mercoledì 1 ottobre 2008

l’Unità 1.10.09
Razzisti in divisa
Pestato a Parma solo perché ha la pelle nera
L’incredibile vicenda di Bonsu Foster, 22 anni
picchiato dai vigili urbani. Insultato e denudato
di Gigi Marcucci

Emmanuel, 22 anni, ghanese, pestato e insultato dai vigili a Parma
Aggredito senza motivo. Sul verbale di rilascio hanno scritto: «Negro»
Rincorso all’uscita di scuola, pestato, portato via in manette dagli agenti della polizia municipale. Motivo? Lo avevano scambiato per uno spacciatore. Ma lui non aveva fatto nulla. Quando il giovane studente ghanese è stato rilasciato i vigili gli hanno consegnato una busta con sopra scritto «Emmanuel negro». Nella civile Parma il secondo, insopportabile episodio di intolleranza, di vessazione ai danni di chi non può difendersi. Ad agosto era capitato a una prostituta nigeriana abbandonata per terra, seminuda, nella camera di sicurezza della Municipale.

SI CHIAMA BONSU Emmanuel Foster, ha 22 anni, è arrivato 13 anni fa dal Ghana, va alla scuola serale per imparare un mestiere, e studia anche di giorno per colmare alcune lacune dell’istruzione di base. La sua fedina penale è intonsa, come quella di tutta
la sua famiglia: il padre lavora come operaio metalmeccanico. Da 48 ore Emmanuel è al centro di una storia che probabilmente non l’avrebbe nemmeno sfiorato se non avesse la pelle nera. Ore 18,15 di lunedì sera, Emmanuel arriva tra i banchi dell’Itis serale di via Toscana, a Parma. Manca mezz’ora all’inizio delle lezioni. Lascia la cartella, esce per prendere una boccata d’aria, fare due chiacchiere coi compagni. Accade però qualcosa di insolito. Emmanuel vede due uomini in borghese. «Ho visto che parlavano al cellulare, un altro mi si è avvicinato e mi ha afferrato le mani». Bonsu non capisce, si spaventa, tenta la fuga. Non pensa che quegli uomini siano rappresentanti dello Stato, tanto meno lo sfiora l’idea che siano vigili urbani. «Pensa a un’aggressione, come quella che a Milano è costata la vita a un giovane di colore», racconta lo zio Christian Gyamfi, che nel suo Paese fa l’ufficiale dell’Immigrazione, ed esibisce con orgoglio il suo tesserino. Emmanuel scappa, viene preso, buttato per terra, pestato. Gli mettono un ginocchio sulla testa, viene ammanettato e portato sull’auto di servizio. Qui, spiega, lo pestano ancora e gli fanno un occhio nero. Il resto del racconto, Emmanuel lo fa uscendo dalla caserma dei carabinieri di Parma, dove si è recato a mezzogiorno col padre per sporgere denuncia - e da cui, inspiegabilmente, può uscire solo dopo oltre otto ore. «Quando siamo arrivati nella caserma dei vigili sono stato insultato e denudato», dice. Poi si allontana col padre, che scuote la testa: «Quello che è successo è grave e incredibile, perché Parma non è una città razzista. Ora dobbiamo scegliere un avvocato». Forse a bruciare di più è quella busta in cui i vigili hanno messo i documenti del ragazzo. Accanto al nome Emmanuel si legge la parola “negro”.
Accade nella città dove il ministro Maroni e il sindaco Pietro Vignali, erede del civismo moderato di Elvio Ubaldi, hanno tenuto a battesimo la legge che, in materia di sicurezza, dà più potere ai rappresentanti delle amministrazioni locali. Il Comune ha appena sfornato sette ordinanze, ora all’esame del governo, e finisce nella bufera per un’altra brutta storia riguardante la polizia municipale. Solo poche settimane avevano fatto il giro del mondo le foto di una nigeriana morta, ritratta nuda sul pavimento di una cella di sicurezza nella caserma dei vigili urbani. Sul caso di Emmanuel, finito sul sito internet di Repubblica, sono state aperte quattro inchieste: una della Procura, affidata al Pm Roberta Licci, una interna del Comune, una dell’Ufficio governativo che si occupa di discriminazioni e una da Bruxelles. Costantino Monteverdi, assessore alla Sicurezza, non nasconde il suo imbarazzo. «Stamattina ho appreso che i vigili urbani, di cui proprio in quella zona viene lamentata l’assenza , hanno catturato uno spacciatore, e mi sono congratulato col comandante. Poi ho saputo del racconto del ragazzo e ho convocato tutti in Comune». Ma da quando i vigili si occupano di indagini antidroga? «Non se ne occupano, il fermo, mi hanno detto è avvenuto in flagranza di reato».
In realtà uno spacciatore è stato arrestato, proprio nello stesso giardino in cui si trovava Emmanuel. Ma lui che c’entra? In serata arriva un comunicato: «L'Amministrazione intende riaffermare che la difesa della legalità rimane primaria, ma non può essere in alcun modo disgiunta dal rispetto dei diritti inalienabili della persona È necessario fare chiarezza oltre ogni possibile dubbio». Il comandante della Polizia Municipale di Parma, Emma Monguidi, difende invece totalmente l'operato degli agenti: «Non c'è stata nessuna violenza sul giovane. Niente insulti, tanto meno in caserma. Non è mai stato spogliato e l'abbiamo trattato con rispetto, come tutti, al di là del colore della pelle». Poi ammette: «Come da prassi lo abbiamo perquisito: ma solo per verificare che non avesse oggetti per autolesionismo. La scritta “negro” sulla busta? Quella busta era bianca, forse l'ha fatta lui».

l’Unità 1.10.09
Fascismi. Il Paese dell’odio
di Clara Sereni

Ieri è successo a Parma, a Emmanuel Bonsu, picchiato da sette vigili urbani per un sospetto, e nel verbale invece del suo nome hanno scritto «negro». È successo nei giorni scorsi a Milano, a Castelvolturno, a Monza, a Cosenza, ancora a Parma, e in tanti luoghi di cui non abbiamo notizia. È successo che gli invisibili - disabili, negri, prostitute, lavoratori in nero di ogni etnia - li vediamo in cronaca, picchiati espulsi uccisi. Ma questo non è un Paese razzista, ci dicono e ci diciamo.
Proviamo a partire da lontano, forse può aiutarci a capire. Nei campi di sterminio nazi-fascisti furono soppressi circa 13 milioni (milioni!) di persone.
Tredici milioni vuol dire un pezzo non irrilevante di popolazione mondiale: ci vogliono Austria e Danimarca sommate insieme, per arrivare a questo numero, o due terzi dei cittadini australiani. Sei milioni circa erano ebrei. Sette milioni circa erano antifascisti e antinazisti, zingari e disabili, omosessuali e comunisti, e perfino coppie di gemelli, un’eccezione della natura particolarmente cara a Mengele, il mostruoso dottor Morte. Tredici milioni di “diversi” per scelta o per destino, accomunati dall’essere considerati meno di niente, un agglomerato di rifiuti, un’immondizia da eliminare, in quanto tali da riciclare per le loro parti preziose: l’oro delle protesi dentarie per farne lingotti, o i grassi umani per farne sapone, tanto per fare qualche esempio. Come le lattine d’alluminio, come il vetro, come la carta. Intorno a quei 13 milioni, un numero così grande da essere quasi inconcepibile, un’Europa cieca e muta.
Ad oggi, e malgrado ogni negazionismo, il nucleo più integrale di razzismo è questo: le persone diventano meno di niente. I diversi prima diventano invisibili, inesistenti, privi di diritti, e solo dopo vengono in un modo o nell’altro (ce ne sono tanti!) eliminati, in un sogno folle ma frequente di omogeneità sociale.
Sono partita da lontano, ma tutto questo ci riguarda: oggi, e non solo per la memoria che qualcuno di noi ancora ne porta. Per alcuni (pochi) decenni l’integrazione delle e fra le diversità è stata il leit-motiv dei movimenti più avanzati: dalla scuola alla psichiatria, dalla religiosità più avanzata all’emigrazione italiana all’estero. Numeri solo un po’ meno milionari anche qui, ma sembrava normale, ed era possibile. «Diverso è bello», si diceva, pur con la coscienza delle difficoltà. Si diceva “integrazione” per significare che senza questo o quel pezzo, questa o quella diversità, il corpo sociale non è intero, è deprivato.
Mi chiedo dove i saperi legati a tutte queste esperienze siano andati a finire. Certo negli insegnanti di sostegno disperati e disperate che (come nella lettera a Cancrini pubblicata di recente su queste pagine) vedono svanire il lavoro di tanti anni grazie alla sbrigativa ministra Gelmini. Certo nei timori di tanti psichiatri, utenti, famigliari, cooperative e associazioni che aspettano con grande preoccupazione i provvedimenti annunciati da Berlusconi nel programma elettorale in tema di trattamenti sanitari obbligatori, questione che porta con sé idee sulla riforma della 180 che non possono che spaventare, tanto più se in coppia con la privatizzazione della salute minacciata in questi giorni. Certo non dimenticano gli appartenenti a tante confessioni, che ancora e ostinatamente cercano l’incontro e il dialogo con l’Altro ma sono ridotti in piccoli gruppi, la cui voce è difficile far sentire. Né dimenticano molteplici strutture della Chiesa cattolica, che su più fronti ha dato conto delle proprie ansie e preoccupazioni. Non dimenticano le operatrici e gli operatori di strada, siano quelli coinvolti nella prostituzione, siano quelli che provano a portare a scuola chi è risucchiato dalle mafie.
Ma il Paese, l’Italia nel suo complesso, ciascuno di noi “normali”, cosa ricorda? E, soprattutto, cosa “vede”? Da ogni parte arrivano richieste perché chi è scomodo diventi anche invisibile: le prostitute non devono più farsi vedere per strada, i disabili se non vanno a scuola è meglio, i matti risultano pericolosi come i magistrati e viceversa, i migranti hanno il dovere di farci vivere meglio e non il diritto di affacciarsi ai diritti, le preghiere dei musulmani vanno bene purché non ingombrino, e via cancellando.
Tutto questo, tutto insieme, è razzismo. E alberga in ciascuno di noi, anche se ci piacerebbe credere che non è così. Ogni volta in cui ci sembra che il singolo problema - disabilità o Islam, colore della pelle o follia - non ci riguardi, e che dunque possiamo tacere, non opporci, non scendere in strada, rinunciare, quella che avanza è l’idea che si possano tagliar via singoli pezzi di società senza che questo sia una perdita per tutti. Il silenzio uccide l’integrazione, uccide gli invisibili, e ci uccide anche dentro.
Così come, quando c’è un vuoto, qualcosa interviene sempre a riempirlo, così nel vuoto di gesti e di parole maturano altri gesti, altre parole. Qualche anno fa, ho studiato gli archivi dell’ufficio per la difesa della razza istituito dal fascismo. Era in gran parte un tremendo elenco di piccole denunce: il tale aveva, in spregio della legge allora vigente, una domestica non ebrea, un altro aveva una radio, strumento anch’esso proibito. Piccole cose, nel piccolo mondo ottuso che dava vita e vigore al fascismo. Piccole e grandi invidie, piccole e grandi paure, piccole e grandi delazioni, il frutto velenoso di egoismi ristretti ha aperto la strada allo sterminio, maturato grazie ad una irresponsabilità e ad un silenzio collettivi. Irresponsabilità e silenzio più gravi in altre parti d’Europa ma che hanno largamente riguardato anche degli italiani, con troppa facilità e continuità messisi al sicuro sotto la coperta calda degli “italiani brava gente”.
Credo che gli italiani siano tuttora, in larga misura, brava gente. Gente con il cuore in mano, soprattutto se il portafoglio è ben custodito. Ma la smemoratezza diffusa a larghe mani, il portafoglio mai come ora in pericolo, i rischi reali e quelli artatamente innescati, il disfacimento progressivo dei legami di solidarietà, la precarietà di una politica incapace di tenere insieme tutti i fili senza farli aggrovigliare, mi fa temere che sempre più siamo e saremo come le famose tre scimmiette: non vedere, non sentire, non parlare, lasciando che qualcun altro se ne occupi, e che gli invisibili affondino nel loro mare (e non solo in senso figurato, come sappiamo). Convinti di salvarci aggrappandoci a privilegi che ci sembrano garantiti e ci fanno sentire al riparo: la cittadinanza, il colore della pelle, la cultura, le disponibilità economiche. Ma nessuno è garantito per sempre, quando i pezzi vanno via senza posa: nel silenzio sempre più cupo alla fine - come scriveva Brecht - entrerò fra gli invisibili anche io, anche tu, e non ci sarà più nessuno a gridare.
Per ricominciare a vedere gli invisibili con occhio partecipe, fuori dal silenzio, per non essere razzisti nel nostro fondo, c’è bisogno di un grande salto culturale, di quelli difficili. C’è bisogno che ciascuno riparta da sé, dalle proprie personali scimmiette. Perché, come diceva don Milani, “mi riguarda” è il contrario di “me ne frego”: concetto da tenere a mente, in questi tempi di fascismo rinascente. Quando si tende a dimenticare che i problemi li abbiamo tutti, ma uscirne ciascuno per proprio conto è egoismo sterile, mentre uscirne tutte e tutti insieme è Politica. Quella con la P maiuscola.

Repubblica 1.10.08
Il frutto avvelenato della tolleranza zero
di Curzio Maltese

A Parma, nella civile Parma, la polizia municipale ha massacrato di botte un giovane ghanese, Emmanuel Bonsu Foster, e ha scritto sulla sua pratica la spiegazione: "negro". Davano la caccia agli spacciatori e hanno trovato Emmanuel, che non è uno spacciatore, è uno studente. Anzi è uno studente che gli spacciatori li combatte. Stava cominciando a lavorare come volontario in un centro di recupero dei tossici. Ma è bastato che avesse la pelle nera per scatenare il sadismo dei vigili, calci, pugni, sputi al "negro".
Parma è la stessa città dove qualche settimana fa era stata maltrattata, rinchiusa e fotografata come un animale una prostituta africana.
L´ultimo caso di inedito razzismo all´italiana pone due questioni, una limitata e urgente, l´altra più generale. La prima è che non si possono dare troppi poteri ai sindaci. Il decreto Maroni è stato in questo senso una vera sciagura. La classe politica nazionale italiana è mediocre, ma spesso il ceto politico locale è, se possibile, ancora peggio. Delegare ai sindaci una parte di poteri, ha significato in questi mesi assistere a un delirio di norme incivili, al grido di "tolleranza zero". In provincia come nelle metropoli, nella Treviso o nella Verona degli sceriffi leghisti, come nella Roma di Alemanno e nella Milano della Moratti. A Parma il sindaco Pietro Vignali, una vittima della cattiva televisione, ha firmato ordinanze contro chiunque, prostitute e clienti, accattoni e fumatori (all´aperto!), ragazzi colpevoli di festeggiare per strada. Si è insomma segnalato, nel suo piccolo, nel grande sport nazionale: la caccia al povero cristo. Sarà il caso di ricordare a questi sceriffi che nella classifica dei problemi delle città italiane la sicurezza legata all´immigrazione non figura neppure nei primi dieci posti. I problemi delle metropoli italiane, confrontate al resto d´Europa, sono l´inquinamento, gli abusi edilizi, le buche nelle strade, la pessima qualità dei servizi, il conseguente e drammatico crollo di presenze turistiche eccetera eccetera. Oltre naturalmente alla penetrazione dell´economia mafiosa, da Palermo ad Aosta, passando per l´Emilia.
I sindaci incompetenti non sanno offrire risposte e quindi si concentrano sui "negri". Nella speranza, purtroppo fondata, di raccogliere con meno fatica più consensi. Di questo passo, creeranno loro stessi l´emergenza che fingono di voler risolvere. Provocazioni e violenze continue non possono che evocare una reazione altrettanto intollerante da parte delle comunità di migranti. Al funerale di Abdoul, il ragazzo ucciso a Cernusco sul Naviglio non c´erano italiani per testimoniare solidarietà. A parte un grande artista di teatro, Pippo Del Bono, che ha filmato la rabbia plumbea di amici e parenti. La guerra agli immigrati è una delle tante guerre tragiche e idiote che non avremmo voluto. Ma una volta dichiarata, bisogna aspettarsi una reazione del "nemico".
L´altra questione è più generale, è il clima culturale in cui sta scivolando il Paese, senza quasi accorgersene. Nel momento stesso in cui si riscrive la storia delle leggi razziali, nell´urgenza di rivalutare il fascismo, si testimonia quanto il razzismo sia una malapianta nostrana. L´Italia è l´unica nazione civile in cui nei titoli di giornali si usa ancora specificare la provenienza soltanto per i delinquenti stranieri: rapinatore slavo, spacciatore marocchino, violentatore rumeno. Poiché oltre il novanta per cento degli stupri, per fare un esempio, sono compiuti da italiani, diventa difficile credere a una forzatura dovuta all´emergenza. L´altra sera, da Vespa, tutti gli ospiti italiani cercavano di convincere il testimone del delitto di Perugia che "nessuno ce l´aveva con lui perché era negro". Negro? Si può ascoltare questo termine per tutta la sera da una tv pubblica occidentale? Non lo eravamo e stiamo diventando un paese razzista. Così almeno gli italiani vengono ormai percepiti all´estero.
Forse non è vero. Forse la caccia allo straniero è soltanto un effetto collaterale dell´immensa paura che gli italiani povano da vent´anni davanti al fenomeno della globalizzazione. La paura e, perché no?, la vergogna si sentirsi inadeguati di fronte ai grandi cambiamenti, che si traduce nel più facile e abietto dei sentimenti, l´odio per il diverso. La nostalgia ridicola di un passato dove eravamo tutti italiani e potevamo quindi odiarci fra di noi. In questo clima culturale miserabile perfino un sindaco di provincia o un vigile di periferia si sentono depositari di un potere di vita o di morte su un "negro".

Repubblica 1.10.08
Leggi razziali
L’eterno ritono dei cattivi maestri
di Adriano Prosperi

I bellissimi diari di un partigiano ebreo, Emanuele Artom torturato dai militi della RSI
Le memorie di quegli anni parlano di una vistosa assenza di reazioni
Settant´anni fa il regime fascista varava la legislazione antisemita orribile preludio dei campi di sterminio

All´appuntamento col settimo decennale delle leggi razziali - ma sarebbe meglio chiamarle col loro vero nome, leggi razziste - l´Italia, il suo governo, la sua scuola, ma anche larga parte della sua popolazione si presentano più distratti del solito, il che non è poco. Sono gli eredi politici del regime fascista, oggi al governo in Italia, che ne parlano. Lo fanno ricorrendo a un linguaggio di sapore religioso: si chiedono, col sindaco di Roma Alemanno, se quelle leggi furono il male assoluto. Il veleno dell´argomento è scoperto, ingenuo.
«Assoluto» è una parola che appartiene al linguaggio apocalittico dell´ideologia nazista. Così quelle leggi vanno sul conto del razzismo nazista e il regime fascista è assolto da ogni colpa. La tendenza italica all´autoassoluzione è antica e ben nota. Ma è necessario fare i conti con le leggi razziste che operarono nell´Italia di Mussolini dal 1938 al 1945. In questo settantesimo anniversario spinge a ricordarle non la minaccia di un ritorno dell´antisemitismo e nemmeno quel razzismo volgare che oggi in Italia è prodotto e alimentato dalla paura dello straniero, dell´immigrato: si tratta piuttosto di capire che cosa significarono allora quelle leggi nel mondo della scuola e nella cultura religiosa italiana. La ragione è semplice: le memorie di quegli anni parlano di una assenza di reazioni proprio nei luoghi che dovevano esserne più direttamente colpiti e più capaci di reazione - quelli della scuola e quelli della Chiesa. Oggi è sul fronte della scuola e su quello della integrazione fra culture e religioni diverse che il disagio della società italiana è più forte. E la mancata elaborazione di quel passato ne è insieme sintomo e causa.
Lo stato della memoria della cosiddetta società civile è quello che è. «Priebke? Boh!»: così hanno reagito qualche giorno fa le candidate a un premio di bellezza in quel di Frosinone, a poca distanza dalle Fosse Ardeatine, dove qualcuno ha avuto l´idea di invitare come testimonial quella cariatide di assassino nazista. Idea in sé non nuova - lo sanno bene i «mostri» della cronaca nera - se non fosse che i criminali di guerra sono vecchi e soprattutto ignoti ai più. Altro che memoria divisa. Il fiume di un´opinione pubblica politicamente indifferente e infastidita dalle dispute ideologiche li ha cancellati.
La stagione della post-politica perfeziona così la mancata resa dei conti col proprio passato con cui l´Italia ufficiale chiuse tra parentesi il fascismo. E ritorna in auge l´immagine negativa della politica e dei politici di mestiere, simile in apparenza soltanto a quella instillata dalla propaganda del ventennio fascista. Allora nella deliberata ignoranza e rifiuto della politica le menti più lucide videro il prodotto e la radice stessa del fascismo italiano. Lo testimoniano i bellissimi Diari di un partigiano ebreo di Emanuele Artom (editi da Guri Schwarz per Bollati Boringhieri). Emanuele Artom fu fatto prigioniero e ucciso dopo atroci torture dai militi della RSI - quelli per i quali si osa oggi chiedere parità di onore pubblico con le loro vittime. Il suo è uno dei nomi che quelle leggi cancellarono dal mondo degli studi e della scuola. Accanto al suo ci sarebbero tanti altri nomi da ricordare. Ma il fatto su cui si deve tornare a riflettere è l´importanza della scuola per l´attuazione delle leggi del 1938. Qui il regime fascista fu più rapido e più duro di quel nazismo di cui lo si vorrebbe un passivo imitatore in materia di razzismo, un succubo, un ingenuo scolaro traviato da cattivi compagni. L´espulsione degli studenti ebrei dalle scuole pubbliche reca la data del 5 settembre 1938 col Regio decreto n. 1390: «Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola». Come ha fatto presente Michele Sarfatti, a Berlino la stessa misura fu presa solo due mesi e mezzo più tardi. Ne fu attore primario Giuseppe Bottai ministro di quella che si chiamava allora l´Educazione Nazionale. Fu lui a far sì che le scuole si riaprissero cancellando studenti e professori ebrei e libri di testo di autori ebrei. Spirito religioso, quel Bottai: il carteggio che intrecciò con don Giuseppe De Luca ha accenti di grande devozione. Sotto di lui la struttura burocratica e la catena di comando della scuola dettero prova di una durezza e di un´efficienza insolite.
Quando le scuole si riaprirono, gli studenti definiti ebrei da quelle leggi erano scomparsi e così pure i professori. Dov´erano finiti? E soprattutto: qualcuno se lo chiese? Oggi le carte di polizia ci permettono di ricostruire i percorsi degli scomparsi. E anche in questo caso l´efficienza dimostrata allora da un paese noto per la sua sciatteria istituzionale desta stupore.
Le spie che si incollarono al professor Paul Oskar Kristeller ne annotarono ogni passo. Elenchi di nomi e cognomi ebraici preparati da tempo permisero di seguire i movimenti delle persone. Quando venne il momento della deportazione nei lager, si fu in grado di rintracciare e chiudere nelle carceri fiorentine di Santa Verdiana la professoressa Enrica Calabresi, studiosa di scienze naturali cacciata dall´università in esecuzione del decreto del 5 settembre 1938: e solo la fiala di solfuro di zinco che la professoressa portava con sé le offrì una via d´uscita prima di salire sul treno per Auschwitz.
Con la scuola va insieme la religione: il linguaggio del razzismo fascista, profondamente diverso da quello nazista, esaltava la superiore spiritualità della «razza italiana». Era un´ambigua mistura di fumisterie idealistiche e di termini religiosi. Quanto contribuì quel linguaggio a oscurare la coscienza della realtà delle cose? Che cosa era la religione che si insegnava nelle scuole italiane dopo il Concordato del ?29? Qui non si tratta solo di misurare la timidezza e l´unilateralità delle reazioni ufficiali delle autorità centrali della Chiesa cattolica, che si preoccupò solo per la legislazione sui matrimoni misti e bloccò la protesta preparata dal defunto papa Pio XI. Si tratta di capire quanto pesasse allora nella cultura scolastica e nella vita sociale l´antica, plurisecolare tradizione di diffamazione degli ebrei e dell´ebraismo portata avanti dal magistero della Chiesa e diffusa dall´alto attraverso i veicoli della capillare presenza ecclesiastica in Italia. Bisogna tornare a scavare in questo passato italiano. Bisogna che quel che se ne sa diventi patrimonio comune.
E per questo è necessario ma non sufficiente che sia chiusa per sempre la porta ai tentativi di rilegittimare il fascismo. Bisogna che la scuola pubblica sia attrezzata come si deve nei confronti dell´intolleranza e dell´ignoranza religiosa e culturale. Oggi il linguaggio senza tempo delle pretese vaticane rivendica nuovi privilegi per le scuole cattoliche. Eppure la scuola pubblica ospita un insegnamento della religione pagato dallo Stato e gestito dai vescovi che di fatto cancella la parità dei diritti costituzionali e tende a vaccinare i giovani contro ogni pluralismo culturale e religioso.
Il fatto che oggi in Italia non siano gli ebrei a essere minacciati più direttamente dall´intolleranza niente toglie all´urgenza del problema. Il passato può insegnare qualcosa. E la scuola pubblica merita che vi si investano tutti i pensieri di un paese che vuole avere un futuro. «Se si pensa a com´è disarmata la giovinezza, - diceva Cesare Garboli - e a com´è fragile davanti ai cattivi maestri... ».

l’Unità 1.10.09
Migranti
Il lager di Kufra, una vergogna per l’Italia

Fa scandalo - e come non potrebbe, la denuncia sul campo-lager di Kufra, lì dove verrebbero trattenuti (e torturati) i migranti. Ieri il Pd, per iniziativa del senatore Alberto Maritati, ha presentato un’interrogazione firmata da 25 colleghi al Presidente del consiglio e al ministro degli Esteri, ricordando l’articolo dell’Unità sul documentario di Andrea Segre e Dagmawi Yimer, «Come un uomo sulla terra». È la storia di un migrante, il suo peregrinare da Addis Abeba a Kufra, un lager per chi vuol emigrare in Europa e in Italia. Poiché, è scritto nell’interrogazione «le condizioni in cui vengono trattenuti sono di una pesantezza disumana, in modo particolare per le donne» e che «che nello stesso documentario si sostiene che imprecisate autorità italiane sono state in visita a Kufra e avrebbero quindi dovuto vedere l’orrendo trattamento inflitto agli sfortunati cittadini provenienti da diverse regioni africane» si vuol sapere con urgenza «se il nostro Governo è a conoscenza dell’esistenza del campo di detenzione nella libica Kufra, se negli accordi con l’obbligo per l’Italia di versare somme in favore del Governo libico per il controllo dell’immigrazione, sia stato chiesto di fermare in appositi campi detenuti in transito, o se vi siano altri accordi sul trattamento degli immigrati che attendono di attraversare il Mediterraneo, se l’Italia sia coinvolta, in qualsiasi modo, da sola o con altri Paesi europei, nella costruzione e/o nel finanziamento di campi per immigrati a Kufra o altrove in Libia».

l’Unità 1.10.09
Testamento biologico
Il momento della legge
di Luigi Manconi

Oggi, in commissione Sanità del Senato, inizia la discussione sul Testamento biologico. Il quadro del confronto si presenta assai difficile, e non da ora. Da oltre un decennio, da quando presentammo la prima proposta di legge in materia, una domanda molto semplice attende risposta: perché mai se un adulto consapevole può rifiutare un trapianto di organo, anche quando esso può salvargli la vita, quello stesso adulto consapevole non può dichiarare il proprio rifiuto di alimentazione e idratazione artificiali per il tempo nel quale non fosse più nel pieno possesso delle proprie capacità?
È un interrogativo al quale sfuggono - con pochissime eccezioni - i parlamentari del centrodestra e, ancor prima, teologi moralisti e gerarchie ecclesiali e, infine, il presidente della Conferenza Episcopale Italiana monsignor Angelo Bagnasco.
Eppure, proprio intorno a quel quesito e alla difficoltà, forse impossibilità, di trovare risposte condivise si gioca il conflitto politico-parlamentare in materia di dichiarazioni anticipate di volontà. E la situazione oggi appare particolarmente ardua, dopo che la prolusione di monsignor Bagnasco aveva indotto a frettolose valutazioni positive.
In effetti, quelle parole rivelano come la Chiesa sia infine consapevole che sulle questioni di “fine vita”, anche in Italia, si debba rispondere a due domande fondamentali: il riconoscimento di quel bisogno irriducibile di autodeterminazione sulle scelte relative alla propria sfera personale, che si manifesta oggi in particolare sui temi del nascere e del morire; l’esigenza di tutela del proprio corpo e del proprio percorso esistenziale rispetto all’onnipotenza, non sempre conosciuta e raramente controllabile, delle biotecnologie. La Chiesa ammette che queste domande implicano tutele giuridiche; ma, ancora una volta, reagisce con una prudenza che, per un verso, rivela angoscia, se non paura, per la volontà/capacità di autonomia e di libera scelta dell’individuo e, per altro verso, segnala un atteggiamento svalutativo nei confronti del senso di responsabilità personale, che vorrebbe sempre e comunque sottoposto ad autorità esterne.
Eppure la posta in gioco è limpida: in ultima istanza, non può essere altro che la volontà individuale - adeguatamente informata, sempre suscettibile di ripensamento, costantemente assistita dal rapporto terapeutico e, quando possibile, da una rete di relazioni famigliari e sociali - ad assumere la decisione. Non è solo la carta costituzionale, la convenzione di Oviedo, tutte le dichiarazioni internazionali e l’intera giurisprudenza italiana ad affermarlo. È, innanzitutto, il buon senso: in presenza di una controversia tra paziente e medico, perché mai dovrebbe essere la decisone di quest’ultimo a prevalere? Il medico che, in scienza e coscienza, formula una valutazione diversa da quella affermata dal paziente, può ricorrere all’obiezione di coscienza: ma non può, certo, disubbidire. Lascia stupefatti, pertanto, quanto affermato da monsignor Elio Sgreccia, teologo bioeticista, particolarmente ascoltato in Vaticano: il medico «deve disubbidire» (intervista al Corriere della Sera del 23 settembre 2008). Ciò risulta in aperto contrasto con l’articolo 38 del codice deontologico dei medici, dove si legge: «il medico deve attenersi, nell’ambito della autonomia e indipendenza che caratterizza la professione, alla volontà liberamente espressa della persona di curarsi e deve agire nel rispetto della dignità, della libertà e autonomia della stessa». Non solo: «il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, deve tenere conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato». Ma Elio Sgreccia, in realtà, ha voluto - esplicitamente, direi - mettere “sotto controllo” il presidente della Cei. Non a caso, in quell’intervista, ha spiegato acribiosamente che «un Testamento biologico non è incluso nella legge di cui parla il cardinale Bagnasco»; e vanno esclusi «con o senza dichiarazioni anticipate, i testamenti di vita». Ancor più autorevolmente, il predecessore di Bagnasco, monsignor Camillo Ruini critica il «relativismo soggettivista», che affiderebbe «alla volontà del singolo ammalato, o di altre persone, la decisione di produrre la morte». Ma, subito dopo, Ruini sostiene con forza il «dovere di motivare il paziente, attraverso strumenti non coercitivi, alla tutela della propria salute, con tutti i mezzi proporzionati» (Avvenire del 25 settembre 2008). Giustissimo, ma se quella opera di “motivazione” si rivelasse insufficiente, a chi spetta la decisione sulla sospensione delle cure? Ancora una volta, sarà il paziente - e chi altri mai - a decidere su di sé. Resta il fatto che sulla questione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali le posizioni della gerarchia risultano immobili e immutabili; e che, pertanto, un pronunciamento morale («varare, si spera col concorso più ampio, una legge sul fine vita») si è tradotto in una valutazione di ordine scientifico-sanitario, del tutto impropria («trattamenti di sostegno vitale, qualitativamente diversi dalle terapie sanitarie»): ancor più immotivata se confrontata con l’affermazione di Maurizio Muscaritoli, presidente della Società italiana di nutrizione artificiale e metabolismo: «nutrizione ed idratazione artificiali vanno considerate trattamenti medici da non somministrare se non di beneficio per il paziente, indipendentemente dal suo stato di coscienza».
Perché mai una affermazione così netta, espressione di criteri esclusivamente scientifici, deve essere messa in dubbio da un giudizio di natura etica e di ispirazione religiosa, quale quello del presidente della Conferenza Episcopale Italiana? Ma quel che è peggio è che quel monito morale viene fatto proprio (come un sol uomo: è il caso di dire) da tutto il centrodestra. Il quale centrodestra, immarcescibilmente imperturbabile davanti alla sorte di Eluana Englaro per sedici anni, ora la evoca solo per negarle quanto lei stessa chiedeva, quand’era cosciente, e quanto ora chiedono disperatamente i suoi famigliari. Il risultato è, temo, il peggiore: una legge sul Testamento biologico potrebbe essere varata, ma tale da costituire un pesantissimo passo indietro. Come già accaduto a proposito della fecondazione assistita, il vuoto legislativo rischia di essere colmato da un cattivo pieno: che nega la volontà del soggetto e il suo diritto all’autodeterminazione proprio in riferimento alla sua sfera più intima e delicata.
Sia chiaro. Tutto ciò - checché ne dicano Sgreccia e Bagnasco - non ha nulla a che vedere con l’eutanasia, che resta inequivocabilmente altra cosa, e che non riguarda il “lasciar morire” e il “lasciarsi morire”: ma implica un intervento attivo e determinante, finalizzato a interrompere una vita. Ma ha ragione Concita De Gregorio quando, nel suo articolo di domenica scorsa, scrive: «l’eutanasia, in Italia, esiste già. Lo sanno bene tutti: i medici e i pazienti, le famiglie a cui è toccato e tocca il dolore di star vicino a chi se ne sta andando o se ne è andato già ma non può morire davvero». Sì, è esattamente così. Ma per una combinazione miserevole di codardia e ipocrisia, di virtù fattasi integralismo e di altruismo trasceso in fanatismo, lo si nega.
Eppure la conferma viene dalle fonti più insospettabili, come una ricerca scientifica curata, tra gli altri, da Adriano Pessina, direttore del centro di bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, il più inflessibile e intransigente difensore della “vita dal concepimento alla morte naturale”. In quella ricerca, pubblicata nel 2003, si legge che il 3,6% dei medici intervistati «ha ammesso di aver talvolta somministrato deliberatamente dosi letali di farmaci» a malati terminali, affetti da sofferenze non lenibili; e che, «tale comportamento viene considerato eticamente accettabile dal 15,8% di quel campione di medici».

Corriere della Sera 1.10.08
I sentimenti visti da una donna islamica
Se Oriente e Occidente rifiutano l'amore
di Isabella Bossi Fedrigotti

Ha l'occhio soprattutto rivolto al passato, la scrittrice marocchina Fatema Mernissi, quando racconta dell'amore nel mondo islamico. Ne Le 51 parole dell'amore (ripubblicato in questi giorni con una nuova introduzione) ripercorre infatti la grande tradizione araba antica dei poeti, dei letterati, dei filosofi che cantarono passione e seduzione con estrema libertà. L'amore narrato, insomma, come una specie di paradiso terrestre, dove le donne non erano affatto sottomesse, bensì ascoltate e rispettate quando non anche obbedite, dove i matrimoni combinati non erano affatto la regola, dove si parlava di innamoramento non come di una cosa buona al massimo per gli adolescenti, ma di un prezioso miracolo da gridare ai quattro venti.
Ed è questo ciò che la Mernissi in particolare rimpiange, l'antico piacere di parlare pubblicamente dei sentimenti, oggi quasi completamente perduto, in verità non soltanto nel mondo arabo: nel pudico — o cinico — rifiuto del discorso amoroso Oriente e Occidente sono più o meno alla pari.
Di ciò che nel rapporto tra i sessi succede oggi nell'Islam, l'autrice parla invece assai meno e se anche è ovvio che le infauste notizie riportate dalla cronaca mostrano soltanto un aspetto della questione, nell'insieme la situazione — soprattutto in alcuni Paesi — non sembra così rosea come potrebbero far immaginare i liberi scritti della tradizione. Scritti che, peraltro, non trovano molti corrispettivi nell'antica letteratura occidentale segnata com'era dalla sessuofobia cristiana: del resto non è un caso che le
Mille e una notte andassero in scena a Bagdad e non a Roma o a Parigi.
FATEMA MERNISSI Le 51 parole dell'amore GIUNTI PP. 245, e 12,50

Corriere della Sera 1.10.08
Un ricordo di Leonardo Ancona
Lo psicoanalista che saprà vincere i divieti di Gemelli e otterrà il plauso di Paolo VI
La sintesi riuscita tra fede e psiche
di Marco Garzonio

La vicenda umana di Leonardo Ancona, primo e famoso psicoanalista dichiaratamente cattolico, scomparso da poco, può essere vista come spaccato straordinario dell'evoluzione nei rapporti tra psicologia del profondo e Chiesa e, attraverso gli scontri-incontri di cui lui stesso è stato protagonista, degli alti e bassi tra Chiesa e cultura, libertà e fede, spirito di ricerca e sacro. Ancona fu allievo di padre Gemelli, fondatore dell'Università Cattolica. Un personaggio, Gemelli, si sa: creò un'apprezzabile scuola di psicologia sperimentale in opposizione alle ricerche sull'inconscio; scrisse libelli contro Freud e Jung; negli Anni Trenta ostacolò il progetto editoriale di Montini, De Luca e Minelli per creare un ponte con autori non cattolici anche attraverso il filtro della psicoanalisi; ridusse al silenzio giovani studiosi (come il futuro cardinale di Milano Giovanni Colombo) che osarono scrivere di Freud.
In linea col maestro e di questi allora «succube», Ancona a metà Anni Cinquanta giudica la psicoanalisi «un coacervo di assunzioni temibili per la moralità e la dignità dell'uomo». Usa toni e argomenti tali che Musatti gli toglierà la parola al congresso degli psicologi del 1954. È un clima generale di scontro. La cultura cattolica ufficiale sta sulla difensiva. Sogni e loro interpretazioni sono banditi; sottoporsi ad analisi equivale a «peccato mortale»; Turoldo che fa tradurre Dio e l'inconscio
di padre White (con prefazione di Jung nell'originale) è il disubbidiente. Al divieto è simmetrica l'attrazione per la trasgressione, però. Tempi della storia e vicende personali s'incrociano. Ancona ottiene una borsa di studio a Montreal, dove c'è Mailloux, domenicano e psicoanalista. Lavorerà con lui e ucciderà simbolicamente il padre, Gemelli, che gli aveva ingiunto «non ti lascerai analizzare!».
È l'anno accademico 1957-58. A Pio XII sta per succedere papa Giovanni. Il giovane studioso si è «convertito» alla fede nell'inconscio senza rinnegare quella cattolica (per lui era «leggenda metropolitana» la «contrapposizione tra fede religiosa e psicoanalisi ») e vede corrispondere una «nuova primavera» nei rapporti tra Chiesa e psicologia del profondo. Nella Gaudium et spes, la costituzione conciliare sui rapporti tra Chiesa e mondo, l'Assise Ecumenica sancirà che «la psicologia dà all'uomo la possibilità di una migliore conoscenza di sé». Di fatto resistenze, diffidenze, ostilità restano forti. Nella Chiesa finiscono per convivere due anime. Paolo VI tenderà le braccia ad Ancona nel 1967: lo incoraggia a promuovere l'incontro tra religione e psicoanalisi. Dirà pubblicamente il papa nel 1974: «Abbiamo stima di questa ormai celebre corrente di studi antropologici ». Ma nella pubblicistica cattolica lo studioso è definito con un linguaggio che colpisce: «Pagato con i soldi della Chiesa e traditore di Cristo». Più soft, il cardinale Felici, che in epoca preconciliare aveva indicato come «colpa grave» la pratica psicoanalitica, confiderà ad Ancona stesso: «Oggi non lo scriverei più, ma penso sempre allo stesso modo».
Così il cammino dello studioso, che riesce a conservare la Cattedra di Psichiatria, procede tra sostegni, diffidenze e boicottaggi anche da parte delle autorità accademiche, avvicinamenti proficui con altre scuole (Ancona farà analisi anche con Matte Blanco) e contrasti con la psicoanalisi italiana ufficiale. Un dramma personale e di studioso.
Negli anni '70 e '90 fiorisce la produzione scientifica di Ancona. Tra i cattolici, finalmente, hanno trovato cittadinanza letture di eventi secondo dinamiche inconsce, un «pensare psicologicamente», attenzione per immagini e simboli. Affidarsi alle vertigini della ricerca non è tabù, né oggetto di scomunica (almeno esplicita e formale!). Ma restano ancora da scandagliare le potenzialità degli incontri-scontri. Ancona lo sapeva e lo scrisse pochi anni fa in un libro, che è autobiografia e testamento magisteriale:
La mia vita e la psicoanalisi
(edizioni Magi). Lui era ottimista e aveva fiducia nell'autonomia, nella responsabilizzazione, nella libertà, nell'attitudine critica quali aiuti alla fede stessa. Sapeva che le istituzioni guardano tali conquiste con sospetto e preoccupazione. Ma le remore non furono sufficienti a fermarlo.

Repubblica 1.10.08
Il diritto e la dignità
di Stefano Rodotà

Sulla copertina del primo numero del 2007 della rivista Time, dedicato secondo tradizione alla "persona dell´anno", compariva a grandi lettere la parola "You". Era dunque la sterminata platea degli individui ad essere eletta a protagonista. Ciascuno, però, nella sua irripetibile singolarità, perché in quella copertina era inserito un materiale riflettente che consentiva a chiunque la guardasse di riconoscersi come in uno specchio. Il mondo sei tu.
Ma, osservando meglio, quello specchio si rivelava come lo schermo di un computer, disegnato sulla copertina sopra la parola "You". Il messaggio assumeva così un particolare significato. Ti riconosco come persona dell´anno perché ormai sei entrato a far parte di quell´apparato tecnologico. L´ordine uomo-macchina è rovesciato. Sei protagonista, e forse signore dell´ambiente che ti circonda, solo se ti fai macchina tu stesso, se in definitiva diventi una componente di quell´apparato.
Attraversiamo l´Atlantico e approdiamo, un anno dopo, in Germania, dove la Corte costituzionale, alla fine del febbraio 2008 decide sull´articolo di una legge che autorizzava la "perquisizione" dei personal computer da parte delle autorità di polizia, per investigarne i contenuti anche all´insaputa dell´interessato. I giudici tedeschi hanno dichiarato incostituzionale quella norma. Affermando che esiste un nuovo diritto fondamentale della personalità, che consiste nella "libertà e riservatezza dell´apparato informativo" di cui ciascuno dispone.
L´impostazione di Time viene completamente rovesciata. È l´umano che ingloba in sé la macchina, non il contrario, e il diritto ne riafferma la priorità. Ma ci dice soprattutto che nel mondo esiste una nuova entità, e così ci consegna una nuova antropologia. Una versione tecnologicamente aggiornata dell´homme machine, unica via per riconciliarlo con gli apparati tecnici che progressivamente lo accompagnano, lo ristrutturano, lo invadono?
Ma l´immagine che, nel modo più eloquente, ci introduce in questa dimensione è forse quella di Oscar Pistorius, un corridore sudafricano che, privo della parte inferiore delle gambe, le ha sostituite con impianti in fibra di carbonio e si è visto riconoscere il diritto di partecipare alle Olimpiadi. Cade così la barriera tra "normodotati" e portatori di protesi, e anzi si prospetta una nuova nozione di normalità, che non è più soltanto quella naturalmente determinata, ma pure quella artificialmente costruita.
Prendendo spunto proprio dalla conclusione di questa vicenda, un´altra atleta paraolimpica, Aimée Mullins, ha affermato che "modificare il proprio corpo con la tecnologia non è un vantaggio, ma un diritto. Sia per chi fa sport a livello professionistico che per l´uomo comune". La nuova dimensione dell´umano esige una nuova misura giuridica, che dilata l´ambito dei diritti fondamentali della persona. E al diritto viene affidato il compito di garantire la più ampia e paritaria possibilità di accesso alle opportunità crescenti offerte dall´innovazione scientifica e tecnologica. Due grandi principi s´incontrano e si intrecciano. Quello di dignità, che si manifesta come il criterio di valutazione delle modalità e degli esiti della costruzione artificiale del corpo. E quello dell´eguaglianza che, una volta riconosciuta la legittimità della specifica costruzione artificiale, deve evitare che da ciò possano nascere discriminazioni, sia nella fase dell´accesso, sia in quella successiva della vita della persona che ha utilizzato gli impianti tecnologici.
Altre immagini ci accompagnano, quotidiane e inquietanti. Il braccialetto al piede del detenuto agli arresti domiciliari, ma anche al polso dell´anziano per fornirgli assistenza; il "computer indossabile" al polso dei lavoratori, perché l´imprenditore possa "guidarlo" da lontano; i microchip sotto la pelle leggibili con la tecnologia delle radiofrequenze. Qui la mutazione dell´umano è evidente, e la prima riflessione riguarda la trasformazione della persona in oggetto continuamente controllabile a distanza, come un Tir o la mucca d´un grande gregge. Di nuovo, davanti a noi sono mutamenti che toccano l´antropologia stessa delle persone. Siamo di fronte a slittamenti progressivi: dalla persona "scrutata" attraverso la videosorveglianza e le tecniche biometriche si può passare ad una persona "modificata" dall´inserimento di chip ed etichette "intelligenti", in un contesto che sempre più nettamente ci individua appunto come "networked persons", persone perennemente in rete, via via configurate in modo da emettere e ricevere impulsi che consentono di rintracciare e ricostruire movimenti, abitudini, contatti, modificando così senso e contenuti dell´autonomia delle persone.
Che cosa è divenuta l´umanità dei molti lavoratori ai quali è già stato imposto di portare al polso un piccolo computer, che consente all´imprenditore di dirigere via satellite il loro lavoro, indirizzarli verso i prodotti da prelevare, indicare i percorsi da seguire e le attività da svolgere, controllare ogni loro movimento, individuare in ogni momento dove si trovano, in sintesi di controllarli implacabilmente? Le conclusioni di una ricerca inglese sono state nette: così si trasformano i luoghi di lavoro in "battery farms", si creano le condizioni di una "prison surveillance". Siamo di fronte ad un Panopticon su scala ridotta, che tuttavia anticipa e annuncia la possibilità di diffondere su scala sempre maggiore queste forme di sorveglianza sociale. Ma che cosa diventa una società nella quale è normale che cresca il numero delle persone "tagged and tracked", etichettate e perennemente seguite?
Le risposte a questi interrogativi devono venire anche dal diritto, dunque da principi e regole. Il rispetto della dignità in primo luogo, che impone di non ridurre la persona ad oggetto, giungendo così a quella "degradazione dell´individuo" più volte richiamata dai giudici costituzionali italiani. Ma la dignità è anche misura della logica economica: dotare gli anziani di strumenti di controllo a distanza, per meglio salvaguardarne la salute, non può trasformarsi in abbandono sociale, considerando la tecnologia un mezzo meno costoso delle visite domiciliari. E il rispetto dell´autonomia della persona, dunque il diritto di decidere liberamente sul se e come utilizzare i nuovi strumenti. E l´eguaglianza nell´accesso alle opportunità grandi offerte dall´innovazione scientifica e tecnologica.
Il vero problema culturale e istituzionale è quello di valutare fino a che punto si è di fronte a vere discontinuità, che segnano un congedo da un altro mondo, e dove, invece, è possibile e necessario mantenere una continuità che consenta quel trascendere dell´umano di cui parlava Julian Huxley, impedendo così la nascita di un "doppio standard" nella considerazione dell´umano e del post-umano. Si manifesta la preoccupazione di chi segnala il rischio di una svalutazione dell´umano per effetto di una percezione del post-umano come portatore di un valore più forte, aprendo la via ad un conflitto, addirittura ad una "guerra", tra umani e post-umani. Un conflitto, evidentemente, che nasce sul terreno dei valori di riferimento e che può essere evitato solo se si ha la capacità di mantenere fermi, e di proiettare nel futuro, i principi prima ricordati di dignità, eguaglianza, autonomia.
Ma l´umano non è sfidato solo dalla tecnoscienza. Viene negato e violato nella vita d´ogni giorno. Dobbiamo sempre chiederci, seguendo Primo Levi, "se questo è un uomo" davanti all´immagine terribile di uomini che, lungo "il cammino della speranza" verso terre che pensano accoglienti, cercano di sopravvivere in mare attaccati ad una tonnara; davanti al bambino rom sbattuto sulla copertina di un settimanale e etichettato con le parole "Nato per rubare"; davanti alle foto dei torturati di Abu Ghraib; davanti alle manifestazioni di disprezzo razzista verso l´"altro"; davanti ai fondamentalismi che cancellano la stessa identità femminile. A questo inumano il diritto cerca di opporre i suoi strumenti, troppe volte ignorati. E spesso i giuristi sono "senza cuore". E i politici sono distratti o "realisti". E´ compito di ciascuno di noi salvaguardare l´umano dal quale non possiamo separarci.
(L´articolo è una sintesi della lezione tenuta da al Festival del diritto di Piacenza, intitolata "Umano, poco umano")

Repubblica 1.10.08
Il decreto Tremonti mette in ginocchio il quotidiano. Martedì evento per la raccolta fondi. E i lettori organizzano cene e pic-nic
Un giorno al "manifesto" sull´orlo del baratro "Non lasciateci soli". E Celentano li sostiene
di Alessandra Longo

Parlato: ci servono 4 milioni per salvarci dalla morte, questa è la crisi più difficile

ROMA - Potrebbero chiudere, potrebbero fallire, «anche domani», se solo i numerosi creditori decidessero che ne hanno abbastanza, che rivogliono i loro soldi, subito. Al «manifesto» lo sanno di essere ad un passo dal burrone. Il giornale esce con un simbolico lucchetto che imprigiona una lettera della testata. Non è come le altre volte, non è la solita ciclica difficoltà, è una faccenda molto più seria. Il decreto Tremonti, cancellando il diritto soggettivo ai contributi diretti per i giornali cooperativi, non profit e di partito, taglia le gambe ad ogni sogno, ad ogni progettualità e pone una questione di fondo, di democrazia, che va oltre le logiche individuali d´azienda.
Mancano quattro milioni di euro. Se lo Stato non li dà, bisogna comunque trovarli. La sottoscrizione è partita ed è una corsa contro il tempo: «Quattro milioni per salvarci dalla morte, organizzarci la vita, arrivare al punto di pareggio, a quelle trentamila copie che servono a stare sul mercato», dice Valentino Parlato. Lui, che ha vissuto tutti gli alti e bassi del quotidiano, assicura: «Questa è la crisi più difficile, la peggiore di tutte». La nuova redazione di via Bargoni, anonima e funzionale, affaccia sugli striscioni anti-Gelmini appesi alle cancellate di una scuola elementare, il clima è più di battaglia che di rassegnazione. Qui lavora gente, 60 giornalisti e trenta tecnici, che non prende lo stipendio da tre mesi ma non molla. Gabriele Polo, il direttore, ha in mano il cd con lo spot salva-vita che da oggi apre il sito online del manifesto e apparirà su diversi quotidiani. Una richiesta di aiuto: «Fateci uscire, non lasciateci soli, sottoscrivete».
Non lasciateci soli. Non c´è spocchia in questo collettivo di lavoro, accusato, in passato, di un certo approccio settario con il resto del mondo. C´è, piuttosto, una sfida da dividere con altri colleghi di altre testate piccole e povere, con tutti i lettori «che hanno a cuore il pluralismo» e temono il pensiero unico. Per martedì prossimo, al Circolo degli artisti di Roma, «il manifesto» ha organizzato un evento, «parole e musica», in difesa della «cara libertà». Aprirà un video di Maurizio Crozza, chiuderà una cena. Raccolta fondi, battaglia politica, anche in leggerezza. Come leggeri e ironici sono gli epigrammi di Tommaso Di Francesco che, in un libro, prende affettuosamente di mira i colleghi. Mariuccia Ciotta, direttore con Polo, è «il gatto Silvestri» con un debole per Clint Eastwood («Ecco che il cuore le fa confusione»), Rossana Rossanda è «la non Comune di Parigi», Ida Dominjanni «Il capo cosparso di genere». Sabato 4, lettura ad alta voce, per il pubblico. «Da soli non bastiamo», dice Polo.
Soli, per la verità, non sono. L´establishment politico si è mosso, scrivono lettori comuni e non. Ieri, a sorpresa, l´incoraggiamento di Adriano Celentano: «Vi leggo, non vorrei che, improvvisamente, non ci foste più». Chi telefona, chi manda mail, chi manda soldi. Al "call center" del manifesto, Michela Gesualdo cerca di mettere ordine nell´abbraccio dei lettori: «Stanno organizzando pic-nic, cene, precari e studenti donano quel che possono, anche dieci euro». Con la crisi economica, però, la meta è lontana. Sono a quota sessantamila euro.
E comunque non bastano i soldi, ci vuole, contemporaneamente, la battaglia politica. Dice Parlato: «Le leggi si possono anche cambiare». «No, la nostra vita non può essere appesa alla discrezionalità del governo», aggiunge Ciotta. Il nodo vero è proprio questo, la libertà d´informazione, la democrazia. Integra Polo: «Si restringono gli spazi di libertà, si trasforma un diritto in una concessione, il cittadino in suddito. La nostra vicenda è paradigmatica. Questo governo può decidere se farci vivere o morire a seconda delle disponibilità di bilancio. Eccolo il vulnus: la mercificazione dell´informazione». E invece vogliono vivere, i colleghi del «manifesto», e anche gli altri di Liberazione, dell´Unità. Vuol vivere «il manifesto», solo a giugno passato con successo al colore, e diventato quasi disciplinato, nell´organizzazione, in ossequio alla ricetta risanatrice di Sergio Cusani. Vuole vivere il giornale di Pintor per parlare, dice Polo, «a tutti quelli che pensano che un´opinione comune sulla vita pubblica vada ricostruita, a tutti quelli che si oppongono alla gestione feudale di Berlusconi, a tutti quelli che cercano di dare una nuova identità alla parola sinistra».

Repubblica 1.10.08
Eleonora Duse
Enrichetta dedicò metà della vita a cancellare ogni traccia della genitrice assente
Ritrovata la biblioteca "segreta" della divina occultata per anni insieme agli amori proibiti Un convegno a 150 anni dalla nascita
Il lato nascosto dell´attrice erano le molte amicizie femminili: legami in genere di carta
di Simonetta Fiori

Una biblioteca segreta, scoperta quasi per caso. Libri manipolati, graffiati negli ex libris e censurati nelle dediche, pagine strappate ed espropriate della illustre appartenenza. Come un sipario invisibile gettato su una delle attrici più celebri del Novecento. Chi ebbe interesse a oscurare Eleonora Duse, le sue letture erratiche, i suoi amori libertini? Quella che sarà rivelata oggi al convegno veneziano della Fondazione Cini e dell´Università Ca´ Foscari appare una storia punteggiata da risentimenti e vendette. Madri e figlie dolorosamente a confronto tra censure e riscatto, gabbia ed emancipazione. Un copione perfetto per la stessa divina attrice, che però non lo interpretò sulla scene ma nella vita, e perfino nella memoria postuma.
Il ruolo materno spetta a lei, l´attrice essenziale e spoglia celebrata da Rilke e Cecov, da Joyce e Chaplin, la ribelle "priva di forma pretestuosa" che sfidò le convenzioni dell´epoca nella recitazione e nella cultura teatrale, nelle curiosità intellettuali e negli amori inquieti. La figlia è rappresentata dalla severa e cattolicissima Enrichetta Checchi, che dedicò metà dell´esistenza a inseguire una genitrice assente, l´altra metà a cancellarne ogni traccia. Un delitto quasi perfetto, quello filiale, perseguito con una determinazione che sorprese il musicista Malipiero, ma anche il crimine meglio riuscito può essere rivelato da un dettaglio. E a fornire quell´indizio è la terza donna del racconto, Eleonora Bullough, la secondogenita di Enrichetta, bella e statuaria, costretta a diciassette anni a prendere i voti perché "indisciplinata". La vendicatrice della Duse indossa il saio domenicano e si chiama sister Mary Mark. Per quasi quarant´anni, tra le mura del suo convento a Stone, ha allestito lavori teatrali. Quasi nessuno sapeva che l´abito di seta azzurra indossato dalla Vergine nelle sacre rappresentazioni apparteneva alla scandalosa nonna.
È lei, la nipotina ingessata nei panni di suora, a indicare le tracce della recentissima scoperta, la biblioteca segreta appartenuta alla Duse e occultata da Enrichetta, che sarà illustrata oggi a Venezia nel centocinquantesimo anniversario della nascita dell´attrice (1858-1924). Un patrimonio di quasi duemila libri, ritrovati a Cambridge da una studiosa di Palermo, Anna Sica, proprio grazie alle memorie di sister Mary, morta qualche anno fa. Fu Mary Mark nel 1962 a donare al New Hall College (oggi Murray Edward´s College) il patrimonio librario della madre Enrichetta e del padre italianista Edward Bullough, nel quale era nascosto anche il fondo della Duse. All´antica bibliotecaria Sarah Newman si deve il riconoscimento di alcune centinaia di volumi dusiani, ai quali ora s´aggiunge oltre un migliaio e mezzo di libri, per larga parte provenienti dalla Libreria delle attrici fondata dalla Duse a Roma nel 1914, ma anche dal fondo di Eleonora usato dal genero Bullough per la compilazione dell´antologia Cambridge Readings. Libri censurati dalla implacabile figlia, che ne cancellò l´appartenenza stracciando le pagine annotate ai margini, allungando un nastro bianco su dediche inopportune, graffiando gli ex libris materni.
Chi o cosa voleva nascondere Enrichetta? Le liaisons dangereuses intessute dalla madre con poeti e poetesse? La passione smisurata per Boito e D´Annunzio? L´indole irrequieta e neopagana che spingeva l´attrice a pericolose peregrinazioni nelle pagine di autori messi all´indice? «La Duse era diventata un personaggio scomodo», suggerisce Sica, autrice del ritrovamento. «Dopo la morte dell´attrice, Edward ed Enrichetta erano cresciuti nella considerazione pubblica di Cambridge come personaggi di spicco della cultura cattolica. Né la spregiudicatezza sentimentale della Duse né la sua libertà intellettuale potevano riuscire gradite al perbenismo della famiglia Bullough».
Nella biblioteca "nascosta" si ricompone l´intellighenzia iconoclasta di primo Novecento, «da Marinetti a Soffici e Papini, con grandi aperture alla poesia francese da Verlaine a Rimbaud e Baudelaire, ai modernissimi versi di Whitman, alle pagine di Kipling. E poi naturalmente il suo Dante, Shakespeare, i classici greci e latini, le letture mistiche, che confluiranno in una recitazione assetata di poesia», dice Mimma De Leo, storica delle donne ora al lavoro sulla nuova biografia della Duse. Lettrice rapace e prensile, capace di trasmigrare dalle gelidi latitudini di Ibsen e Selma Lagerlöf alle suggestioni del Gouthama Buddha, dal Leopardi delle Operette morali all´incendiario Palazzeschi. «Lettrice erratica e disordinata come poteva esserlo un´autodidatta», aggiunge la studiosa. «Tutto quanto leggeva confluiva nel suo lavoro. Questo spiega anche la qualità unica della sua recitazione. "Libri per la gioia di un´altra vita", li definiva, rimandando alla sua vita in teatro». Libri compagni fedeli, ma anche strumenti di seduzione, verso uomini e donne. Indistintamente.
Il lato più segreto della Duse, occultato da Enrichetta insieme alla biblioteca, include il vasto mondo delle amicizie femminili, cui rimandano le dediche affettuose su frontespizi più o meno illustri. «Amicizie innumerevoli e sfaccettate, amori forse saffici, amori quasi sempre di carta», dice De Leo. Amicizia molto pratica e miliardaria con l´americana Helen Mackay o la londinese Katherine Onslow. Amicizia intellettuale con Ada Negri, Sibilla Aleramo e Matilde Serao, che di lei disse: «Se fossi uomo come vorrei amarla, assai, senza fine!». Ed anche amicizie amorose come quella con Lina Poletti, drammaturga di non eccelsa fama, un tempo amante dell´Aleramo. Con le donne ricreava la stessa relazione tenera e affettuosa che aveva condiviso con i suoi personaggi fittizi. «Mentre tutti diffidano delle donne», disse una volta al marchese d´Arcais, «io me la intendo benissimo con loro! Io non guardo se hanno mentito, se hanno tradito, se hanno peccato - se nacquero perverse - purché io senta che hanno sofferto o per mentire o per tradire o per amare...».
Nello stesso modo in cui scavava dentro Giulietta e Nora, la Duse entrava in intimità con le amiche, "solitamente dotate di talento", nota la biografa inglese Sheehy. Relazioni che non escludevano modalità competitive e triangolari, come l´intesa con la giovane pianista Giulietta Meldesshon, devota dama di compagnia, che prima Eleonora difende dalle brame del suo amante D´Annunzio, per poi tradirla concedendosi all´illustre marito banchiere Meldelsshon, in un ingorgo sentimentale difficile da padroneggiare. Un altro triangolo si compone nei biglietti assai allusivi spediti al regista d´avanguardia e impresario Aurélien Lugné-Poe e a sua moglie Suzanne Despres, amore epistolare ora ricostruito dalla biografa italiana. «Aveva una capacità istintuale di sedurre, con un modo particolare di concedersi senza concedere», dice De Leo. «Il suo segreto era il "sorriso asconditore", come scrisse D´Annunzio, il suo rimandare a un altrove inaccessibile».
Alla donna che sedusse tutte le donne toccò in sorte di non riuscire a sedurre la propria figlia. Ma la sua malia raggiunse la nipote, sister Mary Mark, nell´ultimo capolavoro. La scandalosa Duse salvata da una suora.

martedì 30 settembre 2008

l’Unità 30.9.08
Corteo degli stranieri, scontri a Pianura
Aggredito un africano
Residenti contro immigrati, colpito anche un giornalista
di Anna Tarquini


È COMINCIATA cinque giorni fa, quando una tubatura dell’acqua si è rotta. Un avvallamento del manto stradale, e quelle famiglie di immigrati che occupavano la casa di fronte, la scuola abbandonata, sono diventati nemici. Poveri contro poveri. Disagio bianco contro emarginazione nera. In un quartiere che è anche terra di camorra. Pianura, grande polmone periferico di Napoli. Ieri è finita un’altra volta a mazzate, con un giornalista ferito (cronista del quotidiano Il Napoli) e un extracomunitario sfuggito quasi al linciaggio perché un carabiniere gli ha fatto da scudo. Era stato organizzato un corteo antirazzista, ma quell’extracomunitario non stava andando in piazza. Aveva appuntamento per una seduta di dialisi. Un corteo di neri per chiedere una stazione di polizia fissa a loro difesa «ormai abbiamo paura». Per avere almeno una camionetta dei carabinieri davanti a quell’edificio occupato guardato a vista ormai dai residenti bianchi. E all'improvviso, davanti al corteo, si è parato un plotone di cittadini. Le donne, alla guida della rivolta, hanno sbarrato la strada con tre cassonetti e poi hanno iniziato a gridare: «Andatevene, andate via di qui. Siete troppi. Troppi immigrati, il quartiere è invivibile». In quella casa vivono in 200, da 15 anni. «Stiamo cercando nuovo alloggi - ha promesso Iervolino - questa intolleranza non è civile». Non è la guerra con i boss a Castelvolturno e non è nemmeno la rivolta di quartiere contro «gli spacciatori» come al Pigneto a Roma. Ma a Pianura, da cinque giorni, la tolleranza è finita. «Un clima pericoloso» come ha detto ieri Teresa Armato, senatrice del Pd. E anche se gli abitanti si sgolano per cercare di dimostrare «che non è razzismo», è stato un escalation di aggressioni, sassate, botte al nero. Con la complicità - denunciano gli extracomunitari - di alcuni di An che, durante la partita Napoli-Palermo, hanno tagliato acqua e luce nella palazzina occupata in via dell’Avvenire danneggiando la condotta. Sarebbe iniziato tutto mercoledì scorso. Così. Poi le proteste e le prime aggressioni. Le minacce ai cronisti. Il 26 settembre Yakuba, un ragazzo del Burkina Faso, viene preso a sassate. Deve arrivare la polizia perché i tecnici dell’acqua possano lavorare. E la tensione sale ancora quando gli extracomunitari rifiutano lo sgombero dopo che i vigili urbani decretano lo stato di pericolosità dell’edificio. Sui muri appaiono le prime scritte: «Negri morti». Gli immigrati scrivono al Prefetto per avere un presidio di polizia fisso. E annunciano il corteo che sfila ieri nelle strade di Pianura. A manifestazione finita, quando gli immigrati hanno cercato di rientrare a casa, un cordone umano di residenti lo ha impedito. Le forze dell'ordine sono riuscite ad aprire un varco e a far rientrare gli extracomunirtari in casa ma uno di loro è rimasto indietro. Lo hanno subito accerchiato. Gettato a terra. Solo l’intervento di un carabiniere ha evitato il peggio.

l’Unità 30.9.08
Rom, una storia di ordinaria violenza
di Dijana Pavlovic


A Bussolengo, nel Veronese, il 5 settembre si verifica uno dei tanti episodi breve oggetto delle cronache, ma che non producono né attenzione, né la riflessione che tuttavia meritano.
Tre famiglie Rom italiane fermano le auto e le roulotte in un parcheggio comunale. Sono Angelo e Sonia Campos con i cinque figli minori, il figlio maggiorenne della coppia con la moglie e due minori e il cognato con moglie e tre minori.
Mentre preparano il pranzo arriva una pattuglia di Vigili e intima di sgomberare. Le famiglie spiegano che sarebbero subito ripartite dopo mangiato.
Dopo poco arriva una pattuglia di Carabinieri. Intimato lo sgombero iniziano a picchiare le persone, minorenni compresi. Tutti sono portati in caserma e per sei ore e mezzo rimangono in balia di una violenza inaudita. In particolare un figlio di Angelo e Sonia Campos viene picchiato selvaggiamente, tanto da fargli perdere tre denti. Alle 19.30 finisce l’incubo e sono rilasciati tutti, all’infuori di Angelo e Sonia Campos e Denis Rossetto che vengono accusati di resistenza a pubblico ufficiale.
Credo che nessun giudice emetterà una sentenza su questo, come su altri episodi che possono essere rubricati come “eccesso di zelo” delle forze dell’ordine se non fosse che invece sono gli anelli di una catena di violenza sui Rom. Che è il frutto di un senso comune costruito soprattutto in questi ultimi anni per cui agli “zingari”, invisi a tutti e addirittura assurti a “emergenza nazionale” con il ministro Maroni, si può fare di tutto fino a tirare le molotov per bruciarli (esperienza già fatta in modo più sistematico nei campi di concentramento tedeschi e italiani).
E nonostante il governo continui a dichiarare che tutto è una montatura de media, che non c’è nemmeno l’ombra di razzismo, i fatti parlano più che chiaramente e l’Europa guarda e giudica condannando le azioni discriminatorie. Poi quando arriva la delegazione dei parlamentari europei a Roma, il ministro Maroni diventa improvvisamente amico dei Rom: niente aggravante di clandestinità per i cittadini comunitari, nessuno sgombero dei “campi nomadi” senza una soluzione alternativa e niente schedatura su base etnica o religiosa come è successo qualche tempo fa nei “campi nomadi” napoletani.
Questi gli impegni presi dal ministro durante la visita dei deputati della Commissione Libertà civili, Giustizia e Affari interni del Parlamento europeo. Promette persino che nel decreto definitivo non ci sarà nessuna violazione delle norme comunitarie. Ma il Giornale di qualche giorno fa glorifica le misure del ministro dell’Interno e afferma che almeno 10.000 Rom e Sinti sono svaniti in pochi giorni dopo i controlli nei campi delle grandi città e che ora la situazione all’interno dei campi rom è controllata. Ovviamente 10.000 Rom e Sinti non sono svaniti: come sempre, si sono solo spostati, ma questa propaganda dà il senso della follia che si è scatenata non solo nei confronti dei Rom ma che si estende a tutti coloro che vengono vissuti come “diversi”. Quanto vale la vita di un ragazzo diciannovenne che ruba i biscotti se è “negro”? Quanto vale la vita di quattro bambini bruciati se sono “zingari”? Quanto vale il dente rotto di un bambino se è “zingaro”? Le mamme italiane si interrogano su questo mentre comprano una merendina ai propri figli e quando conservano con tanto amore il primo dentino perso della loro creaturina?
dijana.pavlovic@fastwebnet.it

l’Unità 30.9.08
Se l’outing fascista diventa di moda
di Daniela Amenta


«Non ho vergogna a manifestare la mia fede politica. Del fascismo condivido ideali come la Patria». Parole di Christian Abbiati, portiere del Milan, poster preferito tra i ragazzini che tifano rossonero. L’outing arriva non propriamente imprevisto, dopo croci celtiche e svastiche da stadio. E dopo il saluto romano di Paolo Di Canio nel derby del 2005. Ieri, però, il quotidiano francese Le Monde ha inserito anche il romanista Alberto Aquilani tra i calciatori simpatizzanti «dell’estrema destra». Tre anni fa per Di Canio intervenne la Figc e così l’attuale commentatore Mediaset fu squalificato per un turno. Niente di più. Dalle curve fino nel cuore delle nostre città intrise di iconografia fascista. Scritte sui muri, tatuaggi, t-shirt. L’ultima “moda” è una placenta scura in cui galleggia la violenza, cresce la sostanza dell’intolleranza. Un’unica domanda: ma l’apologia di fascismo non era reato?

l’Unità 30.9.08
Aquile e duce, le bancarelle dei nostalgici
di Gioia Salvatori


Gladio, aquila, busti del duce e fasci littori. Sulle bancarelle di souvenir del centro, nei mercatini storici e nei nuovi quartieri della capitale. Il gadget stile Ventennio a Roma spopola impunito.In piena movida notturna testaccina chi scrive, qualche mese fa, ha visto una mini-bancarella tutta dedicata al duce: busti, portachiavi a fascio littorio e teste con elmetto, impuniti erano in vendita a latere della strada dello struscio. Un caso sporadico. Ogni giorno, invece, nello storico mercatino di via Sannio, all’ombra della basilica di San Giovanni in Laterano, due o tre banchi vendono magliette con la faccia di Mussolini, insieme a T-shirt dei Led Zeppelin e dei Nirvana. Accanto sono pantaloni verde militare con tanto di cartuccere, giubbotti mimetici, cinghie nere e anfibi. Ce n’è per tutti quelli che vogliono spendere meno di 20 euro per look da curva e da strada «E magari quando si avvicina il primo maggio - racconta un ambulante - sugli stessi banchi spuntano pure le magliette del Che».
Sistematica la vendita del gadget nostalgico anche nel mercatino del weekend di via Conca d’Oro: Roma Nord, zona di palazzoni per lavoratori dipendenti a un passo dagli appartamenti bene del quartiere Trieste, il cui cuore nero, invece, è piazza Vescovio. Ogni sabato e ogni domenica mattina, a Conca d’Oro, tra l’usato e il nuovo di un mercatino che è una specie di Porta Portese in piccolo, spunta il banco dei nostalgici: elmetti stile III Reich, monete del ventennio, abbigliamento militare e quadri in bronzo del duce. Li comprano ragazzini che, in zona, racconta un militante della Fgci, se ne vanno a spasso con la foto di Mussolini nel portafoglio, magari senza sapere bene perché.
Poco lontano c’è la palestra popolare Primo Carnera, legata all’area movimentista, poi uscita dal partito, di Fiamma Tricolore. E sui muri, in una zona dove durante l’ultima campagna elettorale per le amministrative romane, non sono mancate aggressioni a gazebo del pd e minacce a militanti, la scritta politica imperversa: “Talenti nera” e “Vigne Nuove sostiene Fiamma Tricolore” e “rossi occhio”, tanto per dirne alcune.
Sulla stessa direttrice Nord, a ponte Milvio e, nella più centrale piazza Vescovio, non è meglio. Due anni fa fu proprio al liceo scientifico Farnesina di ponte Milvio, che Ft mise il cappello sull’occupazione scolastica. Fu la prima protesta studentesca tinta di nero della capitale, mentre Blocco studentesco, il braccio scolastico di Ft, schizzava in 12 mesi al 10 % di seggi nella consulta studentesca (organo di rappresentanza degli studenti medi) di Roma e provincia. E in zona, sui cartelli stradali e sui muri, simboli di Forza Nuova e Fiamme, non mancano mai. I busti del duce, invece, si trovano in centro tra souvenir e cartoline: a un passo dal Colosseo, magari sulle bancarelle degli urtisti di via dei Fori imperiali, o a un passo dalla stazione Termini, tra gadget kitsh e portachiavi a forma di Colosseo.

l’Unità 30.9.08
Tatuaggi. Cresce il segno globalizzato
Vis et honor soppianta la svastica
di g.s.


«Una volta si che con la politica ci si andava giù pesante, anche per i tatuaggi, poi è arrivata Miami Ink e tutti hanno iniziato a tatuarsi lo stesso cuore». C’erano una volta le scritte Fuan, le aquile del Reich e le scritte SS impresse su avambracci e deltoidi. C’erano fino a 10 anni fa. Poi anche il mercato del tatuaggio si è globalizzato e, scemata la passione politica, anche svastiche e teste del duce sono in parte uscite dagli studi dei tatuatori. Dove nel frattempo sono entrate le telecamere e oggi i clienti, raccontano i tatuatori romani, si ispirano più al reality a tema tatoo, Miami Ink, di Sky che all’ideologia.
Che spesso, però, arriva comunque sugli aghi che disegnano la pelle, magari annacquata, inconsapevole e condita dalla moda della zona del momento. Un tatuatore del Pigneto, quartiere popolare di Roma Sud, Massimiliano, racconta di mode di gruppo fascistoidi, magari legate al tifo. Protagonisti sempre uomini tra i 20 e i 30 anni: «Scelgono caratteri augustei per farsi tatuare slogan tipo Vis et honor e Onore e gloria. Poi c’è la volta che va di moda una frase sull’amicizia piuttosto che sugli affetti famigliari. Si tratta ragazzi che scontano un vuoto di valori nel circuito famigliare o degli amici: si innamorano di uno slogan che li fa sentire machi e se la tatuano. Poi magari gli chiedi cosa sia il fascismo e nemmeno lo sanno».
Quasi scomparsi i tatuaggi “di sinistra” restiste solo la faccia del Che ma se ne fa una ogni dieci fasci littori (il tatuaggio fascista più frequente, insieme a gladio più alloro attualmente).
Per il resto? Sono tutti ritratti e tatuaggi stile Old School: pin up, cuori trafitti, nomi e cuori intrecciati, pugnali e rose stile dopo guerra americano. «Poi si lascia libertà al tatuatore di spaziare e consigliare - dice Massimiliano». E nell’era del tatuaggio ornamento più che messaggio o simbolo, sbaraglia lo stile Miami Ink, che scalza la politica a parte i simboli che resistono in curva.
I clienti vogliono i «Tatuaggi che si vedono nel reality di Sky» che ha per protagonisti “tatuandi” e tatuatori della South Beach.
«Poi magari arriva quello che si vuole fare la croce celtica però perché va un mese in vacanza in Irlanda - racconta un tatuatore - mica perché è fascista».

l’Unità 30.9.08
Internet. Il fiorente mercato di gadget e cimeli in rete
Vuoi i boxer con Benito? E vai su Ebay
di Alessia Grossi


In tempi di maestro unico è possibile acquistare su Ebay.it per soli 2,6 euro un utilissimo «quaderno fascista della quinta elementare».
Fascismo. Inserendo solo questa parola chiave su Ebay.it, il sito di commercio online più famoso al mondo, il motore di ricerca ti rilascia quasi tremila risultati. In italiano. Tremila oggetti all’asta per un insospettabile guardaroba nonché una nutrita libreria del ventennio. Così per pochi euro - fatta eccezione per quei gadget che vengono definiti «da urlo» - se sei un nostalgico puoi tornare a vestire, leggere e collezionare i vecchi fasti del tempo del duce con un solo click. Con una base d’asta che non supera quasi mai i 5 euro, infatti, hai a disposizione un corredo che va dalla «cuffietta italica» contro il vento della rivoluzione, ai boxer con faccione di Benito Mussolini proprio lì. Seguono t-shirt da ex giovane fascista, felpa con patacche di ogni genere, eleganti pantaloni alla zuava, arrogante cappotto con fascio littorio.
E non c’è bisogno che vi affrettiate. Per ora ci sono 0 offerte. Ma i venditori di cimeli che guardano al ventennio non si danno per vinti e anzi sono numerosi. Ciò può sconcertare, ma la barriera ideologica sulla rete è caduta ancor prima che nel senso comune, tanto per dire che sulla rete il mondo cammina più veloce, anche se non sempre va nella direzione giusta. Gli «oggetti caldi», come vuole il gergo dei compra - venditori di Ebay, infatti, sono quelli dedicati ai veri nostalgici. Quelli che Mussolini lo vogliono ovunque e che del fascismo vogliono ricordare ogni singolo precetto. Per loro Ebay vende una targa "come nuova": «Vietata la bestemmia e il turpiloquio». In vendita per soli 9,9 euro, invece, le «cartoline della propaganda fascista», anche queste utilissime, per gli auguri di Natale. E da abbinare alle medaglie, mostrine, spille a forma di lupa, distintivo originale della milizia, ecco le «divise originali» e il «fascio littorio». Per gli appassionati d’arte invece, irrununciabile la «statuetta del negretto» da mettere in salotto, chissà come mai unica nel suo genere ancora senza offerenti.
Il commercio «fascista» più fiorente su Ebay resta comunque quello librario. Insomma prima la cultura, le parole del duce, un «saluto raro del bambino balilla», un «autografo» con la M maiuscola e poi sotto il «mezzo busto» arriva l’investitura con tanto di «cinturone».
Il tutto al modico prezzo di circa 100 euro, base d’asta. Se vi sembra poco fate un’offerta per il pezzo più caldo, il pugnale testa d’Aquila della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale modello 1937. L’asta parte sì da 1500 euro ma, pensate, «la lama non è mai stata pulita».

l’Unità 30.9.08
Guido Papalia. Il procuratore: si segue la legge Mancino per manifestazioni di razzismo
«L’apologia non si applica mai»
di Massimo Solani


Procuratore Papalia, in Italia l’applicazione del reato di apologia del fascismo è rimasta praticamente monca. Cosa prevede la legge?
«Il reato, previsto dalla legge Scelba del 1952, in Italia è stato in realtà applicato ben poco. Questo anche perché la Cassazione ha richiesto che venisse accertato anche il pericolo di suscitare incitamento verso coloro che seguono queste manifestazioni o ascoltano questa propaganda. Serve insomma un riconosciuto pericolo per le istituzioni causato da simili comportamenti».
Una discriminante che ne ha reso particolarmente difficoltoso il riconoscimento?
«In qualche caso il pericolo verso le istituzioni è stato ravvisato, ma molto di rado. È successo per una persona armata di manganello che durante un comizio elettorale si era esibita in un saluto romano. E ancora per un gruppo di imputati che dopo la condanna si alzarono in piedi e gridarono “Sieg heil”. In quei casi si ritenne che simili comportamenti potessero suscitare in chi li ascoltava un desiderio di emulazione pericoloso per le istituzioni democratiche. Senza questo rischio si ritiene che l’apologia del fascismo non esista. Ma onestamente non so se questo orientamento sia corretto».
Ma la legge Scelba è l’unico argine verso simili comportamenti?
«Esiste una norma introdotta dalla Legge Mancino che punisce chiunque in pubbliche riunioni compia manifestazioni esteriori o ostenti simboli propri di organizzazioni fasciste o razziste. In questi casi non serve il rischio per le istituzioni, e infatti la Cassazione nel 2007 ha condannato alcuni tifosi che allo stadio Olimpico avevano esposto una bandiera con un fascio littorio».
È sufficiente? Ritiene che la legislazione italiana sia adeguata?
«La normativa è severa e colpisce duramente i fenomeni di razzismo, prevedendo una aggravante apposita. In particolare la legge Mancino, se interpretata in maniera fedele, condanna tutte quelle manifestazioni che tendono a propagandare, stimolare e diffondere idee di discriminazione razziale. Una norma che consente anche una applicazione piuttosto ampia, nonostante nel 2006 alcune modifiche ne abbiano ridotto l’efficacia diminuendo anche la sanzione penale prevista».
L’abolizione della legge Mancino o il suo depotenziamento è un cavallo di battaglia della destra e della Lega.
«Perché si confonde la libera manifestazione del pensiero con comportamenti che rappresentano aggressioni alla libertà e alla dignità altrui».

l’Unità 30.9.08
Il razzista austriaco Strache: ora gli islamici stiano a casa loro
di Cinzia Zambrano


Fa la cosa che gli riesce meglio: sorridere. È mezzanotte e mezza di domenica sera. Rompendo le maglie di una rete umana che a circolo lo protegge come fosse il Papa, «l’uomo del 18%», il vincitore delle elezioni austriache, dispensa strette di mano e pacche sulle spalle ai giovani che si accalcano nel tendone della Fpoe. Sono in tanti, tutti in attesa di un segnale che dica, sì ora è il tuo turno, puoi entrare nel piccolo cerchio, conquistarti l’anelato autografo, una foto e avanti un altro. Strache è li, nel mezzo. Strizza gli occhi, elargisce consigli sfoderando il dizionario populista e retorico che lo contraddistingue. Dona biglietti da visita, promettendo ai «prescelti» soluzioni che richiamano alla mente il «ghe pensi mi» nostrano. Dietro di noi una voce grida: «Bravo Heinz, fammi un autografo... sono un artista». «Allora hai vita dura in questo Paese, che invece di investire su di voi, pensa agli immigrati. Ma tieni duro ragazzo, le cose cambieranno», assicura Strache. L’ennesimo spot è servito: «l’uomo del 18%» funziona proprio per questo: poche idee, molti slogan. Nessuna visione politica, dietro la retorica il nulla. Parla alla pancia di ragazzi disillusi e arrabbiati, e passa per uno di loro. Uno che li capisce, uno che parla la loro lingua, uno lontano dai privilegi politici. «Chi l’avrebbe detto che un giorno saremmo arrivati quasi a rimpiangere Haider», dice un giornalista tedesco al nostro fianco. In effetti, non si può dargli torto. E quanto segue lo dimostra.
Herr Strache, una giornata lunga la sua. Quanti autografi ha firmato?
«Forse più di 700. Ma non sono stanco, è il minino per ringraziare chi mi ha votato».
Sono in tanti, il 18%.
«È una grande dimostrazione di fiducia degli austriaci. Vede, nel 2005, quando ne ho preso le redini, la Fpoe era un partito finito, indebitato fino al collo e con un calo di consensi vertiginoso. In tre anni l’ho trasformato fino a portarlo alla gloria di oggi. È un risultato eccezionale, la Spoe e l’Oevp sono stati sonoramente puniti. È ora che si rendano conto che il tempo dell’emarginazione della Fpoe è finito. Da questo momento devono fare i conti con noi».
Cosa farà? Non si limiterà a firmare autografi?
«Lavorerò per realizzare le cose promesse in campagna elettorale. Ho parlato di temi che stanno a cuore agli austriaci: Unione europea, immigrati, sicurezza».
Sparando a zero sui primi due...
«In generale non siamo contro l’Europa, ma contro un’Europa centralizzata sì. Non vogliamo una Ue che sceglie al posto nostro, l’Austria non è una provincia di Bruxelles, vogliamo avere voce in capitolo in questioni importanti come l’allargamento dell’Unione, l’immigrazione».
Sugli immigrati è andato giù pesante: «Salviamo le donne dall’Islam», «Impediamo il declino dell’Occidente... ».
«Su quelli che lavorano, pagano le tasse e non delinquono no. Noi siamo contro quelli che vivono sulle nostre spalle, che non si integrano, non ne vogliono sapere di imparare il tedesco. A queste persone, fatte entrare e tollerate dal precedente governo, noi mostreremo la porta per uscire dall’Austria».
A chi la accusa di xenofobia e razzismo, che risponde?
«Che ho il massimo rispetto dell’Islam e credo nella libertà religiosa. Ma l’islamismo non deve essere il paravento dietro cui si nasconde una politica totalitaria... ».
Ma se rispetta l’Islam perché è contro le moschee?
«Perché sono contro l’islamizzazione dell’Europa».
Scusi, vuole dire: gli islamici facciano gli islamici a casa loro?
«L’Europa deve essere fondata sui valori cristiani, la nostra identità non deve essere usurpata da nessuno».
Che dice della vittoria di Haider? Un tempo eravate amici...
«Mi fa piacere per lui, ma il vero vincitore sono io. Io sono l’Originale della vera destra, non lui. Lui si è limitato ad essere la stampella di coloro che erano delusi dai popolari. E comunque, non l’hanno ascoltato in molti, ha avuto risultati migliori».
Ha triplicato..
«Ma non ha vinto».
Nessuna alleanza in vista, dunque?
«No. L’ho detto in campagna elettorale e lo ripeto ora: l’unica alleanza che si può avere con Haider è se lui torna nella Fpoe».
Ha rivendicato la cancelleria, si vede già cancelliere?
«Perché no. Nel 1999 la poltrona andò a finire al terzo partito. Oggi siamo noi il terzo partito, dunque perché escluderlo? Vede, in Parlamento non ci sono più due grandi partiti, ma tre. Invito la Spoe di Faymann a pensarci su, noi siamo disposti a qualsiasi discussione».
Un adolescente si avvicina: «Heinz, voglio presentarti la mia fidanzata, vuole fare l’odontotecnico come te». «Allora ha un grande futuro». Il tempo nel circolo è finito. Finto baciamano, un autografo e via. C’è la fila che aspetta, avanti un altro.

l’Unità 30.9.08
I giovani hanno fatto vincere «gli uomini neri» della destra
Ma socialdemocratici, primo partito, e popolari vanno verso una riedizione della Grande Coalizione
di Cinzia Zambrano


BONJOUR TRISTESSE. L’Austria si sveglia tramortita dal terremoto politico del giorno prima. «Svolta radicale a destra» (Kurier), «Debacle per la grande coalizione, trionfo per la destra» (Standard): i titoli dei principali quotidiani sono un remake di 9 anni fa, quando il Paese vide prima il trionfo elettorale della Fpoe, allora guidata da Haider, e poi il suo ingresso nel governo.
Stando alle prime analisi del voto, le estreme destre, come era ampiamente annunciato, hanno sfondato tra gli elettori a più basso reddito e tra i più giovani (alle urne erano chiamati per la prima volta anche i sedicenni). Insieme, le due forze degli «uomini neri» hanno raccolto il voto di circa il 43% degli under 30. Non solo. Gli elettori delusi dai socialdemocratici si sono riversati nella Fpoe di Strache, quelli delusi della Oevp nella Bzoe di Joerg Haider (più moderata). A votare per l'uomo del «miracolo blu», lo zoccolo più reazionario e estremista di elettori, ma anche gli operai e persino gli immigrati nonostante le sue posizioni antistranieri. I circa 300.000 elettori di origine serba, per esempio, hanno scelto Strache perché nei mesi scorsi si era detto contro l'indipendenza del Kosovo. L'aria giovanile, belloccia e dinamica dell'uomo che si fa chiamare anche «Stra-Che», un vezzo in ricordo del leader rivoluzionario sudamericano, hanno fatto il resto.
La creazione di un nuovo esecutivo al momento si presenta estremamente complessa. Per i due grandi partiti è gara ora ad arrampicarsi sugli specchi per trovare una via di uscita. Non si esclude che alla fine la Bzoe di Haider o la Fpoe di Strache possano entrare a far parte del nuovo esecutivo.
Dietro le quinte, Haider ha già iniziato a sondare il terreno per un avvicinamento alla Fpoe, suo ex partito. La base di discussione col partito di Strache è «migliore di quanto venga presentata pubblicamente», ha detto ieri. Per ora Strache sembra snobbare il suo ex mentore.
La precedenza nella formazione dell'esecutivo spetta comunque ai socialdemocratici, primo partito. E il loro leader, Werner Faymann, ha respinto saldamente l'ipotesi di un'alleanza con l'estrema destra. Intanto, dopo la batosta elettorale, si è dimesso il leader dei popolari, Molterer. Al suo posto arriva Josef Proell, attuale ministro dell'Ambiente. Una sostituzione che aprirebbe la strada a quella «Grande coalizione con facce nuove» auspicata ora da più parti per sottrarsi al rischio dell'ingovernabilità.
Gli opinionisti, che ancora ricordano il trauma del 1999, gettano acqua sul fuoco: quello di domenica non è stato tanto un voto ideologico, quanto un voto di protesta contro la Grande coalizione tra socialdemocratici e popolari che ha guidato finora il Paese.
Ma all'avanzata della destra arrivano le prime reazioni estere. La Commissione Ue è cauta, del resto vista la diffusione dei partiti di estrema destra in altri Paesi europei non può permettersi di essere accusata di usare due pesi e due misure. Bruxelles si aspetta che Vienna possa continuare «a giocare un ruolo importante e costruttivo» nell'Ue. Più esplicito il portavoce del ministero degli Interni israeliano, Igar Palmor, che si dice invece «molto preoccupato dal rafforzamento di elementi che predicano la xenofobia, che negano l'Olocausto e che mantengono legami amichevoli con elementi neonazisti». «Seguiamo da vicino gli sviluppi, anche se -ammette è presto per esprimersi su eventuali ripercussioni sulle relazioni diplomatiche bilaterali».

Repubblica 30.9.08
Un cuore nero per l’Europa
Il ritorno di Haider. L´affermazione del suo ex delfino Strache. Dopo il voto, viaggio nel Paese che si riscopre estremista
di Vanna Vannuccini


VIENNA Le cifre della criminalità, della disoccupazione e dell´immigrazione sono tutte in calo. Dall´appartenenza all´Unione europea l´Austria ha tratto solo benefici. Eppure domenica scorsa i due partiti della destra radicale hanno ottenuto il 29% dei voti sconfiggendo la "Grosse Koalition". Grazie all´apatia della politica tradizionale. E a tanti apprendisti stregoni
La cameriera arrivata da Lubiana ammette: "Qui ormai non siamo viste bene"
Hans Dichand, direttore della Kronen Zeitung: è a lui che si deve il risultato elettorale
Al Caffè Landtmann, uno dei più eleganti di Vienna, proprio accanto al Burgtheater, si fa vedere quasi tutti i giorni. Arriva a bordo di una limousine argentea, l´autista gli apre la porta come a un capo di Stato, e i viennesi che non hanno mai perso l´abitudine di passare un po´ di tempo al caffè lo adocchiano con ammirazione mormorando: «È lui, è Dichand!», e cercano di capire con chi abbia appuntamento oggi Hans Dichand, direttore della Kronen Zeitung e considerato da tutti l´uomo più potente di Vienna. «Dichand governa l´Austria» ha scritto Der Standard.
È a Dichand, su questo tutti concordano qui, che si deve il risultato delle elezioni che domenica hanno portato al trionfo dei partiti di estrema destra (che insieme hanno ottenuto il 29 per cento) e alla debacle della Grosse Koalition - la coalizione di socialdemocratici e popolari che era andata avanti per inerzia tra liti interne e apatia politica generale fino a rompersi all´inizio dell´estate - e soprattutto alla sconfitta storica di quello che era stato per anni il partito di maggioranza, la OeVP, il partito popolare. È stato Dichand che ha provocato la svolta di 180 gradi nel partito socialdemocratico (SPOe), o almeno nel suo attuale leader, Werner Faymann, legato all´87enne Dichand da un´amicizia quasi filiale, tanto che sono perfino corse voci (smentite in un editoriale) che fosse il figlio. È lui che ha guidato e aiutato Faymann, fino ad allora ministro dei Trasporti nel governo di Grosse Koalition, a prendere il posto dello scialbo cancelliere Gusenbauer all´interno della SPOe e a lanciarsi poi in una campagna populista contro l´Europa. Hans Dichand infatti ha sempre puntato, come ormai hanno imparato a fare in molti in Europa, ad alimentare la paura di Bruxelles - oltre a quella degli immigrati contro i quali Bruxelles sarebbe troppo permissiva. Il successo della Kronen Zeitung, che con tre milioni di copie vendute su otto milioni di austriaci è, in proporzione, il più grande giornale del mondo, è dovuto in realtà ad un paradosso, non dissimile da quello che spinse un anno fa gli irlandesi a votare contro il Trattato di Lisbona.
Come l´Irlanda, l´Austria è uno dei paesi che hanno tratto e traggono grandi benefici dall´appartenenza alla Ue. Bratislava e Ljubliana ormai usano solo banche e assicurazioni viennesi. Le grandi società internazionali hanno tutte una sede a Vienna. Gli imprenditori austriaci fanno affari con i paesi confinanti ad est, le cifre della criminalità, della disoccupazione e dell´immigrazione sono tutte in calo ma la paura cresce. Perché, come ormai sappiamo, sono le nostre percezioni che contano, e su quelle hanno molta influenza giornali in apparenza apolitici come la Kronen Zeitung, che si vantano di rispondere a quello che sessanta o settanta anni fa veniva chiamato in Germania il gesundes Volksempfinden, il sano senso comune - una parola che oggi nessuno userebbe più in Germania, visto quello che è accaduto dopo, ma che qui non fa lo stesso effetto perché l´Austria, salva qualche sporadica ammissione di colpa, è riuscita sempre a farsi passare come vittima del nazismo.
La cameriera slovena dell´hotel dove abito conferma che invece di migliorare, come lei aveva sperato arrivando da Ljubliana, la situazione per gli immigrati peggiora. «Non siamo ben viste», dice. Anche se fanno, come accade dappertutto, i lavori che gli austriaci e le austriache non vogliono più fare. I caffè però sono pieni di cameriere che vengono dall´ex Germania est. Loro sono molto apprezzate. Dopo anni in cui nei caffè di Vienna le camerierine austriache con i loro vezzosi grembiuli neri servivano i turisti tedeschi dal marco forte e corrispondenti pretese, per gli austriaci farsi servire il caffè dalle cameriere tedesche è una bella soddisfazione. Ne arrivano continuamente da Plauen o da Dresda, perché a Vienna trovano più facilmente lavoro che in Germania.
Come il miliardario degli armamenti irlandese Declan Ganley ha guidato il suo paese a un no all´Europa in pieno boom economico, così a Dichand è riuscita una manovra analoga, anche se della sua propaganda hanno beneficiato più i partiti della destra radicale, la FPOe di Strache e la BZOe di Haider, che il suo beniamino Faymann. Si dice che l´occasione che fece innervosire l´orami ricchissimo figlio di un calzolaio e di una signora abbastanza coltivata da essere stipendiata come lettrice di un´anziana contessa sia stata la decisione di Bruxelles di obbligare l´Austria a chiamare confiture una preziosa marmelade austriaca.
La crisi che ha portato alla rottura della Grosse Koalition e alle elezioni anticipate di dominca cominciò non a caso con una lettera di Faymann al direttore della Kronen Zeitung in cui il numero uno della SPOe - senza aver prevenuto né il proprio partito né il partner di coalizione - annunciava che da quel momento in poi qualsiasi trattato europeo sarebbe passato in Austria dalle forche caudiche degli elettori austriaci. Con questa lettera modo Faymann provocò una svolta di 180 gradi nel suo partito. La OVPe tentò all´inizio di opporsi ma lo slogan «per l´Europa contro l´indebitamento non ha avuto molto successo. E il culmine della campagna elettorale è stata una seduta parlamentare durata 19 ore consecutive in cui sono stati distribuite a pioggia prebende per quasi 3 miliardi di euro - abbassata l´ici e liva, eliminate le tasse universitarie, aumentate le pensioni - tutto in un colpo - anche se poi naturalmente è aumentata subito anche l´inflazione.
André Heller, l´artista protagonista di tante battaglie politiche, questa volta non si è fatto sentire. «Chi si rende conto di quello che accade in questo paese non può che essere senza parole. Un partito, per il quale il mio cuore o la mia ragione potrebbero impegnarsi, purtroppo davvero non c´è in questo momento in Austria», ha detto.

Repubblica 30.9.08
Il Fpoe di Strache ai "campi" di Forza Nuova
"Si presentano come populisti moderati solo così ottengono i voti di protesta"
Peter Filzmayer, politologo austriaco: "È finita l´epoca del consenso garantito"
intervista di Andrea Tarquini


«è finita l´epoca del consenso garantito ai partiti storici: molti elettori oggi sono conquistabili da populisti che non si presentano come estremisti». Lo dice Peter Filzmayer, il più ascoltato politologo austriaco.
Dottor Filzmayer, perché il trionfo della destra?
«E´ soprattutto un voto di protesta, per il timore dei rincari e del degrado economico».
In Austria, dove si vive meglio di quasi tutti gli altri nella Ue?
«Se la gente prova questi timori, dirle che altrove va peggio serve solo a perdere ancora più voti. L´inflazione al 4% non è alta per la media europea, ma per gli austriaci abituati da decenni all´1%».
Quali strati sociali votano destra?
«Il nucleo duro di gente davvero di destra è al massimo il 5%. Il resto sono voti di protesta, espressi soprattutto nelle città da giovani, lavoratori, impiegati a reddito basso, e per la Fpoe più da uomini che da donne. La Grosse Koalition è stata punita ancor di più dagli astenuti. Ogni futuro governo dovrà fare i conti con delusione, sfiducia, frustrazione. Non è la fine dell´Austria felix, ma la polarizzazione pesa».
Ma la destra è anche contro Ue, Schengen e minareti. L´Austria è diventata radicale?
«Non è così. La campagna elettorale di Fpoe e Bzoe è stata "per l´Austria", ma si è fatta ben più moderata rispetto alle politiche precedenti. Allora dicevano "patria anziché Islam", oppure dipingevano Maometto come pedofilo. Ora hanno cambiato linguaggio. E hanno conquistato anche immigrati integrati e con la cittadinanza austriaca. Linguaggio moderato per non perdere voti di protesta».
Quanto radicali restano Fpoe e Bzoe nell´animo?
«E´ la grande questione ancora aperta».
Meno radicali dell´attuale politica del governo italiano?
«Certo sono ora meno radicali dei loro slogan passati. Gli elettori da conquistare per la destra non cercano più ideologie. Il problema è quanto Fpoe e Bzoe si distanzieranno dai contatti con le destre radicali europee».
Quanto hanno pesato temi come Europa, Schengen, immigrazione e criminalità importata?
«L´Europa era all´ultimo posto. L´Austria è come il Regno Unito: ha tanti euroscettici quanti euroindifferenti. L´immigrazione è stata un tema per il 40% degli elettori di Haider e per il 70% degli elettori di Strache. Paure per economia e lavoro spingono a cercare colpevoli. Il primo è il governo, poi gli stranieri. Ma insisto, anche alcuni immigrati ben integrati hanno votato a destra».
L´Austria ha un altro volto, meno europeo?
«No, la destra si è fatta più moderata nel linguaggio. Ma gli elettori non si sentono più impediti da ideologie nel voto di protesta. L´epoca dei poli contrapposti tra partiti storici è in crisi. Voto di protesta senza tabù. Magari a favore dei populisti, di destra come in Austria o di sinistra come la Linke in Germania. Fpoe e Bzoe appaiono populisti, non estremisti, sennò non vincerebbero».

l’Unità 30.9.08
Stazzema. Spike, la strage raccontala giusta


CINEMA&STORIA Da venerdì nelle nostre sale «Miracolo a Sant’Anna», il film di Spike Lee sulla strage nazista del ’44 che ha scatenato polemiche a non finire. L’Anpi insorge e annuncia battaglia. Il regista: «Non chiedo scusa ai partigiani»

Certo che stavolta Spike Lee la «cosa giusta» proprio non l’ha fatta. E neanche l’ha detta. Anzi, se a raccontarci di lui non fossero i suoi film di chiaro impegno militante (da Malcolm X alla 25esima ora) ieri, a sentirlo parlare alla presentazione del suo tanto atteso Miracolo a Sant’Anna (ispirato all’omonimo romanzo di James McBride), quasi quasi si sarebbe potuto pensare di aver davanti uno dei tanti seguaci del Pansa-pensiero, così in voga ai nostri giorni. Ma giudicate voi. Ecco di seguito le sue affermazioni sulla nostra Resistenza: «I partigiani non erano amati da tutti, anche perché dopo aver fatto le loro azioni contro i nazisti, scappavano e lasciavano che i tedeschi compissero le loro rappresaglie contro i civili. Questa è Storia e non è certo una mia invenzione». Motivo per cui il nostro Spike aggiunge di non «voler porgere le scuse ai partigiani» che si sono sentiti offesi dal suo film dove, la strage nazista di Sant’Anna di Stazzema viene quasi legittimata da un fantomatico quanto inventato attentato partigiano per il quale, ribadisce il regista afroamericano «Kesselring era stato chiaro: passare per le armi 10 italiani per ogni tedesco ucciso». Alla stessa maniera, insomma, di come certa storiografia «revisiona» la strage delle Fosse Ardeatine come «legittima» rappresaglia seguita all’attentato di via Rasella, in cui i responsabili del massacro nazista diventano i gappisti che non si sono consegnati ai nazisti-fascisti.
Ma negli States, si vede, certi temi sono così lontani che per Spike si tratta in fondo di dettagli legati ad una «storia con cui» gli italiani devono ancora fare i conti. «Ci sono molte versioni di quella vicenda - riprende il regista - . L’unica cosa certa è che il 12 agosto del 1944, 560 civili sono stati massacrati dalla 16esima divisione delle Ss. Questo volevo raccontare. Se il film suscita delle polemiche e crea delle discussioni intorno a quella strage è solo un fatto positivo». Con buona pace della verità storica, insomma, per la quale ad inizio film è piazzato un cartello in cui, per raddrizzare il tiro, si specifica tutta la responsabilità nazista nella strage. Un po’ poco per una pellicola che farà il giro del mondo raccontando di un partigiano (Pierfrancesco Favino) che porta con sé il senso di colpa per aver «causato» la strage. E di un altro (Sergio Albelli) che fa la parte dell’«infame» (è lui la spia dei nazisti ai quali tenta di «vendere» il suo compagno, salvo poi ucciderlo con le sue mani) per poi interrogarsi sul fatto che «fascisti e partigiani davanti a Dio sono tutti uguali». Chi proprio non ci sta di fronte a tanto è l’Anpi, l’associazione dei partigiani, che da mesi ha cercato il confronto col regista. «Le dichiarazioni di Spike Lee ci indignano - replica Giovanni Cipollini, vicepresidente dell’Anpi di Pietrasanta -. Quello che ha detto è una ulteriore dimostrazione di ciò che andiamo a sostenere ormai da tempo, che ha realizzato un film senza tenere presente l’esatta verità di ciò che è avvenuto a Sant’Anna di Stazzema». Dunque si annuncia battaglia: domani, in occasione della prima proiezione a Viareggio del film, davanti al cinema Politeama distribuiranno un volantino di protesta «per le menzogne storiche - si legge - e per l’offesa recata alla Resistenza, avallate con un assordante silenzio anche dall’Associazione Martiri di Sant’Anna e dal Comitato Onoranze ai Martiri di Sant’Anna di Stazzema». Il vicepresidente dell’Anpi denuncia anche il mancato invito alla proiezione prevista oggi a Firenze alla Regione Toscana e chiede, ancora una volta «a Spike Lee che abbia il coraggio di parlare con noi».
Al Tg1 delle 20 Spike Lee ribadisce: «Rispetto l’opinione dell’Anpi però ci sono molti aspetti in ciò che è successo a Sant’Anna di Stazzema; noi non diciamo che ci sono solo buoni o solo cattivi. Anche alcuni soldati della Buffalo non erano il bene e perfino qualche nazista non era solo male». Certo, non ha fatto la «cosa giusta».

l’Unità 30.9.08
La storia. La strage non fu motivata da azioni partigiane. Anche i repubblichini tra i killer
Decine di bimbi massacrati. Rappresaglia di che?
di Ivan Tognarini Presidente dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana


Alcune delle stragi compiute dai nazifascisti in Italia, hanno lasciato in eredità, come frutto avvelenato, una memoria con un sapore e un orientamento antipartigiano. Un frutto che ha trovato un fertile terreno di coltura nel clima della guerra fredda, negli anni 40 e 50, quando tutto poteva tornare utile per attaccare la Resistenza e soprattutto le forze di sinistra che, non da sole, avevano avuto un ruolo determinante nella lotta contro gli hitleriani di varia gradazione, dalla Wehrmacht alle SS, e contro le brigate nere e tutte le altre formazioni militari e paramilitari, ivi comprese le varie bande Carità e Koch, della repubblica di Salò.
Nella responsabilità dei massacri, materialmente e inequivocabilmente compiuti dai nazifascisti, si cercava di coinvolgere i partigiani, attribuendo loro la colpa di aver attaccato il nemico e di avergli inferto duri colpi. L’eccidio veniva così presentato come una reazione «legittima», indipendentemente da quanto previsto dalle convenzioni internazionali.
Il primo passo in questa opera di mistificazione e di falsificazione era dei massacratori stessi che, cercando di dare una parvenza di giustificazione alla loro barbarie, tentavano di orientare in senso antipartigiano l’opinione pubblica, violentando sentimenti e menti in primo luogo delle famiglie stesse delle vittime e dei martiri.
Resta da capire come fosse possibile, anche alla luce del più feroce «diritto di guerra», della più criminale legislazione bellica, giustificare la macellazione del corpo di un bambino appena nato o non ancora nato, presentandola come «giusta» reazione, quindi punizione per una azione di guerra partigiana. Nelle relazioni e nei diari di guerra i fanciulli uccisi venivano conteggiati come «ribelli» o partigiani eliminati.
Nel caso di Sant’Anna di Stazzema, dove le vittime furono più di 500, decine e decine i bambini ferocemente massacrati, non vi era neppure questo appiglio. Qui non erano state compiute azioni partigiane che potessero giustificare rappresaglie di tale portata.
La politica del terrore contro la popolazione civile, la tabula rasa dietro le linee della «ritirata aggressiva», (così definita dal feldmaresciallo Kesselring, comandante delle forze tedesche in Italia, condannato a morte nel 1947 da un tribunale militare inglese in quanto criminale di guerra, ma salvato e reso libero dalla «guerra fredda»), fu la vera motivazione della strage.
Questa strategia colpiva i civili per indebolire la forza d’azione e reazione dei partigiani, per spezzare la rete di solidarietà da cui erano circondati e sostenuti i patrioti, e mirava a paralizzare preventivamente la capacità combattiva della Resistenza, il cui potenziale bellico terrorizzava gli hitleriani, anche più di quanto fosse realisticamente giustificabile.
Alla radice vi fu anche la sete di vendetta, vendetta feroce e spietata contro un popolo, quello italiano che, mai considerato altrettanto «ariano» quanto quello tedesco, dopo l’8 settembre 1943, cioè dopo l’armistizio, precipitò al livello di razza inferiore, quindi da martirizzare senza troppi problemi.
Molti degli esecutori delle stragi erano torturatori e assassini ampiamente collaudati, provenienti da esperienze nei campi di sterminio ed in altri contesti in cui la barbarie era stata praticata su larga scala, come sul fronte orientale, quello sovietico e come nei Balcani (ma analoghi misfatti furono consumati anche in Belgio, in Francia e altrove).
Né mancò la volenterosa collaborazione da parte italiana: spie, delatori e uomini in armi, opportunamente mascherati per essere irriconoscibili, parteciparono alle varie fasi del massacro. Altrove i protagonisti in prima persona degli eccidi, furono i repubblichini stessi nel tentativo di guadagnarsi il primato nella pratica della guerra contro i civili e nella politica della devastazione e del terrore.
Il prezzo pagato dalle popolazioni italiane non furono soltanto le migliaia di vittime ferocemente massacrate, ma anche il dolore di una ferita mai risarcita, la cui profondità e il cui uso strumentale è stato rivelato dalla scoperta dell’ «armadio della vergogna».

l’Unità 30.9.08
L’illusione del mercato
Il crollo della finanza
di Rinaldo Gianola


L’incalzare degli eventi alimenta ogni paura e purtroppo la memoria e la statistica ci riportano alla depressione del 1929 al grande crac del 1987 o alla paura planetaria seguita all’11 settembre

E adesso cosa succederà? L’amministrazione Bush chiude il suo fallimentare mandato incassando un no bipartisan del Congresso al piano finanziario da 700 miliardi di dollari destinato a salvare i mercati.
La bocciatura arrivata ieri sera apre per le Borse e l’economia internazionale uno scenario drammatico, addirittura più grave di quello che abbiamo visto in questi ultimi giorni tra crolli dei listini, fallimenti di banche e assicurazioni, salvataggi da parte dei governi.
L’incalzare degli eventi, il loro impatto sconvolgente sulla vita di milioni di persone rende incerta ogni previsione, alimenta ogni paura e purtroppo la memoria e la statistica ci riportano alla depressione del 1929, al grande crac del 1987 o alla paura planetaria seguita agli attacchi alle Twin Towers dell’11 settembre 2001.
Forse il Congresso Usa ci ripenserà, forse Bush modificherà il suo piano che costa più della guerra in Iraq, forse ha ragione Obama quando invita gli americani a mantenere la calma perchè una soluzione si troverà, ma le macerie sono già sotto i nostri occhi. Al ritmo di un paio di fallimenti al giorno, il sistema bancario e finanziario internazionale cerca oggi il suo salvagente negli interventi delle “autorità pubbliche” come scrivono con imbarazzato pudore certi commentatori che, dopo anni di ubriacatura neoliberista, non riescono più a pronunciare la parola giusta. Statalizzazione, questa è la parola giusta. L’aiuto fornito dai governi occidentali alle banche in crisi si chiama statalizzazione. È lo Stato, con la maiuscola per favore, che corre in soccorso di imprese private, devastate da scelte sciagurate, dalla ricerca vergognosa di profitti sempre più alti e ingiustificati, capaci di sfruttare i poveri cristi che non riescono a pagare le rate del mutuo e in grado di convincere i risparmiatori di mezzo mondo di poter fare soldi a palate con prodotti finanziari dai nomi esotici come Asset backed securities o Collateralized bond obligation. Sta finendo, forse, un mondo falso, di panna montata, basato sulla convinzione che il mercato è la panacea di ogni guaio, capace persino di portare la democrazia a quei popoli disgraziati che ne sono privi con il semplice dispiegarsi della sua forza o la benedizione della “mano invisibile”. È il mondo teorizzato dalla signora Margaret Thatcher che nel 1979 trionfava in Inghilterra al grido: “ Arricchitevi! Diventate azionisti“. Trent’anni dopo la storia si prende la rivincita. Proprio in Inghilterra sono le “autorità pubbliche” a nazionalizzare la Northern Rock e la Bradford and Bingley, banche finite sull’orlo del fallimento. Sono i governi olandese, belga e lussemburghese a organizzare il salvataggio del gruppo Fortis, così come in Germania si corre ai ripari per altre banche. Ma, si sa, pur passata sotto la cura della Thatcher e di più banali liberisti all’amatriciana, l’Europa ha sempre quel retaggio statalista, quel welfare così ingombrante che non ci si può sorprendere se lo Stato ritrova un suo ruolo nell’economia.
Ma è l’America, la patria del capitalismo, anzi del capitalismo più moderno e democratico, che produce oggi sofferenze e crisi per tanti suoi adepti mentre pochi manager incassano retribuzioni e stock options miliardarie. Ha ragione il professore Mario Monti quando scrive articoli di fondo assai preoccupati sul Corriere della Sera chiedendosi se i giganteschi interventi pubblici di salvataggio negli Stati Uniti non possano favorire il ritorno, ahimè, di tentazioni stataliste in tutto il mondo occidentale. Bush ha salvato le agenzie dei mutui Fannie Mae e Freddie Mac, la compagnia di assicurazioni Aig. Certo è fallita anche una banca che non poteva fallire come Lehman Brothers, ma il Sole-24 Ore ci spiega che in America salvano solo le imprese che possono produrre «crisi sistemiche». Meno male, adesso ci sentiamo più sollevati.
Ma, allora, quella che stiamo vivendo è una crisi passeggera o qualcosa di più grave? Non sarà forse una crisi del mercato e dei suoi presunti valori? È solo colpa dei mutui subprime? Come si fa a non vedere che c’è qualche cosa di più profondo che sta nel dna, nella stessa natura e nell’organizzazione dell’economia capitalista, nella qualità (anzi nella mancanza di qualità) dello sviluppo, nell’abuso degli strumenti e dei mercati finanziari. Quando si arriva a proporre ai risparmiatori di comprare i “derivati dei derivati” allora siamo alla follia o alla malavita organizzata sui mercati. Possibile che ogni due o tre anni il mondo deve fronteggiare crisi finanziarie più o meno gravi? Nel 2000 era la stagione dell “euforia irrazionale” alimentata dalla “bolla” di Internet che giunse alla sua inevitabile esplosione. Poi nel 2002-2003 il mondo ha subito le conseguenze degli scandali Enron e WorldCom (nel nostro piccolo abbiamo avuto Parmalat e Cirio) ma gli Stati Uniti pensavano che mostrando in tv i manager mascalzoni in manette e spedendoli in galera si potesse risolvere tutto. Qualche mela marcia, si sa, c’è ovunque, anche nelle migliori famiglie. Ma ora c’è un’altra crisi devastante: saltano le banche, miliardi di risparmi vengono volatilizzati, milioni di persone perdono il lavoro.
Di chi è la colpa? Forse delle vendite “allo scoperto” che le Autorità di controllo vogliono impedire in Borsa? Ma andiamo...Come si fa a non vedere, invece, che c’è qualche cosa di patologico in questo mercato, che c’è una malattia profonda che colpisce i gangli vitali dell’economia e della finanza? In questo contesto, oggi, il mercato e il “mercatismo” denunciato da Tremonti sono la stessa cosa, non c’è alcuna differenza. Questo sì che sarebbe un bel tema, un forte argomento di battaglia politica e culturale se ci fosse ancora una sinistra che non si vergognasse del suo passato. Ma non c’è. Siamo tutti, felici o no, dentro il mercato. Ma il mercato è un’illusione.

l’Unità 30.9.08
Giacomo Vaciago. Una crisi peggiore del ’29, ma solo finanziaria
«Paghiamo la politica senza morale della Casa Bianca»
di Luigina Venturelli


«In campagna elettorale tutti giocano contro, in tutti i paesi del mondo. Come poteva Bush illudersi, ad un mese dal voto, di far votare un simile piano ad un Congresso a maggioranza democratica? Dov’era un anno fa?». Giacomo Vaciago, professore di Economia Politica all’Università cattolica di Milano, non si stupisce della bocciatura del piano Paulson.
È una crisi annunciata?
«La più annunciata che abbia mai visto. La Banca dei Regolamenti Internazionali aveva lanciato il primo avvertimento già nel 2004, preoccupata dall’amore per il rischio che animava i mercati finanziari internazionali, di solito popolati da gente geneticamente avversa al rischio. Le banche prestavano soldi ai peggior pagatori, a gente come Callisto Tanzi di Parmalat, pur sapendo che non sarebbero rientrati del credito».
Perchè questa mutazione genetica dei mercati?
«Perchè per Bush e Greenspan era la politica più facile: quando si espandeva un problema, si espandeva pure la moneta e si stampavano nuovi dollari. Ma non poteva durare per sempre».
Dunque, c’è una precisa responsabilità della amministrazione Bush.
«Con Bush si è diffusa una politica economica amorale: l’importante è fare soldi, e va bene comunque il modo in cui si fanno. Così siamo arrivati a questo punto. Ormai il gioco è prevedere quale sarà la prossima banca a fallire».
Si fanno spesso paragoni con il crollo delle Borse del 1929.
«Questa crisi finanziaria è più grave di quella del 1929, perchè è globale, non riguarda solo gli Stati Uniti e un pezzo d’Europa, ma anche l’Asia. Il miracolo è che l’industria tiene: quest’enorme piramide finanziaria sta cadendo da sola perchè non era al servizio dell’economia reale, era panna montata: vendeva il bidone e il controbidone, il titolo rischioso e l’assicurazione per coprirsi dal rischio. Le grandi fortune che si sono accumulate in questi anni sono state generate da inutili scatole di cartone, non c’era vera produzione di benessere. Per questo le società finanziarie tenderanno a scomparire senza provocare i disastri del 1929».
Nel frattempo continueranno i piani di salvataggio pubblici?
«I governi si stanno comportando nel peggior modo possibile. Invece di risolvere i problemi, fanno da amplificatori. Urlano alla crisi e spaventano i cittadini che poi abbandonano a se stessi. Salvano oppure no a seconda dei giorni, senza regole».
E il piano da 700 miliardi di dollari bocciato ieri?
«A Washington si sono dimenticati che l’economia è globale, che da soli ormai non fanno che guai. Un simile piano non ha senso se non è concordato a livello internazionale con le altre autorità economiche e finanziarie. È da marzo che si parla del piano Paulson, ma Bush l’ha presentato solo adesso, lasciandolo in ostaggio della campagna elettorale. Il Congresso è a maggioranza democratica e avrà pensato: mese più mese meno, diamo botte a Bush. Magari ce lo ritroviamo più avanti a firma Obama o Mc Cain».
E in Italia che cosa succederà?
«Gli italiani hanno un capitalismo familiare che li rende mediamente più attenti, perchè le aziende prima o poi finiscono ai figli. Invece il capitalismo americano è senza figli, se deve dare un bidone può darlo al creditore. Per questo hanno inventato le authority che possono mandare in galera chi non rispetta le regole».

Corriere della Sera 30.9.08
«Non hanno ancora imparato la lezione del '29»
Lester Thurow: «Serve l'intervento statale»
«Il piano di Bush è socialismo per i repubblicani conservatori e insufficiente per il 40% dei democratici»
di Ennio Caretto


WASHINGTON — «È successo proprio ciò che temevo. I repubblicani non riescono a liberarsi del loro bagaglio ideologico. Forse non si rendono conto che senza un massiccio intervento dello Stato avremo una crisi molto grave, simile a quella del '29 e degli anni Trenta». Al telefono dalla sua casa di Boston, Lester Thurow, professore di Economia e gestione aziendale al Mit, un'icona del mondo accademico americano, esprime rammarico per il «no irresponsabile » del 70 per cento dei deputati di Bush ai sussidi alle banche: «Oggi sarà una brutta giornata per Wall Street e le altre Borse» osserva. Ma Thurow spera in un accordo a breve: «Presto i repubblicani vedranno il baratro e faranno marcia indietro, non foss'altro che per ragioni elettorali: non vorranno diventare i colpevoli di un futuro disastro».
Si aspettava la loro rivolta?
«Sì. I moderati accettano il pacchetto di Bush come un regalo agli istituti finanziari, ma per l'ala conservatrice del capitalismo e liberismo selvaggi questo è socialismo. Sono un partito diviso su cui il presidente, dimezzato e senza credibilità, non ha quasi più autorità. Ritengo però che alla fine prevarrà in loro la volontà di prevenire un bis del '29».
Anche il 40 per cento dei democratici ha votato «no».
«Lo hanno fatto per motivi più validi. Il pacchetto di Bush non è soddisfacente. I 700 miliardi curano solo i sintomi, le difficoltà della finanza, non la malattia, la deregolamentazione selvaggia dei mercati nell'ultimo decennio. Il pacchetto dovrebbe includere una nuova, rigida normativa, imporre la trasparenza a Wall Street. Di più: dovrebbe essere accompagnato da un altro per l'economia».
Di che tipo?
«È urgente un pacchetto che ristrutturi i mutui e prevenga una valanga di dissesti tra i mu-tuati, e che crei lavoro e produzione, per esempio con un piano per il rinnovo delle infrastrutture, di cui il Paese ha enormemente bisogno, per il varo dell'assistenza sanitaria pubblica, ecc. Il problema fondamentale è che siamo di fronte a una traumatica stretta creditizia, e che non basteranno i sussidi alla finanza a contenerla».
Ma i repubblicani vi sono ideologicamente contrari.
«Può darsi che le elezioni diano la Casa Bianca e il Congresso ai democratici. È chiaro che neppure i 700 miliardi risolverebbero la crisi subito, e che il risanamento economico e finanziario dipenderà dal prossimo presidente. La sua sarà una strada obbligata, difficile e lunga, di anni, non mesi: nemmeno il repubblicano McCain, se fosse eletto, potrebbe discostarsene».
Non c'è il pericolo che tra un mese il Congresso chiuda i battenti per le elezioni e si crei un vuoto legislativo fino a gennaio?
«Lo considero improbabile. Ma se dovesse accadere, sono sicuro che verrebbe riconvocato. Nel frattempo, la Riserva federale farebbe del suo meglio per impedire che sui mercati si diffonda il panico, che è il pericolo vero. Lo sta già facendo, inietta di continuo liquidità. A differenza dell'ala conservatrice repubblicana, ha imparato la lezione del '29».

Corriere della Sera 30.9.08
La scrittrice racconta il suo primo romanzo politico, che ha sullo sfondo gli anni del conflitto tra repubblicani e franchisti
Almudena Grandes. Ho scoperto l'impegno: la guerra di Spagna fu tra il bene e il male
di Isabella Bossi Fedrigotti


MADRID — La dedica di Cuore di ghiaccio, il nuovo romanzo di Almudena Grandes che uscirà giovedì da Guanda («A Luis, Mauro, Irene e Elisa. Vi proteggo io») gliel'ha ispirata Machado, però più sua, di Almudena, non potrebbe essere. Nessun dubbio infatti che sia lei, così forte, esuberante, vitale, traboccante di parole, di energia — oltre che di successo letterario — la protettrice della sua famiglia, del bel marito timido e poeta e dei tre figli, uno di lei, una di lui e la piccola di tutti e due.
Prova della sua inesausta facondia sono le oltre mille pagine del nuovo libro, il suo primo romanzo politico, ma insieme anche romanzo storico, familiare e sentimentale: in primo piano un uomo e una donna che s'incontrano, carichi di eredità assai diverse; in secondo le rispettive famiglie, fratelli, genitori e nonni; in terzo i personaggi di contorno, le città, i paesaggi e, dietro a tutto, la storia o, meglio, il periodo più controverso, più bruciante e doloroso della storia spagnola, i tragici anni della guerra civile. Il tutto raccontato fin nel dettaglio con una precisione quasi maniacale che non lascia in bianco e nero nessun particolare: anche il più piccolo e più secondario prende, infatti, forza e colore nel grande affresco di quasi un secolo di vita spagnola.
Il fatto è che la Grandes ha l'innato gusto di raccontare la vita e lo ha dimostrato nei suoi ormai numerosi romanzi: va con la lanterna a esplorare le caverne oscure dell'animo, delle memorie sepolte, dei rapporti familiari, degli accadimenti casuali e degli incontri fatali e illumina ogni anfratto di modo che, un po' alla volta, la trama appare in piena luce, pezzo dopo pezzo. Luogo di partenza, piccolo chiarore in mezzo al buio che intorno regna ancora fitto, è il funerale di un anziano e geniale immobiliarista venuto dal niente, arricchitosi al tempo del franchismo, rispettato da tutti, ammirato e amato non solo dai familiari. Tra i parenti, gli amici e il piccolo gruppo di abitanti del villaggio riuniti intorno alla tomba di famiglia, compare, in ritardo e in disparte, per riandarsene quasi subito, una sconosciuta sui trentacinque anni, bella, elegante, che solo Alvaro, il figlio più giovane e meno in linea con il modello paterno, nota, rimanendone turbato: non a caso, visto che gli sconvolgerà la vita e non soltanto perché lo costringerà ad aprire gli occhi su chi fosse stato veramente suo padre.
«Ma un funerale — spiega Almudena, incontrastata regina della sua borghesissima casa madrilena, piena di bei mobili tradizionali, lei che non è né borghese né tradizionale — è stato anche il mio punto di partenza, la prima pietra della mia costruzione. La cerimonia non avveniva a Torrelodones dove ho ambientato quella letteraria, bensì a Las Rozas, altro sobborgo di Madrid e a sua volta un tempo villaggio di pastori e contadini; si seppelliva il padre di un mio amico scrittore e a un certo punto ho visto arrivare, in ritardo, una bella donna che non conoscevo. Era in realtà una normalissima, domestica cugina, ma nella mia fantasia è diventata l'affascinante, misteriosa Raquel, nipote di combattenti repubblicani».
È stato difficile mettersi nei panni di Alvaro, il protagonista, e cercare di guardare il mondo con occhi di uomo, di raccontare gli avvenimenti con voce di uomo? «Doveva essere un romanzo maschile — perché la guerra è soprattutto maschile — e perciò è stato giocoforza scrivere "da uomo". Non è stato difficile, anche se non sono sicura che un uomo avrebbe notato certi particolari che posso notare io, come, per esempio, le calze sotto il ginocchio sulle gambe nodose delle donne di paese, in piedi vicino alla tomba nella scena del funerale. Difficile e lunga è stata piuttosto la preparazione del romanzo, la ricognizione attraverso la nostra storia recente. Anche se già ne sapevo molto, ho dovuto studiare a fondo la tragedia delle due Spagne divise e ogni volta che incominciavo a scrivere usciva qualche nuovo testo, qualche memoria inedita su quel periodo, per cui dovevo interrompere e leggere prima di poter riprende la mia strada, ogni volta modificandola un poco. Ecco perché ci ho messo più di quattro anni a concludere il libro, nonostante io scriva tutti i giorni, sabati e domeniche comprese, dalle nove di mattina alle tre del pomeriggio: le ore più appassionanti della mia vita».
Come mai un romanzo così marcatamente ideologico, che divide il mondo in due, buoni da una parte, cattivi dall'altra? «Il mondo che racconto è diviso in due, tra bene e male, non tra buoni e cattivi. Di questi e di quelli ce ne furono ovviamente da entrambe le parti e nel mio libro molti sono le due cose insieme. Ma che l'ideologia di una parte fosse giusta e l'altra sbagliata è fuori discussione».
Perché scrivere della guerra civile? «Perché è il tema del momento, non più rinviabile, e innumerevoli miei coetanei ne hanno scritto e ne stanno scrivendo, saggi, analisi, romanzi. Siamo la terza generazione ed è normale che tocchi a noi il compito di elaborare il tema. È normale che la prima generazione avesse scelto il silenzio, dall'una e dall'altra parte, perché troppi erano stati gli orrori visti e vissuti. La seconda, cresciuta nella paura e nell'ombra lunga di fatti indicibili, ha per lo più fatto lo stesso. Noi siamo liberi sia da ombre che da paure e sarebbe un gran peccato se non ne approfittassimo. La ferita, infatti, più che rimanere aperta, finirebbe con andare in suppurazione ».
In che senso? «Inquinerebbe — come inquina — il sistema della grande politica, per esempio, ma inquinerebbe — come inquina — anche la piccola convivenza privata. Non penso tanto alle città, ma ai paesi dove tutti si conoscono. Immagini di dover vivere per quaranta e più anni nella stessa strada di qualcuno il cui padre, il cui zio o nonno ha torturato e ucciso il padre suo, il nonno o lo zio, e di incontrarlo continuamente al bar, in piazza o al supermercato: il tutto nel silenzio generale. A questo proposito mi ha colpito che, nel corso di una presentazione di Cuore di ghiaccio in una piccola città di provincia, mi si sia avvicinata una vecchia signora per dirmi: "Lei è coraggiosa". Coraggiosa perché?, mi sono chiesta e poi ho pensato a quel clima di silenzio appunto, che non è riuscito a cancellare le memorie di sangue, generando nuovo rancore e nuove paure ».
La tanto lodata transizione, dunque, non è servita... «Troppo lodata, in effetti. Ce l'hanno invidiata perché il passaggio dalla dittatura alla democrazia è stato incruento e ne siamo stati contenti anche noi, ma non basta una transizione dolce a estinguere, a far dimenticare le efferatezze commesse. I lutti, dell'una e dell'altra parte, non sono mai stati elaborati. Anche per questo ho scritto Cuore di ghiaccio, che avevo in mente da molto tempo, tant'è vero che se ne trovano piccole anticipazioni in vari altri miei libri precedenti».
E la sua famiglia da che parte stava? «I Grandes de España? Un po' da ogni parte, come succede nelle grandi famiglie, grandi nel senso che in tutte le generazioni, tranne che nella mia, c'erano otto, nove, dieci fratelli e allora è normale che c'è ne siano stati di questi e di quelli. A volte anche l'uno contro l'altro, con il risultato, devastante per una famiglia, che uno si è poi trovato tra i vincitori e l'altro tra gli sconfitti. I miei genitori, come molti della loro generazione, di politica non parlavano e il passato per loro era chiuso sotto chiave da qualche parte. Erano conservatori, ma non troppo, religiosi ma non troppo, erano brava gente».

Corriere della Sera 30.9.08
Bellini. Lo sguardo gentile
Sessanta capolavori di un maestro che vedeva la realtà con occhio divino
di Lauretta Colonnelli


Si apre con la stupefacente Pala di Pesaro la mostra monografica su Giovanni Bellini, curata da Mauro Lucco e Giovanni Villa e aperta da oggi al pubblico alle Scuderie del Quirinale. Davanti alla tavola, che misura oltre due metri e mezzo per lato, il visitatore viene subito colpito dalla dolcezza dei volti e dalla luce che avvolge amabilmente il paesaggio alle spalle della Vergine e del Cristo. La stessa dolcezza si ritrova nella gran parte dei sessanta dipinti esposti, che rappresentano circa i tre quarti della produzione del Maestro veneziano e che arrivano dai più prestigiosi musei del mondo, da Firenze a Parigi, da Venezia a Londra, da Madrid a Washington, da New York a Ottawa.
Accanto alla grandi pale d'altare, fra cui quella di oltre quattro metri del Battesimo di Cristo eseguita per la chiesa di Santa Corona a Vicenza, si possono ammirare le opere a tema sacro di committenza pubblica e privata, come la serie dei Crocifissi e delle Pietà, oltre a una selezione della vasta produzione di Madonne e di ritratti. Ma anche le meno conosciute allegorie e mitologie, come la Continenza di Scipione, un fregio lungo tre metri che simula il marmo, uscito per la prima volta dalla National Gallery di Washington. Fino alla Derisione di Noè, che chiude la mostra e pare che sia stata anche l'ultima opera dipinta da Bellini e considerata una sorta di testamento spirituale dell'artista.
Ma vale la pena fare una sosta già davanti alla Pala di Pesaro. Intanto perché si può vedere per la prima volta come era in origine, ovvero completa della cimasa con l'Imbalsamazione di Cristo. L'intera Pala era stata dipinta per l'altare maggiore della chiesa di San Francesco a Pesaro. Si suppone che Bellini l'abbia costruita a Venezia, con uno straordinario lavoro di carpenteria in vista di un'estrema semplicità di montaggio, dato che l'enorme complesso è tenuto insieme solo da cavicchi di legno. Dipinto quindi a Venezia e montato in loco a Pesaro. La sua imponenza fu anche la sua salvezza. Infatti soltanto la cimasa fu requisita dai francesi all'inizio dell'Ottocento e restituita quasi subito al governo pontificio. Da allora però è rimasta nella Pinacoteca vaticana, separata dal resto della Pala che è invece conservata nel Museo civico di Pesaro. Secondo Antonio Paolucci, che dirige i Musei Vaticani e ha prestato la cimasa per la mostra, questa Pala rappresenta «il punto zenitale della pittura italiana». E spiega che «infatti, come agli albori della classicità, tutto in quest'opera è infinita sapienza ma tutto è allo stesso tempo calma, luce, splendore. Giovanni Bellini contempla il mondo visibile ed è come se lo accarezzasse l'occhio di Dio in una chiara mattina di primavera ».
Lo stesso incanto si ripete davanti ai paesaggi che fanno da sfondo alle Crocifissioni e alle numerose Madonne con Bambino, immerse in atmosfere calde, con i panneggi delle vesti che risaltano armoniosamente sullo sfondo di verdi prati dove corrono lepri e cavalieri e le montagne lontane sono quasi trasparenti. Spesso i visi delle vergini fanciulle appaiono soffusi di una luce rosata, altre volte di un tenue giallo. Come dorato è il chiarore che illumina i tre Ritratti di giovani, tutti ripresi di tre quarti, tutti vestiti di scuro, tutti tesi a una profonda coscienza di sé. Vale la pena di soffermarsi infine davanti all'ultima opera, una grande tela che rappresenta Mosè addormentato sotto l'effetto del vino e deriso dai figli. Roberto Longhi la definì «la prima opera della pittura moderna». E fu l'ultima di Bellini, che doveva essere intorno ai novant'anni quando la dipinse. Qui sono scomparsi i paesaggi ariosi, il patriarca giace scompostamente in uno spazio ristretto e angoscioso, chiuso da una parete di pampini scuri, i volti hanno perso l'ideale bellezza rinascimentale e si deformano in un ghigno realistico.

Corriere della Sera 30.9.08
Lo scenario Nelle pale d'altare il passaggio dal '400 al '500. Di cui il pittore fu uno dei protagonisti
E la natura avvolse la Madonna in trono
Dall'architettura al paesaggio: così Giambellino sentì il vento del cambiamento
di Francesca Bonazzoli


Una grande fama senza aneddoti. Una lunga vita di oltre ottant'anni segnati solo da un matrimonio, la nascita di un figlio e la di lui morte precoce. Un grande prestigio, umano e artistico, vissuto all'insegna della modestia e della riservatezza, senza mai sgomitare a scapito dei rivali in una Venezia dove per accaparrarsi la commissione di un affresco si poteva anche ricorrere all'avvelenamento. Gran lavoratore fino alla vecchiaia inoltrata quando ormai, conquistata la fama, benestante, vedovo e senza eredi, circondato da uno stuolo di giovani allievi rapaci che si mettevano in gara contro di lui, avrebbe potuto ritirarsi. Invece messer Zuan Bellin (da cui il nostro confidenziale Giambellino), mite e profondamente religioso, volle santificare fino in fondo il talento che Dio gli aveva donato, fino alla totale trasformazione in farfalla compiendo la metamorfosi da uomo del Quattrocento a maestro di quella che il Vasari chiamerà la maniera moderna.
Lo farà passando dall'architettura al paesaggio e il momento di svolta sarà proprio il guado fra i due secoli che si dimostreranno due mondi agli antipodi tanto che di pittori come Botticelli, Piero di Cosimo, Cosme Tura o Carlo Crivelli (che pure nacquero anche dieci anni dopo il Giambellino), nel Cinquecento non si parlerà più. Di Giovanni Bellini, invece, nessuno si dimenticherà.
Per spiegare la sua metamorfosi occorre risalire al 1474 quando, con la Pala di Montefeltro, Piero della Francesca sancisce il passaggio dal polittico, di retaggio medievale, alla pala d'altare riportando predella, cimasa e ante all'unità spaziale di una sola immagine centrale inquadrata dentro un'architettura dipinta che sostituisce le architetture lignee dei polittici. Ma questa rivoluzione che da Urbino attraversa l'Italia imponendo un nuovo canone, nel giro di pochi decenni viene già soppiantata: il primo a metterla in discussione è Leonardo da Vinci che, a Milano, nel 1486, licenzia La Vergine delle rocce dove alla rigida abside marmorea di Piero si sostituisce un arco naturale di rocce che sembra accogliere le figure in un antro misterioso. Ma il ribaltamento definitivo della maniera toscana avviene a Venezia dove un ambizioso ventisettenne, Giorgio Zorzi, detto il Giorgione, dopo aver lasciato la bottega del Bellini, dipinge nel 1505 per il Duomo di Castelfranco una pala d'altare dove tra uomo e natura si crea finalmente quella fusione cui tante volte, ormai, si era andati vicino. Maria siede con il bambino in un alto trono issato in mezzo a una campagna punteggiata da castelli, alberi, strade, e bagnata dalla luce d'ambra del tramonto. La luce scivola morbida di tono in tono, l'aria attraversa e modella il mondo vegetale non più rigidamente disegnato con contorni netti e duri nelle ombre. È una nuova maniera di sentire il paesaggio che Vasari descriverà come «dipingere con i colori stessi senz'altro studio di disegnare in carta ».
Il vecchio Bellini guarda, capisce subito e si adegua: anche se ha ormai più di settant'anni intuisce che la partita da adesso si giocherà intorno al paesaggio e così abbandona gli alberi duri e neri della Madonna degli alberelli, la natura spigolosa e minuta del San Francesco, la precisione lenticolare del cimitero ebraico dove si erge il Crocifisso; abbandona i marmi antichi, le rovine e le allegorie e introduce viandanti a cavallo, contadini che pascolano le mucche, vagabondi a riposo sotto i ponti, tutto ciò, insomma, che si vede davvero in campagna e sotto una luce fluida e avviluppante, che rivela l'ora del giorno e avvolge in un accordo armonico il paesaggio e gli uomini che lo abitano.
È la fine del mondo statico quattrocentesco.
Ma ancora non bastava. Non c'era solo da tenere testa a Giorgione: a scompaginare le carte era arrivato a Venezia anche un tedesco innamorato dell'Italia, Albrecht Dürer. In soli cinque mesi, tra l'aprile e il settembre 1506, aveva dipinto una pala sconvolgente, la Festa del Rosario, dove le figure non erano più statiche e ieratiche, ma si muovevano liberamente nella radura di un bosco incantato. Bellini si rimette al lavoro e risponde anche a Dürer col «Festino degli dei»: un capolavoro per un maestro ottantenne, ormai prossimo alla morte.
Eppure anche quest'ultimo sforzo non gli sarebbe bastato. L'anno in cui Bellini muore, nel 1516, l'arrogante giovane Tiziano dipinge per l'altare di Santa Maria Gloriosa dei Frari una Madonna che ascende verso il cielo in una luce dorata: architettura, paesaggio, tutto è ormai scomparso. Basta solo la luce per muovere le figure nello spazio attraverso una composizione che è essa stessa architettura dinamica e dove il paesaggio diventa una visione celeste.

Corriere della Sera 30.9.08
La sua età Il dubbio sull'anno di nascita crea un dibattito
Il disegno, la luce e il mistero di una data
Lo scambio artistico con il cognato Mantegna
di Arturo Carlo Quintavalle


Ma davvero, come intende Vasari, Giovanni Bellini sarebbe stato ben altro artista se avesse conosciuto il disegno e la sua tradizione, magari fiorentina? E davvero il limite di Mantegna è di segno opposto, quello di usare il disegno per copiare direttamente l'antico e non osservare il naturale? Ecco, possiamo partire da qui per dare conto di un confronto critico netto, da una parte Longhi e Fiocco e tanti altri, dall'altra i più recenti studiosi fra cui Lucco e Villa, curatori di questa mostra importante. Tutto parte dal problema della data di nascita di Bellini.
Così Giorgio Vasari (1568) racconta la morte del pittore avvenuta nel 1516: «Finalmente Giovanni essendo pervenuto all'età di novanta anni passò di male di vecchiaia di questa vita, lasciando, per le opere fatte a Vinezia sua patria e fuori, eterna memoria del nome suo». Dunque se muore a 90 anni nel 1516 Bellini dovrebbe essere nato nel 1426. Ma la critica sposta adesso quella data un decennio più avanti anche perché il problema cruciale della formazione di Bellini è il rapporto con Andrea Mantegna che, fra l'altro, nel 1453 aveva sposata, Nicolosia, sorella del pittore. Mantegna, si sa, era uscito dalla officina dello Squarcione a Padova che Roberto Longhi nel 1926 descrive così: «Tutto quanto avvenne tra Padova e Ferrara e Venezia tra il '50 e il '70 — dalle pazzie più feroci del Tura e del Crivelli alla dolorosa eleganza del giovane Bellini, all'apparentemente rigorosa grammatica mantegnesca — ebbe la sua origine in quella brigata di disperati vagabondi figli di sarti, di barbieri, di calzolai e di contadini, che passò in quei vent'anni nello studio dello Squarcione». Longhi pensa che sia Bellini, che ritiene nato nel 1426, a pesare sulla ricerca stessa del Mantegna e magari a fargli scoprire un tenue colore, ma se la data di nascita di Bellini si posta avanti di un decennio tutto cambia, è Bellini che dipende da Mantegna. Insomma, quando comincia e perché quella scrittura morbida, fitta di velature e di colori dolcemente sovrapposti che fa dell'arte di Giovanni Bellini la matrice di una lunga storia che arriva fino a Giorgione e al giovane Tiziano? Prima di tutto si deve rispondere alla obiezione vasariana che Bellini non possedesse il disegno: ma basta considerare il «Compianto sul Cristo morto» degli Uffizi, fondo giallino, monocromo bruno, figure segnate con acribia, ombre portate, morbide cadenze luminose, e chiedersi se quello splendido dipinto che è come un grande disegno sia una eccezione? Le nuove indagini, e sopra tutto le riflettografie ai raggi infrarossi, come la mostra prova bene, hanno fatto scoprire, sotto i dipinti di Bellini, anche i più trasparenti, bagnati di luce, sotto i tramonti che segnano di spenti gialli e arancio le campagne, sotto gli affondi dei tenui corsi d'acqua, sotto i paesaggi, un disegno accurato. Dunque Giovanni Bellini disegnava e lo conferma del resto la tradizione della sua bottega, dal padre Jacopo a Gentile, il fratello. Il suo dialogo giovanile coi pittori della officina dello Squarcione a Padova è importante e di più lo è quello con l'opera di Andrea Mantegna che attorno al 1450 dipinge la cappella Ovetari agli Eremitani e si impone sulla scena della pittura al Settentrione prima di essere chiamato alla corte dei Gonzaga.
Ma allora da dove origina la luce come sospesa nel tempo, la luce che scandisce i piani del reale di Bellini? Certo dalla pittura fiamminga, sopra tutto Jan van Eyck e Rogier van der Weyden, quest'ultimo presente a Ferrara a metà secolo, che utilizzano sempre, sotto la pittura, un disegno preciso e scandito; ma all'arte fiamminga si aggiunge l'esperienza di uno spazio diverso, quello dell'altare del Santo di Donatello a Padova, che fa scoprire a Bellini una nuova concezione delle figure e la funzione della luce che riflessa dai lucidi bronzi dissolve la nettezza dei contorni. Luce, spazio, ma sopra tutto nuovo racconto, e lo prova la rivoluzione nei ritratti e nelle Madonne col Bambino, ne restano fra autografe e di bottega circa 80, che propongono una umanità e una intensità diversa dei sentimenti. Quello che in Mantegna è diapason della tensione, evocazione dell'antico come in una messa in scena tragica, in Bellini è lunga durata, racconto denso di memorie, ma del presente. E dopo? Dopo, Giovanni dialoga con il Giorgione della Pala di Castelfranco e dei Tre filosofi e anche con Sebastiano del Piombo; e inventa, nelle ultime grandiose opere, immagini che si dissolvono nella luce, che è Grazia ma insieme Conoscenza del mondo.

Repubblica 30.9.08
Concita De Gregorio: "Malamore/Esercizi di resistenza al dolore"
Tutte le donne contro Barbablù
Perché gli uomini sono così violenti e le loro compagne li denunciano così poco? Una risposta fatta di cronaca, interviste, racconti, favole
di Laura Lilli


A che è servito il femminismo? A molto ma non tutto, è, di solito, la risposta. E cosa manca, ancora? Risposte frequenti: in primo luogo manca il lavoro. Siamo l´ultimo paese in Europa su questo terreno, anche se le nostre studentesse - in qualunque tipo di studi - in Europa sono fra le prime. E, insieme al lavoro, tutto quello che aiuta le donne a lavorare, come gli asili nido, i trasporti facili, le paghe uguali a lavoro uguale, ecc. E poi? E poi, manca il potere. Pochissime donne lavorano a livelli direttivi: manager, primario, ministro, ambasciatore, banchiere, presidente d´azienda, e così via. E meno che mai - figurarsi? In Italia? - presidente del Consiglio o capo dello Stato.
Questo sul piano della vita pubblica. Quanto a quella privata, si sa bene che è un disastro. E´ una esercitazione maschile alla violenza, omicidio incluso. Lo documenta bene l´ultimo libro dell´associazione Controparola (scrittrici e giornaliste), Amorosi assassini, uscito da Laterza ai primi dell´estate. Non per caso continuano a sorgere centri anti-violenza, dove le mogli picchiate possono rifugiarsi. Ma solo una minoranza di donne vi ricorrono. Poche donne denunciano le violenze. Perché? E perché gli uomini sono così violenti? Questa e molte altre intelligenti domande si pone Malamore /Esercizi di resistenza al dolore, il nuovo libro di Concita De Gregorio, che Mondatori manda oggi in libreria (pagg. 169, euro 16).
E´ un libro eclettico, scritto con passione, davvero "dalla parte delle donne (le "bambine" di Elena Gianini Belotti divenute adulte e consapevoli del grande lavoro che la generazione precedente ha fatto per loro, osserva la stessa autrice). Vi si trova di tutto: cronaca presa dai quotidiani (anche stranieri - spesso La Vanguardia) o dai telegiornali, interviste alle donne più disparate, dalla prostituta (che, libera da condizionamenti di qualsiasi genere, rivendica al suo mestiere la funzione di salvafamiglie), alla donna avvocato, alla politica di alto livello, alla psicologa. Miti antichi vengono raccontati ai bambini in versione riveduta e corretta (Circe era solo una donna bellissima e sempre sola, perché tutti l´abbandonavano e così, per trattenere gli uomini, li trasformava in porci e pacifiche belve. Solo, a cercare il pelo nell´uovo, non è chiarissimo perché gli uomini avessero la pessima abitudine di darsela a gambe). C´è la storia di Barbablù "la cui barba probabilmente non era blu, ma di un nero tanto scuro da sembrare blu". Ci sono storie di "malasanità": 23 aghi trovati, con una radiografia, da un medico recalcitrante, nel torace di una donna dalle urine piene di sangue.
E c´è anche - molto importante per capire le tesi di questo libro, così ricco da sembrare a volte discontinuo - c´è anche la storia della Rateta, una topolina pretenziosa, con un fiocco sulla coda, che aveva molti pretendenti, dal gallo al cane. Scelse il gatto, sebbene la mettessero in guardia. "Io lo cambierò", afferma lei perentoria. Non aveva fatto in tempo a dirlo, che il gatto se l´era mangiata. Il che pone almeno tre domande. Prima: perché, fra tanti pretendenti, la topolina sceglie proprio il gatto, com´è noto golosissimo di topi? Seconda: è davvero possibile - magari con un po´ più di tempo - trasformare, sforzandosi, la natura dei gatti, e farne - che so - degli erbivori? Terza: qual era il piano della topolina?
Alla seconda domanda chiunque risponderebbe "No", salvo esperimenti (per ora non noti) di ingegneria genetica. La risposta alla prima e alla terza sono più difficili. Secondo l´autrice, le donne della "nuova generazione del femminismo" sono dotate di grande presunzione ed orgoglio. Pensano di sapere ormai tutto, e in particolare che la reazione violenta dei maschi che si accaniscono contro di loro, derivi da impotenza e fragilità: si sentono re che il femminismo ha spodestato dal proprio regno. E, invece di accettare l´ormai proclamata "repubblica di eguali", impotenti sul piano della legge, si accaniscono in vendette personali. Non a caso la maggior parte di violenze e assassini sono commessi o in famiglia (e la madre complice tace), o da "ex": fidanzati, mariti, compagni.
Più difficile rispondere alla terza domanda. Certo, si può parlare di condizionamenti culturali a scegliere comunque il matrimonio, a tutt´oggi ancora considerato per molte donne la migliore "sistemazione" nella vita. Condizionamenti che investono la segreta sfera affettiva, e che sono destinati a durare molto a lungo, qualunque diversa realtà la mente, la logica, l´analisi e la riflessione abbiano messo a nudo. Ma, secondo l´autrice, c´è qualcosa di più. C´è un "programma segreto" delle donne, spesso non noto nemmeno a loro, che si finge presunzione ("Io sì che so la verità, e dunque riuscirò a cambiare te che non hai capito niente"), ma che in realtà, sotto sotto, vuole essere fatta oggetto di umiliazioni, violenze, tradimenti, e, al limite, assassini. A suo dire, la topolina voleva in realtà essere mangiata dal gatto. Che si tratti del buon vecchio masochismo femminile, tanto noto a psicologi e psicoanalisti?

il Riformista 30.9.08
Liberazione sta per chiudere
Gli esuberi dei giornali di sinistra


Liberazione sta per chiudere. Il segretario di Prc ne ha piene le tasche dei debiti e del direttore Sansonetti. Negli stessi giorni in cui Rifondazione si lamentava per gli esuberi di Alitalia, Ferrero proclamava lo stato di crisi del suo giornale e creava i propri esuberi. Capita così ai giornali di sinistra. Quando i leader falliscono la politica, sono i loro giornali a pagare l'unico prezzo. È successo all'Unità. Quando chiuse, i debiti non andarono ai nuovi editori ma se li addossò Sposetti, i giornalisti e i tipografi in gran numero vennero licenziati, la nuova editrice subentrò solo quando tutti i lavoratori uscenti firmarono davanti all'Ufficio del lavoro la liberatoria rinunciando ai propri diritti. (A quelli di Alitalia è andata meglio). Si rifece un giornale molto hard, a condizione che l'Unità licenziasse, mettesse in cassa integrazione, mentre non ci fu dirigente politico dei Ds, ex direttori compresi, tranne uno, che si fece un'ora di cassa integrazione o un'autocritica. Lo stesso accade a Liberazione. Colleghi e compagni saranno mandati via e dovranno cercarsi un nuovo lavoro mentre il segretario Ferrero solidarizza con i licenziati di altri padroni. Ferrero dirà che lui non c'entra con questa storia. Era senza potere. Figuratevi, faceva solo il ministro. Che vergogna!

Panorama n.40 30.9.08
Lui, l’amante di Stalin
Rivelazioni Il dittatore ebbe una relazione con Karl Pauker, il suo segretario personale. Lo sostengono alcuni studi e testimonianze. E a Mosca se ne discute
di Klaus Davi


Il primo a insinuare dubbi che tra Stalin e il suo segretario particolare, l’ungherese di origini ebraiche Karl Pauker, ci fosse qualcosa al di là del rapporto di lavoro fu l’ambasciatore americano a Mosca, William Bullit. Il diplomatico statunitense, in un rapporto confidenziale inviato al governo Usa nel 1934, parlò di relazione «inconsueta».
Ovvio che all’epoca la tesi potesse apparire alimentata da un’ostilità politica più che da un reale fondamento. Tuttavia, con il passare del tempo, le voci crebbero al punto che, in piena guerra fredda, l’ex spia russa Alexandr Orlov si permise di scrivere nel libro La storia segreta dei delitti di Stalin che anche alcuni membri del Kgb sapevano del legame particolare, definendo Pauker «più che un amico, più che un fratello per Stalin». E forse, continua Orlov, la diffusione di certe voci portò all’uccisione dello stesso Pauker durante la grande purga del 1938.
Decenni dopo anche lo psicologo americano Daniel Rancour-Laferriere approfondì la tesi nel testo The Mind of Stalin: a psychoanalitic study: l’omosessualità di Stalin era latente fin dall’età giovanile e i rapporti con Pauker non erano da lui ritenuti inappropriati ricoprendo il dittatore, come imponeva il ruolo di comando, una parte attiva nella dinamica di coppia.
Ora anche in Russia divampa il dibattito. Se il settimanale Secret, a fine luglio 2008, ha sostenuto che il patto di non aggressione Molotov-Ribbentrop del 1939 altro non fu che un segnale dell’infatuazione del dittatore russo per Adolf Hitler, il bisettimanale moscovita Chastnaja Zhisn’ ha definito la paranoia di cui era vittima Stalin un segnale tipico nelle persone che occultano la loro omosessualità.

Il Mattino 30.9.08
Aver fede in dio? può placare i dolori
Esperimento a Oxford su fedeli e atei che hanno osservato le opere di Leonardo e Salvi
di Deborah Ameri


Londra. Credere in Dio non è solo un balsamo per lo spirito. Anche il corpo ne beneficia, se è vero, come rivela l’ultima bizzarra ricerca dell’Università di Oxford, che la religione è anche un potente antidolorifico. Il prestigioso ateneo inglese ha forse trovato la spiegazione di ciò che avveniva nella mente dei martiri cristiani dell’antichità e di quello che probabilmente prova oggi un kamikaze pronto a farsi esplodere, senza paura, tra la folla. Un team di esperti, composto da accademici, scienziati, filosofi e teologi, ha dimostrato che il cervello dei credenti reagisce diversamente al dolore rispetto a quello degli atei. All’esperimento, pubblicato sulla rivista «Paine», hanno partecipato 24 volontari, dodici religiosi e altrettanti no. I malcapitati sono stati «torturati» con scariche elettriche sul corpo mentre erano intenti ad osservare, prima l’uno, poi l’altro, due capolavori: la Vergine annunciata di Giovan Battista Salvi, detto il Sassoferrato, e la celeberrima Dama con ermellino di Leonardo da Vinci. Un’immagine di ispirazione chiaramente religiosa e una assolutamente profana. Ai «martiri» non è stato spiegato lo scopo della ricerca, in modo da escludere l’effetto della suggestione. A ogni scarica elettrica ciascun volontario doveva dare un voto al grado di dolore provato, da 1 a 10. Si è così potuto constatare che i credenti soffrivano in media il 12% in meno quando l’elettricità li colpiva mentre erano intenti a guardare il dipinto della Vergine, piuttosto che quello di Leonardo. Il volto di Maria li faceva sentire, con le loro parole, «salvi, accuditi, calmi e pieni di pace». I poveri atei, invece, hanno percepito la stessa sofferenza fisica durante tutto l’esperimento e nemmeno il volto grazioso della Dama con ermellino è servito a dare loro sollievo. Tutti i partecipanti hanno poi trascorso almeno mezzora sotto il macchinario della risonanza magnetica e la scansione del cervello di ognuno è stata rivelatrice: il cervello dei devoti si accendeva nella parte anteriore destra, la porzione cerebrale che influenza il meccanismo della percezione del dolore. Prova che riuscivano a controllarne l’intensità grazie alla loro fede. Per questo gli scienziati l’hanno definita un antidolorifico naturale. Forse è ciò che permette a centinaia di malati, ogni giorno, di superare le sofferenze e rimanere in contemplazione della vergine in siti come Lourdes o Medjugorje. Di certo stavolta la scienza ha messo d’accordo tutti e ha conquistato persino la sua acerrima nemica: la Chiesa. Il vescovo anglicano di Durham, il reverendo Tom Wright ha espresso il suo compiacimento: «La pratica della fede altera la persona che siamo e ci fa sentire più forti - ha dichiarato al Mail on Sunday - può influenzare gli schemi mentali e le nostre emozioni. La conclusione di questo esperimento non è per me una sorpresa». Un po’ più scettica invece, una parte della comunità scientifica. Lo psicologo Miguel Farias, che fa parte del team di Oxford, obietta che lo stesso effetto taumaturgico avrebbe potuto verificarsi per gli atei se si fosse mostrato loro il viso di una persona amata.

l'Unità 29.9.08
Salviamo la scuola
di Marina Boscaino


Lucia Marchetti, insegnante, mi inoltra questa mail, inviata al suo concittadino, l’onorevole Dario Franceschini: «Sono una cittadina ferrarese, elettrice del Pd, e le scrivo per chiedere la seguente cosa: ma come si permette il ministro ombra Garavaglia di plaudire al papa circa la parità tra scuola pubblica e scuola paritaria?». Tempo fa, alla vigilia delle elezioni, un’inchiesta di questo giornale rivelò come, nonostante qualche perplessità, il cuore della scuola battesse ancora a sinistra. Fermo restando che sarebbe utile interrogarsi su cosa voglia dire - oggi - sinistra, più della metà della scuola italiana ha confermato il suo orientamento verso l’area politica che usiamo chiamare così. Da allora sono passati mesi che hanno concretizzato - al di là delle più fosche previsioni - l’idea di scuola che il centro destra ha; e che sta violentemente portando avanti a colpi di decreto legge. A proposito: ha idea, il ministro Gelmini, quando fa le sue demagogiche “improvvisate” a Scampia, che per combattere la dispersione ci vogliono insegnanti e tempo scuola disteso?
Alla grande mobilitazione nazionale di queste settimane (insegnanti e genitori delle scuole primarie) ha fatto seguito una risposta piuttosto debole dei partiti. Oggi, a Roma, il convegno del Partito Democratico «Salva la scuola» ci aiuterà a comprendere il progetto che quello che continua ad essere il referente politico di molti insegnanti intende seguire. E quali saranno - concretamente - le risposte alle scorribande del governo in materia di istruzione, di diritto allo studio, di tutela del lavoro. Effettivamente i contributi che fino ad ora il ministro ombra Garavaglia ha dato al dibattito non sono stati particolarmente incoraggianti; come nel caso - appunto - del non richiesto plauso alle dichiarazioni del papa sulla effettiva parità delle paritarie con la scuola dello Stato. Una questione aperta con la legge del ministro Berlinguer (quello stesso che in un’intervista della scorsa settimana ha sostenuto la validità dell’azione di Gelmini), che ha consentito un’erogazione continua di danaro pubblico alle scuole paritarie e la conseguente violazione della Costituzione («Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato», art. 33).
Sin da aprile il programma sulla scuola del Partito Democratico non è sembrato tale da marcare una differenza rilevante con l’impianto neo liberista che caratterizzava quello del Partito delle Libertà. Sarebbe necessario, oggi, uscire allo scoperto con una presa di distanze decisa e definitiva rispetto ad alcune delle questioni caratterizzate da ambiguità. Sarebbe utile che la manifestazione di oggi non fosse esclusivamente una risposta necessaria alla mobilitazione di questi giorni e la strumentale e formale occupazione di postazioni rispetto ad una problematica attualissima e drammatica; che non fosse la solita parata, la vetrina autoreferenziale delle consuete voci (che parlano in nome di chi? per conto di chi?); che non si limitasse all’ovvia stigmatizzazione di una politica di (d)istruzione della scuola pubblica - che è purtroppo sotto gli occhi di tutti - a partire dall’unico settore che funziona realmente - la scuola primaria - che integra, che crea cittadinanza, che abitua alla convivenza civile, che educa. Ma che fosse un momento di elaborazione realmente condivisa; l’inizio di un dialogo serrato con il mondo della scuola, che ogni mattina si alza e va a lavorare; che frequenta le aule docenti; che trascorre ore con bambini e ragazzi; che sa che quelli del grembiulino e del voto in condotta (così come “l’errore” sull’insufficienza che determina la non promozione, la vittoria di Pirro per la quale l’informazione si è tanto scaldata) sono questioni di lana caprina, rispetto ad una scuola che agonizza tra un oblio e un altro. E, oggi come cinque anni fa, rialza la testa non grazie alla politica, ma alle proprie energie e alla propria dignità: ce lo hanno ricordato le manifestazioni di sabato. Lavoratori in piazza. Famiglie in piazza.
La democrazia è rappresentanza e partecipazione; viviamo uno strano momento di sospensione, in cui entrambi questi fattori sembrano sbiaditi: un curioso piano che trascende tutti noi sembra incombere, paralizzandoci. I giochi si fanno sempre altrove; le decisioni vengono prese sempre in un altro luogo. Limitarsi ad osservare in silenzio è il modo migliore per rinunciare a principi e idee. Ma occorre pure che chi è stato delegato a legiferare si faccia carico di individuare spazi di ascolto per chi ha firmato la cambiale in bianco, sulla fiducia. Oggi il Partito Democratico ha una buona occasione: quella di dimostrare di aver riflettuto sul fatto che tra i propri elettori ci sono Lucia Marchetti, insegnante, e tanti come lei. Che sono stanchi di sentir fare (anche nel proprio nome) affermazioni sconcertanti. E di sentire parlare di scuola in modo approssimativo e banale.