lunedì 29 settembre 2008

Repubblica 29.9.08
Perché in Italia riesplode il razzismo
L´odio per lo straniero nasce dalla paura
di Zygmunt Bauman


Anticipiamo parte della prefazione che Zygmunt Bauman ha scritto per Amore per l´odio. La produzione del male nelle società moderne, di Leonidas Donskis (Erickson, pagg. 344, euro 20) che esce in questi giorni.

Odiamo perché abbiamo paura; ma abbiamo paura a causa dell´odio che avvelena la nostra coabitazione sul pianeta che condividiamo
Di fronte all´assalto a un campo rom, il leader della Lega ha detto che se lo Stato non fa il suo dovere, lo fa la gente
Le paure si spostano dalle cause reali su bersagli, gli immigrati, che solo remotamente sono connessi alle vere fonti di ansia
La questione della sicurezza esistenziale è scivolata via dalle mani della sinistra

L´odio e la paura dell´odio sono antichi quando il genere umano (forse ancora più antichi...), e le probabilità che la loro eterna familiarità con la condizione umana possa essere interrotta in un prossimo futuro appaiono alquanto scarse, sempreché ve ne siano. Odiamo perché abbiamo paura; ma abbiamo paura a causa dell´odio che avvelena la nostra coabitazione sul pianeta che condividiamo. Così ci sono sempre motivi più che sufficienti per avere paura; e sempre motivi più che sufficienti per odiare. Sembra che l´odio e la paura siano prigionieri di un circolo vizioso, che si alimentino vicendevolmente e traggano l´uno dall´altra l´animosità e l´impeto che li infiammano. (...)
L´odio è sempre stato con noi, lo è adesso e lo sarà per sempre ? qualunque cosa facciamo, e per quanto impegno mettiamo per cercare di rimpiazzare ciascuna delle sue numerose e variegate manifestazioni con la mutua compassione, la comprensione, la solidarietà. È vero? Sì, ma non del tutto. Come ha fatto notare Albert Camus, c´è una novità impressionante nella vecchia storia che abbiamo riportato. Nei tempi moderni ? i tempi in cui viviamo, e soltanto nei tempi moderni ? ci accade di diffondere e coltivare la paura e l´odio, e di commettere atti di violenza che tendono a esserne conseguenza, in nome di una vita migliore e pacifica, della felicità, dell´umanità, dell´amore. Di usare il male per promuovere il bene. (...)
Abbiamo bisogno di qualcuno da odiare per sbarazzarci del senso devastante della nostra indegnità, sperando così di sentirci meglio, ma affinché questa operazione riesca, essa deve svolgersi celando tutte le tracce di una vendetta personale.
Il legame tra la percezione della ripugnanza e dell´odiosità del bersaglio prescelto e la nostra frustrazione alla ricerca di uno sbocco deve restare segreto.In qualunque modo l´odio sia nato, preferiremmo spiegarlo, agli altri e a noi stessi, adducendo la nostra volontà di difendere cose buone e nobili che essi, quegli individui odiosi, denigrano e contro le quali cospirano, sostenendo che la ragione per la quale li odiamo e la nostra determinazione a liberarci di loro siano causate (e giustificate) dal desiderio di assicurarci la sopravvivenza di una società ordinata e civile. Insistiamo a dire che odiamo perché vogliamo che il mondo sia libero dall´odio. (...)
Recentemente la Suprema Corte di Cassazione italiana ha deliberato che sia legittimo discriminare i rom sulla base della motivazione che «gli zingari sono ladri». E quando i delinquenti di Napoli, brandendo mazze, spranghe di ferro e bottiglie incendiarie, si precipitarono sui campi dei rom e dei sinti situati nella periferia est della città a causa della diceria che una bambina fosse stata rapita da una zingara, la reazione del ministro dell´Interno [Roberto Maroni, ndt] del governo democraticamente eletto di Silvio Berlusconi, fu l´affermazione che «questo è ciò che accade quando gli zingari rubano i bambini», mentre il leader della Lega Nord e ministro dello stesso governo [Umberto Bossi, ndt], dichiarò (benedicendo «la gente» che mette i campi nomadi a ferro e a fuoco e manifestando uno sprezzante sarcasmo per la «classe politica» reticente) che «se lo Stato non fa il suo dovere, lo fa la gente». Fatti analoghi ? benché meno pubblicizzati perché annunciati meno esplicitamente e spudoratamente ? erano avvenuti in precedenza nella Slovacchia, nella Repubblica Ceca e in Ungheria. L´editorialista del Guardian Seuman Milne riflette che, dato il clima europeo caratterizzato da un acuto senso di incertezza e ansia, «la degenerazione sociale e democratica raggiunta ora in Italia» potrebbe verificarsi dovunque. «La persecuzione degli zingari è la vergogna dell´Italia», conclude, «e un monito per tutti noi». (...)
A differenza delle paure del passato, le paure contemporanee sono aspecifiche, disancorate, elusive, fluttuanti e mutevoli ? difficili da identificare e localizzare esattamente. Abbiamo paura senza sapere da dove venga la nostra ansia e quali siano esattamente i pericoli che causano la nostra ansia e la nostra inquietudine. Potremmo dire che le nostre paure vagano alla ricerca della loro causa; cerchiamo disperatamente di trovarne le cause, per essere capaci di «fare qualcosa in proposito» o per chiedere che «qualcosa venga fatto». Le radici più profonde della paura contemporanea ? la graduale ma inesorabile perdita di sicurezza esistenziale e la fragilità della propria posizione sociale ? non possono essere affrontate direttamente, poiché le agenzie ancora esistenti di azione politica non hanno potere sufficiente per sradicarle in un mondo che si sta rapidamente globalizzando. E così le paure tendono a spostarsi dalle cause reali di malessere per scaricarsi su bersagli che sono solo remotamente, sempreché lo siano, connesse alle fonti di ansia, ma che presentano il vantaggio di essere prossimi, visibili, a portata di mano e per ciò stesso possibili da gestire. Tali battaglie sostitutive, intraprese contro un nemico sostitutivo, non cancelleranno l´ansia, poiché le sue radici reali resteranno dov´erano, assolutamente intatte ? ma perlomeno trarremo qualche consolazione dalla consapevolezza di non essere restati inerti, di aver fatto qualcosa per cercare di vendicare la nostra infelicità e di esserci visti mentre lo facevamo. la tormentosa consapevolezza della nostra umiliante impotenza ne sarà forse lenita ? per qualche tempo, almeno.
L´afflusso dei migranti, e specialmente di quelli fuggiti da vittimizzazioni, persecuzioni e umiliazioni, o la minaccia del loro arrivo, dà ai nativi dei Paesi a cui approdano un profondo disagio poiché ricorda loro sgradevolmente la fragilità dell´esistenza umana ? la loro stessa debolezza che i nativi preferirebbero decisamente nascondere e dimenticare ma che nondimeno li tormenta per la maggior parte del tempo. Quei migranti hanno lasciato le loro case e hanno dovuto separarsi dagli affetti più cari perché non avevano più mezzi di sostentamento e avevano perso il lavoro all´impatto con il «progresso economico» e il «libero mercato», o perché le loro case erano state bruciate, sventrate e rase al suolo a causa del corto circuito dell´ordine sociale, di sommosse e tumulti, o perché vi erano stati costretti dal fatto di essere in esubero, incapaci ormai di guadagnarsi da vivere e segnati a dito come un «fardello della società». Essi perciò rappresentano ? o, meglio, incarnano ? tutte le cose che i nativi temono; rappresentano quelle terrificanti e misteriose «forze globali» che decidono le regole del gioco in cui tutti noi, i migranti al pari dei nativi, siamo non già giocatori bensì pedine o gettoni. Quando respingono i migranti e li costringono a fare i bagagli per tornarsene da dove sono venuti, i nativi possono almeno bruciare quelle forze odiose e spaventose in effigie; possono conseguire una specie di «vittoria simbolica» in una guerra che sanno (o sospettano, per quanto ne neghino la consapevolezza) di non poter vincere «sul serio».
Prendere i migranti per le cause delle proprie difficoltà e paure può sembrare illogico, ma tutto ciò riposa su una sorta di logica perversa: c´era la sicurezza del lavoro e la certezza di buone prospettive di vita, prima ? ma lo scenario è cambiato sostituendovi la flessibilità del mercato del lavoro e assunzioni incerte e a breve termine, accompagnate da uno sgradevole allentamento dei legami fra le persone, e tutte queste novità si sono verificate proprio quando arrivavano i migranti. È dunque «ragionevole» presupporre che l´arrivo di questi stranieri e l´insicurezza che prima non esisteva siano connessi, e che se si obbligano i nuovi arrivati ad andarsene, tutto tornerà nuovamente agevole e sicuro come ci si ricorda che fosse (indipendentemente dal grado di correttezza del ricordo) prima del loro arrivo. (...)
Le paure di oggigiorno sono generate in larga parte dalla globalizzazione (in altre parole, la nuova extraterritorialità) di forze che decidono delle questioni fondamentali riguardo alla qualità della nostra vita e alle possibilità di vita dei nostri figli. Il primo nesso causale collaterale riguarda il senso di sicurezza esistenziale. (...) La questione della sicurezza esistenziale è scivolata via dalle mani dei partiti che per forza d´inerzia vengono ancora chiamati «la Sinistra», che potevano contare in passato, ma non più nel tempo presente, su uno Stato intraprendente che risolvesse il problema. La questione perciò giace, letteralmente, in mezzo alla strada ? da cui è stata lestamente raccolta da forze che, anch´esse erroneamente, vengono chiamate «la Destra». Il partito italiano di destra, la Lega, promette adesso di ripristinare la sicurezza esistenziale ? che il Partito Democratico, l´erede della Sinistra, promette di minare ulteriormente con una maggiore deregolamentazione dei capitali e dei mercati, un sovrappiù di flessibilità nel mercato del lavoro e un´apertura ancora più larga delle porte del Paese alle misteriose, imprevedibili e incontrollabili forze globali (porte che, come sa dalle sue amare esperienze, non si possono chiudere comunque).
Soltanto la Lega intercetta l´insicurezza esistenziale, ma la interpreta, ingannevolmente, non come il tipico prodotto del capitalismo senza regole (che significa in pratica libertà per i potenti e impotenza per chi è a corto di risorse), bensì come la conseguenza, per i ricchi lombardi, di dover condividere il loro benessere con i pigri calabresi o siciliani, e come la disgrazia di dover condividere, gli italiani tutti, i loro mezzi di sussistenza con gli zingari ladri e con tutti gli altri stranieri (dimenticando che la migrazione di milioni di loro antenati italiani negli Stati Uniti e nell´America Latina ha contribuito e normemente all´attuale ricchezza di quei Paesi).
Traduzione di Riccardo Mazzeo

l’Unità 29.9.08
Elezioni in Austria Forte avanzata della destra xenofoba
Vola l’estrema destra. Crollano socialdemocratici e popolari
Haider triplica i voti. Strache al 18%: io cancelliere
di Cinzia Zambrano


ESTREMA DESTRA a valanga. Nelle elezioni di ieri in Austria la vittoria numerica è andata ai socialdemocratici di Faymann, che, sebbene siano scesi ai minimi storici, con il 29,7% dei voti hanno conservato il primo posto. Ma la vittoria politica è andata senza ombra di dubbio ai due partiti dell'estrema destra xenofoba e antieuropeista: la Fpoe di Heinz-Cristian Strache e la Bzoe del redivivo Joerg Haider.

È un terremoto politico in piena regola quello che esce dalle urne austriache: 5 punti e mezzo in meno per i socialdemocratici (Spoe) di Faymann (scesi al 29,7 per cento), addirittura 9 per i popolari (ora 25,6 per cento), mentre le due formazioni dell’ultradestra, la Fpoe di Strache e la Bzoe di Haider passano rispettivamente dall’11,4 al 18 per cento e dal 4,1 all’11 per cento. In pratica, messi assieme, raggiungono la Spoe che governava in grosse koalition assieme ai popolari. Non a caso Heinz-Christian Strache rivendica per sé la poltrona di cancelliere.
E ora cosa accadrà? In teoria l’alleanza socialisti-popolari ha i numeri per andare avanti, ma politicamente appare impraticabile. Il presidente Fischer potrebbe affidare l’incarico alla Spoe per un governo di minoranza.

È stato un vero terremoto politico, la fine dell'equilibrio basato sull'interazione fra i due partiti maggiori, la Spoe e il popolari dell'Oevp. Che assieme hanno subito la più grave perdita mai registrata da una Grosse Koalition dal dopoguerra ad oggi: sono scesi sotto il 60%. Delusi dal mal governo, gli elettori - il cui 3% era composto da sedicenni che votavano per la prima volta - hanno punito i due grandi partiti e premiato l'estrema destra - la Fpoe di Heinz-Christian Strache e la Bzoe di Joerg Haider - marcando una forte virata a destra del Paese che già nel 2000 si guadagnò isolamento internazionale e sanzioni europee proprio a causa delle posizioni antieuropee e xenofobe della Fpoe.
Secondo i risultati provvisori, la Spoe del cancelliere (ancora per poco), Alfred Gusenbauer, e del nuovo aspirante cancelliere, Werner Faymann, è arrivata al 29,8%, contro il 35,34% ottenuto nel 2006. La Oevp al 25,6% (34,33%), la Fpoe passa dall'11,4% al 18%, triplica la Bzoe di Haider dal 4,11% all'11%. Retrocedono i Verdi, finora terza forza in parlamento: scendono dall'11,5% al 9,8% scivolando al quinto posto.
I primi a presentarsi davanti alle telecamere sono stati Strache e poco dopo Haider. Strache ha reclamato per sé la poltrona di cancelliere, ricordando il «modello 1999, quando il terzo nel Paese divenne cancelliere». Nove anni fa le elezioni si conclusero con la vittoria dei socialdemocratici,seguiti dalla Fpoe, allora trascinata da Haider quasi al 30% terzi furono i popolari della Oevp. Alla fine fu proprio la Oevp a esprimere il cancelliere, con Wolfgang Schuessel nel nuovo governo federale. Haider, dal canto suo, ha fatto sapere che il voto mostra chiaramente che gli elettori «vogliono qualcosa di nuovo», ipotizzando una coalizione a tre, scenario mai registratosi finora in Austria. E poi ha aggiunto: «Io resto in Carinzia» (come governatore, ndr). Considerando la grande rentréé ieri a Vienna, dove è atterrato direttamente dalla sua Carinzia, appare difficile credergli. Nel bene e nel male è da circa venti anni un protagonista della politica austriaca, di cui ne ha spesso dettato l'agenda.
Cosa accadra? Numericamente una riedizione di una grande coalizione rosso-nera fra Spoe-Oevp è ipotizzabile, ma politicamente sembra poco praticabile. Il presidente, Heinz Fischer, assegnerà verosimilmente l'incarico di formare un nuovo governo alla Spoe in quanto risultata il primo partito.
Tra commentatori e politici è scattata la gara ad ipotizzare diverse altre varianti e la formula più gettonata è quella della coalizione tripartita. Le alleanze potrebbero dunque essere: coalizione popolari-estrema destra (Oevp-Fpoe-Bzoe) o socialdemocratici-estrema destra (Spoe-Fpoe-Bzoe). Sia Fpoe che Bzoe reclamano infatti la fine di quella che chiamano la «esclusione» dei loro partiti.
Altre ipotesi sono un governo di minoranza Spoe con l'appoggio esterno della Fpoe, o una possibile riunificazione di Fpoe e Bzoe: per arrivarci però sarebbe necessaria una pace fra Strache e Haider, ex amici ora nemici, al momento improbabile. Ma non è detto che l'Austria non riesca a sorprenderci. Ancora una volta.

l’Unità 29.9.08
In strada scatta la festa per i due uomini neri di Vienna
Il leader della Carinzia assapora il ritorno sulla scena nazionale. Il suo ex amico esulta: «È un miracolo»
di Cinzia Zambrano


L’ANIMALE non era affatto morente, come lo davano i sondaggi. Il falco Joerg Haider «torna con forza sulla scena politica nazionale, non siamo un partito di minoranza e il risultato del voto lo dimostra, è un successo storico». Sotto il tendone bianco e rosso, regno viennese della Bzoe, in attesa del grande ritorno di Haider, Karin tracanna una birra dietro l’altra. Disseta la gola e le ambizioni politiche.
Poche strade più in là, si festeggia il «miracolo blu» di Strache. Se è vero che i dettagli «contano per dire chi siamo noi» -come cantava la Vanoni- il palco alto non più di 20 centimetri sui cui strepita il «guerriero vittorioso» parla chiaro. Heinz-Cristian non ama le altezze, quelle che «allungano la distanza dalla sua gente» dice l’operaio che lo ha montato. Lui vuole essere, lui è uno di loro, dei tanti che lo osannano nel tendone-quartiere generale della Fpoe allestito a due passi dal Rathaus. Esattamente al centro, tra la sede dei socialdemocratici e quella dei popolari. Come un monito a dire, senza di me Faymann, leader della Spoe, e Molterer, capo dei popolari, non vanno da nessuna parte.
Strache e l’ex «mentore» Haider sono i veri vincitori del voto. Le due facce della stessa medaglia razzista e xenofoba che circola in molti Paesi dell’Europa.
Il primo con i suoi anatemi xenofobi e anti-europeisti ha messo in cassaforte un bottino di 18,3 per cento di preferenze. Ha scavalcato a destra il suo ex amico carinziano. Che nel 2005 sbattendo la porta abbandonò la Fpoe per dar vita alla Bzoe, sempre forza ultrareazionaria ma paragonata al Partito di Strache giudicata «moderata». Al voto di ieri l’una e l’altra hanno sbancato. Al peggio non c’è mai fine. Ora l’Austria di uomini «neri» ne ha due. Per ora divisi, ma messi insieme sfiorano il 30% dei voti. Se Strache è la -prevedibile- sorpresa, Haider è la riscossa. O meglio, la vendetta. Verso quell’ex delfino che in passato gli ha rubato scena, slogan, e voti. Che il governatore della Carinzia oggi si riprende con gli interessi, triplicando la sua percentuale dal 4 all’11,%.
Abbronzato e con qualche ruga in più, sfodera il sorriso di chi è rinato. Si fa spazio tra la folla portato quasi in braccio da un nugolo di body gard allampadati come lui. Gongola e ne ha ben d’onde. L’incasso del giorno gli consente di togliersi subito un sassolino dalla scarpa: «Non siamo un partito radicale, ma di contenuti» dice, alludendo alla «sua» ex Fpoe.
È il gioco delle parti. Del resto anche Strache, dal palco, quasi inghiottito dai simpatizzanti, si affretta a respingere «ogni speculazione» su possibili alleanze con Haider. Capelli gelatinati, abito blu -come tutto in questo tendone- sorriso a trentadue denti, è euforico. «È il nostro miracolo» si rivolge ai suoi elettori e giù applausi. Stringe mani, firma autografi, senza perdere di vista le decine di telecamere che lo puntano come il cecchino la sua vittima. 39 anni, prima di darsi alla politica Strache faceva l’odontotecnico. La celebrità data il 2004, quando a soli 35 anni viene nominato capo della Fpoe di Vienna. È il pupillo di Haider. E come ogni pupillo lo supera. Nel 2005 la rottura tra i due. Strache non digerisce il voto favorevole del partito all’entrata della Turchia nella Ue. Haider se ne va e Strache dà nuova forma alla sua creatura. La spinta propulsiva del suo programma è sempre la protesta: contro gli immigrati che stravolgono il vivere civile, contro l’Europa. Gli stessi temi di Haider, solo con toni più accesi e rozzi. La paura dell’immigrato, furbizia elettorale diffusasi ovunque, dello straniero che ruba lavoro e casa, sputata come fuoco nei suoi comizi, infiamma nazisti, pensionati, ragazzi disillusi, mamme impaurite. Lo stesso bacino dove pesca Haider.
Nei prossimi giorni le analisi politiche vivisezioneranno la radiografia delle elezioni. Per ora non possiamo dire quanto e come i sedicenni che hanno votato per la prima volta hanno pesato nella scalata degli uomini «neri». Certo è, che a votare per loro sono stati gli ultrareazionari sì, ma anche quelli che non arrivano a fine mese, quelli dei salari minimi, inaciditi dal dover «mantenere» con i loro soldi immigrati disoccupati, li hanno votati i pensionati dei quartieri periferici stanchi dell’«occupazione» straniera, i giovani razzisti della porta accanto, i disoccupati in cerca dell’antisistema.
Ora l’Austria, e non solo, guarda a Strache e ad Haider con inevitabile angoscia: il trauma del 1999, quando il 30% di Joerg fece cadere il Paese in isolamento internazionale, non è stato ancora elaborato. La paura di molti è che potrebbe tornare.

l’Unità 29.9.08
Gavino Angius. L’esponente del Ps: serve un dialogo nuovo tra tutte le forze riformiste, il partito di Veltroni potrebbe essere il perno
«Guardo al Pd, la costituente socialista è fallita»
di Simone Collini


«Il Pd è quel che è, però è quel che c’è», dice Gavino Angius sintetizzando in una battuta il senso di un lungo ragionamento. «Il progetto della costituente socialista è fallito», ammette lui che ne è stato tra i principali sostenitori. Se ora ha deciso di rompere un silenzio che ha mantenuto per mesi - ripetendo più volte che sta parlando «a titolo personale» - è perché ritiene che la situazione politica e sociale richieda «un dialogo nuovo, diverso, tra il Pd e tutte le forze della sinistra riformista».
Anche lei paventa il rischio che si affermi il “modello Putin”?
«Quella di Veltroni è una denuncia molto forte della deriva che la nostra democrazia sta prendendo. Il problema però è, di fronte a questo, che opposizione si fa. Il rischio è che ci sia un’Italia che stenta a trovare voce, che si oscilli tra un moralismo impotente e rabbiose forme di lotta o di denuncia, che forme di frustrazione civile sfocino in forme di sconclusionato radicalismo politico».
Lei vede così diffusi questi stati d’animo, nel paese?
«Io vedo una coltre di conformismo, rispetto il disegno berlusconiano, che bisogna spezzare. Non foss’altro perché il conformismo è una premessa all’autoritarismo. Però una battaglia di questo genere, che è ideale, politica e culturale, implica anche una raccolta delle forze».
Che cosa intende dire?
«Quando ho letto l’intervista di Veltroni mi sono domandato: stiamo facendo tutto il possibile per contenere e per contrastare questo pericolo?».
La risposta che si è dato?
«No, non lo stiamo facendo».
E per farlo?
«Bisogna ricostruire un centrosinistra riformista. Naturalmente imperniato sul Pd, perché nonostante tutte le critiche che si possono fare, è ciò che c’è. Altro non c’è».
Curioso che lo dica lei, che è stato tra i promotori della costituente socialista.
«Quel progetto è fallito».
Il motivo, secondo lei?
«Non gli si è dato il respiro necessario, quel senso di partecipazione e di arricchimento senza il quale nessun progetto può vivere».
Quando dice che per costruire un nuovo centrosinistra si deve partire dal Pd che cosa intende, che i socialisti dovrebbero entrarvi?
«Si può discutere se le forze riformiste si debbano ritrovare tutte dentro il Pd o se una parte debba essere contigua. Ma il punto è ricostruire un progetto per l’Italia, perché di fronte a un Berlusconi che definisce l’agenda della maggioranza e praticamente del paese, non vorrei che Di Pietro definisse l’agenda dell’opposizione. E questo si può fare, nell’attuale sistema politico che definirei bipolarismo a maglie strette, una sorta di bipartitismo, unendo tutte le forze riformiste, laiche, cattoliche, ambientaliste, socialiste. Il Pd da solo, così com’è, non basta. Bisogna mettere in campo un progetto diverso, un Pd che sia ancora di più un partito contenitore, pluriculturale».
Questo discorso può avere ricadute immediate alle europee, con qualche esponente socialista candidato nelle liste del Pd?
«Il problema non è di alleanze elettorale, né di assicurarsi uno o due posti nell’Europarlamento. Altrimenti sarebbe ben misera la vicenda».

l’Unità 29.9.08
Donne forti senza burqa
Ho visto le donne fiere dell’Afghanistan ora inghiottite dai burqa e dalla paura
di Tana De Zulueta


Me le ricordo così, le donne afghane, come Malalai Kakar: forti, esili e volitive. Da studente universitaria ho passato mie vacanze in Afghanistan, raggiungendo i miei genitori con un lunghissimo volo delle linee aeree afghane. Era un viaggio a tappe, con scalo a Francoforte, poi Istanbul, Teheran e infine Kabul. All’arrivo in Asia ero sempre sopraffatta dal sonno, ma non le mie compagne di viaggio, e mai le nostre hostess.
Zahir Shah era ancora re, anche se per poco, i talebani non avevano ancora conquistato il paese, e le donne potevano ancora lavorare. L’Afghanistan era, come oggi, un paese poverissimo, ma il regno di Zahir Shah, iniziato negli anni trenta, era stato una rara parentesi di relativa tranquillità per il suo paese. Il re si considerava un modernizzatore e incoraggiava l’educazione delle donne e la loro partecipazione alla vita pubblica. Le hostess della Ariana erano un simbolo di modernità, e ne erano orgogliose. Mi ricordo le loro voci imperiose quando davano ordini ai passeggeri e le chiacchiere allegre nella zona cucina.
Girando per le strade di Kabul le donne con il burqa erano quasi in minoranza. Le studentesse dell’università vestivano come noi e nell’ospedale donne medico ed infermiere giravano per i reparti senza velo. Mio padre, che lavorava in Afghanistan per le Nazioni Unite, occupandosi di salute pubblica e coordinando la campagna contro la malaria, aveva come interfaccia nel ministero della Sanità una funzionaria donna.
Sono tornata in Afghanistan un anno fa, e ho visto un’altro mondo. Non solo per i segni evidenti di più di trent’anni di guerra, con la città di Kabul quadruplicata nella sua estensione dall’afflusso degli sfollati, circondata da un distesa infinita di baracche di fango, con le carcasse dei carri armati lungo la strada dell’aeroporto. Ma c’era qualcos’altro. Non ho colto subito la differenza, mi sembrava, però, che mancasse qualcosa. Poi ho realizzato: erano sparite le donne. Oggi anche le più emancipate non escono di casa senza un pezzo di velo in testa, compreso il personale femminile delle organizzazioni internazionali. Le altre, quando escono, sono state inghiottite dall’universale burqa celeste. Un dato di fatto che la cacciata dei talebani dalle città non ha sostanzialmente modificato. Il boom edilizio del dopoguerra ha sventrato la città vecchia e sono spuntati interi quartieri per i nuovi ricchi, ma l’ostentazione femminile, se c’è, si svolge a porte chiuse.
Passando lungo la strada che portava al palazzo del re, ora il palazzo presidenziale, ho finalmente riconosciuto un pezzo della città com’era. Facevo parte, in questa mia ultima visita, di una delegazione parlamentare delle commissioni Difesa, e la prima tappa del nostro viaggio era un incontro con il Presidente Karzai. Il vecchio re, molto malato, ci fu detto, aveva ceduto il suo palazzo, e viveva in una vecchia foresteria nel giardino. Ferma sul marciapiede, ho riconosciuto il posto, poco frequentato, ma non particolarmente pericoloso, dove passeggiavo con il nostro cane. Ora la strada è chiusa al traffico anche pedonale per timore di attentati. Più che trentacinque anni, sembrava essere passato un secolo, anche se l’orologio, da un certo punto di vista - quello delle donne -- più che in avanti sembra essere tornato indietro. Perché le donne, il loro corpo, la loro pretesa di autonomia, sono ridiventate il fronte dell’ultima guerra in atto per la conquista dell’Afghanistan.
Nel 1972, studentessa universitaria, giravo da sola, e indisturbata, per le strade di Kandahar, mentre mio padre sbrigava i suoi affari nell’ospedale della città. Oggi sarebbe impensabile.
Malalai Kakar, era nata a Kandahar, la stessa città dove è nato il movimento dei talebani, il movimento degli «studenti» fondamentalisti. Veniva, però, da una famiglia che aveva sposato un’altra idea di progresso. Il padre, ufficiale di polizia, la spinse ad arruolarsi nella polizia nel 1982, come i suoi fratelli, «senza differenza», disse lei. Aveva dato a sua figlia il nome di Malalai, eroina della resistenza afghana contro i colonialisti inglesi. Non si trova traccia del nome di Malalai nelle cronache britanniche della battaglia di Maiwand, storica sconfitta degli inglesi per mano dell’afghano Ayub Khan, ma gli storici locali narrano che ad un certo momento, quando le linee afghane stavano per sfaldarsi, si alzò una ragazza, impugnando come bandiera il suo velo, e incitando, cantando, i suoi compagni a combattere. Malalai fu colpita e uccisa da una pallottola inglese, ma le truppe di Ayub Khan si gettarono contro gli inglesi con rinnovato furore. Fu un umiliazione cocente, immortalata dallo stesso Kipling nella sua poesia That day. Pare che la tomba, vicino a Kandahar, dove Malalai l’eroina fu sepolta con tutti gli onori, esiste ancora.
Malalai Kakar era, anche lei, una combattente. Nelle interviste raccontava volentieri della sua partecipazione a scontri armati con i talebani. Credeva evidentemente nel suo compito, quello di proteggere le donne, e anche, forse, di risollevarle. Sue colleghe della squadra speciale che Malalai capeggiava hanno detto a una giornalista americana che si era avventurata fino al pericoloso posto di polizia dove lavoravano, che si loro si erano arruolate era per merito suo. Un’altra poliziotta di Kandahar fu uccisa a giugno di quest’anno, ma Malalai Kakar era un simbolo, anche internazionale. Il suo assassinio è stato rivendicato da un portavoce dei talebani all’Agence France Presse: «Abbiamo centrato l’obiettivo», ha detto. Ci sono molte Malalai in Afghanistan, e non solo perché è un nome popolare. Sono donne, ragazze e bambine forti e anche combattive, così, almeno, me le ricordo. Ragazze con lo sguardo simile alla celebre bambina di una copertina del National Geographic, che sembrava sfidare l’obiettivo del fotografo. Quella bambina fu ritrovata dallo stesso fotografo molti anni dopo, in un campo profughi in Pakistan, già madre e con il viso segnato dal tempo, ma con lo stesso sguardo scintillante. Un immagine che è quasi un simbolo di resistenza. Ma forse la più celebre di tutte, in Italia, è la parlamentare Malalai Joya, espulsa dal Parlamento per avere sfidato i signori della guerra che ritiene colpevoli di crimini ed abusi. Ha lo stesso coraggio di Malalai Kakar, e come lei, è convinta di avere il sostegno di molti suoi concittadini, non solo, ma forse specialmente, donne e bambine.

l’Unità 29.9.08
E Dag svelò il lager di Kufra
Kufra, il lager-vergogna costruito dagli italiani
di Giovanni Maria Bellu


Il nome di Kufra, oasi libica al confine con l'Egitto, nel 1931 divenne familiare agli italiani. «La battaglia di Kufra», cantata dai giornali del regime fascista, fu uno dei momenti cruciali della feroce campagna del generale Graziani contro la resistenza africana. Poi Kufra uscì dalle cronache e dalla memoria. È ricomparsa in questi ultimi anni, prima nel passaparola degli immigrati giunti a Lampedusa, poi negli atti del Parlamento europeo, quindi in quelli del governo italiano. Ora in un documentario che difficilmente vedremo in tv. Kufra, infatti, è la nostra vergogna. A Kufra esiste, costruito coi nostri soldi, un «centro di detenzione» che funziona come un lager. Un luogo di tortura dove i reclusi vengono venduti dalla polizia libica ai trafficanti. Con una tale sistematicità che esiste addirittura un tariffario.
I più costosi sono gli eritrei, considerati dei benestanti. I somali, invece, sono troppo poveri e non li vuole nessuno. Dag è stato a Kufra, come tanti altri immigrati sbarcati sulle nostre coste. E, benché questo moderno lager non preveda il marchio di un numero sulla pelle dei suoi ospiti, è possibile riconoscere chi vi è transitato. È qualcosa di trattenuto in fondo allo sguardo, come se il bisogno di oblio e quello di riscatto fossero impegnati in un perenne combattimento. Dag - che si chiama Dagmawi Yimer ed è nato trent’anni fa ad Addis Abeba - ha infatti lo sguardo di Kufra. Ma è stato capace di trasferirlo nell’obiettivo di una telecamera e - col regista Andrea Segre e la collaborazione di Riccardo Biadene - ha realizzato il documentario che difficilmente vedremo. Peccato perché chi ha potuto farlo ne è rimasto entusiasta. Proprio ieri «Come un uomo sulla terra», è questo il titolo, ha conquistato tutti i premi del "Salina DocFest".
Kufra non è che una delle tappe del viaggio che decine di migliaia di migranti partiti dal Corno D’Africa e dagli Stati subsahariani compiono per raggiungere la costa libica e quindi imbarcarsi per l’Europa e approdare a volte a Lampedusa, a volte a Malta, a volte da nessun parte e così andare ad allungare la lista delle vittime del Mediterraneo. Diecimila, secondo le stime più prudenti.
Dag quel viaggio l’ha compiuto ed ha avuto la fortuna di concluderlo. È sbarcato a Lampedusa il 30 luglio del 2006, gli sono state prese le impronte digitali, ha trascorso cinque mesi in un centro di accoglienza a Trapani. Ha ottenuto la "protezione umanitaria" (una forma attenuata di asilo politico) e si è trasferito a Roma dove, per imparare l’italiano, si è iscritto a un corso organizzato dalla Onlus "Asinitas", fondata da Marco Carsetti. E’ stato fortunato ancora una volta perché oltre all’italiano ha imparato anche la lingua del cinema in un "laboratorio di autoformazione audiovisiva per migranti". E’ stato così che, dopo l’incontro con Andrea Segre, è nata l’idea del documentario.
Chi, senza ancora averlo visto, sente Dag raccontare il suo viaggio, resta travolto dalla quantità di momenti drammatici e si forma un’idea precisa di quanto per un migrante sia facile morire. Se l’ascoltatore è un cittadino europeo che di mestiere racconta storie, a un certo punto prova una paradossale invidia per questa tragica abbondanza di esperienze. E quando, all’inizio del documentario, compare l’immagine di Dag che spiega perché, dopo aver partecipato a una manifestazione repressa sanguinosamente dalla polizia, decise di andarsene da Addis Abeba, ti disponi ad ascoltare il seguito della sua incredibile avventura. Ma passano pochi minuti e resti sorpreso.
Dag non parla più di sé. Si fa da parte. A volte scompare del tutto. Poi di nuovo riappare. Ma non per raccontare la sua storia. Solo per trasferire la sua capacità di elaborare il dolore ad altri che, come lui, hanno lo sguardo di Kufra. Cioè hanno compiuto quello stesso viaggio e hanno raggiunto l’Italia. Ma ancora non hanno trovato le parole del riscatto.
Kufra in effetti è orribile da pensare, figuriamoci averla vista. Ed è inevitabile distogliere lo sguardo davanti all’orrore. Dag stesso, quando gli abbiamo chiesto di descriverla, è stato approssimativo. Ha detto che la sua cella, che divideva con altre sessanta persone, era un po’ più grande della stanza dove ci trovavamo in quel momento. Una trentina di metri quadri, forse. Ha descritto un luogo lurido dove perdi la tua dignità di uomo. «Ho sofferto più a Kufra che nel mio paese. Quando sei là ti penti di essere partito perché dove ti trovavi non poteva capitarti nulla di peggio».
Le celle di Kufra sono cinque. Tre sono riservate agli uomini. Due alle donne che, sistematicamente, vengono stuprate. Quando ancora una volta Dag si fa da parte, compare il viso di Fikirte, una ragazza eritrea che è stata a Kufra e, infatti, ne conserva il caratteristico sguardo. Basterebbe quello sguardo, senza necessità di parole, per dirti l’intera storia e per spiegare il silenzio. Ma succede una specie di miracolo che ti fa capire esattamente, per la prima volta, perché il grande reporter Ryszard Kapuscinsky suggeriva ai colleghi di stabilire un rapporto di empatia con gli altri - col "prossimo tuo" - che lui considerava la principale tra tutte le fonti. Dag, grazie al suo essere nello stesso tempo testimone e narratore, si trasforma in uno straordinario reporter e fa uno scoop.
Fikirte gli racconta che verso la fine del 2005 nel centro di detenzione di Kufra comparvero delle "macchine nuove" che avevano "la bandiera italiana". Macchine diplomatiche, dunque. E che questi italiani ben vestiti entrarono nel centro e fecero un po’ di domande. Per esempio, chiesero a un detenuto eritreo che parlava la loro lingua se riceveva una paga e se il cibo era buono. Quello rispose di sì. Quindi, evidentemente appagati dalle rassicurazioni, i nostri connazionali se ne andarono via.
In definitiva, girarono la testa dall’altra parte. Proprio come, in un’altra sequenza, il ministro Franco Frattini. Dag, con la tecnica di Michael Moore, lo avvicina a conclusione della conferenza stampa nella quale Frattini ha appena annunciato che lascerà il posto di commissario europeo per candidarsi alle elezioni politiche e gli domanda perché mai l’Italia dia soldi a un paese come la Libia, a un paese che i soldi li usa in quel modo. Frattini risponde che i finanziamenti servono per promuovere delle condizioni migliori di rimpatrio e aggiunge di non aver mai condiviso la decisione di aprire centri di detenzione in paesi extraeuropei. Decisione che, aggiunge, è stata assunta dagli Stati membri. Dunque, conclude, bisogna chiedere a loro. Pochi secondi dopo un cartello ricorda che l’8 maggio del 2008 Frattini è diventato ministro degli Esteri del governo dell’Italia, uno degli “Stati membri”, appunto. E che quel governo ha stipulato, con l’amico Gheddafi, un accordo da cinque miliardi di euro. Un accordo che ci darà “più petrolio e meno clandestini”. Adesso sappiamo come.

l’Unità 29.9.08
«1945, il vero sangue fu quello dei vincitori»
di Bruno Gravagnuolo


STORIA & LEGGENDE La Resistenza fu un’indiscriminata mattanza di fascisti e borghesi? È l’idea che - con l’aiuto di Pansa - la Destra accredita. Massimo Storchi ora con un decisivo saggio sul «triangolo rosso» dopo il ’43 ristabilisce i fatti. L’abbiamo intervistato

Fascismo e nazifascismo avevano distrutto i legami comunitari. Alla Liberazione la comunità ferita esplode
Ma la vendetta è una fiamma che si esaurisce in se stessa
I nazisti in ritirata seminavano terrore per strategia. I saloini al seguito in modo solo distruttivo. Con più ferocia della banda Carità
In Emilia non fu guerra civile ma guerra ai civili
Né fu guerra di classe. Si uccidevano i padroni perché erano ex-squadristi
Non sognando il Soviet

Ci sono due leggende che la destra italiana ha messo in giro nel dopoguerra, rinsaldate dalla querelle aperta dal Sangue dei Vinti di Giampaolo Pansa. La prima è che la Resistenza sia stata una mattanza indiscriminata contro fascisti e borghesi, finalizzata a un progetto rivoluzionario comunista. La seconda è che gli aspetti scomodi e fratricidi del biennio 1943-45 siano stati nascosti dalla sinistra, all’insegna della retorica sulla Liberazione. In realtà di tutto questo si è parlato fin dagli esordi del nuovo Stato. E battente è sempre stata la polemica mediatica di destra, nel denunciare gli «orrori» della «Resistenza rossa». Negli ultimi decenni poi una nuova storiografia di sinistra è tornata in modo serio sul problema: da Claudio Pavone, a Guido Crainz, a Mirko Dondi, a Dianella Gagliani, e a Massimo Storchi. Tutti studiosi venuti molto prima di Pansa sul tema, ma da lui citati solo di passata. Uno dei quali, Massimo Storchi, ha scritto l’ennesimo volume a riguardo: Il Sangue dei vincitori. Saggio sui crimini fascisti e i processi del dopoguerra (Aliberti, pp. 286, Euro 16, pr. di Mimmo Franzinelli). È un contributo decisivo, perché contestualizza le vendette partigiane. Focalizzando l’obiettivo sul «triangolo rosso» e in particolare su Reggio Emilia. Dove i fascisti, in funzione ausiliaria dei nazisti, spadroneggiarono, torturarono, massacrarono. E suscitarono una piena d’odio destinata a sboccare in resa dei conti col favore popolare. Non solo. Vi si racconta chi erano i carnefici saloini e poi gli episodi che a Reggio condussero una frazione minoritaria di comunisti all’omicidio di avversari. E si racconta della «giustizia negata» a entrambe le parti con l’amnistia di Togliatti, e delle sentenze che mandavano assolti i fascisti. Di tutto questo abbiamo parlato con Storchi, 53 anni, reggiano, già presidente dell’Istituto locale della Resistenza e responsabile del polo archivistico di Reggio Emilia. Uno che di documenti se ne intende. Sentiamo.
«Memoria, dolore, vendetta», recita il primo capitolo del suo libro sul 1943-45 a Reggio. Passioni che coincidono con un arco temporale più ampio. Cosa c’è alle spalle delle vendette partigiane?
«Nel cosiddetto triangolo rosso - Bologna, Modena, Reggio Emilia - vengono al pettine dopo la Liberazione i venti mesi dell’occupazione nazifascista. Assieme a quel che era successo venti anni prima. È la zona dove era stato più attivo lo squadrismo, la zona dei ras e degli agrari. Funestata da repressioni e violenze che alimentarono una forte emigrazione politica. Per non parlare del carcere e del tribunale speciale negli anni Trenta. Rese dei conti e vendette nascono da una memoria lunga e più breve. Basta scorrere una ad una le biografie delle vittime e gli antecedenti dei singoli episodi, come ho tentato di fare nei miei lavori».
Dai rapporti di polizia emerge l’intrico personale, familiare e di vicinato che, a partire dalla ferocia subìta, finisce per coinvolgere anche degli innocenti nelle vendette...
«Sì, ma occorre ricollocare il tutto nella società di allora, lontana anni luce dalla nostra. È un tessuto sociale sconvolto dalla guerra ai civili, lacerato dalla disoccupazione e dall’illegalismo. Parliamo di una civiltà contadina. E sono le comunità contadine che si vendicano e regolano i conti nelle campagne. All’indomani della Liberazione c’è la reazione alla pressione capillare esercitata dal fascismo prima, e dal nazifascismo poi. Che aveva sconvolto tutti i legami comunitari: spiate, tradimenti, rappresaglie, torture, sospetti. Seguiti dalle vendette sommarie. Dopo il 1945 la comunità ferita esplode, con scene di violenza e tripudio popolare oggi per noi incomprensibili. Ma la fiammata della violenza brucia se stessa e finisce lì. Con un picco di 315 morti nell’aprile maggio 1945 - a partire dal 22 aprile - e due morti nel settembre 1946. Su un totale di 456, a fine 1946».
Vendetta che finisce lì, non legata a un «progetto rivoluzionario»?
«Non c’era alcun progetto di tal tipo. Certo, c’era anche chi pensava che uccidere un padrone fosse legittimo, perché così si sarebbe fatto “come in Russia”. Ma erano casi psicologici individuali. Il movente diffuso era un altro. Si uccideva un padrone perché era stato uno squadrista oppure un brigatista nero, o un collaborazionista, o magari lo si pensava. In primo piano non c’era l’odio di classe, ma il passato più prossimo o più remoto»..
Sbaglia allora Pavone quando parla di guerra di classe nella Resistenza, accanto a quella civile e di liberazione?
«Pavone include la “guerra di classe” tra le motivazioni di scelta per la Resistenza. E in tal senso esisteva anche quel tipo di guerra. Tra i contadini della bassa padana che scelgono, oltre all’idea di cacciare i tedeschi, c’era il sogno di diventare padroni della terra. Il che non necessariamente coincide con l’odio di classe, o con un progetto di eliminazioni di classe. Però occorre distinguere. Un conto sono le uccisioni vendicative del 1945. Altro quelle del 1946, che colpiscono il liberale Ferioli, il sindaco Farri, l’ingegner Vischi e il prete Don Pessina».
Che cosa sono e da dove nascono questi omicidi?
«In questi casi si tratta di pezzi minoritari di partigianato che vanno per la loro strada. Strada opposta a quella scelta dal Pci. Con la copertura e l’omertà di figure interne agli apparati provinciali comunisti. Non a caso Togliatti viene proprio a Reggio nel settembre 1946, e fa il famoso discorso su “Ceti medi ed Emilia rossa”. Ma già il giorno prima, in una riunione con i sindaci locali e il segretario Nizzoli, alza la voce. E il succo del suo intervento è: stiamo facendo una politica del consenso e voi permettete l’uccisione di queste persone, un prete, un ufficiale, un sindaco socialdemocratico? O siete complici, oppure degli incapaci”. Dopodiché a Reggio non succede più nulla e sei mesi dopo vi sarà il cambio di segretario. Con Magnani al posto di Nizzoli».
Torniamo al terrore fascista. Potere battesimale della morte, vendetta preventiva prima della disfatta, sindrome autodistruttiva, o che altro?
«C’era tutto questo in quel terrore. E più volte sono gli stessi tedeschi a frenare i saloini. I nazisti avevano la loro prospettiva strategica “razionale”: rallentare e coprire col terrore la ritirata. I fascisti agivano in chiave solo distruttiva. Con tecniche inaudite, peggio della banda Carità. E poi i tedeschi reagivano alle loro perdite, e non a quelle dei fascisti. I fascisti colpivano per lo più vendicando i tedeschi, oltre che se stessi. Da veri collaborazionisti. Vissuti con odio dalla gente.
Ma chi erano i fascisti in quel frangente? Che tratto sociale e generazionale avevano?
«C’era la vecchia componente squadrista, e i giovani di Salò. Con una differenza. Un conto era l’esercito repubblicano. Altro i membri delle Brigate nere. Poi, persone di seconda fila, che erano state in panchina, e colsero un’occasione di promozione sociale, molti non proprio fascisti a tutto tondo in precedenza. Infine gli sbandati, che vengono dal sud. Il capo dei torturatori di Villa Cucchi a Reggio era un maggiore di Perugia: Attilio Tesei. Morì nel 1993 nel suo letto, senza aver fatto un giorno di galera».
C’era una quota di consenso per i fascisti?
«No. A Reggio gli iscritti nel biennio, pur in quel clima repressivo, non arrivano a 3500 unità».
Non c’era una società civile spaccata in due. Perchè dunque parlare di «guerra civile» e non prevalentemente di «guerra ai civili»?
«Tecnicamente ci sono italiani contro altri italiani, ecco perché. Certo, dietro i 10mila resistenti a Reggio ce ne sono almeno altri 40mila in retrovia, con il consenso della stragrande maggioranza della società reggiana. Sì, forse il concetto di guerra civile è da ripensare, almeno per quel che riguarda l’Emilia nel 1943-45. Quella fu inannzitutto guerra ai civili nazifascista. E liberazione da tale guerra. Diverso è il discorso successivo al 1945, concernente le vendette di tipo sociale. E però va ribadito: la vendetta si estingue subito e consuma se stessa. Senza veri prolungamenti politici».
Altro punto di rilievo è l’amnistia di Togliatti del 1946. Anche questa, con le sentenze che mandano assolti i fascisti, alimenta lo spirito di vendetta?
«In realtà no. Perché l’amnistia del giugno 1946 coincide con la fine delle vendette. Basta guardare l’andamento dei numeri e le date. Le uccisioni cessano via via che l’amnistia, con le sue “ingiustizie”, va a regime. È la controprova che non c’è progetto politico, né spirito di vendetta “strategico”. Contadini e cooperatori tornano a fare il loro mestiere, e rinunciano alle armi. Anche le sentenze benevole della Cassazione, o delle Corti di Assise Ordinarie, dopo quelle Straordinarie, non alimentano dopo il 1945 alcuna fiammata di giustizia in proprio. Malgrado i loro limiti, le prime sentenze sgonfiano l’ira popolare. Normalizzano la situazione. La sanzione morale degli assassini, almeno simbolicamente, vi fu. E alla gente, che voleva tornare a vivere, questo bastò».
Veniamo infine al clero nella Bassa padana. Come si schierò nel biennio 1943-45 e subito dopo?
«La Chiesa di Reggio Emilia non si compromise in alcun modo con Salò. Anche per via dell’omicidio di Don Pasquino Borghi nel gennaio 1944, colpevole di aver aiutato i partigiani. Era un clero vicino alla Resistenza, non fuori o contro. E che pagò il suo prezzo. Quanto all’omicidio politico di Don Pessina, unico e forse non premeditato, va inquadrato nel clima di scontro tra egemonie tra le due Chiese, quella cattolica e quella comunista. Il Pc.d’I. aveva più iscritti che a Torino negli anni Trenta. Benché fossero iscritti contadini e non operai, come rilevò con stupore Teresa Noce all’epoca. Vi furono conflitti e unità, tra cattolici e comunisti. Questa è la terra di Dossetti e... di Prodi. Lo stesso Don Pessina organizzava le mondine. E non vi fu mai una mattanza di preti».

l’Unità 29.9.08
Porta Pia, il silenzio dopo Cutrufo
di Vittorio Emiliani


È sempre più vero che, in Italia, tutto ciò che potrebbe essere dramma diventa subito commedia, o addirittura buffoneria. Un pessimo segnale. Significa che si può dire tutto quello che si vuole contro il nostro Paese e contro la sua storia migliore (quella risorgimentale, unitaria, Resistenza inclusa) senza che succeda niente, senza che più d’uno si indigni. La faccenda del vice-sindaco della capitale d’Italia, che il 20 settembre va a Porta Pia a commemorare non i soldati italiani caduti per la patria (43 morti), bensì i mercenari papalini (20 morti), sta finendo in una bolla di sapone. Anni addietro l’opposizione avrebbe fatto con durezza il suo mestiere chiedendo le dimissioni del vice-sindaco, mettendo in votazione un ordine del giorno di indignata deplorazione, interrogando il sindaco stesso sulla preparazione della carnevalata anti-patriottica, mettendo manifesti per le strade che sottolineassero la performance doppia (di Cutrufo e del generale Antonino Torre, delegato del sindaco Alemanno alla Memoria, papalina evidentemente), compiendo insomma dei gesti pubblicamente riconoscibili. Mi pare che nulla di tutto questo sia stato fatto. E allora viene da pensare che nel nostro squagliato Paese tutto possa essere detto e anche fatto senza che vi siano conseguenze di sorta. Passano ventiquattr’ore e ogni cosa va in archivio: bugie, falsificazioni storiche, gaffes, insulti. Si è scusato il vice-sindaco Mauro Cutrufo? Il giorno dopo qualcosa ha farfugliato, come il generale implicato con lui a Porta Pia, autore di una ridicola intervista a Repubblica. Ma, per la verità, a livello istituzionale non gli è stato nemmeno chiesto di scusarsi pubblicamente per questa grottesca iniziativa che offende la storia d’Italia. Stavolta il papa non c’entrava per nulla. Ci mancherebbe. Anche perché, per fortuna, ci aveva pensato Paolo VI, pontefice illuminato, a far cessare le messe vaticane per gli Zuavi caduti dopo l’apertura della storica breccia. Venti in tutto, perché le truppe italiane aveva avuto l’ordine di non entrare in Roma «per forza d’armi», come scrisse Nino Bixio, ex garibaldino inquadrato nell’esercito. Quindi col minimo spargimento di sangue e senza far troppi danni con l’artiglieria. Eppure, ogni volta che c’è di mezzo la Chiesa, magari tirata dentro impropriamente da un politico (?) italiano per chissà quale zelo, ogni polemica si smorza e poi si spegne, perché anche a sinistra si ha una gran paura di passare per laici (laicisti poi è un’onta, anticlericali una vergogna senza fine). Di fatto, le proteste sono state poche e deboli. Da molti anni in Italia lo spirito laico è una flebile fiammella. Mai lo è stato però al pari di oggi. Poche settimane fa Luigi Manconi ha sottolineato come in Italia sia venuta meno una autorità morale di segno laico e come alla Chiesa, quindi, (anche a questa Chiesa che non brilla certo di grandi luci culturali) sia stata delegata quella tal autorità. Che essa tuttavia esercita spesso col cinismo della politica, favorendo un ceto dirigente individualista, edonista, consumista, che però si appresta a smantellare la scuola pubblica a favore di un riemergere delle scuole private, magari confessionali, che però cerca di ridurre l’area dei diritti delle donne e di limitare le conquiste di libertà degli anni Settanta. Nonostante due referendum abrogativi bocciati. Sembra di vivere, oggi, in un altro Paese rispetto a quello. Un Paese spaesato, alluvionato, sprofondato. Quando toccheremo il fondo? Già, ma dov’è finito il fondo?

l’Unità 29.9.08
Triste il Paese che non aiuta i bambini
di Luigi Cancrini


Ancora una volta ci troviamo di fronte a un travagliato inizio di anno scolastico. Siamo di fronte ad una progressiva erosione del diritto all’apprendimento, alla socialità, all’integrazione sociale, all’autonomia dei soggetti diversamente abili in età evolutiva, così come peraltro stabilito dalla legge quadro 104/92. Quest’anno infatti i tagli alle cattedre di sostegno (13 in meno soltanto a Pisa come da dati dell’ufficio scolastico provinciale) vengono a convergere con i tagli di cui ancora non è dato conoscere l’entità all’assistenza specialistica che costituisce un altrettanto importante ausilio alla autonomia di questi soggetti. Una assistenza che negli anni è stata garantita dai lavoratori e dalle lavoratrici delle cooperative sociali con contratti a termine e senza nessuna garanzia di continuità. Tagliare questi servizi significa decretare l’impossibilità di creare percorsi formativi adeguati che puntino alle potenzialità dei soggetti disabili e concorrano al loro sviluppo. Significa lasciare sempre più soli i bambini e i ragazzi per larga parte della giornata, salvo rarissimi casi; significa trascurare i loro bisogni fondamentali, compresi quelli fisici; significa decretare che lo Stato, le Regioni, i Comuni, reputano uno spreco tutto il lavoro svolto in questi anni da docenti e operatori, un prezioso lavoro d’équipe che ora non può più essere garantito. Al di là delle pesanti ricadute in termini occupazionali, riteniamo inaccettabili questi tagli per il tipo di scuola e di società che prefigurano. Invitiamo genitori, docenti e tutti i soggetti interessati ad unirsi per creare un percorso efficace di opposizione.
Bettina
Comitato Lavoratori e Lavoratrici dell’assistenza specialistica di Pisa

Per chi fa un lavoro come il mio, il problema legato al numero degli insegnanti di sostegno attivi (o attivabili) presso le scuole italiane propone un vero e proprio paradosso. Il loro numero è, infatti, da sempre insufficiente perché moltissimi bambini e ragazzi che ne avrebbero bisogno non hanno la possibilità di utilizzare un insegnante di sostegno e perché quelli che ne usufruiscono passano con lui abitualmente (o comunque in un numero grande di casi) una quantità di ore largamente insufficiente. Più evidentemente, per dolo o per superficialità di notizie relative a questa cronica insufficienza, d’altra parte, i ministri della pubblica istruzione che si occupano di scuola dall’alto (o dal basso) di viale Trastevere altro non fanno che immaginare dei tagli ulteriori nel numero degli insegnanti di sostegno. In modo meno sfacciato della Gelmini, anche Fioroni, infatti, aveva lavorato (e inutilmente da sinistra e da destra qualcuno se ne era lamentato) in questa direzione. Segnalando l’evidenza di un problema di fondo di cui la tua lettera, cara Bettina, sottolinea di nuovo, giustamente, l’importanza. Il punto da cui conviene partire, per far comprendere anche a chi non ne è coinvolto personalmente, l’importanza di questo problema è quello legato al momento in cui degli insegnanti di sostegno si parlò per la prima volta. Siamo agli inizi degli anni 70 un tempo in cui l’organizzazione di una scuola pubblica che discrimina i più deboli era stata messa sotto accusa con forza da uomini come Don Lorenzo Milani e Bruno Ciari. Quella che entra in crisi, di fronte alle esperienze di questi e di tanti altri maestri e uomini di cultura è la pratica per cui gli alunni con “piccoli” problemi venivano separati da quelli che almeno apparentemente non ne avevano e messi in classi “differenziali” (dove si chiedeva loro e si dava loro meno di quello che si chiedeva e si dava gli altri) mentre quelli più gravi venivano raggruppati in classi “speciali” allocate, in genere, negli istituti specialistici in cui questi bambini venivano ricoverati. Quello di cui ci si rendeva conto, infatti, era che questo tipo di separazione selettiva funziona come un moltiplicatore delle differenze da cui si è partiti. Sul piano politico perché perpetua, traghettandolo da una generazione all’altra, il meccanismo di classe su cui essa si basa. Sul piano pedagogico perché ignora la grandiosità delle risorse attivabili, attraverso iniziative di socializzazione intelligenti nei bambini che presentano delle difficoltà: modeste o gravi. Sta nell’abolizione delle classi differenziali e speciali oltre che nel superamento degli istituti per minori in cui queste ultime erano organizzate (e dove i minori erano abbandonati a sé stessi, sottratti anche all’amore delle famiglie) il punto di partenza di questa nuova attività. Concepita come un aiuto da dare in classe al bambino diversamente abile nel suo sforzo di integrazione con gli altri (una integrazione che deve essere sociale ma anche il più possibile cognitiva e didattica) l’insegnante di sostegno è una presenza necessaria, nella scuola, per assicurare al bambino che apprende più lentamente per motivi di ordine culturale e sociale o per motivi più personali (dalla dislessia al ritardo cognitivo, dalla sindrome post traumatica all’autismo) l’aiuto di cui ha bisogno per tenere il passo degli altri o per staccarsene il meno possibile. Sarà l’Ocse, a metà degli anni ‘80, a riconoscere, sulla base di una rilevazione sul campo, la validità di questa esperienza italiana (e norvegese) da tanti considerata, all’estero, con grande rispetto e interesse. Saranno i governi del nuovo millennio a decretare con provvedimenti sempre più distratti e infelici la crisi che ora la Gelmini sembra voler portare a termine. Staccando la spina ad una organizzazione sempre più debole. La cosa che più colpisce oggi, tuttavia, è il silenzio in cui tutto questo accade e va avanti. L’attenzione ai problemi dell’handicap e della disabilità è sempre più debole a livello di opinione pubblica e non vi sono giornali o tg che dedicano loro attenzione. Le forze politiche si occupano con stanchi rituali di quelli che a tanti piace chiamare con un sorrisetto di sufficienza, diversamente abili. I sindacati potrebbero farne oggi un punto di forza della loro lotta contro i tagli della Gelmini ma sono stati messi in difficoltà, forse, in passato, dal carattere instabile di un lavoro che non desta sempre l’entusiasmo che dovrebbe destare in troppi dei loro iscritti ma dovrebbero affermare chiaro e forte oggi che l’integrazione non si tocca. Viviamo un tempo, cara Bettina, in cui il concetto stesso di democrazia si sta corrompendo. Per troppi, politici e non, libertà è possibilità di fare il più possibile quello che si vuole quando si ha il potere o la forza di farlo: senza preoccupazioni o pensieri sul fatto che gli altri esistono e che la libertà o è di tutti o non è di nessuno. Dimenticando con leggerezza berlusconiana (lui a suo modo offre un modello di vita) l’idea di Montesquieu (citato da Luciano Canfora, «La democrazia», Laterza pag. 101) per cui «la libertà non può consistere nel poter fare ciò che si deve volere», un’idea il cui compimento, ricco di sviluppi in molte direzioni, ivi compresa la giustizia sociale è: «nel non essere costretti a fare ciò che non si deve volere».

Corriere della Sera 29.9.08
Il regista comunista Nel nuovo film un petroliere vuole finanziare le «case della cultura» e divide il popolo «rosso»
Maselli e la sinistra «staccata dalla realtà»
di Paolo Conti


Simboli e dibattiti
«La mia area sta vivendo una tragedia complessa. Si passano veramente mesi a discutere di temi simbolici ma non essenziali»

ROMA — Il legame tra Citto Maselli e il comunismo («sono ancora oggi un comunista ») è pre-adolescenziale: «A casa di mio padre, il critico letterario Ercole Maselli, girava negli anni '30 tutta l'intelligenza italiana. Emilio Cecchi, Massimo Bontempelli, Alberto Savinio, Corrado Alvaro. Mio padrino di battesimo fu Luigi Pirandello. Si respirava un'atmosfera genericamente antifascista. Divoravo libri. E così mi ritrovai nel 1942, a 12 anni di età, a spiegare al mio amichetto coetaneo Sandro Curzi cosa fosse il comunismo e chi fosse Carlo Marx». Scena niente male, per gli storiografi della materia.
Chissà cosa sarebbe stato del direttore di Telekabul se non fosse stato ideologicamente svezzato dal regista di «Lettera aperta a un giornale della sera».
E col comunismo dissolto, la sinistra divisa, gli ideali sbiaditi, le bandiere rosse diventate quasi cimeli Citto Maselli continua a fare i conti anche nel 2008 e nell'era Berlusconi. In questi giorni sta girando nell'ex cinema romano Paris «Il fuoco e la cenere» (titolo provvisorio, «stiamo cercando un'idea migliore ») prodotto da Raicinema e da Cattleya di Riccardo Tozzi. Ecco la trama, così come ora la racconta Maselli che ogni giorno cambia scene, dialoghi. Italia dell'ultimo governo Prodi. Un grande intellettuale di sinistra interpretato da Roberto Herlitzka («quasi un Umberto Eco, ha una casa raffinata con sculture di Marino Marini e quadri di Campigli e Mafai») accetta l'invito in un centro sociale «immaginato come una chiesa paleocristiana ». Chiacchiera con i ragazzi, si congratula col loro lavoro e rivaluta il ruolo delle Case della cultura di André Malraux. La frase , affidata a una piccola emittente locale, viene ripresa da tv e quotidiani. Diventa un tema di dibattito nell'area progressista. Interviene una giornalista della vecchia generazione, Lucia Poli, «un misto tra Rossana Rossanda e Nilde Jotti». Poi un mitico sindacalista, quasi il profilo di Bruno Trentin, ovvero Arnoldo Foà. Compare un leader senza nome, ma ha il volto di Giorgio Poidomani, presidente del Consiglio di amministrazione de «L'Unità».
Ancora Maselli: «A un certo punto sembra che per la sinistra non esistano che le Case della cultura. Un architetto di grido interpretato da Ennio Fantastichini, un po' Renzo Piano e un po' Massimiliano Fuksas, annuncia al Centro sociale di aver trovato il finanziamento di un gruppo petrolifero per costruirne una lì, in quello spazio». Nasce una discussione tra chi approva e chi chiede «cosa c'entrino mai i soldi dei petrolieri con la cultura». Dunque, l'intera sinistra per mesi si divide, tra centri sociali e confronti tv, sul senso politico delle Case della cultura. La faccenda rimbalza a Parigi. Il direttore di «Le Monde», incarnato da Laurent Terzieff, mostra alla tv italiana la prima pagina del suo giornale che racconta la sinistra italiana spaccata per Malraux. Il finale è aperto, il regista ha un solo limite: «Voglio una conclusione che non mi associ a Beppe Grillo».
Ma qual è il messaggio del film alla sinistra? «La complessità della tragedia che sta vivendo quel-l'area. Si passano veramente mesi a discutere su temi magari simbolici ma non essenziali. Nel film vengono alla luce i mille rivoli in cui è divisa la sinistra, e magari ciascun rivolo ha le sue ragioni in buona fede, nessuno dice dell'altro che è un mascalzone. Di fatto ci si allontana dalla realtà quotidiana... E così un bel giorno senti i clacson per strada e scopri che Berlusconi è tornato al potere. Ovvero che le nostre divisioni regalano la vittoria al centrodestra. È lì il punto, il distacco dal mondo vero. La sera degli scrutini, alle elezioni politiche, chi tra noi attribuiva l'8% a Rifondazione e dintorni veniva accusato di disfattismo. Poi sappiamo cosa è veramente accaduto...» Ma lei personalmente, Maselli, è ottimista o pessimista sul futuro della sinistra che va da Walter Veltroni a Paolo Ferrero? «Oddio, accostare la parola "sinistra" a Veltroni mi pare azzardato... Penso che stiamo vivendo una straordinaria difficoltà. Guai a sottovalutarla. Ho parlato del film col mio amico Ken Loach. Ci siamo ritrovati su un punto: dovrebbe essere comprensibile sia alla sinistra canadese che a quella australiana. Mi sono venuti i brividi, ce la farò?» Alla fine cosa vuol essere la sua opera? Maselli ci pensa. «Una metafora. Un invito all'autocoscienza per la sinistra. Nessuna presunzione di impartire lezioni».

Corriere della Sera 29.9.08
Stalin e gli ebrei dell’Urss. Come li usò, come li uccise
di Sergio Romano


Conoscendo un po' la storia dell'Unione Sovietica penso che Stalin non fosse un antisemita. Mi sembra che si possa giungere a questa conclusione guardando diversi fatti. La figlia di Stalin era sposata con un ebreo con cui ha avuto un figlio e la moglie del suo braccio destro Molotov era ebrea. È stato il primo statista del mondo che nel territorio dell'Unione Sovietica ha creato un mini Stato ebraico e che esiste tuttora. Questa repubblica si trova da qualche parte oltre gli Urali e non è nella migliore posizione geografica. Ma per la prima volta nella storia moderna è stato assegnato agli ebrei un territorio dove potevano vivere e governarsi da soli, naturalmente nell'ambito dell'Urss. Penso che Stalin avesse l'idea che una buona parte degli ebrei del mondo fossero propensi alla proprietà privata cioè al capitalismo, l'opposto del comunismo. Perciò ha colpito gli ebrei perché pensava che avessero tendenze capitaliste. Invece gli ebrei che avevano abbracciato e sostenevano la causa comunista erano i suoi migliori amici e collaboratori.
Leonard Doga

Caro Doga,
E' vero, fra i collaboratori di Stalin e i loro congiunti molti erano ebrei. Era ebreo Maksim Litvinov, ministro degli Affari Esteri dal 1930 al 1939 e ambasciatore a Washington dal 1941 al 1943. Era ebreo Genrich Jagoda, capo della Gpu e della Nkvd (i servizi segreti che furono eredi della Ceka), esecutore delle purghe staliniane fino al 1936. Era ebreo Lazar Kaganovic, braccio di destro di Stalin e autorevole membro del Presidium del partito comunista sovietico. Come ricorda Louis Rapoport ne «La guerra di Stalin contro gli ebrei» (Rizzoli, 1991) lo stesso può dirsi di Matvej Berman, organizzatore della mano d'opera schiava nei primi lager sovietici, e di Naftali Frenkel, a cui Stalin affidò la costruzione del canale fra il Mar Bianco e il Baltico: una impresa «che costò la vita a circa 200.000 prigionieri». Ed erano ebrei «migliaia di rivoluzionari (che) contribuirono con fervore messianico a guidare la macchina del Terrore ».
Molti, pur non essendo contaminati da simpatie capitaliste, ebbero la stessa sorte delle loro vittime. Lei ricorda il caso della moglie ebrea di Molotov, Polina Zhemchuzina. Stalin se ne servì, in particolare, quando volle che alcuni intellettuali ebrei (l'attore Solomon Michoels, il regista cinematografico Sergej Ejzenshtejn, il giornalista e scrittore Ilja Erenburg e il violinista David Ojstrach) costituissero durante la guerra un «Comitato fascista antiebraico», destinato a mobilitare il consenso e il sostegno dell'ebraismo americano. Ma non appena ebbe la sensazione che i membri del Comitato potessero diventare una quinta colonna sionista all'interno dello Stato sovietico, sciolse l'associazione, fece uccidere Michoels e ordinò l'internamento della moglie di Molotov in Kazakistan. Fu antisemita? Rapoport ritiene che Stalin abbia succhiato l'antisemitismo con il latte materno e lo abbia «respirato » nella scuola teologica di Gori, nel seminario di Tbilisi e nel clima di giudeofobia diffusa che fu all'origine dei pogrom ucraini e moldavi di fine Ottocento. Vi sarebbe una componente antisemita quindi nella sua spietata battaglia contro Zinovev, Kamenev e soprattutto Trotsky. Ma vi furono, a mio avviso, anche altre ragioni. Quando studiò il problema delle nazionalità, all'inizio della sua carriera politica, e soprattutto quando cercò di risolverlo assegnando a ogni nazionalità un territorio nell'ambito di uno Stato pseudo- federale, Stalin si scontrò con il problema ebraico. Il Bund (l'organizzazione politico- sindacale degli ebrei polacco- lituani) non chiedeva terra, ma autonomia: una prospettiva che dovette sembrargli intollerabilmente pericolosa per l'unità dello Stato e la dittatura del partito. Fu questa, probabilmente, la ragione per cui inventò nel 1928 la Repubblica autonoma del Birobidzhan, nella Siberia orientale, un remoto staterello asiatico in cui la lingua ufficiale, paradossalmente, è l'yiddish, ma gli ebrei sono soltanto il 4% della popolazione che si compone di 75.000 persone.
A queste considerazioni occorre aggiungere, caro Doga, la patologica diffidenza di Stalin per chiunque fosse sospettabile di avere altre lealtà. Per questo provinciale georgiano di stirpe osseta (ma nazionalista grande-russo) gli ebrei erano troppo internazionali, troppo cosmopoliti, troppo legati per vincoli familiari ad altre nazioni. Li usò spregiudicatamente quando gli servivano e li eliminò spietatamente quando li considerò pericolosi. Alla fine della sua vita, con il «complotto dei camici bianchi », decise di risolvere una volta per tutte il problema ebraico. Non vi riuscì perché la morte gli impedì di portare a termine l'operazione o meglio ancora, come disse Solzhenitsyn, perché «Dio gli disse di separarsi dalla sua gabbia toracica».

Corriere della Sera 29.9.08
Riuniti nella dacia di Gorki gli oltre 10mila volumi, compresi alcuni testi sull'apostolo Paolo
Quando Lenin leggeva De Amicis
Nella libreria tutto Platone e «Il tramonto dell'Occidente» di Spengler
di Armando Torno


La dacia ospita oltre diecimila volumi e 42mila pezzi autentici appartenuti a Lenin, che arrivò qui dopo il 1917

GORKI — La località Gorki, a una cinquantina di chilometri a Sud-Est di Mosca, deve il suo nome — un diminutivo — alla zona collinare, giacché gora nelle lingue slave significa cima, montagna. Noto alle cronache già nel XIII secolo, il luogo divenne celebre agli inizi del '900 quando la moglie dell'allora sindaco di Mosca, donna Morozova-Reinbot, organizzò una fattoria modello e costruì una magione di campagna senza badare a spese. Fu proprio qui che, dopo la rivoluzione del 1917, Lenin scelse la sua dacia. La permanenza divenne via via più frequente con l'aggravarsi del suo stato di salute; ivi morì, dopo otto mesi ininterrotti di soggiorno, nel gennaio 1924.
Ora, forse per ironia della storia, nella tenuta di Gorki si possono rivedere come in un sortilegio tutti gli ambienti in cui visse. Dopo che Eltsin ordinò di far sparire le tracce del rivoluzionario dal Cremlino, tutto quello che c'era è stato portato qui, compresi interruttori e lampadari originali. È conservata anche la sua Rolls Royce con una modifica alle ruote posteriori, sostituite con dei cingolati per viaggiare velocemente nella neve. Le cose di Mosca si sono così unite a quelle di campagna (42 mila pezzi autentici) e ora, per la prima volta, la biblioteca di Lenin è stato ricostruita. Di più: Alexandr Savinov, il conservatore e bibliotecario, ci ricorda che sono emersi anche quei libri che non figuravano nell'elenco stilato nel 1961, mutilato da numerose censure (conteneva solo 8.450 volumi dei 10.686), e si sono scoperti appunti e chiose inedite. Ma vediamo le cose con ordine, cominciando da un reparto che è una vera novità: lo scaffale italiano.
È stato ricostruito da poco. Si nota subito una Divina Commedia (3 volumi, Voghera, Giani, 1842), uno dei primi acquisti di Lenin, fatto forse per la sorella Anna che era italianista: la teneva sempre con sé, quasi a imitazione di Cechov che portava Dante anche durante i viaggi; ecco poi De Amicis, Nel regno dell'amore (Treves, 1907), e Manzoni, I promessi sposi, ma in traduzione francese (editi da Paul Carrara, 1877). Ci sono, tra gli altri, le poesie di Ada Negri Tempeste (Treves, 1896), quindi Malombra di Fogazzaro (Galli, 1896) e numerosi opuscoli politici. Tra essi ricordiamo quello della Libreria Editrice del Pc d'Italia (Roma, 1921) La questione italiana al Terzo Congresso della Internazionale Comunista e le Conversazioni socialiste di Paolo Orano (Tipografia del Lavoro, 1906). Quest'ultimo è dedicato ad Antonio Labriola, ma il suo autore confluirà poi nel fascismo, diventando nel 1937 con Gli ebrei in Italia un riferimento per antisemitismo e leggi razziali. La biblioteca di Lenin — era, tra l'altro, abbonato al «Corriere della Sera» — riguarda ovviamente gli anni dal 1917 al 1924, dal suo rientro in Russia alla morte. È stata divisa da quella della moglie, Nadezhda Krupskaja, una pedagogista che possedeva i più importanti libri russi per i bambini con difficoltà. Dopo quest'ultima sistemazione è possibile osservare passioni e inclinazioni del rivoluzionario. Nell'ufficio del Cremlino, qui ricostruito anche con i telefoni, c'erano testi pratici (trattati sul capitalismo, sull'agricoltura) ma anche uno scaffale di classici: tutto Dostoevskij, tutto Tolstoj (con i volumi di critica), tutto Cechov, l'autore più a portata di mano, l'adorato. Di Gogol', Herzen, Pushkin c'è qualcosa, così come sono presenti poeti minori quali Fet o le pièces teatrali di Ostrovskij. Fornito il reparto di enciclopedie — almeno tre — zeppe di appunti (uno appena scoperto riguarda i giacimenti di petrolio) e, chissà perché, accanto ad esse il libro di Wells Russia nell'ombra, gremito di note e sottolineature. Poi un intero scaffale con i testi degli emigrati e delle guardie bianche: sono i libri che criticavano Lenin, il socialismo e il suo governo. Ora si possono consultare, ma il comunismo non rimase scalfito da opere come quella del principe Trubetskoj Il senso della vita.
Ci sono inoltre le sue ossessioni. A cominciare dalla filosofia, dove si trovano quattro edizioni de Il tramonto dell'Occidente di Oswald Spengler, che comunque Lenin leggeva nella traduzione russa del 1923. Dello stesso autore c'è Ascesa e declino della civiltà delle macchine, con foglietti che dovranno ancora essere decifrati. Poi Gustav Le Bon, Psicologia delle folle, del quale abbiamo notato la prima edizione del 1895: è un testo-chiave per il futuro rivoluzionario, e sarà meditato anche da Mussolini e da Hitler. Si prosegue con le opere di Buffon e Darwin, con Marx (ci sono gli scritti sino allora editi, in tedesco e russo), con tutto Platone, con le opere complete di Feuerbach, con una serie interminabile di testi critici su Rousseau e Kant, ma di essi nemmeno un opuscolo. Non manca però Hegel: la Fenomenologia dello Spirito nell'edizione di San Pietroburgo del 1913 e la Scienza della logica
in quella di Pietrogrado del 1916. Poi i cari materialisti. Innanzitutto il prete Meslier che, pur facendo il parroco, alla sera confessava ai suoi fogli che il cristianesimo era un imbroglio colossale: Lenin possedeva un'edizione del Testamento (l'unica opera dell'apostata) nella traduzione russa del 1919; ecco poi la Bibbia dell'ateismo, vale a dire Il sistema della natura di d'Holbach, subito seguita da opere di Helvetius, Kropotkin, Labriola.
C'è, per la verità, anche un reparto sulla Bibbia: accanto al testo sacro una serie di scritti sull'ateismo e, soprattutto, sulla figura dell'apostolo Paolo, da Lenin ritenuto — lo si evince dai titoli — il vero fondatore della Chiesa. Sulla piccola scrivania c'è un piano per l'elettrificazione della Russia, appena ritrovato, risalente al 1922; sul tavolino della camera dove è morto, invece, vi sono le ultime letture: Jack London, Amore per la vita; Gorkij, Le mie università; un calendario del 1924 con la dedica di un anonimo ammiratore «Al caro Lenin» (uno è appeso al muro con la foto dell'amato Cechov), la Conferenza n.13 del Partito dei bolscevichi. Poi gli occhiali a pince-nez e il tagliacarte.
Il catalogo del 1961 fu compilato senza rimuovere le censure ordinate da Stalin. Il piccolo padre fece togliere, perché diseducativi per chi li avesse anche soltanto visti, i libri di Trotzkij, di Bucharin, di Rykov. Anzi, di Trotzkij si salvò un'edizione in tedesco sulla rivoluzione di ottobre, forse perché non riconosciuta dalla polizia. Certo, andò meglio alla raccolta di Lenin che ad altre: Efimov, il vignettista per quasi mezzo secolo della «Pravda» (è vivo, ha 108 anni, sta benissimo ma soprattutto è lucido), confidò a chi scrive che si mangiò quattro pagine di prefazione del suo libro firmate da Trotzkij. Non erano gustose, ma gli evitarono alcuni problemi.

Repubblica 29.9.08
Correggio. La morbida sensualità che percorre lo spazio


A Parma un´ampia rassegna di opere di Antonio Allegri, grande maestro del Rinascimento
Un immenso talento che ebbe fortuna però solo tra Mantova, Parma Reggio e Modena
Oltre ai quadri esposti alla Pilotta, le famose volte di S. Giovanni e della Cattedrale

PARMA. Oggi lo annoveriamo senza tentennamenti nell´aureo quintetto dei maestri sommi del nostro Rinascimento, accanto a Leonardo, Raffaello, Michelangelo e Tiziano. Né la pensavano troppo diversamente i protagonisti del barocco, dai Carracci a Rubens, da Guido Reni a Lanfranco, che succhiarono avidamente linfa vitale dai suoi capolavori. Per non dire del Settecento rococò, che si invaghì perdutamente della sua morbida sensualità pittorica. Eppure, in vita, Antonio Allegri detto il Correggio non godette di una fama proporzionata al suo immenso talento se non entro gli angusti confini di quel quadrilatero padano formato da Mantova, Parma, Reggio e Modena, al cui centro è situata la cittadina natale da cui derivò il soprannome, e attorno alla quale continuò a ruotare la sua vita familiare e professionale, anche quando fu costretto a trapiantarsi temporaneamente a Parma o nel Mantovano.
Avendo ammirato di persona le sue opere a Parma, Vasari tuttavia non mancò di tributargli l´omaggio dovuto, dichiarandolo senza mezzi termini come «il primo che in Lombardia cominciasse cose della maniera moderna» e manifestando «stupendissima meraviglia» per gli strabilianti scorci delle due cupole affrescate in Duomo e in San Giovanni Evangelista, per concludere che «nessuno meglio di lui toccò colori, né con maggior vaghezza o con più rilievo alcun artefice dipinse meglio di lui: tanta era la morbidezza delle carni ch´egli faceva, e la grazia con che e´ finiva i suoi lavori». Poi, obbedendo al riflesso pavloviano del suo pregiudizio ideologico in favore del primato tosco-romano, aggiungeva che se solo il Correggio «fosse uscito di Lombardia e stato a Roma», dove avrebbe potuto approfittare della lezione delle «cose antiche e delle buone moderne», «avrebbe fatto miracoli, e crescendo di bene in meglio, sarebbe venuto al sommo de´ gradi».
Fu Roberto Longhi, in un celebre saggio del 1956, a dichiarare invece che il manifesto "cambio di passo" registrabile nelle opere del Correggio posteriori al 1518 non può trovare altra spiegazione se non in un suo pur fugace soggiorno nella capitale pontificia, in cui egli poté aggiornarsi sulle sconvolgenti novità introdotte da Raffaello e Michelangelo. Il dubbio, tuttavia, resta legittimo, e continua ad aleggiare nella più pensosa bibliografia sull´artista, perché se è incontestabile che lo stile esibito dal Correggio dopo il 1518 risente in qualche modo della "maniera moderna" della volta Sistina e del Raffaello delle Stanze e delle pale della maturità, non è altrettanto certo che questo aggiornamento sia legato a un viaggio nella città pontificia e non alla visione diretta di qualche capolavoro raffaellesco più a portata di mano (ad esempio, la Madonna di San Sisto, che era a Piacenza fin dal 1513-14) e delle tante stampe e copie di quelle rivoluzionarie novità che dovettero circolare in Italia assai per tempo.
Comunque sia, c´è da scommettere che le dispute su questi e altri interrogativi che hanno fin qui animato il dibattito storiografico sul Correggio, troveranno nuovi spunti in questa grande mostra parmigiana, che si snoda nei suggestivi spazi del Palazzo della Pilotta, per poi uscirne e toccare il suo imperdibile acme nella visita al delizioso verziere simulato ad affresco nell´ampia volta a ombrello della Camera della Badessa nel monastero di San Paolo, e nell´esaltante ascensione sulle impalcature montate ad hoc per consentire la visione ravvicinata delle cupole di san Giovanni Evangelista e della cattedrale ("Correggio", a cura di Lucia Fornari Schianchi, fino al 25 gennaio 2009).
Purtroppo la concomitanza della grande mostra di Mantegna, che si è aperta quasi in contemporanea al Louvre, ha privato la rassegna parmigiana di qualche importante tassello per ricostruire la fase giovanile del Correggio, peraltro fra le sue più problematiche e controverse. Nato quasi certamente nel 1489, l´artista infatti poté anche apprendere i primi rudimenti dal modesto Bianchi Ferrari, come asserisce una fonte del tardo ?500, ma il vero imprinting lo ricevette dal grande pittore della corte gonzaghesca, forse lavorando al suo fianco poco prima che egli passasse a miglior vita, ma certamente collaborando con la sua bottega subito dopo la sua morte (1506) negli affreschi della sua cappella funeraria in Sant´Andrea a Mantova.
Un discreto numero di prestiti dai maggiori musei di Washington, New York, Madrid, Londra, Milano e San Pietroburgo consente comunque di seguire abbastanza puntualmente il percorso del giovane Correggio, cogliendone la prensile assimilazione dello sfumato leonardesco, che intenerisce i suoi incarnati, vela e inumidisce i suoi scorci di paese e conferisce grazia, dolcezza (e talvolta anche una punta di leziosità) alle espressioni dei suoi personaggi. Resta tuttavia particolarmente dolorosa l´assenza dell´opera capitale per comprendere l´approdo finale di questi anni, quella pala con la Madonna di San Francesco, databile 1514-15, in cui già si intravedono i primi passi della sua ricerca di una piena transitività tra lo spazio reale dello spettatore e quello artificiale del quadro, che sviluppandosi attraverso un´accorta regia di sguardi, scorci, slanci espressivi e arditi tagli in diagonale, rappresenta, assieme ai prodigiosi sfondati delle sue cupole, la più feconda eredità trasmessa dal Correggio al Barocco.
La mostra procede un po´ a sbalzi, tra sezioni di gran pregio, come quella dedicata ai disegni o quella sul rapporto tra il Correggio e l´architettura, e qualche appesantimento: troppi, ad esempio, i pezzi di contorno e di confronto, per di più non sempre appropriati e di piana comprensibilità per il grande pubblico. Ma il vero punto di forza della rassegna è l´eccezionale occasione di poter salire fin sotto le volte delle due cupole affrescate, per perdersi nel gorgo luminoso della Visione dell´Ascensione di Gesù in S. Giovanni Evangelista e nella vertiginosa fantasmagoria dell´Assunzione della Vergine in Duomo.
Com´è noto, sviluppando il pionieristico sfondato di Mantegna nella Camera degli Sposi, il Correggio spalanca illusivamente le due cupole su cieli ingombri di nuvole e di sacri personaggi svolazzanti, attirandoci in un moto ascensionale che non è meno esaltante per il solo fatto di essere simulato e virtuale. Ma più che rimaner stupefatti per la morbidezza e la vaporosità delle pennellate, la visione ravvicinata delle cupole lascia strabiliati e interdetti perché è proprio questo meccanismo ascensionale, che dal basso funziona perfettamente, a venir improvvisamente meno. Osservare la volta da quell´altezza - che è poi né più né meno quella in cui stazionava il pittore per valutare in corso d´opera l´effetto di quanto andava dipingendo - è infatti un po´ come sbirciare dietro le quinte i trucchi del prestigiatore: ci si rende conto dell´audacia con cui il Correggio ha deformato le anatomie e le posture dei personaggi per ottenere quel gigantesco moto a spirale che dal basso è così credibile e trascinante, mentre lassù si attenua fin quasi a sparire.
Lì in alto, insomma, è più facile capire perché quello scomposto mulinar di gambe e quelle torsioni innaturali, che avrebbero tracciato la strada di tutti gli sfondati barocchi a venire, più che sbalordire, lasciarono perplessi i committenti.

Repubblica 29.9.08
Per i 100 anni dal rientro del pittore in italia
Trasferito a Roma l’archivio Modigliani
di Dario Pappalardo


Il 2009 per Amedeo Modigliani non sarà il centenario né della nascita, né della morte. Ma quello del suo primo ritorno in Italia. Era il 1909, infatti, quando l´artista livornese, ormai cittadino di Parigi da tre anni, fece tappa in Toscana, trascorrendo con Costantin Brancusi un´estate dedicata alla scultura, tra le cave di Carrara e Pietrasanta.
Un secolo dopo, il Modigliani Institut celebra un secondo "ritorno": il completo trasferimento degli archivi legali di Modì da Parigi a Roma, nella sede di Palazzo Taverna. Seimila documenti che saranno presto interamente digitalizzati e disponibili online. Fotografie, lettere, taccuini, disegni. Un materiale che ricostruisce le origini della famiglia Modigliani, ma che restituisce anche il clima artistico di inizio secolo nella capitale francese. Ecco allora gli schizzi e le note scarabocchiate un po´ ovunque, gli scatti in cui Modì è in posa con Picasso e quelli che raffigurano la compagna Jeanne Hébuterne che si mostra enigmatica, guardando fissa in camera: il suicidio di lei incinta di otto mesi, il 25 gennaio 1924, il giorno dopo la morte di lui, sembra ancora impensabile.
L´apertura degli archivi di Palazzo Taverna è solo una delle iniziative del Modigliani Institut per il 2009. In programma figurano l´inaugurazione di una web tv dedicata all´arte, Modigliani Channel, la promozione di convegni, nuove pubblicazioni e un calendario di mostre. La prima sarà inaugurata il 16 aprile alla Bundeskunsthalle di Bonn e raccoglierà 140 opere più tutti i documenti dell´archivio. Seguiranno allestimenti itineranti in varie città italiane (da Trento a Siracusa) per culminare poi in una grande esposizione che è in corso di progettazione a Napoli per il dicembre 2009. «Tutte queste iniziative mirano a restituire a Modigliani le sue radici italiane», spiega Christian Parisot, presidente del Modigliani Institut, il cui comitato scientifico è presieduto da Claudio Strinati. «Se la Francia lo inserì in quel clima mitteleuropeo in cui lui, di origini ebraiche, si trovò a suo agio, non bisogna dimenticare che la sua formazione artistica fu italiana. Per questo motivo, lo scopo dell´istituto è di individuare e rendere operativa in Italia una Casa Modigliani, uno spazio ampio dove promuovere e studiare la sua opera».
Il comitato scientifico della fondazione, intanto, si batte per far riconoscere a livello internazionale la retrodatazione del brevetto del bianco di titanio. Un pigmento, questo, che, utilizzato anche da Modigliani, fu brevettato in Francia solo nel 1919: «Nel 2004, il laboratorio del Louvre ha sequestrato quattro opere di Modigliani in cui è stato trovato il bianco di titanio, giudicandole false», dice Parisot. «Oggi però le ricerche del notaio tedesco Bernhelm Bonk dimostrano che il pigmento era stato brevettato in Germania già nel 1913. Ed era sicuramente diffuso da prima in Europa». Le attribuzioni a Modigliani, insomma, continuano a riservare delle sorprese.

Repubblica 29.9.08
Londra: Rothko. Le ultime serie


Tate Modern. Fino al 1 febbraio.

La mostra che apre la stagione espositiva del museo, dove è conservato un celebre insieme di lavori originariamente eseguiti per il "Four Seasons" di New York, oggi riuniti nella spettacolare Rothko Room, si concentra sull'ultima stagione del maestro statunitense, con dipinti e opere su carta eseguiti tra il 1958 e il 1970, l'anno della morte, riservando particolare attenzione all'analisi della strategia della ripetizione e variazione di un tema. Dopo i primi interessi verso l'automatismo surrealista, declinati però con una sensibilità cromatica memore dell'opera di Matisse, Rothko si volge a una pittura completamente astratta, caratterizzata da grandi campi colorati: in essa le forme geometriche regolari, per lo più rettangoli dai bordi sfrangiati, apparentemente fluttuanti, sembrano riecheggiare la forma della tela secondo una sottile ricerca di rapporti cromatici. Come in Mural for End Wall del 1959, tela giocata sui colori arancio e amaranto, apparentemente in contrasto, proveniente dalla National Gallery di Washington. Con Still, Newman e Reinhardt, Rothko è considerato un esponente di primo piano della tendenza che nel dopoguerra rappresenta il polo opposto all'Action Painting.

Repubblica 29.9.08
Roma. Giovanni Bellini. Scuderie del Quirinale. Dal 30 settembre.


La mostra, curata da Mauro Lucco e Giovanni Carlo Federico Villa, ripercorre attraverso sessanta dipinti (vale a dire circa i tre quarti della produzione certa), l'opera del Giambellino, figlio del celebre Jacopo, fratello di Gentile, cognato di Mantegna: un pittore che si trova al centro di una famiglia di artisti e di un'operosissima bottega, in una città come Venezia nella quale circolavano Antonello da Messina, Giorgione, Tiziano, brevemente Leonardo e tutti gli artisti più grandi del momento. Sensibile e aperto alla suggestione delle opere di altri maestri, ma dotato di una straordinaria coerenza sul piano formale come su quello spirituale, Bellini riflette nella sua opera (dalla acuta accensione patetica dei dipinti giovanili alla serena classicità di quelli della maturità e degli anni tardi) la vicenda dell'umanesimo veneto nel momento del suo sbocciare e della sua felice affermazione. Nelle sale delle Scuderie del Quirinale sono esposte non solo le famose Madonne , le molte rappresentazioni sacre e profane, tutte scelte secondo un criterio di esemplarità, genere per genere, ma, per la prima volta, alcune straordinarie pale d'altare, come quella con il Battesimo di Cristo eseguita per la chiesa della Santa Corona a Vicenza e la stupefacente Pala di Pesaro , riunita alla sua cimasa, oggi conservata ai Musei Vaticani. Accompagna l'importante rassegna un'attenta campagna d'indagini scientifiche che svela tutto il lavoro preparatorio delle opere di Giovanni Bellini.

Repubblica 29.9.08
Da oggi su RaiTre torna "Cominciamo bene", che festeggia i dieci anni
Italia, è allarme xenofobia


Enzo Iachetti ed Enzo De Caro sono tra gli ospiti della prima puntata di "Cominciamo bene", che festeggia i dieci anni, alle 9.55 su RaiTre. Nel corso del programma, Fabrizio Frizzi ed Elsa Di Gati, dopo i recenti drammatici episodi di violenza, cercheranno di capire se e quanto sia aumentato nel nostro Paese il fenomeno della xenofobia. Attualità in primo piano, mentre la rubrica dello "Sportello" proverà a risolvere i dubbi sui mutui a tasso variabile. «Per la rete questo spazio del mattino è un fiore all´occhiello» dice il direttore di RaiTre Paolo Ruffini «Apriamo la giornata con eleganza, con attenzione al teatro. Tante volte si dice che la Rai non se ne occupa, noi abbiamo uno spazio quotidiano». La mattina si apre infatti con Pino Strabioli con "Prima". La parte musicale sarà affidata a Rita Forte.

il Riformista 29.9.08
Cinema. Raccontare l’immigrazione da una prospettiva diversa
"Billo", la nuova scommessa firmata The Coproducers
Si può essere senegalese e italiano allo stesso tempo?
di Caterina Mascolo


L'immigrazione è una commedia nel nuovo lungometraggio di Laura Muscardin: la narrazione, basata sulle reali vicissitudini del giovane senegalese protagonista, accompagna lo spettatore in una favola che ha come sottofondo le musiche di Youssou N'Dour (che ha creduto nel progetto al punto di finanziarlo): non c'è "angoscia europea" nella descrizione degli esodi della disperazione. Flussi migratori spinti certo dalla povertà, dalla miseria, dalla fame ma anche dalla speranza, dal desiderio di determinare il proprio destino: questa è la faccia sulla quale indugia la cinepresa. Ecco, dunque, la prima peculiarità del film: non una parola spesa su quanto bisogna essere buoni e solidali nell'accogliere gli stranieri, nel permettere loro di lavorare, nel fargli frequentare le stesse scuole dei nostri figli. Il lavoro della Muscardin insiste, invece, sul diritto di cittadinanza universale, un diritto che, consciamente o no, fa salpare su precari gommoni migliaia di persone ogni anno e che ci impone il dialogo come unico mezzo per combattere l'intolleranza.
Thierno Thiam, il giovane che ha inspirato la pellicola, decide di lasciare il villaggio in cui è cresciuto per tentare di farsi strada nel mondo della moda. Come i più, ha un'idea distorta dell'Italia, immaginata come una fumosa patria del glamour. Come i più, l'ha sognata tra riviste e televisione. Le pagine satinate di modelle in abiti da cocktail si scontrano però con l'evidenza brutale della realtà: le strade di Roma non assomigliano affatto alle passerelle, i caldi colori africani scompaiono nel grigio monotono degli edifici, il diploma di sarto non è sufficiente per trovare un lavoro onesto e pulito. L'abilità di Thierno nel cucire è una riuscita metafora della volontà dell'emigrante che vuole inserirsi in un nuovo contesto sociale, costretto a calarsi continuamente in costumi che non gli appartengono: l'integrazione si costruisce giorno per giorno, caso per caso, non è acquistabile in versione preconfezionata.
Il nostro eroe deve, dunque, affrontare le traversie che gli si presentano in un mondo a lui estraneo e potenzialmente ostile: trascorrerà qualche notte in carcere per presunto terrorismo e perderà il primo lavoro stabile per millantate molestie sessuali. Nessuno ha le prove, nessuno ha certezze, eppure viene accusato: superficialità, paura del diverso, razzismo si fondono in un'unica cavalcata che accentua il distacco. Prima di dormire Thierno si rifugia nei ricordi d'infanzia: un telo steso ad asciugare, la scuola coranica, i giochi sulla spiaggia con Fatou, la ragazza alla quale ha promesso di tornare. Quando però incontra Laura, spigliata ed affascinante, i dubbi di Billo, come ormai viene chiamato in Italia, aumentano vertiginosamente e dopo il sogno di diventare uno stilista, dopo la speranza in un lavoro quantomeno dignitoso, crolla anche la ferma volontà di tornare in Senegal per sposare Fatou. La madre, prima che il figlio partisse, aveva voluto che tracciasse nove linee sulla terra: la decima l'avrebbe segnata al suo ritorno. Ecco, ora Thierno non sa se vuole davvero disegnare quella decima riga. Si accorge che Thierno e Billo non coincidono, non combaciano, non sono sovrapponibili.
La Muscardin esplora l'identità fluttuante, o meglio il tradimento inevitabile ed irrinunciabile che qualunque migrante deve compiere nei confronti delle proprie radici. Su una spiaggia bagnata dal mare Thierno apre il sipario della sua esperienza migratoria, un'avventura da equilibrista sullo spartiacque di due mondi. Come può coniugare due culture, due visioni della vita antitetiche e distanti? Come può spiegare a due donne, Laura e Fatou, che le ama entrambe? I poli della sua esistenza si invertono con violenza; ora predominano le radici, le memorie nostalgiche (rooth), ora le accattivanti offerte della metropoli italiana (roots). Il passato ed il presente si intrecciano, così come si uniscono i volti delle due ragazze. Billo vuole essere senegalese ed italiano allo stesso tempo. Perché scegliere? È possibile transitare da una cultura ad un'altra senza abbandonarne nessuna?
Questi interrogativi rimangono sospesi nell'ambiguo finale del film. I titoli di coda non danno alcuna risposta, forse perché non esiste, forse perché la società un finale ancora non l'ha scritto. Se non abbiamo il consueto happy end, non possiamo ignorare però la morale che viaggia lungo tutta la pellicola: l'importanza del dialogo come valida possibilità di integrazione, anche per questo la lingua senegalese non è stata eliminata col doppiaggio e molte parti del film hanno i sottotitoli in italiano. Un'opzione coraggiosa in linea con lo stile battagliero di un film che, dopo aver collezionato vari riconoscimenti (tra cui il "Premio Miglior Film Festival de Villerupt"e il "Premio miglior film Festival du Cinema Italien de Paris") e nonostante gli elogi di Jeanne Moreau che ha sentenziato: "questo è il cinema italiano che adoro", ha faticato ad uscire nelle sale.
Doveroso ricordare quanto poco scontato apparisse il suo lancio a fine riprese, non avendo inizialmente nemmeno lo status di "film italiano". Forse però non lo è davvero. Forse per la prima volta gli immigrati senegalesi potranno vedersi raccontati dal loro punto di vista.