender takes particular aim at Italian political virility in the post-war economic boom of consumerist prosperity. The oedipal hatred and jealousy of the father is transformed into an acceptance of, and identification with, authority.

In the central confrontation between Andrea and his father, Professor Raimondi, the nature and ramifications of Andrea's relationship with Giulia are brought to the forefront. His father warns Andrea that he should have nothing to do with Giulia. At first, he attempts to be subtle, suggesting to Andrea that "insanity is brutal." When Andrea refuses to listen, no doubt aware of where his father is going with the conversation, a more direct approach is required on the part of Prof. Raimondi. The fatherfigure as jealous tyrant emerges and Andrea is told that "Giulia is completely crazy" and that "they [women, the mad] cling to you. It's hard not to be torn to pieces." But Prof. Raimondi relents, realizing that his son's relationship is nothing more than a dalliance, which, in time, will pass. Giulia is feared and presented to us through the eyes of Prof. Raimondi as a castrating animal. But this fear takes place on the level of projection and fantasy alone
and there is no real threat to the domestic peace of the Raimondi household. In this confrontation between father and son, Andrea's eternalization of Creon's pragmatism echoes Giacomo's discourse of mediocrity. Andrea does only as much as he needs to do in order to get what he wants from the world around him.He, like all the other men in the film, has sacrificed his desire to a system that ensures his comfort in return for his act of self-castration. He becomes the castrated, mediocre husband whom Giulia rejects in the figure of Giacomo. But Prof. Raimondi's interest in Giulia is not out of concern for his son's welfare; nor is it a simple issue of his desire to control her. Whenever Giulia enters into his world,we find her effect to be a destabilizing one, but it is not one that is seen with fear. Just the opposite, she is a source of fantasy for the patriarch.6 One could turn to Deleuze and Guattari's discussion of the relationship between the
paranoiac despotic sign and the sign-figure of the schizo and think of Prof. Raimondi's reaction as a desire to become Giulia, to lose control and relinquish his power (Deleuze and Guattari 9, 67, 105). During a session with a patient who informs him of the relationship between Andrea and Giulia, Prof. Raimondi becomes distracted by this news and ignores his patient. As he hides behind the head of the couch, visibly disturbed by the news of his son's actions, the narrative breaks and we enter into a world of fantasy as Giulia rises naked from the couch. She beckons the professor to approach and when he makes an attempt to escape, she rushes to the door, locks it, and throws the key out the window. Giulia then moves to the centre of the frame and orders her former analyst to appear before her as her lover.

But there is no confrontation or antagonism between the sovereign, the figure of power, and the rebel, the figure of terror outside that which takes place on the level of fantasy. At best, the possibility of confrontation presents itself when Giulia returns to her analyst after a one-year absence. She sits down on the couch and, before the session can begin, Prof. Raimondi makes certain to place a handkerchief behind Giulia's head in order to control her contagious presence. He cannot, however, resist recognizing the scent of lavender that he has always associated with her. After some reassuring words from the professor on the subject of how psychoanalysis is a process in which one attempts to work through anxiety in order to control psychic disturbances, Giulia rises from the couch, screams, and storms out of the office. She realizes that Raimondi's intention is to control her, to re-institutionalize her within a system of power and normalcy. She denies
conflict and he is untroubled, seemingly reassured (perhaps even excited) by her actions. Dr. Raimondi fears Giulia because she is viral: she appears at random, disrupts the controlled environments of both his office and his home, and then vanishes.

It is not that Giulia's "sexual powers" threaten to castrate the men around her,7 nor is it simply the case that she is a screen for their projections, their anxieties. Giulia is not a screen because men do not fear her and she does not drive them mad. They abandon her without the slightest thought or misgiving. Dr. Raimondi is the only example of such an anxiety and this seems to have more to do with his own desire-a desire that plays itself out as a fantasy. In both their confrontations, we suspect that we witness nothing more than a fantasy, a projection of Dr. Raimondi's desire. Her sexuality points beyond what is symbolically, or literally, presented: "it is necessary to make holes, to introduce voids and white spaces" (Deleuze, Cinema 2 21). Although represented as a cliche, Giulia's sexual nature points to something else. She becomes a cinematic image that, even when she makes direct reference to figures of castration, is not that. Giulia is, in
many ways, outside of the logic of castration as all the men around her are self-castrating: they accept power and limit their desires. She is, at once, a cliche (for what could be more banal than the femme fatale) and the very escape from this structure of meaning. As Deleuze argues in Cinema 2: The Time Image, post-war cinema needed to reinvent the role of the image in order to go beyond forms of cinematic expression that had developed into institutions of meaning, institutions developed into cliched forms of expression. In order to move away from the image's natural tendency toward the cliche as a fixed form of meaning (a sign), as well as the cliche as the site of power within systems of images, Deleuze posits that cinema salvages the image through a process of experimentation and defamiliarization in which the cliche is presented as either a surplus or a lack of meaning (21). The cliche of castration points out that it is not castration anxiety-one
could and will be castrated-and, instead, indicates the self-castrating order of the bourgeois world-one is always, already castrated by the social (Deleuze and Guattari 295). Giulia points to a cinematic image of desire that turns back on its own methods and forms with a solemn silence. This silence (a non-discursive language of the body) is presented as an image that offers an interpretive excess and lack at the same time. Giulia's nature is always marked by this form of ambiguity. Here, Giulia serves as a double-cliche: in her guise of the femme fatale, she is easily recognizable as such; as the "figure" of Antigone, she is the literary and cinematic cliche of the revolutionary. Following Deleuze's argument, one then needs to discover how she "attempts to break through the cliche, to get out of the cliche" (21).

Throughout Devil in the Flesh, Giulia is presented in a series of centre shots and close-ups in which she moves toward such a "break through." In the final scene of the film, Giulia once again dominates the screen. This image provides no form of resolution within the narrative of the film but stands as the last, and lasting, image-with its intensity of emotions moving toward a crisis, the film ends abruptly and we are left in a state of interpretive uncertainty. This break has an unexpected quality, given that the action takes place in the exam room, the place of interpretation and evaluation, and this is exactly what is not offered. Instead, one must ignore the actual work of interpretation presented in the diegetic structure of the film and read according to the structures and images present within it.

The central opposition between Andrea and Giulia, between the interpretive act and the image, is echoed in the visual structure of this scene. During the question concerning Dante, we see Andrea occupying the frame with an air of passive irreverence: he slouches, smiles slyly in order to charm the examiners and the audience seated behind him (an audience which includes, unbeknownst to Andrea, Giulia). Here, the camera is situated amongst the examiners, directly across from Andrea. When the examination shifts to a discussion of Sophocles, the camera shifts to Giulia, who sits at the back of the room. She is centred within the frame and will remain there for the next two minutes while Andrea reads, translates, and discusses Antigone. During this time, the sole focus of the camera is a seemingly motionless and emotionally overwrought Giulia.

Here, one could follow Deleuze's reading of the close-up in Cinema 1: The Movement-Image and see this moment as an image in which we find an intense concentration of power and quality. "There is no close-up of the face. The close-up is the face, but the face precisely in so far as it destroys its triple function-a nudity of the face much greater than that of the body, an inhumanity much greater than that of animals" (99). But one must also think of the close-up itself as a cliche within the lexicon of cinema. This is certainly true but, as with Bellocchio's use of other cliches, the close-up is that moment where the image exceeds itself and breaks free of the ossified form of the cliche. Giulia's image becomes pure emotion-not any single emotion, just emotion. One can see rage, happiness, humour and pain but the sign of one emotion slips into another. The intensification of emotion does not move the film, but stops it. In a film that is propelled by the
discourse of the cliche, the end is reached when the cliche form is exposed as just that: a cliche.

Andrea's indifference to the poetic text and his misinterpretation of the tragic is met with silence on the part of Giulia, who finds him cold and calculating, and, at heart, truly bourgeois. Yet one cannot help but struggle to interpret this silence and the tears that accompany it. Misreading is, after all, the literary and semiotic act with which the film ends. Perhaps this scene is best read as a paradox in which we find two conflicting interpretative scenarios: on the one hand, we find Giulia's ambiguous, yet emotionally overwrought, response; on the other hand, we see Andrea's calculating nature and submission to authority. But this interpretative paradox might be nothing more than what Gilles Deleuze discusses as the imperative behind cinema in the postwar era: an imperative that is driven by the desire to liberate the image from the cliche form: "the image constantly sinks to the state of the cliche: because it is introduced into sensory-motor
linkages, because it itself organizes or induces these linkages, because we never perceive everything that is in the image, because it is made for that purpose (so that we do not perceive everything, so that the cliche hides the image from us . . .). Civilization of the image? In fact, it is a civilization of the cliche where all the powers have an interest in hiding images from us, but in hiding something in the image" (21). Here, Deleuze comes very close to Pasolini's characterization of cinema after neo-realism as one that moves toward a "cinema of poetry" and away from a "cinema of prose." Pasolini argues that cinema had been a medium through which information and ideas are communicated but that, in the late 1960s, cinema shows signs of moving away from this role. The "cinema of poetry" liberates the image from this subservient role and installs it as a sovereign presence. Here, in both Deleuze and Pasolini, we see described a tension between two
forms of cinema: the first of symbols within codes and systems of meaning, the second of images that break free of these codes and systems. What we see in Bellocchio's film is this very tension: on the one hand, we have a series of cliches embodied not only in Giulia as the femme fatale, the castrating woman, but also in Antigone as a cliched political subtext; on the other hand, we also have this final image trying to break through this language of cliches-in particular, the final image of Giulia. This is the primary tension at work in Devil in the Flesh: when the cliches of terror-Antigone read as a parable of terrorism and the terror of the femme fatale-give way to the sovereignty of the image. The difficulty that this tension produces is one of reading, as we see in Bellocchio's film both an appeal to the literary and historical referents (e.g., Antigone, Radiguet's novel, the history of terrorism in Italy) and an attempt to break free from this
model of cinema as a simple reflection of external reality or realities. This double reading is at once the problem of Devil in the Flesh as well as its interesting contribution to the history of Italian cinema after neo-realism. NOTES

1/ For a reading of Bellocchio's film as thematic adaptation and updating of Radiguet's novel, see Maurice Yacowar's "The Bedevilled Flesh: Bellocchio's Radiguet" (Literature/Film Quarterly 17.3 [1989]: 188-92). Yacowar argues that the film should be understood in trialogue with Radiguet's novel and Bertolucci's Last Tango in Paris.What Bellocchio offers, according to Yacowar, is reworking of the male bias in both these objects. Such a reading does not entertain the possibility that Bellocchio's film only relies on Radiguet's novel as a signifier and not as a source. Such a possibility would radically change the way that we think about cinematic adaptation when analyzing the film; as it would also demand a far more nuanced reading of the novel if it is a signifier and not a signified, primary textual source for the film. It should be noted that, although the film's original promotional materials make reference to Radiguet's novel, neither the novel nor
its author is listed in the film's credits.

2/ Andrea comments that the passage (Paradiso Canto XVII) refers to the theory of free will. In fact, it is an attempt to reconcile free will with an already determined future. Here, Cacciaguida prophesies that Dante will be exiled from Florence. This initial and additional misreading offers an equally interesting object of investigation. But given the limits of the current project, it must be set aside for the moment.

3/ Bellocchio's reinterpretation of the Antigone narrative echoes Liliana Cavani's use of the Sophocles's text in I cannibali. In Cavani's film, the play becomes an allegory for youth rebellion in the face of authoritarian rule, identified through a mixture of fascist and Christian symbolism. Antigone also finds an equally important role in German cinema and literature's engagement with rebellion and terrorism in the 1970s and 1980s. For a discussion of Antigone in the German context see Thomas Elsaesser's "Antigone Agonistes: Urban Guerilla of Guerilla Urbanism? The Red Army Faction, Germany in Autumn and Death Game" in Giving Ground: The Politics of Propinquity, eds. Joan Copjec and Michael Sorkin (London: Verso, 1999), 276-302. By the mid-nineteen-eighties, Antigone had become a cliche of political cinema. The use of the play-and, more importantly its misreading-in Devil in the Flesh offers a critique of the political cinema and the interpretative
expectations of the audience.

4/ In both the Phenomenology of Spirit ([section]437 - [section]470), and the Philosophy of Right ([section]166), Hegel argues that the ethical consciousness acts with knowledge of its own guilt and recognizes that which it opposes as its own actuality. In section 470 of the Phenomenology of Spirit, Hegel associates Antigone with the ethical consciousness as one whose "guilt is more inexcusable" by the very fact that it knowingly opposes power. Power and resistance are thereby established as a dialectical opposition, the two sides of which can only be understood by their mutual interpenetration and definition. In the Philosophy of Right, Hegel associates Antigone with a feminine and domestic sphere of law that has not been actualized and that is necessarily opposed to the "law of the land" by its inherently individualized application. This distinction between public and private law is claimed by Hegel to represent the "opposing natures of man and woman"
(115).

5/ "During its history, the cinema seems to have evolved a particular illusion of reality in which the contradiction between libido and ego has found a beautifully complementary phantasy world. In reality the phantasy world of the screen is subject to the law which produces it. Sexual instincts and identification processes have a meaning within the symbolic order which articulates desire. Desire born with language, allows the possibility of transcending the instinctual and the imaginary, but its point of reference continually returns to the traumatic moment of its birth: the castration complex. Hence the look, pleasurable in form, can be threatened in content, and it is woman as representation/image that crystallizes this paradox" (Laura Mulvey in "Visual Pleasure and Narrative Cinema," Screen 16.3 [1975], 11).

6/ In "Beyond Controversy: Marco Bellocchio and Fagiolian Psychoanalysis," Clodagh Brook argues that Devil in the Flesh's overt psychoanalytic themes are best explained by the influence of psychoanalyst Massimo Fagioli on Bellocchio's work and life (Fagioli advised Bellocchio on set during filming) (in Italian Quarterly, 42.163-164 [2005]: 55-66). Fagioli "critiqued" Freud's theories of the psyche and, instead, saw the unconscious as a creative and unified field that needed to escape from the desire of the conscious mind (and psychoanalysis) to control it. In many ways, Fagioli's theories are reminiscent of new age philosophy's desire to see the unconscious mind as the primary unifying entity that has been subverted by our conscious lives. Here, Brook argues that Giulia, the film's protagonist, is the embodiment of the Fagiolian principle of creativity and liberation. Although of interest, Brook's interprets the film as a simple representation of
Fagioli's theory. I would like to think of Devil in the Flesh as a far more subversive text.

7/ There are certainly numerous instances within the film in which the act of castration is acted out by Giulia and presented to us as a referent. In these instances, Giulia's actions are playful mockeries of male anxiety, pointing more to the infantile nature of masculinity's rites and rituals of self-preservation. While visiting Giacomo in prison, Giulia takes advantage of the lax security in order to give her fiance a "handjob" under an interview table. More interested in his own banal poetry, Giacomo pleads (whines really) with her to stop as "it hurts."

WORKS CITED

Bellocchio,Marco, dir. Devil in the Flesh [Il Diavolo in Carpo]. Perf.Maruschka Detmers, Federico Pitzalis, Alberto do Stasio, and Riccardo de Torrebruna. Orion Classics, 1986.

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GRAEME STOUT lectures at the Minneapolis College of Art and Design and at the University of Minnesota, where he received his doctorate in comparative literature in 2006. Currently, while searching for a tenure track position, he writes on the cultural histories of terrorism during the seventies and eighties and the cinema of Michael Winterbottom.

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