giovedì 25 settembre 2008

L'Istituto Confucio informa che c'è tempo fino al 3 Ottobre per l'iscrizione ai corsi di cinese. Per informazioni sui corsi attivati, gli orari e le modalità di iscrizione: www.istitutoconfucio.it. Il prossimo ciclo di corsi avrà inizio il 13 Ottobre e le lezioni termineranno a fine Gennaio.

Cogliamo l'occasione anche per invitarVi al primo appuntamento di quest'anno per il ciclo di conferenze dell'Istituto Confucio tenuto dal Prof. Yuan Xingpei dell'Università di Pechino. LA BELLEZZA DELLA POESIA CINESE:La notte della luna in fiore sul fiume di primavera - poesia Tang

10 ottobre 2008 ore 16:00
AULA MAGNA DELLA FACOLTA' DI STUDI ORIENTALI
Via Principe Amedeo 182/b Roma

Il Professor Yuan dell' Università di Pechino, attraverso l'analisi di uno dei componimenti più rappresentativi della poesia del periodo Tang in Cina, ci guiderà in un viaggio attraverso la bellezza e la particolarità della poesia cinese in una delle sue espressioni più rappresentative.

Il Professor Yuan Xingpei nasce nella provincia del Jiangsu nel 1936. Il 1953 vede il suo ingresso come studente all'Università di Pechino, dove, subito dopo la laurea conseguita presso il Dipartimento di Lingua e Letteratura cinese nel 1957, continua a collaborare come ricercatore, impegnandosi in ricerche sulla poesia classica cinese. Profondo estimatore e conoscitore della poesia del periodo Tang, il Professor Yuan, che non ha mai lasciato l'Università di Pechino, ha insegnato anche presso l'Università di Tokyo, l'Università di Singapore, ed ha tenuto conferenze in moltissimi prestigiosi atenei. Attualmente il Prof. Yuan e' Professore del Dipartimento di lingua e letteratura cinese dell'Università di Pechino, Preside della Facoltà di Studi Umanistici, Direttore dell'Istituto di Studi Cinesi, Presidente dell'Istituto Centrale di Ricerca sulla Storia e la Cultura Cinese.


Repubblica 25.9.08
Se cade il tabù del razzismo
di Nadia Urbinati


ANCORA una volta è la Chiesa a ricordarci dove sta il giusto e lo sbagliato e ad ammonirci che l´Italia tradisce i diritti umani. La politica (quella del governo) è non soltanto insensibile al giusto ma è colpevole di non perseguirlo.
È colpevole di violare i diritti fondamentali promuovendo una legislazione e un´ideologia che sono razziste nei contenuti e nello spirito, perché escludono e criminalizzano chi ha come unica colpa quella di non essere "uno di noi". La parola razzismo spaventa, ma deve essere pronunciata, ha scritto molto giustamente Stefano Rodotà su Repubblica di qualche giorno fa. Deve essere pronunciata anche perché questa, solo questa, è la parola che riesce a descrivere quello che sta succedendo con sempre più frequenza nelle nostre città. Ovviamente, non è razzista la città di Milano o la città di Roma ? razzisti sono gli individui quando usano un linguaggio che offende gli altri, i diversi. Negli anni ´60 erano razzisti molti italiani del Nord verso gli italiani del Sud ? ancora oggi, tra il lessico razzista in uso presso i leghisti, è facile trovare la parola "terrone". Gli italiani del Sud erano allora l´equivalente dei neri di oggi: fatti oggetto di parole offensive e denigratorie.
Non è necessario che al linguaggio segua la violenza perché ci sia razzismo e perché ci sia comportamento violento. Il linguaggio può fare violenza oltre che istigare alla violenza. E il razzismo è un linguaggio violento. È una forma di violenza che è prima di tutto un modo di pensare che riceve energia dalla pigrizia mentale. Il pregiudizio (del quale il razzismo si alimenta), vive della nostra inettitudine mentale e della nostra faciloneria, perché è poco faticoso associare molte persone sotto un´unica idea: tutte insieme senza distinzioni individuali, solo perché nere o asiatiche o mussulmane. Al razzista questi aggettivi dicono da soli tutto quello che egli vuole sapere senza fare alcuno sforzo ulteriore di conoscenza, osservazione, distinzione, analisi. «Sei nero, allora sei anche A, B, C». Questa faciloneria rende il razzismo un codice di riconoscimento: i razzisti vanno d´accordo, si riconoscono e si attraggono; rinforzano le loro credenze a vicenda e accorgendosi che non sono soli a pensare in quel modo concludono che hanno ragione, perché la maggioranza ha ragione. Proprio perché genera emulazione il razzismo è facilmente portato a espandersi; l´atteggiamento razzista non è mai "un fenomeno isolato" perché se una persona ha il coraggio di rivelarsi razzista in pubblico è perché sa di poter contare sull´appoggio dell´opinione pubblica. Ecco perché quando si legge a commento di un fatto di razzismo che si tratta di "un fenomeno isolato" si resta allibiti (io resto allibita): perché il commento è sbagliato e figlio della stessa faciloneria di chi ha commesso il fatto.
Questa è una osservazione di grande importanza, un´osservazione che si può comprendere prestando attenzione a quello che con superficiale supponenza molti osservatori italiani criticano degli Stati Uniti: il "politically correct". L´idea che ci si debba vergognare di usare un linguaggio razzista in pubblico (questo è il "politically correct") riposa sull´osservazione ben documentata che l´escalation di comportamenti riprovevoli è indotta dal consenso (anche implicito o tacito) da parte degli altri. Se so di essere in minoranza quando dico "sporco negro" mi guardo bene dal dirlo in pubblico. I moralisti tacciano questa strategia educativa di ipocrisia dimostrando così di non capire che molto spesso i vizi privati (e l´ipocrisia è un vizio) sono facitori di virtù pubbliche.
Ha scritto Jon Elster che una delle molle psicologiche che ha reso la deliberazione pubblica possibile (e con essa il radicamento della democrazia) è stata proprio l´ipocrisia, la quale ha per questo, quando esercitata nella sfera pubblica, una funzione civica. Qual è infatti quel deputato che in Parlamento ha il coraggio di dire apertamente di essere lì a rappresentare un interesse fazioso o l´interesse di qualcuno, che vuole fare leggi per se stesso e i suoi interessi? Sappiamo che questi comportamenti sono tutt´altro che rari eppure è raro che vengano così pubblicamente confessati. Anche chi è lì a rappresentare solo se stesso giustificherà le proprie proposte di legge con l´argomento dell´"interesse generale". Certo, è ipocrita; ma è un´ipocrisia che mentre mostra che quel deputato è inaffidabile denota anche un fatto di grande valore: che l´opinione generale ritiene ancora che sia l´interesse generale a dover essere perseguito dai rappresentanti non quello privato o della propria fazione. Insieme alla doppiezza del deputato, l´ipocrisia rivela, se così si può dire, una certa solidità della cultura etica democratica. Il problema sorge quando non c´è più ipocrisia, quando il deputato non ha alcun ritegno a dire apertamente la ragione vera della sua elezione.
L´autocensura del "politically correct" presuppone una società nella quale il razzismo non è un´abitudine mentale della maggioranza. Ma una società nella quale ciascuno sa di poter apertamente essere razzista senza venir mal giudicato o redarguito (punito cioè con la disapprovazione pubblica) è a rischio di barbarie. L´Italia ha di fronte a sé questo rischio. Sarebbe sbagliato mettere la testa sotto la sabbia o rifiutare di vedere. E ancora più sbagliato scegliere la strada assolutoria. Prima che alla violenza, e proprio affinché questa venga scongiurata, è quindi al linguaggio che occorre prestare attenzione, perché esso è il veicolo primo e più potente del razzismo, proprio a causa della natura del linguaggio, un mezzo con il quale costruiamo l´oggetto di riferimento e il suo significato, una costruzione che è condivisa da altri e imitativa, non privata e personale.
Il linguaggio può essere usato per deumanizzare o onorare, per spogliare della dignità o per dare dignità. Per stimolare comportamenti violenti o comportamenti civili. Per questa ragione tutti coloro che svolgono servizi di responsabilità collettiva ? dai politici agli insegnanti ai giornalisti agli operatori dello spettacolo ? devono sentire tutta la gravità del loro ruolo: perché le loro parole circolano più estesamente e velocemente di quelle di tutti gli altri cittadini e perché essi creano modelli di comportamento. Il fatto gravissimo è che in Italia, sui giornali, in televisione e perfino in Parlamento, si fa a gara per tirar fuori la parola più razzista o l´espressione più volgare e intollerante. E il pubblico ride, senza rendersi conto che ridicolizza se stesso per l´insipienza con la quale questa sua noncuranza trascina la società in una spirale di disunione e violenza, con prezzi altissimi per tutti, anche per i razzisti.

l’Unità 25.9.08
Ottenuto l’asilo, diventi un fantasma
Cassibile, tra i profughi in balia dei caporali
di Domenico Valter Rizzo


Bisogna contare 500 passi sulle traversine di legno che tengono insieme i binari e camminare velocemente, attraverso un passaggio angusto, che vede la linea ferrata scorrere tra due pareti di roccia bianca. Se ti sorprende il treno non puoi scappare. Puoi solo appiattirti contro la recinzione, tenerti stretto fino a farti sanguinare le mani, e pregare che il convoglio non ti risucchi. Fino ad oggi è andata bene. Nessuno si è fatto male. Nessuno dei "fantasmi" che, ogni giorno, su questo corto passaggio si giocano la vita per fare le cose più semplici, come andare a riempire un bidone d’acqua in paese o cercare qualcosa che assomiglia ad un lavoro per sopravvivere.
I 500 passi si contano dalla piccola stazione di Cassibile. Per arrivare in un luogo che non è un luogo. Non è un accampamento, né una bidonville. È qualcosa che non ha nome, un nulla. Un agglomerato di brandine sgangherate, materassi, coperte arrotolate, lenzuola bianche che coprono i corpi. Una piana triste, che si estende su alcune centinaia di metri quadrati, tra olivi, ogliastri e carrubi. Al centro c’è un carrubo gigantesco con i rami che si piegano fino al terreno e delimitano un’area circolare. In questa sorta di tenda naturale c’è la cucina: alcune pietre a formare un circolo dentro il quale si accende un fuoco di legna. Un po’ più in là, tra le pentole lerce, le provviste: pasta, confezioni di formaggio, rese molli e unte dal caldo, latte a lunga conservazione, scatole di tonno. È l’unico posto dove il sole non batte, ma anche sotto il carrubo la temperatura supera i 30 gradi.
Sono 40 i ragazzi che vivono in questo posto assurdo. Giovanissimi, vengono dalla Somalia e fino a qualche settimana fa stavano nel centro di accoglienza di Cassibile. Un Centro pagato dallo Stato, attorno al quale ogni anno gira un fatturato di 3 milioni di euro.
Nessuno dei quaranta giovani africani è un clandestino. Tutti hanno in tasca un permesso di soggiorno per asilo politico. Con la concessione dell’asilo politico i ragazzi devono lasciare il Centro, ma senza che nessuno abbia dato loro la minima informazione, abbia spiegato cosa devono fare per ottenere quel che loro spetta. Pochissimi finiscono negli Sprar, i centri di seconda accoglienza, che hanno solo 2500 posti in tutta Italia contro le circa 7/8 mila richieste. La maggior parte viene accompagnata al cancello, se va bene con in tasca pochi euro o un biglietto per una città del centro nord. Da quel momento diventano fantasmi e vagano attorno al Centro.
«Non sapevo dove andare, nessuno mi ha detto nulla, così sono rimasto qui attorno - racconta Ahmed, 21 anni che in Somalia faceva il muratore ed è scappato dalla guerra civile, dopo aver visto ammazzare suo padre - Ho visto altri che andavano verso la ferrovia e li ho seguiti. Ora la situazione è molto buona, prima era peggio: dormivamo per terra, ora invece abbiamo brandine e materassi». Cosa aspetti? «Non lo so cosa aspetto… non aspetto niente».
Alla stazione di Cassibile arriviamo al mattino, insieme ad Antonio De Carlo, un volontario della parrocchia di Bosco Minniti a Siracusa che ha scoperto questo inferno e oggi, insieme agli altri volontari della comunità, si danna per dare un minimo di assistenza a chi vive in questo luogo folle. Cassibile è un villaggio polveroso: una doppia fila di case lungo due chilometri di strada. Qui si campa di agricoltura e ci crogiola nell’orgoglio di vivere sul luogo dove, il 3 settembre del ’43, alleati e italiani firmarono l’armistizio. Qui se parli di "Oro nero" non pensi al petrolio, pensi agli immigrati. Oro per chi gestisce i centri, oro per i piccoli padroncini e per i caporali di Cassibile che li sfruttano mentre la gente vorrebbe vederli sparire al tramonto, per vederli ricomparire, come macchine, solo all’alba quando si ricomincia a lavorare. La regola è semplice: si lavora di continuo, niente pause, si mangia un boccone in fretta e furia. Poi di nuovo al lavoro e guai a alzare la schiena, se lo fai la prima volta ti becchi una lavata di capo, alla seconda ti cacciano. Cinquanta euro al giorno, per lavorare da «sole a sole» come si usava con i braccianti siciliani. Quindici euro finiscono però nelle tasche dei caporali, in gran parte maghrebbini integrati o italiani. Una pattuglia di caporali stranieri alcune settimane fa è finita in una retata dei carabinieri.
Antonio De Carlo a Cassibile non può più venirci da solo. Deve avere un po’ di gente al seguito. Una scorta? «Macché scorta, io non amo le sceneggiate. Prendo solo le mie precauzioni. Se denunci il caporalato dai fastidio a molti, magari qualcuno pensa che è meglio convincerti ad occuparti dei fatti tuoi». A Siracusa nella Parrocchia di Bosco Minniti, diretta da padre Carlo D’Antoni, c’è una task force per garantire un minimo di assistenza ai richiedenti asilo, che non sanno nulla delle procedure. Le richieste - spiegano i volontari - raramente vengono fatte nei tempi previsti dalla legge perché quasi nessuno, fuori di qui, spiega a questi ragazzi cosa fare. Ma anche quando le richieste vengono fatte accadono fatti strani. Mohamed ha 22 anni, è lungo come una pertica e viene dalla Guinea. «Al mio paese ero un giocatore di basket, un pivot, ed ero bravo, molto bravo, poi mi hanno arrestato ed è finito tutto». È arrabbiato Mohamed, arrabbiatissimo. Alza la maglietta bianca e mostra i segni delle torture che gli hanno fatto in carcere gli aguzzini del regime. «Mi hanno arrestato con tutto il mio gruppo politico e mi hanno torturato per due giorni. Poi mi hanno fatto uscire e sono riuscito a scappare. Allora se la sono presa con la mia famiglia. I paramilitari sono andati a casa mia ed hanno ucciso mia madre. Bene, ho chiesto asilo politico in Italia e me lo hanno negato senza spiegazione. Eppure ho addosso i segni di quello che ho passato». Mohamed ha presentato ricorso, grazie ai legali della parrocchia di Bosco Minniti. «La sua storia è emblematica - dice Antonio De Carlo - La commissione a Siracusa ha un atteggiamento burocratico. C’è una sorta di esame preventivo. Se sei somalo, eritreo o etiope passano la pratica senza quasi guardarla, ci sono indicazioni superiori. Per gli altri è un calvario: interrogatori assurdi, rinvii continui, insomma un percorso ad ostacoli fatto di moduli, burocrazia, tempi strettissimi per ragazzi che quasi sempre non parlano una parola di italiano». Ne sa qualcosa Ahyuba che dopo tre mesi aspetta l’esito della sua domanda di asilo. Era un membro del Ufc, la forza di opposizione che nel Togo si batte contro Faure Gnassingbe e i militari. Lo hanno arrestato durante una manifestazione. «A me è toccata solo la prigione e le torture, mio fratello è morto (un particolare che nel verbale di interrogatorio della commissione non viene riportato). Sono riuscito a scappare. In Italia nessuno mi ha dato aiuto. Dopo l’uscita dal centro di Pian del Lago avevo solo un foglio di carta che mi diceva di aspettare la convocazione della commissione per l’asilo politico a Siracusa. Ma dove dovevo andare? Dove dovevo ricevere la convocazione? Io dormivo alla stazione, o nei parchi. Un inferno. Poi per fortuna ho saputo di questo centro e adesso ho qualche speranza». Uno dei paradossi della procedura è nelle comunicazioni. «Non si presentano - spiega De Carlo - perché non hanno un indirizzo dove gli può esser notificata la convocazione. Noi abbiamo creato un sistema che permette ai richiedenti asilo di eleggere come loro domicilio temporaneo la parrocchia. Ma per molti il problema resta». Eppure l’ostilità del quartiere è forte, la parrocchia è sotto assedio. «Lanci di pietre, uova, bottiglie. La gente del quartiere mostra fastidio per la presenza di questi ragazzi e si allontanano dalla parrocchia - dice don Carlo - Un fastidio che a volte si traduce in razzismo, grazie anche a una campagna dei media che crea un clima di paura. ome meravigliarsi se poi ci lanciano le pietre? Gli immigrati in Italia sono visti solo come schiavi da sfruttare».

l’Unità 25.9.08
Il Vaticano: sugli immigrati traditi i diritti umani
di Roberto Monteforte


Un nuovo naufragio di disperati è avvenuto nel canale di Sicilia. E mentre il mare attorno a Malta inizia a restituire i corpi senza vite di decine di immigrati, l’arcivescovo Agostino Marchetto, segretario del Pontificio consiglio dei Migranti, attacca il governo italiano e la sua politica sugli stranieri. Intervistato da Radio vaticana Marchetto boccia gli ultimi provvedimenti restrittivi sul riconoscimento e la revoca della qualifica di rifugiato e sul diritto al ricongiungimento familiare che fanno venir meno il rispetto dei diritti umani.

Duro monito del Vaticano: le pesanti norme sui ricongiungimenti vanno contro le norme internazionali

SUI DIRITTI UMANI degli immigrati il governo italiano gioca al ribasso». «Tradisce i diritti umani». Parole ferme e inequivocabili quelle pronunciate ieri dall’arcivescovo Agostino Marchetto segretario del Pontificio consiglio dei Migranti. Il Vaticano boccia senza appello i due decreti legislativi approvati martedì dal Consiglio dei Ministri su riconoscimento e revoca della qualifica di rifugiato e sul diritto al ricongiungimento familiare. L’ulteriore stretta contro l’immigrazione è considerata inaccettabile. Tanto più che insiste proprio su due punti delicatissimi per la Chiesa: il diritto d’asilo e i ricongiungimenti familiari che mettono in gioco il rispetto della dignità della persona. Siamo sul terreno dei diritti non disponibili. Così, come lunedì il presidente della Cei, cardinale Bagnasco, ieri la Santa Sede ha preso posizione con monsignor Marchetto.
«Si è sempre più lontani dagli impegni assunti in materia di diritti umani» ha affermato preoccupato dai microfoni di Radio Vaticana. L’Italia, storicamente terra di accoglienza, rischia ora di essere fanalino di coda in Europa proprio sul terreno della tutela della dignità della persona. Il segretario del pontificio Consiglio dei migranti, già contrario all’introduzione dell’aggravante di «clandestinità» ai reati penali, dal suo osservatorio rileva come in Europa sia in corso «una riflessione al fine di conseguire una politica comune in relazione ai richiedenti asilo e ai rifugiati». «Purtroppo la tendenza - osserva - è al ribasso rispetto agli impegni internazionali a suo tempo assunti in favore della protezione di persone perseguitate, e i cui diritti umani non sono stati rispettati». La critica è precisa. «Vi è una stretta sull'asilo e la giustificazione portata non regge anche dovendo ammettere che i flussi misti di richiedenti asilo e di migranti porta complicazioni per i governanti». Questo governo che parla tanto di difesa della famiglia poi, in concreto, si muove in direzione opposta. «Siamo sempre più lontani, e non solo nel tempo - commenta - dallo spirito della lettera di quei diritti umani che trovarono possibilità di essere espressi perché si proveniva forse dagli orrori di una guerra mondiale».
Non è solo la voce della Chiesa cattolica a farsi sentire. Dicono no alla linea Maroni anche i protestanti italiani. «Siamo fortemente preoccupati dalle norme che renderanno più difficile il ricongiungimento familiare, strumento indispensabile per la piena integrazione degli stranieri presenti in Italia» afferma Franca Di Lecce, direttore del Servizio rifugiati e migranti (SRM) della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Le misure adottate - insiste - confermano «una gestione del fenomeno migratorio che privilegia strumenti repressivi a scapito di politiche di integrazione e di ingresso legale». Al contrario, «soltanto politiche in grado di favorire la stabilizzazione dei migranti potranno prevenire la marginalizzazione, le tensioni sociali e i nuovi razzismi».
Fioccano i commenti alla presa di posizione vaticana. Cercano affannosamente di difendere le scelte dell’esecutivo gli «azzurri» Giovanardi e Lupi, mentre dall’opposizione Rosy Bindi, Livia Turco, Pierluigi Castagnetti e Giorgio Tonini invitano a prendere in seria considerazione le parole di monsignor Marchetto. Quello dell’emigrazione non è un problema di ordine pubblico, insistono, ma «da affrontare e governare con una riflessione pacata». «Dalla Chiesa - commentano - giunge un appello frutto di una visione lungimirante della questione immigrazione».

Corriere della Sera 25.9.08
False prove contro ucraina, condannati 4 vigili
di Luigi Ferrarella


MILANO — Prove fabbricate. Verbali falsati. Accuse inventate. Da agenti della polizia locale del Comune di Milano, autori di una calunnia ai danni di una ucraina fermata senza motivo, trattata male, insultata, multata per 5.000 euro e denunciata come commerciante abusiva nella piazza antistante la Stazione Centrale. Ma la cui storia, di donna venuta semplicemente ad accompagnare la zia in partenza, viene invece ora riscritta e risarcita (prima ancora che dai 34mila euro di danni morali che i vigili dovranno pagarle) dalle motivazioni della sentenza di Tribunale. Ventitré pagine che documentano come le 32 lattine di birra, asseritamente sequestrate dalla polizia municipale nella borsa della signora straniera il 16 marzo 2004 in piazza Luigi di Savoia, nel corso di uno dei pattugliamenti in borghese anticommercio abusivo, in quella borsa non fossero mai state, ma vi fossero state solo fatte figurare nelle false relazioni di servizio dei vigili urbani. Che poco prima avevano sì sequestrato lattine di birra in Stazione, ma «a ignoto datosi alla fuga».
Dopo aver fermato senza motivo la donna, averla dileggiata, insultata, schiaffeggiata facendole saltare gli occhiali dal viso e portata via in ufficio, secondo la ricostruzione dei giudici di primo grado è allo scopo di dare a posteriori una tardiva giustificazione a questi comportamenti che i vigili urbani stesero i falsi verbali, vi attestarono false circostanze (l'inesistente commercio abusivo, l'altrettanto inesistente resistenza a pubblico ufficiale) e attivarono contro la donna una sanzione amministrativa da 5.000 euro e un procedimento penale per queste ingiuste accuse. Denunce che soltanto ora, e soltanto grazie alla sentenza che recepisce l'indagine del pm Grazia Pradella, sono state annullate dai giudici della quarta sezione penale del Tribunale (Oscar Magi, Elisabetta Canevini, Manuela Cannavale) con la sentenza che ha condannato i quattro vigili a pene comprese fra i 3 anni e gli 8 mesi per i reati (a vario titolo) di calunnia, falso in atto pubblica, abuso d'ufficio, violenza privata e ingiurie.
Le motivazioni, depositate dal giudice estensore Cannavale, rimarcano «la doppia ingiustizia» patita dalla donna ucraina, in Italia con regolare permesso di soggiorno e sposata con un ingegnere italiano: «Da un lato l'ingiustizia del comportamento illegittimo» dei vigili «in difetto dei presupposti» e «con modalità scorrette e abusive»; e «dall'altro «l'ingiustizia dello «spavento» e della «sofferenza psichica » arrecati alla donna, trascinata («senza ragione e con le modalità accertate») prima al Comando e poi nell'angoscia di un possibile processo.
Il Comune di Milano nel dibattimento non si è costituito parte civile, nonostante quello che i giudici definiscono «il crollo del prestigio dell'Istituzione che queste condotte devianti possono comportare». Paradossalmente, peraltro, tra la signora ucraina e i vigili italiani, era lei l'incensurata: uno degli agenti era in servizio nonostante «un precedente per concussione», altri due erano già stati «sottoposti a una delicata indagine» poi archiviata ed erano stati «più volte segnalati da superiori e colleghi per comportamenti scorretti e/o illegittimi, sottoposti a procedimenti disciplinari, e trasferiti».

l’Unità 25.9.08
Tagli all’editoria
Manifesto e Liberazione in trincea: vogliono farci sparire
di Maria Zegarelli


«È una sorta di pulizia etnica dell’informazione» scrivono in via Bargoni
Polo: «Ho ricevuto la telefonata di Veltroni...»
Sansonetti vuol mettere in piedi un coordinamento tra i direttori dei giornali
politici.«Ci sono degli spazi per garantire i finanziamenti»

«Fateci uscire». Quel titolone e poi solo testo scritto, niente fotografia, una pagina intera, la prima, completamente dedicata all’ultimo assalto alla diligenza sferzato da Palazzo Chigi. Il Manifesto lancia un appello per difendere l’editoria cooperativa e politica a rischio estinzione per i tagli dei finanziamenti pubblici decisi dal governo. Il Manifesto, come Liberazione, come Europa e tanti altri «piccoli» che da anni cercano di sopravvivere tra i giganti editoriali. Giornalisti e poligrafici che rischiano il posto di lavoro, da un lato, l’informazione democratica che rischia un’amputazione, dall’altro. È questa la partita che si gioca. «Non sarà più lo Stato (con le sue leggi) a sostenere giornali, radio, tv che non hanno un padrone né scopi di lucro. Sarà il governo (con i suoi regolamenti) a elargire qualcosa, se qualcosa ci sarà al fondo del bilancio annuale)», scrive il quotidiano di via Bargoni, definendo quella in atto da parte del governo «una sorta di pulizia etnica dell’informazione».
Alle battaglie i giornalisti del Manifesto sono abituati, «37 anni di vita difficile ma libera», agli stipendi decurtati anche (un redattore guadagna 1200 euro di stipendio base, il direttore non a arriva a 1800), ma fino ad ora una cosa certa c’era: il finanziamento pubblico grazie al quale le banche aprivano crediti e il bilancio alla fine dell’anno si poteva chiudere. Valentino Parlato, uno dei fondatori del quotidiano, è davanti alla sua macchina da scrivere. «Non mi piacciono i computer, con i miei 77 anni me lo posso permettere». Una sigaretta tira l’altra, in questa sede che si, è carina ma niente a che a vedere con quella storica di via Tomacelli, scrive il suo editoriale di oggi. «Poco fa per telefono - il ticchettio dei tasti risuona nei corridoi - mi arrivano gli abbonamenti sostenitori (500 euro ciascuno) di Luigi Zanda e Anna Finocchiaro. Un grande incoraggiamento...». Stavolta, scrive, quello che accade «è qualcosa di molto più impegnativo e molto più pericoloso». Non c’è più la sinistra in parlamento, rischiano di sparire le voci libere dell’informazione. Gabriele Polo, il direttore, usa e il pc e legge le decine e decine di e-mail - e sottoscrizioni - arrivate durante il giorno. «Ho ricevuto la telefonata di Walter Veltroni che ha comunicato il suo impegno personale, ha detto che porterà anche questa battaglia in piazza il 25 ottobre». Entro la fine di ottobre uscirà un numero speciale, 50 euro a copia (nel 1997 costò 50mila lire), il 7 ottobre invece, iniziativa pubblica al Circolo degli artisti di Roma, con un dibattito e un concerto finale di sottoscrizione. Il regolamento che fissa i paletti per i finanziamenti «va cancellato», dice. È dalla legge «che il precedente governo in maniera colpevole non ha approvato che si deve ripartire». Ossia: finanziamenti pubblici alle cooperative vere e non fittizie; tetto minimo di redattori; controllo effettivo sul numero di copie vendute. «Questa non è una battaglia economica, ma politica».
Da via Bargoni in via del Policlinico, civico 131, bandiera rossa che sventola. Liberazione è l’altro piccolo di sinistra che rischia la vita. Piero Sansonetti, il direttore che poco piace al neo segretario di Rc Paolo Ferrero, sta lavorando a una sorta di coordinamento tra i direttori dei giornali politici: «Dobbiamo presentare emendamenti al regolamento. Ci sono degli spazi per garantire i finanziamenti. Va ristabilito il diritto soggettivo. Non riesco a credere che questo governo voglia davvero chiudere i giornali di sinistra». Sansonetti dal canto suo pone tre paletti: no alla retroattività del provvedimento; finanziamenti certi e non per decisione governativa; rimodulazione dei limiti stabiliti per accedere ai finanziamenti basati sul differenziale del 15% tra tiratura e copie vendute. Ma i redattori e il Cdr sanno che il problema è anche un altro: le intenzioni dell’editore unico, il Prc, finora silente. Annubi D’Avossa, del Cdr: «La società editrice deve dirci cosa intende fare a sostegno del giornale, della qualità del prodotto editoriale e dei posti di lavoro». Domani ci sarà un presidio pubblico a partire dalle 12 in redazione: lo stesso giorno il partito riunirà gli organi collegiali appena eletti e il punto all’ordine del giorno è proprio il futuro del quotidiano.

Il Riformista 25.9.08
A manifesto e Liberazione. Solidarietà con domanda


La prima pagina del manifesto di ieri non portava buone notizie. Il quotidiano comunista ha lanciato un nuovo grido d'allarme sullo stato di salute dei propri conti, aggravati dalla decisione del governo di tagliare pesantemente i contributi all'editoria (un problema ben noto anche al Riformista) e ha chiesto ai propri lettori una mobilitazione straordinaria per consentire al giornale, in edicola ormai da quasi quarant'anni, di superare anche questa crisi. Pure Liberazione, quotidiano di Rifondazione comunista, sta vivendo giorni difficili, tra ipotesi di ridimensionamento e trasformazione in settimanale, sebbene in questo caso non è chiaro quanto pesino i guai finanziari, che pure ci sono, e quanto il fatto che la redazione, direttore in testa, è dichiaratamente votata alla causa del leader sconfitto Nichi Vendola anziché a quella del segretario Paolo Ferrero e della sua eterogenea maggioranza.
Noi ci auguriamo sinceramente che si risolvano i problemi di entrambe le testate e solidarizziamo con loro. Ma saremmo ipocriti se non aggiungessimo anche che la battaglia per far sopravvivere due voci importanti del giornalismo italiano, così come altre diversamente orientate che potrebbero trovarsi in futuro in condizioni simili, non può limitarsi a una polemica sui fondi statali per l'editoria e sul significato "politico" del loro taglio da parte del governo. Sarebbe utile se la campagna per salvaguardare i denari di Stato all'editoria fosse accompagnata da una riflessione anche tutta interna all'informazione. Nel caso di manifesto e Liberazione una domanda s'impone. Se la battaglia sui contributi ha un senso è perché con essa si riconosce che nel campo dell'informazione non può essere il mercato il giudice supremo. E se così è, siamo sicuri che nella società italiana del 2008 ci sia posto per due «quotidiani comunisti»?

Corriere della Sera 25.9.08
Aumenti solo ai docenti di religione. Collega di diritto fa causa: risarcita
di Lorenzo Salvia


Un professore di religione in una media inferiore. Sono loro gli insegnanti più pagati. Durante il precariato lo stipendio aumenta del 2,5% ogni due anni.
Il tribunale di Roma ha sentenziato che si tratta di una differenza ingiustificata

ROMA — Un professore di religione guadagna più di un professore di italiano. E anche di uno di matematica, oppure di storia, di inglese, insomma di una delle qualsiasi materie obbligatorie nella scuola italiana. Lo dice la legge, anzi l'interpretazione della legge che per anni è arrivata dal ministero della Pubblica istruzione. Solo agli insegnanti di religione, durante il precariato, è riservato un aumento dello stipendio del 2,5 per cento ogni due anni. Non un patrimonio, certo. Ma dopo otto anni, rispetto ai loro colleghi di altre materie, guadagnano 130 euro netti al mese in più. Stesso lavoro, stipendio diverso: una differenza ingiustificata e dal «profilo di tutta evidenza discriminatorio» secondo una sentenza del tribunale di Roma che potrebbe aprire la strada ad un risarcimento danni di massa. E creare qualche problemino alle casse pubbliche che già di loro non sono messe benissimo.
A fare causa è stata Alessandra Rizzuto, insegnante di diritto con incarico annuale in una scuola superiore della Capitale. Il suo avvocato, Claudio Zaza, sosteneva il carattere discriminatorio proprio di quello scatto automatico previsto solo per i professori di religione. E il giudice del lavoro gli ha dato ragione, condannando il ministero della Pubblica istruzione a risarcire la professoressa con 2.611 euro e 36 centesimi, cifra calcolata sommando gli aumenti che avrebbe avuto insegnando religione. La condanna riguarda solo questo caso specifico ma a poter presentare un ricorso simile sono più di 200 mila: tutti i precari che hanno avuto almeno due incarichi annuali più quelli che sono passati di ruolo dal 2003 in poi, perché nelle cause di lavoro dopo cinque anni arriva la prescrizione.
La professoressa Rizzuto non è una testa calda che un bel giorno ha deciso di fare la guerra al ministero della Pubblica istruzione. La sua è una causa pilota promossa dai Radicali, e in particolare dal deputato Maurizio Turco e dal fiscalista Carlo Pontesilli, una coppia che da tempo va alla caccia dei «privilegi della Chiesa». Ed è proprio di «diritto per tutti trasformato in privilegio per pochi» che loro parlano.
L'aumento biennale del 2,5 per cento è stato introdotto con una legge del 1961 che in realtà riguardava tutti gli insegnanti precari, a prescindere dalla materia. Ma nel corso degli anni una serie di circolari ministeriali ha ristretto lo scatto automatico solo a quelli di religione. All'epoca una logica ci poteva anche essere. Fino a pochi anni fa gli insegnanti di religione erano precari a vita, non passavano mai di ruolo e ogni anno, oltre al nulla osta del vescovo, dovevano aspettare la chiamata del preside. Ma nel 2003, con legge ed apposito concorso, sono stati assunti a tempo indeterminato. E si sono portati dietro gli scatti accumulati, conservando il distacco in busta paga sugli altri colleghi.
Carlo Pontesilli, il fiscalista radicale, ha calcolato che se tutti quei 200 mila insegnanti facessero causa e vincessero, lo Stato dovrebbe tirar fuori 2 miliardi e mezzo di euro. Maurizio Turco, il deputato, se la ride: «Li invitiamo tutti a seguire questa strada. Vorrà dire che quei soldi li metteremo sul bilancio dei rapporti fra Stato e Chiesa».

Repubblica 25.9.08
Una scuola a pezzi
Quei ragazzi che non hanno futuro
di Michele Serra


Un mondo in cui ciascuno ha rinunciato a offrire e a prendere alcunché
Studenti somari e razzisti Professori presi da incombenze burocratiche

Se il discorso sulla scuola ha assunto, in Italia, toni aspri e quasi vocianti, è perché parlando di scuola si parla dei giovani e dunque si evoca il futuro, che è il più disturbante dei concetti in tempi di declino sociale come questo. E poi perché la parola scuola chiama in causa un "pacchetto di crisi" fin troppo denso: la crisi dell´autorità, quella della cultura come cardine della persona, quella degli adulti incerti depositari di ancora più incerte "regole".
In Francia ha avuto grande successo il romanzo di un giovane insegnante, François Bégaudeau, che ha ispirato il film vincitore della Palma d´oro a Cannes. Il titolo originale del libro era Entre les murs, dentro i muri, perfettamente indicativo dell´atmosfera claustrofobica che lo pervade. Il titolo italiano, meno severo, è La classe (Einaudi Stile libero, pagg. 228, euro 16), e sembra quasi voler riportare questo desolato best-seller in una letteratura "di genere", sulla scia fortunata del primo Starnone e dell´ultimo Pennac. Con eventuale ammicco a un sottogenere pop, quello del computo allegro degli svarioni studenteschi, tipo Io speriamo che me la cavo o il vecchio classico per ragazzi francese La fiera delle castronerie.
Ma attenzione: i circa vent´anni che separano la generazione di Starnone e Pennac (diciamo, per comodità, quella "sessantottina") da quella di Bégaudau sono un vero e proprio baratro.
La scuola raccontata da Starnone e Pennac è ancora un lascito, seppure residuo, dell´umanesimo. L´ironia amara, lo sguardo smagato su ragazzi e adulti lascia ancora intatta l´illusione di un passaggio di consegne, di un apprendistato, più ancora che alla cultura, alla civiltà e forse alla vita. Leggendo Bégaudeau, la sua stagnante, ossessionata trascrizione di un dialogo impossibile, ci si ritrova piuttosto immersi in una post-scuola, una scuola svuotata di sé nella quale ciascuno ha rinunciato a offrire o prendere alcunché, e insegnanti frustrati oppure inaciditi, e alunni maneschi e rincoglioniti dal consumismo, trascorrono un intero anno rimanendo fermi al punto di partenza, senza procedere di un passo verso quel percorso scolastico che, burocrazia a parte, è pur sempre la ragione di un anno di lavoro e di vita. Un anno: per un adolescente un´enormità, un tempo immenso di crescita e di occasioni, che nella scuola di Bégaudeau diventa però un tempo puntiforme, una spirale viziosa che lascia ciascuna delle due parti, ragazzi e professori, nella propria inerte impotenza.
La staticità del libro è prima di tutto stilistica. La povertà verbale è il frutto evidente di un accurato lavoro letterario, imitativo della supposta povertà della realtà scolastica e soprattutto del linguaggio dei liceali. Il battito delle frasi è quello di un rap, concetti mozzi e ripetuti, sguardi veloci sui marchi delle felpe come principale identità degli studenti, niente che sembri portare a qualcosa o allontanarsi da qualcos´altro. Il tutto contrappuntato dalle conversazioni vaghe e strascicate della sala professori, perse tra qualche incombenza burocratica e rivendicazioni "sindacali" striminzite sull´efficienza della macchinetta del caffè. Oppure ? in un rigurgito di "autorità" che è anche il massimo exploit dell´impotenza ? dalle delibere di espulsione che, a raffica, colpiscono gli studenti più insopportabili.
Il genere della Classe, dunque, non è tanto il "romanzo scolastico", quanto il no-future. La mancanza di movimento. La perdita di direzione. La sensazione di ultima spiaggia. Appesantita, per giunta, dall´onnipresenza (anche lei ossessiva) di una multiculturalità descritta come un ingovernabile equivoco, un ginepraio di pregiudizi e diffidenze che l´io narrante, il giovane prof Bégaudeau, affronta con una stizza inconsolabile (forse la stizza dei "politicamente corretti" sconfitti dall´evidenza), masticando come un fiele il nodo di una diversità babelica, inconciliabile, sorda ai richiami della tolleranza e della comprensione. Tanto che la pagina più potente e liberatoria del romanzo è un secco sfogo nel quale il professore dà del pezzo di merda, in massa, all´intero corpo studentesco, affogando dentro la sua rabbia anche le deboli tracce di umanità che è riuscito a scorgere nei singoli studenti, infine rinnegati anche dal docente, perfino dal docente, che li caccia volentieri nel girone infernale della Massa Amorfa, più interessata alle felpe e ai telefonini che alla propria decenza mentale.
Insomma: un libro terribilmente doloroso, di accurato pessimismo, con la patina di "divertente", evocata in copertina nell´edizione italiana, che si lacera dopo poche pagine. Resta da riflettere sul grande successo, in Francia, di un romanzo così implacabile, che non lascia spiragli, non concede alibi né agli adulti né ai ragazzi, i primi visti come neghittosi sorveglianti del nulla, i secondi come insorvegliabili somari, razzisti, ottusi, consumisti bulimici, potenziali violenti che stazionano "dentro i muri" come cavie in una gabbia, e senza neanche la discutibile soddisfazione di essere cavie di un esperimento. Perché un esperimento non c´è.
Se questa è davvero la scuola, in Francia e qui da noi, ovunque nell´Occidente spento di energie e debole di identità, viene da dire che hanno ragione i restauratori politici che, a furor di popolo, vogliono tornare ai vecchi metodi: al posto del ministro Gelmini, sorvolerei sulla natura letteraria del lavoro di Bégaudeau e inserirei il suo romanzo in ogni dossier ministeriale che voglia liquidare tutte le esperienze pedagogiche dell´ultimo mezzo secolo e riportare Legge e Ordine tra i banchi. A me, piuttosto, è venuta voglia, come antidoto, di rileggere Starnone e Pennac, oppure gli interventi di Marco Lodoli su questo giornale, nei quali la percezione del disastro sociale e scolastico non è certo attenuata, ma lo sguardo di chi lo osserva è ? non so come dirlo altrimenti ? umanamente partecipe. Dev´essere una questione di generazione, Régaudeau e il suo rap disperato sono probabilmente più sintonici con i tempi, e magari i ragazzi di oggi possono davvero leggere "divertendosi" un libro che li raffigura come ectoplasmi nevrastenici, come nullità ringhiose, e però lo fa con il ritmo giusto, riconoscibile, se posso dire: alla moda.
Ma se non si riesce più a trovare, o almeno a cercare il bandolo di un significato, di un destino, di un rapporto di emulazione e sfida tra adulti e ragazzi, allora hanno ragione i vecchi reazionari quando dicono "ci vorrebbe una bella guerra ogni tanto", a raddrizzare la gioventù, a selezionarla meglio di un sette in condotta o di una bocciatura. Ecco, "La classe" è un libro post-scolastico e pre-bellico: arrivato in fondo al viaggio, anzi al non-viaggio, un lettore disposto al paradosso pensa che l´anno prossimo quelle truppe di giovani felpate e smidollate, per ritrovare nerbo e disciplina, e magari dotarsi di un concetto di Patria che rimedi alle vaghezze del multiculturalismo, non dovrebbero più rientrare a scuola, ma in caserma. Dev´essere per questo che giovani ministri (poco più anziani di Bégaudeau) tendono a confondere scuola e caserma.

Corriere della Sera 25.9.08
Gli scienziati Sono riuniti da ieri a Venezia per discutere sulle ricette con le quali affrontare il più grande squilibrio mondiale
I numeri Sono almeno due miliardi le persone che, per problemi opposti, devono essere aiutate. La grande questione dell'acqua
Obesità e fame, malati di cibo
In aumento il numero delle persone denutrite In Occidente si muore per la dieta sbagliata
di Mario Pappagallo


Umanità malata di cibo. Dal troppo al troppo poco. Dalla mancanza per sopravvivere alle malattie da eccesso alimentare e diete sbagliate. L'ultima aggravante: l'aumento irragionevole dei prezzi al consumo. Più il cibo costa, più è difficile raggiungere l'obiettivo di dimezzare entro il 2015 il numero delle persone denutrite nel mondo, arrivato a 925 milioni in questo fine 2008 (erano 850 milioni un anno fa).
Un miliardo di malnutriti, per lo più abitanti nelle aree più povere del mondo. E oltre 300 milioni di adulti obesi e 750 milioni in sovrappeso, per lo più nelle zone ricche. Un terzo dell'umanità malato a causa del cibo. In più o in meno. E l'obesità è un problema sociale di rilevanza mondiale perché significa aumento del rischio di malattie croniche come diabete e patologie cardiovascolari. Non solo: dopo il fumo si attesta come il secondo rischio per la salute. Una realtà inquietante che accomuna tutti i Paesi occidentali: compresa l'Italia, patria della dieta mediterranea, dove l'obesità miete 52 mila vittime all'anno e in sovrappeso risultano un maschio adulto su due, una donna su tre e un bambino su tre. Ma comincia a colpire anche i ricchi dei Paesi emergenti: Est Europa, Cina, India.
La durata della vita delle popolazioni occidentali con il trascorrere degli ultimi due secoli è profondamente cambiata, con un incremento di tre mesi ogni anno negli ultimi 160 anni. La crescita dell'aspettativa di vita cammina di pari passo con l'aumento dell'altezza delle popolazioni, ad indicare un comune denominatore tra questi due cambiamenti: la quantità di cibo disponibile nei Paesi occidentali che è enormemente maggiore rispetto al passato. Infezioni e carestie hanno lasciato il passo a diabete, obesità e malattie cardiovascolari. In altre parole, sebbene si tragga vantaggio dall'abbondanza di cibo, non si è ancora capaci di ottimizzare il potenziale di aspettativa di vita. L'organismo si è adattato nel corso di milioni di anni a sopravvivere da cacciatore, quindi in movimento e con poche risorse alimentari. Cosa ben diversa dallo stile di vita dei Paesi occidentali. Del resto è stato ampiamente dimostrato che una dieta fortemente ipocalorica (al di sotto delle 2.000 calorie al giorno) riporta nella norma valori di pressione arteriosa, colesterolo ecc. Ma si tratta di una dieta troppo rigida, alla quale i ricchi non sono più abituati.
Per riequilibrare la salute di tutto il pianeta, oltre al diffondere la dieta mediterranea ovunque, occorre abbattere il consumo di carne: i Paesi industrializzati ne consumano oltre due etti in media al giorno, ma per stare bene e vivere a lungo ne basterebbero 80 grammi.
Altro tema incalzante: il cuore. Per proteggerlo, omega 3, dieta ricca in antiossidanti (cibi rossi, frutta e verdura, aglio e peperoncino) che proteggono pure dai tumori. Ma anche usare meno sale in cucina: 3 grammi in meno di sale ogni giorno e si riduce del 20% la probabilità di andare incontro a un ictus e del 15% la probabilità di infarto (è la campagna dell'associazione lotta alla trombosi per la Giornata mondiale del cuore del prossimo 28 settembre). L'Organizzazione mondiale della Sanità raccomanda di non superare i 5 grammi di sale al giorno, che equivale a un cucchiaino da tè, tutto incluso: acqua della pasta, insalata, salse, sale nei cibi conservati o in scatola. Infarto e ictus insieme uccidono ogni anno 17 milioni e mezzo di persone nel mondo: «Lo stesso numero di vittime fatto da Aids, malaria, tubercolosi, diabete, cancro e malattie respiratorie croniche tutte insieme», avverte Lidia Rota Vender, presidente Alt. In Europa 2 milioni di cittadini perdono la vita ogni anno per queste malattie: non solo è una strage, ma costa all'Unione Europea 192 miliardi di euro l'anno. Nel 2025 un adulto su tre avrà la pressione del sangue troppo alta: significa un miliardo e mezzo di persone. Un adulto su due sarà obeso o in sovrappeso. E all'obesità si associa il diabete. I ministri della sanità dell'Unione europea puntano sugli stili di vita. «La prevenzione partirà dai giovani», dice il sottosegretario al Welfare Ferruccio Fazio. Obiettivo: meno malattie, risorse ridistribuite sul pianeta.
La Commissione Europea sta lavorando da tempo a un libro bianco, documento strategico sulla nutrizione, il sovrappeso e l'obesità in Europa. Sul tappeto anche l'inattività fisica sempre più diffusa: società stressate dal lavoro, ma inattive e malnutrite (o troppo o troppo velocemente). Una delle conseguenze è la carenza assoluta di vitamine, proteine e grassi. Per fame o, e queste sono patologie da ricchi, anoressia. O per cattive abitudini alimentari. L'alimentazione di fine millennio, prevalentemente di tipo industriale, infatti ha carenza di enzimi e vitamine, la moda americana degli hamburger caldi con patatine sta impoverendo la dieta dei giovani.
In realtà una corretta alimentazione dovrebbe essere la più varia possibile. Come affermava Ippocrate, padre della medicina moderna: «Mangiate tutto e un po' di tutto». Ma soprattutto meno carne. E' una delle proposte degli scienziati riuniti a Venezia dalle Fondazioni Veronesi, Cini e Tronchetti Provera, che provano a coniugare, senza disegnare scenari apocalittici, una maggiore educazione alimentare nei Paesi spreconi con maggiori risorse in quelli poveri. Due gli obiettivi: ridurre le malattie da errori e da opulenza a tavola, dare più proteine vegetali ai poveri invece di darle agli allevamenti di animali da macello.

Corriere della Sera 25.9.08
Il conflitto tra ordine e sovversione nel mondo classico: un convegno della Fondazione Canussio. Il passato (e il futuro) della democrazia
Roma antica, il mito del «sistema perfetto»
Lo storico greco Polibio esaltò la «costituzione mista», ma fu smentito dalla crisi dei Gracchi
di Luciano Canfora


«Democrazia » torna ad essere una parola problematica e di combattimento, come nelle sue origini ateniesi quando era per lo più usata come disvalore da parte dei suoi implacabili critici. Non solo: si torna liberamente a criticarla proprio negli ambienti che l'avevano brandita come bandiera da guerra fredda. Si torna a chiedersi quali siano i necessari correttivi (l'orribile neologismo «governabilità » è spesso adoperato a questo proposito), quali siano i limiti tollerabili, quale il contrasto di fondo con il criterio della competenza (è l'antica obiezione dei pensatori ateniesi); per non parlare dell'invito ad una presa d'atto dell'inevitabilità del principio oligarchico al di sotto della corteccia democratica. È qui la radice della riscoperta anglosassone del sistema «misto» e della romana costituzione mista, come la intese Polibio: si pensi agli studi di Neil MacCormick.
Parallelamente torna a vigoreggiare, tra i nostri studiosi del mondo romano, la tendenza a definire democrazia l'ordinamento costituzionale romano, o per lo meno la sua prassi tardo-repubblicana: ordinamento che invece a Polibio (libro VI) e al suo emulo-interprete Machiavelli ( Discorsi sulla prima deca di Tito Livio) parve l'esempio perfetto di costituzione mista. La discussione non è nuova se solo si pensa alla diverse posizioni sostenute in proposito da due grandi romanisti quali Francesco De Martino e Antonio Guarino. Ma ora, significativamente, la visione di Roma repubblicana come democrazia viene rilanciata da uno storico di spicco quale Fergus Millar ( The Crowd in Rome in the Late Republic)
proprio negli Stati Uniti d'America — e l'accoglienza è stata entusiasta, «Historians Give Romans Better Marks in Democracy», titolò il New York Times (23 luglio 1999). E questo si spiega nella realtà, quella americana, dove la trasformazione del meccanismo democratico in costituzione mista è più avanzato e consolidato.
Oltre mezzo secolo fa Kurt von Fritz, uno dei maggiori storici del pensiero antico, passato dalla Germania agli Usa già negli anni Trenta, scrisse un imponente trattato The Theory of the Mixed Constitution in Antiquity: a Critical Analysis of Polybius' Political Ideas (Columbia University Press, 1951) partendo dal presupposto non erroneo secondo cui «nessuna parte della teoria politica antica ha avuto maggior influenza sulla moderna politica (né solo sulla prassi) che la teoria della mixed constitution ». Essa ha avuto in Polibio, greco trapiantato a Roma come ostaggio di guerra e ben presto conquistato alla totale ammirazione del «modello» romano, il suo più convinto assertore.
Una tale costituzione parve a Polibio il vero fondamento della solidità e della durevolezza di Roma. Egli riteneva che ciò fosse apparso chiaro in special modo nel momento del massimo tracollo, al tempo della disfatta di Canne. Roma aveva dimostrato appunto in quella circostanza il massimo di capacità di resistenza, e ciò — secondo Polibio — appunto grazie al suo ordinamento. È questa la ragione per cui il libro dedicato alla costituzione romana, il VI, trova posto, nell'economia generale dell'opera, come prosecuzione del racconto relativo a Roma dopo la celebre e sfortunata battaglia.
Il libro VI però non incomincia in medias res con la descrizione dell'ordinamento politico romano. A tale descrizione si giunge dopo un'ampia premessa: dopo uno svolgimento, che occupa la prima parte del libro, rivolto a classificare i vari generi di costituzioni e a svelare il meccanismo del loro incrinarsi e trasmutarsi in altri e diversi ordinamenti. Per quel che riguarda la classificazione delle costituzioni, Polibio ha ben presente l'impianto platonico e aristotelico, che «raddoppia», per così dire, le forme politiche con la distinzione tra forme «pure» e forme «degenerate » (monarchia/tirannide; aristocrazia/ oligarchia; democrazia/oclocrazia). È una distinzione caratteristica del pensiero antidemocratico. Si può dire, schematizzando, che la più plausibile risposta al quesito intorno alle fonti della teoria polibiana del ciclo costituzionale sia che si tratta in sostanza dell'VIII libro della Repubblica platonica (Platone è l'unico autore che Polibio cita in questo contesto) ma letto alla maniera in cui lo leggeva (irrigidendolo) Aristotele. Polibio ha, sulla scia di Aristotele, assunto la successione tracciata da Platone come un itinerario storico-genetico.
Merito di Platone è considerata l'introduzione dei «doppi», delle forme «degenerate» accanto a quelle pure. Ed è certo lì l'origine della teoria del mutamento. Senza la nozione tipicamente dinamica di «degenerazione» non vi sarebbe altro che la immobile paratassi delle tre forme tradizionali (alla maniera, per fare qualche esempio, del preambolo della Ciropedia di Senofonte o del pretenzioso esordio del Contro Ctesifonte
di Eschine). Non a caso la spinta verso il mutamento viene dalla pleonexía, dal «comportamento prevaricatore» del gruppo dominante, mentre la reazione a tale degenerazione dà vita a nuove forme politiche. È qui il nesso tra degenerazione e movimento. Ma la radice più remota di una tale riflessione — i cui elementi costitutivi sono lo sdoppiamento delle forme, la nozione di degenerazione ed il ciclo — è da cercarsi ancora più indietro: è nel dibattito costituzionale erodoteo (III, 80-82), la cui fonte d'ispirazione è nella riflessione politica della sofistica (per esempio le Antilogie di Protagora).
Il compendio polibiano ha avuto notevole fortuna. Ma tale fortuna è dipesa non tanto dalla originalità (invero scarsa) della riflessione teorica, quanto dal fatto che ad essa si collega una innovativa interpretazione dell'ordinamento politico romano. Polibio è fiero di tale novità. Del durevole prestigio che questo piccolo manuale costituzionale, incorporato da Polibio nella sua opera, ha goduto agli albori del pensiero politico moderno è segno chiaro la parafrasi, e talvolta letterale ripresa, che ne fa Machiavelli nel I libro dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1513-1519), intitolato appunto Di quante spezie sono le repubbliche e di quale fu la repubblica romana.
Ai moderni questa classificazione non basta più. La contestazione alla radice del modello classico delle sei forme costituzionali (tre pure e tre degenerate) verrà un secolo dopo, da Thomas Hobbes. Quella distinzione suscita il suo sarcasmo e viene da lui fatta risalire appunto agli «scrittori greci e romani» e ai loro moderni seguaci: «Non ci si convincerà facilmente — scrive nel De Cive (VII, 3) — che il regno e la tirannide non sono specie diverse di Stato (…) In cosa differisca il re dal tiranno va ricercato con la ragione, non con la passione. In primo luogo, non differiscono nel fatto che il secondo abbia maggiore potere del primo, perché non si può dare potere maggiore di quello supremo. Neppure differiscono perché la potenza dell'uno è limitata e quella dell'altro no. Chi ha una potenza limitata non è re, ma suddito di chi gli pone limiti. Inoltre non differiscono per il modo in cui hanno conquistato il potere. Infatti, se in uno Stato democratico o aristocratico un cittadino si impadronisce con la forza del potere supremo, qualora ottenga il consenso dei cittadini, diviene monarca legittimo; altrimenti è un nemico, non un tiranno. Differiscono quindi solo per l'esercizio del potere: è re chi governa rettamente, tiranno chi governa in altro modo. La questione dunque si riduce a questo, che se i cittadini pensano che un re legittimamente innalzato al potere supremo esercita bene il suo potere, lo chiamano re; altrimenti tiranno. Perciò regno e tirannide non sono forme diverse di Stato; bensì allo stesso monarca viene dato il nome di re in segno di onore, e di tiranno in segno di disprezzo. Quello che si trova scritto nei libri contro i tiranni, trae origine dagli scrittori greci e romani, che erano governati in parte dal popolo e in parte dagli ottimati, e quindi odiavano non solo i tiranni ma anche i re». Aspro, ma decisivo.
Era bastata la crisi graccana a far saltare la «macchina perfetta» che aveva sedotto Polibio, persuaso di aver trovato a Roma la soluzione degli inesausti conflitti politici che avevano dilaniato le città greche.
Qui sopra: Niccolò Machiavelli, autore del «Principe». Nella foto in alto: Cicerone mette sotto accusa Catilina (affresco di Cesare Maccari al Senato)

Corriere della Sera 25.9.08
Psicoanalisi in TV
«In Treatment» lezione di semplicità
di Aldo Grasso


C'è ben poco da dire. Di fronte a opere come In Treatment si resta a bocca aperta, vinti dalla raffinatezza, dall'eleganza, dalla profondità dell'operazione. Una grande lezione di semplicità, di recitazione, di scrittura, forse la punta più alta di «teatralità» (due attori, una camera, un dialogo...) vista in tv. Nemmeno Woody Allen ha fatto così tanto per riabilitare una pratica non più alla moda come la psicoanalisi. Prodotta dalla Hbo (ah, se la fiction Rai andasse un po' a scuola dalla Hbo!), diretta e riadattata da Rodrigo Garcia (figlio di Gabriel Garcia Márquez),
In Treatment è tratta dalla serie israeliana Be Tipul. Che in patria è stato un vero e proprio caso mediatico, osannato dai giornali, indicato come esempio da seguire per quelle tv che devono puntare tutto sulla qualità, non avendo grandi mercati a disposizione. La Hbo ha creduto in questo format e dopo 5 episodi «sperimentali» ha dato il via libera agli altri 38 che costituiscono la prima stagione (Cult, dal lunedì al venerdì, ore 20,30). Lo psicoterapeuta Paul Weston (Gabriel Byrne) è in apparenza un uomo tranquillo ma cova non pochi focolai sotto la cenere dell'etica professionale e dei problemi privati. Paul incontra i suoi pazienti un giorno a settimana, mentre il quinto giorno, il venerdì, è lui stesso a confrontarsi con la propria terapista, Gina Toll (Dianne Wiest). Gina è stata il supervisore di Paul, ma un litigio ha interrotto bruscamente i loro rapporti. Sebbene in pensione, accetta di riceverlo un giorno a settimana ma durante le sedute i vecchi rancori non tardano a emergere.
Attraverso il dialogo con i pazienti, si aprono mondi sconosciuti, inferni, smarrimenti, l'abisso della psiche. Anzi, l'idea di fondo è che, attraverso la parola, si procede di smarrimento in smarrimento, di ansia in ansia. Dalla vita, ci pare di ottenere quasi tutto, salvo ciò che speriamo in segreto. E all'analista si chiede proprio di scoprire questo segreto.

l’Unità 25.9.08
Berlino, i capolavori rubati agli ebrei
di Laura Lucchini


L’immagine in bianco e nero di enormi scaffali stracolmi di libri, quadri e oggetti di ogni tipo accoglie in questi giorni visitatori del Museo Ebraico di Berlino. Si tratta di una foto scattata nel 1948 dall’esercito statunitense in uno dei collecting point, i punti di raccolta creati da Hitler per immagazzinare e poi vendere o regalare opere d’arte e oggetti sottratti agli ebrei a partire dal 1935. La fotografia è stata scelta come manifesto di Raub und Restitution, «Saccheggio e Restituzione», una mostra ambiziosa che cerca di entrare a fondo nell’ancora attualissimo problema della restituzione di opere d’arte saccheggiate durante il nazismo.
L’esposizione ripercorre attraverso immagini e documenti il pellegrinaggio di quadri, porcellane e mobili, appartenuti un tempo alla famiglia Rotschild, a Sigmund Nauheim o alla pianista Wanda Landovsky che in alcune occasioni terminarono nelle mani di gerarchi nazisti come Alfred Rosenberg, Herman Goering e dello stesso Adolf Hitler.
In occasione della presentazione della mostra, lo scorso giovedì, il direttore del Museo Michael Blumenthal ha condannato gli alti funzionari nazisti: «Tra tutti facevano a gara per vedere chi rubava di più e si arricchiva più rapidamente». Allo stesso modo ha rimarcato la responsabilità di collezionisti d’arte tedeschi, commercianti e musei per aver approfittato per anni di un mercato in cui i beni confiscati agli ebrei venivano venduti a basso costo.
Sopprimere l’arte degenerata, bandire i libri che potevano minacciare l’ideologia nazista, rimpatriare le opere d’arte tedesche partite dalla Germania dopo il 1500... Questi e altri pretesti furono usati dal nazismo per attuare una confisca sistematica e senza precedenti di beni artistici e culturali. Secondo le istituzioni ebraiche che si occupano delle restituzioni furono seicentocinquantamila le opere sottratte da Hitler in tutta Europa. Ad oggi, sono moltissime le cause ancora in atto.
La mostra è stata allestita come se fosse all’interno di uno dei magazzini creati da Hitler: quadri, oggetti e documenti sono disposti su grandi casse di legno che definiscono il percorso. Tutte le opere presentate in questo percorso sono già state restituite. Ricostruire il viaggio di questi oggetti è diventato più semplice dopo la caduta del Muro di Berlino e l’apertura degli Archivi dell’Europa dell’Est. Di grande aiuto fu anche l’«Accordo di Washington», firmato nel 1998 da quarantaquattro paesi che stabilisce alcune direttive su come trattare con le opere confiscate da nazismo.
L’esempio più celebre dei saccheggi nazisti è un quadro del pittore austriaco Ernst Ludwig Kirchner Berlino, scena di strada (1914) che fu restituita al suo proprietario originale nel 2006, e subito rivenduta l’anno successivo per 38,1 milioni di dollari.
La maggior parte dei tedeschi, incluso il ministro dei Beni Culturali, Bernd Neumann, sono favoirevoli ad analizzare le collezioni per rispondere alle richieste di restituzione. «Più di sessanta anni dopo la fine della guerra, in Germania manca un controllo nell’ambito della responsabilità morale della restituzione di opere sottratte durante il nazismo», ha detto Neumann.
Il caso dell’opera di Kirchner ha aperto un vaso di Pandora, e molti esperti hanno manifestato scetticismo di fronte all’impossibilità di verificare la maggior parte dei reclami. Allo stesso tempo la comunità ebraica accusa i musei per non aver compiuto indagini adeguate sui contenuti delle proprie collezioni.
La mostra resterà aperta al pubblico fino al 25 gennaio 2009.

l’Unità 25.9.08
«Saccheggio e restituzione» è il titolo di una mostra allestita al Museo Ebraico berlinese che documenta, con foto d’epoca e opere, il viaggio di quadri, porcellane e mobili, appartenuti a famiglie ebree, saccheggiati dai nazisti
Un capitolo doloroso e irrisolto del dopoguerra
di Stefano Miliani


L’arte trafugata agli ebrei dai nazisti o da mercanti complici, cioè rubata oppure «comprata» a prezzi ridicoli per salvacondotti che spesso non esistevano, è uno dei capitoli più dolorosi e a tutt’oggi meno risolti dal dopoguerra e carichi di misteri. Tra gli ultimi casi clamorosi venuti alla luce (ma bisognerebbe parlare anche di libri e gioielli antichi, e di dipinti di famiglia») e che rende l’idea del groviglio storico (e delle umane sofferenze coinvolte) c’è un fondamentale Cupido e Venere dipinto dal tedesco Lucas Cranach nel 1530 ora alla National Gallery di Londra. Stando a un’indagine sulla collezione di Hitler condotta dalla storica dell'arte Birgit Schwartz, il quadro fu regalato al dittatore per il suo 50esimo compleanno dal comandante generale della Turingia Fritz Saucker. Il museo lo acquistò in buona fede negli anni 60 da un mercante newyorkese, il quale però aveva mentito sul modo in cui lui era entrato in possesso del dipinto. È possibile che il Cranach fosse appartenuto a una famiglia ebrea e, se fosse provato, la National Gallery si è detta disposta a restituirlo. Perché esiste questa concreta possibilità? Perché Hitler, tra gli anni 30 al ‘45, voleva fare della sua natia Linz, in Austria, la capitale artistica del Terzo Reich creando un museo con capolavori da tutta Europa per lo più confiscati agli ebrei (in vista della «soluzione finale» peraltro). Le razzie acquistarono particolare vigore dal 1938. Il problema delle restituzioni tanti anni dopo è aperto e difficile. Esiste comunque un sito internet che è di riferimento per tutto il mondo: www.lootedart.com («arte saccheggiata»). Oggi far finta che la questione non esista è impossibile.

mercoledì 24 settembre 2008

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“PERCHE’ QUELLA DEI GIUDICI DI MILANO E’ UN’OTTIMA SENTENZA”

Condividiamo pienamente la decisione dei giudici della Corte d’Appello di Milano sul caso Englaro, decisione che costituisce un ulteriore passo verso l’allargamento dell’autodeterminazione delle persone essenziale per la modernizzazione del paese in campo biomedico.
L’idea alla base della decisione dei giudici è l’applicazione del principio dell’eguaglianza di tutti i cittadini sancito dalla Costituzione anche nella finalità “di rendere possibile la libera espressione della loro personalità, della loro dignità e dei loro valori”. Poiché come osserva sempre la Corte “la prosecuzione della vita non può essere imposta a nessun malato, mediante trattamenti artificiali, quando il malato stesso liberamente decida di rifiutarli”, il principio di eguaglianza va esteso anche a Eluana che ora non può più esprimere la propria volontà.
La sentenza di Milano non pretende di risolvere tutti i problemi del vegetativo permanente né di sostituirsi ad eventuali leggi, ma risponde come è giusto che sia al caso specifico di Eluana Englaro. E’ forse bene ricordare che la famiglia ha fatto di tutto per cercare il risveglio di Eluana rivolgendosi ai migliori centri: tutto è stato vano. Nonostante ripetuti e straordinari sforzi durati anni, la situazione di Eluana è sempre stata stabile e senza variazioni: è pertanto certa la irreversibilità del suo stato.
Eluana aveva un forte senso della libertà e della propria dignità, non avrebbe mai accettato di rimanere nello stato di vegetativo permanente. Infatti, esistono numerose prove testimoniali delle ripetute affermazioni di Eluana –prima dell’incidente- di non voler rimanere nello stato vegetativo permanente. Queste due condizioni giustificano ampiamente la decisione presa dalla Corte d’Appello di Milano.
Le sue volontà sono quindi acclarate ed indubitabili: sono quindi obiezioni da Azzeccagarbugli quelle che si nascondono dietro la mancanza di una firma su un documento.
Ci preoccupa invece il commento di Monsignor Fisichella, tutto centrato su aspetti giuridici: che il Presidente di una Accademia di uno stato estero discetti con piglio normativo sulla legislazione italiana criticando i giudici e soprattutto dia consigli su strategie legali ci pare andare al di là del legittimo intervento su questioni morali che è proprio della Chiesa. Questo sul piano formale. Sul piano sostanziale è trito il rifermento all’eutanasia come altrettanto trito è il richiamo all’idea che questa sentenza scardini il principio di non disponibilità della vita umana o il dovere di prendersi cura dei pazienti: si tratta di forme che ripropongono un obsoleto vitalismo in cui la mera vita biologica sarebbe il valore supremo.
Né vale la critica – avanzata da Giuliano Ferrara e dal Cardinale Bagnasco- che attuare la sentenza condurrebbe Eluana alla morte per fame e per sete. Questo argomento usa le parole non per descrivere e trasmettere idee ma per evocare istinti e sentimenti profondi. Infatti, Eluana non mangia e non beve dal giorno dell’incidente. Eluana assume una terapia nutrizionale senza gusto né sapore; ecco perché è lecito sospendere quella terapia del tutto analoga alla terapia ventilatoria, lasciando che Eluana muoia secondo la sua volontà.
I giudici di Milano pertanto non hanno invaso un campo non loro ma hanno interpretato la legge recependo istanze emergenti dalla coscienza civile degli italiani che è secolarizzata. La gente vive ormai in base ai valori laici e secolari che purtroppo non trovano adeguata rappresentanza sul piano pubblico. Speriamo che chi ha responsabilità pubbliche dia voce ai valori secolari e faccia valere i diritti civili di tutti. Ci auguriamo, quindi, che i politici italiani di destra e di sinistra manifestino coraggio nel portare avanti la battaglia per la laicità, conformando i comportamenti alle idee.

Emilio D’Orazio Direttore del Centro Studi Politeia
Maurizio Mori Presidente della Consulta di Bioetica
l’Unità 24.9.08
L’ultimo addio: Una folla in lacrime per Abdul


Parenti, amici, politici, semplici cittadini. Erano in centinaia, ieri, per dare l’ultimo saluto ad Abdul “Abba” Guibre, nell’Auditorium della scuola media Aldo Moro a Cernusco sul Naviglio, il paese in cui Abdul abitava assieme alla famiglia.
Hanno sfilato in lacrime davanti alla bara, che aveva attorno tante foto di Abba, lasciando una firma sul libro della memoria e provando a dare un gesto o una parola di conforto ai genitori, distrutti dal dolore. Poi il silenzio, lungo e surreale, mentre la bara veniva caricata sul carro funebre, diretto all'aeroporto di Malpensa, per raggiungere il Burkina Faso, il paese d’origine di Abdul, dove verrà seppellito.
Lo scrittore senegalese, ma da decenni residente in Italia, Pap Chouma, ha detto di aver preso parte alla commemorazione «in quanto padre e per parlare delle responsabilità dei politici, incapaci di trovare soluzioni. Loro indicano nell'immigrato il nemico e la gente comune cerca di sfogarsi sul più debole. In un quarto di secolo non mi sono mai incazzato così tanto».
Filippo Penati, presidente della provincia, ha ricordato come «questo episodio debba costituire un inizio di riflessione su modi in cui questa città impaurita possa adoperarsi per accogliere chi viene qui a lavorare. È doveroso essere vicino ai familiari di Abdul perché questa è una morte che non ha ragione di esistere e da tutti deve venire una condanna alla giustizia fai da te».

l’Unità 24.9.08
Laura Boldrini. Portavoce per l’Italia dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati: il dna non è una novità assoluta
«Ma il rischio peggiore è il reato di clandestinità»
di Andrea Carugati


«Non positivi». Questo il giudizio di Laura Boldrini, portavoce per l’Italia dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, sui decreti del governo che rendono più difficili i ricongiungimenti familiari per gli immigrati. E tuttavia, spiega, «rispetto alla prima versione del decreto sull’asilo c’è stato un miglioramento, anche grazie alla battaglia che abbiamo condotto».
Quale miglioramento?
«Nel decreto vengono alzati i tetti di reddito per il ricongiungimento, e questo è negativo, ma da questa stretta vengono esclusi i rifugiati e i beneficiari di protezione sussidiaria, cioè gli immigrati che fuggono da situazioni di guerra e violenza diffusa. Questa nostra proposta è stata accolta ed è un fatto positivo. Un altro è che ora, in caso di diniego alla richiesta di asilo, l’immigrato non potrà essere espulso prima della scadenza dei termini per fare ricorso ed è ripristinata la possibilità di fare istanza al giudice per chiedere che il ricorso sospenda il provvedimento di allontanamento».
L’aspetto più negativo dei decreti?
«Fino ad oggi chi faceva richiesta di asilo dopo aver subito un provvedimento di espulsione poteva uscire dal Cpt, con i decreti dovrà rimanere trattenuto nel Cpt fino a quando non avrà avuto riposta alla sua domanda».
Come valuta l’introduzione del test del dna per ricostruire i legami di parentela?
«È una misura da applicare solo quando vi siano seri dubbi sui legami di parentela, e può essere anche a tutela del minore, visto che è successo che sedicenti genitori utilizzassero il ricongiungimento per far entrare in Italia dei minori con altri scopi. Non è una novità assoluta, è già successo che i tribunali richiedessero l’esame del dna. La cosa fondamentale è che, in attesa degli esiti dell’esame, i minori non siano separati dal nucleo familiare e che questo strumento non venga utilizzato in modo sistematico».
E il fatto che il test sia a carico degli immigrati?
«Potrebbe essere un problema, visti i costi elevati dell’esame. In passato per i richiedenti asilo ci sono state associazioni che si sono fatte carico dei costi».
Ritiene che, come ha detto il ministro Maroni, ci siano rischi di abuso dello strumento della richiesta di asilo?
«Non mi pare. Da gennaio ad agosto 2008 il 50% di chi ha fatto domanda ha ottenuto una qualche forma di protezione: l’8% lo status di rifugiato, il 30% la protezione sussidiaria e il 12% un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Nel 2007 la percentuale era oltre il 55%. Si tratta quindi di persone che hanno un bisogno effettivo di protezione. E questa percentuale aumenta sensibilmente per chi arriva con le carrette del mare: il 65% di chi è arrivato via mare nel 2007 ha ottenuto una forma di protezione. E solo il 10% degli irregolari arriva via mare».
Vede il rischio di un peggioramento del clima per chi chiede asilo in Italia?
«Il rischio peggiore è nel reato di clandestinità su cui il Parlamento dovrà pronunciarsi. Deve essere assolutamente escluso chi fa richiesta di asilo, come prevede l’articolo 31 della Convenzione di Ginevra, Altrimenti si rischia una criminalizzazione del diritto di asilo».

l’Unità 24.9.08
Famiglia cristiana accusa: «Paese verso la semidemocrazia»


ROMA «Italiani brava gente, si diceva una volta», ma di fronte agli ultimi episodi di intolleranza, secondo Famiglia cristiana, sembra che l’Italia stia «cambiando pelle». «Oggi - commenta Famiglia cristiana - a leggere certi recenti episodi di cronaca, sembra di essere diventati il Paese dell’intolleranza. Una intolleranza che non è di matrice razzista, ma che può diventarlo».
Ma il settimanale affronta anche un altro tema scottante. Neppure alle europee «potremo sceglierci i rappresentanti con lo strumento delle preferenze» perché Berlusconi, ricorda Famiglia Cristiana, ha deciso di servire la «porcata numero due» (come la chiamò il suo creatore, il leghista Calderoli), ovvero - scrive la rivista dei paolini nell’editoriale del prossimo numero - una copia delle disposizioni più antidemocratiche della legge elettorale con cui abbiamo votato alle ultime politiche». Dalle leggi elettorali, osserva Famiglia cristiana nell’editoriale intitolato «Declino e metamorfosi della nostra democrazia», «dipende la qualità della democrazia» e «abolire le preferenze equivale a scippare i cittadini di un diritto di rappresentanza democratica». Per Berlusconi, commenta la rivista, le liste bloccate permettono di avere «professionisti che possono autorevolmente rappresentare il Paese in Europa», ma affermare questo è «un insulto all’intelligenza degli elettori». Per capirlo «basta fare un giro tra Camera e Senato per vedere le aule affollate di portaborse, segretari, cortigiani e figli di papà». «Quando non si riconosce il ruolo dell’opposizione (e il suo leader viene definito inesistente), - commenta l’editoriale - quando si toglie autonomia al potere giudiziario, quando l’opinione pubblica (addomesticata o narcotizzata grazie al controllo dei media) non è più in grado di effettuare un costante controllo sulle scelte politiche, ci si avvia, come dice il sociologo Campanini, a una semi-democrazia, a un processo degenerativo che svuota il Parlamento delle sue funzioni, sulla scia della Russia di Putin o del Venezuela di Chavez».

l’Unità 24.9.08
Manifestazione neonazi, Borghezio si imbavaglia al Parlamento europeo
di Marco Mongiello


BRUXELLES «Il Parlamento Europeo difenda la libertà di parola in tutta Europa e quindi anche a Colonia dove mi è stato impedito di parlare». Così l’eurodeputato leghista Mario Borghezio ha annunciato la protesta di ieri al Parlamento europeo a Bruxelles dove, nel corso di un dibattito sul terrorismo, si è imbavagliato con il fazzoletto verde «padano» ed è restato in silenzio per il minuto di intervento assegnato. Al pasionario del Carroccio non è andata giù la decisione di sabato delle autorità tedesche di interrompere la manifestazione delle ultra-destre contro le moschee. «L’Europa dà lezioni a tutti sulla libertà di espressione e potrebbe anche indignarsi per il fatto che degli eurodeputati, che sono arrivati lì senza bastoni, non hanno potuto parlare», ha spiegato in seguito a l’Unità, «io avevo il mio testo scritto che era super pacifico».
Ma ancora più dura da digerire è la presa di distanza che è seguita al flop di Colonia degli esponenti del governo italiano e degli stessi vertici della Lega. «Io sono andato a titolo personale e l’adesione non è stata della Lega», si è giustificato Borghezio, ma in ogni caso «non ho trovato un clima molto diverso da quello che ho trovato in cento manifestazioni contro le moschee a cui ho partecipato in Italia». L’Austria ha protestato ufficialmente perché è stato impedito di parlare ai rappresentanti del partito nazionalista Fpö, racconta l’eurodeputato leghista, ma sul fatto che il governo italiano faccia la stessa cosa «non nutro molte speranze». Anzi, «se mi arrestavano, non essendo più ministro degli Esteri D’Alema che mi aveva tirato fuori di galera a Bruxelles, stavolta me la vedevo dura». Insomma, questa che siede a Palazzo Chigi, ha concluso Borghezio, è «una Lega di governo, ma io mi trovo bene con la Lega di lotta» e negli interventi a Telelombardia e Radiopadania «erano tutti con me».

l’Unità 24.9.08
L’immigrato chiama la famiglia? Si paghi il test del Dna
di Paolo Soldini


Europa, salvaci tu. Da oggi, se un povero cristo, per non morire di fame o di solitudine, vorrà raggiungere un parente stretto in Italia - il padre, un figlio, un fratello - e le autorità consolari avranno qualche dubbio, dovrà sottoporsi al test del Dna. E dovrà farlo a spese proprie. E non in Italia, ma nel paese di provenienza. Il test costa, nei Paesi sviluppati, tra 600 e 1500 euro. In molti paesi poveri, quelli da cui normalmente provengono gli immigrati, non esistono neppure strutture in grado di farlo, tant’è che gli Stati della Ue che hanno introdotto la procedura (anche la Francia, dopo furibonde polemiche) hanno specificato che gli esami si fanno nel Paese di accoglienza e, ça va sans dire, a spese del sistema sanitario. Più che cinica, la misura approvata insieme con altre infamie dal consiglio dei Ministri ieri appare insensata. A meno che non sia un modo per bloccare, senza dirlo, la gran parte dei ricongiungimenti familiari nel Paese in cui la destra ci predica un giorno sì e l’altro pure i «valori della famiglia». Basterà dare opportune disposizione ai consolati perché siano molto fiscali nell’accertamento delle identità e il gioco è fatto: figli, genitori, fratelli, sorelle resteranno a casa e Maroni sarà contento.
In attesa di risolvere il problema dei «troppi» famigliari in arrivo, il ministro dell’Interno deve però pensare ai problemi che va creandosi da solo con la sua ormai quasi patologica propensione a mentire ogni volta che ha a che fare con Bruxelles. Ieri, mentre con i colleghi faceva esercizi di crudeltà d’animo, il leghista si è beccato una smentita secca dal Commissario Ue alla Giustizia Jacques Barrot. Uscendo dall’aula del Parlamento Europeo in cui Mario Borghezio si era imbavagliato, purtroppo brevemente, perché non lo hanno fatto parlare a Colonia, Barrot ha detto che la Commissione non ha deciso ancora nulla sui decreti legislativi con cui il governo italiano ha dato (a modo suo) applicazione alle direttive Ue in materia di stranieri. Testuale: «Non c’è alcuna decisione da parte nostra e perciò io non ho notificato alcunché all’Italia». Maroni, venerdì scorso, incontrando la delegazione della commissione europarlamentare venuta a visitare i campi nomadi, aveva invece giurato e spergiurato che su uno dei decreti, sì, quello sulla libera circolazione, c’erano delle riserve dell’esecutivo bruxellese, ma che gli altri due erano stati promossi.
Barrot aveva fatto la sua dichiarazione all’ora di pranzo, suscitando, come ovvio, un’ondata di pesanti critiche alle bugie di Maroni. Ma all’ora del tè, e presumibilmente con i telefoni dei suoi uffici che bollivano per le sollecitazioni dal Viminale e da Palazzo Chigi, l’intrepido commissario francese aveva già cambiato versione, offrendone una appena meno imbarazzante per i governanti di Roma. Sui tre decreti non c’è decisione - si legge su un comunicato - ma l’analisi preliminare dei testi inviati da Maroni rileva che quello sulla libera circolazione «pone problemi di compatibilità con il diritto comunitario» e quindi l’Italia deve cambiarlo subito se vuole evitare la procedura di infrazione, mentre gli altri due (ricongiungimenti familiari e status dei rifugiati) non pongono «allo stato» problemi «viste le precisazioni apportate dalle autorità italiane su domanda della Commissione».
Resta da capire come abbiano fatto gli uffici di Barrot a valutare alle cinque del pomeriggio a Bruxelles provvedimenti che erano stati approvati in Italia a mezzogiorno. A meno che il surreale provvedimento su Dna a carico dei parenti non fosse contenuto già nei testi «preliminari» inviati da Maroni insieme con altre infamie, come il proposito di segregare anche i richiedenti asilo nei centri di identificazione «chiusi e controllati, da cui non si può uscire» e le «strette» sui ricongiungimenti delle quali il ministro zerotollerante (del buonsenso) andava gongolando ieri: tra l’altro l’obbligo di stipulare una assicurazione sanitaria per gli ultra sessantacinquenni - economicissima, come si può immaginare, una quisquilia per i vecchietti africani o bengalesi che raggiungono figli o nipoti - e l’abolizione del principio del silenzio-assenso sulle domande di ricongiungimento. Come dire: se un giorno a un funzionario viene il ghiribizzo di andare a leggere carte vecchie anche di dieci anni, una moglie, un figlio, un padre può essere prelevato, impacchettato e rispedito nel Paese di origine. Con il quale magari non ha più rapporti e di cui, come accade spesso ai bambini, non parla neppure la lingua.
Poiché ci sembra davvero strano che qualcuno a Bruxelles possa aver trovato «conformi al diritto comunitario» simili scempiaggini, vorremmo sapere da Maroni e da Barrot se erano davvero contenute nelle «anticipazioni» inviate alla Commissione per l’esame preventivo. Oppure, come è costume di questo governo, si è cercato di farle passare alla chetichella. Chi risponde?

l’Unità 24.9.08
Castel Volturno, di agenti nemmeno l’ombra
Viaggio attraverso il regno dei Casalesi: una sola pattuglia davanti alla tv. Ora il governo manderà 500 militari
di Massimiliano Amato


CHISSÀ se i cinquecento militari che il Consiglio dei Ministri ha destinato alla terra dei morti che camminano, in cui come dice Maroni «è in atto una guerra civile», saranno più visibili dei quattrocento tra carabinieri, poliziotti e finanzieri inviati due giorni fa. Non fosse altro per rassicurare la signora che, passando davanti alla sartoria dell'orrore, dove meno di una settimana fa sono stati massacrati sei immigrati nordafricani, si sporge dal finestrino di un'auto e indirizza uno sprezzante «ma miettete scuorno» al sindaco di Castel Volturno, Francesco Nuzzo, impegnato in una diretta televisiva. Il povero Nuzzo, purtroppo, non ha colpe se, nel giro di un centinaio di chilometri, lungo le strade che attraversano il regno dei casalesi, gli unici poliziotti che s'incontrano sono quelli che fanno da cordone tra la Domitiana e il marciapiedi sul quale sono state montate le telecamere Rai. Sono cinque, hanno l'aspetto pacioso dei padri di famiglia. Di loro colleghi, in giro, non se ne vedono. Alle 11 il viaggio alla ricerca dei quattrocento rinforzi inizia dall'Asse mediano: una striscia d'asfalto che collega il pomiglianese con Lago Patria. Non un posto di blocco, nemmeno una pattuglia. Si sospetta che la banda di sicari che ha commesso 18 omicidi in pochi mesi si nasconda qui, tra le ville abusive e gli albergoni che hanno occupato ogni centimetro di spazio libero.
La tappa successiva è la Domitiana, con i lidi sbarrati, i motel, le piazze di spaccio di ogni schifezza possibile, e le case vacanze, i villaggi turistici e una ininterrotta teoria di migranti sui marciapiedi: senegalesi, congolesi, ghanesi, nigeriani. Il mare che è solo un'intuizione. Le macchine sfrecciano indisturbate, sfiorando donne e pensionati che attraversano carichi di buste della spesa. A bordo potrebbe esserci chiunque: nessuno controlla. All'incrocio con la superstrada che porta a Formia il viaggio devia in direzione Caserta, sulla Villa Literno - Nola, la strada utilizzata dalla banda di Sandro Cirillo e Peppe Setola per rientrare alla base: ai margini di questa scorrimento veloce hanno ritrovato le carcasse mangiate dal fuoco delle auto utilizzate per «le botte di San Gennaro». Anche qui, dei quattrocento rinforzi nemmeno l'ombra.
Sono le 13, e in due ore gli unici poliziotti incontrati sono sempre i cinque di prima. Meglio tornare indietro, allora, per ascoltare il sindaco Nuzzo che ti porta lontano dalla folla di curiosi dietro le telecamere: «Ha visto da solo, no? Inutile aggiungere altro, se non che le misure poliziesche servono relativamente. Occorrono interventi strutturali». Ma gli animi sono tesi, basta un nonnulla per far scattare il riflesso condizionato della paura. Ne hanno tanta gli abitanti di Castel Volturno, che rimproverano al sindaco di essere stato «troppo morbido» con gli immigrati sulle devastazioni di venerdì: «mors tua vita mea», filosofeggia un passante. Niente, però, al confronto del terrore che si legge sui volti dei ghanesi. Un loro amico, unico sopravvissuto alla strage, ha riconosciuto i killer: Cirillo e Oreste Spagnuolo, ha raccontato, avevano il kalashnikov e sparavano come invasati, Alfonso Cesarano, l'unico fermato finora, una pistola. Temono ritorsioni, adesso. Ma la pietà è più forte della paura: chiedono al sindaco lumi sui funerali. Nuzzo è drastico: «Meglio se li fate al Paese vostro, le salme sono a disposizione». Poi, conciliante: «Per i soldi chiamerò io Roma».

l’Unità 24.9.08
Roma ha paura, ma soprattutto del futuro
di Jolanda Bufalini


Sulla ciclabile, lungo gli argini del Tevere la presenza dei senza fissa dimora è piu’ discreta: dove c’erano materassi e vecchie poltrone ora i giacigli sono fogli di cartone. Le suppellettili, specchio, pettine, camicia di ricambio sono ben nascosti nei sacchetti neri di plastica appesi ai bastioni. Non è tanto l’effetto dei controlli, piuttosto è che l’estate romana è appena finita, si stanno ancora smontando i tubi innocenti delle manifestazioni. Non c’è piu’, sotto il ponte di Ferro la baracca dove qualche mese fa è morto di morte naturale un neonato rom. Qui sì, è l’effetto degli sgomberi. Ma la riqualificazione delle rive del Tevere è ancora un miraggio lontano. Le stazioni dell’anello ferroviario sono ancora paurosamente deserte.
STRANEZZEIl sondaggio del Censis che ha lanciato il World Social Summit (da oggi a palazzo Cipolla in via del Corso a Roma) ci ha rivelato che Roma è la città più spaventata del globo. Spaventata da che? Una campagna elettorale infinita ci bombarda col problema «securitario». Il sindaco Gianni Alemanno ha subito scaricato il problema: «è l’eredità di Veltroni». Eppure, a leggere quei dati, la cifra che salta agli occhi è un’altra. Su un campione di 500 persone, i ragazzi fra i 18 e i 29 anni hanno risposto che ad angosciarli è l’incertezza(51,2%).
Negli ultimi anni il lavoro, a Roma, si trova. Il problema è che non è un lavoro che consenta di costruirsi un futuro: se tuo padre è riuscito a mettere da parte un gruzzolo, a comprare una casa, - dice Roberto, giovane barista - ce la puoi fare, altrimenti è molto difficile affittare una casa o combinare qualcosa. Nel Lazio, racconta una ricerca Ires Cgil del 2008 il 75,4% dei lavoratori del commercio è precario, precario l’87,9% degli insegnanti e il 57,1 degli impiegati. Anche nelle fabbriche, ormai, quasi il 49% degli operai lavora a tempo e, nelle professioni, nella ricerca, la quasi totalità degli under 35 non ha stabilità.
MODELLO ROMA In queste cifre c’è una parte della spiegazione della sconfitta subita alle scorse elezioni dal centro sinistra. La pensa così Walter Schiavella, che è stato segretario della camera del lavoro di Roma e del Lazio fino a pochi giorni fa; la pensa così Marco Causi, economista e assessore al bilancio al comune di Roma per 7 anni, nelle giunte Veltroni. Il modello Roma ha retto trasformazioni grandiose e ristrutturazioni spaventose, come quella Telecom o quella del sistema bancario. Ma la tensione verso lo sviluppo, che ha fatto di Roma una capitale della cultura, ha creato anche disagio e paura di non farcela.
PERIFERIE si fa presto a dire Roma: lungo le consolari e verso il mare la città arriva ben oltre il raccordo, dove i nuovi insediamenti si mescolano all’Agro romano, dove può capitare a una coppia di turisti olandesi che la moglie sia violentata di fronte al marito. Il nuovo Prg prevede il collegamento su ”ferro” (metro, treno, tram) per i nuovi quartieri e prevede anche che diventino ”centralità” con trasferimento di funzioni e servizi. Il quadro attuale è, però, un altro (a parte il fatto che Alemanno ha già abolito il tram che doveva collegare la zona di Acilia- Tor de’Cenci): case, centri commerciali e multisale sorgono (con poche eccezioni) come fortilizi in un nulla di svincoli autostradali e campagna incolta. Quando il traffico si ingorga vecchie vie secondarie diventano strade a scorrimento veloce. Così può accadere, come è accaduto nel comune di Fiumicino, che due giovani mamme e tre bambine in attesa dello scuolabus siano falciate e uccise da un auto in corsa. A La Rustica la città abusiva finisce contro un muro delle ferrovie, a Settecamini le nuove case non sono collegate con la borgata dove c’è la parrocchia e la farmacia: quasi due km in auto per comprare un’ aspirina o un pacchetto di sigarette. A Tor Bella Monaca, raccontata da Walter Siti nel libro ”Il contagio”, ci sono stati investimenti importanti, c’è anche il teatro. Ma è ancora uno dei quartieri a più alta densità di problemi, dalla droga alla piccola criminalità, dal numero elevato di persone anziane e con handicap, alla scarsità degli alloggi.
PAUREÈ in queste periferie che la paura, quella fisica o quella legata alla difficoltà di convivere con i nuovi arrivati, gli immigrati romeni o africani, si fa piu’ palpabile. L’indagine Censis dice che nelle periferie la paura cresce al 14,2 % e fra le donne arriva al 16,2 mentre la media fra gli intervistati è del 12,2 %. Il governo di centro destra insiste per avere al Colosseo o a piazza Navona, i militari ben visibili. Ma è invece nelle sue estreme propaggini che spesso saltano gli standard di convivenza. Come al Pigneto dove il 24 maggio un romano del quartiere ha guidato il raid che ha distrutto due negozi per punire un piccolo sgarro alle regole malavitose.
La paura è a corrente alternata. Riguarda i romani, scioccati dalle morti assurde e diverse di Vanessa Russo e di Giovanna Reggiani. Ma la paura ha investito anche immigrati onesti che, dopo il delitto Reggiani, sono stati assaliti nei pressi di Torre Angela mentre uscivano dal supermercato, dopo aver fatto la spesa. In quei giorni erano tante le donne e i bambini che salivano sui pullman verso Bucarest. Persone oneste di cui si spezzava il sogno e il progetto per una vita migliore.

l’Unità 24.9.08
Il rapporto del Censis
L’incertezza che attanaglia i giovani
di Alessia Grossi


Incerti, sfiduciati ed inquieti. L'indagine del Censis da cui parte il World social summit, che si apre oggi a Roma, dice che sono proprio i romani i cittadini metropolitani più impauriti al mondo. Alla domanda «quale sentimento meglio descrive il suo rapporto con la vita?», il 46% risponde incertezza, il 12,2% paura. Totale: il 58,2% dei cittadini della capitale vive una condizione di disagio e tensione. La media generale delle altre città metropolitane indagate dallo studio del Censis - New York, Parigi, Pechino, Tokio, Bombay, Il Cairo, San Paolo, Mosca e Londra - arriva appena al 36%. Solo il 4,6% dei romani è entusiasta della vita mentre la media mondiale è del 12,1%. La fiducia è un sentimento che riguarda invece il 9,6% dei romani contro il 17,2% di «fiduciosi» mondiali. Primo timore dei romani è l’incertezza per il futuro. Lo teme il 51,2% dei giovani tra i 18 e 29 anni, ottimisti solo per il 31,8%. Con l’avanzare dell’età passa la paura e aumenta l’ottimismo. Tra i 65 e i 74 anni il futuro incerto preoccupa solo il 35,4% degli intervistai e il 36,7% si dichiara ottimista. La paura ha anche un genere e un indirizzo. La percentuale delle donne impaurite - il 16,2 - è il doppio di quella degli uomini - 7,7 - ed epicentro dei timori sono le periferie dove è il 14,2% a vivere nel disagio rispetto al 5% degli abitanti dei quartieri centrali. Solo Londra ha paura quanto Roma. «Non sono proprio Londra e Roma -fa notare il presidente del Censis, Giuseppe De Rita- le metropoli in cui alla scorse elezioni ha avuto più fortuna la fazione politica che ha cavalcato queste paure?». Politica e paura vanno di pari passo, dunque, e in molti casi una «amplifica l’altra» continua De Rita. La paura indagata dal Censis è la cifra interpretativa dei nostri tempi, dunque, la cifra della globalizzazione e del progresso. Ed è proprio la fiducia nel progresso a vacillare. Gli scettici metropolitani sono il 54,3% e oscillano tra un 41,2% per cui la scienza è un «male necessario», un 13% che la teme e un 8,3% che crede che Dio punirà l’umanità.

l’Unità 24.9.08
Quando vince la paura
di Valeria Viganò


Nel dilagante senso di insicurezza profonda che si respira nell’aria, pesante incerta inquinata aria del mondo, avanzato e libero che pretenderebbe di essere, si nutrono a vicenda due paure. Una paura reale, concreta, connessa alla socialità e alla sopravvivenza, e una paura più strisciante che tocca il significato dell’essere e della sua individualità. La contaminazione tra le due paure è costante, particelle si incontrano, si influenzano, si mescolano fino a produrre una paura ancora maggiore, che esplode nell’immaginario.
Nell’immaginario la paura si deforma ogni volta che la si pensa, prende nuove vie per riprodursi, escogita nuovi sbocchi per deflagrare in un istinto di difesa: per proteggere il presente, per assicurare il futuro. Ma non si protegge così il presente che muta alla velocità della luce e non si protegge il futuro che si allontana, come l’orizzonte al quale non si arriva mai. Così, con la paura si screditano entrambi. Presente e futuro. La paura di perdere il lavoro, o di non trovarlo affatto, di non avere identità sociale, di ciò che è sconosciuto e diverso, la paura di non essere omologato e quindi vivere la solitudine sono altre facce dell’enorme incertezza che ci pervade. Cerchiamo risposte certe e fisse in un flipper dove la pallina è talmente rapida da non essere mai in un punto determinato. La vediamo solo quando rallenta, e ci spaventa perché da lì non sappiamo dove rimbalzerà. I pulsanti del flipper sembrano non rispondere ai comandi. La paura diventa panico. Il panico sociale aggrega rabbiosamente e produce il nemico, il panico personale impedisce la la realizzazione di sé e devasta l’anima.
Ma non è tutto teorico. L’insicurezza colpisce in concreto, si tramuta in violenza, odio, frustrazione, avvilimento, depressione. Nascono trincee da cui sparare, baratri neri in cui sprofondare a seconda della scelta di colpire l’altro o se stessi. Accade continuamente in ogni età, fino ad assumere tratti di un’eterna incompiutezza adolescenziale. Si risponde a istinto, sembrerebbe una faccenda di bisogni tornati primari. Si difende senza scrupoli il territorio in modo egoistico, si respingono gli sconosciuti, ci si porta con sé un’arma. Non ci sono più la libertà di scelta, l’attuazione di un’idea e della propria identità. Perché ogni cosa viene canalizzata dal mercato.
Sta qui la praticità della questione paura-insicurezza-incertezza. È il sistema economico che guida i nostri sentimenti. Se un laureato a trent’anni deve provare il vuoto di prospettive in un call center o nei famigerati contratti a progetto, la stagnazione tronca entusiasmi, volontà e competenza, inghiotte il futuro. Nel vuoto che crea le giovani menti annaspano senza appiglio, rimangono sole o finiscono in gruppi per essere qualcosa, qualsivoglia cosa senza mai essere niente. Se un cinquantenne diventa un numero in esubero, e la sua vita azzerata nella disperazione, ogni ombra che incontra gli farà terrore. La paura attanaglia nelle regole sociali e economiche: devi essere efficiente, alla moda comunicativo, ambizioso, piuttosto cinico. Non devi mostrare incertezze, sfiducia in te, tristezza. Altrimenti sei fuori, out, espulso. Per l’angoscia di esserlo, che prende quando non si è all’altezza delle aspettative, si va in terapia una volta alla settimana, che sommate alla fine riescono a reintrodurre i comportamenti conformisticamente consoni che il dolore aveva fatto dimenticare. Anche le pasticche, oltre i consigli di qualcuno (disgregato come te) che dovrebbe aiutarti, seduto al di là della scrivania con il tuo cervello in mano, servono. Al mercato ritorniamo. Le pasticche, le gocce, una che tira su, l’altra che tira un po’ giù, le altre ancora che fanno dormire. Sono diventate pane quotidiano per una moltitudine, e bilanci da record esponenziali per chi ha scelto di investire nella farmacopea psichica. C’è sempre chi ci guadagna dalla paura. Ci guadagnano la politica che ci controlla dall'alto, l’economia che ci controlla dal basso. È brutto sentire la terra che frana sotto i piedi, e il vedersi derubati e impauriti, e uscire di senno e ammazzare chi ci spaventa. O a ammazzarsi nel caso ci spaventassimo di noi stessi. I matti, chiamiamoli per una volta sola così, finiscono nella malattia perché la paura della malattia è pur sempre preferibile alla paura di vivere.

l’Unità 24.9.08
E Pansa gridò: peggio per Fini!
di Bruno Gravagnuolo


A destra di Fini. Ci è finito Giampaolo Pansa, che sforna su l’Espresso un Bestiario senz’altro graditissimo a Storace e a quanti hanno vissuto come un attentato il «Fini antifascista». Schiuma rabbia Pansa, come avesse subito una scudisciata nell’onore! E urla: «antifascismo obbligatorio», peggio per Fini, mal gliene incoglierà... Roba da matti. Invece di dire, «beh visto che ora anche Fini è antifascista, ricominciamo a parlare di fascismo e Resistenza senza anatemi...», che fa Giampaolo? Strepita, e attacca l’idea stessa dell’antifascismo a base di eguaglianza e libertà (in Italia). Per lui è un assurdo, un che di irricevibile. Talché si conferma l’assunto in base a cui lo criticammo: Pansa non fa storiografia. Non vuole appurare fatti o sanare buchi di memoria. No, vuole smontare polemicamente (tutta) la tradizione antifascista. Il suo valore costituzionale e il suo ruolo simbolico fondante, costituente la Repubblica. D’accordo in questo con Berlusconi, Pera, La Russa, Alemanno, Storace e la destra storiografica e politica. D’accordo con la destra. E all’estrema destra di Fini.
Schizofrenia di Romano. Grottesca posizione quella di Sergio Romano sul Corsera su Silone. Da un lato dice di non potersi esprimere sul «Silone spia», reputato peraltro capace di esserlo una spia. Dall’altro non nutre «il benché minimo dubbio sulle sue virtù morali e intellettuali» (sic). Non capiamo come Romano non arrossisca di se stesso: per la contraddizion che nol consente. Dubita che Silone sia un delatore o meno. Ma non dubita della sua moralità! Comico, no?
La Porta Pia di Alemanno. Ben più che trionfo del «ridicolo» come scrive Paolo Franchi sul Corsera. No, riabilitare i papalini a Porta Pia è un segno di questa destra: post-fascista, bigotta, tradizionalista e trasformista. E dopo Fini anche un po’ antifascista. Il tutto prima d’esser cucinato in salsa presidenzialista.
Stroncare Ramadan. Senza citare testi e contesti di Islam e libertà. (Einaudi). Come fa Pierluigi Battista sempre sul Corsera. Che accusa Ramadan di far galleggiare nel vuoto le libertà occidentali, staccandole dall’Occidente. Falso. Ramadan parla di valori su cui «si fondano Europa e Occidente». Da integrare con gli apporti passati dell’Islam. Op. cit. senza leggere.

l’Unità 24.9.08
Testamento biologico, è già scontro. Come sulla procreazione
La Chiesa: «La volontà del paziente non sia vincolante». Nel partiro democratico si riapre la discussione
di Maria Zegarelli


«Di nuovo c’è l’idea di dire che si deve fare una legge dopodiché la novità cessa, perché già stabilisce come deve essere una legge, sostituendosi al Parlamento. Nell’idea di Bagnasco la legge dovrebbe dire che il paziente non ha diritto di decidere nulla». Non ci vede alcuna apertura Maurizio Mori, presidente della Consulta di Bioetica Onlus, nelle parole del presidente della Cei, Angelo Bagnasco sul testamento biologico. I «paletti» messi da Bagnasco sono, infatti, tali da rendere vuota di contenuto una legge sul testamento biologico. Quella a cui pensa il cardinale, è più una «legge di assistenza per la fine della vita», come precisa non a caso monsignor Elio Sgreccia. libera per una legge come quella che hanno in testa «i laici». Sottigliezza che non è sfuggita al centrodestra lanciato nella sfida a chi è più d’accordo con il Vaticano. Se Ignazio Marino, membro della Commissione Igiene e Sanità al Senato, nonché primo firmatario del ddl sul testamento biologico (sottoscritto da oltre 100 parlamentari) accoglie con favore l’apertura di Bagnasco, preoccupazioni nel Pd ce ne sono. I teodem sono sul piede di guerra, ieri Paola Binetti (ma anche Ilaria Argentin che teodem non è) ha accusato il partito di poca «democrazia» proprio su questo tema. La Binetti, che ha già depositato un testo che va nella direzione di Bagnasco, ha contestato insieme alla collega il seminario organizzato sul tema per oggi alle 14.30 nella Sala del Mappamondo dove sono chiamati a raccolta i 350 parlamentari del gruppo. Se lo scopo era tastare il polso del partito, la vigilia già annuncia febbre alta. È chiaro a tutti nel Pd che i paletti messi da Bagnasco stanno a significare che una legge come quella di Ignazio Marino verrà ostacolata con tutti i mezzi. Ed è chiaro ai teodem che rischiano di essere netta minoranza nel partito: per questo temono che domani si discuta solo della proposta del senatore e non anche delle loro. Il capogruppo alla Camera Antonello Soro ha spiegato che ogni parlamentare potrà illustrare il proprio ddl, ma è evidente che la spaccatura è dietro l’angolo. Anche stavolta il rischio è che si ripeta quanto avvenuto con la legge 40 sulla procreazione assistita e sul referendum per abrogarla. Anche su quella legge sono stati messi paletti così pesanti che la tutela della salute della donna e del nascituro sono stati schiacciati da altre logiche. Secondo il professor Carlo Alberto Defanti, medico di Eluana Englaro, primario neurologo emerito, anche sul testamento biologico l’obiettivo è lo stesso. «Svuotare la legge. Bagnasco è molto chiaro sulle questioni cruciali: impedire che la nutrizione venga considerata come una terapia rinunciabile, considerandola come assistenza al malato (pur sapendo che la letteratura italiana e internazionale dice esattamente il contrario) e rendere le ipotetiche dichiarazioni di volontà del paziente non vincolanti per il medico. Se le gerarchie vaticane riusciranno nel loro intento, se la politica lo permetterà, non solo non faremo un passo in avanti ma ne faremo due indietro».

l’Unità 24.9.08
Le idee della Gelmini
Sparirà il Latino dai licei scientifici
di Maristella Iervasi


Il maestro sarà unico ma avrà le lavagne interattive. Nei licei scientifici «salta» invece una delle materie letterarie: il latino. La lingua di Ovidio e Cicerone cederà via via il passo allo studio di una seconda lingua straniera. La sperimentazione partirà in alcune sezioni. Non solo. Tutti gli orari della scuola verranno rivisti (infanzia, primaria, medie, sistema dei licei e istituti tecnici e professionali). E per il personale docente ecco i criteri per la determinazione degli organici: le classi iniziali di ciclo «verranno costituite sulla base del numero degli iscritti» e i dirigenti scolastici saranno «personalmente responsabili». Di fatto, la Gelmini fa una chiamata in correo su una responsabilità che è invece di governo. Stop alla co-docenza e al «contenimento dell’attività in compresenza nelle scuole superiori tra docenti di teoria e insegnanti tecnico-pratici di laboratorio». Cioè, meno qualità e ore laboratorio. Riconduzione a 18 ore «di tutte le cattedre di scuole di I° e II° grado». Un modo per saturare l’impegno didattico senza più spazi per la flessibilità.
E ancora: le classi di concorso verranno accorpate con una «comune matrice culturale e professionale». Del tipo, matematica e scienze naturale «unitamente» all’insegnamento di tecnologia. Un modo per «cancellare» l’insegnamento dell’educazione tecnica alle medie. Infine i docenti in esubero: per loro si prevedono «compiti diversi dall’insegnamento». Con collocamenti fuori ruolo. Della serie, non ti posso licenziare ma ti metto in un cantuccio.
Il piano della Gelmini è pronto. Lo schema programmatico del ministero dell’Istruzione sui tagli alla scuola pubblica studiato in concerto con Tremonti, è stato «spedito» ieri sera ai sindacati Flc-Cgil, Cisl e Uil Scuola, Snals e all’Associazione presidi. La prima versione che circolava nelle redazioni, è stata rimanegiata. Con correttivi e ripensamenti sull’onda dello spauracchio della mobilitzione popolare e confederale dei settori della conoscenza, che è sempre dietro l’angolo come ha annunciato il neo segretario generale della Flc-Cgil Mimmo Pantaleo. E per via delle critiche unanime delle organizzazioni sindacali e professionali. Modifiche dell’ultima ora per rendere più delicato e digeribile la «cura dimagrante», con sempre lo stesso metro di misura: la scuola come capitolo di bilancio. Che resta immutato nei numeri da cannibalizzare: 87.400 docenti in meno nei prossimi 3 anni e anche 44.500 posti Ata (collaboratori scolastici, tecnici e segretari).
RETROMARCIA
SULLA MATERNA Non ci sarà soltanto la maestra unica. La Gelmini alla fine è stata costretta a riconfermare le due tipologie di scuola esistenti: 40 ore e 25 ore.
SPEZZATINO
ALL’ELEMENTARE L’indicazione per la primaria è quella di «privilegiare classi affidate ad un unico insegnante e funzionanti con orario di 24 ore settimanali». Poi l’attacco della signora dell’Istruzione alla disinformazione: «Il tempo pieno è un obiettivo prioritario di politica scolastica del ministero - di legge nello schema programmatico -. Per la sua particolare rilevanza sociale verrà non solo riconfermato nella sua attuale entità ma addirittura potenziato». Le opzioni alternative possibili al maestro unico, ma solo se gli organici lo consentono, sono le 27 ore e le 30 ore, con una possibile estensione di 10 ore comprensive della mensa. Di fatto, la scelta del tempo pieno è affidata alla bontà dei direttori scolastici.

l’Unità 24.9.08
I Tornado in Afghanistan
Mauro Del Vecchio. L’ex comandante Isaf in Afghanistan: «L’Italia deve sapere se si sta delineando una nuova strategia militare»
«Attenti, con quegli aerei si può anche cominciare a combattere»
di t. fon.


«In Afghanistan si sta delineando una nuova e diversa strategia? Qualcuno venga in Parlamento a spiegare. L’invio dei Tornado può essere utile se finalizzato alla protezione dei nostri soldati, ma prima di tutto occorre pensare a recuperare il rapporto con la popolazione, a inviare aiuti e finanziare la ricostruzione». È l’opinione del senatore Pd Mauro Del Vecchio, già comandante delle forze Nato in Afghanistan.
Il governo aveva detto di non avere soldi per finanziare l’invio dei Tornado, poi lei ha trovati..
«Con il bilancio che è stato definito non so proprio dove abbiano trovato il finanziamento; mandare in missione gli aerei costa. Ma soprattutto mi chiedo quale strategia intendono seguire. Nessuno ce lo ha spiegato. Se si tratta di cambiare l’impegno italiano in Afghanistan spero che qualcuno venga a dircelo».
Ma lei che ne pensa?
«In Afghanistan è evidente che si è di fronte ad una pericolosa recrudescenza degli attacchi, se si tratta di garantire maggiore sicurezza ai nostri soldati affinchè possano proseguire la loro missione allora l’invio dei Tornado può rivelarsi utile. Questi aerei possono assolvere a diversi ruoli. Possono compiere pattugliamenti e ricognizioni perchè posseggono le attrezzature adeguate ed essere quindi utili per l’intelligence, ma possono svolgere missioni di combat».
Quindi possono anche attaccare le postazioni della guerriglia..
«Per questo è opportuno che il governo spieghi. Ma il problema è un altro: in Afghanistan è assolutamente prioritario mettere in campo iniziative per favorire la ricostruzione. Questa è la cosa più urgente da fare».
Invece su questo fonte non si vede nulla di concreto?
«Se il problema è “vincere”, se si tratta cioè di andare avanti con l’obiettivo di portare a termine la missione che è stata avviata per ricostruire l’Afghanistan, favorire la nascita di un regime democratico e libero, aiutare la popolazione civile, allora occorrono finanziamenti e soprattutto strategie che permettano di avviare sul serio la ricostruzione. Su questo però non vediamo emergere un maggiore impegno».
Alcuni recenti bombardamenti con vittime civili, hanno incrinato il rapporto con la popolazione..
«Per questo occorre una nuova strategia che, al primo posto, ponga queste questioni: aiuti, ricostruzione, sostegno alle iniziative che servono per rafforzare il legittimo governo dell’Afghanistan».

l’Unità 24.9.08
Jean-Luc Nancy: «Filosofia è felicità senza desideri»
di Silvio Bernelli


JEAN-LUC NANCY parlerà stasera a «Torino spiritualità» sulla necessità di ripensare l’amore per poter rifondare il legame tra gli individui e la comunità. Perché, ci dice, nessun uomo è un’isola: persino il nostro corpo è un corpo «collettivo»

Il filosofo francese, padre del decostruzionismo
Jean-Luc Nancy (Bordeaux, 1940) è professore emerito di filosofia presso l’università di Strasburgo. Assieme a Jacques Derrida è considerato il maggior esponente del «decostruzionismo». Tra i suoi libri pubblicati in Italia ricordiamo Le differenze parallele. Deleuze e Derrida (Ombre Corte) ed Ego Sum (Bompiani), entrambi usciti quest’anno; Il giusto e l’ingiusto (Feltrinelli, 2007); La creazione del mondo o la mondializzazione (Einaudi 2003).

Filosofo tra i più importanti degli ultimi anni, il francese Jean-Luc Nancy si è interessato, nel corso della sua lunga e sfaccettata opera, a temi di grande interesse anche per coloro che di filosofia non sanno nulla: i legami che tengono insieme le comunità umane, l’immagine nell’arte, persino il sesso nella sua accezione più libera. Un pensatore curioso, insomma, molto noto anche in Italia, visto che qui i suoi libri sono stati pubblicati da diversi editori, tra i quali Bollati Boringhieri, Cronopio, Einaudi e SE. Non a caso Torino Spiritualità, il «festival delle coscienze» che va in scena nel capoluogo piemontese da oggi fino a domenica 28, lo ha invitato per uno degli incontri di apertura. Quasi settantenne, in forma perfetta, Jean-Luc Nancy si presenta all’intervista mattutina in camicia, maglioncino girocollo, pantaloni, calze e scarpe dello stesso identico nero. Il sorriso e lo sguardo che lampeggia attraverso le lenti degli occhiali però sono assai luminosi.
La comunità non è un rapporto astratto, o immateriale, è un essere in comune, un essere insieme», scriveva in «La comunità inoperosa», un libro del 1986. L’arrivo di immigrati provenienti da ogni parte del mondo nelle città europee ha cambiato questa idea di comunità?
«In Europa non esiste una vera idea condivisa di comunità, tanto meno di comunità europea. Non c’è un’identità europea, ma tante identità diverse: quella francese, quella tedesca, quella italiana... Ciascuna di queste identità è composta da tante diverse identità; nel caso di quella italiana, da quella siciliana, da quella veneta eccetera. L’arrivo degli immigrati non ha cambiato la pluralità di identità presenti nella società europea, al contrario, l’ha confermata».
Il corpo dell’uomo è da sempre al centro dei suoi interessi. Cosa pensa dei corpi di oggi, spesso alterati dalla chirurgia estetica o da protesi sempre più rivoluzionarie?
«Il nostro corpo è cambiato in un modo positivo e interessante e in un altro modo, più pericoloso. Il cambiamento positivo è dato dal fatto che protesi e trapianti hanno dato al corpo una nuova caratteristica, quella di essere condiviso. Oggi il corpo è costituito da altri corpi. Io stesso ho subìto un trapianto di cuore, e questo nuovo cuore mi è stato donato da un’altra persona. E poi ho una protesi d’anca in titanio. Il corpo di oggi quindi è anche una condivisione con le persone che hanno creato tutti questi marchingegni. Il cambiamento del corpo più pericoloso invece è la nascita di un corpo medico, un corpo fisico-organico da curare a ogni costo, come è nella missione della medicina, che è prolungare la vita qualunque essa sia. Questo atteggiamento porta a misurare la vita come quantità e non come qualità. E questo è profondamente sbagliato. Non bisogna tenere in vita le persone al di là dei naturali confini della vita. Non bisogna soffrire né far soffrire inutilmente».
Al suo trapianto di cuore lei ha dedicato il libro «L’intruso». Il trapianto è un’esperienza che le ha certamente lasciato più di una cicatrice, e non solo metaforica. A proposito delle cicatrici, il romanziere americano Cormac McCarthy scrive: “le cicatrici sono la prova che il nostro passato è esistito davvero”. È così anche per lei?
«Quando penso alle mie cicatrici, penso non tanto al passato, quanto al fatto che la cicatrice sia un’iscrizione, una traccia della relazione del corpo con il mondo esterno. È un modo per dire che il passato vive nel presente e anche nel futuro. La cicatrice è un segno, un apertura nella pelle che, anche se si è rimarginata, non è mai chiusa completamente, dà sempre la sensazione che un domani possa venire riaperta».
È il suo interesse per i corpi, per una filosofia che ad ogni costo vuole confrontarsi con la vita vera, che l’ha spinta a scrivere Il c’è del rapporto sessuale, un saggio sul rapporto sessuale?
«La sessualità è il rapporto per eccellenza, è il rapporto dei rapporti. Ha un potenziale fortissimo per cementare i legami tra le persone. Ed è la natura affettiva del legame che unisce gli esseri umani tra di loro, all’interno della famiglia o della società. Non si può comprendere la società di oggi senza comprendere l’importanza della relazione sessuale».
In «La rappresentazione interdetta», uno dei «Tre saggi sull’immagine», lei sottolinea come il nazismo abbia coltivato la rappresentazione, la messa in scena di simboli e masse militari e non, sotto ogni suo aspetto. Non è quello che stanno facendo da una ventina di anni a questa parte attraverso i mass media anche i governi delle democrazie occidentali?
«Attraverso i mass media la democrazia trasmette e si riflette in una molteplicità di immagini tra le quali non riesce a scegliere quella in cui identificarsi. Campioni dello sport, gli oggetti che ci circondano dai televisori ai telefonini, lusso. Cose tra cui è difficile scegliere l’immagine preponderante, che trasmette quella che chiamerei un’idea vaga di comfort, di benessere. La società democratica si nutre di questa sua rappresentazione e in questo senso si chiude su se stessa allo stesso modo di una società totalitaria. Ma il problema della democrazia oggi è che, al contrario della dittatura, non sa immaginare nulla oltre la propria rappresentazione. Oltre l’immagine c’è solo il vuoto».
Questa sera avrà un incontro con il pubblico di Torino Spiritualità. Può dare un’anticipazione del suo intervento ai nostri lettori?
«Parlerò della crisi dell’amore. È una condizione legata al concetto di libertà sessuale e all’idea di mercificazione del sesso tipica dell’età moderna. È entrata in crisi anche l’idea di matrimonio che è stata concepita fino adesso, non a caso i divorzi si moltiplicano. La società che è sempre più individualista è arrivata a un punto di rottura su certi argomenti. Stasera dirò che l’amore va ripensato. Le vecchie idee sul matrimonio e sulla fedeltà stanno strette alla nostra società e noi oggi forse stiamo cercando nuovi modi di vivere l’amore. I giovani ad esempio lo vivono in modo più distaccato e con una consapevolezza sessuale che noi non avevamo. Una volta il primo amore doveva essere quello definitivo. Io anche ho sposato la prima donna di cui mi sono innamorato, ma poi (e qui Nancy ridacchia,ndr) le cose non hanno affatto funzionato».
Tema di questa edizione di Torino Spiritualità è la speranza. Qual è la sua?
«Ne ho due. Una personale, che so completamente irrealizzabile, che è quella di vedere come sarà tra un secolo il mondo completamente “cinesizzato”. L’altra speranza invece, che auguro a tutti di avere, è di morire senza più desideri, visto che tutti gli obiettivi che si volevano raggiungere nella vita sono stati raggiunti. In fondo, non è una speranza da poco, non le sembra?»

Repubblica 24.9.08
Il decreto Tremonti mette in crisi coop e giornali di partito
Aboliti i contributi Manifesto e Liberazione a rischio chiusura
I direttori del quotidiano comunista denunciano: questo è un attacco alla libertà di stampa


ROMA - Il manifesto lancia l´allarme: da oggi siamo in emergenza. Stesso, drammatico grido di dolore sale da Liberazione: siamo agli sgoccioli. E non solo. In altri giornali di partito e in molte cooperative editoriali è scattato il livello di massima allerta: ci ritroviamo ad un passo dalla chiusura. Nel mirino, il decreto Tremonti che rivede e taglia i contributi ai giornali di partito e alle cooperative non profit. Finito perciò sotto accusa in un´assemblea straordinaria, presenti giornalisti e con il pieno sostegno di Cgil e Uil, da "Mediacoop" (l´associazione delle cooperative editoriali) e da "Media Non Profit": per salvare questi giornali - è la richiesta avanzata - serve un provvedimento urgente, da inserire in un decreto o nella Finanziaria.Da Valentino Parlato (presidente della cooperativa), e dai direttori del manifesto Mariuccia Ciotta e Garbiele Polo, il quadro della situazione. Il quotidiano, ricordano, da sempre fa i conti con un affannoso equilibrio economico ma ora ad aggravare la situazione è arrivato il decreto Tremonti, che «pone le basi per la nostra chiusura dopo 37 anni di difficile ma vitale presenza in edicola». Il punto dolente è la trasformazione di un "diritto soggettivo", quello ai finanziamenti, in una "concessione" (che dipende dalle disponibilità del bilancio pubblico). Risultato: la conseguente aleatorietà dei contributi pubblici. «Questo - accusano i direttori del manifesto - ci impedisce di ottenere quelle anticipazioni bancarie sui contributi pubblici, che arrivano - sarebbe meglio dire, arrivavano - con ritardo». In più, col decreto scattano nuovi tagli. Tutte misure, è l´accusa che si è levata dall´assemblea di ieri, che hanno un senso politico più generale: è un attacco alla libertà di stampa e un vulnus per la democrazia. Battaglia difficile per la sopravvivenza a questo punto anche se, come spiegava sul suo giornale il direttore di Liberazione Piero Sansonetti, le vendite del quotidiano non sono affatto crollate (la perdita è di 850 copie, la diffusione è di 8647 copie).Ricardo Franco Levi, ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, critica anche la bozza di regolamento messa a punto dal governo per «eccesso di delega», escludendo il parere anche consultivo delle commissioni parlamentari. Da Paolo Serventi Longhi, direttore di Rassegna Sindacale, ed ex segretario Fnsi, l´idea di una grande mobilitazione. Vincenzo Vita (Pd) annuncia l´intenzione di chiedere in Senato l´audizione del sottosegretario Bonaiuti.

il manifesto 24.9.08
FATECI USCIRE
UNA NUOVA EMERGENZA BUSSA ALLE NOSTRE PORTE.
Ha qualcosa di simile alle tante dei nostri 37 anni di vita, perché sempre di bilanci in rosso si tratta. Ma è molto diversa da tutte le altre che l'hanno preceduta, perché stavolta non si tratta di raccogliere i soldi per sopravvivere ma di trovare le risorse per una battaglia di libertà che non riguarda solo noi. Quello che ci assumiamo e a cui vi chiediamo di partecipare è un compito tutto politico. I tagli ai finanziamenti per l'editoria cooperativa e politica non sono misurabili «solo» in euro, in bilanci che precipitano nel rosso, in giornalisti e poligrafici che rischiano la disoccupazione. Sono lo specchio fedele di una «cultura» politica che, dall'alto di un oligopolio informativo, trasforma i diritti in concessioni, i cittadini in sudditi. Non sarà più lo stato (con le sue leggi) a sostenere giornali, radio, tv che non hanno un padrone né scopi di lucro. Sarà il governo (con i suoi regolamenti) a elargire qualcosa, se qualcosa ci sarà al fondo del bilancio annuale. Il meccanismo «tecnico» di questa controrivoluzione lo abbiamo spiegato tante volte in queste settimane (e continueremo a ricordarlo), ma il senso politico-culturale dell'operazione è una sorta di pulizia etnica dell'informazione, il considerare la comunicazione giornalistica una mercé come tante altre. Ed è la filosofia che ha colpito in questi ultimi anni tanti altri beni comuni, dal lavoro all'acqua. Noi ci batteremo con tutte le nostre forze e pubblicamente contro questa stretta: porteremo questo obiettivo in tutte le manifestazioni dell'autunno appena iniziato, stringeremo la cinghia come abbiamo imparato a fare in 37 anni di vita difficile ma libera, incalzeremo la politica e le istituzioni perché ne va della democrazia, spenderemo l'unico nostro patrimonio, cioè il nostro lavoro, per fornire il supporto giornalistico a questa battaglia di civiltà. E ci apriremo all'esterno ancor di più di quanto abbiamo fatto fino a oggi per raccogliere forze e saperi nuovi e capire come essere più utili a chi si oppone ai poteri che ci vogliono morti. Faremo tutto questo, come sempre e più di sempre. Ma oggi siamo di nuovo qui a chiedere aiuto ai nostri lettori e a tutti coloro che considerano un bene essenziale il pluralismo e la libertà d'informazione. A chiedervi di sostituire ciò che questo governo ci nega con uno sforzo collettivo. In un panorama politico e culturale disastrato, di fronte alla lunga sconfitta che in un ventennio ha smantellato la stessa idea di «sinistra», non ci rassegneremo alla scomparsa. Perché, a differenza del protagonista di «Buio a mezzogiorno» di Arthur Koestler, non crediamo che «morire in silenzio» sia una lodevole testimonianza finale. Se questo governo e i poteri che rappresenta vogliono chiuderci, noi vogliamo riaprire.
CON TUTTI VOI, PERCHE ALTRIMENTI E IMPOSSIBILE.

Repubblica 24.9.08
La crisi morale del capitalismo
di Giorgio Ruffolo


Credo che l´uragano passerà senza travolgere l´economia mondiale. Il segretario di Stato Paulson, quello cui, come dice l´Economist, si rizzano in testa i capelli che non ha, aveva fatto, finalmente, la cosa giusta. Aveva lasciato fallire una grande banca, evitando che gli rovinasse addosso con un altro salvataggio. Subito dopo però ha dovuto cedere alla pressione del mondo finanziario, intervenendo nel ben più costoso salvataggio del colosso assicurativo Aig. Così, una volta ancora, le voragini aperte nel libero mercato saranno colmate dai contribuenti. Quali saranno le conseguenze nessuno, neppure lui, lo sa. C´è chi teme che questo nuovo tremendo colpo possa coinvolgere l´intero sistema. Ma l´economia capitalistica è più forte della devastatrice finanza che ha generato. E tuttavia, questa crisi può essere fatale al capitalismo sotto un aspetto più generale e più profondo.Dal punto di vista strettamente economico, dietro l´inestricabile groviglio delle tecnicalità, c´è una realtà inoppugnabile: la sproporzione dell´indebitamento americano (di tutti, privati, banche, Stato) rispetto al reddito, e della finanza rispetto all´economia reale. Sul perché e sul come abbiamo ragionato tante volte. Non ci torno. È diventato presente ciò che era evidente. Tranne che per gli estatici ammiratori delle tecnicalità finanziarie.Vorrei parlare invece del colpo mortale che questa crisi di inizio secolo sta portando al «turbocapitalismo», minandone la credibilità morale. Ogni sistema storico di organizzazione della società ha bisogno di una base di legittimazione morale. Gli schiaccianti dominatori degli antichi imperi avevano bisogno di un dio che li sovrastasse, loro e le loro piccole regine. Quando i mercanti del Medioevo entrarono nella polis ebbero bisogno di un faticoso compromesso con la Chiesa, da loro abbondantemente finanziata, per superare tortuosamente lo scandalo dell´interesse. L´ideologia economica del nascente capitalismo ebbe origine nelle scuole di filosofia morale. La migliore legittimazione non gli fu offerta però dai dubbi princìpi delle virtù weberiane ma da quelli più pratici dell´utilitarismo che insegnavano a trarre dall´egoismo, e non dalla virtù, l´energia necessaria per promuovere la ricchezza, a vantaggio, si diceva, di tutti. Insomma, il capitalismo si giustifica non con le sue premesse, ma con i suoi risultati. E non c´è dubbio che, fino a tutta la metà del secolo ventesimo, i suoi risultati in termini non solo di crescita economica, ma di progresso sociale, siano stati tali, non dico da compensare ma da sopportare gli enormi costi impliciti nella crescita.Ciò che sta succedendo nel mondo ci dice che la promessa di una estensione universale del benessere è incrinata dall´esperienza di un mondo sempre più instabile e ingiusto. Il «miracolo» della finanza internazionale, che ha realizzato enormi spostamenti di ricchezza dai paesi più ricchi ai paesi più poveri si traduce, all´interno di quei paesi, in un gigantesco divario tra i gruppi sociali emergenti e quelli lasciati ai margini. In India l´estrema ricchezza e l´estrema povertà sono aumentate. La stessa cosa sta avvenendo in Cina. Dall´ultimo rapporto della Banca Mondiale risulta che il livello di povertà è aumentato nel mondo a 1,4 miliardi di uomini e di donne, che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno. L´indice Gini della disuguaglianza relativo alla popolazione mondiale è aumentato negli ultimi quindici anni di sette punti, poco meno del 20 per cento. Ma è soprattutto negli Stati Uniti che la disuguaglianza tra classi medie impoverite ed élites arricchite si è imposta. Lo stesso indice Gini che era caduto al 41 per cento nel 1970, è aumentato negli ultimi trent´anni a 47. Ciò che sta succedendo, dice Robert Reich, dice David Rothkorpf, non è solo un aumento delle disuguaglianze, ma una vera e propria secessione sociale: un 1 per cento della popolazione che dispone del 40 per cento del prodotto nazionale. Ma che c´entra tutto questo con i disastri finanziari di oggi? Moltissimo. Negli ultimi venti anni è proprio l´allocazione delle risorse della economia guidata dai mercati finanziari che si è tradotta in termini reali in un aumento delle disuguaglianze e in una devastante pressione sulle risorse naturali: in direzione opposta ai bisogni reali dell´umanità. Nel più ricco e indebitato paese del mondo, gli Stati Uniti, la sproporzione tra i guadagni dei condottieri delle grandi imprese, anche quelli che le hanno portate al disastro, e la gente comune sono diventati sbalorditivi. Le risorse mondiali sono state indirizzate da un sistema finanziario poderoso verso un gigantesco indebitamento, sostenuto da un credito sfrenato. Il nome turbocapitalismo si adatta bene a questo sistema sventato. La spesa mondiale annuale della pubblicità che alimenta i consumi e l´inquinamento, ammonta a 500 miliardi di dollari, quella della ricerca sanitaria a 70 miliardi. A 62 miliardi quella destinata dai paesi ricchi ai paesi poveri. Ripeto: non credo che siamo alla vigilia di un nuovo collasso capitalistico. L´economia mondiale dispone di immense risorse mobilitabili nell´emergenza. Siamo di fronte però al fallimento morale di una promessa. Quando un sistema perde la sua legittimazione etica, perde anche la sua vitalità storica. Un sistema fondato sulla dissipazione e sulla ingiustizia ha il futuro contato.Poco meno di trent´anni fa un brillante economista inglese immaturamente scomparso, Fred Hirsch, scrisse un libro profetico: i limiti sociali allo sviluppo. Ciò di cui soprattutto il capitalismo soffre, egli affermava, era uno sbriciolamento della sua base morale. Ciò di cui soprattutto aveva bisogno, era «un rientro morale». Non se ne vedono le tracce.

Repubblica 24.9.08
Il pensiero sbrigativo
La destra che sceglie di semplificare
La richiesta del maestro unico rivela un'avversione per la complessità
La pedagogia e la didattica sono giudicate come fastidiose complicazioni


La pedagogia e la didattica, così come sono andate evolvendosi nell´ultimo mezzo secolo, sono avvertite come discipline "di sinistra" non tanto e non solo per il tentativo di sostituire alla semplificazione autoritaria orientamenti più aperti, e a rischio di permissivismo "sessantottesco". Sono considerate di sinistra perché complicano l´atteggiamento educativo, aggiungono scrupoli culturali ed esitazioni psicologiche, si avvitano attorno alla collosa (e odiatissima) materia della correttezza politica, esprimono un´idea di società iper-garantita e per ciò stesso di ardua gestione, e in buona sostanza attentano al desiderio di tranquillità e di certezze di un corpo sociale disorientato e ansioso, pronto ad applaudire con convinzione qualunque demiurgo, anche settoriale, armato di scure. In questo senso la proposta Gelmini è quasi geniale. L´idea-forza, quella che arriva a una pubblica opinione sempre più tentata da modi bruschi, però semplificatori, è che gli arzigogoli "pedagogici", per giunta zavorrati da pretese sindacali, siano un lusso che la società non può più permettersi. Il vero "taglio", a ben vedere, non è quello di un personale docente comunque candidato - una volta liquidati i piloti, o i fannulloni, i sindacalisti o altri - al ruolo di ennesimo capro espiatorio. Il vero taglio è quello, gordiano, del nodo culturale. La nostalgia (molto diffusa) della maestra unica è la nostalgia di un´età dell´oro (irreale, ma seducente) nella quale la nefasta "complessità" non era ancora stata sdoganata da intellettuali, pedagogisti, psicologi, preti inquieti, agitatori politici e cercatori a vario titolo del pelo nell´uovo. Una società nella quale il principio autoritario era molto aiutato da una percezione dell´ordine di facile applicazione, nella quale il somaro era il somaro, l´operaio l´operaio e il dottore dottore. Una società che non prevedeva don Milani, non Mario Lodi, non Basaglia, ovviamente non il Sessantotto, e dunque, nella ricostruzione molto ideologica che se ne fa oggi a destra, è semplicemente caduta vittima di un agguato "comunista". In questo schemino, semplice ed efficace, la cultura e la politica, a qualunque titolo, non sono visti come interpreti dei conflitti, ma come provocatori degli stessi. Se la pedagogia "permissiva" esiste, non è perché il disagio di parecchi bambini o la legnosità e l´inadeguatezza delle vecchia didattica richiedevano (già quarant´anni fa) di essere individuati e affrontati, ma perché quello stesso problema è stato "creato" da un ceto intellettuale e politico malevolmente orientato alla distruzione della buona vecchia scuola di una volta. Insomma, se la politica è diventata un format, come ha scritto Edmondo Berselli, la sua parola d´ordine è semplificazione.Per questa destra popolare, e per il vasto e agguerrito blocco sociale che esprime, la complicazione è un vizio "borghese" (da professori, da intellettualoidi, beninteso da radical-chic, e poco conta che il personale scolastico sia tra i più proletarizzati d´Italia) che non possiamo più permetterci, e al quale abbiamo fatto malissimo a cedere. Non solo la pedagogia, anche la psicologia, la sociologia, la psichiatria, nella vulgata oggi egemone, non rappresentano più uno strumento di analisi della realtà, quanto la volontà di disturbo di manipolatori, di rematori contro, di attizzatori di fuochi sociali che una bella secchiata d´acqua, come quella della maestra unica, può finalmente spegnere. La lettura quotidiana della stampa di destra - specialmente Libero, da questo punto di vista paradigma assoluto dell´opinione pubblica filo-governativa - dimostra che il trionfo del pensiero sbrigativo, per meglio affermarsi, necessita di un disprezzo uguale e contrario per il pensiero complicato, per la massa indistinta di filosofemi e sociologismi dei quali i nuovi italiani "liberi" si considerano vittime non più disponibili, per il latinorum castale di politici e intellettuali libreschi, barbogi, causidici, che usano la cultura (e il ricatto della complessità) come un sonnifero per tenere a freno le fresche energie "popolari" di chi ne ha le scatole piene dei dubbi, delle esitazioni, della lagna sociale sugli immigrati e gli zingari, sui bambini in difficoltà, su chiunque attardi e appesantisca il quotidiano disbrigo delle dure faccende quotidiane. Già troppo dure, in sé, per potersi permettere le "menate" della sinistra sull´accoglienza o il tempo pieno o i diritti dei gay o altre fesserie.La sinistra ha molto di che riflettere: la formazione culturale e perfino esistenziale del suo personale umano (elettorato compreso) è avvenuta nel culto quasi sacrale della complessità del mondo e della società, con la cultura eletta a strumento insostituibile di comprensione anche a rischio di complicare la complicazione... Ma non c´è dubbio che tra il rispetto della complessità e il narcisismo dello smarrimento, il passo è così breve che è stato ampiamente fatto: nessuna legge obbliga un intellettuale o un politico a innamorarsi dell´analisi al punto di non rischiare mai una sintesi, né la semplificazione - in sé - è una bestemmia (al contrario: proprio da chi ha molto studiato e molto riflettuto, ci si aspetterebbe a volte una conclusione che sia "facile" non perché rozza o superficiale, ma perché intelligente e comprensibile). Ma la posta in gioco è molto più importante del solo destino della sinistra. La posta in gioco - semplificando, appunto - è il destino della cultura, degli strumenti critici che rischiano di diventare insopportabili impicci. Se questa destra continuerà a vincere, a parte il marketing non si vede quale delle discipline sociali possa sperare di riacquistare prestigio, e una diffusione non solo castale o accademica. Perché è molto, molto più facile pensare che l´umanità e la Terra siano stati creati da Dio settemila anni fa (cosa della quale è convinta ad esempio la popolarissima Sarah Palin) piuttosto che perdere tempo e quattrini studiando i fossili e l´evoluzione. È molto più rassicurante, convincente, consolante pensare che le buone maestre di una volta, con l´ausilio del cinque in condotta e di una mitraglia di bocciature, possano mantenere l´ordine e "educare" meglio i bambini ipercinetici, e consumatori bulimici, che la televisione crea e che la propaganda di destra ora lascia intendere di poter distruggere, perché è meglio avere consumatori docili (clienti, come dice Pennac) piuttosto che cittadini irrequieti. È meglio avere certezze che problemi.È molto più semplice pensare che il mondo sia semplice, non fosse che per una circostanza incresciosa per tutti: che non lo è. Il mondo è complicato, l´umanità pure, i bambini non parliamone neanche. Se le persone convinte di questo obbligatorio, salutare riconoscimento della complicazione non trovano la maniera di renderla "popolare", di spiegarla meglio, di proporne una credibile possibilità di governo, di discernimento dei principi, dei diritti, dei bisogni fondamentali, diciamo pure della democrazia, vedremo nei prossimi decenni il progressivo trionfo dei semplificatori insofferenti, dei Brunetta, delle Gelmini, delle Palin. Poi la realtà, come è ovvio, presenterà i suoi conti, sprofondando i semplificatori nella stessa melma in cui oggi si dibattono i poveri complicatori di minoranza. Nel frattempo, però, bisognerebbe darsi da fare, per sopravvivere con qualche dignità nell´Era della Semplificazione, limitandone il più possibile i danni, se non per noi per i nostri figli che rischiano di credere davvero, alla lunga, al mito reazionario dei bei tempi andati, quando la scuola sfornava Bravi Italiani, gli aerei volavano senza patemi, gli intellettuali non rompevano troppo le scatole e la cultura partiva dalla bella calligrafia e arrivava (in perfetto orario) alla più disciplinata delle rassegnazioni. Cioè al suo esatto contrario.

Corriere della Sera 24.9.08
Lo scrittore Marani ha vissuto a Helsinki
«I finlandesi vivono armati Imparano al catechismo»
di Roberto Rizzo


MILANO — Perché in Finlandia ci sono 56 armi ogni 100 abitanti e il Paese è il terzo al mondo per possessori di armi da fuoco? «I finlandesi sono armati per abitudine. L'abitudine alla minaccia russa, il nemico tradizionale, il potenziale invasore. È un timore ancestrale che connota tutta la storia della Finlandia. Questo non giustifica la presenza di armi in casa, ma stiamo parlando di un popolo guerriero e abituato alla resistenza».Diego Marani, scrittore ( L'amico delle donne, il suo ultimo romanzo per Bompiani), traduttore e profondo conoscitore della realtà finlandese ( Nuova grammatica finlandese è il titolo di uno dei suoi libri più celebrati), ha vissuto per lunghi periodi a Helsinki.«Senza dimenticare che anche la natura ha un suo peso».In che senso? «Che nei boschi ci sono orsi e altri animali selvaggi pronti ad attaccare l'uomo. Ecco perché non c'è da stupirsi se un finlandese se ne va in giro armato».Un conto è la natura, un altro è entrare in una scuola e fare una strage. «Certo, ma parliamo di un popolo particolare, legato alle proprie tradizioni. La modernità ha allontanato i finnici dalla loro vera natura, più vicina a quella orientale che alla nostra. Sono persone che comunicano poco tra di loro, la socialità è difficile, Internet ha scavato solchi ancora più profondi. E poi c'è l'addestramento».Che tipo di addestramento? «Militare. Il servizio di leva e l'insegnamento religioso sono una cosa sola. Sono luterani e il luteranesimo è duro, nazionalista e anticomunista. Per noi ha dell'incredibile, ma a catechismo si impara a sparare. Nelle scuole ai ragazzi si dà una formazione militare, vigono regole da caserma. Inoltre, la maggior parte dei finlandesi fa parte di associazioni di ex militari. Quella delle ex Guardie di frontiera è una delle più numerose».Dopo la strage di un anno fa non c'è stato alcun dibattito in seno alla società finlandese sulla diffusione delle armi? «C'è stato, ma non sul problema delle armi. Ciò che ha turbato di più è stato scoprire la perdita dell'innocenza, ritrovarsi in un clima di violenza simile a quello che si respira nelle città americane. Questo è stato il vero shock in un Paese dove, ancora oggi, in pochi chiudono a chiave la porta di casa».Diego Marani Roberto Rizzo

Corriere della Sera 24.9.08
A Roma. I pm indagano sulla rete dei guerriglieri colombiani. Tra i contatti l'ex parlamentare Mantovani
Farc, inchiesta sugli «amici» italiani nel Prc
di Alessandra Coppola


ROMA — La Procura di Roma ha aperto un'inchiesta sulla «rete italiana» delle Farc, coordinata dal procuratore capo Giovanni Ferrara e condotta dal sostituto Angelantonio Racanelli. Ancora una fase iniziale, non ci sono né indagati né ipotesi di reato. Ma è cominciato un «lavoro approfondito» su un materiale denso e voluminoso arrivato all'autorità giudiziaria dall'Ambasciata colombiana attraverso la Farnesina, con l'intento di verificare collegamenti e contatti. E accertare eventuali responsabilità.Proprio ieri Bogotà ha consegnato al ministero degli Esteri il secondo e ultimo dossier: 1.200 pagine di email e documenti di Word trovati nei computer di Raul Reyes, il numero due della guerriglia colombiana ucciso dall'esercito a marzo, nelle quali compaiono riferimenti all'Italia e ad «amici» italiani, in particolare a esponenti di Rifondazione comunista. Un materiale che da molte parti è stato messo in dubbio, perché suscettibile di manipolazioni. Bogotà ne difende l'attendibilità ed esibisce una certificazione dell'Interpol.Nella ricostruzione del governo colombiano al numero due delle Farc (responsabili di centinaia di sequestri, tra cui quello di Ingrid Betancourt) faceva riferimento una complessa rete internazionale. Di cui avrebbero fatto parte politici di Rifondazione, si fanno i nomi di Ramon Mantovani e Marco Consolo. E un non meglio identificato «Max», dell'associazione «Nuova Colombia» di Torino.Di una stretta relazione politica e di amicizia personale con Reyes, avviata prima che la guerriglia (nel 2002) fosse inserita da Ue e Onu nella lista dei terroristi, gli esponenti di Rifondazione non fanno mistero. Un rapporto fitto di email che avveniva «alla luce del sole» ed era motivato da tentativi di mediazione, sostengono. L'obiettivo era «favorire il processo di pace — così Mantovani, —. Avevamo contatti prima che quel processo fosse interrotto e li abbiamo mantenuti dopo, affinché potesse riprendere».La tesi delle autorità colombiane è che i rapporti andassero oltre, che si trattasse di una vera rete di appoggio, la più importante per le Farc in Europa. Reyes avrebbe usato la parola «cellula»: un nucleo della guerriglia radicato in Italia. Scambio di informazioni, raccolta fondi, aiuto logistico negli spostamenti di guerriglieri (o di loro parenti). E le prove sarebbero in quei file sulla scrivania dei magistrati italiani.