venerdì 3 ottobre 2008

Repubblica 3.10.08
Il potere oltre le regole
di Massimo Giannini


Negli Stati Uniti, alla vigilia del voto del Congresso americano sul maxi-piano di salvataggio bancario più imponente della storia, il segretario al Tesoro Henry Paulson ha compiuto un atto simbolico carico di significati: si è inginocchiato di fronte al presidente Nancy Pelosi, per invocare al Parlamento l´approvazione rapida di quel pacchetto di norme.
Il potere esecutivo, sia pure in una condizione di assoluta emergenza nazionale, si rimette al giudizio solenne del potere legislativo. È un segno tangibile di come, nonostante il caos finanziario che non ha saputo scongiurare e che ora fatica a gestire, la democrazia americana sa riconoscere i suoi valori, le sue regole, le sue istituzioni.
In Italia, alla vigilia del varo imminente dell´ennesimo decreto legge, stavolta sulla prostituzione, il presidente del Consiglio lancia un attacco ideologico contro il Parlamento, colpevole di intralciare l´azione del governo. «Imporrò alle Camere l´approvazione entro due mesi di tutti i decreti legge che riterrò necessari per governare il Paese - annuncia Berlusconi - e non esiterò a porre la fiducia ogni volta che servirà, poiché la fiducia è questione di coraggio e di responsabilità». Il potere esecutivo, sia pure dotato di una maggioranza senza precedenti, sottomette il potere legislativo. È un segno tangibile di come, nonostante l´esistenza formale dei suoi precetti e la resistenza sostanziale dei suoi organi di garanzia, la democrazia italiana rischia di svilire i suoi principi, i suoi precetti, la sua qualità.
L´offensiva del premier tocca un nervo scoperto per il ceto politico, e un punto sensibile per l´opinione pubblica. In questi anni l´odiata Casta che abita le aule parlamentari, tra privilegi e inefficienze, non ha fatto nulla per meritare la fiducia del popolo sovrano. Berlusconi, ancora una volta, cavalca l´onda dell´antipolitica. E da «uomo del fare» che combatte i «parrucconi», ha capito ciò che i governati sfiduciati chiedono ai governanti delegittimati: decidere, o anche solo far finta di aver deciso. È quello che il premier sta facendo, incrociando il senso comune dominante. Sui rifiuti e sull´Alitalia, sui rom e sulla camorra. Non conta ciò che c´è «nel» provvedimento. Conta solo che ci sia «il» provvedimento. Tutto quello che intralcia o rallenta il processo va rimosso, o quanto meno esecrato. Vale la decisione. Non c´è più spazio per la discussione e, a volte, nemmeno per la ragione. E così, oggi, pur guidando un governo del presidente e comandando una maggioranza di 162 tra deputati e senatori, il Cavaliere si permette il lusso di additare proprio il Parlamento come il luogo della «non decisione».
L´attacco al potere legislativo è una mossa ad effetto, che può far presa nella gente. Ma è una scelta grave. Lo è dal punto di vista politico. Anche il Parlamento, per lo più ridotto a «votificio», necessita di riforme. Ma queste riforme non può imporle a forza il capo dell´esecutivo, a colpi di decreti legge e di fiducia. La revisione dei regolamenti parlamentari è opportuna, ma è materia da trattare con cautela e rispetto. Non a caso è disciplinata addirittura dalla Costituzione, che attribuisce ai regolamenti la forza di fonti del diritto e all´articolo 64 ne vincola la modifica alla «procedura rinforzata» delle maggioranze assolute.
Ma la scelta di Berlusconi è grave anche e soprattutto dal punto di vista istituzionale. Ha un solo precedente, evidentemente non casuale, nella storia repubblicana. È Bettino Craxi, che al congresso del Psi di Verona, nel 1984, furibondo per la mancata conversione del decreto di San Valentino sulla scala mobile, tuonò contro i parlamentari che si occupavano «solo di conferenze sulle aspirine» e di «norme in materia di pollame, molluschi, prosciutto di San Daniele e scuole di chitarra». Perché, a distanza di 25 anni, Berlusconi sente oggi il bisogno di replicare, con formule addirittura deteriori, il modello craxiano? Che bisogno ha, proprio ora che tiene il Paese in tasca e domina in splendida solitudine la scena politica, di riaprire un conflitto così aspro e avvelenato con le istituzioni?
C´è una sola risposta con un senso compiuto: è il Quirinale. Il Cavaliere ha fretta di chiudere la Seconda Repubblica e di inaugurare, se serve anche nel fuoco della battaglia, una Terza Repubblica tagliata ancora una volta a misura della sua biografia personale. E colpisce che, di questa trama palese, le anime belle della sedicente «cultura liberale» non vedano i fili. Se Veltroni, per aver accostato il premier a Putin, è accusato di essere ancora prigioniero della «vecchia narrazione» di un centrosinistra tenuto insieme solo dal cemento dell´anti-berlusconismo, di quale «nuova narrazione» sarebbe invece interprete Berlusconi, che ritorna in guerra contro i suoi soliti fantasmi, umilia il Parlamento, svalorizza il Capo dello Stato, minaccia la Corte costituzionale?
La vera «cifra» del nuovo berlusconismo, micidiale miscela di cesarismo regressivo e di populismo deliberativo, è racchiusa in un mirabile enunciato di Giuliano Ferrara, il suo più brillante esegeta: «La democrazia, alla fine, non è expertise, ma è solo consenso». In questi tempi difficili è una verità agghiacciante. Ma purtroppo è esattamente così che Berlusconi sta riducendo la nostra democrazia.
m.gianninirepubblica.it

Repubblica 3.10.08
L´elezione del rettore della Sapienza a Roma e le facoltà del nepotismo
L´ateneo al voto tra i parenti
di Tito Boeri


Oggi i docenti de La Sapienza, il più grande ateneo d´Europa, voteranno per scegliere il loro nuovo Rettore. A meno di sorprese, verrà eletto Luigi Frati, attualmente preside della Facoltà di Medicina. Ha già ricevuto la maggioranza relativa dei voti nei primi scrutini. Sua moglie, in passato docente di lettere al liceo, è diventata professore ordinario nella sua facoltà. Anche suo figlio vi trova impiego come professore associato, chiamato mentre lui era preside. La figlia, pur essendo laureata in Giurisprudenza, ha un posto di professore ordinario all´altra facoltà di Medicina della Sapienza.
Secondo i giornalisti dell´Espresso Primo Di Nicola e Marco Lillo, Frati per il matrimonio di sua figlia ha organizzato un ricevimento con 200 invitati nell´Aula grande del suo istituto. Si può pensare che sia un caso isolato, estremo. Purtroppo non lo è in Italia. Lo documenta in modo inequivocabile un libro di Roberto Perotti, uno dei migliori economisti italiani, uscito in questi giorni per gli Struzzi dell´Einaudi (L´Università truccata). Vi dirò subito, a scanso di equivoci, che sono collega e amico di Roberto. Ho anche avuto la fortuna di scrivere un libro con lui imparando quanto sia meticoloso e pignolo fin nei minimi dettagli. Quindi potete essere sicuri che i dati che sono contenuti nel volumetto sono stati attentamente verificati, uno per uno. E sono davvero impressionanti. Rimaniamo nell´ambito delle facoltà di Medicina. Essendo queste collegate a cliniche universitarie, l´entrata in ruolo ha un valore molto superiore alla sola retribuzione da professore universitario. A Messina quasi il 40 per cento dei docenti (sì, proprio 4 su dieci) ha un omonimo in qualche università della Regione. A Napoli (Federico II e Seconda Università) si viaggia attorno al 35% di omonimie, a Roma (Sapienza, Cattolica e Tor Vergata) non si scende sotto al 30 per cento. Certo, alcune di queste omonimie possono essere del tutto casuali e non sottendere a relazioni di parentela, oppure possono essere legate a sodalizi scientifici, cementati su di una solida produzione scientifica. Ma la dimensione del fenomeno è tale da far pensare ad altro, a un nepotismo addirittura sfacciato. E´ una congettura corroborata dagli approfondimenti compiuti da Perotti su alcune sedi, come la Facoltà di Economia di Bari, dove 42 docenti su 179 hanno almeno un parente stretto nella stessa facoltà; a Statistica l´ex Magnifico Rettore Girone, per dare il buon esempio, ne ha addirittura 4 tra moglie, tre figli e genero, tutti docenti nella stessa facoltà. Perotti ha anche compiuto un lavoro certosino di censimento dei concorsi universitari in Economia dal 1999 al 2007, scoprendo che il fattore di gran lunga più importante nel successo in questi concorsi è l´appartenenza allo stesso ateneo che ha indetto il concorso. La produzione scientifica, misurata in termini di pubblicazioni su riviste internazionalmente riconosciute, non ha alcun peso.
Nepotismo e baronaggio sono sopravvissuti alle mille riforme di carta condotte in questi anni. Cambiavano tutto per non cambiare nulla. Servivano solo al ministro di turno, quale che fosse il suo colore politico, per mettere la propria bandierina senza intaccare i potere delle baronie universitarie. Anche questa legislatura si sta aprendo all´insegna di un futile protagonismo ministeriale. L´auspicio che andrebbe formulato all´inaugurazione dell´Anno Accademico è che il quinquennio si concluda senza che gli studenti universitari vengano obbligati ad indossare il grembiule. Eppure per cambiare davvero le cose non ci vorrebbe molto, come spiega Perotti. Basterebbe che i Ministri si limitassero a far valutare la produzione scientifica delle diverse facoltà e usassero queste valutazioni nel distribuire i fondi alle diverse sedi. E´ una questione di sopravvivenza: se i soldi all´università arrivano solo a condizione di generare un congruo numero di prodotti di ricerca (brevetti, pubblicazioni scientifiche, etc.), gli stessi baroni di oggi saranno i primi a preoccuparsi domani di assumere i ricercatori migliori sulla piazza, anziché cercare di far passare chi ha fatto per anni il loro schiavo rinunciando a qualsiasi ambizione scientifica.
L´università ha un ruolo fondamentale nel promuovere l´innovazione e la crescita. Secondo alcuni studi, un incremento del 3 per cento del numero di persone con un Ph.D in un paese porta all´aumento del numero di patenti e della produttività dell´1 per cento all´anno. Si tratta di un effetto molto rilevante, quando cumulato nel corso del tempo. La qualità di un´Università è fatta dalle competenze di chi vi svolge ricerca e attività didattica. I docenti universitari italiani sono tra i più vecchi d´Europa. Presto andranno in pensione. Questo ci offre l´opportunità unica di rinnovare il nostro corpo docente, portandolo alla frontiera della ricerca, da cui siamo oggi lontani anni luce. C´è un mercato vastissimo di ricercatori stranieri, oggi una rarità nell´università italiana (solo l´1 per cento del corpo docente), cui attingere.
Ma il ministro Gelmini, seguendo a ruota il suo predecessore, ha deciso di tenere nel cassetto l´unica valutazione dell´università italiana, compiuta nel 2006 sulla base di criteri oggettivi, utilizzati a livello internazionale. Nè ci risulta che sia intenzionata ad avviare nuove valutazioni o ad usare quelle esistenti nell´allocare una quota significativa dei fondi pubblici alle università. Si limita a intervenire a convegni invitando tutti a fare meglio il proprio mestiere, richiamandosi alla moralità nel reclutamento di nuovi docenti. In un paese come il nostro questi richiami, per quanto animati dalle migliori intenzioni, sono destinati a cadere nel vuoto. Non c´è purtroppo sanzione sociale per chi concepisce la cattedra come il trono di una dinastia. Ho scoperto proprio in questi giorni che esiste in questo nostro strano paese un centro studi che si chiama "Di padre in figlio". Offre agli imprenditori consulenza nell´affrontare "le problematiche relative alla complessa gestione delle problematiche relative (repetita iuvant?) a famiglia, azienda e patrimonio". È una creatura recente, meno di 10 anni alle spalle e un fulgido avvenire. L´unica cosa che non mi stupisce è che si avvalga del contributo di professori universitari. Sono, in effetti, i massimi esperti in materia.

Repubblica 3.10.08
Si allarga il fronte della protesta anti-Gelmini
Il ministro: solo piccole frange. Negli atenei appello ai rettori: stop alle inaugurazioni
Berlusconi: basta stipendi uguali da sistema socialista, premieremo i più meritevoli
di Mario Reggio


ROMA - La protesta contro la riforma della scuola targata Gelmini si diffonde. Spontanea, organizzata, ironica o canonica. Ieri presidio di genitori, bambini, precari davanti al palazzo gentiliano di viale Trastevere. Oggi sarà la volta dell´Idv con l´Unicobas. Ma le bordate pesanti arriveranno il 17 ottobre con lo sciopero dei Cobas e a fine mese con la scesa in campo della Cgil.
Ma la protesta sale anche nelle università. L´appello è di bloccare le inaugurazioni dell´anno accademico, per difendere la ricerca e la qualità dell´insegnamento, dopo i tagli previsti dal governo. Tra i firmatari Piero Bevilacqua, Alberto Asor Rosa, Gianni Vattimo e Umberto Curi.
E il governo? Per il momento parla di scuola. «Proteste di piccole frange marginali che hanno deciso di non guardare nel merito dei problemi» dice il ministro Mariastella Gelmini a proposito delle contestazioni. Innovazioni futuribili a parte, come la lavagna elettronica, il pomeriggio è stato segnato dalle dichiarazioni del premier Berlusconi in una conferenza stampa a Palazzo Chigi. A partire dagli stipendi degli insegnanti: «C´è un egualitarismo che troverebbe cittadinanza solo in un sistema socialista e non in un Paese liberale e democratico come il nostro». E come differenziare le retribuzioni e premiare il merito di chi si impegna di più? Silenzio sui metodi di valutazione dei docenti, ma una promessa per il futuro: «I sacrifici di oggi serviranno per premiare il personale più bravo nel futuro - ha chiarito la Gelmini - a partire dal 2012, quando i risparmi ci permetteranno di aumentare gli stipendi fino a 7 mila euro l´anno».
Cose già sentite per giorni. Per il resto solo conferme: il maestro unico sarà affiancato da un docente di inglese. La bocciatura alle elementari e alle medie con una sola insufficienza? «Come per il voto in condotta - rassicura Berlusconi - gli insegnanti useranno il buon senso». Qualcuno si chiede perché ci fosse il bisogno di mettere nero su bianco i due provvedimenti in decreto legge, sul quale il governo ha deciso di porre la fiducia.
E sugli 87 mila insegnanti e i 42 mila non docenti tagliati in tre anni? «Nessuna cacciata, sono quelli che andranno in pensione - conferma il presidente del Consiglio - con il contemporaneo blocco del turn over. L´ennesima menzogna della sinistra». Nessuna parola sui 200 mila precari che dovranno cercarsi un altro lavoro. Sul futuro del tempo pieno, che preoccupa centinaia di migliaia di famiglie, nessun problema: «Con l´introduzione del maestro unico sarà aumentato del 50 per cento». Affermazione che non convince Mariangela Bastico, viceministro dell´Istruzione nel governo Prodi: «Il tempo pieno è scomparso dal decreto Gelmini, che parla solo di un´eventuale estensione delle ore di lezione di 10 ore a settimana. Il maestro unico riporta le ore dell´orario scolastico a 24 ore a settimana, non alle 40 del tempo pieno. Qui si porta via una parte dell´istruzione anche nelle sezioni ad orario normale, pari a 30 ore. Con un taglio di 10 mila insegnanti l´anno».

Corriere della Sera 3.10.08
In un libro di François Bégaudeau (diventato film di successo) i disagi dell'insegnamento: docenti e studenti demotivati, istituzione bloccata
Scuola, lotta «di classe» per la democrazia
«L'istruzione di massa rischia il fallimento. Più che il frustino servono impegno e merito»
di Domenico Starnone


Bisognerebbe, per ragionare di scuola, avere sottomano un bel po' di libri come La classe di François Bégaudeau (Einaudi Stile libero, traduzione di Tiziana Lo Porto e Lorenza Pieri, pp. 228, e 16). Dovrebbero essere testi provenienti soprattutto dai Paesi con una lunga storia di istruzione generalizzata. Se ce li avessimo, verrebbe fuori un quadro chiaro della crisi, ovunque, di uno dei grandi sogni democratici: costruire una scuola di qualità per tutti. E si perderebbe meno tempo con soluzioni inadeguate o semplicemente insensate.
Il libro di Bégaudeau ha innanzitutto il merito di mostrarci come nelle aule della scuola media francese le cose vanno proprio come vanno da noi. Anzi peggio, se si pensa che gli alunni che popolano La classe sono, oltre che ragazzi d'oggi, anche i figli di migranti dall'Africa, dall'Asia, portatori cioè di un disagio che da tempo si è affacciato anche nelle nostre scuole e che tuttavia non sentiamo ancora come un nuovo, complesso problema scolastico.
Ma vediamo come orchestra il suo racconto Bégaudeau. Innanzitutto non esce mai dalle mura scolastiche (non a caso il titolo originale del libro, stampato da Gallimard nel 2006, è Entre les murs; e tale rigorosa «chiusura» mantiene il film che ne ha tratto Laurent Cantet e che ha vinto la Palma d'oro quest'anno). Il «fuori» nel testo non esiste ed è una scelta importante per almeno due motivi. Primo, cancellando da un anno di scuola ogni altro tempo di vita (giorno libero, domeniche, vacanze, e quindi la vita privata), i rituali scolastici, l'incontro-scontro con gli allievi, sono offerti al lettore in tutta la loro divertente- ossessiva-ottusa ripetitività. Secondo, il «fuori » appare solo attraverso i filtri scolastici: è ostacolo al lavoro didattico, è chiacchiera psicopedagogica, è disagio e violenza, è necessità di ricorrere al pugno duro.
L'effetto di giostra che gira viziosamente in tondo è uno dei risultati robusti del libro. L'insegnante protagonista che ci racconta il suo anno scolastico non fa che entrare nelle aule, buttar lì un po' di esercizi di grammatica, scoprire che i suoi alunni non hanno nemmeno gli strumenti verbali per capire ciò che lui sta cercando di spiegare, andare in sala professori, fare una capatina dal preside, riunirsi ora per questo ora per quello. Quanto all'eco del mondo esterno essa è data dai luoghi comuni di cui sono portatori gli allievi e i docenti, dalla lingua vaga e vacua del consulente pedagogico, dai genitori le cui apparizioni segnalano cosa c'è dietro il comportamento dei ragazzi. Non parliamo dei colleghi: fanno capolino con brevi battute sciatte e lamentele sulle classi più difficili. Per il resto si sforzano di convincere la macchina che distribuisce bevande ad accettare la monetina e a dare in cambio un caffè.
Il docente-narratore è simpatico, ha modi diretti, sgobba, non è uno che si tira indietro.
Tenendo conto che Bégaudeau è del '71, il suo protagonista dev'essere uno sotto i quaranta, che ha fatto le scuole superiori e l'università tra la seconda metà degli anni Ottanta e la prima metà degli anni Novanta. Niente ideologismi di vecchia data, è un insegnante dell'ultima generazione, insomma. La sua fatica lì per lì ci appassiona, ci sembra seria.
Ma se lo guardiamo più da vicino, le cose si complicano.
Non lo peschiamo mai mentre cerca di capire quali sono gli ostacoli veri, dentro e fuori, che gli impediscono di lavorare bene. Per lui l'unico ostacolo paiono i ragazzi, specialmente quelli che non gli vogliono bene. Si limita a registrarne l'abbigliamento, l'ignoranza, la pessima educazione. Li combatte per lo più con l'ironia e il sarcasmo, ma a volte pare che stia sul punto di farci a botte.
Spesso li umilia e non a caso gli allievi gli dicono di continuo: professore, lei esagera.
Cerca di affermare la sua autorità, non ci riesce, ricorre a quella del preside. Non prova a stabilire un rapporto di fiducia con la classe, ma tenta sempre e soltanto di piegarla. A tratti pare un tipo di docente (ormai molto diffuso anche da noi) che nella sostanza pensa: io devo insegnarvi il francese ma voi, maledetti imbecilli, mi impedite di farlo e così danneggiate voi stessi e me. In parole povere è la sintesi di come un insegnante, anche pieno di buona volontà, oggi finisca necessariamente per fare della cattiva scuola.
Perché? Bégaudeau non ce lo dice, non ci dice nemmeno cos'è una buona scuola. Ma a tratti gli insegnanti, nella sala professori, dichiarano il loro punto di vista. Una buona scuola coincide, per loro, con una bella classetta. Vale a dire con una scuola senza fannulloni e farabutti, ma fatta di soli capaci e meritevoli: persone diligenti, quiete, piene di pensierini corretti, alle quali si possa insegnare il francese e altro in pace.
In parole povere constatiamo senza sorpresa che questi docenti non vorrebbero lavorare nella scuola di massa. O meglio, poiché la scuola di massa è sempre più piena per sua natura di giovani difficili di ogni provenienza sociale con i quali nessuno sa cosa fare, gli insegnanti, in Bégaudeau, e ancor più nel film di Cantet, mirano al sogno delle classi perfette umiliando ed espellendo, nei limiti del possibile, gli inadatti.
Il libro, in questo senso, è una piccola mappa che, proprio perché parla di un altro Paese, ci aiuta a vedere con maggior distacco il nostro. Dopo il lavorio riformista che si colloca da noi tra la fine degli anni Cinquanta e la prima metà degli anni Settanta, nessuno, se non a chiacchiere, ha puntato sulla scuola fattivamente, facendo dell'istruzione pubblica il perno della crescita — crescita ad ampio raggio — del Paese. Chi ci ha messo le mani le ha messe dappertutto a vanvera, ma mai al portafoglio (una riforma vera della scuola costa moltissimo) e di conseguenza mai alla sostanza dei problemi. Gli interventi sono stati puramente nominali, spesso hanno inseguito l'abracadabra del momento: il mercato, l'azienda, il manager, lo sponsor, il Pof. Oppure hanno preso la china, a destra ma anche a sinistra, del ritorno alla frusta, strumento molto economico e che induce a fare economie: grembiule, voti, sette in condotta, maestro unico senza grilli per la testa, via i rozzi e bonari insegnanti senza accento padano, selezione classista, coccarde tricolori agli eccellenti e caso mai a tutti gli altri bacchettate sulle nocche, il cappello con le orecchie d'asino. Che è come dire che i problemi della scuola d'oggi, i problemi del mondo d'oggi, si possono affrontare e risolvere solo in chiave sostanzialmente repressiva.
Bene. Il libro di Bégaudeau, che è pieno zeppo di note disciplinari, passeggiate punitive dal preside, espulsioni, dimostra che la crisi della scuola non è banalmente riconducibile all'indisciplina e all'assenza di misure forti. Certo, la buona educazione non ha mai guastato e nemmeno l'impegno negli studi. Ma il problema aperto da ormai un secolo, in tutti i Paesi avanzati, è ben più cospicuo. Di quale tipo di scuola e di insegnanti abbiamo bisogno per trasformare l'istruzione di massa in un'istruzione di elevata qualità per tutti? Come si fa a costruire una scuola efficiente, un'istruzione che non si occupi solo dei capaci e dei meritevoli ma si faccia carico sul serio dei più, di quelli che per motivi vari sembrano incapaci e senza meriti? Se non si riesce a rispondere in tempi brevi a questa domanda, la situazione nelle scuole, grembiule o no, sette in condotta o no, bocciature o no, non divertirà più nessuno, diventerà drammatica.

Corriere della Sera 3.10.08
Un lavoro d'eccellenza curato da Guido Bastianini e Rosario Pintaudi
Il vero Adriano, oltre la Yourcenar
Gli scavi dell'Istituto Vitelli nella città dell'amante Antinoo
di Luciano Canfora


Pubblicati 122 testi e quattro pezzetti figurati Confermata un'intuizione della grande Medea Norsa

Nel 1951 Marguerite Yourcenar ebbe la strana idea di far parlare Adriano con la profondità, il senso del dovere, il filosofico pessimismo di Marco Aurelio. E così nacquero le Memorie di Adriano. Un libro in verità piuttosto lamentoso, che risente ovviamente anche della cultura del tempo. Un esempio per tutti: quando Adriano «prevede» la caduta dell'impero romano ad opera dei «barbari dall'esterno e degli schiavi dall'interno» (p. 110 trad. Einaudi), non fa che riassumere un pensiero divenuto a torto famoso, ma formulato del tutto en passant
da Stalin in un discorso del 1933 ai «colcoziani d'assalto», di lì passato nelle Questioni del leninismo
(tradotte a Parigi per le Éditions Sociales nel 1947) e intanto «codificato» nella Storia di Roma di Sergej Ivanovich Kovaliov l'anno seguente (capitolo XVI). Alla fine degli anni Quaranta, nella Francia di Sartre, di Aragon e della colomba di Picasso, la cosa non deve stupirci. E poi, una scrittrice che si avventurava a far rivivere l'antichità sotto forma di romanzo doveva pur cercare fonti di ispirazione non ovvie!
Ma c'era in lei anche un certo scrupolo topografico. La sepoltura di Antinoo gliene offre il destro. Il dolore di Adriano per la morte di Antinoo è, com'è ovvio, un «pezzo forte» del romanzo, e offre l'occasione all'autrice per parlare dottamente della «città di Antinoo» (Antinoupolis ovvero Antinòpoli) voluta e creata nel Medio Egitto da Adriano per celebrare ed eternare la figura dell'amato giovane. «Le barche ci condussero in quel punto del fiume dove cominciava a sorgere Antinopoli (...) Si profilava la pianta degli edifici futuri tra i mucchi di terreno sterrato. Ma esitavo ancora sulla località del sepolcro (...) Anche il monumento previsto, alle porte di Antinopoli, sembrava troppo esposto e poco sicuro. Seguii il consiglio dei sacerdoti. Essi mi indicarono, sul fianco d'una montagna della catena arabica, a tre leghe dalla città, una di quelle caverne che un tempo i re d'Egitto destinavano a servir loro da sepolcri (...) I secoli sarebbero passati a migliaia su quella tomba» (p. 199).
Quando Yourcenar scriveva queste pagine gli scavi italiani ad Antinoupolis, intrapresi nel 1935-36, languivano per la lunga interruzione dovuta alla guerra. Nel 1940 l'Italia aveva aggredito l'Egitto, e non era facile ripresentarsi nel dopoguerra a scavare come se nulla fosse successo. La ripresa avvenne soltanto nel 1965. Un'altra lunghissima stasi ci fu tra il 1993 e il 2000. Ed ora, finalmente, per merito, ancora una volta, dell'Istituto Papirologico «Vitelli» di Firenze, i risultati dello scavo vengono pubblicati in un primo prezioso ed imponente volume, Antinoupolis.
In un momento particolarmente oscurantistico del nostro recente passato, l'Istituto «Vitelli» stava per essere proclamato «ente inutile», e conseguentemente penalizzato. La minaccia fu sventata, ma era sintomatica di un malcostume intellettuale che continua a dominare, nel segno di un'idea utilitaristica del lavoro intellettuale. Finanziamenti da parte dello Stato e visibili, tangibili risultati immediati, magari tali da farci su un bel «servizio» televisivo, sono considerati entità indissolubili. La necessaria lentezza della ricerca è malvista. Ebbene questo Istituto e le molte forze intellettuali che in vario modo e a vario titolo vi si riferiscono hanno dato alla luce quasi contemporaneamente due consistenti risultati. Da un lato questo primo volume su Antinoupolis, dall'altro l'ultimo nato (il quindicesimo) della serie dei Papiri greci e latini. Scavare ad Antinoupolis fu un'idea di Girolamo Vitelli (scomparso nel settembre del '35). Vitelli aveva una notevolissima conoscenza storica e antiquaria dell'Egitto greco-romano e sapeva intuire dove convenisse orientare gli scavi italiani, dei quali egli era, insieme con Medea Norsa ed Evaristo Breccia, il vero e sapiente promotore.
Negli anni Sessanta, alla ripresa, pur tra mille vicissitudini, un nuovo punto fermo lo mise Sergio Donadoni con il suo prezioso Promemoria sui «kiman» di Antinoe
(1966). Ed ora i «dioscuri fiorentini» Rosario Pintaudi (cattedratico a Messina e custode dei papiri in Laurenziana) e Guido Bastianini (attuale direttore del Vitelli) hanno compiuto l'opera. Intorno a loro una schiera di giovani che sopperiscono con l'entusiasmo e la fiducia nella ricerca, e nei loro maestri, alla mancanza di una dignitosa e meritata collocazione nella sclerotica e pluririformata, e perciò boccheggiante, Università italiana. È ben vero che è tipico del nostro ceto intellettuale, soprattutto dei più giovani (che sono spesso tra i più bravi come Diletta Minutoli, «volontaria» a Messina e ad Antinoupolis) questo «idealismo» del lavoro fatto per «l'arte». Il che tanto più colpisce a fronte dell'elefantiasi burocratica dei nostri atenei ridondanti di uffici inutili.
Lo scavo archeologico è, per natura, uno dei luoghi dove più facile è che si realizzi la collaborazione internazionale. Nel caso dell'Egitto, terra d'elezione della papirologia mondiale, c'è un legame in più che si determina di necessità. È finita da un pezzo l'epoca della gestione «colonialistica» dei beni culturali sepolti sotto il suolo egiziano. Anche se ogni tanto qualche misteriosa (ma non troppo) esportazione clandestina si riaffaccia rumorosamente alla ribalta. L'argomento con cui un tempo veniva zittita la protesta dei nazionalisti egiziani contro il saccheggio era — anche da parte di caste locali infeudate all'Occidente — che gli egiziani non disponevano di studiosi competenti per valorizzare quei tesori. Forse l'argomento era già discutibile allora (ne parlammo diffusamente nel Papiro di Dongo, Adelphi), certo non è accettabile ora, quando l'Egitto dispone di forze notevolissime e qualificate e di un patron dell'Archeologia quale Zahi Hawas, che anche per gli scavi di Antinoupolis è stato e continua ad essere una sponda preziosa. Ma allo scavo partecipano anche ricercatori tedeschi, belgi, cechi. Insomma la missione italiana (anche se gli elargitori di fondi ministeriali non se ne sono accorti) è al centro di una rete internazionale di grande prestigio. Vedremo presto gli altri volumi. E conosceremo la storia della città di Adriano come s'è sviluppata nei secoli: attraverso le monete, e poi il santuario di San Colluto. Uno spaccato della storia mediterranea attraverso un punto di osservazione privilegiato.
Il volume quindicesimo della gloriosa serie fiorentina ci ripaga di una lunga attesa. Centoventidue testi editi con la acribia di sempre, dei quali solo settantasette erano già noti da pubblicazioni parziali. Quasi sessanta sono i testi letterari, e i quattro pezzetti figurati (1571-1574) fanno giustizia, al solo vederli, di tante recenti fantasie in questo campo, dove è così facile prendere abbagli. Tra tanta ricchezza di materiali piace qui ricordare, in conclusione, un caso cui già facemmo cenno nel Papiro di Dongo. Ancora una volta una intuizione testuale di Medea Norsa viene confermata. Parliamo dell'attuale nr. 1480, che è con tutta probabilità un nuovo pezzo di Menandro, come Norsa ben vide (e intendeva già pubblicarlo nel 1948 nel volume XIII). Dopo un vario «errare» tra altre ipotesi si torna a Menandro, come all'ipotesi più probabile. I padri fondatori della papirologia italiana possono andar fieri dei loro eredi.

il Riformista 3.10.08
Esordi. Domenica inizia su Raiuno la maratona biblica
Papa Ratzinger fa il provino per la sua prima tv
di Paolo Rodari


Dicono nei sacri palazzi che, per il grande evento, il Papa abbia voluto fare anche una prova. Già, perché non capita tutti i giorni di andare davanti a delle telecamere a leggere la Bibbia. Anzi, a nessun Pontefice prima di Benedetto XVI era mai successo. E, dunque, occorre prepararsi bene, provare i microfoni, valutare postura e tono della voce. E così Ratzinger ha fatto. All'interno del palazzo apostolico, in piedi dietro un leggio, zucchetto in testa e occhiali ben inforcati, Benedetto XVI ha provato a leggere per intero il testo che, domenica sera, aprirà la maratona televisiva organizzata dalla Rai (fino all'11 ottobre) nella quale il testo sacro (dalla Genesi all'Apocalisse) verrà letto da svariate personalità collegate via video dalla basilica di Santa Croce in Gerusalemme. Al Papa è toccato il primo e il secondo capitolo (fino alla prima parte del quarto versetto) della Genesi. Lo leggerà in italiano, a eccezione di poche parole che saranno pronunciate in ebraico.
Al Pontefice non serviranno né trucchi né maquillage. Casomai, al massimo sarà il suo fidato segretario particolare don Georg Gaenswein, ad aggiustargli lo zucchetto prima delle riprese qualora ve ne fosse bisogno. La lettura del testo biblico durerà soltanto pochi minuti e, subito dopo, in perfetto ecumenical style, saranno il vescovo ortodosso del patriarcato di Mosca, Hilarion Alfeev, e Maria Bonafede, moderatrice della Tavola valdese, a continuare.
A differenza degli altri lettori il Papa non leggerà in diretta. Il suo intervento verrà registrato in una stanza del palazzo apostolico dal Centro televisivo vaticano che invierà poi il nastro alla Rai. Sono state le udienze da concedere ai tanti vescovi che domenica arriveranno in Vaticano per l'apertura del Sinodo dedicato alla Parola di Dio a non permettere la diretta.
Un Papa in tv a leggere la Bibbia è un evento che non ha precedenti. Quando la televisione arrivò in Italia, Pio XII era alla fine del suo pontificato. Probabilmente lui e tre dei suoi cinque successori (Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo I) mai avrebbero accettato di apparire in una maratona televisiva la quale, seppure abbia al proprio centro il testo sacro, resta pur sempre una non-stop-tv. Pacelli, Roncalli, Montini e chissà, forse anche Luciani, difficilmente avrebbero accettato di perdere quel carattere ieratico e sacro che contraddistingueva il proprio pubblico apparire. Non così Ratzinger, che sta smentendo ogni giorno di più l'immagine cucitagli addosso di freddo professore tedesco. Proseguendo, in questo senso, nella strada aperta da Papa Wojtyla. Fu lui a rompere gli schemi. A far diventare ordinario ciò che non lo era. A far fruttare in ogni suo pubblico apparire le esperienze teatrali intraprese in gioventù. Fino a Luciani - che pure, nelle poche occasioni che ebbe, ruppe il protocollo - il Papa in pubblico doveva, nel limite del possibile, nascondere i propri sentimenti. Da Wojtyla in poi, no. Ratzinger si è adattato a questa rottura protocollare wojtyliana. Fino ad arrivare a leggere in tv la parola di Dio all'interno di un evento del tutto sganciato da ogni azione sacramentale. Una lettura che i più non avrebbero detto nel suo stile. Ma è anche vero che nessuno avrebbe osate immaginare Benedetto XVI assorto in una moschea di Istanbul.

l'Unità 3.10.08
Tesori sottratti al saccheggio
Una mostra al Colosseo celebra 100 anni di tutela del patrimonio nazionale
di Adele Cambria


LE EMOZIONI si sprigionano subito, appena comincia la visita-guidata da Adriano La Regina e dalle giovani archeologhe (e curatrici del catalogo) Elena Cagiano de Azevedo e Roberta Geremia Nucci. La prima sosta è a un meraviglioso altorilievo marmoreo che costituiva la fronte di un sarcofago romano del I°-II° sec.d.C. Si intrecciano, in una plastica raffigurazione quasi carnale, i giovani corpi dei figli e delle figlie di Niobe,(i Niobidi) mentre si consuma su di loro, fra loro, la strage provocata dall'invidia di Latona/Giunone: che invia sulla terra i propri figli, Apollo ed Artemide, con il compito di ucciderli tutti,7 maschi e 7 femmine, per punire Niobe di essersi vantata di una prole più numerosa, e più ardita e splendente, di quella della Dea. Il mito che Ovidio ci trasmette nelle Metamorfosi contiene un monito primario: avverte i mortali di non suscitare mai l'invidia degli Dei..
Quest'opera d'arte sta qui, a documentare la prima sezione della mostra e ha come titolo: «Alle origini della tutela». Infatti la sorte di questo capolavoro si intreccia attraverso i secoli con quella di un altro rilievo con scena di sacrificio (qui rappresentato da un calco): che, nonostante esaltasse il rito pagano del sacrificio di un toro, decorava la porta della Biblioteca di San Marco a Venezia. Ma l'originale fu prelevato dai francesi nel 1797, e mai più restituito.(Si trova al Louvre). In compenso, tuttavia, Venezia, nel 1816 inclusa nell'impero austro-ungarico, si ebbe, dai francesi, lo splendido altorilievo della strage dei Niobidi, murato su una porta del "gran salone" della Villa Borghese, ed anch'esso asportato dai francesi, in periodo napoleonico. «Perché secondo il gusto dell'epoca, nella prima metà dell'Ottocento - spiega La Regina - il sarcofago Borghese era ritenuto di minor valore.
Sosta successiva, davanti alla incantevole statua della Ninfa (anch'essa databile alla fine del I° sec.d.C., ma la testa è più antica), ritrovata nel cortile di Palazzo Carafa Colubrano, a Napoli: i Borboni tentarono di far restare quel capolavoro a Napoli senza riuscirci. La statua fu offerta in vendita J.Wolfang Goethe. E lui seppe resistere alla tentazione di impossessarsi del capolavoro, passato alla storia come "La ballerina di Goethe", accettando il prudente consiglio dell'amica pittrice Angelica Kaufmann. Rivedendo poi la sua "ballerina" nel Museo Pio Clementino in Vaticano(dove si trova tuttora), Goethe espresse rimpianto per «non essere riuscito a portarla in Germania, per associarla a qualche grande raccolta patria».
Recentissime invece le avventure della delicata «Divinità femminile in trono», in argilla rosata, di produzione etrusca del III-I sec. a.C., ritrovata nel corso degli scavi a Luco dei Marsi(L'Aquila), e che è stata scelta come logo della mostra. La dea madre - forse Angizia(Demetra-Cerere) - fu prelevata (e salvata dai tombaroli) al lume delle torce elettriche, dagli archeologi della Soprintendenza d'Abruzzo, scortati dai carabinieri, nella notte del 18 luglio 2003. Ora si trova nel Museo Archeologico "La Civitella" di Chieti.
Tutt'altro capitolo, e drammatico, quello delle esportazioni in Germania fra il 1937 e il 1944. Scrive, nel catalogo, Roberta Geremia Nucci: «Il saccheggio cominciò nel 1937, quando giunse in Italia la prima Commissione del governo tedesco, presieduta dal principe Filippo d'Assia, per la selezione delle opere da 'acquistare', con l'assenso del ministro degli Esteri Ciano o di Mussolini, nonostante i pareri negativi del Ministro dell'Educazione Nazionale Bottai. Singolare la sorte del "Dioniso", una statua gigantesca che fu consegnata all'Ambasciata tedesca il 15 gennaio 1944, e trasferita a Weimar per servire al culto di Nietzsche-Dionysos. Recuperata nel 1991, si trova ora nel Museo Nazionale Romano a Palazzo Massimo alle Terme. Ma la testa originale di "Dioniso" è, dal 1966, nel Ashmolean Museum di Oxford.

marieclaire ottobre 2008
Le attrici non mangiano
E poi: sono delle aliene, per sfondare devono elargire favori sessuali mirati...
Falso. Se siete stufi dei soliti luoghi comuni e ritratti doc, leggere questa sceneggiatura-intervista con Valentina Lodovini. E consolatevi: la vogliono i migliori registi ma non gli uomini che vorrebbe lei
di Luca Rossi

1. CASA LUCA. Int. giorno.
DETTAGLIO del microfono di un telefono vicino alla bocca di un uomo.
Valentina (Fuori Campo): ... In piazza Guadalupe c'è un'edicola, ci possiamo vedere lì.
Luca (FC) (stupito) : Ma c'è un bar, lì, un posto carino dove possiamo andare?
Valentina (FC) No, uno carino no. È chiuso per ferie.
La macchina da presa allarga sull'uomo al telefono, Luca Rossi, 52 anni, capelli brizzolati, abbastanza lunghi, occhiali. Ha un'espressione perplessa, quasi infastidita.
Luca: Be', con questo caldo... Se dobbiamo stare un paio d'ore ...
2. CASA VALENTINA. Int. giorno.
PRIMO PIANO di Valentina Lodovini, 28 anni, attrice. Capelli castani lunghi, occhi grandi, un po' gonfi. Anche lei ha un'espressione infastidita.
Valentina: Allora forse potremmo vederci a Prati, da Antonini ...
Luca (FC) (sollevato): Sì, meglio ...
3. CASA LUCA. Int. giorno. Luca abbassa il telefono, scuote la testa.
Luca (voce pensiero): Cominciamo bene ... Davanti all' edicola ... Valentina Lodovini, zero in pierre ...
4. BAR ANTONINI. Est. giorno.
Valentina è seduta a un tavolino all'ombra. Ha una tshirt rossa, occhiali da sole, calzoni bianchi un po' sporchi sulle tasche, ballerine nere. Davanti a lei Luca, camicia bianca e blue jeans, con un taccuino in mano. Sul tavolo ci sono solo due acque minerali.
Luca: Perché non mi hai invitato a casa tua?
Valentina (sorridendo): E ti pare che facevo salire un giornalista a casa mia? Così poi guardavi che libri leggo, i miei quadri, i cd ...
Luca: Appunto. Che c'è di male?
Valentina(vagamente scandalizzata): Non mi va. Secondo me, l'attore deve rimanere il più anonimo possibile, così può fare più parti. Lo spettatore non lo identifica. Io mi sento più spettatrice che attrice.
Luca: Cioè?
Valentina (guardandosi intorno): Nella folla mi vengono gli attacchi di panico. Davanti alla camera o in teatro no, ma nella vita sì.
Luca: Perché?
Valentina: Non so, nell'incontro con gli altri ho sempre paura di essere sbagliata, o di sbagliare.
Luca(secco): Com'eri da bambina?
Valentina (veloce) Solitaria, sognatrice, riservata, testarda.
Luca: Di dove sei?
Valentina (illuminandosi): Di San Sepolcro, un paese in provincia di Arezzo. Luca (ironico): Una paesana.
Valentina (ridendo, annuisce): Paesana e campagnola. (Convinta, come ricordando) Lì c'è il mio fiume, il Tevere, che è il posto dove mi sento più sicura. Attraverso un bosco selvaggio, non tanto, diciamo cinquecento metri, arrivo a un'insenatura con delle rocce, e c'è il punto preciso: leggo, faccio il bagno nei gorghi ... Se poi ti muovi, c'è la cascatella, altre rocce, altri gorghi ...
Luca (interrompendola): Non ti va stretto, il paese?
Valentina: No, per niente. Ci torno appena posso. (Leggermente ironica) E poi guarda che a San Sepolcro ci sono un sacco di cose. È il paese di Piero della Francesca, c'è la Madonna del Parto. (Seria) La prima volta che l'ho vista ero una bambina, mi ha quasi spaventata, era come se trasudasse vita. E poi ci sono la casa di Michelangelo, quella di Burri, l'arte è molto viva, è un' oasi felice. (Ironica) Ci sono un sacco di corsi d'inglese, il Palio della Balestra ... E poi lì io ho cinque nipoti, un fratello, una sorella, i miei genitori ...
Luca: Se dovessi definire la Toscana?
Valentina (pensandoci un attimo): Eleganza, generosità, e anche discrezione.
Luca: Come hai cominciato?
Valentina: A sei anni, guardando Saranno famosi. Ho pensato subito: vorrei fare una scuola come questa. (Sorridendo) Non ne perdevo una puntata, sapevo a memoria tutti i balletti. Continuo a danzare anche adesso, mi dà disciplina, senso dello spazio. E poi un attore deve saper fare più cose ...
Luca: I film che ti hanno cambiato la vita?
Valentina: (veloce) Bellissima, prima di tutto. Il silenzio degli innocenti mi ha spinta a fare l'attrice, e poi Paisà. Lì mi è proprio scattato l'amore.
Luca (sorpreso): Un film di Visconti del '51, uno di Rossellini del '46, e un horror. Non dovevi essere molto popolare tra i ragazzini di San Sepolcro.
Valentina: No. (Sbrigativa) Ho sempre avuto problemi di relazione, mi autoescludevo. Ma non sono popolare neanche adesso. La fama ti tiene lontana dalla realtà, il successo invece fa parte del lavoro.
Luca: E infatti lavori con i registi più snob. Francesca Comencini, Anna Negri, Carlo Mazzacurati, Paolo Sorrentino, Marco Risi ... (Ridendo, provocatorio) O fai pompini molto mirati, o sei davvero bravissima.
Valentina arretra, si scompone, fa un gesto come di meraviglia, poi scoppia a ridere.
Valentina: Ma no dai, io non ci credo ... (Imbarazzata) Non ci credo che funziona davvero così. (Cambiando tono) Ma tu allora i miei film non li hai mai visti?
Luca: No.
Valentina: Be', anche alcuni dei registi con cui ho lavorato non li avevano visti ... (Ridendo) Ma non me l'hanno mai chiesta, e io non l'ho mai data. Mi hanno fatto fare dei provini, e mi sono trovata in ambienti meravigliosi, con gente che si sporca, che rischia, che non si adagia su un passato glorioso. Persone semplici, vive, umanamente bellissime, non spocchiose, con un senso dell'umorismo incredibile, che mi hanno accolta e sostenuta. Troupe unite, che collaboravano per riuscire a fare quel film. (Ironica) Ora sono preoccupata, non può andarmi sempre così bene ... (Seria) Una volta sola sono stata scelta da un regista che poi però non parlava con me, non mi voleva. E il mio corpo ha preso il sopravvento: che bel seno, che belle gambe, era tutto lì.
Luca: Il provino con Sorrentino?
Valentina: Avevo il cuore a mille, mi sembrava irreale conoscerlo. Ma in parte ero anche tranquilla, ero sicura che non l'avrei visto una seconda volta. Abbiamo parlato dieci minuti, gli piacevano le mie scarpe.
Luca: Che scarpe?
Valentina (con un luccichìo negli occhi): Ballerine rosse.
Luca (guardando i piedi di valentina): Tacchi mai?
Valentina: Sì, perché no? Mi piace trasformarmi, mi piace che non mi riconoscano. È successo persino a una mia amica, mi ha vista da lontano e non ha capito che ero io. Ma della moda non me ne frega un cazzo, m'informo giusto per ragioni d'immagine.
Luca: E comunque il provino è andato bene, Sorrentino ti ha presa.
Valentina: Sì, quando me l'ha detto ero incredula. E poi con lui ho vissuto questa scena meravigliosa, c'era il qui e ora, non so come spiegarmi, e poi non lo so ... (Confondendosi) Non so se voglio dirlo, magari a lui non fa piacere ...
Luca (scoppiando a ridere): E perché mai?
Valentina: Sì, no, non lo so ... (Come imbarazzata) È che a volte non riesci a vivere la scena, quel preciso momento, e invece lì è successo, era buio, io dovevo fare una ragazza con un usuraio, che gli deve dare un anello, e insomma alla fine c'era una tensione, un'intensità mai provata. Se n'è accorto anche lui, mi ha fatto i complimenti. Sono tornata a casa e mi è venuta la febbre a quaranta.
Luca (ridendo): E perché?
Valentina (grave): Perché io accetto più il dolore che l'amore. Guarda anche adesso: il mio sogno è diventato realtà, faccio l'attrice, dovrei essere felice, sorridere, invece sto male, lo vivo con angoscia, mi sento in debito, mi vengono i dubbi: addio perché mi ha scelto, forse si sta sbagliando ...
Luca: Con gli uomini è lo stesso?
Valentina (annuendo): Se sto bene, devo subito trovare un motivo per litigare. Loro rimangono spiazzati, o mi abbandonano. (Lucida) E allora è come una conferma: sono inadeguata, una donna che può solo essere abbandonata. Non sono mai in controllo della situazione, in genere vado verso uomini che non mi vogliono: Valentina subisce, in amore. (Intensa) M'hanno tradita sempre, e io perdono sempre. Faccio finta di niente, ma poi qualcosa si rompe, e ogni donna che vedo è meglio di me. Magari in maniera contorta, ma io amo l'altro più che me: sto bene quando faccio qualcosa per lui, quando lo faccio sentire amato, quando trovo la semplicità. Farlo sentire uomo: quello mi fa star bene.
Luca: Fammi un esempio.
Valentina (con una pausa, ricordando): Stavo girando un film complesso, ero in una città e il giorno dopo avrei dovuto raggiungerne un'altra, ho guardato gli orari degli aerei, ho organizzato tutto e sono tornata a Roma solo per stare di fianco a lui quella notte. Quando mi sono svegliata con il suo corpo vicino, e poi andando via in taxi, mi sentivo molto piena: mi ero lasciata andare, avevo superato le mie seghe mentali. (Cambiando tono, più decisa) Adesso sto interpretando ruoli di donne molto diverse, pratiche, che amano e poi se ne vanno, e quelle donne mi stanno cambiando, mi tolgono una parte adolescenziale, così cresco: devo ringraziare il mio lavoro. Faccio cinema per ricongiungermi con me, non per scappare da me.
Luca: Il primo bacio?
Valentina (sorridendo): A 17 anni, al Palio della Balestra. C'era questo ragazzino che mi piaceva, lo guardavo da lontano, mi avvicinavo appena, in modo che intuisse. Finalmente siamo andati a passeggio sul corso, e lui mi ha baciato a tradimento, di scatto. Mi ricordo che ero stupita, non tanto per il bacio, ma perché mi chiedevo: ma che, gli piaccio?
Luca (guardandola): E tu, ti piaci?
Valentina: Il mio corpo, no, non mi piace. Ma non è importante.
Luca: E agli altri piace?
Valentina (sorridendo, ma dura) Chiediamolo agli altri.
Luca: (con uno sguardo d'intesa) Chi sono gli altri?
Valentina: O hanno la mia età, o vent'anni di più.
Luca (insistente): Quali sono meglio?
Valentina: Gli uomini sono sempre tutti immaturi, ma è più stimolante con i più grandi. (Con un'occhiata obliqua) Uomini che non scappano da se stessi.
Luca: E gli altri altri, come ti percepiscono?
Valentina: Se sanno che sei attrice, ti tengono un po' lontana. O pensano che sei un' aliena e che te la tiri, e allora ti devi proteggere, o ti adorano e sono pieni di attenzioni. lo mi adeguo, cerco di far capire che sono io. A Napoli ero andata ad allenarmi al Convitto per una scena di pallavolo. Sono arrivata presto, mi sono seduta al!' ombra mangiando un panino. Il portiere e gli altri erano diffidenti. Quando ho detto che dovevo girare un film è cambiato tutto: «Sei attrice?». Non la finivano più di scusarsi, volevano l'autografo, si stupivano del panino. (Ridendo) «Ma le attrici non mangiano», dicevano.
Luca: Guadagni tanto?
Valentina: In questo mestiere puoi guadagnare anche mille euro al giorno, ma poi stai ferma anche sei mesi. Ma dei soldi non me ne frega niente: quelli che guadagno li spendo in affitto, sigarette, corsi e viaggi. Per dirti: stavo girando Coco Chanel a Roma, venerdì lavoravo, domenica dovevo andare a Lione, ma ho visto che a Londra c'era Ewan McGregor che faceva Jago in Otello. (Con un luccichìo negli occhi) Ho detto: lo devo vedere. A parte McEwan, che mi piace da morire, Shakespeare è bello anche quando è brutto. Ho preso un aereo, all' una di notte io e la mia amica eravamo davanti al botteghino. Non c'era nessun altro, solo un topo. Verso le quattro ha cominciato ad arrivare la gente, ma noi eravamo le prime della fila, e quando hanno aperto abbiamo avuto i biglietti. Ce n'erano solo dieci, capisci? Siamo andate a dormire in un albergo lì vicino, un quattro stelle, sfinite, e alla sera ci siamo visti un Otello pazzesco. (Ammiccante) Ed Ewan McGregor. Ecco, è così che li spendo. (Ricordando) Ah, il topo lo chiamavamo Ratatouille.
Luca: Ti piacciono le favole?
Valentina: Sì, molto. Mi piacciono le eroine che vanno fino in fondo.
Luca: La tua preferita?
Valentina scuote la testa, pensa, scuote ancora la testa.
Valentina: Adesso non mi viene in mente, te lo dico dopo.
5. CASA LUCA. Est. giorno.
Luca arriva in moto davanti a casa, spegne il motore, scende, si sfila il casco. In quel momento si sente il beep del cellulare. Luca lo prende, lo apre.
DETTAGLIO dello schermo del cellulare con un sms: La Sirenetta. Un pensiero e un sorriso. Da: Valentina Lodovini.

giovedì 2 ottobre 2008

L'ASSEMBLEA GENERALE DI ATENEO

di Professori e Ricercatori, Lettori e Collaboratori ed Esperti Linguistici, Tecnici e Amministrativi, Studenti e Precari (docenti, ricercatori e tecnici-amministrativi)


Riunita il 30 settembre 2008 per valutare le azioni del Governo condotte contro le Università ed il Pubblico Impiego in generale attraverso l'introduzione di norme restrittive in ordine al loro finanziamento, alla loro natura giuridica ed alle norme di carattere restrittivo su salari e diritti costituzionalmente garantiti ai lavoratori ed alle lavoratrici, che inevitabilmente rischiano il peggioramento delle modalità di accesso alle Università , a partire dalle rette degli studenti

DECIDE

di intraprendere tutte le necessarie iniziative di opposizione alle scelte di questo governo per difendere i diritti Costituzionali fondamentali di tutti:

IL DIRITTO AL LAVORO (vero e non precario)
IL DIRITTO ALLO STUDIO (in una Università libera, democratica e aperta a tutti)
IL DIRITTO ALLA SALUTE (universalmente garantito su tutto il territorio)
IL DIRITTO AD UNA VITA DIGNITOSA DI CIASCUNO (a partire dalle condizioni salariali e materiali ed alla qualità della vita e del lavoro di ciascuno)

DECIDE

Di opporsi all'anomalia democratica introdotta da questo governo che ostenta disprezzo verso il Parlamento governando a suon di decreti legge blindati dal voto di fiducia, al solo fine di produrre leggi e leggine rivolte contro i lavoratori pubblici e privati ed in particolare contro l'immensa schiera dei precari di entrambi i settori.

DENUNCIA

L'insopportabile attacco ai Servizi Pubblici (Università, Ricerca, Scuola, Alta formazione artistica e musicale, Sanità ) col costante taglio dei fondi ai rispettivi bilanci, sapendo di operare in questa direzione nei confronti di Servizi che già erano al collasso di gestione a causa delle condizioni economiche accumulatesi nel corso di lunghi anni: anziché intervenire a sostegno dei Servizi che erogano prestazioni di interesse generale ed universale si abbatte la mannaia dei ministri del governo con l'evidente scopo di dare il colpo di grazia definitivo.

EVIDENZIA

La necessità di mobilitarsi da subito per fermare questo disegno, sottolineando al contempo come questo debba essere fatto chiamando tutte le componenti professionali che operano nel nostro mondo, con la necessaria assunzione di responsabilità, nel perseguimento di un identico fine: la difesa "senza se e senza ma" della natura pubblica del sistema di formazione, di ogni ordine e grado, del nostro Paese.
A questo fine deve essere necessariamente valutata la necessità di riflettere sugli errori che sono stati compiuti, anche nel nostro Ateneo, sulle modalità attuative dell'autonomia e della gestione trasparente di un Ente pubblico, nell'ottica opposta a quella agita strumentalmente dal governo, e cioè realizzando compiutamente i fini costituzionali affidatici, rimuovendo gli interessi corporativi e di nicchia ovunque essi si annidino

PER TUTTO QUESTO L'ASSEMBLEA GENERALE

Dà mandato alla RSU ed alle OO.SS. di Ateneo di lavorare per costruire una manifestazione regionale, il più possibile estesa ad altre realtà del Pubblico Impiego, a partire dai settori della Conoscenza, entro il mese di Ottobre.

L'ASSEMBLEA SI IMPEGNA INOLTRE
A sostenere le vertenze in corso sul personale precario e l'attuazione delle norme contrattuali del personale tecnico-amministrativo per una soluzione soddisfacente che colga le ragioni di lavoratrici e lavoratori.

L'ASSEMBLEA CHIEDE INFINE

Alle OO.SS. nazionali di proclamare tempestivamente uno SCIOPERO GENERALE NAZIONALE dei comparti della conoscenza

Presenti 768: approvata all'unanimità
l’Unità 2.10.08
Confindustria vuole eliminare la Cgil
Marcegaglia: sui nuovi contratti firmiamo solo con Cisl e Uil. Tensione nei sindacati


In piazza contro il decreto «ammazza precari»
Oggi manifestazione a Roma davanti a Palazzo Vidoni dei lavoratori del settore pubblico
di Giuseppe Vespo

Rivolta precaria. Dalle università alla scuola, passando per l’istituto superiore di sanità, l’Istat, il Cnr e le amministrazioni locali. Il popolo a tempo determinato del settore pubblico alza la voce contro la norma «ammazza-precari» del ministro Brunetta. Per oggi è prevista una manifestazione davanti a Palazzo Vidoni sede del ministero della Pubblica amministrazione, da parte dei sindacati e ricercatori di Ispra, Isfol, Cnr, Ingv e Inaf, Istat ed Enea.
Ieri intanto le proteste hanno portato a manifestazioni e occupazioni, con il mondo della ricerca in subbuglio. La presidenza e la direzione generale del Cnr sono state invase da 200 ricercatori a tempo determinato. Stessa scena all’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf), mentre l’agitazione del personale dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia si è tradotta in assemblee tenute in tutte le sedi dell’ente. In mattinata 300 precari dell’Istituto superiore di Sanità hanno atteso il sottosegretario al Welfare Ferruccio Fazio, che doveva inaugurare un convegno internazionale con il premio Nobel Rita Levi Montalcini. La senatrice a vita ha espresso la sua solidarietà ai lavoratori dell’Iss, dicendosi vicina alle loro difficoltà e definendoli «un capitale umano eccellente da salvaguardare». Loro hanno avvertito che se il blocco alle stabilizzazioni avrà luogo tutte le attività che svolgono potrebbero essere sospese. Si parla di progetti di ricerca come il vaccino contro l’Aids o le malattie esantematiche, e di attività quotidiane dicontrollo come quelle sui cibi contaminati, i farmaci contraffatti e i virus influenzali.
Sempre in mattinata oltre 500 precari hanno animato un presidio davanti al Ministero del Lavoro, mentre all’Enea, l’ente per le nuove tecnologie, l’energia e l’ambiente, i lavoratori in stato di agitazione sono intervenuti al workshop in corso presso la sede centrale dell’Istituto.
Secondo una ricerca della Uil, sarebbero oltre 5.000 i ricercatori precari direttamente a rischio per effetto dell’emendamento che blocca la normativa sul graduale assorbimento del precariato nella Pubblica amministrazione.
Ma non è solo il mondo della scienza o quello della scuola - che oggi con i sindacati riunirà bambini, genitori e insegnanti al ministero dell’Istruzione per il “No Gelmini day” - a farsi sentire. Le proteste hanno coinvolto anche il presidente del Consiglio Berlusconi a Napoli. A suon di «buffone» alcune decine di precari e manifestanti, tra i quali insegnanti e vigili urbani, hanno contestato il premier all’uscita dalla Prefettura.
Neanche lo slittamento all’inizio di luglio dell’entrata in vigore dello stesso emendamento placa gli animi. Ieri in Parlamento il ministro Brunetta ha precisato che lo stop è funzionale al censimento di tutte le assunzioni a tempo determinato effettuate dalle amministrazioni pubbliche. Tutte le amministrazioni dovranno rendere conto delle assunzioni fatte e spiegare se per i posti destinati ai precari esistevano altri candidati vincitori di concorso. «Se le amministrazioni avranno tutte le carte in regola bene. Altrimenti la responsabilità delle assunzioni ricadrà su di loro» con una segnalazione alla Corte dei Conti. Poi, da luglio, «mai più todos caballeros», ha precisato il ministro.
Dal 2001 al 2006, i precari statali sono cresciuti del 62%. Solo nel 2006, le amministrazioni hanno assunto 127mila impiegati a tempo determinato e 47mila atipici.

Corriere della Sera 2.10.08
Asor Rosa: berlusconismo peggio del fascismo


MILANO — Il berlusconismo come il fascismo? Macché: il primo è peggio. In un lungo articolo sul Manifesto, Alberto Asor Rosa torna sulle analogie con il ventennio. Lo storico parte dall'idea di nazione italiana e assume tre indicatori: unità, rapporto del cittadino con le istituzioni e rapporto del presente con la tradizione. Sull'unità, «al governo siede un signore che si batte fieramente per la disarticolazione dell'unita identitaria del paese». Secondo, «nessuna dittatura ha fatto dell'interesse privato del leader il fulcro intorno a cui far ruotare l'elaborazione delle leggi». Quanto al rapporto con la tradizione, secondo Asor Rosa, il berlusconismo non ne ha alcuno: «Il suo eroe eponimo è un homo novus che spinge ai limiti estremi la sua totale mancanza di radici». Insomma: «Cavour è più lontano da lui di Togliatti»

l’Unità 2.10.08
Weekend neofascista alle porte di Roma
Forza Nuova chiama a raccolta l’ultradestra europea per il suo «Campo d’Azione» sulla via Tiberina
di Mariagrazia Gerina


CASA MONTAG «Chi cerchi?», si informano due trans di stanza accanto alla vicina fermata del bus. Sulla via Tiberina che dal cimitero di Prima Porta corre verso Capena e Castelnuovo di Porto ce ne sono ancora tanti di trans e prostitute. Ma nessuno sa dire
se quel casale al numero 801 sia frequentato o meno negli ultimi tempi. A guardia dell’ingresso sbarrato sono rimaste due sentinelle sbiadite, stile pittura pompeiana, uno ha l’elmo, l’altro raffigura l’Arcangelo Michele. Le finestre sono ancora murate e dietro al cancello nessun sentore di vita. Ma un cartello appoggiato tra le piante fa capire che il posto è quello: «Casa Montag» si legge a fatica, pseudonimo collettivo preso a prestito dal protagonista di Fahrenheit 451. E con lo stesso logo, che in gergo si definirebbe opera di «squadrismo grafico urbano», è marcata anche la cassetta delle lettere, in ferro verde, appesa al cancello come se quella fosse proprio una normale abitazione di campagna. «Inquilini di una barricata», si firmano i neofascisti “padroni” di casa, che nel 2002 approdarono qui rivendicando la prima occupazione di destra nella capitale e da venerdì a domenica prossima si preparano ad accogliere in questa vecchia scuola rurale abbandonata i militanti di Forza Nuova, chiamati a raduno da tutta Italia per il quinto «Campo d’Azione»: una manifestazione che - rivendicano i militanti di Fn in rete - nulla ha da invidiare al meeting di Rimini. Con qualche differenza per quanto riguarda programma, ospiti e partecipanti. «Dall’Austria Strakhe manderà anche l’eurodeputato della Fpoe Kurzmann», annuncia, Roberto Fiore, eurodeputato di Fn, gonfio d’orgoglio per i risultati elettorali dell’ultradestra d’oltralpe. «Il vento sta soffiando», rilanciano in rete gli epigoni nostrani preparandosi all’incontro. Dietro al cancello sono già pronti, se serviranno, i conetti bianco-rossi per riorientare il traffico all’arrivo di macchine e pullmann. Ma a dispetto della firma combat, dei preparativi e del battage pubblicitario che ha invaso i muri della capitale il luogo che ospiterà il «Campo» alla vigilia dell’evento appare per quello che è. Un rudere di campagna abbandonato nel territorio del XX municipio. Sfuggito al censimento del generale Mario Mori, a cui Alemanno, dopo l’aggressione di Ponte Galeria ad opera di due pastori romeni, ha affidato la messa sicurezza dell’agro romano.
«Mio marito mi ha detto che in quel casale ci ha visto un artigiano che faceva tavolini...», racconta una signora che abita a Borgo Sant’Isidoro, poche palazzine arroccate al lato della via Tiberina, non lontano da Casa Montag. Le prime teste rasate approdarono qui nel 2002 con un calendario di concerti a base di rock identitario intitolato «l’Altra Estate Romana»: «Me li ricordo, mi facevano un po’ impressione quando passavo... - prosegue la signora -, venivano anche a casa a chiedere la pasta per un progetto di solidarietà con l’Argentina... Poi non li ho visti più, però domenica scorsa parcheggiate davanti al cancello c’erano una decina di macchine e ho detto: vuoi vedere che sono tornati?».
In rete, nei mesi scorsi, si era acceso un certo dibattito su dove convocare il raduno. Qualcuno proponeva l’Abruzzo, visto che lì si vota e Fiore si è già candidato. Qualche militante del Nord Italia era infastidito dall’ipotesi Lazio. «Via Tiberina 801. Roma», c’è scritto alla fine con una punta d’orgoglio sui manifesti. Fin qui Fn si era dovuta accontentare di radunarsi nella campagna viterbese. Certo, non si era mai spinta fino alle porte della capitale. Ma con i saluti romani sventolati in Campidoglio per la vittoria di Alemanno perché non osare? E allora qualcuno si è ricordato di «Casa Montag», caduta un po’ in disgrazia con il proliferare delle occupazioni di destra anche all’interno del Raccordo.
Qui, pochi chilometri ed è già Riano. Per arrivarci i militanti di Fn dovranno macinare casali, tralicci, oliveti, campi coltivati, smorzi, fratte, lampioni e prostitute. Un percorso che i meno fortunati della capitale conoscono bene. Poco dopo il cimitero di Prima Porta, arriva il primo camping, il Tiber, e poi il secondo, il Roman River, dove nel 2004 sono stati portati i romeni sgomberati dagli stabilimenti dell’ex Snia Viscosa. Pochi mesi fa, sotto la spinta dell’emergenza sbarchi, sono approdati lungo la via Tiberina, a due-tre chilometri da Casa Montag, anche i richiedenti asilo, ospitati nel centro polifunzionale di Castelnuovo di Porto, dismesso della Protezione civile. Disperati del mare che fanno la spola tra la campagna e la città, in corriera, con il trenino, a volte anche a piedi.
Non è proprio il posto dove ti aspetteresti di veder spuntare un avamposto di estrema destra. Tanto meno un raduno di militanti che si riconoscono al grido: «Fuori gli stranieri dalla nostra patria». E che al loro raduno hanno invitato un gruppo rock dal nome «Delenda Carthago».

Repubblica 2.10.08
In America le pillole sostituiscono sempre più il divano dello psicanalista
La fuga dal lettino di Freud
di Simonetta Fiori


Dagli Usa arriva l´allarme: per risparmiare tempo e soldi, le pillole sostituiscono la psicanalisi. Ecco cosa succede in Italia

Per i "mali dell´anima" si prescrivono sempre più farmaci Soprattutto negli Stati Uniti, dove diminuisce il ricorso alle terapie psicologiche: in dieci anni sono scese dal 44 al 29% Ma in Italia, per ora, l´analisi ha ancora la meglio
Nel nostro paese gli specialisti sono molti. A mancare sono le strutture adatte
Anche ai bambini iperattivi vengono prescritti farmaci per il deficit di attenzione
Molti interrompono non perché stanno meglio, ma perché non hanno i soldi

In America la pillola spodesta la parola. Più facile ricorrere al farmaco che alla psicoterapia. Agli effetti immediati della pasticca, piuttosto che a defatiganti colloqui sul divanetto, s´affidano sempre più gli psichiatri che operano negli Stati Uniti. La tendenza è stata documentata dalla autorevole rivista Archives of General Psychiatry, che ha fornito cifre significative: le cure medico-psicologiche oggi in corso in America soltanto per il 29% si basano sulla terapia della parola, mentre dieci anni fa la percentuale era intorno al 44%. Sempre più numerosi - dice ancora lo studio di Ramin Mojtabai e Mark Olfson - sono gli psichiatri specializzati in terapie farmacologiche e sempre meno quelli attrezzati per la psicoterapia.

In America la pillola spodesta la parola. Più facile ricorrere al farmaco che alla psicoterapia. Agli effetti immediati della pasticca, piuttosto che a defatiganti colloqui sul divanetto, s´affidano sempre più gli psichiatri che operano negli Stati Uniti. La tendenza è stata documentata dalla autorevole rivista Archives of General Psychiatry, che ha fornito cifre significative: le cure medico-psicologiche oggi in corso in America soltanto per il 29% si basano sulla terapia della parola, mentre dieci anni fa la percentuale era intorno al 44%. Sempre più numerosi - dice ancora lo studio di Ramin Mojtabai e Mark Olfson - sono gli psichiatri specializzati in terapie farmacologiche e sempre meno quelli attrezzati per la psicoterapia. Non ammette equivoci il grafico che copre l´intero arco di tempo tra il 1996 e il 2005, analizzato sulla base del funzionamento degli ambulatori medici: se prima il 19% degli psichiatri sceglieva per tutti i pazienti la psicoterapia, ora il numero precipita al 10,8 per cento, quasi la metà. Freud ricacciato in soffitta, come sintetizzano i giornali americani? In realtà le medicine minacciano di liquidare non solo l´analisi più ortodossa, ma oltre le quattrocento varietà di psicoterapia oggi praticate negli Stati Uniti.
A cercare le cause di questa nuova tendenza, ci si imbatte in molte ragioni, alcune d´ordine banalmente materiale. I soldi, innanzitutto. Massimo Ammaniti, professore alla Sapienza di Psicopatologia dello sviluppo, ci fa notare come siano cambiate le norme delle assicurazioni americane, che prima rimborsavano le psicoterapie e oggi prevalentemente gli psicofarmaci. La questione dei costi è influente. Non è un caso che la dittatura della pillola dilaghi ovunque tranne che a New York.
«Se sei ricco e abiti a Manhattan», ha dichiarato il dottor Mojtabai, «è più facile risolvere i traumi infantili presso lo studio di qualche psicoanalista». Più difficile per un navajo in Arizona. Con buona pace di Woody Allen, che non dovrà rinunciare a un fortunato filone cinematografico.
Il denaro spiega molto, ma non tutto. La consuetudine con la pillola è anche il frutto d´una mentalità diffusa. Dall´infanzia alla senescenza, il farmaco è percepito dagli americani come rimedio risolutivo. «Capita spesso», dice Ammaniti, «che le maestre elementari chiamino i genitori a scuola per suggerire indicazioni farmacologiche destinate ai bambini iperattivi. Oggi la sindrome più denunciata è quella da deficit di attenzione, l´Attencion Deficit Hyperactivity Disorder. L´uso della categoria diagnostica mi pare fin troppo disinvolto: gli italiani sono molto più cauti nel fare diagnosi in campo infantile. E soprattutto nel somministrare ricette».
Il nostro paese appare ancora distante dalla pratica americana, pur con qualche avvisaglia di omologazione. «Il rischio è di andare in quella direzione», lamenta Simona Argentieri, psicoterapeuta di formazione freudiana. «Da noi troppo spesso prevale un uso improprio della pillola per tamponare le difficoltà del vivere. Quella tra disturbo e psicofarmaco rischia di diventare una correlazione meccanica, una scorciatoia meno impegnativa della psicoterapia, che richiede tempi più lunghi, soprattutto umiltà e intelligenza del cuore». Il farmaco, secondo la studiosa, accontenterebbe un po´ tutti. I pazienti, alleggeriti dal´incubo di doversi mettere in discussione. E i medici, talvolta costretti a incontri frettolosi in strutture pubbliche inadeguate. «Anche da noi ha attecchito la filosofia sintetizzata nel Diagnostic Statistical Manual, il manuale più diffuso al mondo con il nome di Dsm. Hai tali sintomi? Allora prenditi questa pillola. L´emozione è ridotta pura reazione neurochimica. Per il paziente non c´è più ascolto, solo una ricetta medica».
A favore della pasticca giocano le industrie farmaceutiche, ma anche una letteratura medica internazionale che sempre più incoraggia l´integrazione tra le diverse terapie. «Tra psicoterapia e farmaco non c´è più contrapposizione assoluta, come poteva accadere un tempo», interviene Nino Dazzi, ordinario di Psicologia, oggi alla guida della commissione ministeriale che regola gli accessi alla professione. «In alcuni casi, l´associazione tra pillola e parola può essere quella che funziona meglio. Ma il problema si pone se a spingere a favore del farmaco non è la sindrome del paziente, ma i servizi pubblici insufficienti. L´impressione è che non sia possibile praticare la psicoterapia come invece sarebbe richiesto, e che dunque la soluzione farmacologica risulti il rimedio quasi obbligato».
Difettano i servizi pubblici, non certo gli psicoterapeuti. In Italia operano nutrite leve di professionisti molto attrezzati, selezionati da una legge tra le più rigorose in Europa. Si accede alla professione o specializzandosi in Psichiatria con una formazione medica o dopo la laurea in Psicologia con un diploma di specializzazione conseguito presso una delle Scuole abilitate alla formazione. «La gran parte di queste Scuole è privata», spiega Dazzi, «ma la nostra commissione dà o nega l´autorizzazione sulla base di alcuni requisiti rigidamente fissati». Qui è forse la specificità italiana, la presenza di una vasta area di operatori che interviene nel campo della salute mentale senza ricorrere alla pasticca. «Mentre in America gli psicologi possono somministrare farmaci», spiega Ammaniti, «da noi questa facoltà è interdetta ai terapeuti sprovvisti di laurea in Medicina».
Per l´Italia vale anche un diverso clima culturale, segnato da alcune riforme fondamentali. Quella di Franco Basaglia, esattamente trent´anni fa, è considerata l´architrave d´una rivoluzione di tipo copernicano. «Potrà essere criticata o giudicata insufficiente», interviene Luigi Onnis, ordinario di Psichiatria e direttore dei servizi di psicoterapia al Policlinico Umberto I di Roma, «ma quella riforma ha avuto l´effetto di mutare radicalmente l´approccio alla malattia mentale. Il paziente non viene più trattato soltanto farmacologicamente e non soltanto dentro le istituzioni. Questo implica il riconoscimento che i problemi alla base della malattia mentale non sono soltanto biologici ma anche di natura psicologica ed esistenziale. Da questa acquisizione non si può tornare indietro». Una sensibilità registrata perfino dai bugiardini di alcuni psicofarmaci. «Nelle edizioni italiane di molti farmaci si legge che la somministrazione funziona solo se è accompagnata da una psicoterapia adeguata. Un buon segnale, no?».
Se quella italiana è una storia più complessa, che dovrebbe preservarci dall´indigestione di psicopillole, rimane il fatto che oggi la psicoanalisi in senso classico - tre sedute alla settimana, per un numero infinito di anni - è un bene di lusso riservato a un´élite. «Gli stessi psicoanalisti stanno rivedendo le modalità per allargare il campo», dice Onnis. «In questi anni è entrato in crisi l´indirizzo più ortodosso, che richiede molto tempo e molti soldi. Tendono nettamente a prevalere trattamenti più brevi, che possono dare risultati altrettanto soddisfacenti». Anche Simona Argentieri riconosce l´efficacia di queste cure meno onerose: «Talvolta bastano un colloquio o degli incontri episodici, o una volta alla settimana per un breve periodo: l´importante è permettere al paziente di proseguire in piena autonomia». Ma in un paese impoverito come il nostro, perfino la terapia più breve rischia di essere incompatibile con la rata del mutuo da pagare. «Moltissimi miei amici psicoterapeuti», interviene Dazzi, «mi raccontano di pazienti che concludono la terapia non perché soddisfatti o placati, ma perché non se la possono più permettere». Scavare nell´interiorità rischia di diventare pratica da ricchi, senza peraltro avere le caratteristiche del passatempo miliardario. La pasticca come rifugio alternativo? «A parte che non è economica», avverte Onnis, «non è mai risolutiva e provoca cronicità». Nella sfida con la pillola, in Italia, la parola resiste ancora.

Repubblica 2.10.08
Ma nel futuro tornerà la cura della parola
Depressione anoressia e paura dell´abbandono hanno bisogno di essere seguite
di Benedict Carey


Le teorie psicanalitiche, che nell´attuale era dei farmaci appaiono in crisi, hanno però, dietro l´angolo, la possibilità di una rivincita. Anzi, secondo alcuni esperti, il futuro del lettino è comunque assicurato, perché la "terapia della parola" conferma la sua efficacia contro alcune malattie mentali. Lo sostengono gli autori di uno studio pubblicato sul Journal of the American Medical Association. L´articolo è il primo a parlare in questi termini della psicoanalisi e a essere pubblicato su una delle più importanti riviste scientifiche: l´aspetto interessante è che gli studi sui quali esso si basa non erano noti ai medici. Questo settore ha resistito all´indagine scientifica per molti anni, in considerazione del fatto che il processo della terapia è molto individualizzato e di conseguenza non si presta di per sé a un simile studio. La premessa fondamentale è l´idea di Freud che i sintomi affondino le loro radici in conflitti psicologici latenti, spesso presenti da lungo tempo, che possono essere portati alla luce in parte tramite un esame approfondito durante il rapporto terapeuta-paziente.
Gli esperti nondimeno mettono in guardia dal rischio di dare un peso eccessivo alle conclusioni illustrate nell´articolo, ancora insufficienti a loro parere per affermare la superiorità della terapia psicoanalitica rispetto ad altre, quali la terapia cognitiva comportamentale o un approccio a più breve termine. Secondo loro, infatti, gli studi sui quali si basa la ricerca non sono sufficienti. «Questo studio però contraddice di sicuro il concetto che la terapia cognitiva o qualche altro trattamento a breve termine siano migliori» ha detto Bruce E. Wampold, presidente del dipartimento di consulenza psicologica dell´università del Wisconsin. «Quando è ben praticata, la terapia psicodinamica per alcuni pazienti si dimostra valida come qualsiasi altra e questo mi sembra determinante per una terapia intensiva simile».
Gli autori della ricerca - il dottor Falk Leichsenring dell´università di Giessen e Sven Rabung dell´University Medical Center Hamburg-Eppendorf, entrambi in Germania - hanno analizzato i casi nei quali la terapia prevedeva incontri frequenti (più di una seduta alla settimana) e durasse da almeno un anno o che durasse da almeno 50 sedute. I ricercatori hanno quindi analizzato studi che avevano seguito pazienti affetti da una molteplicità di problemi mentali, tra i quali la depressione grave, l´anoressia nervosa, i disturbi della personalità borderline, caratterizzata dalla paura dell´abbandono e da cupi accessi e grida di disperazione e disagio.
La terapia psicodinamica - ha spiegato Leichsenring in un messaggio di posta elettronica - "ha dato esiti significativi, considerevoli e stabili, che sono oltretutto significativamente aumentati tra la fine delle sedute vere e proprio e gli incontri di controllo successivi". Dall´analisi della ricerca non è emersa una correlazione diretta tra i miglioramenti del paziente e la durata del trattamento, ma il miglioramento è stato in ogni caso accertato e gli psichiatri hanno detto che era chiaro che i pazienti con problemi emotivi gravi e cronici avessero tratto vantaggio dall´attenzione costante e frequente dedicata loro dallo psicoanalista.
«Se a grandi linee definiamo personalità borderline quella che preclude di regolare le proprie emozioni, questa caratterizza moltissime persone che si presentano negli ambulatori medici, anche se la loro diagnosi è di depressione, di bipolarismo in età pediatrica o di abuso di sostanze stupefacenti» ha detto il dottor Andrew J. Gerber, psichiatra della Columbia. Per alcuni di questi pazienti, ha proseguito Gerber, "dall´articolo si evince che se si vuol far sì che i miglioramenti durino nel tempo occorre impegnarsi in una terapia a lungo termine".
Barbara L. Milroad, professoressa di psichiatria al Weill Cornell Medical College, che pratica come Gerber la terapia psicodinamica, ritiene di importanza fondamentale procedere a ulteriori studi per garantire la sopravvivenza di una terapia così valida. «Cerchiamo di essere concreti» ha detto Milroad. «Molti grandi centri medici hanno chiuso i programmi di tirocinio in terapia psicodinamica perché non c´erano adeguati riscontri sulla sua efficacia».
c.2008 New York Times News Service (Traduzione di Anna Bissanti)

Repubblica Roma 2.10.08
I carabinieri del Comando provinciale: "Una bustina si trova anche a 15 euro e questo la rende alla portata di tutti"
Baby pusher, arresti triplicati
di Federica Angeli


Allarme cocaina tra i minorenni: 13 anni l´età media del nuovo consumatore

Boom dei baby spacciatori. Nei primi nove mesi dell´anno i carabinieri del Comando provinciale hanno arrestato 59 pusher minorenni, tre volte tanto rispetto al 2007, quando erano stati 20 i teenager finiti dietro le sbarre per detenzione e spaccio. Tra i 59 in manette non ci sono ragazzi con un´età inferiore ai 14 anni solo perché non sono anagraficamente perseguibili, non perché i militari non li abbiano sorpresi a vendere droga. Si abbassa anche l´età media del nuovo consumatore: da 16 a 13 anni. Una bustina si trova a 15 euro, un prezzo che rende la cocaina accessibile a tutti. Il fenomeno è trasversale: i baby spacciatori vengono dai Parioli e da Tor Bella Monaca. «Dati allarmanti», dichiara Vittorio Tomasone, responsabile del Comando di piazza san Lorenzo in Lucina.

Da consumatori precoci a baby spacciatori. Il passo è davvero breve. Si comincia a tredici anni assumendo cocaina e si diventa pusher di pasticche, acidi e marijuana, a quindici. A fotografare l´impennata di spacciatori minorenni nella capitale sono i dati del Comando Provinciale dei carabinieri che, in appena nove mesi, hanno arrestato 59 piccoli spacciatori. Di questi 49 sono romani.
Tre volte tanto rispetto al 2007: lo scorso anno infatti sono stati appena venti i teenager finiti dietro le sbarre per detenzione e spaccio. E della stima non fanno parte gli under 14, ma solo perché non sono anagraficamente perseguibili e non perché i militari non li abbiano sorpresi a vendere droga nelle piazze della città.
Numeri «inquietanti e allarmanti», secondo Vittorio Tomasone, responsabile del Comando di piazza San Lorenzo in Lucina, che da mesi si sta battendo per contrastare quello che i tecnici chiamano «consumo anticipato» di stupefacenti. «L´età dei consumatori - spiga il colonnello Tomasone - si è notevolmente e drammaticamente abbassata. Fino a tre anni fa l´età media di un giovane che si avvicinava a questo tipo di droghe pesanti, quali la cocaina, era 16 anni e questo già aveva creato allarme rispetto a studi condotti nel passato. Fino a 10 anni fa, infatti, l´età media del consumo anticipato era 17». Oggi invece si comincia a 13, 14 anni. E gli spacciatori, per andare incontro alla legge del mercato, si sono adeguati al nuovo consumo.
Ed eccoci agli arresti dei primi nove mesi dell´anno, ovvero sedicenni e diciassetteni che abitano dai Parioli a Tor Bella Monaca, sono di estrazione sociale elevata e medio-bassa; sono figli di professionisti ma anche di operai. Il fenomeno è dunque trasversale.
Ma quel che colpisce è che a gestire lo sballo dei minori siano i minorenni stessi. Una partita giocata tra loro, con le loro regole, i loro tribunali, le loro leggi di compravendita. Una schiera di giovanissimi pusher che nulla sa di `ndrangheta e del monopolio che l´associazione criminale ormai detiene sullo spaccio della polvere bianca, sia in Italia che nel resto d´Europa. E questa inconsapevolezza sui macroscopici meccanismi fa sì che una dose di «neve» venga spacciata anche a prezzi stracciati. «Una bustina di cocaina - dichiara ancora Tomasone - si trova anche a quindici euro. Parliamo appunto di mini-dosi. E questo ovviamente rende la sostanza alla portata di tutti». Altro discorso è quello della purezza: secondo gli esperti l´abbassamento del costo della sostanza viaggia di pari passo con un utilizzo maggiore di sostanze da taglio. Quello che i ragazzini dunque assumono è una piccola percentuale della sostanza richiesta (coca, piuttosto che hashish o pasticche) e quantità industriali di mannite, lidocaina, talco, gesso e via dicendo.
Ultimo dato di rilievo: nella classifica delle droghe trovate nelle tasche dei 59 teenager arrestati fino a settembre troviamo al primo posto l´hashish e la marijuana, seguite a breve distanza dalla cocaina. Solo una piccola parte dei baby pusher è stato arrestato per spaccio di pasticche, il cui traffico sulle piazze è ancora in mano ai maggiorenni.

Repubblica Roma 2.10.08
Vive in periferia in uno scantinato di 30 metri quadrati e ha rimpiazzato il fratello finito in cella: "I miei clienti sono i ragazzi ricchi"
"Io, 14 anni, pusher nei migliori licei"
Il racconto di Manolo: "Con trenta euro ci sniffano in quattro"
di F. A.


"Ho passato un sacco di sere in centro e mi sono fatto conoscere dai pischelli giusti, quelli vestiti tutti fichi..."

«Ho iniziato a spacciare quando avevo dodici anni. Ora ne ho 14 e, non per vanto, ma sono uno dei più richiesti tra i liceali della capitale. Perché ho roba buona, non vendo schifezze. Con la coca che ho io, nessuno s´è mai sentito male con me. Garantito». Manolo vive in periferia, in uno scantinato di 30 metri quadrati che, quando aveva sei anni, i genitori hanno occupato abusivamente. Quello spazio buio e angusto Manolo lo divide, oggi, con la moglie del fratello, una ragazza albanese, e i suoi due nipotini.
Perché hai iniziato a spacciare a 12 anni?
«Perché lo faceva mio fratello, che ha sei anni più di me, ma lui se lo sono bevuto le guardie, ora sta in galera. E allora ho dovuto rimboccarmi le maniche e prendere il suo posto, altrimenti qui non si tirava avanti la baracca».
Come hai iniziato?
«Fuori dai licei del centro della città. Ho dovuto cambiare giro rispetto a mio fratello, altrimenti beccavano pure me, anche se tanto per l´età che ho nessuno mi può far niente».
Gli acquirenti te li sei andati a cercare tu, insomma.
«In un certo sì, ma non è che la cosa è stata così difficile. Ormai si fanno tutti, altrimenti non ci si diverte più. Quindi che ho fatto io? Ho passato un sacco di sere in centro, Campo de´ Fiori, piazza Navona, Pantheon, mi sono fatto conoscere dai pischelli giusti, quelli vestiti tutti fichi e poi ho costruito un rapporto di fiducia. La droga me la prenotano per telefono e io gliela porto sotto la scuola».
Usate un codice per comunicare il quantitativo di droga che devi portare?
«Sì, certo. Alcuni mi dicono che hanno preso tre all´interrogazione di filosofia e io capisco che vogliono tre pallette; altri mi dicono "Quando ci vediamo, mi porti un amico?". E allora ne vogliono una».
Qual è la droga che vendi di più?
«Cocaina. Ormai il fumo non lo vuole più nessuno. Anche perché se consideri che con trenta euro, ci pippano pure in quattro e che con la coca stai a mille, chi te lo fa fare di comprare hashish o "maria"?».
A quanto la vendi una dose?
«Dipende: dai 15 ai 50 euro. Ma arrivo pure a 70 se la coca la taglio con le amfetamine».
E tutta questa cocaina dove la rimedi?
«Amici fidati di famiglia».
Tu sei un consumatore di cocaina?
«E certo. Sono mica scemo che la vendo e non me la prendo».
Ma perché piace così tanto la coca?
«Perché con la coca stai gasato, non ti stanchi mai, non hai paura di niente, hai voglia di stare in mezzo alla gente e di parlare con tutti».
E senza cocaina no?
«No, perché in fondo non hai niente da dirti. Prendi me: di cosa vuoi che parli con una ragazza della puzza di muffa di casa mia? Invece con la coca è diverso: mi sento un re, forte, bello, potente. E allora pure lo scantinato mi sembra una reggia».

Corriere della Sera 2.10.08
I Romanov Secondo la sentenza la famiglia imperiale fu trucidata «senza motivo»
«Vittima del terrore bolscevico» La Russia riabilita lo zar Nicola
Storica sentenza della Corte Suprema. Ma un erede: «Ridicolo»
di Fabrizio Dragosei


La chiesa li aveva già proclamati martiri e Eltsin nel 1998 li aveva fatti seppellire nella Fortezza di San Pietro e Paolo a San Pietroburgo

MOSCA — La chiesa li aveva proclamati martiri e Boris Eltsin nel 1998 li aveva già fatti seppellire nella Fortezza di Pietro e Paolo a San Pietroburgo. Ieri, finalmente, anche la magistratura ha messo da parte i cavilli e ha riconosciuto che i membri della famiglia imperiale assassinati dai bolscevichi nel 1918 furono vittime della repressione sovietica. Lo zar Nicola II, la moglie e i suoi figli sono stati quindi ufficialmente riabilitati. Un fatto ovvio che al capo della famiglia Romanov, Nikolaj, appare «ridicolo». Sarebbe come «riabilitare San Pietro o San Paolo perché furono condannati a morte dai romani», ha detto alla rete televisiva Ntv.
Soddisfatta invece Maria Romanova, esponente di un'altra ala della famiglia che aveva iniziato la causa davanti alle autorità russe. Adesso l'associazione Memorial chiede che venga riabilitato l'intero movimento «bianco» che si batté contro i bolscevichi. E che siano rimossi «tutti i simboli del terrore rosso», a cominciare dalla salma di Lenin che ancora si trova nel mausoleo al centro della Piazza Rossa.
Nel novembre scorso la Corte Suprema aveva negato la riabilitazione affermando che nel 1918 i membri della famiglia Romanov «non erano stati arrestati per motivi politici e non erano stati condannati da una corte». Quindi, formalmente, mancavano i presupposti per una decisione positiva.
Ora il presidium della stessa Corte (il direttivo) ha riconosciuto che comunque lo zar e i suoi familiari «furono repressi senza motivo». E ha deciso di riabilitarli.
Trasportati sugli Urali a Ekaterinburg dopo l'abdicazione, i Romanov vennero massacrati in una cantina il 17 luglio del 1918 e poi sepolti nei boschi attorno alla città. Nicola II, la moglie Alessandra, le figlie Olga, Tatyana, Anastasia e Maria; l'erede al trono Aleksej. Assieme a loro furono uccisi il medico di corte, una cameriera, il cuoco e il maggiordomo (non riabilitati).
Nel 1991 vennero trovati in una fossa comune i resti della coppia imperiale e di tre figlie. Quelli di Maria e di Aleksej sono invece riemersi pochi mesi fa dopo ulteriori ricerche.
La legge russa sulla riabilitazione delle vittime di Stalin e Lenin prevede che gli eredi possano chiedere i danni e la restituzione dei beni ingiustamente confiscati, ma non se questo è avvenuto «in base alle leggi in vigore al momento della confisca stessa».
La famiglia Romanov ha detto che non intende aprire questo capitolo, ma secondo alcuni esperti potrebbe comunque presentare un ricorso alla Corte Europea dei diritti umani (c'è un precedente a favore di Costantino di Grecia). Per reclamare anche l'Hermitage, il famoso museo di San Pietroburgo che era abitato dalla famiglia imperiale quando si chiamava Palazzo d'Inverno.

Corriere della Sera 2.10.08
Tendenze Il filosofo francese delinea un rapporto inedito tra sfera pubblica e sentimenti personali. Ripartendo da Hegel e Rousseau
Amore e destino le nuove parole della politica
Tramonta il modello «ricchezza e successo»
di Jean-Luc Nancy


È comprensibile che oggi ci s'inquieti per il possibile destino dell'amore — così come ci si può inquietare per il destino della politica o anche per quello della scienza. Ma può darsi che — per l'amore come per la politica o la scienza (come per l'arte, la filosofia, la religione) — gravi su queste inquietudini una pesante ipoteca: se supponiamo che ciascuna di queste parole sottintenda un concetto intoccabile e intangibile, di cui potremmo dare le coordinate logico-semantiche, allora non c'è alcun dubbio che l'«amore» sia in pericolo, come lo è anche la politica. Ma niente ci porta a dire che possiamo o dobbiamo credere al valore perenne di queste nozioni.
Non è impossibile comprendere ciò che lega la politica all'amore, in maniera inapparente ma incontestabile. L'intera nostra tradizione parla a questo proposito un linguaggio visibilmente doppio: da una parte si afferma che la vita comune deve avere per principio l'amore (che sia sotto la forma del legame familiare, come per Hegel, sotto quella del contratto come consenso, con Rousseau, sotto quella dell'amicizia connessa alla sovranità, con Carl Schmitt) ma dall'altra parte si afferma anche che l'amore appartiene alla sfera privata e non può intervenire né come ingrediente, né come modello nella sfera pubblica.
Tuttavia, accade che oggi la mutazione profonda della politica — ossia il fatto che essa debba rinunciare a realizzare l'assunzione di un destino collettivo ma ben piuttosto subordinarsi alle sfere non politiche in cui si gioca ciò che merita propriamente il nome di «destino» (destinazione, fine ultima…) — questa mutazione, dunque, libera in conclusione un nuovo spazio per l'amore: né principio supposto di un'alleanza comunitaria, né pura elezione privata sottratta all'intera posta in gioco comune, l'amore potrebbe d'ora in avanti trovare un modo nuovo di affilare il suo proprio carattere (tutto ciò che gira attorno al matrimonio e alle forme connesse che s'inventano attorno ad esso e in parte contro di esso è forse rivelatore di una possibilità importante di trasformazione dei rapporti tra l'amore e la sfera pubblica o sociale).
Più ancora di Freud e del suo tempo, noi abbiamo compreso che la violenza non soltanto può diventare ben più mostruosa di quella delle trincee, delle mitragliatrici e dei gas, non soltanto può propagare e disperdere le proprie piaghe ben al di là del teatro dei combattimenti, fino al cuore di ogni vita, ma ancor più può diventare violenza inerente all'ordine o al disordine sociale, economico, culturale, violenza ideologica, finanziaria, tecnica, amministrativa, ecologica… Non è più un «disagio della civiltà » quello al quale noi assistiamo, è la civilizzazione stessa come disagio e come barbarie nel senso preciso di un'impresa di conquista e di espansione privata di veri scopi, presa dalla sola vertigine di un'accumulazione di ricchezza e di performance che non designano alcun altro orizzonte al di fuori della loro stessa espansione indefinita.
L'amore nel suo concetto moderno — vale a dire cristiano, romantico e metafisico — rappresenta il rovescio (o il dritto…) di una tale espansione, salvo a qualificarla d'infinito e non d'indefinito. Se il principio moderno in generale — il principio sotto l'effetto del quale si è dissolto il principio di tutte le altre culture, che era sempre, sotto l'uno o l'altro modo, un principio di determinazione e di finitudine — è proprio il principio d'infinitudine, allora il suo dispiegamento esige la proiezione di una fine infinita. Una fine infinita rivela una contraddizione se la fine deve mettere un termine all'infinito. Ma bisogna distinguere con Hegel il cattivo e il buon infinito. Il cattivo è quello in cui l'infinità è in potenza: è sempre suscettibile di essere portata più lontano e «l'infinitamente più» è così esteriore a se stesso. Il buon infinito è quello in cui l'infinità è in atto (vale a dire che è solo reale): il suo «infinitamente più» è sempre già effettivamente in sé, ma così la sua interiorità è strutturalmente in eccesso su di sé.
L'espansione indefinita — o semplicemente esteriore — dei fini dell'arricchimento e della performance
forma la fine infinita secondo il cattivo infinito. È la fine infinita secondo la quale la fine, lo scopo, il compimento, non consiste che nella produzione rinnovata di valori o sensi sempre equivalenti tra loro: tanto per il denaro come per i valori tecnici misurati in velocità, distanza, forza eccetera (al contrario, ricchezza o performance
possono essere misurate in tutt'altra maniera: nella dismisura di una gloria, di un'opera, di un pensiero…).
L'amore è il nome della fine infinita secondo il buon infinito. In esso il compimento consiste non in una produzione ma in qualche modo nella riproduzione, nella ripetizione, ossia nella ruminatio di un'incommensurabile: l'amore, precisamente, come assegnazione (attribuzione, attestazione, dichiarazione, creazione: bisognerebbe analizzare tutti questi modi) di un valore assoluto — nemmeno «valente», in qualche modo, o valente di non essere valutabile.
Questa semplice constatazione ci permette anche di affermare qualcosa di molto semplice ma di una grande importanza: il solo fatto che siamo in apprensione per l'amore, che non cessiamo di cercarlo nella vita e d'interrogarlo nel pensiero, comprendendoci e, assieme e allo stesso tempo, fraintendendoci su ciò che abbiamo così di mira, questo solo fatto ci assicura che l'«amore» c'inquieta, che ci tiene in allerta e che è una scommessa — non oserei dire «di civilizzazione», tanto l'espressione è già usata fino ad essere uno slogan politico, ma direi in maniera più barbara «esistenziale » e/o «ontologica» (a meno che non si preferisca «metafisica», questo m'importa poco).
Mettiamo dunque la nostra cura al lavoro: amiamo la nostra stessa inquietudine d'amore riguardo all'amore.
Cerchiamo di avere per l'amore un pensiero slegato, esigente, che ami il suo oggetto e che gli porti tutta la stima di cui è capace: un pensiero amante. Con questo voglio dire: non un pensiero che si lascia captare da tutto ciò che pretendono dirci dell'amore in forma sociologica, psicologica o culturale.
(GEORGE SHEWCHUK / CORBIS)

Corriere della Sera 2.10.08
Archeologia. Waldemar Deonna
Quando il triangolo non è solo un simbolo
di Armando Torno


La Nike di Paionios, conservata al Museo di Olimpia, è il punto di partenza di Waldemar Deonna (1880-1959) per riflettere su una delle figure enigmatiche della storia e cariche di simbologia: il triangolo sacro. Più che un saggio questo libro è una dotta odissea tra iconologie fiorite in tempi e luoghi diversi, legate tra loro da un segno che si ritrova sui frontoni dei templi greci, nell'Italia etrusca e romana, nei culti pagani e anche in quelle culture lontane dal Mediterraneo. Ma esso è presente anche nell'architettura moderna, nell'iconografia vegetale e animale, negli utensili, perfino nelle armi. Marco Bussagli nella prefazione ricorda che le domande di Deonna «sono da antropologo nel senso più ampio del termine».
Pagine dense (metà libro è costituito da note), ricche di intuizioni e di intrecci tra civiltà e tendenze, nelle quali il lettore pensa in un primo momento di perdersi. Ben presto, tuttavia, si accorge di essere coinvolto; in ogni percorso di Deonna c'è materia per stupirsi, come quando l'autore analizza la forma del triangolo e ricorda che questa figura geometrica può essere unica e multipla, che molti simboli si associano ad essa e che le religioni non riescono a liberarsi dalla sua forza. Figura sacra già nel mondo punico, Freud la sessualizza e ricorre ad essa per spiegare i culti contemporanei che passano attraverso la materialità del corpo. Del resto, il triangolo è in noi. O meglio, fa parte dell'anima.
WALDEMAR DEONNA Il triangolo sacro MEDUSA PP. 192, e 18,50

Corriere della Sera 2.10.08
Una raccolta di articoli mette sotto accusa i saggi divulgativi di Montanelli, Pansa e Vespa
Storici e no, guerra sulla memoria
Lotta partigiana, vendette e impunità: la polemica di Sergio Luzzatto
di Aldo Cazzullo


«Gli storici devono fronteggiare una sorta di concorrenza sleale: la concorrenza di giornalisti, o comunque di opinion- makers che il sistema dell'informazione tende ad accreditare come ferrati in materia di storia, e che il pubblico è indotto a riconoscere come tali». Per cui «capita fin troppo spesso che diventino bestseller libri dove la storia è trattata in un modo all'apparenza cordiale, in realtà dilettantesco: autorizzando nei lettori un sentimento di familiarità con il passato che andrebbe considerato, piuttosto, ignoranza aggravata di quel passato». Ed ecco i nomi: «I libri "storici" di Indro Montanelli hanno fondato un genere che continua a prosperare, e a fare danni: per esempio, nella forma dei libri "storici" di Giampaolo Pansa o di Bruno Vespa».
La polemica di Sergio Luzzatto contro «il giampaolopansismo e il brunovespismo della memoria» non è inedita; anzi, percorre tutta la sua raccolta di Interventi sulla storia del Novecento
che Manifestolibri manda oggi in libreria, con il titolo Sangue d'Italia. Però l'invettiva della — inedita — prefazione non è rivolta solo contro fortunati autori; colpisce una figura, quella del giornalista-storico. «Un falso medico che abusi del titolo per esercitare la medicina è passibile di azione legale per millantato credito, e in ogni caso viene additato pubblicamente come un ciarlatano. Perché un falso storico che abusi del titolo per discettare sul passato dovrebbe meritare un trattamento differente? ». Scrive Luzzatto di essere consapevole che «a fare discorsi del genere si rischia di vedersi rimproverato un atteggiamento corporativo, da "ordine professionale" degli storici». Rischi che, aggiunge, vale la pena di correre: «Io credo che gli storici di mestiere devono svolgere un'azione — per così dire — di igiene culturale. Al pari di ogni altro mestiere, quello dello storico presuppone sia la padronanza di alcune tecniche di lavoro, sia il rispetto di una deontologia professionale: senza le quali non si ha storia, ma chiacchiera, e non si ha uso pubblico del passato, ma abuso».
La tesi di Luzzatto è che proprio all'uso della storia nella scena politica e culturale mirino libri il cui successo viene attribuito non tanto al contenuto o al linguaggio quanto al vellicare gli istinti peggiori e la cattiva coscienza della nazione. È qui che la sua polemica appare un po' troppo severa, quando contesta a Pansa non inesattezze ma, in fin dei conti, il successo: «Il libro ripete cose che si sanno. Che sono state dette e ridette, scritte e riscritte, interpretate e reinterpretate — con ben maggiore sottigliezza rispetto a quella di Pansa — da tutti i migliori studiosi della guerra civile e dell'immediato dopoguerra», tra cui sono citati Mirco Dondi, Guido Crainz, Santo Peli, Massimo Storchi. Come se non fosse naturale che una firma del prestigio e della notorietà di Pansa, e una penna del suo livello, abbia una diffusione superiore quando si occupa, magari in modo più fruibile al grande pubblico, di temi magari già affrontati dagli storici. Il vero demerito di Pansa diventa allora, agli occhi di Luzzatto, il suo pubblico, l'«audience giampaolopansista», la stessa che ieri fu di Montanelli e oggi è di Vespa — «un giornalista che pure, in confronto a Pansa, torreggia come un gigante della storiografia » —, vale a dire «il ventre molle di un'Italia anti-antifascista prima ancora che anticomunista.
Un Paese felice di vedere i resistenti messi alla berlina della storia o, peggio, alla ghigliottina della morale. Un Paese felice di scoprire che i propri padri o i propri nonni, che nulla avevano fatto durante la guerra civile, non valevano meno di coloro che si erano vantati di avere liberato la penisola, mentre avevano versato dovunque sangue innocente».
Qui si profila meglio «l'azione di igiene culturale » che Luzzatto rivendica a sé e ai colleghi. Ricordare ai lettori che la storia della guerra civile è fatta anche e soprattutto delle atrocità commesse da nazisti e fascisti — indimenticabili le pagine sugli impiccati di Bassano del Grappa —, e che il dopoguerra è segnato non solo dalle vendette, ma pure dall'impunità: «Chi aveva comandato i plotoni d'esecuzione di Salò venne assolto perché non aveva personalmente imbracciato il fucile. Chi aveva stretto nelle morse i genitali degli antifascisti fu amnistiato perché la tortura non era durata particolarmente a lungo. Chi aveva promosso lo stupro di gruppo delle staffette partigiane venne giudicato colpevole di semplice offesa al pudore femminile», come scrive Luzzatto in riferimento a L'amnistia Togliatti di Mimmo Franzinelli, «un libro che molto più dei volumi di Pansa o di Vespa meriterebbe di andare incontro a un destino da bestseller». La pars construens di Luzzatto convince più della pars destruens pure per questo motivo: lo storico genovese, oltre a pubblicare da Einaudi, interviene sui giornali anche perché scrive benissimo. Dimostrando in prima persona come il rigore non sia incompatibile con lo stile (da qui il grande successo anche editoriale del suo ultimo saggio su padre Pio). Di particolare interesse le pagine in cui Luzzatto lavora sul filone che fin da Il corpo del Duce caratterizza la sua ricerca: la body history, l'importanza del corpo come mito politico nel Novecento italiano. Da rileggere il parallelo tra la fisicità (e il mito) di Mussolini e quella di Carnera. E le riflessioni su Pier Paolo Pasolini, che prendono spunto da una circostanza sinora ignorata, probabilmente dallo stesso scrittore: fu il padre, Carlo Alberto Pasolini, a salvare il Duce dall'attentato del 1926 a Bologna, cui seguono il linciaggio di Anteo Zamboni e le «leggi fascistissime». Tanto più che la stroncatura del giornalista-storico risparmia il grande rivale di Pansa, Giorgio Bocca, autore di testi storici — dalla biografia di Togliatti ai saggi sulla guerra fascista, la guerra partigiana, l'Italia repubblicana — che pure hanno avuto una vasta platea; eppure Bocca non è mai citato. Mentre a Brera, cui è dedicato un articolo di grande acutezza, viene fatto un riconoscimento: «Gianni Brera fu uno storico mancato».
Qui sopra: in alto, Indro Montanelli; in basso Giorgio Bocca. Nella foto a fianco: un gruppo di partigiani dopo la Liberazione