l’Unità 1.10.09Razzisti in divisaPestato a Parma solo perché ha la pelle neraL’incredibile vicenda di Bonsu Foster, 22 annipicchiato dai vigili urbani. Insultato e denudatodi Gigi MarcucciEmmanuel, 22 anni, ghanese, pestato e insultato dai vigili a Parma
Aggredito senza motivo. Sul verbale di rilascio hanno scritto: «Negro»
Rincorso all’uscita di scuola, pestato, portato via in manette dagli agenti della polizia municipale. Motivo? Lo avevano scambiato per uno spacciatore. Ma lui non aveva fatto nulla. Quando il giovane studente ghanese è stato rilasciato i vigili gli hanno consegnato una busta con sopra scritto «Emmanuel negro». Nella civile Parma il secondo, insopportabile episodio di intolleranza, di vessazione ai danni di chi non può difendersi. Ad agosto era capitato a una prostituta nigeriana abbandonata per terra, seminuda, nella camera di sicurezza della Municipale.
SI CHIAMA BONSU Emmanuel Foster, ha 22 anni, è arrivato 13 anni fa dal Ghana, va alla scuola serale per imparare un mestiere, e studia anche di giorno per colmare alcune lacune dell’istruzione di base. La sua fedina penale è intonsa, come quella di tutta
la sua famiglia: il padre lavora come operaio metalmeccanico. Da 48 ore Emmanuel è al centro di una storia che probabilmente non l’avrebbe nemmeno sfiorato se non avesse la pelle nera. Ore 18,15 di lunedì sera, Emmanuel arriva tra i banchi dell’Itis serale di via Toscana, a Parma. Manca mezz’ora all’inizio delle lezioni. Lascia la cartella, esce per prendere una boccata d’aria, fare due chiacchiere coi compagni. Accade però qualcosa di insolito. Emmanuel vede due uomini in borghese. «Ho visto che parlavano al cellulare, un altro mi si è avvicinato e mi ha afferrato le mani». Bonsu non capisce, si spaventa, tenta la fuga. Non pensa che quegli uomini siano rappresentanti dello Stato, tanto meno lo sfiora l’idea che siano vigili urbani. «Pensa a un’aggressione, come quella che a Milano è costata la vita a un giovane di colore», racconta lo zio Christian Gyamfi, che nel suo Paese fa l’ufficiale dell’Immigrazione, ed esibisce con orgoglio il suo tesserino. Emmanuel scappa, viene preso, buttato per terra, pestato. Gli mettono un ginocchio sulla testa, viene ammanettato e portato sull’auto di servizio. Qui, spiega, lo pestano ancora e gli fanno un occhio nero. Il resto del racconto, Emmanuel lo fa uscendo dalla caserma dei carabinieri di Parma, dove si è recato a mezzogiorno col padre per sporgere denuncia - e da cui, inspiegabilmente, può uscire solo dopo oltre otto ore. «Quando siamo arrivati nella caserma dei vigili sono stato insultato e denudato», dice. Poi si allontana col padre, che scuote la testa: «Quello che è successo è grave e incredibile, perché Parma non è una città razzista. Ora dobbiamo scegliere un avvocato». Forse a bruciare di più è quella busta in cui i vigili hanno messo i documenti del ragazzo. Accanto al nome Emmanuel si legge la parola “negro”.
Accade nella città dove il ministro Maroni e il sindaco Pietro Vignali, erede del civismo moderato di Elvio Ubaldi, hanno tenuto a battesimo la legge che, in materia di sicurezza, dà più potere ai rappresentanti delle amministrazioni locali. Il Comune ha appena sfornato sette ordinanze, ora all’esame del governo, e finisce nella bufera per un’altra brutta storia riguardante la polizia municipale. Solo poche settimane avevano fatto il giro del mondo le foto di una nigeriana morta, ritratta nuda sul pavimento di una cella di sicurezza nella caserma dei vigili urbani. Sul caso di Emmanuel, finito sul sito internet di Repubblica, sono state aperte quattro inchieste: una della Procura, affidata al Pm Roberta Licci, una interna del Comune, una dell’Ufficio governativo che si occupa di discriminazioni e una da Bruxelles. Costantino Monteverdi, assessore alla Sicurezza, non nasconde il suo imbarazzo. «Stamattina ho appreso che i vigili urbani, di cui proprio in quella zona viene lamentata l’assenza , hanno catturato uno spacciatore, e mi sono congratulato col comandante. Poi ho saputo del racconto del ragazzo e ho convocato tutti in Comune». Ma da quando i vigili si occupano di indagini antidroga? «Non se ne occupano, il fermo, mi hanno detto è avvenuto in flagranza di reato».
In realtà uno spacciatore è stato arrestato, proprio nello stesso giardino in cui si trovava Emmanuel. Ma lui che c’entra? In serata arriva un comunicato: «L'Amministrazione intende riaffermare che la difesa della legalità rimane primaria, ma non può essere in alcun modo disgiunta dal rispetto dei diritti inalienabili della persona È necessario fare chiarezza oltre ogni possibile dubbio». Il comandante della Polizia Municipale di Parma, Emma Monguidi, difende invece totalmente l'operato degli agenti: «Non c'è stata nessuna violenza sul giovane. Niente insulti, tanto meno in caserma. Non è mai stato spogliato e l'abbiamo trattato con rispetto, come tutti, al di là del colore della pelle». Poi ammette: «Come da prassi lo abbiamo perquisito: ma solo per verificare che non avesse oggetti per autolesionismo. La scritta “negro” sulla busta? Quella busta era bianca, forse l'ha fatta lui».
l’Unità 1.10.09Fascismi. Il Paese dell’odiodi Clara SereniIeri è successo a Parma, a Emmanuel Bonsu, picchiato da sette vigili urbani per un sospetto, e nel verbale invece del suo nome hanno scritto «negro». È successo nei giorni scorsi a Milano, a Castelvolturno, a Monza, a Cosenza, ancora a Parma, e in tanti luoghi di cui non abbiamo notizia. È successo che gli invisibili - disabili, negri, prostitute, lavoratori in nero di ogni etnia - li vediamo in cronaca, picchiati espulsi uccisi. Ma questo non è un Paese razzista, ci dicono e ci diciamo.
Proviamo a partire da lontano, forse può aiutarci a capire. Nei campi di sterminio nazi-fascisti furono soppressi circa 13 milioni (milioni!) di persone.
Tredici milioni vuol dire un pezzo non irrilevante di popolazione mondiale: ci vogliono Austria e Danimarca sommate insieme, per arrivare a questo numero, o due terzi dei cittadini australiani. Sei milioni circa erano ebrei. Sette milioni circa erano antifascisti e antinazisti, zingari e disabili, omosessuali e comunisti, e perfino coppie di gemelli, un’eccezione della natura particolarmente cara a Mengele, il mostruoso dottor Morte. Tredici milioni di “diversi” per scelta o per destino, accomunati dall’essere considerati meno di niente, un agglomerato di rifiuti, un’immondizia da eliminare, in quanto tali da riciclare per le loro parti preziose: l’oro delle protesi dentarie per farne lingotti, o i grassi umani per farne sapone, tanto per fare qualche esempio. Come le lattine d’alluminio, come il vetro, come la carta. Intorno a quei 13 milioni, un numero così grande da essere quasi inconcepibile, un’Europa cieca e muta.
Ad oggi, e malgrado ogni negazionismo, il nucleo più integrale di razzismo è questo: le persone diventano meno di niente. I diversi prima diventano invisibili, inesistenti, privi di diritti, e solo dopo vengono in un modo o nell’altro (ce ne sono tanti!) eliminati, in un sogno folle ma frequente di omogeneità sociale.
Sono partita da lontano, ma tutto questo ci riguarda: oggi, e non solo per la memoria che qualcuno di noi ancora ne porta. Per alcuni (pochi) decenni l’integrazione delle e fra le diversità è stata il leit-motiv dei movimenti più avanzati: dalla scuola alla psichiatria, dalla religiosità più avanzata all’emigrazione italiana all’estero. Numeri solo un po’ meno milionari anche qui, ma sembrava normale, ed era possibile. «Diverso è bello», si diceva, pur con la coscienza delle difficoltà. Si diceva “integrazione” per significare che senza questo o quel pezzo, questa o quella diversità, il corpo sociale non è intero, è deprivato.
Mi chiedo dove i saperi legati a tutte queste esperienze siano andati a finire. Certo negli insegnanti di sostegno disperati e disperate che (come nella lettera a Cancrini pubblicata di recente su queste pagine) vedono svanire il lavoro di tanti anni grazie alla sbrigativa ministra Gelmini. Certo nei timori di tanti psichiatri, utenti, famigliari, cooperative e associazioni che aspettano con grande preoccupazione i provvedimenti annunciati da Berlusconi nel programma elettorale in tema di trattamenti sanitari obbligatori, questione che porta con sé idee sulla riforma della 180 che non possono che spaventare, tanto più se in coppia con la privatizzazione della salute minacciata in questi giorni. Certo non dimenticano gli appartenenti a tante confessioni, che ancora e ostinatamente cercano l’incontro e il dialogo con l’Altro ma sono ridotti in piccoli gruppi, la cui voce è difficile far sentire. Né dimenticano molteplici strutture della Chiesa cattolica, che su più fronti ha dato conto delle proprie ansie e preoccupazioni. Non dimenticano le operatrici e gli operatori di strada, siano quelli coinvolti nella prostituzione, siano quelli che provano a portare a scuola chi è risucchiato dalle mafie.
Ma il Paese, l’Italia nel suo complesso, ciascuno di noi “normali”, cosa ricorda? E, soprattutto, cosa “vede”? Da ogni parte arrivano richieste perché chi è scomodo diventi anche invisibile: le prostitute non devono più farsi vedere per strada, i disabili se non vanno a scuola è meglio, i matti risultano pericolosi come i magistrati e viceversa, i migranti hanno il dovere di farci vivere meglio e non il diritto di affacciarsi ai diritti, le preghiere dei musulmani vanno bene purché non ingombrino, e via cancellando.
Tutto questo, tutto insieme, è razzismo. E alberga in ciascuno di noi, anche se ci piacerebbe credere che non è così. Ogni volta in cui ci sembra che il singolo problema - disabilità o Islam, colore della pelle o follia - non ci riguardi, e che dunque possiamo tacere, non opporci, non scendere in strada, rinunciare, quella che avanza è l’idea che si possano tagliar via singoli pezzi di società senza che questo sia una perdita per tutti. Il silenzio uccide l’integrazione, uccide gli invisibili, e ci uccide anche dentro.
Così come, quando c’è un vuoto, qualcosa interviene sempre a riempirlo, così nel vuoto di gesti e di parole maturano altri gesti, altre parole. Qualche anno fa, ho studiato gli archivi dell’ufficio per la difesa della razza istituito dal fascismo. Era in gran parte un tremendo elenco di piccole denunce: il tale aveva, in spregio della legge allora vigente, una domestica non ebrea, un altro aveva una radio, strumento anch’esso proibito. Piccole cose, nel piccolo mondo ottuso che dava vita e vigore al fascismo. Piccole e grandi invidie, piccole e grandi paure, piccole e grandi delazioni, il frutto velenoso di egoismi ristretti ha aperto la strada allo sterminio, maturato grazie ad una irresponsabilità e ad un silenzio collettivi. Irresponsabilità e silenzio più gravi in altre parti d’Europa ma che hanno largamente riguardato anche degli italiani, con troppa facilità e continuità messisi al sicuro sotto la coperta calda degli “italiani brava gente”.
Credo che gli italiani siano tuttora, in larga misura, brava gente. Gente con il cuore in mano, soprattutto se il portafoglio è ben custodito. Ma la smemoratezza diffusa a larghe mani, il portafoglio mai come ora in pericolo, i rischi reali e quelli artatamente innescati, il disfacimento progressivo dei legami di solidarietà, la precarietà di una politica incapace di tenere insieme tutti i fili senza farli aggrovigliare, mi fa temere che sempre più siamo e saremo come le famose tre scimmiette: non vedere, non sentire, non parlare, lasciando che qualcun altro se ne occupi, e che gli invisibili affondino nel loro mare (e non solo in senso figurato, come sappiamo). Convinti di salvarci aggrappandoci a privilegi che ci sembrano garantiti e ci fanno sentire al riparo: la cittadinanza, il colore della pelle, la cultura, le disponibilità economiche. Ma nessuno è garantito per sempre, quando i pezzi vanno via senza posa: nel silenzio sempre più cupo alla fine - come scriveva Brecht - entrerò fra gli invisibili anche io, anche tu, e non ci sarà più nessuno a gridare.
Per ricominciare a vedere gli invisibili con occhio partecipe, fuori dal silenzio, per non essere razzisti nel nostro fondo, c’è bisogno di un grande salto culturale, di quelli difficili. C’è bisogno che ciascuno riparta da sé, dalle proprie personali scimmiette. Perché, come diceva don Milani, “mi riguarda” è il contrario di “me ne frego”: concetto da tenere a mente, in questi tempi di fascismo rinascente. Quando si tende a dimenticare che i problemi li abbiamo tutti, ma uscirne ciascuno per proprio conto è egoismo sterile, mentre uscirne tutte e tutti insieme è Politica. Quella con la P maiuscola.
Repubblica 1.10.08Il frutto avvelenato della tolleranza zerodi Curzio MalteseA Parma, nella civile Parma, la polizia municipale ha massacrato di botte un giovane ghanese, Emmanuel Bonsu Foster, e ha scritto sulla sua pratica la spiegazione: "negro". Davano la caccia agli spacciatori e hanno trovato Emmanuel, che non è uno spacciatore, è uno studente. Anzi è uno studente che gli spacciatori li combatte. Stava cominciando a lavorare come volontario in un centro di recupero dei tossici. Ma è bastato che avesse la pelle nera per scatenare il sadismo dei vigili, calci, pugni, sputi al "negro".
Parma è la stessa città dove qualche settimana fa era stata maltrattata, rinchiusa e fotografata come un animale una prostituta africana.
L´ultimo caso di inedito razzismo all´italiana pone due questioni, una limitata e urgente, l´altra più generale. La prima è che non si possono dare troppi poteri ai sindaci. Il decreto Maroni è stato in questo senso una vera sciagura. La classe politica nazionale italiana è mediocre, ma spesso il ceto politico locale è, se possibile, ancora peggio. Delegare ai sindaci una parte di poteri, ha significato in questi mesi assistere a un delirio di norme incivili, al grido di "tolleranza zero". In provincia come nelle metropoli, nella Treviso o nella Verona degli sceriffi leghisti, come nella Roma di Alemanno e nella Milano della Moratti. A Parma il sindaco Pietro Vignali, una vittima della cattiva televisione, ha firmato ordinanze contro chiunque, prostitute e clienti, accattoni e fumatori (all´aperto!), ragazzi colpevoli di festeggiare per strada. Si è insomma segnalato, nel suo piccolo, nel grande sport nazionale: la caccia al povero cristo. Sarà il caso di ricordare a questi sceriffi che nella classifica dei problemi delle città italiane la sicurezza legata all´immigrazione non figura neppure nei primi dieci posti. I problemi delle metropoli italiane, confrontate al resto d´Europa, sono l´inquinamento, gli abusi edilizi, le buche nelle strade, la pessima qualità dei servizi, il conseguente e drammatico crollo di presenze turistiche eccetera eccetera. Oltre naturalmente alla penetrazione dell´economia mafiosa, da Palermo ad Aosta, passando per l´Emilia.
I sindaci incompetenti non sanno offrire risposte e quindi si concentrano sui "negri". Nella speranza, purtroppo fondata, di raccogliere con meno fatica più consensi. Di questo passo, creeranno loro stessi l´emergenza che fingono di voler risolvere. Provocazioni e violenze continue non possono che evocare una reazione altrettanto intollerante da parte delle comunità di migranti. Al funerale di Abdoul, il ragazzo ucciso a Cernusco sul Naviglio non c´erano italiani per testimoniare solidarietà. A parte un grande artista di teatro, Pippo Del Bono, che ha filmato la rabbia plumbea di amici e parenti. La guerra agli immigrati è una delle tante guerre tragiche e idiote che non avremmo voluto. Ma una volta dichiarata, bisogna aspettarsi una reazione del "nemico".
L´altra questione è più generale, è il clima culturale in cui sta scivolando il Paese, senza quasi accorgersene. Nel momento stesso in cui si riscrive la storia delle leggi razziali, nell´urgenza di rivalutare il fascismo, si testimonia quanto il razzismo sia una malapianta nostrana. L´Italia è l´unica nazione civile in cui nei titoli di giornali si usa ancora specificare la provenienza soltanto per i delinquenti stranieri: rapinatore slavo, spacciatore marocchino, violentatore rumeno. Poiché oltre il novanta per cento degli stupri, per fare un esempio, sono compiuti da italiani, diventa difficile credere a una forzatura dovuta all´emergenza. L´altra sera, da Vespa, tutti gli ospiti italiani cercavano di convincere il testimone del delitto di Perugia che "nessuno ce l´aveva con lui perché era negro". Negro? Si può ascoltare questo termine per tutta la sera da una tv pubblica occidentale? Non lo eravamo e stiamo diventando un paese razzista. Così almeno gli italiani vengono ormai percepiti all´estero.
Forse non è vero. Forse la caccia allo straniero è soltanto un effetto collaterale dell´immensa paura che gli italiani povano da vent´anni davanti al fenomeno della globalizzazione. La paura e, perché no?, la vergogna si sentirsi inadeguati di fronte ai grandi cambiamenti, che si traduce nel più facile e abietto dei sentimenti, l´odio per il diverso. La nostalgia ridicola di un passato dove eravamo tutti italiani e potevamo quindi odiarci fra di noi. In questo clima culturale miserabile perfino un sindaco di provincia o un vigile di periferia si sentono depositari di un potere di vita o di morte su un "negro".
Repubblica 1.10.08Leggi razzialiL’eterno ritono dei cattivi maestridi Adriano ProsperiI bellissimi diari di un partigiano ebreo, Emanuele Artom torturato dai militi della RSI
Le memorie di quegli anni parlano di una vistosa assenza di reazioni
Settant´anni fa il regime fascista varava la legislazione antisemita orribile preludio dei campi di sterminio
All´appuntamento col settimo decennale delle leggi razziali - ma sarebbe meglio chiamarle col loro vero nome, leggi razziste - l´Italia, il suo governo, la sua scuola, ma anche larga parte della sua popolazione si presentano più distratti del solito, il che non è poco. Sono gli eredi politici del regime fascista, oggi al governo in Italia, che ne parlano. Lo fanno ricorrendo a un linguaggio di sapore religioso: si chiedono, col sindaco di Roma Alemanno, se quelle leggi furono il male assoluto. Il veleno dell´argomento è scoperto, ingenuo.
«Assoluto» è una parola che appartiene al linguaggio apocalittico dell´ideologia nazista. Così quelle leggi vanno sul conto del razzismo nazista e il regime fascista è assolto da ogni colpa. La tendenza italica all´autoassoluzione è antica e ben nota. Ma è necessario fare i conti con le leggi razziste che operarono nell´Italia di Mussolini dal 1938 al 1945. In questo settantesimo anniversario spinge a ricordarle non la minaccia di un ritorno dell´antisemitismo e nemmeno quel razzismo volgare che oggi in Italia è prodotto e alimentato dalla paura dello straniero, dell´immigrato: si tratta piuttosto di capire che cosa significarono allora quelle leggi nel mondo della scuola e nella cultura religiosa italiana. La ragione è semplice: le memorie di quegli anni parlano di una assenza di reazioni proprio nei luoghi che dovevano esserne più direttamente colpiti e più capaci di reazione - quelli della scuola e quelli della Chiesa. Oggi è sul fronte della scuola e su quello della integrazione fra culture e religioni diverse che il disagio della società italiana è più forte. E la mancata elaborazione di quel passato ne è insieme sintomo e causa.
Lo stato della memoria della cosiddetta società civile è quello che è. «Priebke? Boh!»: così hanno reagito qualche giorno fa le candidate a un premio di bellezza in quel di Frosinone, a poca distanza dalle Fosse Ardeatine, dove qualcuno ha avuto l´idea di invitare come testimonial quella cariatide di assassino nazista. Idea in sé non nuova - lo sanno bene i «mostri» della cronaca nera - se non fosse che i criminali di guerra sono vecchi e soprattutto ignoti ai più. Altro che memoria divisa. Il fiume di un´opinione pubblica politicamente indifferente e infastidita dalle dispute ideologiche li ha cancellati.
La stagione della post-politica perfeziona così la mancata resa dei conti col proprio passato con cui l´Italia ufficiale chiuse tra parentesi il fascismo. E ritorna in auge l´immagine negativa della politica e dei politici di mestiere, simile in apparenza soltanto a quella instillata dalla propaganda del ventennio fascista. Allora nella deliberata ignoranza e rifiuto della politica le menti più lucide videro il prodotto e la radice stessa del fascismo italiano. Lo testimoniano i bellissimi Diari di un partigiano ebreo di Emanuele Artom (editi da Guri Schwarz per Bollati Boringhieri). Emanuele Artom fu fatto prigioniero e ucciso dopo atroci torture dai militi della RSI - quelli per i quali si osa oggi chiedere parità di onore pubblico con le loro vittime. Il suo è uno dei nomi che quelle leggi cancellarono dal mondo degli studi e della scuola. Accanto al suo ci sarebbero tanti altri nomi da ricordare. Ma il fatto su cui si deve tornare a riflettere è l´importanza della scuola per l´attuazione delle leggi del 1938. Qui il regime fascista fu più rapido e più duro di quel nazismo di cui lo si vorrebbe un passivo imitatore in materia di razzismo, un succubo, un ingenuo scolaro traviato da cattivi compagni. L´espulsione degli studenti ebrei dalle scuole pubbliche reca la data del 5 settembre 1938 col Regio decreto n. 1390: «Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola». Come ha fatto presente Michele Sarfatti, a Berlino la stessa misura fu presa solo due mesi e mezzo più tardi. Ne fu attore primario Giuseppe Bottai ministro di quella che si chiamava allora l´Educazione Nazionale. Fu lui a far sì che le scuole si riaprissero cancellando studenti e professori ebrei e libri di testo di autori ebrei. Spirito religioso, quel Bottai: il carteggio che intrecciò con don Giuseppe De Luca ha accenti di grande devozione. Sotto di lui la struttura burocratica e la catena di comando della scuola dettero prova di una durezza e di un´efficienza insolite.
Quando le scuole si riaprirono, gli studenti definiti ebrei da quelle leggi erano scomparsi e così pure i professori. Dov´erano finiti? E soprattutto: qualcuno se lo chiese? Oggi le carte di polizia ci permettono di ricostruire i percorsi degli scomparsi. E anche in questo caso l´efficienza dimostrata allora da un paese noto per la sua sciatteria istituzionale desta stupore.
Le spie che si incollarono al professor Paul Oskar Kristeller ne annotarono ogni passo. Elenchi di nomi e cognomi ebraici preparati da tempo permisero di seguire i movimenti delle persone. Quando venne il momento della deportazione nei lager, si fu in grado di rintracciare e chiudere nelle carceri fiorentine di Santa Verdiana la professoressa Enrica Calabresi, studiosa di scienze naturali cacciata dall´università in esecuzione del decreto del 5 settembre 1938: e solo la fiala di solfuro di zinco che la professoressa portava con sé le offrì una via d´uscita prima di salire sul treno per Auschwitz.
Con la scuola va insieme la religione: il linguaggio del razzismo fascista, profondamente diverso da quello nazista, esaltava la superiore spiritualità della «razza italiana». Era un´ambigua mistura di fumisterie idealistiche e di termini religiosi. Quanto contribuì quel linguaggio a oscurare la coscienza della realtà delle cose? Che cosa era la religione che si insegnava nelle scuole italiane dopo il Concordato del ?29? Qui non si tratta solo di misurare la timidezza e l´unilateralità delle reazioni ufficiali delle autorità centrali della Chiesa cattolica, che si preoccupò solo per la legislazione sui matrimoni misti e bloccò la protesta preparata dal defunto papa Pio XI. Si tratta di capire quanto pesasse allora nella cultura scolastica e nella vita sociale l´antica, plurisecolare tradizione di diffamazione degli ebrei e dell´ebraismo portata avanti dal magistero della Chiesa e diffusa dall´alto attraverso i veicoli della capillare presenza ecclesiastica in Italia. Bisogna tornare a scavare in questo passato italiano. Bisogna che quel che se ne sa diventi patrimonio comune.
E per questo è necessario ma non sufficiente che sia chiusa per sempre la porta ai tentativi di rilegittimare il fascismo. Bisogna che la scuola pubblica sia attrezzata come si deve nei confronti dell´intolleranza e dell´ignoranza religiosa e culturale. Oggi il linguaggio senza tempo delle pretese vaticane rivendica nuovi privilegi per le scuole cattoliche. Eppure la scuola pubblica ospita un insegnamento della religione pagato dallo Stato e gestito dai vescovi che di fatto cancella la parità dei diritti costituzionali e tende a vaccinare i giovani contro ogni pluralismo culturale e religioso.
Il fatto che oggi in Italia non siano gli ebrei a essere minacciati più direttamente dall´intolleranza niente toglie all´urgenza del problema. Il passato può insegnare qualcosa. E la scuola pubblica merita che vi si investano tutti i pensieri di un paese che vuole avere un futuro. «Se si pensa a com´è disarmata la giovinezza, - diceva Cesare Garboli - e a com´è fragile davanti ai cattivi maestri... ».
l’Unità 1.10.09MigrantiIl lager di Kufra, una vergogna per l’ItaliaFa scandalo - e come non potrebbe, la denuncia sul campo-lager di Kufra, lì dove verrebbero trattenuti (e torturati) i migranti. Ieri il Pd, per iniziativa del senatore Alberto Maritati, ha presentato un’interrogazione firmata da 25 colleghi al Presidente del consiglio e al ministro degli Esteri, ricordando l’articolo dell’Unità sul documentario di Andrea Segre e Dagmawi Yimer, «Come un uomo sulla terra». È la storia di un migrante, il suo peregrinare da Addis Abeba a Kufra, un lager per chi vuol emigrare in Europa e in Italia. Poiché, è scritto nell’interrogazione «le condizioni in cui vengono trattenuti sono di una pesantezza disumana, in modo particolare per le donne» e che «che nello stesso documentario si sostiene che imprecisate autorità italiane sono state in visita a Kufra e avrebbero quindi dovuto vedere l’orrendo trattamento inflitto agli sfortunati cittadini provenienti da diverse regioni africane» si vuol sapere con urgenza «se il nostro Governo è a conoscenza dell’esistenza del campo di detenzione nella libica Kufra, se negli accordi con l’obbligo per l’Italia di versare somme in favore del Governo libico per il controllo dell’immigrazione, sia stato chiesto di fermare in appositi campi detenuti in transito, o se vi siano altri accordi sul trattamento degli immigrati che attendono di attraversare il Mediterraneo, se l’Italia sia coinvolta, in qualsiasi modo, da sola o con altri Paesi europei, nella costruzione e/o nel finanziamento di campi per immigrati a Kufra o altrove in Libia».
l’Unità 1.10.09Testamento biologicoIl momento della leggedi Luigi ManconiOggi, in commissione Sanità del Senato, inizia la discussione sul Testamento biologico. Il quadro del confronto si presenta assai difficile, e non da ora. Da oltre un decennio, da quando presentammo la prima proposta di legge in materia, una domanda molto semplice attende risposta: perché mai se un adulto consapevole può rifiutare un trapianto di organo, anche quando esso può salvargli la vita, quello stesso adulto consapevole non può dichiarare il proprio rifiuto di alimentazione e idratazione artificiali per il tempo nel quale non fosse più nel pieno possesso delle proprie capacità?
È un interrogativo al quale sfuggono - con pochissime eccezioni - i parlamentari del centrodestra e, ancor prima, teologi moralisti e gerarchie ecclesiali e, infine, il presidente della Conferenza Episcopale Italiana monsignor Angelo Bagnasco.
Eppure, proprio intorno a quel quesito e alla difficoltà, forse impossibilità, di trovare risposte condivise si gioca il conflitto politico-parlamentare in materia di dichiarazioni anticipate di volontà. E la situazione oggi appare particolarmente ardua, dopo che la prolusione di monsignor Bagnasco aveva indotto a frettolose valutazioni positive.
In effetti, quelle parole rivelano come la Chiesa sia infine consapevole che sulle questioni di “fine vita”, anche in Italia, si debba rispondere a due domande fondamentali: il riconoscimento di quel bisogno irriducibile di autodeterminazione sulle scelte relative alla propria sfera personale, che si manifesta oggi in particolare sui temi del nascere e del morire; l’esigenza di tutela del proprio corpo e del proprio percorso esistenziale rispetto all’onnipotenza, non sempre conosciuta e raramente controllabile, delle biotecnologie. La Chiesa ammette che queste domande implicano tutele giuridiche; ma, ancora una volta, reagisce con una prudenza che, per un verso, rivela angoscia, se non paura, per la volontà/capacità di autonomia e di libera scelta dell’individuo e, per altro verso, segnala un atteggiamento svalutativo nei confronti del senso di responsabilità personale, che vorrebbe sempre e comunque sottoposto ad autorità esterne.
Eppure la posta in gioco è limpida: in ultima istanza, non può essere altro che la volontà individuale - adeguatamente informata, sempre suscettibile di ripensamento, costantemente assistita dal rapporto terapeutico e, quando possibile, da una rete di relazioni famigliari e sociali - ad assumere la decisione. Non è solo la carta costituzionale, la convenzione di Oviedo, tutte le dichiarazioni internazionali e l’intera giurisprudenza italiana ad affermarlo. È, innanzitutto, il buon senso: in presenza di una controversia tra paziente e medico, perché mai dovrebbe essere la decisone di quest’ultimo a prevalere? Il medico che, in scienza e coscienza, formula una valutazione diversa da quella affermata dal paziente, può ricorrere all’obiezione di coscienza: ma non può, certo, disubbidire. Lascia stupefatti, pertanto, quanto affermato da monsignor Elio Sgreccia, teologo bioeticista, particolarmente ascoltato in Vaticano: il medico «deve disubbidire» (intervista al Corriere della Sera del 23 settembre 2008). Ciò risulta in aperto contrasto con l’articolo 38 del codice deontologico dei medici, dove si legge: «il medico deve attenersi, nell’ambito della autonomia e indipendenza che caratterizza la professione, alla volontà liberamente espressa della persona di curarsi e deve agire nel rispetto della dignità, della libertà e autonomia della stessa». Non solo: «il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, deve tenere conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato». Ma Elio Sgreccia, in realtà, ha voluto - esplicitamente, direi - mettere “sotto controllo” il presidente della Cei. Non a caso, in quell’intervista, ha spiegato acribiosamente che «un Testamento biologico non è incluso nella legge di cui parla il cardinale Bagnasco»; e vanno esclusi «con o senza dichiarazioni anticipate, i testamenti di vita». Ancor più autorevolmente, il predecessore di Bagnasco, monsignor Camillo Ruini critica il «relativismo soggettivista», che affiderebbe «alla volontà del singolo ammalato, o di altre persone, la decisione di produrre la morte». Ma, subito dopo, Ruini sostiene con forza il «dovere di motivare il paziente, attraverso strumenti non coercitivi, alla tutela della propria salute, con tutti i mezzi proporzionati» (Avvenire del 25 settembre 2008). Giustissimo, ma se quella opera di “motivazione” si rivelasse insufficiente, a chi spetta la decisione sulla sospensione delle cure? Ancora una volta, sarà il paziente - e chi altri mai - a decidere su di sé. Resta il fatto che sulla questione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali le posizioni della gerarchia risultano immobili e immutabili; e che, pertanto, un pronunciamento morale («varare, si spera col concorso più ampio, una legge sul fine vita») si è tradotto in una valutazione di ordine scientifico-sanitario, del tutto impropria («trattamenti di sostegno vitale, qualitativamente diversi dalle terapie sanitarie»): ancor più immotivata se confrontata con l’affermazione di Maurizio Muscaritoli, presidente della Società italiana di nutrizione artificiale e metabolismo: «nutrizione ed idratazione artificiali vanno considerate trattamenti medici da non somministrare se non di beneficio per il paziente, indipendentemente dal suo stato di coscienza».
Perché mai una affermazione così netta, espressione di criteri esclusivamente scientifici, deve essere messa in dubbio da un giudizio di natura etica e di ispirazione religiosa, quale quello del presidente della Conferenza Episcopale Italiana? Ma quel che è peggio è che quel monito morale viene fatto proprio (come un sol uomo: è il caso di dire) da tutto il centrodestra. Il quale centrodestra, immarcescibilmente imperturbabile davanti alla sorte di Eluana Englaro per sedici anni, ora la evoca solo per negarle quanto lei stessa chiedeva, quand’era cosciente, e quanto ora chiedono disperatamente i suoi famigliari. Il risultato è, temo, il peggiore: una legge sul Testamento biologico potrebbe essere varata, ma tale da costituire un pesantissimo passo indietro. Come già accaduto a proposito della fecondazione assistita, il vuoto legislativo rischia di essere colmato da un cattivo pieno: che nega la volontà del soggetto e il suo diritto all’autodeterminazione proprio in riferimento alla sua sfera più intima e delicata.
Sia chiaro. Tutto ciò - checché ne dicano Sgreccia e Bagnasco - non ha nulla a che vedere con l’eutanasia, che resta inequivocabilmente altra cosa, e che non riguarda il “lasciar morire” e il “lasciarsi morire”: ma implica un intervento attivo e determinante, finalizzato a interrompere una vita. Ma ha ragione Concita De Gregorio quando, nel suo articolo di domenica scorsa, scrive: «l’eutanasia, in Italia, esiste già. Lo sanno bene tutti: i medici e i pazienti, le famiglie a cui è toccato e tocca il dolore di star vicino a chi se ne sta andando o se ne è andato già ma non può morire davvero». Sì, è esattamente così. Ma per una combinazione miserevole di codardia e ipocrisia, di virtù fattasi integralismo e di altruismo trasceso in fanatismo, lo si nega.
Eppure la conferma viene dalle fonti più insospettabili, come una ricerca scientifica curata, tra gli altri, da Adriano Pessina, direttore del centro di bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, il più inflessibile e intransigente difensore della “vita dal concepimento alla morte naturale”. In quella ricerca, pubblicata nel 2003, si legge che il 3,6% dei medici intervistati «ha ammesso di aver talvolta somministrato deliberatamente dosi letali di farmaci» a malati terminali, affetti da sofferenze non lenibili; e che, «tale comportamento viene considerato eticamente accettabile dal 15,8% di quel campione di medici».
Corriere della Sera 1.10.08I sentimenti visti da una donna islamicaSe Oriente e Occidente rifiutano l'amoredi Isabella Bossi FedrigottiHa l'occhio soprattutto rivolto al passato, la scrittrice marocchina Fatema Mernissi, quando racconta dell'amore nel mondo islamico. Ne Le 51 parole dell'amore (ripubblicato in questi giorni con una nuova introduzione) ripercorre infatti la grande tradizione araba antica dei poeti, dei letterati, dei filosofi che cantarono passione e seduzione con estrema libertà. L'amore narrato, insomma, come una specie di paradiso terrestre, dove le donne non erano affatto sottomesse, bensì ascoltate e rispettate quando non anche obbedite, dove i matrimoni combinati non erano affatto la regola, dove si parlava di innamoramento non come di una cosa buona al massimo per gli adolescenti, ma di un prezioso miracolo da gridare ai quattro venti.
Ed è questo ciò che la Mernissi in particolare rimpiange, l'antico piacere di parlare pubblicamente dei sentimenti, oggi quasi completamente perduto, in verità non soltanto nel mondo arabo: nel pudico — o cinico — rifiuto del discorso amoroso Oriente e Occidente sono più o meno alla pari.
Di ciò che nel rapporto tra i sessi succede oggi nell'Islam, l'autrice parla invece assai meno e se anche è ovvio che le infauste notizie riportate dalla cronaca mostrano soltanto un aspetto della questione, nell'insieme la situazione — soprattutto in alcuni Paesi — non sembra così rosea come potrebbero far immaginare i liberi scritti della tradizione. Scritti che, peraltro, non trovano molti corrispettivi nell'antica letteratura occidentale segnata com'era dalla sessuofobia cristiana: del resto non è un caso che le
Mille e una notte andassero in scena a Bagdad e non a Roma o a Parigi.
FATEMA MERNISSI Le 51 parole dell'amore GIUNTI PP. 245, e 12,50
Corriere della Sera 1.10.08Un ricordo di Leonardo AnconaLo psicoanalista che saprà vincere i divieti di Gemelli e otterrà il plauso di Paolo VILa sintesi riuscita tra fede e psichedi Marco GarzonioLa vicenda umana di Leonardo Ancona, primo e famoso psicoanalista dichiaratamente cattolico, scomparso da poco, può essere vista come spaccato straordinario dell'evoluzione nei rapporti tra psicologia del profondo e Chiesa e, attraverso gli scontri-incontri di cui lui stesso è stato protagonista, degli alti e bassi tra Chiesa e cultura, libertà e fede, spirito di ricerca e sacro. Ancona fu allievo di padre Gemelli, fondatore dell'Università Cattolica. Un personaggio, Gemelli, si sa: creò un'apprezzabile scuola di psicologia sperimentale in opposizione alle ricerche sull'inconscio; scrisse libelli contro Freud e Jung; negli Anni Trenta ostacolò il progetto editoriale di Montini, De Luca e Minelli per creare un ponte con autori non cattolici anche attraverso il filtro della psicoanalisi; ridusse al silenzio giovani studiosi (come il futuro cardinale di Milano Giovanni Colombo) che osarono scrivere di Freud.
In linea col maestro e di questi allora «succube», Ancona a metà Anni Cinquanta giudica la psicoanalisi «un coacervo di assunzioni temibili per la moralità e la dignità dell'uomo». Usa toni e argomenti tali che Musatti gli toglierà la parola al congresso degli psicologi del 1954. È un clima generale di scontro. La cultura cattolica ufficiale sta sulla difensiva. Sogni e loro interpretazioni sono banditi; sottoporsi ad analisi equivale a «peccato mortale»; Turoldo che fa tradurre Dio e l'inconscio
di padre White (con prefazione di Jung nell'originale) è il disubbidiente. Al divieto è simmetrica l'attrazione per la trasgressione, però. Tempi della storia e vicende personali s'incrociano. Ancona ottiene una borsa di studio a Montreal, dove c'è Mailloux, domenicano e psicoanalista. Lavorerà con lui e ucciderà simbolicamente il padre, Gemelli, che gli aveva ingiunto «non ti lascerai analizzare!».
È l'anno accademico 1957-58. A Pio XII sta per succedere papa Giovanni. Il giovane studioso si è «convertito» alla fede nell'inconscio senza rinnegare quella cattolica (per lui era «leggenda metropolitana» la «contrapposizione tra fede religiosa e psicoanalisi ») e vede corrispondere una «nuova primavera» nei rapporti tra Chiesa e psicologia del profondo. Nella Gaudium et spes, la costituzione conciliare sui rapporti tra Chiesa e mondo, l'Assise Ecumenica sancirà che «la psicologia dà all'uomo la possibilità di una migliore conoscenza di sé». Di fatto resistenze, diffidenze, ostilità restano forti. Nella Chiesa finiscono per convivere due anime. Paolo VI tenderà le braccia ad Ancona nel 1967: lo incoraggia a promuovere l'incontro tra religione e psicoanalisi. Dirà pubblicamente il papa nel 1974: «Abbiamo stima di questa ormai celebre corrente di studi antropologici ». Ma nella pubblicistica cattolica lo studioso è definito con un linguaggio che colpisce: «Pagato con i soldi della Chiesa e traditore di Cristo». Più soft, il cardinale Felici, che in epoca preconciliare aveva indicato come «colpa grave» la pratica psicoanalitica, confiderà ad Ancona stesso: «Oggi non lo scriverei più, ma penso sempre allo stesso modo».
Così il cammino dello studioso, che riesce a conservare la Cattedra di Psichiatria, procede tra sostegni, diffidenze e boicottaggi anche da parte delle autorità accademiche, avvicinamenti proficui con altre scuole (Ancona farà analisi anche con Matte Blanco) e contrasti con la psicoanalisi italiana ufficiale. Un dramma personale e di studioso.
Negli anni '70 e '90 fiorisce la produzione scientifica di Ancona. Tra i cattolici, finalmente, hanno trovato cittadinanza letture di eventi secondo dinamiche inconsce, un «pensare psicologicamente», attenzione per immagini e simboli. Affidarsi alle vertigini della ricerca non è tabù, né oggetto di scomunica (almeno esplicita e formale!). Ma restano ancora da scandagliare le potenzialità degli incontri-scontri. Ancona lo sapeva e lo scrisse pochi anni fa in un libro, che è autobiografia e testamento magisteriale:
La mia vita e la psicoanalisi
(edizioni Magi). Lui era ottimista e aveva fiducia nell'autonomia, nella responsabilizzazione, nella libertà, nell'attitudine critica quali aiuti alla fede stessa. Sapeva che le istituzioni guardano tali conquiste con sospetto e preoccupazione. Ma le remore non furono sufficienti a fermarlo.
Repubblica 1.10.08Il diritto e la dignitàdi Stefano RodotàSulla copertina del primo numero del 2007 della rivista Time, dedicato secondo tradizione alla "persona dell´anno", compariva a grandi lettere la parola "You". Era dunque la sterminata platea degli individui ad essere eletta a protagonista. Ciascuno, però, nella sua irripetibile singolarità, perché in quella copertina era inserito un materiale riflettente che consentiva a chiunque la guardasse di riconoscersi come in uno specchio. Il mondo sei tu.
Ma, osservando meglio, quello specchio si rivelava come lo schermo di un computer, disegnato sulla copertina sopra la parola "You". Il messaggio assumeva così un particolare significato. Ti riconosco come persona dell´anno perché ormai sei entrato a far parte di quell´apparato tecnologico. L´ordine uomo-macchina è rovesciato. Sei protagonista, e forse signore dell´ambiente che ti circonda, solo se ti fai macchina tu stesso, se in definitiva diventi una componente di quell´apparato.
Attraversiamo l´Atlantico e approdiamo, un anno dopo, in Germania, dove la Corte costituzionale, alla fine del febbraio 2008 decide sull´articolo di una legge che autorizzava la "perquisizione" dei personal computer da parte delle autorità di polizia, per investigarne i contenuti anche all´insaputa dell´interessato. I giudici tedeschi hanno dichiarato incostituzionale quella norma. Affermando che esiste un nuovo diritto fondamentale della personalità, che consiste nella "libertà e riservatezza dell´apparato informativo" di cui ciascuno dispone.
L´impostazione di Time viene completamente rovesciata. È l´umano che ingloba in sé la macchina, non il contrario, e il diritto ne riafferma la priorità. Ma ci dice soprattutto che nel mondo esiste una nuova entità, e così ci consegna una nuova antropologia. Una versione tecnologicamente aggiornata dell´homme machine, unica via per riconciliarlo con gli apparati tecnici che progressivamente lo accompagnano, lo ristrutturano, lo invadono?
Ma l´immagine che, nel modo più eloquente, ci introduce in questa dimensione è forse quella di Oscar Pistorius, un corridore sudafricano che, privo della parte inferiore delle gambe, le ha sostituite con impianti in fibra di carbonio e si è visto riconoscere il diritto di partecipare alle Olimpiadi. Cade così la barriera tra "normodotati" e portatori di protesi, e anzi si prospetta una nuova nozione di normalità, che non è più soltanto quella naturalmente determinata, ma pure quella artificialmente costruita.
Prendendo spunto proprio dalla conclusione di questa vicenda, un´altra atleta paraolimpica, Aimée Mullins, ha affermato che "modificare il proprio corpo con la tecnologia non è un vantaggio, ma un diritto. Sia per chi fa sport a livello professionistico che per l´uomo comune". La nuova dimensione dell´umano esige una nuova misura giuridica, che dilata l´ambito dei diritti fondamentali della persona. E al diritto viene affidato il compito di garantire la più ampia e paritaria possibilità di accesso alle opportunità crescenti offerte dall´innovazione scientifica e tecnologica. Due grandi principi s´incontrano e si intrecciano. Quello di dignità, che si manifesta come il criterio di valutazione delle modalità e degli esiti della costruzione artificiale del corpo. E quello dell´eguaglianza che, una volta riconosciuta la legittimità della specifica costruzione artificiale, deve evitare che da ciò possano nascere discriminazioni, sia nella fase dell´accesso, sia in quella successiva della vita della persona che ha utilizzato gli impianti tecnologici.
Altre immagini ci accompagnano, quotidiane e inquietanti. Il braccialetto al piede del detenuto agli arresti domiciliari, ma anche al polso dell´anziano per fornirgli assistenza; il "computer indossabile" al polso dei lavoratori, perché l´imprenditore possa "guidarlo" da lontano; i microchip sotto la pelle leggibili con la tecnologia delle radiofrequenze. Qui la mutazione dell´umano è evidente, e la prima riflessione riguarda la trasformazione della persona in oggetto continuamente controllabile a distanza, come un Tir o la mucca d´un grande gregge. Di nuovo, davanti a noi sono mutamenti che toccano l´antropologia stessa delle persone. Siamo di fronte a slittamenti progressivi: dalla persona "scrutata" attraverso la videosorveglianza e le tecniche biometriche si può passare ad una persona "modificata" dall´inserimento di chip ed etichette "intelligenti", in un contesto che sempre più nettamente ci individua appunto come "networked persons", persone perennemente in rete, via via configurate in modo da emettere e ricevere impulsi che consentono di rintracciare e ricostruire movimenti, abitudini, contatti, modificando così senso e contenuti dell´autonomia delle persone.
Che cosa è divenuta l´umanità dei molti lavoratori ai quali è già stato imposto di portare al polso un piccolo computer, che consente all´imprenditore di dirigere via satellite il loro lavoro, indirizzarli verso i prodotti da prelevare, indicare i percorsi da seguire e le attività da svolgere, controllare ogni loro movimento, individuare in ogni momento dove si trovano, in sintesi di controllarli implacabilmente? Le conclusioni di una ricerca inglese sono state nette: così si trasformano i luoghi di lavoro in "battery farms", si creano le condizioni di una "prison surveillance". Siamo di fronte ad un Panopticon su scala ridotta, che tuttavia anticipa e annuncia la possibilità di diffondere su scala sempre maggiore queste forme di sorveglianza sociale. Ma che cosa diventa una società nella quale è normale che cresca il numero delle persone "tagged and tracked", etichettate e perennemente seguite?
Le risposte a questi interrogativi devono venire anche dal diritto, dunque da principi e regole. Il rispetto della dignità in primo luogo, che impone di non ridurre la persona ad oggetto, giungendo così a quella "degradazione dell´individuo" più volte richiamata dai giudici costituzionali italiani. Ma la dignità è anche misura della logica economica: dotare gli anziani di strumenti di controllo a distanza, per meglio salvaguardarne la salute, non può trasformarsi in abbandono sociale, considerando la tecnologia un mezzo meno costoso delle visite domiciliari. E il rispetto dell´autonomia della persona, dunque il diritto di decidere liberamente sul se e come utilizzare i nuovi strumenti. E l´eguaglianza nell´accesso alle opportunità grandi offerte dall´innovazione scientifica e tecnologica.
Il vero problema culturale e istituzionale è quello di valutare fino a che punto si è di fronte a vere discontinuità, che segnano un congedo da un altro mondo, e dove, invece, è possibile e necessario mantenere una continuità che consenta quel trascendere dell´umano di cui parlava Julian Huxley, impedendo così la nascita di un "doppio standard" nella considerazione dell´umano e del post-umano. Si manifesta la preoccupazione di chi segnala il rischio di una svalutazione dell´umano per effetto di una percezione del post-umano come portatore di un valore più forte, aprendo la via ad un conflitto, addirittura ad una "guerra", tra umani e post-umani. Un conflitto, evidentemente, che nasce sul terreno dei valori di riferimento e che può essere evitato solo se si ha la capacità di mantenere fermi, e di proiettare nel futuro, i principi prima ricordati di dignità, eguaglianza, autonomia.
Ma l´umano non è sfidato solo dalla tecnoscienza. Viene negato e violato nella vita d´ogni giorno. Dobbiamo sempre chiederci, seguendo Primo Levi, "se questo è un uomo" davanti all´immagine terribile di uomini che, lungo "il cammino della speranza" verso terre che pensano accoglienti, cercano di sopravvivere in mare attaccati ad una tonnara; davanti al bambino rom sbattuto sulla copertina di un settimanale e etichettato con le parole "Nato per rubare"; davanti alle foto dei torturati di Abu Ghraib; davanti alle manifestazioni di disprezzo razzista verso l´"altro"; davanti ai fondamentalismi che cancellano la stessa identità femminile. A questo inumano il diritto cerca di opporre i suoi strumenti, troppe volte ignorati. E spesso i giuristi sono "senza cuore". E i politici sono distratti o "realisti". E´ compito di ciascuno di noi salvaguardare l´umano dal quale non possiamo separarci.
(L´articolo è una sintesi della lezione tenuta da al Festival del diritto di Piacenza, intitolata "Umano, poco umano")
Repubblica 1.10.08Il decreto Tremonti mette in ginocchio il quotidiano. Martedì evento per la raccolta fondi. E i lettori organizzano cene e pic-nicUn giorno al "manifesto" sull´orlo del baratro "Non lasciateci soli". E Celentano li sostienedi Alessandra LongoParlato: ci servono 4 milioni per salvarci dalla morte, questa è la crisi più difficile
ROMA - Potrebbero chiudere, potrebbero fallire, «anche domani», se solo i numerosi creditori decidessero che ne hanno abbastanza, che rivogliono i loro soldi, subito. Al «manifesto» lo sanno di essere ad un passo dal burrone. Il giornale esce con un simbolico lucchetto che imprigiona una lettera della testata. Non è come le altre volte, non è la solita ciclica difficoltà, è una faccenda molto più seria. Il decreto Tremonti, cancellando il diritto soggettivo ai contributi diretti per i giornali cooperativi, non profit e di partito, taglia le gambe ad ogni sogno, ad ogni progettualità e pone una questione di fondo, di democrazia, che va oltre le logiche individuali d´azienda.
Mancano quattro milioni di euro. Se lo Stato non li dà, bisogna comunque trovarli. La sottoscrizione è partita ed è una corsa contro il tempo: «Quattro milioni per salvarci dalla morte, organizzarci la vita, arrivare al punto di pareggio, a quelle trentamila copie che servono a stare sul mercato», dice Valentino Parlato. Lui, che ha vissuto tutti gli alti e bassi del quotidiano, assicura: «Questa è la crisi più difficile, la peggiore di tutte». La nuova redazione di via Bargoni, anonima e funzionale, affaccia sugli striscioni anti-Gelmini appesi alle cancellate di una scuola elementare, il clima è più di battaglia che di rassegnazione. Qui lavora gente, 60 giornalisti e trenta tecnici, che non prende lo stipendio da tre mesi ma non molla. Gabriele Polo, il direttore, ha in mano il cd con lo spot salva-vita che da oggi apre il sito online del manifesto e apparirà su diversi quotidiani. Una richiesta di aiuto: «Fateci uscire, non lasciateci soli, sottoscrivete».
Non lasciateci soli. Non c´è spocchia in questo collettivo di lavoro, accusato, in passato, di un certo approccio settario con il resto del mondo. C´è, piuttosto, una sfida da dividere con altri colleghi di altre testate piccole e povere, con tutti i lettori «che hanno a cuore il pluralismo» e temono il pensiero unico. Per martedì prossimo, al Circolo degli artisti di Roma, «il manifesto» ha organizzato un evento, «parole e musica», in difesa della «cara libertà». Aprirà un video di Maurizio Crozza, chiuderà una cena. Raccolta fondi, battaglia politica, anche in leggerezza. Come leggeri e ironici sono gli epigrammi di Tommaso Di Francesco che, in un libro, prende affettuosamente di mira i colleghi. Mariuccia Ciotta, direttore con Polo, è «il gatto Silvestri» con un debole per Clint Eastwood («Ecco che il cuore le fa confusione»), Rossana Rossanda è «la non Comune di Parigi», Ida Dominjanni «Il capo cosparso di genere». Sabato 4, lettura ad alta voce, per il pubblico. «Da soli non bastiamo», dice Polo.
Soli, per la verità, non sono. L´establishment politico si è mosso, scrivono lettori comuni e non. Ieri, a sorpresa, l´incoraggiamento di Adriano Celentano: «Vi leggo, non vorrei che, improvvisamente, non ci foste più». Chi telefona, chi manda mail, chi manda soldi. Al "call center" del manifesto, Michela Gesualdo cerca di mettere ordine nell´abbraccio dei lettori: «Stanno organizzando pic-nic, cene, precari e studenti donano quel che possono, anche dieci euro». Con la crisi economica, però, la meta è lontana. Sono a quota sessantamila euro.
E comunque non bastano i soldi, ci vuole, contemporaneamente, la battaglia politica. Dice Parlato: «Le leggi si possono anche cambiare». «No, la nostra vita non può essere appesa alla discrezionalità del governo», aggiunge Ciotta. Il nodo vero è proprio questo, la libertà d´informazione, la democrazia. Integra Polo: «Si restringono gli spazi di libertà, si trasforma un diritto in una concessione, il cittadino in suddito. La nostra vicenda è paradigmatica. Questo governo può decidere se farci vivere o morire a seconda delle disponibilità di bilancio. Eccolo il vulnus: la mercificazione dell´informazione». E invece vogliono vivere, i colleghi del «manifesto», e anche gli altri di Liberazione, dell´Unità. Vuol vivere «il manifesto», solo a giugno passato con successo al colore, e diventato quasi disciplinato, nell´organizzazione, in ossequio alla ricetta risanatrice di Sergio Cusani. Vuole vivere il giornale di Pintor per parlare, dice Polo, «a tutti quelli che pensano che un´opinione comune sulla vita pubblica vada ricostruita, a tutti quelli che si oppongono alla gestione feudale di Berlusconi, a tutti quelli che cercano di dare una nuova identità alla parola sinistra».
Repubblica 1.10.08Eleonora DuseEnrichetta dedicò metà della vita a cancellare ogni traccia della genitrice assenteRitrovata la biblioteca "segreta" della divina occultata per anni insieme agli amori proibiti Un convegno a 150 anni dalla nascitaIl lato nascosto dell´attrice erano le molte amicizie femminili: legami in genere di cartadi Simonetta FioriUna biblioteca segreta, scoperta quasi per caso. Libri manipolati, graffiati negli ex libris e censurati nelle dediche, pagine strappate ed espropriate della illustre appartenenza. Come un sipario invisibile gettato su una delle attrici più celebri del Novecento. Chi ebbe interesse a oscurare Eleonora Duse, le sue letture erratiche, i suoi amori libertini? Quella che sarà rivelata oggi al convegno veneziano della Fondazione Cini e dell´Università Ca´ Foscari appare una storia punteggiata da risentimenti e vendette. Madri e figlie dolorosamente a confronto tra censure e riscatto, gabbia ed emancipazione. Un copione perfetto per la stessa divina attrice, che però non lo interpretò sulla scene ma nella vita, e perfino nella memoria postuma.
Il ruolo materno spetta a lei, l´attrice essenziale e spoglia celebrata da Rilke e Cecov, da Joyce e Chaplin, la ribelle "priva di forma pretestuosa" che sfidò le convenzioni dell´epoca nella recitazione e nella cultura teatrale, nelle curiosità intellettuali e negli amori inquieti. La figlia è rappresentata dalla severa e cattolicissima Enrichetta Checchi, che dedicò metà dell´esistenza a inseguire una genitrice assente, l´altra metà a cancellarne ogni traccia. Un delitto quasi perfetto, quello filiale, perseguito con una determinazione che sorprese il musicista Malipiero, ma anche il crimine meglio riuscito può essere rivelato da un dettaglio. E a fornire quell´indizio è la terza donna del racconto, Eleonora Bullough, la secondogenita di Enrichetta, bella e statuaria, costretta a diciassette anni a prendere i voti perché "indisciplinata". La vendicatrice della Duse indossa il saio domenicano e si chiama sister Mary Mark. Per quasi quarant´anni, tra le mura del suo convento a Stone, ha allestito lavori teatrali. Quasi nessuno sapeva che l´abito di seta azzurra indossato dalla Vergine nelle sacre rappresentazioni apparteneva alla scandalosa nonna.
È lei, la nipotina ingessata nei panni di suora, a indicare le tracce della recentissima scoperta, la biblioteca segreta appartenuta alla Duse e occultata da Enrichetta, che sarà illustrata oggi a Venezia nel centocinquantesimo anniversario della nascita dell´attrice (1858-1924). Un patrimonio di quasi duemila libri, ritrovati a Cambridge da una studiosa di Palermo, Anna Sica, proprio grazie alle memorie di sister Mary, morta qualche anno fa. Fu Mary Mark nel 1962 a donare al New Hall College (oggi Murray Edward´s College) il patrimonio librario della madre Enrichetta e del padre italianista Edward Bullough, nel quale era nascosto anche il fondo della Duse. All´antica bibliotecaria Sarah Newman si deve il riconoscimento di alcune centinaia di volumi dusiani, ai quali ora s´aggiunge oltre un migliaio e mezzo di libri, per larga parte provenienti dalla Libreria delle attrici fondata dalla Duse a Roma nel 1914, ma anche dal fondo di Eleonora usato dal genero Bullough per la compilazione dell´antologia Cambridge Readings. Libri censurati dalla implacabile figlia, che ne cancellò l´appartenenza stracciando le pagine annotate ai margini, allungando un nastro bianco su dediche inopportune, graffiando gli ex libris materni.
Chi o cosa voleva nascondere Enrichetta? Le liaisons dangereuses intessute dalla madre con poeti e poetesse? La passione smisurata per Boito e D´Annunzio? L´indole irrequieta e neopagana che spingeva l´attrice a pericolose peregrinazioni nelle pagine di autori messi all´indice? «La Duse era diventata un personaggio scomodo», suggerisce Sica, autrice del ritrovamento. «Dopo la morte dell´attrice, Edward ed Enrichetta erano cresciuti nella considerazione pubblica di Cambridge come personaggi di spicco della cultura cattolica. Né la spregiudicatezza sentimentale della Duse né la sua libertà intellettuale potevano riuscire gradite al perbenismo della famiglia Bullough».
Nella biblioteca "nascosta" si ricompone l´intellighenzia iconoclasta di primo Novecento, «da Marinetti a Soffici e Papini, con grandi aperture alla poesia francese da Verlaine a Rimbaud e Baudelaire, ai modernissimi versi di Whitman, alle pagine di Kipling. E poi naturalmente il suo Dante, Shakespeare, i classici greci e latini, le letture mistiche, che confluiranno in una recitazione assetata di poesia», dice Mimma De Leo, storica delle donne ora al lavoro sulla nuova biografia della Duse. Lettrice rapace e prensile, capace di trasmigrare dalle gelidi latitudini di Ibsen e Selma Lagerlöf alle suggestioni del Gouthama Buddha, dal Leopardi delle Operette morali all´incendiario Palazzeschi. «Lettrice erratica e disordinata come poteva esserlo un´autodidatta», aggiunge la studiosa. «Tutto quanto leggeva confluiva nel suo lavoro. Questo spiega anche la qualità unica della sua recitazione. "Libri per la gioia di un´altra vita", li definiva, rimandando alla sua vita in teatro». Libri compagni fedeli, ma anche strumenti di seduzione, verso uomini e donne. Indistintamente.
Il lato più segreto della Duse, occultato da Enrichetta insieme alla biblioteca, include il vasto mondo delle amicizie femminili, cui rimandano le dediche affettuose su frontespizi più o meno illustri. «Amicizie innumerevoli e sfaccettate, amori forse saffici, amori quasi sempre di carta», dice De Leo. Amicizia molto pratica e miliardaria con l´americana Helen Mackay o la londinese Katherine Onslow. Amicizia intellettuale con Ada Negri, Sibilla Aleramo e Matilde Serao, che di lei disse: «Se fossi uomo come vorrei amarla, assai, senza fine!». Ed anche amicizie amorose come quella con Lina Poletti, drammaturga di non eccelsa fama, un tempo amante dell´Aleramo. Con le donne ricreava la stessa relazione tenera e affettuosa che aveva condiviso con i suoi personaggi fittizi. «Mentre tutti diffidano delle donne», disse una volta al marchese d´Arcais, «io me la intendo benissimo con loro! Io non guardo se hanno mentito, se hanno tradito, se hanno peccato - se nacquero perverse - purché io senta che hanno sofferto o per mentire o per tradire o per amare...».
Nello stesso modo in cui scavava dentro Giulietta e Nora, la Duse entrava in intimità con le amiche, "solitamente dotate di talento", nota la biografa inglese Sheehy. Relazioni che non escludevano modalità competitive e triangolari, come l´intesa con la giovane pianista Giulietta Meldesshon, devota dama di compagnia, che prima Eleonora difende dalle brame del suo amante D´Annunzio, per poi tradirla concedendosi all´illustre marito banchiere Meldelsshon, in un ingorgo sentimentale difficile da padroneggiare. Un altro triangolo si compone nei biglietti assai allusivi spediti al regista d´avanguardia e impresario Aurélien Lugné-Poe e a sua moglie Suzanne Despres, amore epistolare ora ricostruito dalla biografa italiana. «Aveva una capacità istintuale di sedurre, con un modo particolare di concedersi senza concedere», dice De Leo. «Il suo segreto era il "sorriso asconditore", come scrisse D´Annunzio, il suo rimandare a un altrove inaccessibile».
Alla donna che sedusse tutte le donne toccò in sorte di non riuscire a sedurre la propria figlia. Ma la sua malia raggiunse la nipote, sister Mary Mark, nell´ultimo capolavoro. La scandalosa Duse salvata da una suora.