domenica 28 settembre 2008

La mostra di Alessio Ancillai - Rassegna stampa
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Latina Oggi, 42 Lazio Venerdì 26 Settembre 2008
Domani l’inaugurazione della mostra a Sabaudia
Alessio Ancillai,, scrittura di colore
Verso nuovi affascinanti orizzonti di ricerca

«SCRITTURA di Colore_tempo interno», un titolo significativo per la mostra che inaugura il nuovo ciclo di ricerca di Alessio Ancillai, una personale da inquadrare in un progetto ambizioso, tappa ulteriore di un percorso affrontato con una passione che si arricchisce di autentica originalità. Quadri, poesie, videoart dicono dello stile di Ancillai e della sua «poetica», di una evoluzione artistica straordinaria. Domani, alle 18.30, negli spazi eleganti del Museo Greco di Sabaudia, sarà inaugurata la personale, curata da Giorgia Capurso e allestita dal professore Maurizio Maturi, docente della Facoltà di Architettura di Roma. La mostra si apre al visitatore con le sue suggestioni, «voce» interiore di un pittore eclettico e raffinato che si cimenta con tematiche complesse. Ancillai torna ad esporre le sue opere in terra pontina dopo il successo riportato lo scorso anno a Sermoneta, lì dove ha reso arte «Suoni e silenzi» lasciandoli incontrare in un contesto di massima eleganza, e dopo l’affermazione in campo internazionale alla World Fine Art Gallery di New York e al Palazzo dei Congressi di Roma, con la personale «Pagina Bianca». E’ una mostra da vedere «Scrittura di Colore_tempo interno », vi si coglie una profonda ricerca che si sofferma e scandaglia il rapporto tra linea di scrittura e segno pittorico, espresso in immagini latenti di dinamiche interumane. Si è detto dell’originalità dell’artista; avvolge i suoi lavori, li «abita» e si manifesta anche nell’uso del colore, utilizzato come un’attenta esplorazione dell’inconscio. E’un’indagine resa con un’armonia che è allo stesso tempo fusione di sensibilità poetica (Ancillai è anche autore di versi ) e amore per la pittura; il concr etarsi di un’idea che si delinea in segni e forme, figure geometriche che risa l t a n o a m al ga ma ndosi proprio nel colore per rimandare a qualche cosa di indefinito. La personale si avvarrà di un accompagnamento musicale con il concerto del Trio Rhapsody, il 5 ottobre, alle 18.30. L’evento gode del patrocinio del Comune di Sabaudia, della Provincia di Latina, della Regione e del Consiglio regionale del Lazio, della XIII Comunità montana dei Monti Lepini e Ausoni. Prezioso il catalogo che lo accompagna, edito da Iacobelli con testi di Giorgia Capurso, Noemi Ghetti, Luca Marrucci. La mostra rimarrà aperta al pubblico sino al prossimo 11 o t t o b r e , p e r i n f o : 0773/514258 - 0773/515791. In contemporanea con l’esposizione a Sabaudia, Ancillai è presente con una sua video installazione presso il Micro Museum di Brooklyn.
Francesca Del Grande

Alessio Ancillai vive e lavora a Roma ed esprime la sua ricerca nel campo della pittura, poesia e videoarte; ha effettuato studi di medicina presso «La Sapienza» e ha avuto esperienze lavorative legate alla ricerca sulla psiche umana. Si cimenta nella pittura dal 1993, dall’età di 20 anni. Espone dal 2000 in numerose mostre sia personali che collettive










la copertina del cd del gruppo che suonerà domenica 5 ottobre nei locali della mostra
Repubblica 28.9.08
Austria oggi al voto, destra favorita Haider: "È il nuovo vento d'Europa"
di Andrea Tarquini


La gente vuole più sicurezza, ordine pubblico, meno caos. Sono temi nostri, non delle sinistre

Berlino - «Le elezioni politiche anticipate di oggi in Austria potranno essere un segnale per le forze nazionalconservatrici nel Vecchio continente, è ora di trovare intese in vista delle elezioni europee». Così Joerg Haider, leader storico della destra radicale austriaca e governatore della Carinzia. Fallita la grande coalizione a guida socialdemocratica, i sondaggi annunciano un forte calo dei due maggiori partiti, ma col suo nuovo leader Werner Faymann la Spoe è in vantaggio sui cristianopopolari di Wilhelm Molterer. E volano i due partiti di destra radicale: la Bzoe di Haider all´8% e la Fpoe del suo rivale-discepolo Hans Christian Strache dal 17 al 18.
Qual è la posta in gioco oggi per il vostro paese e per l´Europa?
«La mia priorità è rafforzare redditi reali e potere d´acquisto. La congiuntura piatta lo impone. Bisogna rilanciarla pensando a qualche sgravio fiscale. Poi ci vuole un´iniziativa per la sicurezza del lavoro nelle piccole e medie imprese».
Voteranno anche i sedicenni. Quanto è importante?
«In Carinzia abbiamo introdotto il voto a 16 anni già tre anni fa, e l´esperimento si è rivelato molto positivo».
Lei da queste elezioni si aspetta un segnale anche per i partiti nazionalconservatori in tutta Europa?
«Non si può paragonare ogni singola situazione nazionale a un´altra, ma sicuramente dall´Austria verrà un segnale di rafforzamento per tutte le forze politiche che in Europa si collocano chiaramente a destra. I partiti di sinistra, socialdemocratici e verdi, non andranno bene. E sarà un segnale della realtà che in Europa intera è cambiato il vento».
In che senso?
«Le sinistre versano in cattive acque quasi ovunque in Europa. La gente vuole più sicurezza, più ordine pubblico, meno caos, e sui mercati finanziari meno speculazioni e meno imbrogli. Questi sono i temi che caratterizzano la politica delle destre, non delle sinistre».
L´anno prossimo si terranno le elezioni europee. Le sembra giunto il momento di unire le destre radicali in un gruppo unico al Parlamento europeo o non ancora?
«E´ quanto cercheremo di fare, perché per la prima volta c´è la possibilità di organizzare candidature comuni oltre le frontiere, e potremmo formare un gruppo parlamentare relativamente forte».
Immigrazione, criminalità, estremismo islamico: quanto contano questi temi sul voto di oggi?
«Sono temi importanti. Noi siamo l´unico partito che chiede il ripristino dei controlli alle frontiere austriache, e questa posizione ha molto favore nell´elettorato. Così si può combattere l´ingresso della criminalità nei nostri confini. E molto popolare è anche la politica attuata da me in Carinzia: gli stranieri criminali vanno espulsi».
I due partiti della destra radicale - il suo, cioè la Bzoe, e la Fpoe di Hans Christian Strache - sono rivali o potenziali futuri partner?
«Dopo le elezioni si può arrivare a una cooperazione in Parlamento o anche in un governo».
Quando il suo partito andò al governo la prima volta la Ue varò sanzioni contro l´Austria. Teme che ciò si ripeta?
«No, credo che la Ue abbia imparato quella lezione. E che questa volta non interferirà in un´elezione democratica: i risultati elettorali non possono venire corretti da una politica di potenza della Ue».

l’Unità 28.9.08
Austria, quei sedicenni razzisti della porta accanto
di Cinzia Zambrano


Oggi per la prima volta i teenager austriaci andranno alle urne e molti voteranno la destra xenofoba

L’UOMO «NERO» dell’Austria ti guarda dal palco con un sorriso rassicurante e uno sguardo azzurro che ti porta ai Caraibi. Sotto il suo collo, una scritta gialla a caratteri cubitali ci dice: «Ora pensiamo agli austriaci». La brezza esotica dura poco. Heinz-Christian Strache, l’ex odontotecnico dal 2005 leader del partito di estrema destra della Fpoe non c’è. Ma la sua faccia avvolta nella patriottica bandiera rosso-bianca campeggia ovunque, si moltiplica su depliant, palloncini, berretti, magliette distribuiti dai simpatizzanti giunti al quartiere Favoriten, cuore del popolare 10/o distretto abitato da operai e stranieri, per l’ultima chiamata prima del voto di oggi. «È l’unico che dice quello che pensa davvero» chiosa Maximilian mentre elargisce (a pensionati turchi) i gadget del suo idolo.
Classe 1992, è uno dei 93mila giovani tra i 16 e i 18 anni che oggi votano per la prima volta grazie a una legge del 2007, unica in Europa. «Non credo di essere giovane per esprimere la mia posizione politica, siamo ragazzi informati... L’Italia dovrebbe prendere esempio». Altre latitudini, altro pragmatismo politico.
Qui sono proprio loro, i giovani, circa 200mila teenager, pari al 3 per cento dell’elettorato, che potrebbero fare la differenza. Marcando una nuova virata a destra dell’Austria. Già messa sul banco degli imputati nel 2000 con la vittoria di Haider. I sondaggi lo annunciano: calo dei socialdemocratici (Spoe) e dei popolari (Oevp) - come ritorsione per un matrimonio, la Grosse Koalition, naufragato dopo 543 giorni di tribolazioni; e impennata dei partiti dell’estrema destra, la Bzoe di Joerg Haider, attestata sul 6-8 per cento, e soprattutto la brutta copia di quest’ultima, la Fpoe del «falco» Strache data sul 17-20 per cento. Un risultato che se confermato farebbe di nuovo tremare l’Austria. E non solo.
Maximilian non ha la testa rasata, né croci celtiche tatuate sulla nuca. Ha una voce da bambino, e parla «da grande»: «I giornali raccontano sempre mezze verità, la Fpoe non è contro gli stranieri in assoluto, ma contro quelli che non si adattano alle regole del Paese che li accoglie». Quali per esempio? «Imparare il tedesco, pagare le tasse... L’errore della Grosse Koalition è che ha permesso l’arrivo di troppi stranieri, gli ingressi vanno limitati». E le accuse a Strache di xenofobia? Non è stato lui a dire: più posti di lavoro meno immigrazione? Maximilian balbetta: «Beh,... ha ragione. Vengono a rubarci il lavoro che potremmo fare noi, vivono alle nostre spalle».
Che Strache sia l’uomo giusto per rimettere le cose a posto non glielo hanno inculcato i suoi, che pure votano Fpoe. «Me ne sono convinto da solo, a scuola parliamo molto di politica. Ma siamo solo in due a votare per Strache - racconta con una smorfia alla bocca - gli altri preferiscono i Verdi». Frequenta il ginnasio, gli piace la storia, legge poco ma ama il cinema soprattutto i film horror. Che di solito vede il sabato pomeriggio con gli amici. Suona il piano e da grande vuole fare il giornalista, o il politico. Prendere il posto di Strache? «Chissà... magari tra 10 anni... ». I sogni dei sedicenni si assomigliano. A Vienna come a Roma.
È arrivato al gazebo alla spicciolata. Racconta dei disordini della sera precedente: «Quelli dell’estrema sinistra ci hanno provocati, qualcuno di noi ha reagito. Io non amo picchiare e condanno chi lo fa», si affretta a precisare. Il bilancio è stato: sei feriti lievi e quattro fermi fra cui un uomo che ha fatto il saluto nazista.
«Questo quartiere è pieno di stranieri, io la sera ho persino paura di tornare a casa», si intromette Astrid, anche lei alla sua «prima volta». Frequenta un istituto professionale, vuole lavorare nel campo delle assicurazioni. E avere dei figli: «Ma non da crescere in un simile ambiente». Il fidanzato, che spera rimanga lo stesso fino al giorno in cui deciderà di mettere al mondo dei bambini, ce l’ha già, è in Carinzia, roccaforte di Haider, «ma l’ho convinto a votare per Strache». Berretto in testa, capelli tenuti insieme da una treccia, Astrid è più agguerrita di Maximilian. Ce l’ha con i turchi e gli egiziani «che hanno invaso il quartiere». La sua classe, denuncia, è al 90% composta da figli di immigrati. Sono violenti? «No, ma non si parla più tedesco. Se Strache diventasse ministro degli Interni farebbe un po’ di pulizia». In che senso? «Non farebbe più entrare nessuno. Così riavremmo le nostre case, che vengono date a loro, e più lavoro per tutti. Invece ci tocca tenerli e anche sfamarli, con le loro famiglie numerose. Non sono l’unica a pensarla così, nella mia classe in 12, la metà, voteremo per Strache».
Quanti ancora seguiranno le orme di Astrid e Maximilian lo sapremo solo oggi. Anche se sul dato definitivo pesa l’incognita del voto per posta, il cui spoglio definitivo è previsto per il 6 ottobre. Due per ora le cose certe: in una campagna piuttosto soporifera, che probabilmente si concluderà con una riedizione della Grosse Koalition, l’estrema destra con i suoi accenti xenofobi ha catturato naziskin, ragazze e mamme impaurite, studenti che vogliono un futuro più sicuro. L’altra è, l’indecisione che «affligge» ancora il 40 per cento degli elettori. Un dettaglio che non sfugge all’uomo «nero». Guardando il palco sembra vederlo muovere le labbra e ripetere le parole del cantante: «Scegli me e non sarai più solo».

l’Unità 28.9.08
Kiryat Arba, nella terra degli oltranzisti ebrei
di Umberto De Giovannangeli


VIAGGIO NELLA COLONIA dove il killer di Rabin è un mito e le ragazzine gli scrivono lettere d’amore. Perché chiunque tratti con gli arabi, i «nemici», è un traditore, quindi deve essere ucciso. E adesso nel mirino della destra oltranzista potrebbe finirci la premier ad interim Tzipi Livni.

Il padre spinge il figlio tredicenne davanti alla tomba. Il ragazzino è incerto, intimidito da quella solenne cerimonia troppo grande e incomprensibile per lui. «Vai Melchior», ripete il padre. Alla fine Melchior si decide e, come nell’usanza ebraica, prende un sasso e lo deposita sulla tomba di quello che Moshe, il padre, gli ha sempre descritto come un eroe di Israele. Kiryat Arba (l’antico nome di Hebron), avamposto di «Eretz Israel» in Cisgiordania, custodisce gelosamente le spoglie di Baruch Goldstein, il medico-colono ebreo venuto dall’America che, il giorno del Purim di 14 anni fa, abbracciò moglie e figli e partì, mitra in spalla, per l’ultima missione della sua vita: massacrare, prima di essere massacrato, decine di fedeli musulmani in preghiera nella moschea della Tomba dei Patriarchi a Hebron (i morti furono 29). E di «Baruch re di Israele» era uno strenuo ammiratore Yigal Amir, il giovane zelota ebreo che il 4 novembre 1995 assassinò, sparandogli alle spalle, il premier israeliano Yitzhak Rabin.
Per i giovani di Kiryat Arba, Yigal Amir è un eroe, al quale indirizzare centinaia di lettere intrise di amore, di passione. «Altro che assassino! Yigal sarebbe un marito perfetto. È bello, coraggioso, fu l’unico capace di salvare Israele da chi lo voleva tradire, a costo di rischiare il tutto per tutto». Fanno scalpore le dichiarazioni di tre liceali di Kiryat Arba al primo canale della televisione: «Di lui collezioniamo ogni cosa. I ritagli di giornale con le sue foto. Le registrazioni del processo. Il suo sorriso al momento della condanna all’ergastolo». Una di loro, Inbal Buchris, mostra il diario con le copie delle lettere di passione inviate al «mio Yigal» nella cella di isolamento del carcere di Beersheva. «Lo amo con tutto il cuore. Iniziai ad amarlo dal primo giorno del processo e non lo abbandonerò mai», confessa alla telecamera. E la mamma di Yigal, Geula, conferma: «Mio figlio riceve mensilmente lettere da centinaia di ammiratrici. Sono di ogni età , giovanissime e signore attempate. Le ha stregate».
Ammirazione infinita. Scioccante. La stessa provata per Baruch Goldstein: le sue foto come le copie di «Baruch Hagever», il libro di poesie e preghiere elogiative di Goldstein, continuano ad andare a ruba nella roccaforte dei paladini di Eretz Israel. Quattordici anni dopo, la tomba di Baruch Goldstein, è ancora meta di «pellegrinaggio» dei militanti dell’estrema destra. C’è chi si ferma a pregare, chi deposita bigliettini, chi esalta la figura di Baruch come «un vero figlio di Israele, che ha sacrificato la sua vita per i veri ideali dell’ebraismo». Cohen Shmul, emigrato dall’America, ricorda così il compagno di studi: «Goldstein era il più buono di tutti noi, un uomo perfetto. Nessuno sarebbe stato capace di fare quello che ha fatto lui. C’è una differenza tra uccidere e assassinare: qualche volta uccidere è necessario». Anette Arel, 8 figli, il marito impiegato all’ufficio postale, lo interrompe: «Si può vivere venendo presi ogni giorno a sassate, con la paura di uscire di casa, sempre sotto scorta? C’è una sola soluzione: cacciare gli arabi. Hanno una trentina di posti nel mondo, mentre per gli ebrei c’è un posto solo: questo». Shlomo, il barista che prepara il kebab per i soldati di guardia all’ingresso del villaggio, taglia corto: «Il posto degli arabi è 40 metri sotto terra». Merkahan ha 15 anni. Sguardo deciso, ci fissa intensamente e dice: «Da grande vorrei essere un killer. Un killer di arabi. I miei genitori sono deboli. Vorrebbero andarsene. Io sono nato qui e difenderò la Terra Santa». Devi venire a Kiryat Arba, dopo aver superato una decina di posti di blocco che spezzano la strada da Gerusalemme a Hebron, se vuoi fare i conti con un altro fondamentalismo, certo meno dirompente di quello islamico ma non per questo da sottovalutare: il fondamentalismo ebraico. Non quello ascetico che respiri a Mea Shearim, il quartiere ebraico di Gerusalemme dove il tempo sembra essersi fermato alla Varsavia dell’800 e dove la lingua parlata è l’yiddish. Il fondamentalismo dei coloni di Kiryat Arba è militante, aggressivo, con solidi legami politici, ed usa per diffondere i suoi messaggi gli strumenti della modernità: la radio - Canale 7, l’emittente del movimento degli insediamenti - siti Internet, spazi pubblicitari comprati sui maggiori quotidiani israeliani grazie ai cospicui finanziamenti che gli «oltranzisti della Torah» ricevono dalla componente ultraortodossa della comunità ebraica americana, la stessa che ha pagato, e continua a farlo, il collegio di difesa di Yigal Amir. Qui a Kiryat Arba, la parola dialogo è impronunciabile, l’ipotesi di uno Stato palestinese una minaccia mortale, e i pacifisti israeliani, come lo storico Zeev Sternhell vittima di un attentato che mirava alla sua vita, altro non sono che «spregevoli quinte colonne dei terroristi di Hamas infiltrate tra il popolo ebraico». Dei traditori, da trattare con disprezzo e, se il caso, eliminare. Come accadde per Yitzhak Rabin.
Il tempo non ha rimosso l’odio degli estremisti ebraici nei confronti di Rabin: «Rabin, che il suo nome sia cancellato, ha armato, con gli accordi di Oslo, trentamila palestinesi e ha messo a rischio l’integrità territoriale e la sicurezza di Israele», tuona ancora Michael Ben-Horin, autonominatosi successore di Baruch Goldstein come «Re di Giudea». Qui, a Kiryat Arba, c’è chi brindò quando la radio dette notizia dell’ictus che aveva colpito Ariel Sharon, anche lui un «traditore» per aver ordinato il ritiro unilaterale da Gaza: «Ancora una volta è stato dimostrato che chi tocca la Terra d’Israele viene colpito a sua volta», ricorda Itamar Ben-Gvir, che a quei «festeggiamenti» partecipò. Sinistre invettive che oggi investono la premier incaricata, Tzipi Livni. «Di buono - taglia corto Ben-Horin - ha solo la famiglia da cui proviene, dei veri timorati di Dio. Per il resto, ha solo inanellato una serie di cedimenti, a partire dal sostegno che ha dato al ritiro da Gaza». Non sono solo parole. La premier incaricata è entrata nel mirino dei militanti della «Spada di Dio», uno dei gruppi armati dell’oltranzismo ebraico. Qui a Kiryat Arba non esistono avversari ma solo Nemici. Non si tratta di un fanatismo isolato, tanto meno di «folclore» ideologico-religioso.
Un recente rapporto dello Shin Bet (il servizio di sicurezza interno israeliano) calcola in almeno 30-40mila il numero dei coloni oltranzisti. In una realtà politica frammentata come quella di Israele, l’estrema destra - di cui i coloni oltranzisti sono la punta più radicale - pesa negli equilibri di potere, orienta le politiche statali, condiziona le aperture al negoziato, rivendica posti chiave nel governo d’Israele. I «nuovi zeloti» combattono una nuova «guerra giudaica», nella quale non c’è spazio per chi cerca di capire le ragioni dell’altro. Chi lo fa ha il marchio d’infamia del traditore. In questa «guerra giudaica», la posta non è solo una parte di territorio, seppure carico di una grande valenza simbolica, e possibile patria per un altro popolo, ma il mantenimento dello stesso carattere democratico dello Stato. Quella che si manifesta nelle roccaforti dell’ultradestra ebraica è una metastasi che potrebbe intaccare il corpo sano di Israele, la sua democrazia. «Guai a sottovalutarli o a considerare questi individui dei semplici fanatici della parola. La tragedia di Rabin deve esserci da insegnamento» avverte Abraham Bet Yehoshua, tra i più affermati e impegnati scrittori israeliani contemporanei. «Vi sono non uno ma due conflitti profondi in Israele: il primo sul processo di pace, il secondo sul rapporto fra l’idea religiosa e l’idea laica dello Stato - aggiunge Eli Barnavi, storico, già ambasciatore d’Israele a Parigi -. Oggi i due conflitti si sono collegati, e le strutture della democrazia israeliana saranno sottoposte a tensioni fortissime. Questo è un momento cruciale per la nostra democrazia». Kiryat Arba racchiude in sé, anche fisicamente, l’idea di Israele propria della destra nazional-religiosa: un ghetto super armato, impermeabile a qualsiasi «contaminazione» culturale esterna, in guerra con il mondo dei Gentili. In questo avamposto di «Eretz Israel» s’impara sin da piccoli a convivere con la morte. Cancelli presidiati, ingressi inaccessibili. I bambini di questo, come di ogni altro insediamento ebraico in Cisgiordania, vivono una vita blindata, da reclusi. Blindato è il pullman che li accompagna a scuola, blindato è l’edificio in cui i bambini di Kiryat studiano, giocano, cercando di distrarsi. Ma più che un campo di gioco, il cortile della scuola sembra un campo di battaglia: sacchi di sabbia all’entrata dell’edificio, grate di ferro alle finestre, soldati che montano la guardia ininterrottamente. I coloni sono prigionieri di se stessi. Da qui non se ne andranno mai, giurano, Ma il prezzo è vivere col mitra a tracolla e uscire sotto scorta. Dice David Wilder, leader dei coloni di Hebron, 55 anni, sette figli e nove nipoti: «La lotta che stiamo combattendo qui non è politica. Non è nemmeno una lotta economica. È religiosa. E quando le cose stanno così, sei pronto a tutto». Ogni discorso che ascoltiamo è impastato da un messianismo estremizzato in cui ad essere centrale non è tanto «Medinat Israel», lo Stato d’Israele, quanto «Medinat Halakah», lo Stato della Legge religiosa. L’unica che conta a Kiryat Arba. Per la quale si pronti a tutto. Anche ad uccidere.

Corriere della Sera 28.9.08
Identità. Aristotele definì l'uomo un «animale politico». Oggi le neuroscienze spiegano perché si realizza pienamente solo nella collettività
Così la società cambia la struttura del cervello
Il rapporto con gli altri modifica materialmente gli individui
di Edoardo Boncinelli


Le potenzialità genetiche degli analfabeti di diecimila anni fa sono analoghe a quelle degli individui alfabetizzati di oggi

Nel cercare di definire e mettere a fuoco l'essenza della natura umana è opportuno, secondo me, distinguere fin dall'inizio la natura dell'individuo singolo da quella del collettivo umano, vale a dire di ciò che si è come parte di una società che possiede una cultura e una storia. In estrema sintesi: come singoli siamo animali — con caratteristiche tutt'affatto peculiari, ma sempre animali — prodotto di un'evoluzione biologica millenaria di natura fondamentalmente erratica; mentre il collettivo umano, e con lui l'individuo che vi appartiene, mostra un carattere storico ed è figlio di una continuità culturale, longitudinale e trasversale al tempo, che non ha l'eguale in nessun'altra realtà.
Le moderne neuroscienze hanno, in particolare, definito sempre meglio le caratteristiche della nostra mente e del nostro comportamento come singoli e hanno fornito e stanno fornendo una lezione interessantissima e tutt'altro che da trascurare. Non possiamo però dilungarci qui su questi aspetti, che vanno dalla natura del nostro apparato percettivo a quella della nostra facoltà del linguaggio e della nostra razionalità. Ma l'uomo è caratterizzato soprattutto dalla sua dimensione collettiva. Nel collettivo l'uomo trova la sua cifra più vera e letteralmente unica. Nessuno da solo può raggiungere una qualsiasi conclusione che sia diversa da quanto gli fanno credere i suoi sensi, ma un collettivo sì. Le conclusioni dei singoli possono essere avallate, contraddette o corrette da un collettivo di uomini operanti in un sufficiente lasso di tempo. Da soli non avremmo una logica, che è una costruzione eminentemente collettiva, visto che nessuno di noi è perfettamente logico. Da soli non avremmo una scienza, prodotto di una continua interazione fra uomini e fra uomini e cose. Da soli non avremmo una storia né la capacità di conoscere fatti di terre lontane. Anche se ci impegnassimo allo spasimo, ciascuno di noi non vive abbastanza per raggiungere da solo tali obiettivi.
Aristotele definì a suo tempo l'uomo un «animale politico» cogliendo così allo stesso tempo l'aspetto della sua socialità e della sua interattività. L'uomo è in effetti un animale sociale, anche se meno perfetto dei membri di altre specie, come ad esempio gli insetti sociali, ma il punto è che l'uomo deve assolutamente essere sociale per essere uomo. Non tanto e non solo perché vivere in comunità è utile per condurre una vita migliore, ma perché è il vivere in un collettivo, almeno per un lungo periodo iniziale, che fa di un essere umano un essere umano. Si direbbe piuttosto un animale sociale obbligato o meglio ancora un animale culturale obbligato, animale della famiglia, del gruppo e della polis.
Se accettiamo la dicotomia, che è al tempo stesso anche una complementarietà, tra individui singoli e collettivo umano, sembra inevitabile una domanda: come può la dimensione culturale collettiva retroagire così profondamente sulla natura di ciascuno individuo da rendere tutti noi uomini quelle creature tanto uniche che siamo? Alla nascita nessuno di noi è un figlio del suo tempo e forse neppure un uomo come ci piace intenderlo. A tre anni è certamente un essere umano a pieno titolo e a cinque-sei è generalmente un figlio del suo tempo, anche se ha ancora tante cose da imparare. Che cosa è successo in questo periodo? È successo qualcosa di molto particolare e veramente unico. L'interazione continua con le persone che lo circondano e la comunicazione verbale e non verbale che ha animato il suo piccolo mondo hanno materialmente cambiato il suo cervello e contribuito giorno per giorno a proteggere e rinsaldare i risultati di tale cambiamento.
Non conosciamo tutti i dettagli dei processi che hanno luogo in ciascuno di noi durante questo periodo, ma sappiamo che alla nascita il cervello dell'essere umano non è ancora completamente sviluppato. Noi nasciamo con un cervello ancora piuttosto piccolo, rispetto a quello che sarà poi, e che ha bisogno di anni per raggiungere il suo pieno sviluppo. Come conseguenza di questa nostra particolarità, il nostro cervello finisce di svilupparsi mentre si trova già in contatto con il mondo esterno tramite gli occhi, gli orecchi, l'epidermide e tutti i terminali sensoriali.
Quanto è potente quest'azione? E soprattutto che tipo di realtà instaura, che non ha l'eguale in nessun'altra? La trasformazione dell'animale uomo in un essere fondamentalmente culturale non è un prodotto diretto dei suoi geni, ma accade per ogni essere umano dalla notte dei tempi. È un evento necessario ma non geneticamente codificato e con uno sbocco necessariamente un po' diverso da epoca a epoca, da luogo a luogo, da individuo a individuo. Ha tutta l'aria di un corto circuito che s'innesca ogni volta partendo da zero e non lascia traccia. Un fenomeno nuovo, non facile da inquadrare, ma non impossibile da immaginare. Si consideri la scrittura. Diecimila anni fa nessuno scriveva e anche oggi c'è gente che non sa né leggere né scrivere. Le potenzialità genetiche sono le stesse negli analfabeti di ieri e di oggi come in chi al presente legge e scrive quotidianamente. La differenza è fatta dall'ambiente umano nel quale ci si trova a crescere e poi a vivere. Quando nessuno sapeva scrivere era normale vivere una vita che prescindesse da tale attività. Tutto era organizzato in modo da funzionare anche senza la notazione scritta.
Nelle regioni dov'è stata inventata la scrittura, però, è cominciata un'opera d'informazione e di formazione che ha portato i ragazzi ad apprendere molto presto gli elementi del leggere e dello scrivere. Questa pratica, che coinvolge tanto un apprendimento cognitivo esplicito quanto uno procedurale e irriflesso, si è così diffusa, mantenuta e propagata. Una volta inventata, la scrittura ha interessato e interessa un numero enorme di persone perché queste sono state precocemente immerse in un flusso di informazione che non si arresta. È utile che uno sappia scrivere, ma non è tuttavia necessario, né biologicamente né a volte purtroppo socialmente. C'è bisogno, per così dire, di un «innesco»; mentre una volta innescato, il processo si mantiene da solo, anche se a costo di un notevole sforzo organizzativo collettivo. Potrebbe anche darsi che pure il linguaggio parlato sia stato un processo che ha avuto bisogno originariamente di un innesco e che si mantenga attraverso il suo uso continuato.
Ogni individuo di ogni generazione diviene quindi un individuo umano grazie alla sua precoce immersione in un ambiente di esseri umani che, nonostante le loro peculiarità e le loro tradizioni, condividono alcuni tratti cognitivi e comportamentali comuni inconfondibilmente umani. Quest'immersione ha luogo quando ancora il cervello di ogni individuo è immaturo e capace di andare incontro ad un complesso di micromodificazioni di un certo tipo piuttosto che a quelle di un altro. Il mondo umano circostante si stampa in sostanza nel corpo e nel cervello di ciascuno di noi.

l’Unità 28.9.08
Demografia: il mostro italiano
di Roberto Volpi


Il dato è questo: in Italia bambini, ragazzi e adolescenti fino a 18 anni d’età rappresentano un misero 17% della popolazione, una persona su sei. In compenso gli anziani con 65 e più anni hanno superato quota 20%, una persona su cinque. Siamo il paese che detiene i seguenti primati planetari: (a) la più bassa proporzione di bambini e giovani non ancora maggiorenni nella popolazione (b) il maggiore indice di vecchiaia, dato dal rapporto tra anziani di 65 e più anni e bambini e ragazzi fino a 14 anni d’età: 142 dei primi ogni 100 dei secondi. Bel numero. Siamo una mostruosità demografica di cui non c’è l’eguale nel mondo. Nel complesso dei 27 paesi dell’Unione Europea la proporzione di minorenni nella popolazione è del 20,5% e il rapporto di vecchiaia è attorno a 100. Per avere la stessa proporzione di minorenni che si riscontra in Europa, peraltro l’area del mondo dove questa proporzione è più bassa, l’Italia dovrebbe avere non i dieci milioni scarsi di minorenni che ha ma oltre dodici milioni. E tutto è in peggioramento: si viaggia cioè verso sempre minori contingenti di giovani e maggiori contingenti di anziani. Le previsioni demografiche sono pessime. Tanto che nessuno capisce chi e come terrà in piedi il nostro paese (il primo della lista dei paesi a rischio demografico) di qui a 40-50 anni. E ciò nonostante che forti contingenti d’immigrati, giovani nel pieno degli anni e che mettono al mondo mediamente il doppio dei figli degli italiani, siano arrivati e continuino ad arrivare a darci man forte su questo terreno che si presenta per noi con caratteristiche di drammaticità. Ma una drammaticità non avvertita come tale: non dai governi, che non sono arrivati neppure a sfiorare il problema, non dalla cultura italiana, che invece l’ha ignorato e continua a farlo convinta com’è, almeno nella sua maggioranza, che non ci sia al riguardo problema di sorta. A proposito di cultura, al contrario, appaiono sempre più di frequente saggi che non solo pretendono di dare dignità alla scelta di non fare figli - e fin qui poco da eccepire, ciascuno la pensa come crede - ma di far passare questa scelta come l’unica razionale in una duplice direzione: per consentire alla donna di portare a compimento il processo della sua piena emancipazione e per contrastare il problema su scala planetaria della sovrappopolazione. Sul primo aspetto: è in atto da un po’ d’anni in tutta l’Europa del Nord e continentale una ripresa della fecondità e non risulta che questo vada a scapito della posizione delle donne di quei Paesi. Semmai, il contrario. Quanto alla sovrappopolazione: cinquant’anni fa l’Europa aveva gli stessi abitanti che ha oggi. Se si tolgono gli immigrati, anzi, un bel po’ di meno. L’Africa, per dire, è passata nel frattempo da 200 a 800milioni di abitanti. Dunque, c’entriamo qualcosa noi italiani ed europei con la sovrappopolazione? Non bastasse, ecco scienziati, medici genetisti biologi, straparlare di vite che possono arrivare fino a 120 anni, come se tutto questo avvenisse o potesse avvenire in una sorta di vuoto pneumatico dove puoi ficcare di tutto, anche vite spostate indifferentemente più in là di decenni e decenni. Forse sarebbe il caso che medici biologi e genetisti si interrogassero sui riflessi catastrofici che avrebbe la realizzazione di una tale prospettiva, a maggior ragione in società come quella italiana dove il numero medio dei figli per donna è così scarso da trent’anni a questa parte da portare di per sé, se pure si fosse in presenza di una vita media stazionaria, e nient’affatto crescente com’è invece oggi, a un invecchiamento insopportabile della popolazione. Ma forse non c’è da prestare troppa attenzione ai proclami di tutti costoro: sull’aumento della vita media verificatosi fino ad oggi, e sono le statistiche di mortalità di lungo periodo a parlare un linguaggio inequivocabile, per chi intenda stare ad ascoltarlo, il contributo di medici genetisti e biologi è stato modesto, tanto modesto da sfiorare se non proprio l’inconsistenza certamente la più assoluta marginalità.

Repubblica 28.9.08
L'eterno ritorno del Papa Re
di Filippo Ceccarelli


La Città Eterna è percorsa da brividi di restaurazione L´incidente del 20 settembre, quando in presenza del sindaco Alemanno sono stati commemorati i soldati pontifici caduti a Porta Pia, non è un fatto isolato Tutto un mondo di gruppuscoli clericali e antirisorgimentali è in agitazione. Il messaggio corre anche su Internet...
Ma Roma tutto tritura e tutti sbeffeggia Come il Belli, che definiva la nobiltà nera "illustrissima canaja"

«Roma è cristiana», e va bene. «Roma è sacra» si leggeva, già più impegnativamente, sugli striscioni del Centro Lepanto sceso in processione riparatoria contro il Gay Pride. «Roma Caput Mundi» campeggia sugli stendardi di un´organizzazione, sempre dell´estrema cattolica, che all´Esquilino si batte contro l´«invasione» cinese. «Roma non perit», cioè non muore, come scolpisce in latino agostiniano il gruppo tradizionalista Trifoglio, già noto per una serie di dieci manifesti, uno per ogni comandamento, coloratissima rassegna di ripristinato fondamentalismo sui muri della capitale.
E tutto questo si potrebbe liquidare come folklore o anacronistico fanatismo - magari sbagliando pure, perché in questo tempo è proprio l´eccesso che tende ad affermarsi catturando l´attenzione. Ma poi: quando il sindaco Alemanno, per nulla pentito dell´incidente di Porta Pia, come unico suo commento butta lì che «il Vaticano è il cuore di Roma, e guardando la storia tutto - (tutto?!) - ruota attorno a questa presenza», beh, un po´ viene anche da chiedersi se la commemorazione dei caduti dell´esercito pontificio il 20 settembre non sia stata il primo esperimento tecnico di Restaurazione capitolina. E se pure non lo è stato, già bastano la gaffe, la pecionata o il malinteso ad aggiornare la visione di quell´antica, singolare e rinomata entità (individui, gruppi, credenze e rappresentazioni) che mai come oggi, dopo parecchi decenni, si è legittimati a designare «Roma nera»: nella sua doppia accezione di trono e di altare, di Roma clericale, anti-risorgimentale e post-fascista.
Ora, è vero che storicamente, come ha sintetizzato lo studioso Alberto Melloni, «quasi tutte le destre a corto di idee indossano i paramenti». E in effetti, oltre che nelle riabilitazioni degli zuavi (per i quali il gruppo di Militia Christi ha richiesto l´immancabile lapide), la nuova temperie post-papalina pare cogliersi in un dispiego di sfarzo mediatico che all´insegna della liturgia e del suo evocatissimo mistero, esibisce sacri ornamenti, addobbi lussuosi, canti gregoriani, come pure stemmi di battaglia e nobiliari, simboli, aquile, spade.
Rialzano il capo gli ordini cavallereschi, con i loro mantelli e costumi da cerimonia. Rinasce la messa esclusiva, preannunciata con elegante cartoncino d´invito. Entra nel lessico giornalistico la categoria «catto-chic». L´impressione è che piano piano, colto il vento, tutto un mondo finora un po´ cupo, residuale e museale, intraveda di colpo la possibilità di scrollarsi di dosso polvere e muffa. E dunque: non più solo funzioni in suffragio dei caduti con la bandiera pontificia bucata dalle pallottole dei bersaglieri di Lamarmora sotto l´altare di San Lorenzo in Lucina. Il Concilio è ormai lontano e così, insieme alla recita del rosario e delle devozioni in latino, paiono riemergere dalle catacombe più o meno confessabili tentazioni teocratiche e indistinti indizi di neo-temporalismo.
Liberalizzato con il motu proprio l´antico rito romano, gli ex seguaci di Lefebvre si insediano stabilmente nella chiesa della Trinità dei Pellegrini. Da oltre un anno il Centro Lepanto ha rapporti oltreoceano, negli Usa; il suo fondatore e ideologo, il professor Roberto de Mattei, già sfortunato consigliere di un Fini sull´orlo del laicismo, è assiduo collaboratore dell´Osservatore Romano. Il gruppo di Alleanza cattolica, da cui proviene il sottosegretario all´Interno Alfredo Mantovano (An), scopre la funzione del marketing reclamizzandosi sul Tempo «l´impegno per il pensiero forte».
Sono ambienti non di rado contigui a quello di Alemanno. Altri lo sono di meno, in ogni caso brulica di micro-iniziative l´underground reazionario-confessionale, nelle sue varie gradazioni. Veglie, esercizi spirituali, corsi per predicatori. Nella basilica di San Camillo organizzano «guardie d´onore» al Sacro Cuore, ogni turno eseguito da una «falange»; mentre nella chiesa di San Benedetto in Piscinula, a Trastevere, gli «Araldi del Vangelo» indossano uniformi che ricordano quelle dei crociati, stivaloni compresi.
A cinquant´anni dalla morte di Pio XII, per favorirne la canonizzazione, si è formato il «Comitato Papa Pacelli»; tra i primi sostenitori, in ordine alfabetico, compaiono Giano Accame, Rosa Alberoni, Magdi Cristiano Allam, Giulio Andreotti. C´è anche il sito su Internet. A questo proposito, come documentato a suo tempo da Nicla Buonasorte nel suo prezioso Tra Roma e Lefebvre. Il tradizionalismo cattolico italiano e il Concilio Vaticano II (Studium, 2003), è sintomatico e insieme paradossale l´ardore con cui i più accaniti nemici della modernità si sono adeguati alla tecnologia. Ecco dunque litanie, salmodie e novene on line. Ecco l´mp3 dell´inno pontificio di Gounod: «Roma immortale, di martiri e di santi,/Roma immortale, accogli i nostri canti». O il revival dell´intransigentismo canzonettistico fine Ottocento: «Odiam la lurida pornografia/e la satanica filosofia/che fa gli uomini pari ai maiali/Siam clericali, siam clericali!» (www. centrostudifederici. org).
Lascia interdetti l´hard discount del cristianismo. Vecchie stampe di uniformi papaline; gallerie fotografiche di «corpi incorrotti» di santi (www. tradizione.biz); animazioni musicate tipo videogame del celebre dipinto del Veronese sulla battaglia di Lepanto (www.lepantofoundation.org); presentazione di video terrificanti contro occulte massonerie, perfidi giudaismi, poteri forti, preti modernizzanti che fanno il karaoke con i fedeli e altre diavolerie progressiste prodotti assemblando alla buona spezzoni di film in costume al suono dei Carmina Burana (www.salpan.org). Un immaginario infiammato di diavolacci, segreti, catastrofi - dall´Aids al tifone di New Orleans passando per il crollo della basilica di Assisi - offerto in chiave di castigo di Dio.
Che tutto questo sia ultraminoritario, oltre che scontatamente apocalittico, drasticamente maschile, rigidamente sessuofobico e non di rado pericolosamente xenofobo e razzista, è un fatto che non stupisce perché in fondo quel filone è sempre stato così. Una consolazione, semmai, è che oltre che minuscoli, i gruppetti dell´universo ultraconservatore sono a tal punto rissosi che di continuo si scambiano accuse di eresia, gnosticismo, nichilismo o intelligenza con il nemico.
E tuttavia la novità è che la rappresentazione di Roma nera oltrepassa oggi i confini dell´eccentricità per estendersi e riconoscersi in un´estetica, in un gusto, in una serie di occasioni assai più accettabili degli incubi sanfedisti. E allora pare di coglierla, questa Roma, nelle messe celebrate negli studi del Tg5; o ai cocktail per le presentazioni delle sacre fiction della Lux Vide bernabeiana; nelle aste di beneficenza con i vip; nei convegni sulla famiglia aperti dalla recita del Pater Noster e animati dai personaggi della tv. Fino alla moda di donare agli ecclesiastici capi d´abbigliamento, crocifissi d´oro o tempestati di gemme, così come di sfoggiare quelle sontuosissime crocette che l´obiettivo di Umberto Pizzi, nei «Cafonal» su Dagospia, immortala - «balconata mistica» - nelle scollature delle signore dell´aristocrazia «teo-glamour».
Perché poi Roma resta Roma: e tutto tritura, tutti sbeffeggia, tutto e tutti riesce a dissacrare, anche i nobili della Città Eterna prima ancora che chiudessero i loro palazzi in segno di lutto all´indomani dell´invasione piemontese nel 1870. I nobili: a tale «illustrissima canaja», «spedalone de bastardi», «cavajer del cazzo», «cani da macello» al servizio del pontefice, Giuseppe Gioachino Belli ha dedicato sonetti spaventosi. Lo stesso Pasolini, qualche secolo dopo, li sistemò con un fulminante epigramma: «Non siete mai esistiti, vecchi pecoroni papalini:/ ora un po´ esistete perché un po´ esiste Pasolini».
Acqua passata, sotto i ponti del Tevere. È pur vero che la figura più rimarchevole di quel mondo, Elvina Pallavicini, imperiosa e imprevedibile sulla sua sedia a rotelle, se n´è andata ormai da tempo. I nobili che restano, il principe Ruspoli Zapata, che si presenta invano a tutte le elezioni, o la principessa Borghese, che per l´amicizia con il giro stretto della Santa Sede Roberto D´Agostino ha ribattezzato «l´Intima di Carinzia e di Baviera», ma poi si è lasciata conquistare dall´Udc di Pierfurby Casini, funzionano appena nei talk-show. E pur con tutto il rispetto e la simpatia, a fatica, insieme con gli altri epigoni dei Colonna, Massimo, Orsini, Torlonia, Chigi, Boncompagni, potrebbero rientrare negli schemi entro cui un autentico maestro del pensiero controrivoluzionario come Plinio Correa de Oliveira li comprese nel saggio Nobiltà ed elites tradizionali analoghe nelle allocuzioni di Pio XII al patriziato ed alla nobiltà romana (Marzorati, 1992).
Così è altrove che occorre guardare per cogliere il senso di una possibile restaurazione del potere e dell´assolutismo temporale alla luce del nuovo secolo e del pontificato di Benedetto XVI. Per il momento il Papa Re rimane nel titolo di un film di Gigi Magni, o nelle insegne di un ristorantino sulla Lungaretta. Però, a farci caso, aumenta di giorno in giorno il numero di quelli che come ha fatto notare su MicroMega un´osservatrice di altra spiritualità come Mariella Gramaglia, comunque appaiono ben disposti ad «attaccarsi alla mantella bianca». Vedi il futuro ministro Bondi all´Angelus di piazza San Pietro, con un´immaginetta in mano; vedi il senatore Ciarrapico che rievoca i decreti del Sant´Uffizio; o l´onorevole Renato Farina che dopo le elezioni sostiene l´esistenza di un «fattore P», come Papa: «Chi ha provato a morderlo si è perduto nella nebbia del Niente».
Un´umanità composita e apparentemente inconciliabile che da Gianni Letta, baciato dalla nomina a Gentiluomo di Sua Santità, arriva a Borghezio, presente fra i neonazisti di Colonia con quella che lui stesso ha definito «l´ala ratzingeriana della Lega». Tutto, insomma, e il contrario di tutto, come capita sempre più spesso nella Città Eterna in questo tempo di ritorni in avanti e di futuro remoto.

Corriere Fiorentino 28.9.08
Lo psichiatra Giovanni Battista Cassano: «L'uomo è sempre più violento Quando decide, non si ferma»
Quando si arriva a compiere un gesto così estremo, lo si fa con un tasso di violenza altissimo. È un delirio lucido
di Alessandra Erriquez


«C'è tutta una patologia amplissima nella psicologia della coppia ». A spiegare qualche aspetto della mente umana è un esperto di fama internazionale, Giovanni Battista Cassano, professore ordinario e direttore del dipartimento di Psichiatria, Neurologia, Farmacologia e Biologia dell'Università di Pisa.
Professor Cassano, cosa accade quando fallisce un rapporto?
«Ognuno di noi subisce stimoli cronici, eventi esterni che poi il cervello elabora. Tutto è frutto di un pensiero razionale, evitiamo risposte impulsive. Qualcuno invece elabora in chiave impulsiva o persecutoria. Nel primo caso si parla di soggetti depressi che si dicono: ‘‘Ho perso tutto, io sono il colpevo-le'' oppure ‘‘è il mondo che è un letto di sofferenze''. Il primo pensiero, anche nelle depressioni più lievi, è sempre il suicidio. Nell'elaborazione persecutoria c'è il senso della vendetta. Ad esempio, quest'uomo ha visto fallire il suo matrimonio e poi il rapporto con un'altra donna, magari più giovane. Potrebbe aver vissuto questo come un torto subito da una persona crudele che dunque doveva essere castigata con la privazione dei figli. Sono casi più frequenti nelle donne che uccidono i bambini per timore che il marito li porti via. D'altra parte l'uomo è sempre più violento. Il numero di suicidi maschili è quattro volte superiore a quello delle donne».
Perché?
«La donna fa molti più tentativi di suicidio mentre l'uomo quando decide, è definitivo. Perché spesso ha i mezzi per farlo come fucili e coltelli, sa impiccarsi e dunque non deve ricorrere ai farmaci. E poi ha una forte carica di violenza. Noi maschi siamo stati selezionati per difendere il branco, uccidere animali per nutrire il gruppo».
Come mai si verificano tante stragi in famiglia?
«Figli che ammazzano i genitori e viceversa, donne che vengono picchiate, le violenze, gli abusi. Avvengono quasi sempre in famiglia perché è la sede dei legami più intensi, dove la convivenza è molto complessa».
Nel fallimento di un rapporto, c'è differenza a seconda che sia matrimoniale o no?
«In realtà no. C'è una forte base biologica che è l'attaccamento. La gelosia che prova l'animale maschio, qualunque esso sia».
Quando si commette un delitto così efferato se ne ha consapevolezza?
«Se l'uomo arriva a compiere un gesto così estremo lo fa con un tasso di violenza altissimo. Ed è anche un delirio lucido, a volte pensato da molto tempo, una possibilità costante che si realizza quando l'ultima goccia fa traboccare il vaso».
Simone Parola ha avvisato la sorella prima del suo omicidio- suicidio. Cosa vuol dire?
«Una mente lucida in quella fase. Indica che ha voluto comunicare alla sorella e al mondo la sua disperazione, desiderava esternare la grande tragedia della sua vita dando molta teatralità».

l’Unità 28.9.08
Dolce morte grande ipocrisia
di Concita De Gregorio


Sono un cattolico che crede che sul tema della fine della vita si ascoltino molto i monsignori e poco i cittadini. Mi hanno colpito le parole di Mina Welby: «Bisogna arrivare a una legge sul testamento biologico che raccolga le dichiarazioni di fine vita non solo per rifiutare alcune cure, ma anche per chiederle». Penso che la libertà di chiedere cure faccia il paio con la scelta drammatica di lasciarsi morire. E ci si lascia morire in tanti modi: smettendo di lavarsi, di cibarsi, di interessarsi a ciò che ci circonda. Una legge può aiutare solo se ci sa mettere al riparo dalle ideologie, dalle demagogie. Una legge che non tuteli gli interessi di chi la fa ma quelli dei malati. Delle persone che vivono coi malati. Di noi.
Alvaro Malerba, Vercelli

Al riparo dalla demagogia. Che meraviglia sarebbe, no?, se per una volta, per questa volta almeno la discussione si concentrasse sull’oggetto - chi sta morendo, chi vive senza vivere - e non sul soggetto, sulla tronfia presunzione di chi pontifica, sul narcisismo di chi vuole un palcoscenico nuovo per dire gonfiando il petto qualcosa di clamoroso e di insolito, i riflettori ancora su di sé e qualche voto, qualche copia di giornale in più. Il dibattito sul testamento biologico è il festival nazionale delle parole a vuoto. Ipocrita fin dalla scelta dei termini: eutanasia non si può dire, non sta bene. Ipocrita alla radice, la più grande delle ipocrisie. L’eutanasia, in Italia, esiste già. Lo sanno bene tutti: i medici e i pazienti, le famiglie a cui è toccato e tocca il dolore di star vicino a chi se ne sta andando o se ne è andato già ma non può morire davvero. Esiste e funziona così: quando un malato terminale non reagisce più, quando la sua vita è solo un calvario di cateteri e di sonde c’è sempre qualcuno, tra i meravigliosi medici che lavorano al confine con la morte, che avvicina le mogli, i figli, i genitori e spiega loro, chiede, prova a capire. Nessuno domanda: volete voi che. No, non è così. Sono pochi, pochissimi quelli che riuscirebbero a rispondere. È enorme il peso della decisione, insopportabile. Allora succede questo. C’è un momento di non ritorno, i medici lo conoscono. Inutile declinarlo qui: quando il drenaggio delle urine rallenta, cose indicibili così. Quando i familiari smettono di parlare tra loro. Ecco, quello è il momento in cui arrivano, una mattina, gli infermieri (persone che hanno scelto di lavorare in hospice, angeli a volte rudi, ma angeli) e dicono con la voce squillante al malato in coma «buongiorno, come va stamattina?». Lo chiamano per nome. Gli raccontano cosa succede fuori e intanto lo spogliano nudo, lo lavano, aprono la finestra e meglio ancora se è gennaio, fanno cambiare aria, raccontano una storia, insaponano, fa freddo, l’acqua sul corpo corre, che buon profumo il sapone, no?, che bello sentirsi puliti. Loro lo sanno bene. Sanno cosa stanno facendo. Cantano, a volte. Non ci si sveglia più da quell’ultimo bagno. Era l’ultima aria quella entrata dalla finestra aperta. Poi la sera, poi la notte, poi basta. Basta andare negli hospice, basta vivere la vita per sapere che è così. Chi maneggia il dolore lo sa. Il Paese è più avanti – sempre - di chi dibatte sulle sue sorti. La realtà è un chilometro oltre l’orizzonte delle parole a vuoto. La vita vera è questa, la morte – succede - un sollievo. Chi la frequenta lo sa. E ora torniamo pure al dibattito: prego monsignore, dica pure onorevole.

l’Unità 28.9.08
«Il Papa ha potuto scegliere, Eluana no»
Beppino Englaro: lo stato vegetativo permanente non esiste in natura. Roccella insiste: non è terminale
di Natalia Lombardo


«LO STATO VEGETATIVO permanente non esiste in natura, è lo sbocco dei protocolli medici che hanno interrotto il processo di morte di Eluana. E io questi protocolli non li voglio più». Lo dice con tono appassionato accolto da un applauso caldo, Beppino Englaro, padre della ragazza in stato vegetativo da sedici anni. Ha alzato la voce solo in quel momento, è sbottato per rispondere alla fermezza gelida con la quale Eugenia Rocella, sottosegretario al Welfare, gli ha detto in faccia: «Eluana non è un malato terminale, può vivere ancora molto tempo». Ovvero che la sua volontà di morire non è valida senza una dichiarazione scritta: «Anche per vendere un motorino serve un certificato», afferma l’esponente del Pdl.
Temi difficili che toccano le emozioni, infatti il dibattito «L’autodeterminazione dell’individuo: un diritto in ogni fase della vita», che si è svolto ieri al "Festival della salute" a Viareggio organizzato da Italianieuropei, ha suscitato passioni. E proteste che hanno sommerso la paladina del Family Life, da parte di una platea coinvolta in prima persona. Sul palco anche Mina Welby, che con il marito Piergiorgio ha combattuto, nel partito radicale, la battaglia per interrompere la sua vita da forzato nel letto. «Abbiamo camminato nel deserto della mancanza di leggi»: su questo sono tutti d’accordo con il papà di Eluana, il Parlamento deve approvare una legge sul testamento biologico, la cui necessità è sostenuta anche da monsignor Bagnasco. «Ci sono voluti 5750 giorni perché si pronunciasse una sentenza», racconta lui. Un "deserto" attraversato dal 18 gennaio 1992, quando Eluana ebbe l’incidente che la rese incapace di intendere e di volere. Solo nel 2007 la famiglia ha trovato risposta nella sentenza della Cassazione ora messa in discussione dalla maggioranza in Parlamento e sospesa dalla Procura generale di Milano. Papà Englaro aspetta «solo il decreto attuativo» ma non vuole parlarne. La Corte stabilì che «l’alimentazione e l’idratazione forzata sono presidi terapeutici, checché ne dica la Chiesa», e che lui, come tutore «avrebbe potuto interromperli». Poi aggiunge: «Giovanni Paolo II aveva problemi alla faringe e non volle essere trachetomizzato. Lui ha potuto dire di no, Eluana non può».
Eugenia Rocella passa come un panzer ideologico sui sentimenti: «Non si può ricostruire la volontà di una persona di morire in base a testimonianze vaghe o stili di vita». Per lei «la sentenza è inquietante e rischiosa perché apre la strada al diritto di morire. La Cassazione ha invaso il campo del Parlamento». Il dibattito si scalda, dalla platea molte le voci di protesta sofferenti. Rocella alza il tono per superarle e insiste: voler staccare la spina senza disposizione di fine vita - termine terribile- è pari all’abbandono. Fa un esempio fuori luogo: «Non si cerca di trattenere le persone dal suicidio?». Protesta: «Sono qui sola contro tutti». Non c’è dalla sua parte Maurizio Lupi, vicepresidente della Camera: un’assenza annunciata, sembra per partecipare a una iniziativa di Cl. È Mina Welby, allora, a raccontare come avesse «remato contro» la volontà di suo marito Piergiorgio, che una notta le chiese «dammi tutte le pasticche che sono nel comodino, non ce la faccio più». Invece scelsero di combattere una battaglia pubblica, (Rocella è ex radicale e ex femminista, ora si dice liberataria e sta nel Pdl). «Io non volevo che mi lasciasse, lo amavo tantissimo, ma se avessi ceduto quella notte ora non sarei qui a finire il lavoro, come diceva mia madre», racconta Mina, piccola e combattiva, la voce dolce.
Solo la necessità di una legge unisce tutti: «La chiedo con forza al Parlamento», afferma Englaro. La farà il centrodestra, cambiando la proposta che presentò Ignazio Marino, chirurgo, senatore Pd e presidente del Comitato scientifico della (riuscita) Festa della Salute. Il principio della legge, ha ripetuto ieri, parte dal «diritto di cura ma non il dovere di accanirsi perché la tecnologia è avanzata. Lo dissero i Costituenti nel ’47: se non voglio nessuno può farmi un intervento». Eugenia Rocella auspica la legge ma mette già dei paletti: non si interrompa l’alimentazione forzata, si bloccherebbe le terapie contro l’anoressia; il diritto dei medici nel non staccare la spina.
Alla fine papà Englaro parla a tu per tu con la "pasionaria": «Non attaccate i giudici che hanno coraggio civile, e che sono intervenuti perché il Parlamento non ha fatto niente. Anzi, dovreste ringraziarli». Questo mai, ribatte Rocella, «altrimenti si crea un precedente pericoloso». Alla fine, comunque si stringono la mano. Beppino Englaro non fa caso agli attacchi: «sono collaudato».

l’Unità 28.9.08
Ecco il piano per privatizzare la sanità
Il sottosegretario Fazio: «Per fare gli ospedali soldi a fondo perduto e project financing»
di Anna Tarquini


«SANITÀ per tutti significa avere un Servizio sanitario nazionale efficiente per ogni cittadino in ogni regione». Il principio è ineccepibile. La sua traduzione pratica un po’ meno. Cosa intende fare il governo Berlusconi? Nessun investimento straordinario, magari per porre fine al turismo sanitario che costringe migliaia di malati gravi a migrare nei centri di eccellenza del Nord. Meglio privatizzare. Ma privatizzare a metà: «gli ospedali saranno in parte pubblici in parte privati» spiega il sottosegretario ferruccio Fazio. Magari con un reparto affidato al privato e un altro reparto al pubblico. Con una parte degli investimenti governativi che andranno a finanziare il privato e l’altra parte il pubblico. Una specie di memento, per la povera sanità pubblica. «Non si tratterà di una contrapposizione pubblico-privato - spiega Fazio - ma di una realtà virtuosa contro una non virtuosa».
POSTI LETTO AI PRIVATI Il piano del governo è stato annunciato ieri dal sottosegretario al Welfare presente ieri a un convegno a Viareggio. Incalzato, dopo l’annuncio della soluzione-Berlusconi per risanare una Sanità in rosso, privatizzare gli ospedali pubblici. «Rispetto al Veneto e alla Lombardia - aveva annunciato il premier - , in Sicilia e in Sardegna le spese sanitarie sono del 40% più alte». «Dati che sono un imbroglio» aveva stigmatizzato ieri il governatore della Sardegna Soru. «In Sardegna noi spendiamo pro capite quello che si spende sia nella Lombardia che nel Veneto. Stiamo dentro le famose quote capitarie, cioè quanto ad ogni cittadino italiano viene destinato per il servizio sanitario. Perché la Sardegna è l’unica Regione che, diversi anni fa, ha affrontato il piano di rientro del Ministero dell’Economia ed è l’unica Regione che ha rispettato in pieno tutti gli obiettivi». Ma poi Berlusconi ha maldestramente rimediato. «È vero - è stato costretto a riprendere il premier - Sicilia e Campania e non la Sardegna, come qualcuno ha scritto, sono le regioni con la spesa sanitaria più alta. Lo dico perché so che il presidente Soru è uscito pazzo. Ho presentissimo l’elenco, la Sicilia è ultima e la Campania è sopra». Il presidente Soru prendendo «atto della retifica» si rammarica di quella che spera sia stata solo un’infelice battuta («è uscito pazzo»), perché «altrimenti c’è da preoccuparsi». Dopo i tagli annunciati in Finanziaria, un regalo ai padroni della Sanità privata. Il piano di privatizzazione è dunque qualcosa di più di un annuncio ad effetto. Le nuove joint-venture tra pubblico e privato sono nel programma di Governo. «C’è l’idea di attivare i fondi strutturali per finanziare le opere di riqualificazione degli ospedali con il 50% di finanziamento a fondo perduto e il 50% di project financig», ha spiegato Fazio. «All’interno degli ospedali pubblici, ci saranno delle unità gestite privatamente. Pensiamo che l’ospedale possa diventare una joint venture tra pubblico e privato ed è verosimile che questo possa accadere in Sicilia, Campania, Calabria e Puglia, ma non è detto che non possa avvenire anche in Lombardia». E per giustificare il piano, fango sui nostri ospedali.
TANTI I NO Ma contro il piano privatizzazione è già rivolta. A cominciare da Bersani, ministro ombra dell’Economia «Se veramente il premier vorrà intraprendere la strada della privatizzazione degli ospedali pubblici, vi garantisco che su questo tema si romperà le ossa». D’Alema: «La sanità italiana è una delle migliori del mondo e lo testimoniano organizzazioni internazionali come l'Oms e tutto sommato avviene con costi abbastanza contenuti: spendiamo quasi il 7% del Pil mentre Germania e Francia poco più dell'8%». Meno sorpresa Livia Turco, ex ministro della Sanità: «Che la politica del Governo Berlusconi fosse la privatizzazione della sanità, lo sapevamo. D'altra parte è quanto scritto pure nel Libro verde sul Welfare del ministro Sacconi, dove ci sono tanti concetti condivisibili, ma la sostanza di quelle belle parole è che bisogna ridurre la sanità pubblica. Non è che Berlusconi ha annunciato: Berlusconi ha fatto. Con il decreto legislativo 112, infatti, si è già imposto alle Regioni di tagliare posti letto e ridurre personale. Un decreto che prevede il taglio di 5 miliardi di euro per i prossimi anni nella sanità. Così Guglielmo Epifani: «Paghiamo di più per avere di meno e favorire la sanità e la scuola privata» e il leader dell'Udc Pier Ferdinando Casini: «Bah, bah...mi sembra un po’ così, siamo all’improvvisazione».

i numeri
1217 SONO GLI ISTITUTI di cura di cui dispone il servizio sanitario nazionale.
654 il 54% sono pubblici di questi il 67% è gestito direttamente dalle Asl, il 15% da aziende ospedaliere, il restante 18% da altre tipologie pubbliche.
563 il 46%, sono privati accreditati.
66 GLI OSPEDALI privati non accreditati.
231 MILA sono i posti letto, il 21% nel privato accreditato, oltre 30 mila i posti per il day hospital.
4,5 SONO I POSTI letto ogni mille abitanti, ma con profonde disuguaglianze: in Lazio la media è 5,7 posti ogni mille abitanti, in Campania 3,7.
49% DEGLI OSPEDALI pubblici ha un dipartimento di emergenza, oltre la metà ha un centro di rianimazione.
80% DEGLI OSPEDALI ha un pronto soccorso.

LA SCHEDA. Cosa vuol dire «project financig»
La privatizzazione degli ospedali pubblici annunciata da Berlusconi l’ha spiegata ieri il sottosegretario alla sanità Ferruccio Fazio a Viareggio nel corso del festival della salute. «Nel programma di Governo - ha precisato Fazio - c’è l’idea di attivare i fondi strutturali per finanziare le opere di riqualificazione degli ospedali con il 50% di finanziamento a fondo perduto e il 50% di project financig». Project financing tradotto in italiano vuol dire finanza di progetto. È uno strumento utilizzato dagli enti per finanziare opere pubbliche. Funziona così: il privato costruisce l’opera, ad esempio un parcheggio, e poi la gestisce per un lungo numero di anni incassandone i proventi. Soldi che gli servono sia per rientrare dell’investimento fatto sia per renderlo fruttuoso. Ma fare profitti coi posti auto dovrebbe essere diverso che farli coi posti letto di un ospedale.

Corriere della Sera 28.9.08
Epifani: scuola, si cambi o sarà sciopero generale
Ma Bonanni accusa: abbandonato il percorso unitario
di Enr. Ma.


Clima tesissimo tra le confederazioni che dovrebbero riprendere martedì le discussioni sulla riforma contrattuale

ROMA — Doveva essere la giornata di mobilitazione della Cgil contro la politica economica del governo, ma per Guglielmo Epifani e il suo sindacato è stata anche l'occasione per rivendicare con orgoglio il ruolo svolto nella trattativa Alitalia. «Ci hanno detto di tutto, ma noi volevamo salvare la compagnia e l'occupazione», ha detto il segretario della Cgil, che ieri ha parlato a Roma in una delle 150 iniziative di mobilitazione organizzate in tutta Italia. «Hanno cercato di metterci all'angolo, ma non ci sono riusciti. Ora mi aspetto le scuse di chi voleva fare senza la Cgil», ha aggiunto tra gli applausi. Epifani ha quindi attaccato il sindaco della capitale, Gianni Alemanno, accusandolo di essere stato assente dalla trattativa. «Non prendo lezioni da chi ha rischiato di far cadere Alitalia nel baratro», ha replicato Alemanno.
Secondo la Cgil quasi un milione di persone ha partecipato alla mobilitazione. Una giornata di lotta che il sindacato «rosso » ha deciso di svolgere da solo, senza Cisl e Uil. E che «è solo l'inizio», come ha detto ieri il leader dei metalmeccanici Cgil, Gianni Rinaldini. Non a caso Epifani ha evocato lo «sciopero generale della scuola». Aggiungendo, significativamente: «Spero unitario», cioè con Cisl e Uil, ma lasciando chiaramente intendere che la Cgil può benissimo andare avanti da sola.
E così la divisione già emersa nella vertenza Alitalia si fa più forte. Mentre Epifani parlava ieri mattina a piazza Farnese, Raffaele Bonanni, nella sede della Cisl, ha svolto una conferenza stampa per annunciare che anche il sindacato «bianco» svolgerà una sua manifestazione, sabato prossimo, al palazzetto dello sport del Flaminio a Roma, ma per sollecitare gli accordi con Confindustria, sulla riforma del modello contrattuale, e col governo, sugli sgravi fiscali. «Un'iniziativa per unire — sintetizza Bonanni — non come quelle di Epifani, che dividono il mondo del lavoro».
In questo clima martedì dovrebbe riprendere la trattativa fra Confindustria e Cgil, Cisl e Uil sulla riforma del modello contrattuale. L'associazione imprenditoriale (che ha presentato una proposta scritta) e Cisl e Uil puntano a un sistema che sposti il baricentro della contrattazione verso il livello aziendale e ritengono che sulla base del documento della Confindustria si possa arrivare rapidamente a un'intesa. Epifani ha invece chieso alla presidente degli imprenditori, Emma Marcegaglia, di ritirare il suo testo e di ripartire dalla piattaforma unitaria Cgil, Cisl e Uil. Si rischia un accordo separato.

l’Unità 28.9.08
Se la scuola ritorna all’età della pietra
di Cristina Di Geronimo


Il primo grande errore che si compie in Italia quando i media affrontano il tema della scuola, sotto la spinta di iniziative legislative, è quello di parlarne al singolare. Molto più corretto sarebbe parlare di scuole, sia in senso verticale che orizzontale, cioè per ordini e anche per distribuzione territoriale nello stesso ordine (basti pensare alla diffusione del tempo pieno al centro- nord e al ritardo del sud). Gli ordini di scuola, infatti, sono molto diversi fra loro per storia, tradizione culturale e caratteristiche del personale docente. Per l’ultimo aspetto basti pensare alle competenze pedagogiche e didattiche degli insegnanti di scuola materna ed elementare e all’assoluta assenza di tali competenze nella formazione dei docenti delle scuole medie e superiori. Questo aspetto, estremamente trascurato, è a fondamento della riconosciuta efficienza dei primi due ordini di scuola, materna ed elementare. C’è poi l’elemento della «missione» dei vari ordini di scuola. Detto più semplicemente, dei Programmi scolastici. Fermandoci solo alla scuola elementare, e alla discussione intorno al maestro unico, sarebbe importante, prima di stabilire quanti ne occorrono, conoscere i Programmi scolastici, cioè cosa lo Stato chiede agli insegnanti di insegnare e agli alunni di apprendere. Quelli attualmente in vigore si titolano «Indicazioni nazionali» e sono un allegato al Decreto legislativo di riordino dei cicli n. 59/04 a firma Letizia Moratti. Sarebbe un dovere, per tutti coloro che vogliono parlare di scuola elementare, leggerli. Basterebbe l’esempio della disciplina nuova «Cittadinanza e Costituzione», recentemente introdotta per Decreto Legge. Nelle «Indicazioni» di cui sopra, si chiama «Educazione alla Convivenza civile» e comprende educazione alla cittadinanza (Costituzione, carte dei diritti, concetti di diritto/dovere ecc.) educazione stradale, ambientale, alla salute, alimentare e all’affettività. Ecco le altre discipline: religione cattolica (non obbligatoria), italiano, inglese, storia, geografia, matematica, scienze, tecnologia e informatica (uno degli obiettivi della classe prima elementare: utilizzare il computer per eseguire semplici giochi anche didattici - accendere e spegnere la macchina con le procedure canoniche, attivare il collegamento a Internet - Accedere ad alcuni siti Internet, ad esempio quello della scuola) arte e immagine, scienze motorie e sportive, musica. Tutte le discipline si sviluppano su obiettivi per i cinque anni ed,inoltre, si richiede, in premessa, ai docenti di elaborare, per singoli alunni il «Piano di studio personalizzato che resta a disposizione delle famiglie e da cui si ricava anche la documentazione utile per la compilazione del Portfolio delle competenze individuali». Ora, la domanda è la seguente: bastano 24 ore settimanali ed un unico docente per raggiungere almeno una parte degli obiettivi prescrittivi dei programmi statali? No, non bastano. Per coerenza, allora, si dovrebbe avere il coraggio, e contemporaneamente, di tornare indietro tutta. Ripristinare i programmi del 1945, che, fra l’altro, furono ispirati al lavoro di una commissione presieduta, già nel 1943, dal grande pedagogista americano Washburne, seguace di Dewey, e che sono chiari anche nelle indicazioni su cosa si richiede alla fine della quinta elementare. Più moderni anche, nell’aspetto valutativo: «…questo esame, ridotto nel numero delle materie e dei programmi, acquisterà maggior valore se,….più che del voto per ogni materia... si terrà conto del giudizio complessivo da cui apparirà la personalità, appena in formazione, dell’uomo e del cittadino di domani». E poi bisognerà ridare alle nostre maestre penne rosse e blu, ceci e bacchetta, libertà di bocciare chi non studia, senza sottoscrivere patti di corresponsabilità con nessuno.
In conclusione, c’è da augurarsi almeno che la scuola elementare non vada a pescare principi e valori più indietro del 1945! Dico questo perché, più della crisi economica e quindi della necessità dei tagli (sarebbe stato meglio tagliare le spese per la politica) è preoccupante il clima culturale così dispregiativo nei confronti di chi prende nelle mani il destino delle nuove generazioni. Il ministro continua a ripetere che vuole eliminare le «compresenze», facendo credere che tutti i giorni vi siano tre maestre in una sola classe, magari anche solo composta di dieci alunni. In realtà, molto spesso i maestri vengono utilizzati per prolungare il tempo scolastico previsto per i rientri pomeridiani. Il famoso modulo tre su due o quattro su tre non esiste più da anni. Esiste invece un maestro prevalente, affiancato da altre figure la cui presenza varia in realzione all’orario scolastico. Le ore di vera compresenza non sono mediamente più di tre a settimana per classe, al contario di quanto si va dicendo. Gli organici degli insegnanti sono assegnati infatti sul numero degli alunni e delle classi, e naturalmente sul tempo scuola previsto. Il tempo scuola obbligatorio era di 27 ore settimanali elevabile fino a 36 con la Riforma del 1990, con la Moratti è diventato 27 più 3 opzionali, e poi, con Fioroni, sono rimaste 30 obbligatorie senza opzioni da parte dele famiglie. Ridurre il tempo scuola a 24 ore obbligatorie è l’unico modo per consentire la riduzione dei posti, e dunque l’applicazione della «Riforma Gelmini». L’orario del docente (22 ore di lezione e due di programmazione settimanale)- eliminando le due ore di programmazioni che non serviranno più all’insegnante unico - potrà coprire l’intero orario obbligatorio di una classe. Anche sull’impegno di mantenere l'insegnamento di inglese già la Moratti aveva avviato un massiccio piano obbligatorio di formazione in tale disciplina per tutti i docenti. Oggi è obbligatorio, e giustamente, utilizzare prima i docenti che hanno il titolo per l'insegnamento della lingua inglese e poi gli insegnanti specialisti. Se si riduce il tempo scuola si riduce anche l'offerta formativa. Bene, basta dirlo e non favoleggiare intorno all'urgenza pedagogica del bambino contemporaneo di avere un unico punto di riferimento. Nessun pedagogista o studioso dell’età evolutiva serio potrebbe mai sostenerlo. Scriveva Piaget, molti decenni fà, che il diritto all’istruzione è un diritto inalienabile, come quello alla vita e alla salute, perché quello che una persona potrà diventare nella vita dipenderà da come avrà avuto accesso alle conoscenze. A chi serve un mondo di ignoranti?
Dirigente scolastico Istituto comprensivo di Casal Velino(Sa)

l’Unità 28.9.08
Rifondazione, Vendola annuncia un «tesseramento allargato»
È il primo passo di un soggetto politico che va oltre il partito. «Apriamo subito i cantieri della nuova sinistra»
di s.c.


Figurarsi se pronuncia la parola «scissione», o se anche dà soltanto ad intenderla in modo esplicito. Il tempo gioca a suo favore, e poi bisogna aspettare le europee prima di compiere qualsiasi passo avventato. Però tassello dopo tassello, Nichi Vendola sta preparando il terreno per un’operazione che va ben al di là dei confini di Rifondazione comunista. La settimana scorsa il governatore della Puglia, battuto da Paolo Ferrero al congresso di luglio, si è incontrato a Roma con esponenti di Sinistra democratica, della Cgil, dei Verdi, della minoranza del Pdci. Oggetto della discussione: come rilanciare il processo della costituente di sinistra.
Ieri c’è stato il passo successivo: al parco Brin del quartiere romano della Garbatella, Vendola non solo ha tenuto a battesimo “Rifondazione per la sinistra”, l’area interna al Prc che riunisce quel 47% del partito uscito sconfitto a Chianciano, ma ha anche annunciato l’avvio di un tesseramento rivolto «all’interno ma anche all’esterno di Rifondazione comunista». Parole dette davanti a un migliaio di persone, una platea che ha applaudito con forza tutti gli interventi che più hanno spinto in direzione di un nuovo soggetto di sinistra, come quello del coordinatore di Sd Claudio Fava: «Non ha senso perdersi in discussioni se debba venire prima il contenuto o il contenitore del nuovo soggetto. Il contenuto siamo noi, sono anni e anni di lotte a sinistra. Ora dobbiamo fare presto e bene».
Vendola non ha spinto allo stesso modo sull’acceleratore, anche perché veniva da una giornata di riunioni con i coordinatori dell’area, divisi tra quanti vorrebbero rompere subito con la maggioranza e altri che invece consigliano maggiore prudenza. Però in un’ora e mezza di intervento ha sparato contro la maggioranza del suo «piccolo partito» e ha dato il via all’operazione di unità a sinistra: «Basta con gli annunci, dobbiamo aprire qui e ora i cantieri della nuova sinistra, dobbiamo far partire il processo costituente». Passaggio molto applaudito, così come quello sull’avvio del tesseramento e quelli in cui il governatore pugliese ha criticato la linea politica della maggioranza del Prc, «inefficace», «di nicchia», «di pura testimonianza», fino all’affondo finale: «Non ci si può rinchiudere in un fortino identitario unendo i frammenti e le scorie di tutti i tipi di comunismo».
Il riferimento è, tra le altre cose, all’ipotesi che la maggioranza del partito, di cui fanno parte anche la componente trotzkista e quella che è andata al congresso chiedendo l’unità dei comunisti, proponga di presentarsi alle europee con una lista in cui convivano i simboli del Prc e del Pdci. Molto dipenderà dalla soglia di sbarramento. Secondo i calcoli che vengono fatti in via del Policlinico (con sfumature diverse tra il secondo piano, dove stanno i vendoliani, e il terzo, dove si sono sistemati quelli della maggioranza) se venisse accolta la proposta del Pd di fissarla al 3%, il Prc andrebbe da solo; col 5% richiesto dal Pdl sarebbe necessario unire quante più forze possibili, come vorrebbe Vendola; ma col 4% potrebbero spuntarla i sostenitori della lista Prc-Pdci. Vendola e i suoi aspettano di conoscere la nuova legge elettorale e la proposta di Ferrero su come andare al voto. E intanto si preparano, chiedendo una «consultazione orizzontale democratica con i territori» per la composizione delle liste nel caso in cui venissero abolite le preferenze e dando subito ulteriore sostanza alla costituente di sinistra: prima della manifestazione dell’11 ottobre, insieme a Sd, Verdi, minoranza Pdci e agli altri, verrà stilato un documento fondativo e verranno nominati i coordinatori di questa operazione.

l’Unità 28.9.08
Paolo Ferrero. Il segretario comunista: «È il solo modo che ha per fare polemica. Un classico agire da frazione»
«Nichi dipinge un Prc che non c’è»
di Simone Collini


«Di tesseramento si muore». Paolo Ferrero non è particolarmente entusiasta dei movimenti di Nichi Vendola. «Per chi vuole unire la sinistra, ingessare le differenze in linee di frattura mi sembra una contraddizione pazzesca», dice il segretario del Prc quando gli viene riportato l’annuncio fatto dal governatore della Puglia durante il battesimo di “Rifondazione per la sinistra”. «Per poter far polemica Nichi deve dipingere un partito che non c’è», aggiunge replicando a quanto sostenuto da Vendola nell’intervista a l’Unità di ieri.
Perché, non è vero che nel Prc si respira un clima “sgradevole”?
«No, e basti pensare che siamo un partito in cui la maggioranza ha proposto alla minoranza di avere il tesoriere e il comitato di garanzia, gli ha proposto di dirigere dipartimenti anche non piccoli, di entrare in segreteria».
Proposta rifiutata per divergenze sulla linea politica.
«Ecco un altro modo di dipingere una Rifondazione comunista che non c’è, perché dire che stiamo lavorando alla costituente comunista è semplicemente una falsità. Il Prc sta lavorando alla costruzione dell’opposizione al governo Berlusconi e a Confindustria, in un’ottica unitaria, come dimostra la manifestazione dell’11 ottobre».
Come si spiega le accuse che muove Vendola?
«Vuole precostituire uno spazio politico, cioè sta inventando artificialmente un Prc diverso per poter dire che l’unica strada possibile è la costituente di sinistra».
Dunque lei esclude che andrete alle europee con una lista Prc-Pdci?
«Noi abbiamo discusso negli ultimi nove mesi di come si va alle elezioni: prima quelle nazionali, poi litigando sulla Sinistra arcobaleno e poi durante il congresso. Noi oggi non dobbiamo aprire una discussione sulle europee, dobbiamo costruire un’opposizione politica e sociale nel paese e mettere ogni nostra forza su questo, perché dobbiamo evitare che ci sia soltanto l’antiberlusconismo giustizialista di Di Pietro e l’opposizione moderata di Veltroni. Per quanto mi riguarda, è evidente che se la legge rimanesse la stessa noi andiamo alle elezioni come Rifondazione comunista, punto. Ma oggi non è questa la discussione. E sono contrario a farmi spostare l’agenda politica su delle semplici ipotesi».
“Rifondazione per la sinistra” secondo lei può aiutare nella costruzione dell’opposizione di cui parlava?
«Dipende da cosa farà. Se il suo unico obiettivo è la polemica interna e la caricaturizzazione del Prc è certamente dannosa. Se altrimenti darà un contributo vivaddio. Per ora, mi sembra che da parte di Nichi e degli altri compagni ci sia più che altro un classico agire da frazione, in cui l’unico intento è prendersela con la maggioranza».
Ora siete anche alle prese con la vicenda Liberazione: cosa risponde alla redazione, che chiede chiarezza sulle cifre e le prospettive?
«A me le cifre le hanno mostrate giovedì, e ho chiesto al Consiglio di amministrazione di fornirle nel tempo più rapido possibile anche ai lavoratori perché è un loro diritto avere dei dati esatti. Ho anche chiesto al Cda di avanzare una proposta su come affrontare la situazione. Il mio obiettivo è fare tutto il possibile per il rilancio di Liberazione».
Però ha anche parlato di stato di crisi e ristrutturazione.
«E quale sarebbe l’alternativa per un giornale che ha un buco di oltre 4 milioni di euro e vende meno di 10 mila copie al giorno? Rifondazione comunista ha un bilancio di 10 milioni di euro. Qui si rischia di portare a chiudere il partito, non solo il giornale. E al direttore Sansonetti, che ci chiede di ripianare il buco, ricordo che oltre 2 milioni di debito sono al netto della sciagurata legge sull’editoria, contro la quale ci batteremo. Io sono assolutamente contrario all’idea di liquidare Liberazione, sono per rilanciarla. Ma questo vuol dire fare un piano editoriale che permetta di vendere più copie e avviare una ristrutturazione in modo da ridurre i costi. Non c’è altra soluzione perché non c’è nessuno in grado di fare i miracoli».

l’Unità Roma 28.9.08
I registi del moderno
A Villa Medici rassegna-confronto su Antonioni e Bergman
di Federico Pedroni


IL 30 LUGLIO 2007 si spensero, a poche ore di distanza, due tra i registi più importanti del cinema europeo: Michelangelo Antonioni e Ingmar Bergman. A loro l’Accademia di Francia dedica la terza edizione di «Maestri a confronto» da mercoledì 1 a martedì 7 ottobre. Mentre le prime due rassegne giocavano più sul contrasto che sulla similitudine, questa volta il raffronto è tra due registi che da sempre vengono accostati - spesso a sproposito - per la loro apparente vicinanza tematica. Antonioni, nato nel 1912, crebbe cinematograficamente negli anni del neorealismo durante i quali si dedicò al documentario per esordire con «Cronaca di un amore», innovativo per l’ambientazione borghese, per lo spirito noir e per lo scavo psicologico dei personaggi. Bergman, di sei anni più giovane, nei primi anni 50 diresse film destinati a formare il gusto e lo stile delle avanguardie cinematografiche europee. Entrambi gli autori sono sempre stati considerati dei registi intellettuali, interessati alle ansie e alle fratture delle classi borghesi, definiti criptici ed elitari, spesso destinati alla programmazione da cineclub. Entrambi invece riuscirono a interpretare la solitudine dell’uomo contemporaneo con profondità di analisi e nitidezza di stile. La rassegna si apre con due film degli anni ’50: «Il grido», unica opera di Antonioni di ambientazione proletaria, e «Il posto delle fragole», straordinaria ricognizione sulla memoria attraverso la storia di un vecchio professore alle prese con il proprio passato. Nei giorni successivi, è la volta di «L’avventura», «La notte», «L’eclisse» e «Deserto rosso» in cui Antonioni ha disegnato dei ritratti femminili di grande modernità. Ad essi vengono accostati altrettanti capolavori del maestro svedese - «Come in uno specchio», «Luci d’inverno», «Il silenzio», «Sussurri e grida» - in cui l’opera di scarnificazione anche stilistica della psicologia umana raggiunge vette eccelse. Sabato due film del ’66: «Blow up», che testimonia l’interesse di Antonioni per i cambiamenti sociali e di senso della contemporaneità, e «Persona», capolavoro sul tema esistenziale del doppio e della maschera. A conclusione due film degli anni ’80: «Identificazione di una donna» e «Dopo la prova», piccolo gioiello televisivo che è un compendio delle tematiche da sempre al centro delle illuminanti riflessioni bergmaniane. Dal primo al 7 ottobre

Corriere della Sera 28.9.08
Grandi mostre Mantegna al Louvre
Nei cieli di Parigi
di Massimo Nava


Il cardinale d'Amboise, ministro alla corte di Luigi XII, definì And rea Mantegna (1430-1506) il più grande pittore del mondo.
Di certo, la storia dell'arte assegna all'artista, cresciuto alla corte dei Gonzaga, un ruolo rivoluzionario nella pittura del '400 e decisivo nei secoli futuri. Basta mettere a confronto alcuni particolari delle sue opere (il gusto per l'immagine surreale, i misteriosi conigli sparsi ne La preghiera nell' orto degli ulivi, espressioni e colori, l'intensità scultorea dei corpi e dei volti) con segnali che avremo la sorpresa di ritrovare in Rubens, Rembrandt, in Degas; e persino in Magritte e Dalí. Se, inoltre, si considerano due fattori eccezionali per il suo secolo, come la longevità e la possibilità di lavorare per più di quarant'anni al servizio del principe, per il '400 Mantegna diventa decisivo come e più di Picasso per il '900.
Forse non è casuale che nel 1506, anno della sua morte, Leonardo da Vinci dipingeva la Gioconda eMichelangelo
cominciava ad immaginare il decoro della cappella Sistina. Certo è che a soli sedici anni, già al lavoro nella bottega del suo maestro Scorcione, a contatto con scultori e architetti come Donatello e Leon Battista Alberti, l'artista possedeva le chiavi della genialità: l'intuizione della prospettiva e il coraggio della provocazione, complice (stando ai biografi) un carattere non facile.
Mantegna non si scopre oggi. Ma è davvero eccezionale l'occasione offerta dal Louvre (con l'importante sostegno dell'Eni) di ripercorrere in un unico allestimento tutta la sua opera (190 fra tele e disegni), grazie ai generosi prestiti (dai musei di Londra, Vienna, Verona, Firenze, New York, Madrid, Mantova, Napoli, Copenhagen, oltre a privati) e al fatto che una grande parte dei capolavori è da secoli custodita nei musei di Parigi, dallo stesso Louvre a quel prezioso scrigno del Rinascimento italiano che è il «Jacquemart- André».
I curatori, Dominique Thiébaut e Giovanni Agosti (autore di un saggio su vita e opere del maestro), hanno allestito un'esposizione cronologica, ricca di riferimenti alle diverse influenze «attive e passive» di Mantegna. Dal rapporto di parentela con Giovanni Bellini allo studio della pittura fiamminga, dall'ambizione di «dipingere la scultura» all'influenza sui posteri per quanto riguarda la prospettiva, l'illusionismo, la cura maniacale del dettaglio, la «modernità » di trasfigurare il soggetto (ad esempio vestendolo con gli abiti dell'epoca) secondo ispirazione e non secondo i canoni.
Sovente presentato come un artista austero o come l'ultimo della tradizione antica, Mantegna è qui immerso completamente nel ruolo di primo pittore della modernità; dando così ragione a Marcel Proust, il quale scriveva che il cielo di Parigi è «già» stato dipinto da Mantegna.
Fra le opere esposte, vanno segnalate I portatori dei vasi, una delle tele del Trionfo di Cesare (che ha lasciato la collezione reale britannica per la prima volta dal 1600), il San Sebastiano (prestato da Vienna) e l'Adorazione dei pastori (dal Metropolitan di New York), la straordinaria ricostruzione di una parte del trittico di San Zeno e l'Ecce Homo. Quest'ultina tela — acquistata alla fine dell'800 dal collezionista Eduard André da un antiquario fiorentino — è stata definitivamente attribuita al Mantegna soltanto un secolo dopo.
ANDREA MANTEGNA Mantegna Parigi, Museo del Louvre, sino al 5 gennaio. Tel. +331/40205317

La Stampa 28.9.08
«Il Pd non ha nulla a che vedere con la sinistra»
Paolo Ferrero: «Nichi? Passa il suo tempo a dire falsità.
Ci dipinge come vetero-trinariciuti
Non capisce che andare col Pd è sbagliato
»
intervista di Marina Cassi


«Restaurazione comunista? Ma quando mai. Si disegna di me e della mia linea una caricatura. Si esaspera il clima interno. E lo si fa per un preciso disegno politico». E' accigliato il segretario di Rifondazione, Paolo Ferrero. L'ex ministro guida un partIto diviso a metà che Nichi Vendola ha raccontato su «La Stampa» come irto di personalismi, ripicche, dispetti, sospetti. Lui la storia la racconta diversamente. Ma non nasconde che le cose bene non vanno.
Allora: lei è vetero, nostalgico, con una visione da gruppuscolo Anni '70; gliene ha date di mazzate Vendola. Che cosa risponde?
«Che ha bisogno di distruggere Rifondazione»
Prego?
«Ci descrive come trinariciuti pazzoidi per poter delegittimare Rifondazione e poter riproporre come unica soluzione l'unità della sinistra, cioè una sinistra moderata ala esterna del Pd»
Ma Vendola e i suoi se ne vogliono andare?
«Lo chieda a loro. Certo la situazione è pesante perché invece di lavorare per il rilancio di Rifondazione lavorano a raccontare falsità. Potrebbe preludere alla distruzione dell'ipotesi politica del partito per percorrere altre strade con Mussi e Fava all'ombra del Pd o di una parte del Pd»
Lei nega di essere un restauratore comunista?
«Lo ripeto. Inventano una caricatura per poter gridare allo scandalo. E Nichi dovrebbe guardare a quel che fa la sua minoranza»
Ce lo dica lei
«Nichi dice cose poetiche, ma quando poi passa alla prosa vedo che la minoranza entra nella giunta della Calabria. Io ero contrario perché quel consiglio è uno di quelli con la più alta densità di indagati»
E che altro fa la minoranza di sbagliato?
«Dice ad esempio con Zipponi che oltre alla manifestazione della sinistra dell11 ottobre che sto lavorando a costruire, si può guardare con interesse a quella del Pd del 25»
E lo scandalo qual'è?
«Vuol dire non capire che il Pd non ha nulla a che vedere con la sinistra. L'opposizione al governo Berlusconi la farebbe anche il Pli se ancora ci fosse. La sinistra si qualifica rispetto a un interesse di classe».
Bello, ma che cosa significa?
«Significa che la gente che fa una vita di merda con salari bassi, sfratti, pensioni insufficienti, precarietà e tutto il resto deve incontrare la sinistra. Una volta lo sfrattato incontrava la sinistra e costruiva una lotta. Oggi è solo».
Direbbe Lenin: che fare?
«Faccio un esempio. A Roma distribuiamo a un euro, grazie a un accordo con una azienda, un chilo di pane alle persone più in difficoltà. Siamo partiti con mille chili, l'obiettivo è lO mila chili». Lodevole, ma lo fa anche la San Vincenzo. «E' ovvio che non si risolve così il problema del caro vita, ma oggi o si ricomincia anche da forme di mutualismo, da modi di stare con la gente per affrontare i problemi o la sinistra sparisce. Guardi: c'è molta più politica in questa distribuzione che in 27 convegni sul futuro della sinistra».
Va bene: torniamo alla macro politica: lei parla di ricreare una opposizione di sinistra. Senza Pd?
«Il Pd fa opposizione e anche moderatamente al governo Berlusconi, ma non alla Confindustria. Anzi cerca di contendere a Berlusconi l'amicizia della Confindustria».
Deve essere una di quelle affermazioni per cui Vendola la giudica trinariciuto. Ma, me che sia, non le sembra incredibile che la sinistra sia sempre divisa?
«Certo, siamo al punto più basso. Ma il problema non è l'unità è la proposta politica intorno a cui si cerca l'unità».
La minoranza sostiene che nel partito si è creato un pessimo clima anche con dispetti a suoi componenti. Vero?
«E' ovvio che la goliardata di incollare un telefono è sbagliata. Ma non dipingiamo la sinistra come 5 poverini attorniati da 500 cattivoni. Avevo proposto che entrassero in segreteria, hanno rifiutato. Ma compagni della minoranza sono il tesoriere, il presidente della commissione di garanzia, i responsabili degli enti locali, dell'ambiente e della comunicazione. Non mi sembrano proprio accerchiati». Però non negherà la spina di Liberazione, c'è chi dice che lei ama di più il Manifesto. «Non rispondo alle menzogne. Il Manifesto è un bel giornale, ma Liberazione è necessaria».
Però va maluccio o no?
«Perde copie e ha un deficit, anche per colpa della delinquenziale legge Berlusconi che minaccia la libertà di stampa, di 4,3 milioni. Ma va rilanciata». Cambiando il direttore Sansonetti? «Queste decisioni le prendono gli organismi dirigenti, non io».

Il Sole 24 Ore Domenica 28.9.08
Psichiatria come speranza
Curare le menti come arte e come scienza. La sintesi equilibrata di Tom Burns al di là degli opposti approcci ideologici
di Alessandro Pagnini


Più di trent'anni or sono Giovanni Jervis, nel suo Manuale critico di psichiatria, auspicava che si passasse da una critica (in quegli anni più che altro politica e ideologica) alla psichiatria a una «psichiatria critica». Il suo intento era quello di far convergere i due paradigmi storici della psichiatria, quello neuroscientifico e quello psicosociale, partendo dalla "pratica" di cura e facendosi carico delle contraddizioni, forse insanabili, interne a una disciplina essenzialmente divisa tra istanze umane e sociali e istanze "mediche". Erano gli anni in cui la psichiatria si dichiarava in "crisi" e ripensava le sue ragioni e la sua dimensione istituzionale.
Cos'è cambiato da allora? Esiste oggi una fase acquisita di "scienza normale" della psichiatria? Oppure permane la crisi, appunto nel senso di una perenne, essenziale, presa di coscienza criti: ca dei propri limiti, delle proprie possibilità e del proprio status? E inoltre, si è mai risolta quella tensione tra «prendersi cura del singolo paziente e proteggere la società» dalla quale hanno tratto alimento anche le più radicali posizioni antipsichiatriche?
Dall'equilibrata disamina che di tali problemi fa Tom Burns in questo agile libretto (il primo di unanuova promettente e elegante collana delle Edizioni Codice), pare proprio che la psichiatria oggi sia disposta ad accogliere, in un atto inteso come virtuoso, le più diverse istanze e i più diversi metodi, soprattutto per quanto riguarda la terapia. Come del resto tutta la medicina, la psichiatria è «allo stesso tempo un'arte e una scienza»; ma soprattutto, potremmo dire interpretando i fatti, è una branca della medicina basata sul rapporto medico-paziente, in essa particolarmente centrale e imprescindibile. Se infatti una visita internistica o ginecologica dura in media dieci minuti, una visita psichiatrica ne dura più di quaranta; durante i quali gli psichiatri, a differenza dei loro colleghi psicologi e neurologi, fanno in genere due cose: "offrono" una psicoterapia (cosa che i neurologi non fanno; e le loro visite durano circa mezz' ora solo perché gli esami che richiedono prendono più tempo) e prescrivono farmaci (cosa che i non medici non possono fare).
Si sa da controlli sperimentali che tale terapia combinata rappresenta, in termini di esiti di cura, qualcosa di assai più soddisfacente dell'effetto sommatorio dei due trattamenti; anche se è bene considerare le differenti tipologie di sintomi e le differenti" dosi" dei due ingredienti che possono influire sul risultato. Ma detto questo, ci suggerisce Burns, abbiamo detto ben poco. Intanto c'è il problema della diagnosi psichiatrica e di quanto la psichiatria debba assumersi come carico. Qualcuno riterrebbe di limitare alla schizofrenia, all'anoressianervosa e alla depressione l'ambito di competenza psichiatrica e accettare (o delegare a attenzioni diverse) l'esistenza di tante altre cause di infelicità che esulano dalle malattie mentali. .
Anche Burns sottolinea il rischio «che la psichiatria possa invadere ogni aspetto della nostra esistenza e trasformare ogni condizione umana nell'oggetto di una cura medica». Questo, nella pur neutrale presentazione di tutte le posizioni rilevanti all'interno della psichiatria, lo fa propendere più verso soluzloniscientifiche che non esistenziali-fenomenologiche. Il che non vuol dire, però, accettare forme di riduzionismo "neuropsichiatrico" (giacché «la mente non coincide con il cervello»), ma vuol dire sostanzialmente questo: se il nostro senso di identità e la intrinseca natura relazionale della nostra persona devono essere tenuti sempre in conto, potremmo dire deontologico, dagli psichiatri, i "progressi" della psichiatria si aspettano dalle neuroscienze, dalle teorie dell'evoluzione («la psicologia evoluzionistica influenzerà sempre di più la teoria psichiatrica»), dalla ricerca genetica; anche se restano aperti gli interrogativi etici che comportano le prospettive di cyborg con microchip cerebrali che ne controllano il comportamento o di individui trattati preventivamente in base alle predisposizioni indicate dal genoma. Di scientifico, soprattutto, deve essere salvato il modo di controllare l'eftìcacia terapeutica e di incoraggiare le ricerche epidemiologiche e i test comparativi. È davvero ammirevole come Burns concentri in poche pagine la quasi totalità dei problemi della psichiatria e ne faccia anche una essenziale storia. Il tutto all'insegna della chiarezza e dell'obiettività.
Mi è particolarmente piaciuto, a un certo punto, il suo richiamo alla speranza come valore terapeutico. Ne parla mentre espone l'esito del trial controllato che portò a smentire l' efficacia del coma insulinico nel trattamento di casi di schizofrenia. Si scoprì che più che l'insulina, a fare la differenza, era la dedizione degli infermieri e la speranza che il trattamento funzionasse. Da allora si chiama "effetto Hawthorn" quello determinato dall'entusiasmo. Il quale però, comeosserva Burns, «non dovrebbe mai essere escluso dalla psichiatria».
Tom Burns, «Psichiatria», Codice, Torino, pagg.l72, € 13,00.

Il Sole 24 Ore Domenica 28.9.08
Così affondò la nave dei folli
di Mario Rossi Monti


La nave che affonda è la nave del manicomio. La nave dei folli ha so1cato a lungo i mari. Ma nel corso degli anni 70 un gruppo di psichiatri ha deciso di colarla a picco. Ciò che ne è rimasto è stato bruciato. Non si doveva tornare indietro. Sono immagini che appartengono a un'epoca di grandi trasformazioni. Questo volume è costruito intorno a un'intervista di Salvatore Taverna a Franco Basaglia, Franca Ongaro Basaglia e Agostino Pirella. Siamo a Venezia, nella casa di Basaglia alla fine del 1977. Leggere queste pagine spalanca una finestra su una "esperienza calda": la battaglia contro i manicomi.
Ma l'aria che si respira è dominata da un unico tema: il ruolo del potere. Così come ci è stato trasmesso dall'analisi di Foucault. Un aspetto non marginale della follia viene assolutizzato. Il "sapere degli internati" diventa il punto archimedeo sul quale operare un radicale ribaltamento. Compito degli psichiatri sarebbe quello di mettere la propria «autodistruzione personale al servizio degli internati e degli oppressi», in una visione eroica se non apocalittica della propria missione. Il mito dello psichiatra «decifratore di senso» - dicono deve essere distrutto. La follia è una forma di protesta radicale conia quale è necessario allearsi.
Immagini come queste danno il senso di un'epoca carica di passioni "eroiche" ma anche sovraccarica di ideologia. Il paradosso è che l'aspirazione alla decostruzione di senso della follia e alla "liberazione" si è accompagnata all'individuazione di un unico senso: la follia come espressione di protesta sociale.
Non è facile parlare di quegli anni. Sembra quasi incredibile che da un dibattito come questo sia potuta nascere una buonaleggeo Una legge che afferma saldi principi. Anche se poil'ideologia ha ripreso il sopravvento nella fase di applicazione della legge. I principi sono stati lasciati lì a candire. Non ci si è preoccupati di scandire i tempi della loro realizzazione. Che cosa ne pensano ifamiliari di tanti pazienti schizofrenici che, ad esempio, in una città come Roma, sono stati abbandonati a loro stessi o addirittura colpevolizzati per la follia di un loro congiunto? Liberazione? Di chi e da chi? Degli psichiatri dalla responsabilità del loro mandato? Chi ha esercitato un potere? La sbornia per il potere ha fatto passare in seconda linea il riconoscimento della sofferenza e dell'impotenza? Sull'altare di eroici ideali sono state sacrificate molt vittime. Senza interpellarle.
Comunque nel bene e nel mal questa è la strada che l'Italia ha seguito nel trasformare ilmodello di assistenza psichiatrica. È facile ragionare col senno di poi. Ma non può fare ameno di chiedersi se era davvero necessario tutto questo. Altri Paesi hanno oggi modelli assistenza psichiatrica anche più avanzati del nostro e non sono passati attraverso questa sorta di rivoluzione culturale cinese. Il prezzo che abbiamo dovuto pagare all'ideologia è stato troppo alto?
Franco Basaglia, Franca Ongaro Basaglia, Agostino Pirella, Salvatore Taverna, «La nave che affonda», Cortina, Milano, pagg.154, € 12,00.

Il Sole 24 Ore Domenica 28.9.08
SatIsFiction
La seduta va in televisione
di Camilla Baresani


In treatment è una bella sfida: racconta, nell'unità di luogo diuno studio professionale, la vita interiore di uno psicoterapeuta e dei suoi pazienti. Non far morire di noia gli spettatori, inchiodati a un lento ping pong verbale nell'immobilità claustrofobica della stanza fiocamente illuminata, è un compito impegnativo. Se un simile soggetto fosse sviluppato in Italia, ci sarebbe da aspettarsi ex-tronisti o ex-qualcosa nel ruolo dei pazienti, un attore trombone della vecchia guardia a fare il terapeuta, dialoghi innaturali e senza nerbo, dizioni irritanti.
Invece l'americana Hbo, marchio di garanzia di prodotti televisivi di qualità, ha messo in piedi unserial impeccabile. 5 puntate ogni settimana, 4 pazienti e il venerdì dedicato all'analisi dell'analista, che a fine settimana è scosso dalle storie e dalle relazioni instaurate coi pazienti, oltre a vivere un periodo critico nel rapporto con se stesso e con la propria famiglia. Le singole storie proseguono poi ogni settimana, sempre dal lunedì al venerdì (su Cult, alle 21, dal 22 settembre). Gli attori sono eccellenti, mai sovraccarichi e mai imbalsamati. E i dialoghi, assolutamente plausibili, raccontano dettagli di abiezione e auto-inganno con la necessaria crudezza e un realismo toccante. Fa miracoli anche il regista Rodrigo Garcia, che è adattatore del format originale israeliano (a proposito di psicanalisi, ne avrà avuto bisogno anche lui, visto che è figlio dcl paralizzante genio letterario Garcia Marquez). Molto interessante la puntata del venerdì: ci permette di sapere cosa pensa e soffre il tcrapeuta e soprattutto come vive il rapporto con i pazienti.
La traduzione italiana, come al solito, non è all'altezza del prodotto. «Abbiamo bevuto un drink e ... gli abbiamo dato giù parecchio»: chi mai parla così?

Internazionale 26 settembre / 2 ottobre 2008 · n.763 · anno 15
Se questo non è razzismo
di Amara Lakhous


La serata dedicata ad Abdul Guibre, ospitata il 18 settembre dalla libreria Griot di Roma, è stata un grido di ribellione in un paese che vive sotto anestesia completa da mesi. Come non dare ragione a Igiaba Scego quando dice che “c’è un clima da Mississippi burning che fa tremare i polsi”? Parole profetiche, confermate poche ore dopo dalla strage dei ghanesi a Castel Volturno. “La novità di questo periodo”, ha spiegato l’antropologa Anna Maria Rivera, esperta di razzismo, “è che c’è stata una saldatura tra razzismo istituzionale e razzismo popolare. Ma la cosa più terribile è che la sinistra non sembra consapevole di questa deriva della società italiana”.
Nel mio breve intervento ho detto che l’omicidio di Abdul non è – e purtroppo non sarà – un caso isolato. È il frutto di una strategia politica e mediatica cominciata durante l’ultima campagna elettorale. La costruzione del nemico di turno (clandestino, gay, musulmano, zingaro, negro) è ormai opera compiuta e sembra l’unica fonte certa di consenso popolare disponibile in caso di bisogno. La domanda che ha ossessionato tutti i presenti era una sola: come si fa a uccidere a sprangate un ragazzo di 19 anni per un pacco di biscotti in una città italiana?
Tornato a casa, ho passato il resto della serata e parte della notte a pensare alle ultime parole sentite da Abdul prima di morire: “Negro di merda”. Ho cercato con fatica di convincere me stesso che Abdul era un cittadino italiano. Eppure quanti media continuano a deinirlo “africano originario del Burkina Faso”?
Prima di andare a dormire ho sfogliato qualche quotidiano. Sono rimasto turbato dalle frasi dell’avvocato dei due autori dell’omicidio: “Il razzismo è fuori discussione, non c’entra nulla. Si tratta di un episodio certamente sciagurato e tragico, che sarebbe successo ugualmente se il ragazzo non fosse stato di colore”. Il pm Roberta Brera ha escluso l’aggravante dell’odio razziale.
Mi sono chiesto con disperazione: se questo non è un atto razzista, allora cos’è il razzismo?
Da tre mesi sono cittadino italiano proprio come Abdul. Sto costruendo con dificoltà la mia nuova identità di italoalgerino. Cominciano a venirmi i primi dubbi: forse italiani si nasce e non si diventa? Che ine ha fatto l’articolo 3 della costituzione? “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
La cittadinanza non ha nessun peso di fronte al colore della pelle o all’appartenenza religiosa? Non sarò per caso cittadino di serie B perché sono musulmano?









Amara Lakhous, algerino di nascita, di cittadinanza italiana, è autore del romanzo Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio, pubblicato per E/O nel 2006




Grant Wood, Gothic American 1930