giovedì 2 ottobre 2008

L'ASSEMBLEA GENERALE DI ATENEO

di Professori e Ricercatori, Lettori e Collaboratori ed Esperti Linguistici, Tecnici e Amministrativi, Studenti e Precari (docenti, ricercatori e tecnici-amministrativi)


Riunita il 30 settembre 2008 per valutare le azioni del Governo condotte contro le Università ed il Pubblico Impiego in generale attraverso l'introduzione di norme restrittive in ordine al loro finanziamento, alla loro natura giuridica ed alle norme di carattere restrittivo su salari e diritti costituzionalmente garantiti ai lavoratori ed alle lavoratrici, che inevitabilmente rischiano il peggioramento delle modalità di accesso alle Università , a partire dalle rette degli studenti

DECIDE

di intraprendere tutte le necessarie iniziative di opposizione alle scelte di questo governo per difendere i diritti Costituzionali fondamentali di tutti:

IL DIRITTO AL LAVORO (vero e non precario)
IL DIRITTO ALLO STUDIO (in una Università libera, democratica e aperta a tutti)
IL DIRITTO ALLA SALUTE (universalmente garantito su tutto il territorio)
IL DIRITTO AD UNA VITA DIGNITOSA DI CIASCUNO (a partire dalle condizioni salariali e materiali ed alla qualità della vita e del lavoro di ciascuno)

DECIDE

Di opporsi all'anomalia democratica introdotta da questo governo che ostenta disprezzo verso il Parlamento governando a suon di decreti legge blindati dal voto di fiducia, al solo fine di produrre leggi e leggine rivolte contro i lavoratori pubblici e privati ed in particolare contro l'immensa schiera dei precari di entrambi i settori.

DENUNCIA

L'insopportabile attacco ai Servizi Pubblici (Università, Ricerca, Scuola, Alta formazione artistica e musicale, Sanità ) col costante taglio dei fondi ai rispettivi bilanci, sapendo di operare in questa direzione nei confronti di Servizi che già erano al collasso di gestione a causa delle condizioni economiche accumulatesi nel corso di lunghi anni: anziché intervenire a sostegno dei Servizi che erogano prestazioni di interesse generale ed universale si abbatte la mannaia dei ministri del governo con l'evidente scopo di dare il colpo di grazia definitivo.

EVIDENZIA

La necessità di mobilitarsi da subito per fermare questo disegno, sottolineando al contempo come questo debba essere fatto chiamando tutte le componenti professionali che operano nel nostro mondo, con la necessaria assunzione di responsabilità, nel perseguimento di un identico fine: la difesa "senza se e senza ma" della natura pubblica del sistema di formazione, di ogni ordine e grado, del nostro Paese.
A questo fine deve essere necessariamente valutata la necessità di riflettere sugli errori che sono stati compiuti, anche nel nostro Ateneo, sulle modalità attuative dell'autonomia e della gestione trasparente di un Ente pubblico, nell'ottica opposta a quella agita strumentalmente dal governo, e cioè realizzando compiutamente i fini costituzionali affidatici, rimuovendo gli interessi corporativi e di nicchia ovunque essi si annidino

PER TUTTO QUESTO L'ASSEMBLEA GENERALE

Dà mandato alla RSU ed alle OO.SS. di Ateneo di lavorare per costruire una manifestazione regionale, il più possibile estesa ad altre realtà del Pubblico Impiego, a partire dai settori della Conoscenza, entro il mese di Ottobre.

L'ASSEMBLEA SI IMPEGNA INOLTRE
A sostenere le vertenze in corso sul personale precario e l'attuazione delle norme contrattuali del personale tecnico-amministrativo per una soluzione soddisfacente che colga le ragioni di lavoratrici e lavoratori.

L'ASSEMBLEA CHIEDE INFINE

Alle OO.SS. nazionali di proclamare tempestivamente uno SCIOPERO GENERALE NAZIONALE dei comparti della conoscenza

Presenti 768: approvata all'unanimità
l’Unità 2.10.08
Confindustria vuole eliminare la Cgil
Marcegaglia: sui nuovi contratti firmiamo solo con Cisl e Uil. Tensione nei sindacati


In piazza contro il decreto «ammazza precari»
Oggi manifestazione a Roma davanti a Palazzo Vidoni dei lavoratori del settore pubblico
di Giuseppe Vespo

Rivolta precaria. Dalle università alla scuola, passando per l’istituto superiore di sanità, l’Istat, il Cnr e le amministrazioni locali. Il popolo a tempo determinato del settore pubblico alza la voce contro la norma «ammazza-precari» del ministro Brunetta. Per oggi è prevista una manifestazione davanti a Palazzo Vidoni sede del ministero della Pubblica amministrazione, da parte dei sindacati e ricercatori di Ispra, Isfol, Cnr, Ingv e Inaf, Istat ed Enea.
Ieri intanto le proteste hanno portato a manifestazioni e occupazioni, con il mondo della ricerca in subbuglio. La presidenza e la direzione generale del Cnr sono state invase da 200 ricercatori a tempo determinato. Stessa scena all’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf), mentre l’agitazione del personale dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia si è tradotta in assemblee tenute in tutte le sedi dell’ente. In mattinata 300 precari dell’Istituto superiore di Sanità hanno atteso il sottosegretario al Welfare Ferruccio Fazio, che doveva inaugurare un convegno internazionale con il premio Nobel Rita Levi Montalcini. La senatrice a vita ha espresso la sua solidarietà ai lavoratori dell’Iss, dicendosi vicina alle loro difficoltà e definendoli «un capitale umano eccellente da salvaguardare». Loro hanno avvertito che se il blocco alle stabilizzazioni avrà luogo tutte le attività che svolgono potrebbero essere sospese. Si parla di progetti di ricerca come il vaccino contro l’Aids o le malattie esantematiche, e di attività quotidiane dicontrollo come quelle sui cibi contaminati, i farmaci contraffatti e i virus influenzali.
Sempre in mattinata oltre 500 precari hanno animato un presidio davanti al Ministero del Lavoro, mentre all’Enea, l’ente per le nuove tecnologie, l’energia e l’ambiente, i lavoratori in stato di agitazione sono intervenuti al workshop in corso presso la sede centrale dell’Istituto.
Secondo una ricerca della Uil, sarebbero oltre 5.000 i ricercatori precari direttamente a rischio per effetto dell’emendamento che blocca la normativa sul graduale assorbimento del precariato nella Pubblica amministrazione.
Ma non è solo il mondo della scienza o quello della scuola - che oggi con i sindacati riunirà bambini, genitori e insegnanti al ministero dell’Istruzione per il “No Gelmini day” - a farsi sentire. Le proteste hanno coinvolto anche il presidente del Consiglio Berlusconi a Napoli. A suon di «buffone» alcune decine di precari e manifestanti, tra i quali insegnanti e vigili urbani, hanno contestato il premier all’uscita dalla Prefettura.
Neanche lo slittamento all’inizio di luglio dell’entrata in vigore dello stesso emendamento placa gli animi. Ieri in Parlamento il ministro Brunetta ha precisato che lo stop è funzionale al censimento di tutte le assunzioni a tempo determinato effettuate dalle amministrazioni pubbliche. Tutte le amministrazioni dovranno rendere conto delle assunzioni fatte e spiegare se per i posti destinati ai precari esistevano altri candidati vincitori di concorso. «Se le amministrazioni avranno tutte le carte in regola bene. Altrimenti la responsabilità delle assunzioni ricadrà su di loro» con una segnalazione alla Corte dei Conti. Poi, da luglio, «mai più todos caballeros», ha precisato il ministro.
Dal 2001 al 2006, i precari statali sono cresciuti del 62%. Solo nel 2006, le amministrazioni hanno assunto 127mila impiegati a tempo determinato e 47mila atipici.

Corriere della Sera 2.10.08
Asor Rosa: berlusconismo peggio del fascismo


MILANO — Il berlusconismo come il fascismo? Macché: il primo è peggio. In un lungo articolo sul Manifesto, Alberto Asor Rosa torna sulle analogie con il ventennio. Lo storico parte dall'idea di nazione italiana e assume tre indicatori: unità, rapporto del cittadino con le istituzioni e rapporto del presente con la tradizione. Sull'unità, «al governo siede un signore che si batte fieramente per la disarticolazione dell'unita identitaria del paese». Secondo, «nessuna dittatura ha fatto dell'interesse privato del leader il fulcro intorno a cui far ruotare l'elaborazione delle leggi». Quanto al rapporto con la tradizione, secondo Asor Rosa, il berlusconismo non ne ha alcuno: «Il suo eroe eponimo è un homo novus che spinge ai limiti estremi la sua totale mancanza di radici». Insomma: «Cavour è più lontano da lui di Togliatti»

l’Unità 2.10.08
Weekend neofascista alle porte di Roma
Forza Nuova chiama a raccolta l’ultradestra europea per il suo «Campo d’Azione» sulla via Tiberina
di Mariagrazia Gerina


CASA MONTAG «Chi cerchi?», si informano due trans di stanza accanto alla vicina fermata del bus. Sulla via Tiberina che dal cimitero di Prima Porta corre verso Capena e Castelnuovo di Porto ce ne sono ancora tanti di trans e prostitute. Ma nessuno sa dire
se quel casale al numero 801 sia frequentato o meno negli ultimi tempi. A guardia dell’ingresso sbarrato sono rimaste due sentinelle sbiadite, stile pittura pompeiana, uno ha l’elmo, l’altro raffigura l’Arcangelo Michele. Le finestre sono ancora murate e dietro al cancello nessun sentore di vita. Ma un cartello appoggiato tra le piante fa capire che il posto è quello: «Casa Montag» si legge a fatica, pseudonimo collettivo preso a prestito dal protagonista di Fahrenheit 451. E con lo stesso logo, che in gergo si definirebbe opera di «squadrismo grafico urbano», è marcata anche la cassetta delle lettere, in ferro verde, appesa al cancello come se quella fosse proprio una normale abitazione di campagna. «Inquilini di una barricata», si firmano i neofascisti “padroni” di casa, che nel 2002 approdarono qui rivendicando la prima occupazione di destra nella capitale e da venerdì a domenica prossima si preparano ad accogliere in questa vecchia scuola rurale abbandonata i militanti di Forza Nuova, chiamati a raduno da tutta Italia per il quinto «Campo d’Azione»: una manifestazione che - rivendicano i militanti di Fn in rete - nulla ha da invidiare al meeting di Rimini. Con qualche differenza per quanto riguarda programma, ospiti e partecipanti. «Dall’Austria Strakhe manderà anche l’eurodeputato della Fpoe Kurzmann», annuncia, Roberto Fiore, eurodeputato di Fn, gonfio d’orgoglio per i risultati elettorali dell’ultradestra d’oltralpe. «Il vento sta soffiando», rilanciano in rete gli epigoni nostrani preparandosi all’incontro. Dietro al cancello sono già pronti, se serviranno, i conetti bianco-rossi per riorientare il traffico all’arrivo di macchine e pullmann. Ma a dispetto della firma combat, dei preparativi e del battage pubblicitario che ha invaso i muri della capitale il luogo che ospiterà il «Campo» alla vigilia dell’evento appare per quello che è. Un rudere di campagna abbandonato nel territorio del XX municipio. Sfuggito al censimento del generale Mario Mori, a cui Alemanno, dopo l’aggressione di Ponte Galeria ad opera di due pastori romeni, ha affidato la messa sicurezza dell’agro romano.
«Mio marito mi ha detto che in quel casale ci ha visto un artigiano che faceva tavolini...», racconta una signora che abita a Borgo Sant’Isidoro, poche palazzine arroccate al lato della via Tiberina, non lontano da Casa Montag. Le prime teste rasate approdarono qui nel 2002 con un calendario di concerti a base di rock identitario intitolato «l’Altra Estate Romana»: «Me li ricordo, mi facevano un po’ impressione quando passavo... - prosegue la signora -, venivano anche a casa a chiedere la pasta per un progetto di solidarietà con l’Argentina... Poi non li ho visti più, però domenica scorsa parcheggiate davanti al cancello c’erano una decina di macchine e ho detto: vuoi vedere che sono tornati?».
In rete, nei mesi scorsi, si era acceso un certo dibattito su dove convocare il raduno. Qualcuno proponeva l’Abruzzo, visto che lì si vota e Fiore si è già candidato. Qualche militante del Nord Italia era infastidito dall’ipotesi Lazio. «Via Tiberina 801. Roma», c’è scritto alla fine con una punta d’orgoglio sui manifesti. Fin qui Fn si era dovuta accontentare di radunarsi nella campagna viterbese. Certo, non si era mai spinta fino alle porte della capitale. Ma con i saluti romani sventolati in Campidoglio per la vittoria di Alemanno perché non osare? E allora qualcuno si è ricordato di «Casa Montag», caduta un po’ in disgrazia con il proliferare delle occupazioni di destra anche all’interno del Raccordo.
Qui, pochi chilometri ed è già Riano. Per arrivarci i militanti di Fn dovranno macinare casali, tralicci, oliveti, campi coltivati, smorzi, fratte, lampioni e prostitute. Un percorso che i meno fortunati della capitale conoscono bene. Poco dopo il cimitero di Prima Porta, arriva il primo camping, il Tiber, e poi il secondo, il Roman River, dove nel 2004 sono stati portati i romeni sgomberati dagli stabilimenti dell’ex Snia Viscosa. Pochi mesi fa, sotto la spinta dell’emergenza sbarchi, sono approdati lungo la via Tiberina, a due-tre chilometri da Casa Montag, anche i richiedenti asilo, ospitati nel centro polifunzionale di Castelnuovo di Porto, dismesso della Protezione civile. Disperati del mare che fanno la spola tra la campagna e la città, in corriera, con il trenino, a volte anche a piedi.
Non è proprio il posto dove ti aspetteresti di veder spuntare un avamposto di estrema destra. Tanto meno un raduno di militanti che si riconoscono al grido: «Fuori gli stranieri dalla nostra patria». E che al loro raduno hanno invitato un gruppo rock dal nome «Delenda Carthago».

Repubblica 2.10.08
In America le pillole sostituiscono sempre più il divano dello psicanalista
La fuga dal lettino di Freud
di Simonetta Fiori


Dagli Usa arriva l´allarme: per risparmiare tempo e soldi, le pillole sostituiscono la psicanalisi. Ecco cosa succede in Italia

Per i "mali dell´anima" si prescrivono sempre più farmaci Soprattutto negli Stati Uniti, dove diminuisce il ricorso alle terapie psicologiche: in dieci anni sono scese dal 44 al 29% Ma in Italia, per ora, l´analisi ha ancora la meglio
Nel nostro paese gli specialisti sono molti. A mancare sono le strutture adatte
Anche ai bambini iperattivi vengono prescritti farmaci per il deficit di attenzione
Molti interrompono non perché stanno meglio, ma perché non hanno i soldi

In America la pillola spodesta la parola. Più facile ricorrere al farmaco che alla psicoterapia. Agli effetti immediati della pasticca, piuttosto che a defatiganti colloqui sul divanetto, s´affidano sempre più gli psichiatri che operano negli Stati Uniti. La tendenza è stata documentata dalla autorevole rivista Archives of General Psychiatry, che ha fornito cifre significative: le cure medico-psicologiche oggi in corso in America soltanto per il 29% si basano sulla terapia della parola, mentre dieci anni fa la percentuale era intorno al 44%. Sempre più numerosi - dice ancora lo studio di Ramin Mojtabai e Mark Olfson - sono gli psichiatri specializzati in terapie farmacologiche e sempre meno quelli attrezzati per la psicoterapia.

In America la pillola spodesta la parola. Più facile ricorrere al farmaco che alla psicoterapia. Agli effetti immediati della pasticca, piuttosto che a defatiganti colloqui sul divanetto, s´affidano sempre più gli psichiatri che operano negli Stati Uniti. La tendenza è stata documentata dalla autorevole rivista Archives of General Psychiatry, che ha fornito cifre significative: le cure medico-psicologiche oggi in corso in America soltanto per il 29% si basano sulla terapia della parola, mentre dieci anni fa la percentuale era intorno al 44%. Sempre più numerosi - dice ancora lo studio di Ramin Mojtabai e Mark Olfson - sono gli psichiatri specializzati in terapie farmacologiche e sempre meno quelli attrezzati per la psicoterapia. Non ammette equivoci il grafico che copre l´intero arco di tempo tra il 1996 e il 2005, analizzato sulla base del funzionamento degli ambulatori medici: se prima il 19% degli psichiatri sceglieva per tutti i pazienti la psicoterapia, ora il numero precipita al 10,8 per cento, quasi la metà. Freud ricacciato in soffitta, come sintetizzano i giornali americani? In realtà le medicine minacciano di liquidare non solo l´analisi più ortodossa, ma oltre le quattrocento varietà di psicoterapia oggi praticate negli Stati Uniti.
A cercare le cause di questa nuova tendenza, ci si imbatte in molte ragioni, alcune d´ordine banalmente materiale. I soldi, innanzitutto. Massimo Ammaniti, professore alla Sapienza di Psicopatologia dello sviluppo, ci fa notare come siano cambiate le norme delle assicurazioni americane, che prima rimborsavano le psicoterapie e oggi prevalentemente gli psicofarmaci. La questione dei costi è influente. Non è un caso che la dittatura della pillola dilaghi ovunque tranne che a New York.
«Se sei ricco e abiti a Manhattan», ha dichiarato il dottor Mojtabai, «è più facile risolvere i traumi infantili presso lo studio di qualche psicoanalista». Più difficile per un navajo in Arizona. Con buona pace di Woody Allen, che non dovrà rinunciare a un fortunato filone cinematografico.
Il denaro spiega molto, ma non tutto. La consuetudine con la pillola è anche il frutto d´una mentalità diffusa. Dall´infanzia alla senescenza, il farmaco è percepito dagli americani come rimedio risolutivo. «Capita spesso», dice Ammaniti, «che le maestre elementari chiamino i genitori a scuola per suggerire indicazioni farmacologiche destinate ai bambini iperattivi. Oggi la sindrome più denunciata è quella da deficit di attenzione, l´Attencion Deficit Hyperactivity Disorder. L´uso della categoria diagnostica mi pare fin troppo disinvolto: gli italiani sono molto più cauti nel fare diagnosi in campo infantile. E soprattutto nel somministrare ricette».
Il nostro paese appare ancora distante dalla pratica americana, pur con qualche avvisaglia di omologazione. «Il rischio è di andare in quella direzione», lamenta Simona Argentieri, psicoterapeuta di formazione freudiana. «Da noi troppo spesso prevale un uso improprio della pillola per tamponare le difficoltà del vivere. Quella tra disturbo e psicofarmaco rischia di diventare una correlazione meccanica, una scorciatoia meno impegnativa della psicoterapia, che richiede tempi più lunghi, soprattutto umiltà e intelligenza del cuore». Il farmaco, secondo la studiosa, accontenterebbe un po´ tutti. I pazienti, alleggeriti dal´incubo di doversi mettere in discussione. E i medici, talvolta costretti a incontri frettolosi in strutture pubbliche inadeguate. «Anche da noi ha attecchito la filosofia sintetizzata nel Diagnostic Statistical Manual, il manuale più diffuso al mondo con il nome di Dsm. Hai tali sintomi? Allora prenditi questa pillola. L´emozione è ridotta pura reazione neurochimica. Per il paziente non c´è più ascolto, solo una ricetta medica».
A favore della pasticca giocano le industrie farmaceutiche, ma anche una letteratura medica internazionale che sempre più incoraggia l´integrazione tra le diverse terapie. «Tra psicoterapia e farmaco non c´è più contrapposizione assoluta, come poteva accadere un tempo», interviene Nino Dazzi, ordinario di Psicologia, oggi alla guida della commissione ministeriale che regola gli accessi alla professione. «In alcuni casi, l´associazione tra pillola e parola può essere quella che funziona meglio. Ma il problema si pone se a spingere a favore del farmaco non è la sindrome del paziente, ma i servizi pubblici insufficienti. L´impressione è che non sia possibile praticare la psicoterapia come invece sarebbe richiesto, e che dunque la soluzione farmacologica risulti il rimedio quasi obbligato».
Difettano i servizi pubblici, non certo gli psicoterapeuti. In Italia operano nutrite leve di professionisti molto attrezzati, selezionati da una legge tra le più rigorose in Europa. Si accede alla professione o specializzandosi in Psichiatria con una formazione medica o dopo la laurea in Psicologia con un diploma di specializzazione conseguito presso una delle Scuole abilitate alla formazione. «La gran parte di queste Scuole è privata», spiega Dazzi, «ma la nostra commissione dà o nega l´autorizzazione sulla base di alcuni requisiti rigidamente fissati». Qui è forse la specificità italiana, la presenza di una vasta area di operatori che interviene nel campo della salute mentale senza ricorrere alla pasticca. «Mentre in America gli psicologi possono somministrare farmaci», spiega Ammaniti, «da noi questa facoltà è interdetta ai terapeuti sprovvisti di laurea in Medicina».
Per l´Italia vale anche un diverso clima culturale, segnato da alcune riforme fondamentali. Quella di Franco Basaglia, esattamente trent´anni fa, è considerata l´architrave d´una rivoluzione di tipo copernicano. «Potrà essere criticata o giudicata insufficiente», interviene Luigi Onnis, ordinario di Psichiatria e direttore dei servizi di psicoterapia al Policlinico Umberto I di Roma, «ma quella riforma ha avuto l´effetto di mutare radicalmente l´approccio alla malattia mentale. Il paziente non viene più trattato soltanto farmacologicamente e non soltanto dentro le istituzioni. Questo implica il riconoscimento che i problemi alla base della malattia mentale non sono soltanto biologici ma anche di natura psicologica ed esistenziale. Da questa acquisizione non si può tornare indietro». Una sensibilità registrata perfino dai bugiardini di alcuni psicofarmaci. «Nelle edizioni italiane di molti farmaci si legge che la somministrazione funziona solo se è accompagnata da una psicoterapia adeguata. Un buon segnale, no?».
Se quella italiana è una storia più complessa, che dovrebbe preservarci dall´indigestione di psicopillole, rimane il fatto che oggi la psicoanalisi in senso classico - tre sedute alla settimana, per un numero infinito di anni - è un bene di lusso riservato a un´élite. «Gli stessi psicoanalisti stanno rivedendo le modalità per allargare il campo», dice Onnis. «In questi anni è entrato in crisi l´indirizzo più ortodosso, che richiede molto tempo e molti soldi. Tendono nettamente a prevalere trattamenti più brevi, che possono dare risultati altrettanto soddisfacenti». Anche Simona Argentieri riconosce l´efficacia di queste cure meno onerose: «Talvolta bastano un colloquio o degli incontri episodici, o una volta alla settimana per un breve periodo: l´importante è permettere al paziente di proseguire in piena autonomia». Ma in un paese impoverito come il nostro, perfino la terapia più breve rischia di essere incompatibile con la rata del mutuo da pagare. «Moltissimi miei amici psicoterapeuti», interviene Dazzi, «mi raccontano di pazienti che concludono la terapia non perché soddisfatti o placati, ma perché non se la possono più permettere». Scavare nell´interiorità rischia di diventare pratica da ricchi, senza peraltro avere le caratteristiche del passatempo miliardario. La pasticca come rifugio alternativo? «A parte che non è economica», avverte Onnis, «non è mai risolutiva e provoca cronicità». Nella sfida con la pillola, in Italia, la parola resiste ancora.

Repubblica 2.10.08
Ma nel futuro tornerà la cura della parola
Depressione anoressia e paura dell´abbandono hanno bisogno di essere seguite
di Benedict Carey


Le teorie psicanalitiche, che nell´attuale era dei farmaci appaiono in crisi, hanno però, dietro l´angolo, la possibilità di una rivincita. Anzi, secondo alcuni esperti, il futuro del lettino è comunque assicurato, perché la "terapia della parola" conferma la sua efficacia contro alcune malattie mentali. Lo sostengono gli autori di uno studio pubblicato sul Journal of the American Medical Association. L´articolo è il primo a parlare in questi termini della psicoanalisi e a essere pubblicato su una delle più importanti riviste scientifiche: l´aspetto interessante è che gli studi sui quali esso si basa non erano noti ai medici. Questo settore ha resistito all´indagine scientifica per molti anni, in considerazione del fatto che il processo della terapia è molto individualizzato e di conseguenza non si presta di per sé a un simile studio. La premessa fondamentale è l´idea di Freud che i sintomi affondino le loro radici in conflitti psicologici latenti, spesso presenti da lungo tempo, che possono essere portati alla luce in parte tramite un esame approfondito durante il rapporto terapeuta-paziente.
Gli esperti nondimeno mettono in guardia dal rischio di dare un peso eccessivo alle conclusioni illustrate nell´articolo, ancora insufficienti a loro parere per affermare la superiorità della terapia psicoanalitica rispetto ad altre, quali la terapia cognitiva comportamentale o un approccio a più breve termine. Secondo loro, infatti, gli studi sui quali si basa la ricerca non sono sufficienti. «Questo studio però contraddice di sicuro il concetto che la terapia cognitiva o qualche altro trattamento a breve termine siano migliori» ha detto Bruce E. Wampold, presidente del dipartimento di consulenza psicologica dell´università del Wisconsin. «Quando è ben praticata, la terapia psicodinamica per alcuni pazienti si dimostra valida come qualsiasi altra e questo mi sembra determinante per una terapia intensiva simile».
Gli autori della ricerca - il dottor Falk Leichsenring dell´università di Giessen e Sven Rabung dell´University Medical Center Hamburg-Eppendorf, entrambi in Germania - hanno analizzato i casi nei quali la terapia prevedeva incontri frequenti (più di una seduta alla settimana) e durasse da almeno un anno o che durasse da almeno 50 sedute. I ricercatori hanno quindi analizzato studi che avevano seguito pazienti affetti da una molteplicità di problemi mentali, tra i quali la depressione grave, l´anoressia nervosa, i disturbi della personalità borderline, caratterizzata dalla paura dell´abbandono e da cupi accessi e grida di disperazione e disagio.
La terapia psicodinamica - ha spiegato Leichsenring in un messaggio di posta elettronica - "ha dato esiti significativi, considerevoli e stabili, che sono oltretutto significativamente aumentati tra la fine delle sedute vere e proprio e gli incontri di controllo successivi". Dall´analisi della ricerca non è emersa una correlazione diretta tra i miglioramenti del paziente e la durata del trattamento, ma il miglioramento è stato in ogni caso accertato e gli psichiatri hanno detto che era chiaro che i pazienti con problemi emotivi gravi e cronici avessero tratto vantaggio dall´attenzione costante e frequente dedicata loro dallo psicoanalista.
«Se a grandi linee definiamo personalità borderline quella che preclude di regolare le proprie emozioni, questa caratterizza moltissime persone che si presentano negli ambulatori medici, anche se la loro diagnosi è di depressione, di bipolarismo in età pediatrica o di abuso di sostanze stupefacenti» ha detto il dottor Andrew J. Gerber, psichiatra della Columbia. Per alcuni di questi pazienti, ha proseguito Gerber, "dall´articolo si evince che se si vuol far sì che i miglioramenti durino nel tempo occorre impegnarsi in una terapia a lungo termine".
Barbara L. Milroad, professoressa di psichiatria al Weill Cornell Medical College, che pratica come Gerber la terapia psicodinamica, ritiene di importanza fondamentale procedere a ulteriori studi per garantire la sopravvivenza di una terapia così valida. «Cerchiamo di essere concreti» ha detto Milroad. «Molti grandi centri medici hanno chiuso i programmi di tirocinio in terapia psicodinamica perché non c´erano adeguati riscontri sulla sua efficacia».
c.2008 New York Times News Service (Traduzione di Anna Bissanti)

Repubblica Roma 2.10.08
I carabinieri del Comando provinciale: "Una bustina si trova anche a 15 euro e questo la rende alla portata di tutti"
Baby pusher, arresti triplicati
di Federica Angeli


Allarme cocaina tra i minorenni: 13 anni l´età media del nuovo consumatore

Boom dei baby spacciatori. Nei primi nove mesi dell´anno i carabinieri del Comando provinciale hanno arrestato 59 pusher minorenni, tre volte tanto rispetto al 2007, quando erano stati 20 i teenager finiti dietro le sbarre per detenzione e spaccio. Tra i 59 in manette non ci sono ragazzi con un´età inferiore ai 14 anni solo perché non sono anagraficamente perseguibili, non perché i militari non li abbiano sorpresi a vendere droga. Si abbassa anche l´età media del nuovo consumatore: da 16 a 13 anni. Una bustina si trova a 15 euro, un prezzo che rende la cocaina accessibile a tutti. Il fenomeno è trasversale: i baby spacciatori vengono dai Parioli e da Tor Bella Monaca. «Dati allarmanti», dichiara Vittorio Tomasone, responsabile del Comando di piazza san Lorenzo in Lucina.

Da consumatori precoci a baby spacciatori. Il passo è davvero breve. Si comincia a tredici anni assumendo cocaina e si diventa pusher di pasticche, acidi e marijuana, a quindici. A fotografare l´impennata di spacciatori minorenni nella capitale sono i dati del Comando Provinciale dei carabinieri che, in appena nove mesi, hanno arrestato 59 piccoli spacciatori. Di questi 49 sono romani.
Tre volte tanto rispetto al 2007: lo scorso anno infatti sono stati appena venti i teenager finiti dietro le sbarre per detenzione e spaccio. E della stima non fanno parte gli under 14, ma solo perché non sono anagraficamente perseguibili e non perché i militari non li abbiano sorpresi a vendere droga nelle piazze della città.
Numeri «inquietanti e allarmanti», secondo Vittorio Tomasone, responsabile del Comando di piazza San Lorenzo in Lucina, che da mesi si sta battendo per contrastare quello che i tecnici chiamano «consumo anticipato» di stupefacenti. «L´età dei consumatori - spiga il colonnello Tomasone - si è notevolmente e drammaticamente abbassata. Fino a tre anni fa l´età media di un giovane che si avvicinava a questo tipo di droghe pesanti, quali la cocaina, era 16 anni e questo già aveva creato allarme rispetto a studi condotti nel passato. Fino a 10 anni fa, infatti, l´età media del consumo anticipato era 17». Oggi invece si comincia a 13, 14 anni. E gli spacciatori, per andare incontro alla legge del mercato, si sono adeguati al nuovo consumo.
Ed eccoci agli arresti dei primi nove mesi dell´anno, ovvero sedicenni e diciassetteni che abitano dai Parioli a Tor Bella Monaca, sono di estrazione sociale elevata e medio-bassa; sono figli di professionisti ma anche di operai. Il fenomeno è dunque trasversale.
Ma quel che colpisce è che a gestire lo sballo dei minori siano i minorenni stessi. Una partita giocata tra loro, con le loro regole, i loro tribunali, le loro leggi di compravendita. Una schiera di giovanissimi pusher che nulla sa di `ndrangheta e del monopolio che l´associazione criminale ormai detiene sullo spaccio della polvere bianca, sia in Italia che nel resto d´Europa. E questa inconsapevolezza sui macroscopici meccanismi fa sì che una dose di «neve» venga spacciata anche a prezzi stracciati. «Una bustina di cocaina - dichiara ancora Tomasone - si trova anche a quindici euro. Parliamo appunto di mini-dosi. E questo ovviamente rende la sostanza alla portata di tutti». Altro discorso è quello della purezza: secondo gli esperti l´abbassamento del costo della sostanza viaggia di pari passo con un utilizzo maggiore di sostanze da taglio. Quello che i ragazzini dunque assumono è una piccola percentuale della sostanza richiesta (coca, piuttosto che hashish o pasticche) e quantità industriali di mannite, lidocaina, talco, gesso e via dicendo.
Ultimo dato di rilievo: nella classifica delle droghe trovate nelle tasche dei 59 teenager arrestati fino a settembre troviamo al primo posto l´hashish e la marijuana, seguite a breve distanza dalla cocaina. Solo una piccola parte dei baby pusher è stato arrestato per spaccio di pasticche, il cui traffico sulle piazze è ancora in mano ai maggiorenni.

Repubblica Roma 2.10.08
Vive in periferia in uno scantinato di 30 metri quadrati e ha rimpiazzato il fratello finito in cella: "I miei clienti sono i ragazzi ricchi"
"Io, 14 anni, pusher nei migliori licei"
Il racconto di Manolo: "Con trenta euro ci sniffano in quattro"
di F. A.


"Ho passato un sacco di sere in centro e mi sono fatto conoscere dai pischelli giusti, quelli vestiti tutti fichi..."

«Ho iniziato a spacciare quando avevo dodici anni. Ora ne ho 14 e, non per vanto, ma sono uno dei più richiesti tra i liceali della capitale. Perché ho roba buona, non vendo schifezze. Con la coca che ho io, nessuno s´è mai sentito male con me. Garantito». Manolo vive in periferia, in uno scantinato di 30 metri quadrati che, quando aveva sei anni, i genitori hanno occupato abusivamente. Quello spazio buio e angusto Manolo lo divide, oggi, con la moglie del fratello, una ragazza albanese, e i suoi due nipotini.
Perché hai iniziato a spacciare a 12 anni?
«Perché lo faceva mio fratello, che ha sei anni più di me, ma lui se lo sono bevuto le guardie, ora sta in galera. E allora ho dovuto rimboccarmi le maniche e prendere il suo posto, altrimenti qui non si tirava avanti la baracca».
Come hai iniziato?
«Fuori dai licei del centro della città. Ho dovuto cambiare giro rispetto a mio fratello, altrimenti beccavano pure me, anche se tanto per l´età che ho nessuno mi può far niente».
Gli acquirenti te li sei andati a cercare tu, insomma.
«In un certo sì, ma non è che la cosa è stata così difficile. Ormai si fanno tutti, altrimenti non ci si diverte più. Quindi che ho fatto io? Ho passato un sacco di sere in centro, Campo de´ Fiori, piazza Navona, Pantheon, mi sono fatto conoscere dai pischelli giusti, quelli vestiti tutti fichi e poi ho costruito un rapporto di fiducia. La droga me la prenotano per telefono e io gliela porto sotto la scuola».
Usate un codice per comunicare il quantitativo di droga che devi portare?
«Sì, certo. Alcuni mi dicono che hanno preso tre all´interrogazione di filosofia e io capisco che vogliono tre pallette; altri mi dicono "Quando ci vediamo, mi porti un amico?". E allora ne vogliono una».
Qual è la droga che vendi di più?
«Cocaina. Ormai il fumo non lo vuole più nessuno. Anche perché se consideri che con trenta euro, ci pippano pure in quattro e che con la coca stai a mille, chi te lo fa fare di comprare hashish o "maria"?».
A quanto la vendi una dose?
«Dipende: dai 15 ai 50 euro. Ma arrivo pure a 70 se la coca la taglio con le amfetamine».
E tutta questa cocaina dove la rimedi?
«Amici fidati di famiglia».
Tu sei un consumatore di cocaina?
«E certo. Sono mica scemo che la vendo e non me la prendo».
Ma perché piace così tanto la coca?
«Perché con la coca stai gasato, non ti stanchi mai, non hai paura di niente, hai voglia di stare in mezzo alla gente e di parlare con tutti».
E senza cocaina no?
«No, perché in fondo non hai niente da dirti. Prendi me: di cosa vuoi che parli con una ragazza della puzza di muffa di casa mia? Invece con la coca è diverso: mi sento un re, forte, bello, potente. E allora pure lo scantinato mi sembra una reggia».

Corriere della Sera 2.10.08
I Romanov Secondo la sentenza la famiglia imperiale fu trucidata «senza motivo»
«Vittima del terrore bolscevico» La Russia riabilita lo zar Nicola
Storica sentenza della Corte Suprema. Ma un erede: «Ridicolo»
di Fabrizio Dragosei


La chiesa li aveva già proclamati martiri e Eltsin nel 1998 li aveva fatti seppellire nella Fortezza di San Pietro e Paolo a San Pietroburgo

MOSCA — La chiesa li aveva proclamati martiri e Boris Eltsin nel 1998 li aveva già fatti seppellire nella Fortezza di Pietro e Paolo a San Pietroburgo. Ieri, finalmente, anche la magistratura ha messo da parte i cavilli e ha riconosciuto che i membri della famiglia imperiale assassinati dai bolscevichi nel 1918 furono vittime della repressione sovietica. Lo zar Nicola II, la moglie e i suoi figli sono stati quindi ufficialmente riabilitati. Un fatto ovvio che al capo della famiglia Romanov, Nikolaj, appare «ridicolo». Sarebbe come «riabilitare San Pietro o San Paolo perché furono condannati a morte dai romani», ha detto alla rete televisiva Ntv.
Soddisfatta invece Maria Romanova, esponente di un'altra ala della famiglia che aveva iniziato la causa davanti alle autorità russe. Adesso l'associazione Memorial chiede che venga riabilitato l'intero movimento «bianco» che si batté contro i bolscevichi. E che siano rimossi «tutti i simboli del terrore rosso», a cominciare dalla salma di Lenin che ancora si trova nel mausoleo al centro della Piazza Rossa.
Nel novembre scorso la Corte Suprema aveva negato la riabilitazione affermando che nel 1918 i membri della famiglia Romanov «non erano stati arrestati per motivi politici e non erano stati condannati da una corte». Quindi, formalmente, mancavano i presupposti per una decisione positiva.
Ora il presidium della stessa Corte (il direttivo) ha riconosciuto che comunque lo zar e i suoi familiari «furono repressi senza motivo». E ha deciso di riabilitarli.
Trasportati sugli Urali a Ekaterinburg dopo l'abdicazione, i Romanov vennero massacrati in una cantina il 17 luglio del 1918 e poi sepolti nei boschi attorno alla città. Nicola II, la moglie Alessandra, le figlie Olga, Tatyana, Anastasia e Maria; l'erede al trono Aleksej. Assieme a loro furono uccisi il medico di corte, una cameriera, il cuoco e il maggiordomo (non riabilitati).
Nel 1991 vennero trovati in una fossa comune i resti della coppia imperiale e di tre figlie. Quelli di Maria e di Aleksej sono invece riemersi pochi mesi fa dopo ulteriori ricerche.
La legge russa sulla riabilitazione delle vittime di Stalin e Lenin prevede che gli eredi possano chiedere i danni e la restituzione dei beni ingiustamente confiscati, ma non se questo è avvenuto «in base alle leggi in vigore al momento della confisca stessa».
La famiglia Romanov ha detto che non intende aprire questo capitolo, ma secondo alcuni esperti potrebbe comunque presentare un ricorso alla Corte Europea dei diritti umani (c'è un precedente a favore di Costantino di Grecia). Per reclamare anche l'Hermitage, il famoso museo di San Pietroburgo che era abitato dalla famiglia imperiale quando si chiamava Palazzo d'Inverno.

Corriere della Sera 2.10.08
Tendenze Il filosofo francese delinea un rapporto inedito tra sfera pubblica e sentimenti personali. Ripartendo da Hegel e Rousseau
Amore e destino le nuove parole della politica
Tramonta il modello «ricchezza e successo»
di Jean-Luc Nancy


È comprensibile che oggi ci s'inquieti per il possibile destino dell'amore — così come ci si può inquietare per il destino della politica o anche per quello della scienza. Ma può darsi che — per l'amore come per la politica o la scienza (come per l'arte, la filosofia, la religione) — gravi su queste inquietudini una pesante ipoteca: se supponiamo che ciascuna di queste parole sottintenda un concetto intoccabile e intangibile, di cui potremmo dare le coordinate logico-semantiche, allora non c'è alcun dubbio che l'«amore» sia in pericolo, come lo è anche la politica. Ma niente ci porta a dire che possiamo o dobbiamo credere al valore perenne di queste nozioni.
Non è impossibile comprendere ciò che lega la politica all'amore, in maniera inapparente ma incontestabile. L'intera nostra tradizione parla a questo proposito un linguaggio visibilmente doppio: da una parte si afferma che la vita comune deve avere per principio l'amore (che sia sotto la forma del legame familiare, come per Hegel, sotto quella del contratto come consenso, con Rousseau, sotto quella dell'amicizia connessa alla sovranità, con Carl Schmitt) ma dall'altra parte si afferma anche che l'amore appartiene alla sfera privata e non può intervenire né come ingrediente, né come modello nella sfera pubblica.
Tuttavia, accade che oggi la mutazione profonda della politica — ossia il fatto che essa debba rinunciare a realizzare l'assunzione di un destino collettivo ma ben piuttosto subordinarsi alle sfere non politiche in cui si gioca ciò che merita propriamente il nome di «destino» (destinazione, fine ultima…) — questa mutazione, dunque, libera in conclusione un nuovo spazio per l'amore: né principio supposto di un'alleanza comunitaria, né pura elezione privata sottratta all'intera posta in gioco comune, l'amore potrebbe d'ora in avanti trovare un modo nuovo di affilare il suo proprio carattere (tutto ciò che gira attorno al matrimonio e alle forme connesse che s'inventano attorno ad esso e in parte contro di esso è forse rivelatore di una possibilità importante di trasformazione dei rapporti tra l'amore e la sfera pubblica o sociale).
Più ancora di Freud e del suo tempo, noi abbiamo compreso che la violenza non soltanto può diventare ben più mostruosa di quella delle trincee, delle mitragliatrici e dei gas, non soltanto può propagare e disperdere le proprie piaghe ben al di là del teatro dei combattimenti, fino al cuore di ogni vita, ma ancor più può diventare violenza inerente all'ordine o al disordine sociale, economico, culturale, violenza ideologica, finanziaria, tecnica, amministrativa, ecologica… Non è più un «disagio della civiltà » quello al quale noi assistiamo, è la civilizzazione stessa come disagio e come barbarie nel senso preciso di un'impresa di conquista e di espansione privata di veri scopi, presa dalla sola vertigine di un'accumulazione di ricchezza e di performance che non designano alcun altro orizzonte al di fuori della loro stessa espansione indefinita.
L'amore nel suo concetto moderno — vale a dire cristiano, romantico e metafisico — rappresenta il rovescio (o il dritto…) di una tale espansione, salvo a qualificarla d'infinito e non d'indefinito. Se il principio moderno in generale — il principio sotto l'effetto del quale si è dissolto il principio di tutte le altre culture, che era sempre, sotto l'uno o l'altro modo, un principio di determinazione e di finitudine — è proprio il principio d'infinitudine, allora il suo dispiegamento esige la proiezione di una fine infinita. Una fine infinita rivela una contraddizione se la fine deve mettere un termine all'infinito. Ma bisogna distinguere con Hegel il cattivo e il buon infinito. Il cattivo è quello in cui l'infinità è in potenza: è sempre suscettibile di essere portata più lontano e «l'infinitamente più» è così esteriore a se stesso. Il buon infinito è quello in cui l'infinità è in atto (vale a dire che è solo reale): il suo «infinitamente più» è sempre già effettivamente in sé, ma così la sua interiorità è strutturalmente in eccesso su di sé.
L'espansione indefinita — o semplicemente esteriore — dei fini dell'arricchimento e della performance
forma la fine infinita secondo il cattivo infinito. È la fine infinita secondo la quale la fine, lo scopo, il compimento, non consiste che nella produzione rinnovata di valori o sensi sempre equivalenti tra loro: tanto per il denaro come per i valori tecnici misurati in velocità, distanza, forza eccetera (al contrario, ricchezza o performance
possono essere misurate in tutt'altra maniera: nella dismisura di una gloria, di un'opera, di un pensiero…).
L'amore è il nome della fine infinita secondo il buon infinito. In esso il compimento consiste non in una produzione ma in qualche modo nella riproduzione, nella ripetizione, ossia nella ruminatio di un'incommensurabile: l'amore, precisamente, come assegnazione (attribuzione, attestazione, dichiarazione, creazione: bisognerebbe analizzare tutti questi modi) di un valore assoluto — nemmeno «valente», in qualche modo, o valente di non essere valutabile.
Questa semplice constatazione ci permette anche di affermare qualcosa di molto semplice ma di una grande importanza: il solo fatto che siamo in apprensione per l'amore, che non cessiamo di cercarlo nella vita e d'interrogarlo nel pensiero, comprendendoci e, assieme e allo stesso tempo, fraintendendoci su ciò che abbiamo così di mira, questo solo fatto ci assicura che l'«amore» c'inquieta, che ci tiene in allerta e che è una scommessa — non oserei dire «di civilizzazione», tanto l'espressione è già usata fino ad essere uno slogan politico, ma direi in maniera più barbara «esistenziale » e/o «ontologica» (a meno che non si preferisca «metafisica», questo m'importa poco).
Mettiamo dunque la nostra cura al lavoro: amiamo la nostra stessa inquietudine d'amore riguardo all'amore.
Cerchiamo di avere per l'amore un pensiero slegato, esigente, che ami il suo oggetto e che gli porti tutta la stima di cui è capace: un pensiero amante. Con questo voglio dire: non un pensiero che si lascia captare da tutto ciò che pretendono dirci dell'amore in forma sociologica, psicologica o culturale.
(GEORGE SHEWCHUK / CORBIS)

Corriere della Sera 2.10.08
Archeologia. Waldemar Deonna
Quando il triangolo non è solo un simbolo
di Armando Torno


La Nike di Paionios, conservata al Museo di Olimpia, è il punto di partenza di Waldemar Deonna (1880-1959) per riflettere su una delle figure enigmatiche della storia e cariche di simbologia: il triangolo sacro. Più che un saggio questo libro è una dotta odissea tra iconologie fiorite in tempi e luoghi diversi, legate tra loro da un segno che si ritrova sui frontoni dei templi greci, nell'Italia etrusca e romana, nei culti pagani e anche in quelle culture lontane dal Mediterraneo. Ma esso è presente anche nell'architettura moderna, nell'iconografia vegetale e animale, negli utensili, perfino nelle armi. Marco Bussagli nella prefazione ricorda che le domande di Deonna «sono da antropologo nel senso più ampio del termine».
Pagine dense (metà libro è costituito da note), ricche di intuizioni e di intrecci tra civiltà e tendenze, nelle quali il lettore pensa in un primo momento di perdersi. Ben presto, tuttavia, si accorge di essere coinvolto; in ogni percorso di Deonna c'è materia per stupirsi, come quando l'autore analizza la forma del triangolo e ricorda che questa figura geometrica può essere unica e multipla, che molti simboli si associano ad essa e che le religioni non riescono a liberarsi dalla sua forza. Figura sacra già nel mondo punico, Freud la sessualizza e ricorre ad essa per spiegare i culti contemporanei che passano attraverso la materialità del corpo. Del resto, il triangolo è in noi. O meglio, fa parte dell'anima.
WALDEMAR DEONNA Il triangolo sacro MEDUSA PP. 192, e 18,50

Corriere della Sera 2.10.08
Una raccolta di articoli mette sotto accusa i saggi divulgativi di Montanelli, Pansa e Vespa
Storici e no, guerra sulla memoria
Lotta partigiana, vendette e impunità: la polemica di Sergio Luzzatto
di Aldo Cazzullo


«Gli storici devono fronteggiare una sorta di concorrenza sleale: la concorrenza di giornalisti, o comunque di opinion- makers che il sistema dell'informazione tende ad accreditare come ferrati in materia di storia, e che il pubblico è indotto a riconoscere come tali». Per cui «capita fin troppo spesso che diventino bestseller libri dove la storia è trattata in un modo all'apparenza cordiale, in realtà dilettantesco: autorizzando nei lettori un sentimento di familiarità con il passato che andrebbe considerato, piuttosto, ignoranza aggravata di quel passato». Ed ecco i nomi: «I libri "storici" di Indro Montanelli hanno fondato un genere che continua a prosperare, e a fare danni: per esempio, nella forma dei libri "storici" di Giampaolo Pansa o di Bruno Vespa».
La polemica di Sergio Luzzatto contro «il giampaolopansismo e il brunovespismo della memoria» non è inedita; anzi, percorre tutta la sua raccolta di Interventi sulla storia del Novecento
che Manifestolibri manda oggi in libreria, con il titolo Sangue d'Italia. Però l'invettiva della — inedita — prefazione non è rivolta solo contro fortunati autori; colpisce una figura, quella del giornalista-storico. «Un falso medico che abusi del titolo per esercitare la medicina è passibile di azione legale per millantato credito, e in ogni caso viene additato pubblicamente come un ciarlatano. Perché un falso storico che abusi del titolo per discettare sul passato dovrebbe meritare un trattamento differente? ». Scrive Luzzatto di essere consapevole che «a fare discorsi del genere si rischia di vedersi rimproverato un atteggiamento corporativo, da "ordine professionale" degli storici». Rischi che, aggiunge, vale la pena di correre: «Io credo che gli storici di mestiere devono svolgere un'azione — per così dire — di igiene culturale. Al pari di ogni altro mestiere, quello dello storico presuppone sia la padronanza di alcune tecniche di lavoro, sia il rispetto di una deontologia professionale: senza le quali non si ha storia, ma chiacchiera, e non si ha uso pubblico del passato, ma abuso».
La tesi di Luzzatto è che proprio all'uso della storia nella scena politica e culturale mirino libri il cui successo viene attribuito non tanto al contenuto o al linguaggio quanto al vellicare gli istinti peggiori e la cattiva coscienza della nazione. È qui che la sua polemica appare un po' troppo severa, quando contesta a Pansa non inesattezze ma, in fin dei conti, il successo: «Il libro ripete cose che si sanno. Che sono state dette e ridette, scritte e riscritte, interpretate e reinterpretate — con ben maggiore sottigliezza rispetto a quella di Pansa — da tutti i migliori studiosi della guerra civile e dell'immediato dopoguerra», tra cui sono citati Mirco Dondi, Guido Crainz, Santo Peli, Massimo Storchi. Come se non fosse naturale che una firma del prestigio e della notorietà di Pansa, e una penna del suo livello, abbia una diffusione superiore quando si occupa, magari in modo più fruibile al grande pubblico, di temi magari già affrontati dagli storici. Il vero demerito di Pansa diventa allora, agli occhi di Luzzatto, il suo pubblico, l'«audience giampaolopansista», la stessa che ieri fu di Montanelli e oggi è di Vespa — «un giornalista che pure, in confronto a Pansa, torreggia come un gigante della storiografia » —, vale a dire «il ventre molle di un'Italia anti-antifascista prima ancora che anticomunista.
Un Paese felice di vedere i resistenti messi alla berlina della storia o, peggio, alla ghigliottina della morale. Un Paese felice di scoprire che i propri padri o i propri nonni, che nulla avevano fatto durante la guerra civile, non valevano meno di coloro che si erano vantati di avere liberato la penisola, mentre avevano versato dovunque sangue innocente».
Qui si profila meglio «l'azione di igiene culturale » che Luzzatto rivendica a sé e ai colleghi. Ricordare ai lettori che la storia della guerra civile è fatta anche e soprattutto delle atrocità commesse da nazisti e fascisti — indimenticabili le pagine sugli impiccati di Bassano del Grappa —, e che il dopoguerra è segnato non solo dalle vendette, ma pure dall'impunità: «Chi aveva comandato i plotoni d'esecuzione di Salò venne assolto perché non aveva personalmente imbracciato il fucile. Chi aveva stretto nelle morse i genitali degli antifascisti fu amnistiato perché la tortura non era durata particolarmente a lungo. Chi aveva promosso lo stupro di gruppo delle staffette partigiane venne giudicato colpevole di semplice offesa al pudore femminile», come scrive Luzzatto in riferimento a L'amnistia Togliatti di Mimmo Franzinelli, «un libro che molto più dei volumi di Pansa o di Vespa meriterebbe di andare incontro a un destino da bestseller». La pars construens di Luzzatto convince più della pars destruens pure per questo motivo: lo storico genovese, oltre a pubblicare da Einaudi, interviene sui giornali anche perché scrive benissimo. Dimostrando in prima persona come il rigore non sia incompatibile con lo stile (da qui il grande successo anche editoriale del suo ultimo saggio su padre Pio). Di particolare interesse le pagine in cui Luzzatto lavora sul filone che fin da Il corpo del Duce caratterizza la sua ricerca: la body history, l'importanza del corpo come mito politico nel Novecento italiano. Da rileggere il parallelo tra la fisicità (e il mito) di Mussolini e quella di Carnera. E le riflessioni su Pier Paolo Pasolini, che prendono spunto da una circostanza sinora ignorata, probabilmente dallo stesso scrittore: fu il padre, Carlo Alberto Pasolini, a salvare il Duce dall'attentato del 1926 a Bologna, cui seguono il linciaggio di Anteo Zamboni e le «leggi fascistissime». Tanto più che la stroncatura del giornalista-storico risparmia il grande rivale di Pansa, Giorgio Bocca, autore di testi storici — dalla biografia di Togliatti ai saggi sulla guerra fascista, la guerra partigiana, l'Italia repubblicana — che pure hanno avuto una vasta platea; eppure Bocca non è mai citato. Mentre a Brera, cui è dedicato un articolo di grande acutezza, viene fatto un riconoscimento: «Gianni Brera fu uno storico mancato».
Qui sopra: in alto, Indro Montanelli; in basso Giorgio Bocca. Nella foto a fianco: un gruppo di partigiani dopo la Liberazione

Riprenderanno ad ottobre le attività del “Laboratorio di produzione musicale guidata”; per gli eventuali interessati gli incontri quindicinali avranno luogo presso la “Fonderia delle Arti” (Via Assisi 31 - Roma - metro A Ponte Lungo - Fs stazione Tuscolana).
Di seguito la presentazione; per ulteriori informazioni scrivere a info@tonycarnevale.it.
Visitate anche
www.myspace.com/ciapm www.myspace.com/tonycarnevaleopenproject www.tonycarnevale.it


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Hai un’idea musicale e non sai come svilupparla?
Hai un progetto originale da realizzare e non sai come fare?
Canti ma non ti scrivi le canzoni?
Siete un gruppo e volete migliorare i vostri brani?
Vorresti saper dirigere una “produzione musicale”?

Questo progetto di formazione, ideato e diretto da Tony Carnevale, è rivolto ad autori/compositori, gruppi, cantautori, interpreti, arrangiatori e produttori musicali, e si basa sulla realizzazione di progetti originali dei partecipanti guidati dal direttore in un vero e proprio rapporto artistico, quello che poi si dovrà affrontare nella vita professionale concreta; i partecipanti (singoli o gruppi) propongono un proprio progetto originale, anche solo un’idea, e lo sviluppano all’interno del laboratorio in una particolare dimensione collettiva dove ognuno, oltre a realizzare il proprio, partecipa alla realizzazione degli altri progetti, con la guida e le stimolazioni del direttore.
E’ immediato dedurre che in questo contesto quello che conta è il rapporto che si instaura tra le realtà personali dei partecipanti e la realtà personale del direttore stesso, non solo le sue specifiche esperienze professionali, ma il
patrimonio creativo che ogni singola persona ha diverso dall’altra; non ci possono essere quindi “somiglianze” con altri corsi: entrando a far parte di questo laboratorio è un po’ come scegliere una linea di pensiero artistico, non un generico “corso”.
Partendo da una semplice idea, coma dicevamo, si arriva al definitivo, attraverso le fasi di
ideazione del progetto, testi e musiche, strutturazione e definizione stilistica (arrangiamento), pre-produzione e produzione definitivamissaggio creativo e al mastering, al progetto grafico, alle problematiche connesse al diritto d’autore, al diritto dell’interprete esecutore, ai contratti editoriali e discografici.
Come già accennato, gli incontri si svolgeranno in un contesto collettivo, fondamentale per le diverse stimolazioni che ne derivano, sotto la guida artistico/tecnica del direttore (per qualunque chiarimento sul metodo rivolgersi direttamente al M° Tony Carnevale - 338 8373568).
(interpretazione e registrazioni) utilizzando il computer e i software audio di maggior diffusione, approdando infine al

Sono previste 4 categorie di partecipanti e relative quote differenziate:
1. A progetto: realizza un proprio progetto originale collaborando contemporaneamente agli altri progetti
2.
Interprete: partecipa attivamente alla costruzione e realizzazione dei progetti del laboratorio, potendo oltretutto usufruire del lavoro creativo degli altri partecipanti “a progetto” i quali realizzeranno anche progetti originali “su misura” per le/gli interpreti partecipanti (quota di partecipazione ridotta a 1/3)
3.
Gruppo (da 2 a 4 persone): partecipa “a progetto” ma dividendo la quota di partecipazione; è prevista la possibilità di lavorare direttamente con gli strumenti in sala, provando all’istante le possibili variazioni
4.
Uditore: assiste agli incontri del laboratorio e interviene a discrezione del direttore
E’ possibile partecipare gratuitamente per un mese per capire meglio il metodo.
Il laboratorio si divide in due livelli:

Primo Livello:

In questa fase l’obiettivo è quello di sviluppare le competenze necessarie alla realizzazione autonoma di un progetto musicale a livello di pre-produzione; a questo primo livello possono partecipare TUTTI, anche semplici appassionati, proprio grazie al metodo che privilegia “l’idea” rispetto alla “tecnica”.

Secondo Livello:

In questa fase si realizza un progetto definitivo, affrontando la frammentazione delle competenze nella catena produttiva, mirando a formare una capacità di “regia” del progetto, quella che viene definita “produzione musicale” (spesso anche denominata “produzione artistica” o “direzione artistica”). Questa fase è quindi indicata sia a chi vuole sviluppare la capacità di realizzare professionalmente le proprie idee, sia a chi vuole acquisire una professionalità specifica come “produttore musicale” o come “arrangiatore” . Per questo livello è richiesto il minimo di competenze tecniche di base necessarie alla realizzazione di un progetto musicale.
I partecipanti al laboratorio potranno inoltre usufruire di una convenzione per la realizzazione dei propri “demo” o di vere e proprie produzioni.

Per partecipare è sufficiente presentare un’idea musicale anche solo abbozzata; per la categoria “interpreti” una registrazione di un qualsiasi brano musicale.
E’ prevista inoltre la possibilità di partecipare “senza progetto” (la quota di partecipazione è ridotta ad un minimo), collaborando ai progetti degli altri partecipanti.
Gli incontri sono quindicinali e collettivi e si svolgono di giovedì; la durata è di circa 6 ore ad incontro (17:00 – 23:00).
Per le informazioni amministrative contattare la segreteria della scuola.

Prospetto degli argomenti

I° livello
• Aspetti creativi della composizione: l’ideazione del progetto.
• Composizione multistilistica: testi, strutture e stili, dalla semplice “song” al sinfonismo moderno.
• Arrangiamento, orchestrazione e pre-produzione: strutturazione di parti ritmiche, strumentali e vocali in vari stili, stesura delle stesse al computer, editing e stampa.
• Rapporto creativo tra autore, arrangiatore, interprete e produttore: aspetti tecnici e psicologici del rapporto tra le varie figure professionali della produzione
• Problematiche connesse alle diverse applicazioni della musica, con specifici approfondimenti su discografia, cinema, audiovisivi, televisione, danza.
• Ascolto analitico e commento di lavori musicali applicati.
• Gestione creativa di software musicali.
• Elementi base di tecnica della registrazione: ripresa di strumenti e voci, registrazione digitale.
• Elementi base di fonica ed elaborazione del suono, mix creativo, Editing.
• Aspetti tecnici e organizzativi di una produzione musicale: dall’ideazione alla realizzazione di un master, pianificazione ed ottimizzazione del lavoro.
• Aspetti legali dell’attività musicale: il diritto d’autore, i diritti degli artisti interpreti esecutori, le Royalties, i contratti etc.
II° livello
• Produzione musicale applicata: realizzazione definitiva di un progetto.

mercoledì 1 ottobre 2008

l’Unità 1.10.09
Razzisti in divisa
Pestato a Parma solo perché ha la pelle nera
L’incredibile vicenda di Bonsu Foster, 22 anni
picchiato dai vigili urbani. Insultato e denudato
di Gigi Marcucci

Emmanuel, 22 anni, ghanese, pestato e insultato dai vigili a Parma
Aggredito senza motivo. Sul verbale di rilascio hanno scritto: «Negro»
Rincorso all’uscita di scuola, pestato, portato via in manette dagli agenti della polizia municipale. Motivo? Lo avevano scambiato per uno spacciatore. Ma lui non aveva fatto nulla. Quando il giovane studente ghanese è stato rilasciato i vigili gli hanno consegnato una busta con sopra scritto «Emmanuel negro». Nella civile Parma il secondo, insopportabile episodio di intolleranza, di vessazione ai danni di chi non può difendersi. Ad agosto era capitato a una prostituta nigeriana abbandonata per terra, seminuda, nella camera di sicurezza della Municipale.

SI CHIAMA BONSU Emmanuel Foster, ha 22 anni, è arrivato 13 anni fa dal Ghana, va alla scuola serale per imparare un mestiere, e studia anche di giorno per colmare alcune lacune dell’istruzione di base. La sua fedina penale è intonsa, come quella di tutta
la sua famiglia: il padre lavora come operaio metalmeccanico. Da 48 ore Emmanuel è al centro di una storia che probabilmente non l’avrebbe nemmeno sfiorato se non avesse la pelle nera. Ore 18,15 di lunedì sera, Emmanuel arriva tra i banchi dell’Itis serale di via Toscana, a Parma. Manca mezz’ora all’inizio delle lezioni. Lascia la cartella, esce per prendere una boccata d’aria, fare due chiacchiere coi compagni. Accade però qualcosa di insolito. Emmanuel vede due uomini in borghese. «Ho visto che parlavano al cellulare, un altro mi si è avvicinato e mi ha afferrato le mani». Bonsu non capisce, si spaventa, tenta la fuga. Non pensa che quegli uomini siano rappresentanti dello Stato, tanto meno lo sfiora l’idea che siano vigili urbani. «Pensa a un’aggressione, come quella che a Milano è costata la vita a un giovane di colore», racconta lo zio Christian Gyamfi, che nel suo Paese fa l’ufficiale dell’Immigrazione, ed esibisce con orgoglio il suo tesserino. Emmanuel scappa, viene preso, buttato per terra, pestato. Gli mettono un ginocchio sulla testa, viene ammanettato e portato sull’auto di servizio. Qui, spiega, lo pestano ancora e gli fanno un occhio nero. Il resto del racconto, Emmanuel lo fa uscendo dalla caserma dei carabinieri di Parma, dove si è recato a mezzogiorno col padre per sporgere denuncia - e da cui, inspiegabilmente, può uscire solo dopo oltre otto ore. «Quando siamo arrivati nella caserma dei vigili sono stato insultato e denudato», dice. Poi si allontana col padre, che scuote la testa: «Quello che è successo è grave e incredibile, perché Parma non è una città razzista. Ora dobbiamo scegliere un avvocato». Forse a bruciare di più è quella busta in cui i vigili hanno messo i documenti del ragazzo. Accanto al nome Emmanuel si legge la parola “negro”.
Accade nella città dove il ministro Maroni e il sindaco Pietro Vignali, erede del civismo moderato di Elvio Ubaldi, hanno tenuto a battesimo la legge che, in materia di sicurezza, dà più potere ai rappresentanti delle amministrazioni locali. Il Comune ha appena sfornato sette ordinanze, ora all’esame del governo, e finisce nella bufera per un’altra brutta storia riguardante la polizia municipale. Solo poche settimane avevano fatto il giro del mondo le foto di una nigeriana morta, ritratta nuda sul pavimento di una cella di sicurezza nella caserma dei vigili urbani. Sul caso di Emmanuel, finito sul sito internet di Repubblica, sono state aperte quattro inchieste: una della Procura, affidata al Pm Roberta Licci, una interna del Comune, una dell’Ufficio governativo che si occupa di discriminazioni e una da Bruxelles. Costantino Monteverdi, assessore alla Sicurezza, non nasconde il suo imbarazzo. «Stamattina ho appreso che i vigili urbani, di cui proprio in quella zona viene lamentata l’assenza , hanno catturato uno spacciatore, e mi sono congratulato col comandante. Poi ho saputo del racconto del ragazzo e ho convocato tutti in Comune». Ma da quando i vigili si occupano di indagini antidroga? «Non se ne occupano, il fermo, mi hanno detto è avvenuto in flagranza di reato».
In realtà uno spacciatore è stato arrestato, proprio nello stesso giardino in cui si trovava Emmanuel. Ma lui che c’entra? In serata arriva un comunicato: «L'Amministrazione intende riaffermare che la difesa della legalità rimane primaria, ma non può essere in alcun modo disgiunta dal rispetto dei diritti inalienabili della persona È necessario fare chiarezza oltre ogni possibile dubbio». Il comandante della Polizia Municipale di Parma, Emma Monguidi, difende invece totalmente l'operato degli agenti: «Non c'è stata nessuna violenza sul giovane. Niente insulti, tanto meno in caserma. Non è mai stato spogliato e l'abbiamo trattato con rispetto, come tutti, al di là del colore della pelle». Poi ammette: «Come da prassi lo abbiamo perquisito: ma solo per verificare che non avesse oggetti per autolesionismo. La scritta “negro” sulla busta? Quella busta era bianca, forse l'ha fatta lui».

l’Unità 1.10.09
Fascismi. Il Paese dell’odio
di Clara Sereni

Ieri è successo a Parma, a Emmanuel Bonsu, picchiato da sette vigili urbani per un sospetto, e nel verbale invece del suo nome hanno scritto «negro». È successo nei giorni scorsi a Milano, a Castelvolturno, a Monza, a Cosenza, ancora a Parma, e in tanti luoghi di cui non abbiamo notizia. È successo che gli invisibili - disabili, negri, prostitute, lavoratori in nero di ogni etnia - li vediamo in cronaca, picchiati espulsi uccisi. Ma questo non è un Paese razzista, ci dicono e ci diciamo.
Proviamo a partire da lontano, forse può aiutarci a capire. Nei campi di sterminio nazi-fascisti furono soppressi circa 13 milioni (milioni!) di persone.
Tredici milioni vuol dire un pezzo non irrilevante di popolazione mondiale: ci vogliono Austria e Danimarca sommate insieme, per arrivare a questo numero, o due terzi dei cittadini australiani. Sei milioni circa erano ebrei. Sette milioni circa erano antifascisti e antinazisti, zingari e disabili, omosessuali e comunisti, e perfino coppie di gemelli, un’eccezione della natura particolarmente cara a Mengele, il mostruoso dottor Morte. Tredici milioni di “diversi” per scelta o per destino, accomunati dall’essere considerati meno di niente, un agglomerato di rifiuti, un’immondizia da eliminare, in quanto tali da riciclare per le loro parti preziose: l’oro delle protesi dentarie per farne lingotti, o i grassi umani per farne sapone, tanto per fare qualche esempio. Come le lattine d’alluminio, come il vetro, come la carta. Intorno a quei 13 milioni, un numero così grande da essere quasi inconcepibile, un’Europa cieca e muta.
Ad oggi, e malgrado ogni negazionismo, il nucleo più integrale di razzismo è questo: le persone diventano meno di niente. I diversi prima diventano invisibili, inesistenti, privi di diritti, e solo dopo vengono in un modo o nell’altro (ce ne sono tanti!) eliminati, in un sogno folle ma frequente di omogeneità sociale.
Sono partita da lontano, ma tutto questo ci riguarda: oggi, e non solo per la memoria che qualcuno di noi ancora ne porta. Per alcuni (pochi) decenni l’integrazione delle e fra le diversità è stata il leit-motiv dei movimenti più avanzati: dalla scuola alla psichiatria, dalla religiosità più avanzata all’emigrazione italiana all’estero. Numeri solo un po’ meno milionari anche qui, ma sembrava normale, ed era possibile. «Diverso è bello», si diceva, pur con la coscienza delle difficoltà. Si diceva “integrazione” per significare che senza questo o quel pezzo, questa o quella diversità, il corpo sociale non è intero, è deprivato.
Mi chiedo dove i saperi legati a tutte queste esperienze siano andati a finire. Certo negli insegnanti di sostegno disperati e disperate che (come nella lettera a Cancrini pubblicata di recente su queste pagine) vedono svanire il lavoro di tanti anni grazie alla sbrigativa ministra Gelmini. Certo nei timori di tanti psichiatri, utenti, famigliari, cooperative e associazioni che aspettano con grande preoccupazione i provvedimenti annunciati da Berlusconi nel programma elettorale in tema di trattamenti sanitari obbligatori, questione che porta con sé idee sulla riforma della 180 che non possono che spaventare, tanto più se in coppia con la privatizzazione della salute minacciata in questi giorni. Certo non dimenticano gli appartenenti a tante confessioni, che ancora e ostinatamente cercano l’incontro e il dialogo con l’Altro ma sono ridotti in piccoli gruppi, la cui voce è difficile far sentire. Né dimenticano molteplici strutture della Chiesa cattolica, che su più fronti ha dato conto delle proprie ansie e preoccupazioni. Non dimenticano le operatrici e gli operatori di strada, siano quelli coinvolti nella prostituzione, siano quelli che provano a portare a scuola chi è risucchiato dalle mafie.
Ma il Paese, l’Italia nel suo complesso, ciascuno di noi “normali”, cosa ricorda? E, soprattutto, cosa “vede”? Da ogni parte arrivano richieste perché chi è scomodo diventi anche invisibile: le prostitute non devono più farsi vedere per strada, i disabili se non vanno a scuola è meglio, i matti risultano pericolosi come i magistrati e viceversa, i migranti hanno il dovere di farci vivere meglio e non il diritto di affacciarsi ai diritti, le preghiere dei musulmani vanno bene purché non ingombrino, e via cancellando.
Tutto questo, tutto insieme, è razzismo. E alberga in ciascuno di noi, anche se ci piacerebbe credere che non è così. Ogni volta in cui ci sembra che il singolo problema - disabilità o Islam, colore della pelle o follia - non ci riguardi, e che dunque possiamo tacere, non opporci, non scendere in strada, rinunciare, quella che avanza è l’idea che si possano tagliar via singoli pezzi di società senza che questo sia una perdita per tutti. Il silenzio uccide l’integrazione, uccide gli invisibili, e ci uccide anche dentro.
Così come, quando c’è un vuoto, qualcosa interviene sempre a riempirlo, così nel vuoto di gesti e di parole maturano altri gesti, altre parole. Qualche anno fa, ho studiato gli archivi dell’ufficio per la difesa della razza istituito dal fascismo. Era in gran parte un tremendo elenco di piccole denunce: il tale aveva, in spregio della legge allora vigente, una domestica non ebrea, un altro aveva una radio, strumento anch’esso proibito. Piccole cose, nel piccolo mondo ottuso che dava vita e vigore al fascismo. Piccole e grandi invidie, piccole e grandi paure, piccole e grandi delazioni, il frutto velenoso di egoismi ristretti ha aperto la strada allo sterminio, maturato grazie ad una irresponsabilità e ad un silenzio collettivi. Irresponsabilità e silenzio più gravi in altre parti d’Europa ma che hanno largamente riguardato anche degli italiani, con troppa facilità e continuità messisi al sicuro sotto la coperta calda degli “italiani brava gente”.
Credo che gli italiani siano tuttora, in larga misura, brava gente. Gente con il cuore in mano, soprattutto se il portafoglio è ben custodito. Ma la smemoratezza diffusa a larghe mani, il portafoglio mai come ora in pericolo, i rischi reali e quelli artatamente innescati, il disfacimento progressivo dei legami di solidarietà, la precarietà di una politica incapace di tenere insieme tutti i fili senza farli aggrovigliare, mi fa temere che sempre più siamo e saremo come le famose tre scimmiette: non vedere, non sentire, non parlare, lasciando che qualcun altro se ne occupi, e che gli invisibili affondino nel loro mare (e non solo in senso figurato, come sappiamo). Convinti di salvarci aggrappandoci a privilegi che ci sembrano garantiti e ci fanno sentire al riparo: la cittadinanza, il colore della pelle, la cultura, le disponibilità economiche. Ma nessuno è garantito per sempre, quando i pezzi vanno via senza posa: nel silenzio sempre più cupo alla fine - come scriveva Brecht - entrerò fra gli invisibili anche io, anche tu, e non ci sarà più nessuno a gridare.
Per ricominciare a vedere gli invisibili con occhio partecipe, fuori dal silenzio, per non essere razzisti nel nostro fondo, c’è bisogno di un grande salto culturale, di quelli difficili. C’è bisogno che ciascuno riparta da sé, dalle proprie personali scimmiette. Perché, come diceva don Milani, “mi riguarda” è il contrario di “me ne frego”: concetto da tenere a mente, in questi tempi di fascismo rinascente. Quando si tende a dimenticare che i problemi li abbiamo tutti, ma uscirne ciascuno per proprio conto è egoismo sterile, mentre uscirne tutte e tutti insieme è Politica. Quella con la P maiuscola.

Repubblica 1.10.08
Il frutto avvelenato della tolleranza zero
di Curzio Maltese

A Parma, nella civile Parma, la polizia municipale ha massacrato di botte un giovane ghanese, Emmanuel Bonsu Foster, e ha scritto sulla sua pratica la spiegazione: "negro". Davano la caccia agli spacciatori e hanno trovato Emmanuel, che non è uno spacciatore, è uno studente. Anzi è uno studente che gli spacciatori li combatte. Stava cominciando a lavorare come volontario in un centro di recupero dei tossici. Ma è bastato che avesse la pelle nera per scatenare il sadismo dei vigili, calci, pugni, sputi al "negro".
Parma è la stessa città dove qualche settimana fa era stata maltrattata, rinchiusa e fotografata come un animale una prostituta africana.
L´ultimo caso di inedito razzismo all´italiana pone due questioni, una limitata e urgente, l´altra più generale. La prima è che non si possono dare troppi poteri ai sindaci. Il decreto Maroni è stato in questo senso una vera sciagura. La classe politica nazionale italiana è mediocre, ma spesso il ceto politico locale è, se possibile, ancora peggio. Delegare ai sindaci una parte di poteri, ha significato in questi mesi assistere a un delirio di norme incivili, al grido di "tolleranza zero". In provincia come nelle metropoli, nella Treviso o nella Verona degli sceriffi leghisti, come nella Roma di Alemanno e nella Milano della Moratti. A Parma il sindaco Pietro Vignali, una vittima della cattiva televisione, ha firmato ordinanze contro chiunque, prostitute e clienti, accattoni e fumatori (all´aperto!), ragazzi colpevoli di festeggiare per strada. Si è insomma segnalato, nel suo piccolo, nel grande sport nazionale: la caccia al povero cristo. Sarà il caso di ricordare a questi sceriffi che nella classifica dei problemi delle città italiane la sicurezza legata all´immigrazione non figura neppure nei primi dieci posti. I problemi delle metropoli italiane, confrontate al resto d´Europa, sono l´inquinamento, gli abusi edilizi, le buche nelle strade, la pessima qualità dei servizi, il conseguente e drammatico crollo di presenze turistiche eccetera eccetera. Oltre naturalmente alla penetrazione dell´economia mafiosa, da Palermo ad Aosta, passando per l´Emilia.
I sindaci incompetenti non sanno offrire risposte e quindi si concentrano sui "negri". Nella speranza, purtroppo fondata, di raccogliere con meno fatica più consensi. Di questo passo, creeranno loro stessi l´emergenza che fingono di voler risolvere. Provocazioni e violenze continue non possono che evocare una reazione altrettanto intollerante da parte delle comunità di migranti. Al funerale di Abdoul, il ragazzo ucciso a Cernusco sul Naviglio non c´erano italiani per testimoniare solidarietà. A parte un grande artista di teatro, Pippo Del Bono, che ha filmato la rabbia plumbea di amici e parenti. La guerra agli immigrati è una delle tante guerre tragiche e idiote che non avremmo voluto. Ma una volta dichiarata, bisogna aspettarsi una reazione del "nemico".
L´altra questione è più generale, è il clima culturale in cui sta scivolando il Paese, senza quasi accorgersene. Nel momento stesso in cui si riscrive la storia delle leggi razziali, nell´urgenza di rivalutare il fascismo, si testimonia quanto il razzismo sia una malapianta nostrana. L´Italia è l´unica nazione civile in cui nei titoli di giornali si usa ancora specificare la provenienza soltanto per i delinquenti stranieri: rapinatore slavo, spacciatore marocchino, violentatore rumeno. Poiché oltre il novanta per cento degli stupri, per fare un esempio, sono compiuti da italiani, diventa difficile credere a una forzatura dovuta all´emergenza. L´altra sera, da Vespa, tutti gli ospiti italiani cercavano di convincere il testimone del delitto di Perugia che "nessuno ce l´aveva con lui perché era negro". Negro? Si può ascoltare questo termine per tutta la sera da una tv pubblica occidentale? Non lo eravamo e stiamo diventando un paese razzista. Così almeno gli italiani vengono ormai percepiti all´estero.
Forse non è vero. Forse la caccia allo straniero è soltanto un effetto collaterale dell´immensa paura che gli italiani povano da vent´anni davanti al fenomeno della globalizzazione. La paura e, perché no?, la vergogna si sentirsi inadeguati di fronte ai grandi cambiamenti, che si traduce nel più facile e abietto dei sentimenti, l´odio per il diverso. La nostalgia ridicola di un passato dove eravamo tutti italiani e potevamo quindi odiarci fra di noi. In questo clima culturale miserabile perfino un sindaco di provincia o un vigile di periferia si sentono depositari di un potere di vita o di morte su un "negro".

Repubblica 1.10.08
Leggi razziali
L’eterno ritono dei cattivi maestri
di Adriano Prosperi

I bellissimi diari di un partigiano ebreo, Emanuele Artom torturato dai militi della RSI
Le memorie di quegli anni parlano di una vistosa assenza di reazioni
Settant´anni fa il regime fascista varava la legislazione antisemita orribile preludio dei campi di sterminio

All´appuntamento col settimo decennale delle leggi razziali - ma sarebbe meglio chiamarle col loro vero nome, leggi razziste - l´Italia, il suo governo, la sua scuola, ma anche larga parte della sua popolazione si presentano più distratti del solito, il che non è poco. Sono gli eredi politici del regime fascista, oggi al governo in Italia, che ne parlano. Lo fanno ricorrendo a un linguaggio di sapore religioso: si chiedono, col sindaco di Roma Alemanno, se quelle leggi furono il male assoluto. Il veleno dell´argomento è scoperto, ingenuo.
«Assoluto» è una parola che appartiene al linguaggio apocalittico dell´ideologia nazista. Così quelle leggi vanno sul conto del razzismo nazista e il regime fascista è assolto da ogni colpa. La tendenza italica all´autoassoluzione è antica e ben nota. Ma è necessario fare i conti con le leggi razziste che operarono nell´Italia di Mussolini dal 1938 al 1945. In questo settantesimo anniversario spinge a ricordarle non la minaccia di un ritorno dell´antisemitismo e nemmeno quel razzismo volgare che oggi in Italia è prodotto e alimentato dalla paura dello straniero, dell´immigrato: si tratta piuttosto di capire che cosa significarono allora quelle leggi nel mondo della scuola e nella cultura religiosa italiana. La ragione è semplice: le memorie di quegli anni parlano di una assenza di reazioni proprio nei luoghi che dovevano esserne più direttamente colpiti e più capaci di reazione - quelli della scuola e quelli della Chiesa. Oggi è sul fronte della scuola e su quello della integrazione fra culture e religioni diverse che il disagio della società italiana è più forte. E la mancata elaborazione di quel passato ne è insieme sintomo e causa.
Lo stato della memoria della cosiddetta società civile è quello che è. «Priebke? Boh!»: così hanno reagito qualche giorno fa le candidate a un premio di bellezza in quel di Frosinone, a poca distanza dalle Fosse Ardeatine, dove qualcuno ha avuto l´idea di invitare come testimonial quella cariatide di assassino nazista. Idea in sé non nuova - lo sanno bene i «mostri» della cronaca nera - se non fosse che i criminali di guerra sono vecchi e soprattutto ignoti ai più. Altro che memoria divisa. Il fiume di un´opinione pubblica politicamente indifferente e infastidita dalle dispute ideologiche li ha cancellati.
La stagione della post-politica perfeziona così la mancata resa dei conti col proprio passato con cui l´Italia ufficiale chiuse tra parentesi il fascismo. E ritorna in auge l´immagine negativa della politica e dei politici di mestiere, simile in apparenza soltanto a quella instillata dalla propaganda del ventennio fascista. Allora nella deliberata ignoranza e rifiuto della politica le menti più lucide videro il prodotto e la radice stessa del fascismo italiano. Lo testimoniano i bellissimi Diari di un partigiano ebreo di Emanuele Artom (editi da Guri Schwarz per Bollati Boringhieri). Emanuele Artom fu fatto prigioniero e ucciso dopo atroci torture dai militi della RSI - quelli per i quali si osa oggi chiedere parità di onore pubblico con le loro vittime. Il suo è uno dei nomi che quelle leggi cancellarono dal mondo degli studi e della scuola. Accanto al suo ci sarebbero tanti altri nomi da ricordare. Ma il fatto su cui si deve tornare a riflettere è l´importanza della scuola per l´attuazione delle leggi del 1938. Qui il regime fascista fu più rapido e più duro di quel nazismo di cui lo si vorrebbe un passivo imitatore in materia di razzismo, un succubo, un ingenuo scolaro traviato da cattivi compagni. L´espulsione degli studenti ebrei dalle scuole pubbliche reca la data del 5 settembre 1938 col Regio decreto n. 1390: «Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola». Come ha fatto presente Michele Sarfatti, a Berlino la stessa misura fu presa solo due mesi e mezzo più tardi. Ne fu attore primario Giuseppe Bottai ministro di quella che si chiamava allora l´Educazione Nazionale. Fu lui a far sì che le scuole si riaprissero cancellando studenti e professori ebrei e libri di testo di autori ebrei. Spirito religioso, quel Bottai: il carteggio che intrecciò con don Giuseppe De Luca ha accenti di grande devozione. Sotto di lui la struttura burocratica e la catena di comando della scuola dettero prova di una durezza e di un´efficienza insolite.
Quando le scuole si riaprirono, gli studenti definiti ebrei da quelle leggi erano scomparsi e così pure i professori. Dov´erano finiti? E soprattutto: qualcuno se lo chiese? Oggi le carte di polizia ci permettono di ricostruire i percorsi degli scomparsi. E anche in questo caso l´efficienza dimostrata allora da un paese noto per la sua sciatteria istituzionale desta stupore.
Le spie che si incollarono al professor Paul Oskar Kristeller ne annotarono ogni passo. Elenchi di nomi e cognomi ebraici preparati da tempo permisero di seguire i movimenti delle persone. Quando venne il momento della deportazione nei lager, si fu in grado di rintracciare e chiudere nelle carceri fiorentine di Santa Verdiana la professoressa Enrica Calabresi, studiosa di scienze naturali cacciata dall´università in esecuzione del decreto del 5 settembre 1938: e solo la fiala di solfuro di zinco che la professoressa portava con sé le offrì una via d´uscita prima di salire sul treno per Auschwitz.
Con la scuola va insieme la religione: il linguaggio del razzismo fascista, profondamente diverso da quello nazista, esaltava la superiore spiritualità della «razza italiana». Era un´ambigua mistura di fumisterie idealistiche e di termini religiosi. Quanto contribuì quel linguaggio a oscurare la coscienza della realtà delle cose? Che cosa era la religione che si insegnava nelle scuole italiane dopo il Concordato del ?29? Qui non si tratta solo di misurare la timidezza e l´unilateralità delle reazioni ufficiali delle autorità centrali della Chiesa cattolica, che si preoccupò solo per la legislazione sui matrimoni misti e bloccò la protesta preparata dal defunto papa Pio XI. Si tratta di capire quanto pesasse allora nella cultura scolastica e nella vita sociale l´antica, plurisecolare tradizione di diffamazione degli ebrei e dell´ebraismo portata avanti dal magistero della Chiesa e diffusa dall´alto attraverso i veicoli della capillare presenza ecclesiastica in Italia. Bisogna tornare a scavare in questo passato italiano. Bisogna che quel che se ne sa diventi patrimonio comune.
E per questo è necessario ma non sufficiente che sia chiusa per sempre la porta ai tentativi di rilegittimare il fascismo. Bisogna che la scuola pubblica sia attrezzata come si deve nei confronti dell´intolleranza e dell´ignoranza religiosa e culturale. Oggi il linguaggio senza tempo delle pretese vaticane rivendica nuovi privilegi per le scuole cattoliche. Eppure la scuola pubblica ospita un insegnamento della religione pagato dallo Stato e gestito dai vescovi che di fatto cancella la parità dei diritti costituzionali e tende a vaccinare i giovani contro ogni pluralismo culturale e religioso.
Il fatto che oggi in Italia non siano gli ebrei a essere minacciati più direttamente dall´intolleranza niente toglie all´urgenza del problema. Il passato può insegnare qualcosa. E la scuola pubblica merita che vi si investano tutti i pensieri di un paese che vuole avere un futuro. «Se si pensa a com´è disarmata la giovinezza, - diceva Cesare Garboli - e a com´è fragile davanti ai cattivi maestri... ».

l’Unità 1.10.09
Migranti
Il lager di Kufra, una vergogna per l’Italia

Fa scandalo - e come non potrebbe, la denuncia sul campo-lager di Kufra, lì dove verrebbero trattenuti (e torturati) i migranti. Ieri il Pd, per iniziativa del senatore Alberto Maritati, ha presentato un’interrogazione firmata da 25 colleghi al Presidente del consiglio e al ministro degli Esteri, ricordando l’articolo dell’Unità sul documentario di Andrea Segre e Dagmawi Yimer, «Come un uomo sulla terra». È la storia di un migrante, il suo peregrinare da Addis Abeba a Kufra, un lager per chi vuol emigrare in Europa e in Italia. Poiché, è scritto nell’interrogazione «le condizioni in cui vengono trattenuti sono di una pesantezza disumana, in modo particolare per le donne» e che «che nello stesso documentario si sostiene che imprecisate autorità italiane sono state in visita a Kufra e avrebbero quindi dovuto vedere l’orrendo trattamento inflitto agli sfortunati cittadini provenienti da diverse regioni africane» si vuol sapere con urgenza «se il nostro Governo è a conoscenza dell’esistenza del campo di detenzione nella libica Kufra, se negli accordi con l’obbligo per l’Italia di versare somme in favore del Governo libico per il controllo dell’immigrazione, sia stato chiesto di fermare in appositi campi detenuti in transito, o se vi siano altri accordi sul trattamento degli immigrati che attendono di attraversare il Mediterraneo, se l’Italia sia coinvolta, in qualsiasi modo, da sola o con altri Paesi europei, nella costruzione e/o nel finanziamento di campi per immigrati a Kufra o altrove in Libia».

l’Unità 1.10.09
Testamento biologico
Il momento della legge
di Luigi Manconi

Oggi, in commissione Sanità del Senato, inizia la discussione sul Testamento biologico. Il quadro del confronto si presenta assai difficile, e non da ora. Da oltre un decennio, da quando presentammo la prima proposta di legge in materia, una domanda molto semplice attende risposta: perché mai se un adulto consapevole può rifiutare un trapianto di organo, anche quando esso può salvargli la vita, quello stesso adulto consapevole non può dichiarare il proprio rifiuto di alimentazione e idratazione artificiali per il tempo nel quale non fosse più nel pieno possesso delle proprie capacità?
È un interrogativo al quale sfuggono - con pochissime eccezioni - i parlamentari del centrodestra e, ancor prima, teologi moralisti e gerarchie ecclesiali e, infine, il presidente della Conferenza Episcopale Italiana monsignor Angelo Bagnasco.
Eppure, proprio intorno a quel quesito e alla difficoltà, forse impossibilità, di trovare risposte condivise si gioca il conflitto politico-parlamentare in materia di dichiarazioni anticipate di volontà. E la situazione oggi appare particolarmente ardua, dopo che la prolusione di monsignor Bagnasco aveva indotto a frettolose valutazioni positive.
In effetti, quelle parole rivelano come la Chiesa sia infine consapevole che sulle questioni di “fine vita”, anche in Italia, si debba rispondere a due domande fondamentali: il riconoscimento di quel bisogno irriducibile di autodeterminazione sulle scelte relative alla propria sfera personale, che si manifesta oggi in particolare sui temi del nascere e del morire; l’esigenza di tutela del proprio corpo e del proprio percorso esistenziale rispetto all’onnipotenza, non sempre conosciuta e raramente controllabile, delle biotecnologie. La Chiesa ammette che queste domande implicano tutele giuridiche; ma, ancora una volta, reagisce con una prudenza che, per un verso, rivela angoscia, se non paura, per la volontà/capacità di autonomia e di libera scelta dell’individuo e, per altro verso, segnala un atteggiamento svalutativo nei confronti del senso di responsabilità personale, che vorrebbe sempre e comunque sottoposto ad autorità esterne.
Eppure la posta in gioco è limpida: in ultima istanza, non può essere altro che la volontà individuale - adeguatamente informata, sempre suscettibile di ripensamento, costantemente assistita dal rapporto terapeutico e, quando possibile, da una rete di relazioni famigliari e sociali - ad assumere la decisione. Non è solo la carta costituzionale, la convenzione di Oviedo, tutte le dichiarazioni internazionali e l’intera giurisprudenza italiana ad affermarlo. È, innanzitutto, il buon senso: in presenza di una controversia tra paziente e medico, perché mai dovrebbe essere la decisone di quest’ultimo a prevalere? Il medico che, in scienza e coscienza, formula una valutazione diversa da quella affermata dal paziente, può ricorrere all’obiezione di coscienza: ma non può, certo, disubbidire. Lascia stupefatti, pertanto, quanto affermato da monsignor Elio Sgreccia, teologo bioeticista, particolarmente ascoltato in Vaticano: il medico «deve disubbidire» (intervista al Corriere della Sera del 23 settembre 2008). Ciò risulta in aperto contrasto con l’articolo 38 del codice deontologico dei medici, dove si legge: «il medico deve attenersi, nell’ambito della autonomia e indipendenza che caratterizza la professione, alla volontà liberamente espressa della persona di curarsi e deve agire nel rispetto della dignità, della libertà e autonomia della stessa». Non solo: «il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, deve tenere conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato». Ma Elio Sgreccia, in realtà, ha voluto - esplicitamente, direi - mettere “sotto controllo” il presidente della Cei. Non a caso, in quell’intervista, ha spiegato acribiosamente che «un Testamento biologico non è incluso nella legge di cui parla il cardinale Bagnasco»; e vanno esclusi «con o senza dichiarazioni anticipate, i testamenti di vita». Ancor più autorevolmente, il predecessore di Bagnasco, monsignor Camillo Ruini critica il «relativismo soggettivista», che affiderebbe «alla volontà del singolo ammalato, o di altre persone, la decisione di produrre la morte». Ma, subito dopo, Ruini sostiene con forza il «dovere di motivare il paziente, attraverso strumenti non coercitivi, alla tutela della propria salute, con tutti i mezzi proporzionati» (Avvenire del 25 settembre 2008). Giustissimo, ma se quella opera di “motivazione” si rivelasse insufficiente, a chi spetta la decisione sulla sospensione delle cure? Ancora una volta, sarà il paziente - e chi altri mai - a decidere su di sé. Resta il fatto che sulla questione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali le posizioni della gerarchia risultano immobili e immutabili; e che, pertanto, un pronunciamento morale («varare, si spera col concorso più ampio, una legge sul fine vita») si è tradotto in una valutazione di ordine scientifico-sanitario, del tutto impropria («trattamenti di sostegno vitale, qualitativamente diversi dalle terapie sanitarie»): ancor più immotivata se confrontata con l’affermazione di Maurizio Muscaritoli, presidente della Società italiana di nutrizione artificiale e metabolismo: «nutrizione ed idratazione artificiali vanno considerate trattamenti medici da non somministrare se non di beneficio per il paziente, indipendentemente dal suo stato di coscienza».
Perché mai una affermazione così netta, espressione di criteri esclusivamente scientifici, deve essere messa in dubbio da un giudizio di natura etica e di ispirazione religiosa, quale quello del presidente della Conferenza Episcopale Italiana? Ma quel che è peggio è che quel monito morale viene fatto proprio (come un sol uomo: è il caso di dire) da tutto il centrodestra. Il quale centrodestra, immarcescibilmente imperturbabile davanti alla sorte di Eluana Englaro per sedici anni, ora la evoca solo per negarle quanto lei stessa chiedeva, quand’era cosciente, e quanto ora chiedono disperatamente i suoi famigliari. Il risultato è, temo, il peggiore: una legge sul Testamento biologico potrebbe essere varata, ma tale da costituire un pesantissimo passo indietro. Come già accaduto a proposito della fecondazione assistita, il vuoto legislativo rischia di essere colmato da un cattivo pieno: che nega la volontà del soggetto e il suo diritto all’autodeterminazione proprio in riferimento alla sua sfera più intima e delicata.
Sia chiaro. Tutto ciò - checché ne dicano Sgreccia e Bagnasco - non ha nulla a che vedere con l’eutanasia, che resta inequivocabilmente altra cosa, e che non riguarda il “lasciar morire” e il “lasciarsi morire”: ma implica un intervento attivo e determinante, finalizzato a interrompere una vita. Ma ha ragione Concita De Gregorio quando, nel suo articolo di domenica scorsa, scrive: «l’eutanasia, in Italia, esiste già. Lo sanno bene tutti: i medici e i pazienti, le famiglie a cui è toccato e tocca il dolore di star vicino a chi se ne sta andando o se ne è andato già ma non può morire davvero». Sì, è esattamente così. Ma per una combinazione miserevole di codardia e ipocrisia, di virtù fattasi integralismo e di altruismo trasceso in fanatismo, lo si nega.
Eppure la conferma viene dalle fonti più insospettabili, come una ricerca scientifica curata, tra gli altri, da Adriano Pessina, direttore del centro di bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, il più inflessibile e intransigente difensore della “vita dal concepimento alla morte naturale”. In quella ricerca, pubblicata nel 2003, si legge che il 3,6% dei medici intervistati «ha ammesso di aver talvolta somministrato deliberatamente dosi letali di farmaci» a malati terminali, affetti da sofferenze non lenibili; e che, «tale comportamento viene considerato eticamente accettabile dal 15,8% di quel campione di medici».

Corriere della Sera 1.10.08
I sentimenti visti da una donna islamica
Se Oriente e Occidente rifiutano l'amore
di Isabella Bossi Fedrigotti

Ha l'occhio soprattutto rivolto al passato, la scrittrice marocchina Fatema Mernissi, quando racconta dell'amore nel mondo islamico. Ne Le 51 parole dell'amore (ripubblicato in questi giorni con una nuova introduzione) ripercorre infatti la grande tradizione araba antica dei poeti, dei letterati, dei filosofi che cantarono passione e seduzione con estrema libertà. L'amore narrato, insomma, come una specie di paradiso terrestre, dove le donne non erano affatto sottomesse, bensì ascoltate e rispettate quando non anche obbedite, dove i matrimoni combinati non erano affatto la regola, dove si parlava di innamoramento non come di una cosa buona al massimo per gli adolescenti, ma di un prezioso miracolo da gridare ai quattro venti.
Ed è questo ciò che la Mernissi in particolare rimpiange, l'antico piacere di parlare pubblicamente dei sentimenti, oggi quasi completamente perduto, in verità non soltanto nel mondo arabo: nel pudico — o cinico — rifiuto del discorso amoroso Oriente e Occidente sono più o meno alla pari.
Di ciò che nel rapporto tra i sessi succede oggi nell'Islam, l'autrice parla invece assai meno e se anche è ovvio che le infauste notizie riportate dalla cronaca mostrano soltanto un aspetto della questione, nell'insieme la situazione — soprattutto in alcuni Paesi — non sembra così rosea come potrebbero far immaginare i liberi scritti della tradizione. Scritti che, peraltro, non trovano molti corrispettivi nell'antica letteratura occidentale segnata com'era dalla sessuofobia cristiana: del resto non è un caso che le
Mille e una notte andassero in scena a Bagdad e non a Roma o a Parigi.
FATEMA MERNISSI Le 51 parole dell'amore GIUNTI PP. 245, e 12,50

Corriere della Sera 1.10.08
Un ricordo di Leonardo Ancona
Lo psicoanalista che saprà vincere i divieti di Gemelli e otterrà il plauso di Paolo VI
La sintesi riuscita tra fede e psiche
di Marco Garzonio

La vicenda umana di Leonardo Ancona, primo e famoso psicoanalista dichiaratamente cattolico, scomparso da poco, può essere vista come spaccato straordinario dell'evoluzione nei rapporti tra psicologia del profondo e Chiesa e, attraverso gli scontri-incontri di cui lui stesso è stato protagonista, degli alti e bassi tra Chiesa e cultura, libertà e fede, spirito di ricerca e sacro. Ancona fu allievo di padre Gemelli, fondatore dell'Università Cattolica. Un personaggio, Gemelli, si sa: creò un'apprezzabile scuola di psicologia sperimentale in opposizione alle ricerche sull'inconscio; scrisse libelli contro Freud e Jung; negli Anni Trenta ostacolò il progetto editoriale di Montini, De Luca e Minelli per creare un ponte con autori non cattolici anche attraverso il filtro della psicoanalisi; ridusse al silenzio giovani studiosi (come il futuro cardinale di Milano Giovanni Colombo) che osarono scrivere di Freud.
In linea col maestro e di questi allora «succube», Ancona a metà Anni Cinquanta giudica la psicoanalisi «un coacervo di assunzioni temibili per la moralità e la dignità dell'uomo». Usa toni e argomenti tali che Musatti gli toglierà la parola al congresso degli psicologi del 1954. È un clima generale di scontro. La cultura cattolica ufficiale sta sulla difensiva. Sogni e loro interpretazioni sono banditi; sottoporsi ad analisi equivale a «peccato mortale»; Turoldo che fa tradurre Dio e l'inconscio
di padre White (con prefazione di Jung nell'originale) è il disubbidiente. Al divieto è simmetrica l'attrazione per la trasgressione, però. Tempi della storia e vicende personali s'incrociano. Ancona ottiene una borsa di studio a Montreal, dove c'è Mailloux, domenicano e psicoanalista. Lavorerà con lui e ucciderà simbolicamente il padre, Gemelli, che gli aveva ingiunto «non ti lascerai analizzare!».
È l'anno accademico 1957-58. A Pio XII sta per succedere papa Giovanni. Il giovane studioso si è «convertito» alla fede nell'inconscio senza rinnegare quella cattolica (per lui era «leggenda metropolitana» la «contrapposizione tra fede religiosa e psicoanalisi ») e vede corrispondere una «nuova primavera» nei rapporti tra Chiesa e psicologia del profondo. Nella Gaudium et spes, la costituzione conciliare sui rapporti tra Chiesa e mondo, l'Assise Ecumenica sancirà che «la psicologia dà all'uomo la possibilità di una migliore conoscenza di sé». Di fatto resistenze, diffidenze, ostilità restano forti. Nella Chiesa finiscono per convivere due anime. Paolo VI tenderà le braccia ad Ancona nel 1967: lo incoraggia a promuovere l'incontro tra religione e psicoanalisi. Dirà pubblicamente il papa nel 1974: «Abbiamo stima di questa ormai celebre corrente di studi antropologici ». Ma nella pubblicistica cattolica lo studioso è definito con un linguaggio che colpisce: «Pagato con i soldi della Chiesa e traditore di Cristo». Più soft, il cardinale Felici, che in epoca preconciliare aveva indicato come «colpa grave» la pratica psicoanalitica, confiderà ad Ancona stesso: «Oggi non lo scriverei più, ma penso sempre allo stesso modo».
Così il cammino dello studioso, che riesce a conservare la Cattedra di Psichiatria, procede tra sostegni, diffidenze e boicottaggi anche da parte delle autorità accademiche, avvicinamenti proficui con altre scuole (Ancona farà analisi anche con Matte Blanco) e contrasti con la psicoanalisi italiana ufficiale. Un dramma personale e di studioso.
Negli anni '70 e '90 fiorisce la produzione scientifica di Ancona. Tra i cattolici, finalmente, hanno trovato cittadinanza letture di eventi secondo dinamiche inconsce, un «pensare psicologicamente», attenzione per immagini e simboli. Affidarsi alle vertigini della ricerca non è tabù, né oggetto di scomunica (almeno esplicita e formale!). Ma restano ancora da scandagliare le potenzialità degli incontri-scontri. Ancona lo sapeva e lo scrisse pochi anni fa in un libro, che è autobiografia e testamento magisteriale:
La mia vita e la psicoanalisi
(edizioni Magi). Lui era ottimista e aveva fiducia nell'autonomia, nella responsabilizzazione, nella libertà, nell'attitudine critica quali aiuti alla fede stessa. Sapeva che le istituzioni guardano tali conquiste con sospetto e preoccupazione. Ma le remore non furono sufficienti a fermarlo.

Repubblica 1.10.08
Il diritto e la dignità
di Stefano Rodotà

Sulla copertina del primo numero del 2007 della rivista Time, dedicato secondo tradizione alla "persona dell´anno", compariva a grandi lettere la parola "You". Era dunque la sterminata platea degli individui ad essere eletta a protagonista. Ciascuno, però, nella sua irripetibile singolarità, perché in quella copertina era inserito un materiale riflettente che consentiva a chiunque la guardasse di riconoscersi come in uno specchio. Il mondo sei tu.
Ma, osservando meglio, quello specchio si rivelava come lo schermo di un computer, disegnato sulla copertina sopra la parola "You". Il messaggio assumeva così un particolare significato. Ti riconosco come persona dell´anno perché ormai sei entrato a far parte di quell´apparato tecnologico. L´ordine uomo-macchina è rovesciato. Sei protagonista, e forse signore dell´ambiente che ti circonda, solo se ti fai macchina tu stesso, se in definitiva diventi una componente di quell´apparato.
Attraversiamo l´Atlantico e approdiamo, un anno dopo, in Germania, dove la Corte costituzionale, alla fine del febbraio 2008 decide sull´articolo di una legge che autorizzava la "perquisizione" dei personal computer da parte delle autorità di polizia, per investigarne i contenuti anche all´insaputa dell´interessato. I giudici tedeschi hanno dichiarato incostituzionale quella norma. Affermando che esiste un nuovo diritto fondamentale della personalità, che consiste nella "libertà e riservatezza dell´apparato informativo" di cui ciascuno dispone.
L´impostazione di Time viene completamente rovesciata. È l´umano che ingloba in sé la macchina, non il contrario, e il diritto ne riafferma la priorità. Ma ci dice soprattutto che nel mondo esiste una nuova entità, e così ci consegna una nuova antropologia. Una versione tecnologicamente aggiornata dell´homme machine, unica via per riconciliarlo con gli apparati tecnici che progressivamente lo accompagnano, lo ristrutturano, lo invadono?
Ma l´immagine che, nel modo più eloquente, ci introduce in questa dimensione è forse quella di Oscar Pistorius, un corridore sudafricano che, privo della parte inferiore delle gambe, le ha sostituite con impianti in fibra di carbonio e si è visto riconoscere il diritto di partecipare alle Olimpiadi. Cade così la barriera tra "normodotati" e portatori di protesi, e anzi si prospetta una nuova nozione di normalità, che non è più soltanto quella naturalmente determinata, ma pure quella artificialmente costruita.
Prendendo spunto proprio dalla conclusione di questa vicenda, un´altra atleta paraolimpica, Aimée Mullins, ha affermato che "modificare il proprio corpo con la tecnologia non è un vantaggio, ma un diritto. Sia per chi fa sport a livello professionistico che per l´uomo comune". La nuova dimensione dell´umano esige una nuova misura giuridica, che dilata l´ambito dei diritti fondamentali della persona. E al diritto viene affidato il compito di garantire la più ampia e paritaria possibilità di accesso alle opportunità crescenti offerte dall´innovazione scientifica e tecnologica. Due grandi principi s´incontrano e si intrecciano. Quello di dignità, che si manifesta come il criterio di valutazione delle modalità e degli esiti della costruzione artificiale del corpo. E quello dell´eguaglianza che, una volta riconosciuta la legittimità della specifica costruzione artificiale, deve evitare che da ciò possano nascere discriminazioni, sia nella fase dell´accesso, sia in quella successiva della vita della persona che ha utilizzato gli impianti tecnologici.
Altre immagini ci accompagnano, quotidiane e inquietanti. Il braccialetto al piede del detenuto agli arresti domiciliari, ma anche al polso dell´anziano per fornirgli assistenza; il "computer indossabile" al polso dei lavoratori, perché l´imprenditore possa "guidarlo" da lontano; i microchip sotto la pelle leggibili con la tecnologia delle radiofrequenze. Qui la mutazione dell´umano è evidente, e la prima riflessione riguarda la trasformazione della persona in oggetto continuamente controllabile a distanza, come un Tir o la mucca d´un grande gregge. Di nuovo, davanti a noi sono mutamenti che toccano l´antropologia stessa delle persone. Siamo di fronte a slittamenti progressivi: dalla persona "scrutata" attraverso la videosorveglianza e le tecniche biometriche si può passare ad una persona "modificata" dall´inserimento di chip ed etichette "intelligenti", in un contesto che sempre più nettamente ci individua appunto come "networked persons", persone perennemente in rete, via via configurate in modo da emettere e ricevere impulsi che consentono di rintracciare e ricostruire movimenti, abitudini, contatti, modificando così senso e contenuti dell´autonomia delle persone.
Che cosa è divenuta l´umanità dei molti lavoratori ai quali è già stato imposto di portare al polso un piccolo computer, che consente all´imprenditore di dirigere via satellite il loro lavoro, indirizzarli verso i prodotti da prelevare, indicare i percorsi da seguire e le attività da svolgere, controllare ogni loro movimento, individuare in ogni momento dove si trovano, in sintesi di controllarli implacabilmente? Le conclusioni di una ricerca inglese sono state nette: così si trasformano i luoghi di lavoro in "battery farms", si creano le condizioni di una "prison surveillance". Siamo di fronte ad un Panopticon su scala ridotta, che tuttavia anticipa e annuncia la possibilità di diffondere su scala sempre maggiore queste forme di sorveglianza sociale. Ma che cosa diventa una società nella quale è normale che cresca il numero delle persone "tagged and tracked", etichettate e perennemente seguite?
Le risposte a questi interrogativi devono venire anche dal diritto, dunque da principi e regole. Il rispetto della dignità in primo luogo, che impone di non ridurre la persona ad oggetto, giungendo così a quella "degradazione dell´individuo" più volte richiamata dai giudici costituzionali italiani. Ma la dignità è anche misura della logica economica: dotare gli anziani di strumenti di controllo a distanza, per meglio salvaguardarne la salute, non può trasformarsi in abbandono sociale, considerando la tecnologia un mezzo meno costoso delle visite domiciliari. E il rispetto dell´autonomia della persona, dunque il diritto di decidere liberamente sul se e come utilizzare i nuovi strumenti. E l´eguaglianza nell´accesso alle opportunità grandi offerte dall´innovazione scientifica e tecnologica.
Il vero problema culturale e istituzionale è quello di valutare fino a che punto si è di fronte a vere discontinuità, che segnano un congedo da un altro mondo, e dove, invece, è possibile e necessario mantenere una continuità che consenta quel trascendere dell´umano di cui parlava Julian Huxley, impedendo così la nascita di un "doppio standard" nella considerazione dell´umano e del post-umano. Si manifesta la preoccupazione di chi segnala il rischio di una svalutazione dell´umano per effetto di una percezione del post-umano come portatore di un valore più forte, aprendo la via ad un conflitto, addirittura ad una "guerra", tra umani e post-umani. Un conflitto, evidentemente, che nasce sul terreno dei valori di riferimento e che può essere evitato solo se si ha la capacità di mantenere fermi, e di proiettare nel futuro, i principi prima ricordati di dignità, eguaglianza, autonomia.
Ma l´umano non è sfidato solo dalla tecnoscienza. Viene negato e violato nella vita d´ogni giorno. Dobbiamo sempre chiederci, seguendo Primo Levi, "se questo è un uomo" davanti all´immagine terribile di uomini che, lungo "il cammino della speranza" verso terre che pensano accoglienti, cercano di sopravvivere in mare attaccati ad una tonnara; davanti al bambino rom sbattuto sulla copertina di un settimanale e etichettato con le parole "Nato per rubare"; davanti alle foto dei torturati di Abu Ghraib; davanti alle manifestazioni di disprezzo razzista verso l´"altro"; davanti ai fondamentalismi che cancellano la stessa identità femminile. A questo inumano il diritto cerca di opporre i suoi strumenti, troppe volte ignorati. E spesso i giuristi sono "senza cuore". E i politici sono distratti o "realisti". E´ compito di ciascuno di noi salvaguardare l´umano dal quale non possiamo separarci.
(L´articolo è una sintesi della lezione tenuta da al Festival del diritto di Piacenza, intitolata "Umano, poco umano")

Repubblica 1.10.08
Il decreto Tremonti mette in ginocchio il quotidiano. Martedì evento per la raccolta fondi. E i lettori organizzano cene e pic-nic
Un giorno al "manifesto" sull´orlo del baratro "Non lasciateci soli". E Celentano li sostiene
di Alessandra Longo

Parlato: ci servono 4 milioni per salvarci dalla morte, questa è la crisi più difficile

ROMA - Potrebbero chiudere, potrebbero fallire, «anche domani», se solo i numerosi creditori decidessero che ne hanno abbastanza, che rivogliono i loro soldi, subito. Al «manifesto» lo sanno di essere ad un passo dal burrone. Il giornale esce con un simbolico lucchetto che imprigiona una lettera della testata. Non è come le altre volte, non è la solita ciclica difficoltà, è una faccenda molto più seria. Il decreto Tremonti, cancellando il diritto soggettivo ai contributi diretti per i giornali cooperativi, non profit e di partito, taglia le gambe ad ogni sogno, ad ogni progettualità e pone una questione di fondo, di democrazia, che va oltre le logiche individuali d´azienda.
Mancano quattro milioni di euro. Se lo Stato non li dà, bisogna comunque trovarli. La sottoscrizione è partita ed è una corsa contro il tempo: «Quattro milioni per salvarci dalla morte, organizzarci la vita, arrivare al punto di pareggio, a quelle trentamila copie che servono a stare sul mercato», dice Valentino Parlato. Lui, che ha vissuto tutti gli alti e bassi del quotidiano, assicura: «Questa è la crisi più difficile, la peggiore di tutte». La nuova redazione di via Bargoni, anonima e funzionale, affaccia sugli striscioni anti-Gelmini appesi alle cancellate di una scuola elementare, il clima è più di battaglia che di rassegnazione. Qui lavora gente, 60 giornalisti e trenta tecnici, che non prende lo stipendio da tre mesi ma non molla. Gabriele Polo, il direttore, ha in mano il cd con lo spot salva-vita che da oggi apre il sito online del manifesto e apparirà su diversi quotidiani. Una richiesta di aiuto: «Fateci uscire, non lasciateci soli, sottoscrivete».
Non lasciateci soli. Non c´è spocchia in questo collettivo di lavoro, accusato, in passato, di un certo approccio settario con il resto del mondo. C´è, piuttosto, una sfida da dividere con altri colleghi di altre testate piccole e povere, con tutti i lettori «che hanno a cuore il pluralismo» e temono il pensiero unico. Per martedì prossimo, al Circolo degli artisti di Roma, «il manifesto» ha organizzato un evento, «parole e musica», in difesa della «cara libertà». Aprirà un video di Maurizio Crozza, chiuderà una cena. Raccolta fondi, battaglia politica, anche in leggerezza. Come leggeri e ironici sono gli epigrammi di Tommaso Di Francesco che, in un libro, prende affettuosamente di mira i colleghi. Mariuccia Ciotta, direttore con Polo, è «il gatto Silvestri» con un debole per Clint Eastwood («Ecco che il cuore le fa confusione»), Rossana Rossanda è «la non Comune di Parigi», Ida Dominjanni «Il capo cosparso di genere». Sabato 4, lettura ad alta voce, per il pubblico. «Da soli non bastiamo», dice Polo.
Soli, per la verità, non sono. L´establishment politico si è mosso, scrivono lettori comuni e non. Ieri, a sorpresa, l´incoraggiamento di Adriano Celentano: «Vi leggo, non vorrei che, improvvisamente, non ci foste più». Chi telefona, chi manda mail, chi manda soldi. Al "call center" del manifesto, Michela Gesualdo cerca di mettere ordine nell´abbraccio dei lettori: «Stanno organizzando pic-nic, cene, precari e studenti donano quel che possono, anche dieci euro». Con la crisi economica, però, la meta è lontana. Sono a quota sessantamila euro.
E comunque non bastano i soldi, ci vuole, contemporaneamente, la battaglia politica. Dice Parlato: «Le leggi si possono anche cambiare». «No, la nostra vita non può essere appesa alla discrezionalità del governo», aggiunge Ciotta. Il nodo vero è proprio questo, la libertà d´informazione, la democrazia. Integra Polo: «Si restringono gli spazi di libertà, si trasforma un diritto in una concessione, il cittadino in suddito. La nostra vicenda è paradigmatica. Questo governo può decidere se farci vivere o morire a seconda delle disponibilità di bilancio. Eccolo il vulnus: la mercificazione dell´informazione». E invece vogliono vivere, i colleghi del «manifesto», e anche gli altri di Liberazione, dell´Unità. Vuol vivere «il manifesto», solo a giugno passato con successo al colore, e diventato quasi disciplinato, nell´organizzazione, in ossequio alla ricetta risanatrice di Sergio Cusani. Vuole vivere il giornale di Pintor per parlare, dice Polo, «a tutti quelli che pensano che un´opinione comune sulla vita pubblica vada ricostruita, a tutti quelli che si oppongono alla gestione feudale di Berlusconi, a tutti quelli che cercano di dare una nuova identità alla parola sinistra».

Repubblica 1.10.08
Eleonora Duse
Enrichetta dedicò metà della vita a cancellare ogni traccia della genitrice assente
Ritrovata la biblioteca "segreta" della divina occultata per anni insieme agli amori proibiti Un convegno a 150 anni dalla nascita
Il lato nascosto dell´attrice erano le molte amicizie femminili: legami in genere di carta
di Simonetta Fiori

Una biblioteca segreta, scoperta quasi per caso. Libri manipolati, graffiati negli ex libris e censurati nelle dediche, pagine strappate ed espropriate della illustre appartenenza. Come un sipario invisibile gettato su una delle attrici più celebri del Novecento. Chi ebbe interesse a oscurare Eleonora Duse, le sue letture erratiche, i suoi amori libertini? Quella che sarà rivelata oggi al convegno veneziano della Fondazione Cini e dell´Università Ca´ Foscari appare una storia punteggiata da risentimenti e vendette. Madri e figlie dolorosamente a confronto tra censure e riscatto, gabbia ed emancipazione. Un copione perfetto per la stessa divina attrice, che però non lo interpretò sulla scene ma nella vita, e perfino nella memoria postuma.
Il ruolo materno spetta a lei, l´attrice essenziale e spoglia celebrata da Rilke e Cecov, da Joyce e Chaplin, la ribelle "priva di forma pretestuosa" che sfidò le convenzioni dell´epoca nella recitazione e nella cultura teatrale, nelle curiosità intellettuali e negli amori inquieti. La figlia è rappresentata dalla severa e cattolicissima Enrichetta Checchi, che dedicò metà dell´esistenza a inseguire una genitrice assente, l´altra metà a cancellarne ogni traccia. Un delitto quasi perfetto, quello filiale, perseguito con una determinazione che sorprese il musicista Malipiero, ma anche il crimine meglio riuscito può essere rivelato da un dettaglio. E a fornire quell´indizio è la terza donna del racconto, Eleonora Bullough, la secondogenita di Enrichetta, bella e statuaria, costretta a diciassette anni a prendere i voti perché "indisciplinata". La vendicatrice della Duse indossa il saio domenicano e si chiama sister Mary Mark. Per quasi quarant´anni, tra le mura del suo convento a Stone, ha allestito lavori teatrali. Quasi nessuno sapeva che l´abito di seta azzurra indossato dalla Vergine nelle sacre rappresentazioni apparteneva alla scandalosa nonna.
È lei, la nipotina ingessata nei panni di suora, a indicare le tracce della recentissima scoperta, la biblioteca segreta appartenuta alla Duse e occultata da Enrichetta, che sarà illustrata oggi a Venezia nel centocinquantesimo anniversario della nascita dell´attrice (1858-1924). Un patrimonio di quasi duemila libri, ritrovati a Cambridge da una studiosa di Palermo, Anna Sica, proprio grazie alle memorie di sister Mary, morta qualche anno fa. Fu Mary Mark nel 1962 a donare al New Hall College (oggi Murray Edward´s College) il patrimonio librario della madre Enrichetta e del padre italianista Edward Bullough, nel quale era nascosto anche il fondo della Duse. All´antica bibliotecaria Sarah Newman si deve il riconoscimento di alcune centinaia di volumi dusiani, ai quali ora s´aggiunge oltre un migliaio e mezzo di libri, per larga parte provenienti dalla Libreria delle attrici fondata dalla Duse a Roma nel 1914, ma anche dal fondo di Eleonora usato dal genero Bullough per la compilazione dell´antologia Cambridge Readings. Libri censurati dalla implacabile figlia, che ne cancellò l´appartenenza stracciando le pagine annotate ai margini, allungando un nastro bianco su dediche inopportune, graffiando gli ex libris materni.
Chi o cosa voleva nascondere Enrichetta? Le liaisons dangereuses intessute dalla madre con poeti e poetesse? La passione smisurata per Boito e D´Annunzio? L´indole irrequieta e neopagana che spingeva l´attrice a pericolose peregrinazioni nelle pagine di autori messi all´indice? «La Duse era diventata un personaggio scomodo», suggerisce Sica, autrice del ritrovamento. «Dopo la morte dell´attrice, Edward ed Enrichetta erano cresciuti nella considerazione pubblica di Cambridge come personaggi di spicco della cultura cattolica. Né la spregiudicatezza sentimentale della Duse né la sua libertà intellettuale potevano riuscire gradite al perbenismo della famiglia Bullough».
Nella biblioteca "nascosta" si ricompone l´intellighenzia iconoclasta di primo Novecento, «da Marinetti a Soffici e Papini, con grandi aperture alla poesia francese da Verlaine a Rimbaud e Baudelaire, ai modernissimi versi di Whitman, alle pagine di Kipling. E poi naturalmente il suo Dante, Shakespeare, i classici greci e latini, le letture mistiche, che confluiranno in una recitazione assetata di poesia», dice Mimma De Leo, storica delle donne ora al lavoro sulla nuova biografia della Duse. Lettrice rapace e prensile, capace di trasmigrare dalle gelidi latitudini di Ibsen e Selma Lagerlöf alle suggestioni del Gouthama Buddha, dal Leopardi delle Operette morali all´incendiario Palazzeschi. «Lettrice erratica e disordinata come poteva esserlo un´autodidatta», aggiunge la studiosa. «Tutto quanto leggeva confluiva nel suo lavoro. Questo spiega anche la qualità unica della sua recitazione. "Libri per la gioia di un´altra vita", li definiva, rimandando alla sua vita in teatro». Libri compagni fedeli, ma anche strumenti di seduzione, verso uomini e donne. Indistintamente.
Il lato più segreto della Duse, occultato da Enrichetta insieme alla biblioteca, include il vasto mondo delle amicizie femminili, cui rimandano le dediche affettuose su frontespizi più o meno illustri. «Amicizie innumerevoli e sfaccettate, amori forse saffici, amori quasi sempre di carta», dice De Leo. Amicizia molto pratica e miliardaria con l´americana Helen Mackay o la londinese Katherine Onslow. Amicizia intellettuale con Ada Negri, Sibilla Aleramo e Matilde Serao, che di lei disse: «Se fossi uomo come vorrei amarla, assai, senza fine!». Ed anche amicizie amorose come quella con Lina Poletti, drammaturga di non eccelsa fama, un tempo amante dell´Aleramo. Con le donne ricreava la stessa relazione tenera e affettuosa che aveva condiviso con i suoi personaggi fittizi. «Mentre tutti diffidano delle donne», disse una volta al marchese d´Arcais, «io me la intendo benissimo con loro! Io non guardo se hanno mentito, se hanno tradito, se hanno peccato - se nacquero perverse - purché io senta che hanno sofferto o per mentire o per tradire o per amare...».
Nello stesso modo in cui scavava dentro Giulietta e Nora, la Duse entrava in intimità con le amiche, "solitamente dotate di talento", nota la biografa inglese Sheehy. Relazioni che non escludevano modalità competitive e triangolari, come l´intesa con la giovane pianista Giulietta Meldesshon, devota dama di compagnia, che prima Eleonora difende dalle brame del suo amante D´Annunzio, per poi tradirla concedendosi all´illustre marito banchiere Meldelsshon, in un ingorgo sentimentale difficile da padroneggiare. Un altro triangolo si compone nei biglietti assai allusivi spediti al regista d´avanguardia e impresario Aurélien Lugné-Poe e a sua moglie Suzanne Despres, amore epistolare ora ricostruito dalla biografa italiana. «Aveva una capacità istintuale di sedurre, con un modo particolare di concedersi senza concedere», dice De Leo. «Il suo segreto era il "sorriso asconditore", come scrisse D´Annunzio, il suo rimandare a un altrove inaccessibile».
Alla donna che sedusse tutte le donne toccò in sorte di non riuscire a sedurre la propria figlia. Ma la sua malia raggiunse la nipote, sister Mary Mark, nell´ultimo capolavoro. La scandalosa Duse salvata da una suora.