domenica 5 ottobre 2008

l’Unità Roma 5.10.08
Roma raccoglie l’appello antirazzista
C’è la comunità cinese e molti arrivati da altre città. Carla, bolognese, ha sposato Ismala: «Reagiamo al dilagare dell’intolleranza». Jules, africano: stessi diritti stessi doveri
di Greta Filippini


TANTA PIOGGIA eppure sono accorsi in molti al corteo indetto da piccole formazioni politiche e della società civile per dare una risposta alle aggressioni xenofobe

Storie I numeri c’erano: secondo il comitato organizzatore, infatti, si contavano dalle 15 alle 20 mila persone. I colori, pure: quelli della grande bandiera della pace agitata in Piazza della Repubblica, quelli degli striscioni, e quelli della pelle. Gli slogan, anche: «Stop, stop, stop al razzismo!», era il grido che usciva dai megafoni impilati sui camioncini in mezzo al corteo. Così come c’erano la pioggia e il freddo, che non hanno dato tregua ai manifestanti fino a Piazza Venezia. Ma al corteo antirazzista, organizzato nel pomeriggio di ieri da Unicobas, Socialismo rivoluzionario, Partito Umanista e Centro delle Culture, c’erano soprattutto tante, tantissime storie. Luca, da 20 anni in Italia, è cinese come Tong, il 36enne pestato a Tor Bella Monaca da un gruppo di adolescenti. «L’hanno picchiato senza motivo, solo per divertirsi - denuncia intimidito -. Essere qui deve servire a cambiare la mentalità delle giovani generazioni italiane». Jules, distinto 40enne arrivato dall’Africa 20 anni fa, è sceso da Torino «per dire che gli immigrati, in quanto esseri umani, condividono gli stessi diritti e doveri delle altre persone». Accanto a lui, Carla, una giovane donna di Bologna, spinge un passeggino sul quale è appeso un cartello con scritto “Solidarietà e accoglienza per tutti”. Dentro, dorme pacifico il suo bimbo di tre mesi, mulatto. Lo ha avuto con Ismaila, africano da 12 anni in Italia. Hanno voluto essere entrambi a Roma per «reagire ad un razzismo dilagante,sempre più legittimato dall’impunibilità di chi commette violenza». Raccontano che anche Ismala, l’anno scorso, è stato aggredito nella sua macchina da un italiano, infuriato per una manovra giudicata troppo lenta. Hanno sporto denuncia, ma niente. non ci sono testimoni perchè, dice Carla, «la gente ha tirato dritto». Zahirul, invece, è arrivato col pullman da Vicenza. Ha 34 anni, è originario del Bangladesh e lavora alla segnaletica delle autostrade. «Prima avevano bisogno di noi per fare i lavori che gli italiani non fanno più. Ora - domanda - siamo troppi e non serviamo?». Ma, al corteo, non ci sono solo stranieri. Sandro,romano, è del Circolo Gianni Bosio, da 40 anni al lavoro per la diversità delle culture. «Il razzismo- dice - è da sempre una potenzialità latente. Oggi, però, ci sono legittimazione culturale, copertura politica e un oggetto contro cui scatenarsi». Annamaria, invece, è docente al Master “Immigrati e rifugiati” della Sapienza. «Stanno giocando col fuoco - avverte -. Se gli immigrati organizzassero uno sciopero nazionale, forse gli italiani si accorgerebbero di quanto sono importanti per il nostro paese». Tante voci. «Una sola manifestazione per la vita», gridano dal palco allestito accanto al Vittoriano. A denunciare i recenti fatti di razzismo, ci sono gli amici di Abba, il 19enne del Burkina Faso ucciso a Milano. C’è Christopher Schule, un ragazzo liberiano che da cinque anni vive a Castel Volturno nella stessa casa di uno degli immigrati freddati dai Casalesi. Immancabile, infine, la musica. Il corteo si conclude dopo quattro ore a suon di bonghi. Intanto, giù dal palco, c’è ancora la voce per urlare: «Equador, libertà. Algeria, libertà. Eritrea, libertà. Egitto, libertà. Cina, libertà. Burkina Faso, libertà...Italia, libertà!»

Repubblica 5.10.08
In tutta Italia le piazze contro l´intolleranza
Fini: il pericolo razzismo c´è. Veltroni: sarà al centro della nostra manifestazione del 25
di Marina Cavalieri


ROMA - Sanatoria e diritti, tamburi e reggae, slogan contro la camorra e cartelli in inglese sulla solidarietà. Striscioni con i nomi delle vittime. In un sabato «senza confini», poco italiano, ha marciato rumoroso e pacifico il popolo dei diversi, degli stranieri di buona volontà, di quelli che non tollerano più offese e rivendicano il diritto a rimanere, a stare qua, ad esserci.
A Roma, Caserta, Parma e Ancona, ci sono stati cortei contro il razzismo, si sono dati appuntamenti migranti e rifugiati, quelli che hanno conquistato il permesso di soggiorno e chi l´aspetta, ma anche ragazzi italiani, associazioni, rappresentanti delle istituzioni e sindacalisti. A Roma sono circa ventimila, a Caserta diecimila, tra loro anche il sindaco della città Petteruti e quello di Napoli Jervolino, con i gonfaloni e la fascia tricolore. E sono proprio gli immigrati di Castel Volturno ad aprire il corteo romano, sfilano a testa alta, dignitosi anche se vivono in palazzine diroccate, in baracche di lamiera, in luoghi senza nome. «Stop al razzismo, non siete morti invano», recita lo striscione. «La situazione è preoccupante, abbiamo paura, c´è stato un cambiamento di clima», dice uno di loro. Tra la folla ci sono anche i rappresentanti della comunità cinese, molti adolescenti, parlano con accento romano, sono quelli che in città vivono appartati, sempre cauti, qui sono venuti per Tong Hong-Shen, l´operaio cinese di Tor Bella Monaca aggredito senza un motivo, un perché. «È la prima volta che vengo ad una manifestazione», dice una signora in perfetto italiano. «Sono otto anni che vivo a Roma e finora non avevo mai avuto paura». Preoccupazione anche tra i senegalesi, gli amici di Abba venuti da Milano per ricordare il ragazzo morto, preso a sprangate per un pacco di biscotti in una notte di frontiera.
«Sarebbe sbagliato negare che esiste un pericolo razzismo e xenofobia», ammette Gianfranco Fini, presidente della Camera, ma riguardo la denuncia della signora somala maltrattata a Fiumicino, dice che occorre cautela. «Serve una politica chiara sull´immigrazione non si possono aprire le porte a tutti», spiega Fini che ricorda la necessità di costituire un osservatorio alla Camera sul razzismo. Sensibile al rischio razzismo anche Walter Veltroni, il segretario del Pd ha accolto l´appello che gli è stato rivolto da un gruppo d´intellettuali perché questo tema sia al centro della manifestazione del Pd in programma per il 25 ottobre. Politica e razzismo ma anche politica e camorra. «La politica si è indebolita, essa è spinta, non vorrei dire guidata, dal potere camorristico», ha detto severo monsignor Nogaro, vescovo di Caserta, durante il corteo che si è svolto in città. Corteo pacifico e trasversale, come quelli di Parma e Ancona. Nella città delle Marche si sono ritrovati in duemila sotto la pioggia, erano organizzati dalle comunità resistenti e l´Ambasciata dei diritti, al porto hanno appeso cinque manichini a rappresentare le vittime degli sbarchi, in ricordo di quelli che non possono più lottare, che cercando l´Italia sono finiti in fondo al mare.

Repubblica 5.10.08
"Il dittatore s´impose dopo la depressione"
Il tedesco Schaeuble fa il paragone col ‘29 "Un Hitler può tornare"


ROMA - Come nel 1929, l´attuale crisi finanziaria potrebbe aprire la strada ad una nuova, terribile minaccia per l´umanità e la pace mondiale. Il pericolo, paventato dal ministro dell´Interno tedesco, nonché esponente della Cdu (il partito di Angela Merkel) Wolfgang Schaeuble, è di quelli che fanno scorrere i brividi lungo la schiena: d´improvviso un nuovo Adolf Hitler potrebbe spuntare dalle ceneri della finanza mondiale in ginocchio, farsi largo tra le incertezze e il crollo delle economie di molti Paesi. E imporsi.
Mentre a Parigi si svolge il G4 straordinario sulla crisi finanziaria, a Berlino Schaeuble mette in guardia contro le possibili conseguenze politiche e di ordine pubblico dell´attuale situazione. La crisi della finanza mondiale, dice, potrebbe portare a uno sconvolgimento degli equilibri politici, gettando le basi per una «minaccia incredibile, che coinvolgerebbe l´intera società». I mercati hanno già conosciuto la Grande Depressione: adesso bisogna vigilare contro la nascita di un secondo Hitler, che fu una diretta conseguenza del crollo di Wall Street del 1929.
Il ministro non punta il dito contro un Paese specifico, ma fa l´esempio della Germania. «Fin dalla crisi economica mondiale degli anni Venti - dice al settimanale tedesco Der Spiegel - sappiamo che da una crisi economica può nascere una minaccia incredibile per l´intera società». Ecco il parallelo con la crisi del 1929: «I risultati della Depressione? Furono Adolf Hitler e, indirettamente, la seconda guerra mondiale e Auschwitz». Schaeuble, dunque, sembra preoccupato di un possibile ritorno alla dittatura, anche se si limita ad osservare «che nessuno sa, al momento, quanto sarà dura questa crisi». Secondo l´esponente della Cdu, si tratta comunque di una «svolta storica di cui leggeremo sui libri di storia, così com´è già successo per l´11 settembre del 2001».

l’Unità 5.10.08
Napolitano rilancia: allarme razzismo
di Marcella Ciarnelli


UNA STRETTA DI MANO. Più che formale, calda, affettuosa. Un cenno di saluto mentre l’automobile si allontana, come si fa con un amico che è venuto in visita e torna ai suoi gravosi impegni. Il presidente della Repubblica ha salutato così il Pontefice che ritornava in Vaticano al termine della mattinata al Quirinale. E’ stato un incontro segnato dai capricci del tempo, che ha messo a dura prova il cerimoniale, ma anche da un’amicizia e da una sintonia intellettuale che è stata più che evidente nelle fasi pubbliche della visita che, nel chiuso dello studio del Capo dello Stato, è durata trentacinque minuti. Di più del previsto. A ristorare i due anche qualche bibita. Poi la signora Clio, la moglie del Presidente, è stata fatta entrare nello studio per uno scambio informale di saluto con l’ospite venuto a Palazzo. I temi, nazionali e internazionali sul tappeto, sono molteplici. L’Italia e il mondo si stanno misurando con problemi che rischiano di soffocare il futuro di questa e delle prossime generazioni. E gli inquilini dei «due Colli molto vicini» li hanno affrontati in un clima «di rispetto e di collaborazione reciproca» come ha confermato all’inizio del suo discorso il Capo dello Stato che ha dedicato molte delle sue parole all’emergenza razzismo che è anche conseguenza di «una emergenza educativa» che è «fonte di disprezzo e discriminazione razziale che nulla può giustificare», in Italia come in altri Paesi; alla necessità della solidarietà verso chi è costretto ad emigrare per costruirsi un destino migliore e va accolto ed aiutato; ad un oscuramento complessivo di valori fondamentali che è anche alla base degli eventi che hanno investito l’economia internazionale. «Non vediamo forse perfino negli avvenimenti che stanno scuotendo le fondamenta dello sviluppo mondiale i guasti di una corrosiva caduta dell’etica nell’economia e nella politica?». Ed anche al consolidamento della pace contro ogni rischio di ritorno a contrapposizioni fatali che, Napolitano ha voluto ricordare, è uno degli obbiettivi dell’Unione europea.
«Il valore che ci deve guidare tutti -come ci dicono, con Vostra Santità, l’insegnamento e l’impegno della Chiesa - è il rispetto della dignità umana, in tutte le sue forme e in tutti i luoghi. Questo implica più che mai anche la coscienza e la pratica della solidarietà, cui non possono restare estranee - anche dinanzi alle questioni più complesse, come quella delle immigrazioni verso l’Europa - le responsabilità e le scelte dei governi». Napolitano ha così ricordato che «il rispetto della dignità umana si e’ tradotto nella grande conquista del superamento del razzismo» come ebbe a dire recentemente lo stesso Papa in un discorso da Castel Gandolfo. E’ dunque rispetto ai «fenomeni di oscuramento di valori fondamentali, quello della dignità umana, insieme ad altri, che noi sentiamo di trovarci di fronte, come Ella ha detto, ad una emergenza educativa anche nel nostro paese. Superare quell’emergenza è nostra comune responsabilità».
Di fronte ad una sfida di tale portata, l’Italia non è sola. «Davanti ad un tale cimento l’Italia può contare sulla forza del suo monito e su generosi contributi come quello - sempre di più - dei Movimenti laicali ispirati dal suo messaggio». Sul contributo del credente allo sforzo per il bene comune, Napolitano ha fatto riferimento da laico anche a conclusione del suo discorso: «Un’operosa convergenza di sforzi per il bene comune, così concepito, non offusca il alcun modo ’la distinzione’, da Lei richiamata anche a Parigi, «tra il politico e il religioso. Essa conforta la condizione - da tempo affermatasi in Italia - che il senso della laicità dello Stato, quale si coglie anche nel dettato della nostra Costituzione, abbraccia il riconoscimento della dimensione sociale e pubblica del fatto religioso, implica non solo rispetto della ricerca che muove l’universo dei credenti e ciascuno di essi, ma dialogo. Un dialogo fondato sull’esercizio non dogmatico della ragione, sulla sua naturale attitudine ad interrogarsi e ad aprirsi». Quindi un ricordo dell’insegnamento di San Francesco, patrono d’Italia, che viene ricordato proprio nella giornata in cui avviene la visita del Papa al palazzo la cui costruzione fu voluta da un Papa e che divenne luogo dello Stato, un «palazzo che ha conosciuto le ferite della storia». Hanno applaudito le alte cariche dello stato italiano e vaticano presenti nel salone delle Feste del Quirinale. Alle parole del Papa, a quelle del Pontefice. Le diversità tra le forze politiche, che pure ci sono, sembrano almeno per questi momenti essere state superate. C’è lo scambio dei doni. Una mappa del Vaticano a Napolitano, una scatola cesellata per il Pontefice. Poi arriva il momento dei saluti. Viene ammainata la bandiera del Papa che ha sventolato per un’ora e mezzo sul Torrino quirinalizio. Fino alla prossima visita ufficiale i due protagonisti della giornata si parlarenno in privato, ogni volta che ce ne sarà bisogno.

Il capo dello Stato incontra il Papa e chiede più solidarietà e accoglienza
Anche Fini concorda. Veltroni: il 25 il Pd in piazza anche contro la xenofobia
«Nulla può giustificare il disprezzo e la discriminazione razziale»: il presidente Giorgio Napolitano accoglie al Quirinale il Papa e rilancia l’allarme razzismo, usando proprio le parole pronunciate recentemente da Ratzinger. L’escalation di violenze, pestaggi e discriminazioni preoccupa il capo dello Stato che chiede più solidarietà e accoglienza verso gli immigrati. Il pericolo c’è anche per il presidente della Camera Gianfranco Fini, intervenuto a Milano. E il leader del Pd Walter Veltroni, rispondendo all’appello di intellettuali e personalità democratiche, annuncia che al centro della grande manifestazione del 25 ci sarà anche il no alla xenofobia.

l’Unità 5.10.08
«Pd, il 25 ottobre in piazza anche contro il razzismo»
Molte firme all’appello «È ormai emergenza»


«Il 25 ottobre il Pd sarà in piazza anche contro il razzismo». Lo dice Walter Veltroni che ieri ha risposto con parole preoccupate a un appello di intellettuali, politici esponenti religiosi, dopo gli ultimi episodi di intolleranza. Un clima condannato anche dal presidente della Camera Fini, oltreché dal Pontefice e dal presidente della Repubblica nel loro incontro, mentre in diverse città si sono svolte manifestazioni contro il ritorno di sentimenti razzisti e xenofobi.
«Il pesante clima di intolleranza che si sta diffondendo nel Paese impone a tutti una profonda riflessione», dice il leader del Pd, e «contribuire a salvare l’Italia da questo scenario è un dovere di cui il Partito democratico sente in pieno la responsabilità». La possibilità che il tema irrompesse nell’appuntamento del 25 ottobre era già stata evocata da Veltroni nella riunione della direzione del Pd dell’altro giorno, in cui aveva espresso timori per il clima di xenofobia alimentato dalla Destra. La manifestazione resta centrata sui problemi economici delle famiglie italiane, prezzi, salari bassi, crescita zero, ma lo slogan “Salva l’Italia”, aveva detto Veltroni, riguarda anche i valori. Ieri la lettera firmata tra gli altri da Bonomi, Lerner, Ozpetek, Nando Dalla Chiesa, Scialoja, Livia Turco, Moni Ovadia, Amato, Baliani, Marcella Lucidi, Cristina Comencini, Tullia Zevi, Piero Terracina, Vincenzo Vita, Luigina di Liegro e Amara Lakhous, ha funzionato da acceleratore. «Noi - scrivono i firmatari dell’appello a Veltroni - crediamo che questa sia ormai esplicitamente una delle emergenze di questo paese e che per affrontarla serva una iniziativa civile, politica e culturale tanto più forte perché dal governo non arrivano risposte ma spesso sottovalutazioni e silenzi, questo ci spinge a dire che aderiamo alla manifestazione del 25 indicando questo tema della concreta lotta al razzismo e insieme della necessità di serie politiche per l’integrazione come una delle questioni centrali».
Nella risposta il leader del Pd parla «di un’atmosfera cupa e negativa alimentata da una destra populista e demagogica che si è assunta la grave responsabilità di utilizzare e alimentare strumentalmente la paura degli italiani». «Avverto il rischio - continua - di una diffusione a macchia d’olio di rigurgiti razzisti e xenofobi, una prospettiva intollerabile per tutti quelli che hanno a cuore i valori della libertà, dell’uguaglianza e della giustizia sociale. Per questo mi sembra profondamente giusto che la manifestazione nazionale del 25 ottobre sia anche una grande mobilitazione di protesta contro il dilagare di una degenerazione che - conclude Veltroni - tutta l’Italia civile e democratica vuole respingere con tutte le sue forze».
In effetti la risposta all’escalation di aggressioni a sfondo razzista c’è. Anche se fa rumore il silenzio di Berlusconi. Il capo del governo ieri è tornato a parlare di mercati, rassicurando i risparmiatori italiani, ma non ha detto nulla sul tema al centro dell’incontro tra Napolitano e il Pontefice. Indicativa la reazione di Forza Italia alle parole di Veltroni: «Pur di portare qualche persona in più alla manifestazione del 25 ottobre - afferma Gaetano Quagliariello, vicecapogruppo del Pdl al Senato - sarebbe ormai capace di strumentalizzare pure l’acqua calda».
A livello istituzionale ne ha parlato invece il presidente della Camera Fini: «Sarebbe sbagliato negare che esiste un pericolo razzismo e xenofobia», ha detto alla festa della Libertà di Milano. Fini nega che la cultura razzista sia «di destra», ma ribadisce che serve integrazione e rispetto reciproco tra immigrati e italiani e che «bisogna tenere alta la guardia, perché il tema del razzismo, come dice il Pontefice, impegnerà la politica anche per i prossimi anni».
Intanto ieri da Roma a Caserta sono scesi in piazza a migliaia, immigrati e non, contro il razzismo.
A Roma ventimila persone hanno partecipato al corteo organizzato da varie sigle della sinistra. In testa le comunità africane con in mano le foto dei ragazzi trucidati dal clan dei Casalesi, presente una folta delegazione cinese, segnata dal pestaggio di un loro connazionale a Tor Bella Monaca.
«Roma non è mai stata razzista, però qualcosa è cambiato», ha detto Ji Xin dell’Unione degli studenti cinesi. A Caserta 15mila in corteo, manifestazioni analoghe, ad Ancona, Parma e Milano.

l’Unità 5.10.08
I moniti contro la xenofobia sono stati numerosi. «Alcune forze amplificano paure e insicurezza»
La Chiesa e quel dito puntato sulla politica
di Roberto Monteforte


Fronte comune contro l’emergenza razzismo. Chiesa e Stato lavorino insieme alla formazione dei giovani. Trasmettino valori positivi per contrastare la pericolosa ondata xenofoba. Anche di questo si è discusso ieri al Quirinale, durante la visita di «restituzione» di papa Benedetto XVI al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Giustizia nella distribuzione delle risorse e nelle opportunità di sviluppo di fronte al premere delle diseguaglianze e della povertà, al progredire in determinate regioni di condizioni di guerra e di estrema sofferenza e umiliazione. La pace e la cooperazione tra gli Stati e i popoli da consolidare. Il rispetto della dignità umana. È questo il terreno dell’impegno comune tra Stato e Chiesa richiamati ieri dal capo dello Stato. Con una sottolineatura particolare. Fare fronte alle «nuove e preoccupanti manifestazioni di razzismo». Napolitano fa sue le impegnative parole pronunciate da Benedetto XVI all’Angelus a Castel Gandolfo lo scorso 17 agosto: nulla può giustificare «il disprezzo e la discriminazione razziale». E a questo ha legato il tema tanto caro a papa Ratzinger dell’«emergenza educativa», non tanto da considerare come una tutela della scuola cattolica, quanto piuttosto come capacità di trasmettere alle nuove generazioni valori positivi come quello dell’accoglienza, del dialogo, della solidarietà, dell’attenzione all’altro. Terreni di impegno concreto e di battaglia culturale e politica che vede schierata in prima fila la Chiesa cattolica e le tante realtà e movimenti di credenti e non credenti impegnati nel sociale e nel volontariato a favore degli immigrati. Su quest’opera di formazione delle coscienze e di impegno concreto è la più alta carica dello Stato ad esprimere condivisione ed apprezzamento.
È la convergenza per realizzare il «bene comune». Una convergenza che vuole però dire scelte coerenti. È stato eloquente dalle colonne dell’Osservatore Romano don Vittorio Nozza, il direttore generale della Caritas: «Quando la Chiesa predica i valori della dignità, solidarietà, condivisione tra i popoli, di incontro tra le culture e le religioni, non fa battaglie politiche ma precisa i presupposti sui quali la politica deve costruire». Aggiungendo che la politica deve operare «affinché si determinino cambiamenti nell’opinione pubblica imperante. Invece - ha rilevato - è accaduto che la politica intercetti e manipoli gli umori della gente, finendo per amplificare paure e insicurezze». È una critica precisa e tagliente alle scelte del governo Berlusconi. Come ferme sono state quelle dell’arcivescovo Marchetto, segretario del Pontificio Consiglio dei Migranti prima sugli zingari e poi sulla stretta per i richiedenti asilo e sui ricongiungimenti familiari o dello stesso presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco. Ieri il Papa non le ha riproposte nel discorso ufficiale pronunciato nella sala delle Vetrate. Come neanche ha richiamato quei temi «etici» dal forte impatto politico, come la difesa della vita o della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna. Si è limitato a richiamare la difesa della libertà religiosa da intendere anche nella sua dimensione «pubblica». E a rassicurare. «Missione della Chiesa è contribuire all’edificazione di una società fondata sulla verità e libertà, sul rispetto della vita e della dignità umana, sulla giustizia e sulla solidarietà sociale». «Non si propone - aggiunge - mire di potere. Né pretende privilegi o aspira a posizioni di vantaggio economico e sociale». Chiede che i credenti possano fare la loro parte nella costruzione dell’ordine sociale. Per il resto si offre come sponda positiva alla massima istituzione della Repubblica italiana. Tra i due «colli», Quirinale e Vaticano, c’è intesa. Di più: c’è sintonia. La «questione romana» è archiviata da tempo. Se il «laico» Giorgio Napolitano sottolinea l’intesa sui valori con la Chiesa, la Santa Sede e la stessa Chiesa italiana guardano al presidente della Repubblica come al vero custode del bene comune da perseguire. Come al garante di una visione politica che, come sull’immigrazione, va oltre l’emergenza ed è attenta ai valori della persona umana da tutelare.

Repubblica 5.10.08
Scuola, sindacati uniti: sciopero generale
La Cisl: Gelmini cambi il piano o blocchiamo tutto. Ieri migliaia in piazza
di Mario Reggio


ROMA - Lo sciopero generale della scuola è alle porte. Divisi, rissosi, a volte ambigui, i sindacati della scuola hanno ritrovato l´unità e serrano le fila contro la riforma Gelmini. Dopo la scelta della Cgil di fronteggiare da sola il governo, è stato il segretario generale della Cisl Raffaele Bonanni a sciogliere ieri al riserva: senza un tavolo di confronto si va allo sciopero generale. La discesa in campo della Cisl ha messo in moto l´effetto domino: dopo la Uil anche la Gilda e lo Snals si sono schierati per lo sciopero generale e una grande manifestazione a Roma. A dire il vero, i primi a decidere la linea dura sono stati i Cobas che scenderanno in piazza a Roma il 17 ottobre.
E il ministro Mariastella Gelmini? «Mi auguro che la Cisl rifletta e si possa evitare uno sciopero generale che non sarebbe utile al Paese a fronte dei sondaggi che vedono e registrano il parere positivo della maggioranza dei cittadini - afferma il ministro della Pubblica Istruzione - ci sono delle frange che preferiscono la protesta alla proposta».
Il primo segnale poco incoraggiante per il ministro della Pubblica Istruzione è arrivato ieri da Torino: 30 mila, tra studenti, genitori e insegnanti hanno invaso il centro per dire no al maestro unico, al taglio dei 150 mila posti di lavoro e delle ore di insegnamento.
«Grande soddisfazione» è stata espressa dal segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, per la decisione unitaria dei sindacati di categoria della scuola di ricorrere allo sciopero. «Una scelta opportuna» per il leader della Cgil secondo il quale «è molto positivo che si sia trattato di una decisione unitaria. E´ necessario - ha aggiunto Epifani - reagire alla controriforma della scuola proposta dal ministro Gelmini. C´è una grande aspettativa in questo senso come ha dimostrato la manifestazione di Torino».
Cosa succederà nei prossimi giorni? Martedì 7 ottobre approda in aula il decreto Gelmini sul quale il governo ha annunciato la volontà di porre la fiducia. Nella stessa giornata i segretari dei cinque sindacati della scuola s´incontrano per decidere la data dello sciopero. E dovranno superare uno grosso scoglio: i Cobas hanno prenotato lo sciopero nazionale e la manifestazione a Roma per il 17 ottobre. In base alla legge sugli scioperi nel settore pubblico la moratoria nello stesso settore dura dieci giorni. Quindi confederali e autonomi potrebbero puntare sul 31 ottobre. Tutto si gioca sul filo dei lavori parlamentari. Se il decreto passerà alla Camera dovrà poi affrontare l´aula del Senato ma deve diventare legge entro il 2 novembre. Il governo deciderà di ritirare il decreto? La risposta è chiaramente no. E allo allora potrebbe riaffacciarsi l´ipotesi di uno sciopero per il 17 ottobre, ma non assieme ai Cobas, percorsi dei diversi e diversa piattaforma rivendicativa.

l’Unità 5.10.08
Anche la Cisl dice sì, sarà sciopero generale
L’annuncio di Bonanni accolto bene da Epifani: bisogna reagire alla controriforma Gelmini
di Felicia Masocco


LA LINEA Anche la Cisl rompe gli indugi e va allo sciopero generale della scuola contro la riforma del governo. L’annuncio viene dato da Raffaele Bonanni nel corso della manifestazione che il sindacato di via Po ha tenuto ieri a Roma. «La scuola deve essere
di tutti, il governo deve cambiare programma», dice. Nell’ascoltarlo la folla del palazzetto dello Sport si scalda, applaude, sventola le bandiere. «Bravo, bravo», «Era ora», grida qualcuno dagli spalti. Si è visto chiaramente che il popolo cislino vuole la linea dura. Non solo sulla scuola. Infatti poco dopo la scena si ripete. Il segretario generale parla della politica economica del governo, del taglio delle tasse, dei salari e degli investimenti, di quelle politiche anticicliche che non ci sono e dovrebbero esserci. «Non siamo timidi - dice - siamo cauti con questo governo perché cerchiamo l’accordo. Vogliamo un tavolo di confronto e se le nostre richieste non verranno accolte lo sciopero lo faremo noi e varrà due volte perché sarà uno sciopero sindacale, non politico». «Sarà uno sciopero contro il governo Berlusconi». Scatta l’applauso più forte dell’intera mattinata. Ed è una sorpresa che cambia di segno alla giornata di mobilitazione.
Fino ad allora il leader della Cisl si era speso ad attaccare la Cgil e Guglielmo Epifani. Non li nomina, li chiama «cotanti sindacalai», li accusa di «essere andati con i corporativi» nel caso Alitalia. Di «radicalismo sindacale infantile, sterile e pericoloso» sui contratti. «Mesi e mesi di trattative e poi un sacco di bugie per giustificare il loro diniego». Bugiardi, dunque, danno «calcoli sballati». Bonanni si associa a Confindustria nell’accusare Epifani di rimpiangere la scala mobile, «l’abbiamo seppellita - ha dichiarato - ha prodotto un sacco di guasti. E il nostro Ezio Tarantelli ci ha rimesso la vita». Ha elencato le buone ragioni per fare un accordo, ha elencato i passi avanti degli industriali «che vanno incontro alle richieste sindacali». «Per noi è una buona notizia - ha sottolineato Bonanni - spero lo sia anche per i “cotanti sindacalai”. Ma la Cgil dà i numeri pur di portare avanti una tattica di esasperazione per delegittimare la trattativa». Una Cgil «egocentrica», «narcisista». Ma «noi non ci stiamo allo sfascio - conclude -. Ripensateci». Ce n’è anche per il Pd, «non abbiamo bisogno di badanti», dice riferendosi al tentativo di mediazione di Walter Veltroni.
Una pioggia di accuse, toni pesantissimi solo in parte giustificati dall’enfasi del comizio e dalla volontà di andare a toccare le corde dell’orgoglio identitario della Cisl. Avessero voluto, i cinquemila del palazzetto dello Sport lo avrebbero fatto venir giù con gli applausi. Che ci sono stati, ma timidi. Paradossalmente il pieno consenso a Bonanni arriva quando parla degli scioperi per la scuola e contro le scelte del governo, quando cioè gli argomenti coicidono con quelli del «collega» della Cgil.
Anche sul pubblico impiego. Ed è polemica tra il leader della Cisl e il ministro Renato Brunetta. «Vogliamo un tavolo di confronto - è la richiesta di Bonanni - basta con le pagliacciate e i talk show». Ancora: sull’attacco ai dipendenti pubblici «si comincia con l’ottimo professor Ichino e si finisce con il superlativo professor Brunetta». Al ministero della Pubblica amministrazione non la mandano giù. In serata viene diffusa una nota con cui si esprime «sconcerto, disappunto e amarezza» per le parole del segretario della Cisl. «Gli lasciamo la responsabilità delle sue parole - conclude la nota del portavoce - e gli cediamo volentieri il triste monopolio delle offese, delle invettive e della ricerca del facile applauso». «Non scenderemo mai al suo stesso livello». Insomma, si è aperto un altro fronte.
Sulla scuola (e solo sulla scuola), interviene in serata Guglielmo Epifani che lo sciopero lo aveva annunciato una settimana fa. «Una decisione opportuna - commenta -. È molto positivo che si sia trattato di una scelta unitaria. Bisogna reagire alla controriforma del ministro Gelmini. C’è molta aspettativa delle famiglie, degli studenti e dei lavoratori della scuola». Si schiera la Uil, «in assenza di risposte, ci sarà lo sciopero generale», afferma il segretario generale della scuola, Massimo Di Menna. E la Gilda degli insegnanti ha già individuato la data del 31 ottobre.

l’Unità 5.10.08
Citazioni: «Marx resta sempre Marx»


Marx resta sempre Marx, anche se a citarlo è Giulio Tremonti. Si toglie una soddisfazione Massimo D’Alema quando, davanti ai giovani industriali riuniti a Capri, ricorda il discorso di venerdì del ministro dell’Economia che, parlando della crisi dei mercati finanziari, aveva sottolineato il valore dell’etica in economia e la necessità dello Stato.
In più il ministro dell’Economia aveva citato questa bella frase: «Il denaro non produce magicamente denaro...». Ma non è un’idea frutto del brillante ministro, sempre alle prese con mercati e mercatisti. La citazione è del filosofo di Treviri, il pericoloso comunista Carlo Marx.
Così D’Alema ha potuto fare la rivelazione ai giovani imprenditori che, molto probabilmente, sono a digiuno di Marx e anche di molti altri: «Tremonti parla come Marx», ha detto l’ex ministro degli Esteri, dal palco del convegno di Confindustria, discutendo della crisi della finanza internazionale e delle misure per fronteggiarla.
«Sono d’accordo con Tremonti che, in fondo, ha usato una citazione di Marx. Ma il fatto che lo dica Tremonti mi fa piacere perché, anche se in bocca a Tremonti, Marx resta sempre Marx», ha concluso l’ex ministro degli Esteri. Non è la prima volta che D’Alema e Tremonti duellano a distanza, non sarà nemmeno l’ultima.

Repubblica 5.10.08
E D´Alema provoca Tremonti "Sulla ricchezza parli come Marx"
di r.ma.


L´esponente del Pd: Bruxelles più flessibile di fronte alla crisi. Fini: il deficit-Pil non è un tabù

CAPRI - «Carlo Marx sia pure in bocca a Tremonti, resta Carlo Marx». Massimo D´Alema cita il filosofo tedesco più che il ministro italiano dell´Economia per leggere la crisi finanziaria mondiale. Può farlo senza essere accusato di nostalgia - lui ormai maturo ex comunista - proprio perché a precederlo era stato il giorno prima dalla medesima tribuna (quella del convegno dei Giovani industriali di Capri) Giulio Tremonti, teorico dell´anti-mercatismo più che di un neo-comunismo. Già perché il ministro aveva spiegato che «la finanza non produce ricchezza» e che per uscire dal baratro bisogna tornare al valore dell´economia reale, e forse - hanno supposto in molti - anche al valore del lavoro marxianamente inteso. E allora ha avuto gioco facile l´esponente del Pd: «Ho letto sui giornali che ha detto "il denaro non produce magicamente denaro". E´ una citazione di Carlo Marx. E´ un concetto ampiamente sviluppato nell´ultimo libro del Capitale».
Sorride e si prende anche l´applauso, ma non - è evidente - per via di Carlo Marx. Che - si sa - non ha mai sfondato tra gli industriali.
Convergenze allora tra D´Alema e Tremonti? Dialogo? Difficile dirlo davvero perché i due a Capri avrebbero dovuto fronteggiarsi in diretta invece, per via degli impegni del ministro, va in onda una specie di duello in differita. Per esempio Tremonti non aveva nemmeno accennato alla "violabilità" dei vincoli di Maastricht in questa fase di recessione profonda. Perché il Tremonti, che ora cerca la via di una rinnovata economia sociale di mercato, appare rigorista convinto nel difendere il rispetto dei parametri, a cominciare dal 3% del deficit-Pil. D´altra parte lui il patto "stupido" (questa volta per citare Romano Prodi) l´aveva già combattuto. Ma ora è Massimo D´Alema che di fronte alla crisi dice che ci vorrebbe più flessibilità. Dovrebbe proporla Bruxelles «per una politica di riequilibrio sociale». Insomma più risorse, per via fiscale, a chi non arriva alla fine del mese. D´altra parte, ma questo è Gianfranco Fini che parla da Milano, «non si può considerare un totem il rispetto al centesimo del rapporto tra deficit e Pil». Dialogo?

Repubblica 5.10.08
Sul testamento biologico si segua la Costituzione
di Stefano Rodotà


Rischia di avverarsi la facile previsione di chi, nell´"apertura" delle gerarchie ecclesiastiche ad una legge sul testamento biologico, ha subito visto non il riconoscimento di un diritto della persona, ma una mossa volta proprio a limitare quanto è già garantito dal nostro sistema costituzionale. Alla vigilia del dibattito parlamentare su questo tema caldissimo, il segretario della Cei è intervenuto in modo molto determinato, dettando i contenuti della futura legge. Fa il suo mestiere. Ma sarà il Parlamento capace di fare la sua parte, consapevole che l´unica sua guida sono i principi della Costituzione, non i valori proclamati da qualsiasi fede religiosa o ideologia?
Il segretario della Cei ha detto che la vita è "indisponibile"; che non si può riconoscere un diritto all´autodeterminazione perché "questa è una visione che va contro le radici cristiane della nostra cultura"; che vi è "una condizione insicura sul piano giurisprudenziale". Sono argomenti fondati?
Equivoci pericolosi nascono proprio dall´insistenza su formule come "indisponibilità della vita", quando ad essa si voglia attribuire la specifica portata tecnico-giuridica di limitazione del potere di decisione della persona interessata, andando così oltre la forza simbolica che quell´espressione assume quando la si adopera per manifestare legittimamente una convinzione morale o religiosa. Dal punto di vista tecnico, di indisponibilità della vita si parla correttamente solo per escludere la possibilità di disporre della vita altrui. Ma un vincolo alla libertà di decisione della persona interessata non può essere dedotto da nessuna norma costituzionale. Quando si dice che il riconoscimento e la garanzia dei "diritti inviolabili dell´uomo", di cui parla l´articolo 2 della Costituzione, implicano una indisponibilità della vita, si dà una interpretazione del tutto arbitraria di quell´articolo. Esso va letto nel quadro delle norme costituzionali sulla libertà della persona e sulla salute, che mostrano chiaramente come il diritto fondamentale da tutelare sia proprio quello relativo all´autonomia della persona, che comprende anche quello di disporre della propria vita. Lo dimostrano concretamente molti casi. I più eloquenti sono quelli legati proprio al rifiuto delle cure: una donna, rifiutando l´amputazione di una gamba, ha scelto legitimamente di morire; una recentissima sentenza ha ribadito il diritto dei Testimoni di Geova di rifiutare le trasfusioni di sangue, anche se ciò determina la morte.
La posizione della Cei entra clamorosamente in conflitto con questo dato istituzionale, riconosciuto e consolidato. Si possono certo discutere le modalità secondo le quali il rifiuto di cure può essere manifestato in vista di una incapacità futura. Ma non si può cancellare quel dato considerandolo incompatibile con "le radici cristiane della nostra cultura". Sarebbe gravissimo se il Parlamento seguisse questa impostazione. L´unica incompatibilità da tener presente, discutendo una legge, è quella che riguarda norme e principi costituzionali. Guai se alla Costituzione venisse sostituita qualsiasi tavola di valori ad essa esterna.
La "radice" culturale del principio di autodeterminazione è salda e profonda nei principi costituzionali, espressi nitidamente nell´articolo 32. Qui, dopo aver considerato la salute come diritto fondamentale dell´individuo, si stabilisce che a nessuno può essere imposto un trattamento sanitario se non per legge: e tuttavia "in nessun caso" la stessa legge può violare il limite imposto dal "rispetto della persona umana". È, questa, una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, poiché pone al legislatore un limite invalicabile, più incisivo ancora di quello previsto dall´articolo 13 per la libertà personale, per la quale si ammettono limitazioni sulla base della legge e con provvedimento motivato del giudice. Nell´articolo 32 si va oltre. Quando si giunge al nucleo duro dell´esistenza, alla necessità di rispettare la persona umana in quanto tale, siamo di fronte all´indecidibile, nel senso che nessuna volontà esterna, fosse pure quella coralmente espressa da tutti i cittadini o da un Parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell´interessato.
Da questa ricca trama di principi sono partiti i giudici che, affrontando le drammatiche questioni nate dai casi di Eluana Englaro e di Piergiorgio Welby, hanno delineato le modalità di applicazione di quei principi ai casi concreti, come è dovere d´ogni buon giudice. Nessuna invasione delle competenze del legislatore, dunque. All´orizzonte, invece, sta comparendo una prepotenza del legislatore, che vorrebbe espropriare le persone del diritto di governare liberamente la propria esistenza, vivendola dignitosamente fino al momento finale. Qui è il rischio ricordato all´inizio. Una legge che nelle apparenze riconosce il testamento biologico, ma in sostanza gli nega ogni valore vincolante, poiché lo subordina alla valutazione del medico e esclude che possa riguardare l´idratazione e la nutrizione forzata, che non sarebbero terapie rinunciabili. Questa è una ulteriore forzatura, perché sono in molti a riconoscere ad esse proprio il carattere terapeutico, come aveva fatto in Italia una commissione istituita dal ministro Veronesi. Di fronte alla diversità delle opinioni, in materie tanto delicate e difficili, dovrebbe essere buona regola per il legislatore lasciare gli interessati liberi di decidere secondo i propri convincimenti. Certo, la decisione dev´essere libera da ogni forma di condizionamento. Ma questo si fa astenendosi da pretese autoritarie e mettendo a disposizione di ciascuno servizi sociali adeguati, assistenza e terapie antidolore.
La discussione parlamentare sul testamento biologico metterà alla prova il senso dello Stato delle forze politiche e meriterà il massimo di attenzione dell´opinione pubblica. Ma sarà anche rivelatrice di molte ipocrisie. Si rischia d´essere doppiamente crudeli verso i morenti. Appropriandosi della loro libertà e dignità, da una parte. E, dall´altra, negando le risorse per i servizi ad essi destinati, come sta avvenendo, e annunciando la privatizzazione degli ospedali, senza riflettere sul fatto che proprio lì, nelle strutture private, sono stati chiusi reparti per la terapia del dolore perché economicamente non redditizi.

l’Unità 5.10.08
Legge elettorale, Fini apre «a chi sta fuori dal Parlamento»
Il presidente della Camera a 360 gradi in un dibattito a Milano: «Bisogna continuare a tessere il filo con la sinistra»
di Giuseppe Caruso


«Bisogna provare a tessere ancora il filo». Gianfranco Fini non ha rinunciato alla possibilità di avere un dialogo con l’opposizione ed ha voluto ribadire il suo punto di vista anche ieri pomeriggio, durante un confronto con il direttore del Corriere della Sera, Paolo Mieli, durante la festa del Pdl al Lido di Milano.
«In questa fase» ha spiegato il presidente della Camera «il confronto fra maggioranza e opposizione è molto aspro, ma mi auguro che coloro che guardano al di là del momento contingente abbiano la forza e la capacità politica di avviare e di portare a compimento un confronto in Parlamento sulle riforme. Perché non provare a tessere il filo?»
«Per esempio per quanto riguarda la legge elettorale per le elezioni europee» ha continuato Fini «si potrebbe provare a coinvolgere anche chi è rimasto fuori dal parlamento, attraverso dei tavoli sul modello di quelli fatti con i sindacati. Da queste consultazioni potrebbe venire fuori una bozza di progetto che metta tutti d’accordo».
Il presidente della Camera ha poi affrontato la questione della crisi economica internazionale: «Credo che l’Unione Europea si debba porre il problema di rivedere il patto di stabilità, alla luce di quello che sta succedendo nell’economia globalizzata con le decisioni prese anche dagli Stati Uniti. Questo non significa allargare i cordoni della spesa pubblica. I conti bisogna sempre tenerli sotto controllo. Ma l’economia si riattiva anche con i cordoni della spesa pubblica, questo non è un controsenso. La Bce fa benissimo a tenere fermi i tassi, ma fa altrettanto bene nel rispettare al centesimo il rapporto deficit-Pil? Credo che la Comunità europea debba aiutare di più in questo senso i Paesi membri».
Fini ha sottolineato l’importanza del ruolo delle istituzioni e della politica per arginare i danni e le ricadute della crisi sull’economia reale: «In epoca di globalizzazione, se non ci fossero istituzioni nazionali e sovranazionali e quindi la politica, rischieremmo grosso. In questo senso una certa cultura politica, non solo di destra ma anche cattolica, aveva capito meglio di altri. Il problema è la finanziarizzazione dell’economia. Quando c’è la scissione tra capitale e lavoro, quando l’economia è legata unicamente alla finanza il rischio di tonfo c’è. Dalla crisi è emerso poi che il mercato necessita di regole. Va messo in discussione il dogma del mercato libero. Servono regole e le regole deve darle la politica».
Per finire una tirata di orecchie ai deputati, che secondo Fini dovrebbero «lavorare di più e non arrivare il lunedì mattina e tornare a casa il giovedì sera. Se serve si può arrivare fino al sabato, senza problemi. Da questo punto di vista bisogna dare dei buoni esempi agli elettori».

l’Unità Roma 5.10.08
Musica e parole per il Manifesto
Martedì al circolo degli artisti la serata dedicata alla «cara libertà»
di f.f.


L’INCIPIT di una lettera, o di un appello disperato, sembra il titolo scelto da Il Manifesto per la serata di martedì al Circolo degli artisti. Lo storico quotidiano attraversa infatti una profonda crisi, che i tagli ai finanziamenti per l’editoria voluti da Tremonti aggravano pesantemente. "Libertà" è una parola molto bella e densa di significato, che ultimamente è usata da qualcuno a sproposito, a volte addirittura in palese contraddizione con il suo significato. "Cara" è sinonimo di affetto e dedizione, ma anche di costi poiché, in particolar modo nella società capitalista, la libertà ha anche un prezzo economico, che può diventare molto difficile da sostenere. Fra queste contraddizioni sempre più pressanti si muovono i colleghi del quotidiano alle prese con la crisi che minaccia di essere la più grave e pericolosa. Quella indetta per martedì è dunque una serata di mobilitazione, oltre che di riflessione, per salvare una delle ormai sempre più rade, e quindi ancor più indispensabili, voci di dissenso italiano. «Cara Libertà - parole e musica per il Manifesto» chiama a raccolta le coscienze e le persone dalle 18,00 con una prima parte dedicata alla riflessione e al dibattito sulla libertà d’informazione e sulla tutela dei diritti, con Gabriele Polo, Giancarlo Aresta, Valentino Parlato. Fra gli invitati troviamo i nomi di Piero Sansonetti, Concita De Gregorio, Paolo Serventi Longhi, Vincenzo Vita, Giuseppe Giulietti, Paolo Ferrero, Claudio Fava, Stefano Benni, Pierluigi Sullo, Enrico Pugliese, Giovanna Melandri. In serata la solidarietà si farà invece sentire attraverso le parole e la musica di Acustimantico, Nicola Alesini, Ardecore, Assalti Frontali, Baobab International Orchestra, Francesco Bruno, Edoardo De Angelis , Rocco de Rosa, Canio Lo Guercio, Piccola orchestra la Viola, Tetes de Bois e i musicisti del Circolo Gianni Bosio.
Circolo degli artisti via Casilina,42. Ingresso a sottoscrizione

Corriere della Sera 5.10.08
La riflessione del Nobel Paul Nurse mostra come Charles Darwin e John Milton non siano così lontani. Risposta a Emanuele Severino
Evviva Eraclito
La creazione, un'evoluzione continua L'esistenza è un divenire nella libertà
di Giulio Giorello


Eraclito di Efeso (535 a.C. – 475 a.C.), filosofo presocratico, noto per la teoria del «Panta rei», tutto scorre.
Eraclito sostiene che solo il cambiamento sia reale

La Terra «aprendo il suo fertile grembo diede alla luce in un unico parto innumerevoli creature di forma perfetta, mature, complete di membra». Così il racconto del Genesi si dispiega nei versi del Paradiso perduto di John Milton: sembra, a prima vista, antitetico a quel Vangelo di crudeltà che avrebbe potuto scrivere solo «un cappellano del Diavolo», affascinato dalla «oscura e distruttiva opera della Natura» — per riprendere le parole con cui Charles Darwin definiva se stesso in una lettera del 1856 all'amico Joseph Hooker. Tre anni dopo sarebbe stata pubblicata L'origine delle specie, subito divenuta un bestseller, facendo dell'autore — «un certo signor Darwin, nipote del noto filosofo e poeta Erasmus» — la pietra di paragone e di scandalo per teologi e per scienziati dell'austera Inghilterra vittoriana. L'ultimo tocco doveva aggiungerlo L'origine dell'uomo (1871), ove Darwin scrive: «Ognuno di noi, pur con tutte le sue nobili qualità (…), reca nel suo schema corporeo il marchio indelebile della sua bassa origine».
Come Milton, anche Darwin ebbe modo di frequentare il Christ's College di Cambridge. A questi due celeberrimi figli di quell'istituzione ha dedicato nel 2005 un'appassionata lezione il Nobel Paul Nurse ( Two Views of Creation: Milton and Darwin, pubblicata dal Christ's l'anno successivo), ripresa poi in varie conferenze. A me è capitata l'occasione di sentirne una a Oxford nel febbraio scorso. Ora, sostiene Nurse, il contrasto tra «il creazionista» e «l'evoluzionista» tende a diventare meno netto appena si consideri l'ambiguità del poeta, che ha saputo persino celebrare «la volontà indomabile… e il coraggio di non sottomettersi mai» di Satana il ribelle. Il nemico di Dio e del futuro genere umano si insinua nel sistema solare per portarvi scompiglio, simile a quelle macchie che gli astronomi avevano disvelato «nell'orbe lucente del Sole» grazie al loro «cilindro ottico vetrato». Milton alludeva all'osservazione effettuata da Galileo col suo cannocchiale delle «macchie solari» (1613) — che gli aveva consentito di mandare in pezzi il pregiudizio dell'incorruttibilità dei corpi celesti, ormai ridotto a mera consolazione per uomini che hanno troppa paura di riconoscere se stessi corruttibili e mortali. Quando Eva e Adamo cedono alle lusinghe di Satana, celato nelle spire di un serpente, il loro «peccato originale » sconvolge l'intero Universo. I pianeti sono perturbati nelle loro orbite, la Terra conosce le sue catastrofi, nella vita si insinua la morte. Persino le stelle possono venir distrutte, e «su questa macchia di fango» non c'è da stupirsi che gli esseri umani sperimentino la sofferenza e la dissoluzione del corpo. I figli di Eva avranno, però, «la conoscenza proibita»: l'esperienza della sofferenza che intesse tutta la loro storia, ma anche la scienza che modifica inesorabilmente le loro abitudini quotidiane e che consente di scegliere come plasmare la propria esistenze.
Satana è dunque all'origine dei turbamenti, ma anche delle libertà degli esseri umani. Chi è allora il suo vero cappellano? Mettiamo al posto di Satana il marchio della bassa origine di Homo sapiens e ritroviamo il discorso evoluzionistico — da Charles Darwin fino a Daniel Dennett — circa l'emergenza di sentimenti e codici di condotta, della morale e perfino del diritto, di strumenti e teorie scientifiche. A spiegare la stessa «evoluzione della libertà» nel quadro delle differenti culture umane, scrive Nurse, oggi contribuisce da una parte la sintesi che il secolo scorso ha operato tra evoluzionismo darwiniano, genetica e studio della cellula, quest'ultima intesa come «l'elemento più semplice che esibisca le caratteristiche della vita»; dall'altra la sempre più approfondita conoscenza neurofisiologica dell'animale uomo.
Se Milton oggi rinascesse, non credo affatto che bollerebbe tutto questo come deplorevole «riduzionismo»: lui, che nella sua Areopagitica (1644) era insorto in difesa di Galileo, che aveva avuto l'occasione di visitare, ormai vecchio e cieco, costretto a una sorta di domicilio coatto «per aver osato pensare in astronomia diversamente da quel che pretendevano i suoi censori francescani e domenicani». Quel che unisce Milton e Darwin è la comune insofferenza per i pregiudizi ereditati, per le consuetudini ricevute senza prova critica, per ogni forma di costrizione della ricerca intellettuale. Non manca, in entrambi, l'elogio del conflitto tra opinioni rivali, nella scienza come nella politica, poiché — come scriveva Milton — tutto ciò provoca «molta discussione, molti interventi scritti, una pletora di opinioni», e «l'opinione non è altro che la conoscenza nel suo farsi».
Non è un caso che, al di là delle differenze dottrinali di superficie, questo comune sentimento tra l'autore del Paradiso perduto e quello dell'Origine delle specie venga enfatizzato da un personaggio come sir Paul Nurse. Insieme a Leland Hartwell e Tim Hunt, questo biochimico britannico è stato insignito nel 2001 del Nobel per le sue ricerche sugli elementi regolatori del ciclo cellulare che, per così dire, decidono quando è il momento di copiare il Dna controllandone la corretta ripartizione fra le cellule figlie nella mitosi. Non diversamente dal collega Hunt, Nurse ama sottolineare come la ricerca con le cellule staminali embrionali costituisca un'opportunità «contro alcune delle malattie più gravi che colpiscono l'uomo, come quelle neurodegenerative». L'insofferenza nei confronti di vincoli giuridici, ispirati a concezioni arcaiche di cosa conti veramente come «essere umano», non diventa in Nurse facile ottimismo o tracotante scientismo. Di fronte a spietate malattie, non bisogna nutrire speranze eccessive, ma sperimentare a lungo e con pazienza, imparando dai propri errori. Per quanto poi riguarda l'intera impresa scientifica nel suo complesso, Nurse mette in guardia circa estrapolazioni a buon mercato, «specie quando si toccano argomenti così delicati come quello dell'origine», sia essa dell'intelligenza umana, della vita, o magari dell'Universo intero. Lo dice lui, che nelle pagine web ufficiali dei Nobel ha fatto aggiungere nel febbraio scorso che «la sua personale origine» non era quella che aveva fino a quel momento creduto: aveva scoperto che la sua mamma ufficiale era in realtà sua nonna, e che la vera genitrice era una figlia di quella signora, rimasta incinta giovanissima e che per anni lui aveva considerato come «una sorella maggiore».
Anche questo piccolo aneddoto mostra come non si debba aver paura della verità, come non ne avevano Milton o Darwin, l'uno leggendo a suo modo la Bibbia, l'altro il «gran libro della natura». Potrà anche darsi che entrambe le due narrazioni siano espressioni differenti di uno stesso atteggiamento che privilegia il divenire sull'essere (come ha sostenuto Emanuele Severino sul Corriere di venerdì 26 settembre). Quel che mi pare rilevante è che entrambi, l'uno in versi stupendi l'altro in una prosa scientifica che è un modello di chiarezza e indipendenza di giudizio, abbiano saputo esprimere la natura processuale della realtà. Viva, dunque, Eraclito — o, magari, Hegel o Whitehead? Direi di sì, ma con una precisazione. Non c'è Logos che regga o spieghi il divenire, né una Legge che sovrasti ogni cosa; piuttosto, c'è il gioco dell'evoluzione, rispetto al quale la ragione o meglio le ragioni sono prodotti contingenti. È in questa contingenza che si radica la nostra stessa libertà. Dobbiamo averne paura? Dobbiamo rimediare con una logica dell'essere? Credo proprio di no.

Corriere della Sera 5.10.08
Parla l'autore libanese di «Hakawati»: un confronto tra Oriente e Occidente in stile «Mille e una notte»
Multiculturalismo, un'invenzione
Rabih Alameddine: ebrei e palestinesi sono uguali. Per questo si odiano
di Livia Manera


Mi guardo attorno e vedo lo stesso cibo, la stessa musica, le stesse storie

In una casa di Beirut, in una stanza di un appartamento di gente agiata, un nonno armeno arrivato tanti anni prima dalla città turca di Urfa, guarda col nipotino una carta del Medio Oriente e puntando il dito su Hebron, spiega: «Questa ora è la Tomba dei Patriarchi, dove i figli di Sara stanno ancora tentando di scacciare i figli di Agar». E siccome il dito indica la Giudea, il nipote chiede: «Raccontami la storia di Abramo che sacrifica Ismaele sulla montagna». Ma il nonno, che è stato cantore di storie di professione, si rifiuta. «È trita e ritrita» protesta. «Persino noiosa... e zeppa di cliché. Una storia deve incantare». E un libro fatto di mille storie, nell'opinione di Rabih Alameddine, l'autore di Hakawati. Il cantore di storie, che la Bompiani sta per pubblicare nella traduzione di Marina Rotondo e Francesco Nitti, deve incantare almeno altrettante volte. E provocare.
Lo incontro nell'ultimo giorno di Ramadan, ma Rabih Alameddine non digiuna. Beve birra, invece, e mangia noccioline, prima di andare a celebrare l'uscita internazionale del suo romanzo, in una Beirut che si prepara a due giorni di festa facendo esplodere petardi, come se non avesse avuto già abbastanza bombe. Come Osama al-Kharrat, il protagonista del suo romanzo che si chiama così «perché Osama è un bellissimo nome che significa "colui che è destinato ad alti scopi", e non vorrei che d'ora in poi fosse riservato ai cani», Alameddine è druso di nascita e ateo di vocazione. Come lui è libanese ma è anche americano. Solo che a differenza del nonno di Osama, quello di Rabih era un medico che ha fatto nascere re Hussein di Giordania. Ed è per questo che lui è nato ad Amman.
La storia che Alameddine sta raccontando di sé è quella di un ragazzo ansioso di non deludere i genitori, che ha studiato a Los Angeles ingegneria ed economia, ha lavorato in Kuwait, è scappato dopo pochi mesi in Brasile, e ha finito per sistemarsi a San Francisco, dove si è messo a dipingere con successo ma senza convinzione, e finalmente a scrivere: tre romanzi, prima di questo volume di settecentocinquanta pagine che attinge ai miti dell'antichità classica e al folclore mediorientale. Mentre parliamo, mostra un tatuaggio sul polpaccio sinistro: è la traduzione giapponese di Hakawati. «Significa cantastorie », sorride. «"Haki" in libanese vuol dire "conversare". Come dire che in Libano l'atto di conversare e quello di raccontare storie sono la stessa cosa».
Perché improvvisamente il mondo occidentale concentra la sua attenzione su un libro come Hakawati?
In parte perché a scoprirlo è stata Nicole Aragi, la più quotata talent scout dell'universo letterario americano, che prima di Alameddine ha fatto conoscere autori come Nathan Englander, Monica Ali, Junot Diaz e Jonathan Safran Foer (lei stessa, anglo-libanese). Ma soprattutto perché in un mondo che guarda sempre più al Medio Oriente come alla culla del terrorismo e poco altro, un libro come Hakawati è una provocazione ad allargare i propri orizzonti: un romanzo che attingendo all'opera di Ovidio e di Omero, alle Mille e una Notte e al Corano, all'Antico Testamento e ai miti babilonesi, mette a confronto una cultura vastissima e stratificata con la storia del Libano degli ultimi cinquant'anni. La sua vita spensierata, la sua vita dissipata, la guerra dei Sei Giorni e la guerra civile, le bombe, i rapimenti, i concorsi di bellezza e gli assassinii. «Il Libano è un Paese tollerante e allo stesso tempo ingiusto», dice Alameddine senza giri di parole. «È stato capace di accogliere e assimilare gli armeni perché erano cristiani, ma ha discriminato i palestinesi musulmani con la scusa che non erano venuti per restare. È anche un Paese governato da gente che dovrebbe essere in galera per crimini di guerra. Ma la sua salvezza è la sua cultura. E il suo futuro è nell'istruzione ».
Solo che per tenere insieme una cultura così ricca di storie ci vuole una cornice. E la cornice che Alameddine ha scelto per rielaborare le gesta di Fatima e di Abramo, di Isacco e di Ismaele e del principe Beybars, è il ritorno del suo alter ego Osama al-Kharrat nella Beirut del dopo 11 settembre, dopo molti anni passati a Los Angeles. Il padre di Osama sta morendo, e al capezzale la famiglia soffre, scherza, spettegola. Osama ricorda il matrimonio di una sorella impetuosa e la morte di un amabile zio che trova la resistenza palestinese «deliziosamente melodrammatica»; descrive la madre come una donna «che guidava la Jaguar come un guerriero », e la zia Wasila come colei che «era per noi ciò che Israele era per il mondo arabo: l'elemento che affratellava tutti nell'odio». La struttura che usa Alameddine è quella del racconto speculare: in un paragrafo il padre di Osama, ricco venditore d'auto, inizia in un letto d'ospedale la sua discesa nella morte. In quello successivo la schiava Fatima inizia la sua discesa agli inferi alla ricerca della mano che un demone le ha tagliato. Ma sono specchi distorti, quelli che usa Alameddine: mentre il padre soccombe lentamente, la bella schiava trionfa sui jinn, i serpenti e gli scorpioni. In sostanza, è come se questo scrittore torrenziale avesse voluto mettere tutta la sua malizia, il suo senso dell'umorismo e la sua cultura enciclopedica al servizio di ciò di cui è profondamente e polemicamente convinto: che non esiste una società multiculturale in Medio Oriente. «Mi guardo attorno e vedo solo lo stesso popolo», dice. «Con variazioni minime, a volte infinitesimali, delle stesse storie. O delle stesse ricette. Ditemi dov'è la differenza! Uno va a Milano, o a New York, e vede tante razze diverse. Ma questi sono tutti uguali. È uguale il loro cibo, è uguale la loro musica... guardate i palestinesi che hanno dovuto lasciare le proprie case e rifugiarsi in Libano: si comportano esattamente come gli ebrei della diaspora. Per questo si ammazzano: perché sono uguali. La Pepsi non odia la Seven Up, odia la Coca-Cola».
Quell'odio Alameddine lo racconta attraverso la propria confusione e le proprie esperienze prestate a Osama: come quel lunedì di giugno del '67, quando a scuola la preside disse ai bambini di preparare le loro cose in fretta perché i genitori stavano venendo a prenderli. La radio che gridava: «Il perfido nemico ha attaccato il valoroso esercito arabo». Gli amici ebrei che abbandonavano Beirut senza salutare. E il Libano della tolleranza che si trasformava nel Libano della paura.

Corriere della Sera 5.10.08
Antologie «Italics» a Palazzo Grassi
Naufragio pilotato
di Giorgio Cortenova


Già il titolo è allarmante: Italics richiama per insopprimibili assonanze
Titanic, e non è un buon preludio immaginare che, mentre Francesco Bonami strimpella, la nave affonda. Le cose non vanno meglio per quanto riguarda il sottotitolo,
Arte italiana tra tradiz ione e rivoluzione 1968-2008. Chissà che cosa ci si aspetta! Invece no, perché Bonami è rimasto legato a schemi ormai logori e non si è accorto che è meglio essere ciechi ma veggenti come l'antico Omero, invece che vederci male e riciclare vecchie lenti spacciandole per nuove.
E' veggente anche l'arte, quando è autentica; ed è rivoluzionaria sempre, quando si nutre di poesia, emozione, autenticità. Perciò, con la nave, non affonda l'arte italiana, ma l'idea che della stessa si vuole trasmettere, tirata per la giacca a far da «testimonial » a strategie di mercato e di private soddisfazioni italo-francesi.
Bonami ha raccolto oltre 250 opere di 106 artisti italiani. Dice che contano solo le opere. E si stupisce che qualcuno, ad esempio quel «nessuno » di Kounellis, non abbia voluto lasciargli esporre le sue Scarpette d'oro in santa pace: Ulisse e Nessuno sono in realtà la stessa persona e sanno da sempre che a volte l'assenza vale più della presenza.
Ma è piuttosto in relazione all'idea, infantile, e agli artisti presenti che Bonami commette veri e propri disastri critici. Prendiamo Emilio Vedova: il «curator» confessa di avere esposto una sua opera malgrado l'artista — parole sue — non gli vada proprio a garbo, e solo perché la mostra è allestita a Venezia. Si tratta insomma di opportunità geo-politiche, come nel football. Così tutto finisce nel pallone.
La mostra di Bonami è grigia, triste, dimessa. E' inoltre pretestuosa e millanta coraggio senza metterci cuore e ardimento necessari. Contrappone tradizione a rivoluzione, ma non si accorge che spesso la seconda nasce dalla prima e non in rottura con la stessa. Per essere spicci, lo sanno tutti che esiste una tradizione del moderno e si sta già consumando quella del post-moderno. A Palazzo Grassi ci sono opere belle e meno, distribuite nelle sale secondo una logica semplicistica di assonanze-dissonanze, armonie-disarmonie. Il problema è che se la critica è morta, anche i curatori non devono sentirsi molto bene.
Bonami, ad esempio, soffre di vuoti storici. La sua «idea» prende le mosse dal '68, ma indugia nel retroterra degli anni Sessanta, si trascina dietro Schifano e Festa da un lato, Tadini e Adami dall'altro: per lui sono campionature di «tradizione » da contrapporre ai campioni della «rivoluzione », a Zorio, Merz, Penone. Su Agnetti, invece, è calato un ingiusto silenzio. Per non dire della «pittura analitica», che negli anni Sett anta è stata un'esperienza centrale.
Ma dove sta l'anticonformismo, se poi si espongono i lavori di Baj e Rotella, dei maestri «poveristi» targati Celant e di alcuni campioni della scuderia Abo (Paladino escluso, e si sa perché)? Coraggioso sarebbe stato lasciarne a casa qualcuno in più, per fare posto a Turcato, Cremonini, Tornabuoni, Calzolari, per fare solo qualche esempio. Annigoni e Clerici da un lato, e Guttuso dal-l'altro, non sono scelte coraggiose, ma solo uno specchietto per le allodole. Ma è noto che «il coraggio uno non se lo può dare». In realtà Bonami è un curator protetto da buoni protettori. Il resto non è Tuttofuoco, ma tutto fumo. E in questo la mostra è davvero «italiana».
ITALICS Venezia, Palazzo Grassi, sino al 22 marzo. Tel. 041/2401345 Luciano Fabro: «L'Italia d'oro» (1971)

Corriere della Sera Salute 5.10.08
Prostituzione Le motivazioni, secondo il sessuologo
Sesso, quelli che preferiscono pagare
Perché si cercano rapporti mercenari
di Cesare Capone


«Frequentare prostitute equivale alla masturbazione, è un mediocre piacere e una lezione di antisessualità» Parole di Rinaldo Pellegrini, pioniere della sessuologia, un secolo fa

Si accavallano proposte (e multe) per arginare il fenomeno prostituzione, ma l'attenzione, si sposta sugli «acquirenti»...
Secondo il Dipartimento delle pari opportunità della presidenza del Consiglio, sono nove milioni gli italiani che frequentano le settantamila prostitute (più della metà straniere) presenti in Italia. Ma chi sono tutti questi maschi che alimentano il mercato del sesso e che in alcune città (Verona, Roma, Milano, Brescia) già rischiano di pagare multe salate se trovati a «contrattare», misura che per altro si estenderà a tutto il Paese se passerà il disegno di legge della ministra Carfagna? Le indagini più attendibili indicano che, in Italia, i clienti delle prostitute sono soprattutto single; professionisti, imprenditori, impiegati sono le classi sociali che ricorrono più di frequentemente al sesso a pagamento e, dall'adolescenza alla tarda maturità, tutte le classi di età sono ben rappresentate e l'età media si attesta intorno ai 35 anni.
Emmanuele Jannini, docente di sessuologia medica all'università dell'Aquila, che si è occupato in modo particolare della questione, chiarisce: «Nella maggior parte dei casi, il cliente delle prostitute è una persona normale, integrata nella società. Non è una categoria a sé stante, il cliente tipo non esiste perché diversi sono i motivi e i comportamenti dell'uomo nei confronti della donna "che si vende". C'è però un denominatore comune: la prostituzione è una valvola di sfogo molto più genitale che erotica, la comoda scorciatoia che permette di ottenere subito un rapporto sessuale senza complicazioni, senza attese».
La prostituzione, prosegue Jannini, non è sesso senza amore: è scambio di sesso con denaro, una transazione economica che avviene fra due soggetti, la donna che offre il proprio corpo e l'uomo che lo prende in affitto per brevissimo tempo. Una distinzione comunque va fatta fra cliente occasionale e cliente abituale.
Secondo Jannini, bisogna distinguere tra chi occasionalmente si rivolge a una prostituta (per noia, per curiosità, per una scorribanda con amici, per avere una compagnia femminile durante un weekend, un viaggio di affari; per uno stato temporaneo di depressione o di euforia da alcol o da droga) e il cliente abituale.
Chi ricorre a rapporti mercenari in maniera continuativa può rientrare in due sole grandi categorie. Alla prima appartengono adolescenti troppo inesperti per avere successo con coetanee; oppure uomini variamente disabili e anziani. Molto più interessante per lo psicologo è però l'altra categoria: quella di chi frequenta abitualmente le prostitute perché spinto da motivazioni interiori: forte inibizione dinanzi al problema del corteggiamento; desiderio di cambiare continuamente donna, soddisfatto prendendo la via più spiccia; insoddisfazione nel sesso coniugale; solitudine affettiva che induce a frequentare le prostitute per avere compagnia femminile prima che rapporti sessuali. Contrariamente a quanto comunemente si pensa, tra i clienti delle prostitute le persone con perversioni (parafilie) come masochismo, sadismo, feticismo sono scarsamente rappresentate.
Chissà a quale tipo di cliente sarebbero più adatti i corsi di «rieducazione sentimentale » proposti dal Partito democratico romano per tutti gli uomini colti in flagranza di reato sulle strade del sesso a pagamento?

Corriere della Sera Salute 5.10.08
L'infettivologo. L'aumento delle malattie veneree
di R.Cor.


Aumento delle malattie veneree, sifilide in testa.
Ma anche Hiv da ceppi non presenti prima in Italia. Sulle strade, come tra le mura domestiche, le malattie sessualmente trasmissibili viaggiano che è un piacere. Lo conferma Massimo Galli, infettivologo all'università di Milano. I nuovi ceppi di Hiv in prostitute che arrivano da zone dove la diffusione del virus è bassa, però, farebbe pensare a un contagio da parte di clienti dediti magari al turismo sessuale. «Bisogna ripartire dall'educazione dei giovani — sottolinea Galli, che segnala un nuovo fenomeno. «Tra gli omosessuali — dice — si sta affacciando una leva molto meno attenta rispetto al passato. Spesso nei rapporti con uomini più anziani non si usa il preservativo per un equivoco: il giovane pensa che l'altro non lo chieda perché sano. L'anziano malato giustifica se stesso, pensando che il giovane, comunque, sia infetto».

Repubblica Genova 5.10.08
Lo psichiatra Romolo Rossi e la legge Basaglia: "Più attenzione e meno ipocrisia"
"Non disagio, la mente è malata ma la violenza si può curare"
di Wanda Valli


Il messaggio di Basaglia è stato inteso molto male, cambiare i manicomi, trasformarli, non equivaleva a dire che i matti non esistessero più. Lo scopo della legge 180 era un altro
Bisogna avere il coraggio di affrontare cose del mondo che sono evidenti, che non si possono negare, e, quindi, rifiutare Che vada bene o no, il mondo è così

La malattia della mente che porta a uccidere, che si scatena contro chi, inconsapevole, scatena nell´altro paure, dà forza ai suoi demoni silenti solo grazie ai farmaci, alle cure. E´ successo pochi giorni fa a un sottufficiale di polizia. Era stato chiamato dai vigili urbani per effettuare un ricovero coatto, consentito dalla legge: quel malato l´ha colpito con una coltellata. Una sola, fatale. E, venerdì notte, un uomo è morto bruciato nella casa in cui viveva con il compagno, che si auto accusa, poi racconta storie tutte da verificare. Entrambi erano in cura presso i servizi di igiene mentale. Così torna la paura, torna il dibattito sulla legge 180, la legge Basaglia - Orsini, che ha tolto l´orrore delle cure in manicomi - lager, ha ridato al malato la dignità di persona. I matti non esistono, è stata una delle semplificazioni del messaggio di Basaglia. Romolo Rossi, psichiatra e psicoanalista, ragiona con "Repubblica" sulle paure e sulla legge, spiega che la malattia mentale esiste eccome, che chiamarla "disagio" è un´ipocrisia, chiarisce dove e perché Franco Basaglia e Bruno Orsini, psichiatra genovese che quella legge l´ha materialmente scritta, sono stati fraintesi.
Professor Rossi, i "matti", per usare un termine non politicamente corretto, esistono o no?
«La malattia mentale c´è, eccome, non è un disagio, chiamarla così è un´ipocrisia. Io posso provare disagio in determinate situazioni, la malattia della mente è altro, è un qualcosa che si sviluppa in tre dimensioni. La prima biologica, la seconda psicologica, la terza sociologica».
Il professor Basaglia, con la legge 180, diceva, in sostanza, che i matti non esistono se non per la società che vuole eliminare un problema, creando una categoria, e chiudendola nei manicomi. Ha ancora ragione?
«Il messaggio di Basaglia, nella considerazione generale, è stato molto male inteso. Cambiare i manicomi, trasformarli, non equivaleva a dire che i matti non esistono, ma solo che certe situazioni accentuano questa malattia. Lo scopo della legge 180 era un altro».
Quale, professor Rossi?
«Bisognava dare alla malattia mentale la dignità di ogni altra, inserirla nei problemi di salute che capitano a noi individui».
I casi recenti, il poliziotto ucciso, l´uomo morto carbonizzato, fanno pensare, però, a un male di vivere che resta così, che non si può guarire.
«Sostenere che una malattia mentale non guarisca mai non è corretto. Come in tutte le altre specialità della medicina, alcune forme possono guarire, altre vanno tenute sotto controllo sempre e per sempre, come capita per il diabete, o per l´anemia mediterranea».
Facciamo un esempio: può migliorare un oligofrenico, chi nasce con il cervello compromesso?
«Esistono diverse forme di malattia psichica, un oligofrenico ha una danno costituzionale, genetico, ma si può aiutare, cercare di farlo vivere bene, tra l´altro è uno dei malati più tranquilli».
I manicomi sono stati chiusi, ma negli ospedali psichiatrici sopravvivono piccoli reparti per i malati violenti, pericolosi a se stesi e agli altri.
«In genere una persona con problemi psichici diventa violenta a seconda del modo in cui viene trattata. Esistono sempre cure».
La legge prevede che un malato di mente si possa ricoverare solo se lo vuole, se firma. Accade raramente e, spesso, sono drammi per le famiglie che li accudiscono. Come si può intervenire?
«Esiste il Tso, il trattamento sanitario obbligatorio, si può prolungare per sette giorni, così stabilisce la legge. Del resto, e torniamo al perché è nata la 180, il principio ispiratore generale era favorire il reinserimento dei malati nel contesto anche familiare».
Professor Rossi, tragedia come quelle accadute la scorsa notte o la settimana scorsa, dovute al male della mente, si possono evitare?
«In una certa misura, con un sistema complesso di cure e sorveglianza. In altri casi, invece, no. Sono i più pericolosi, perché nessuno li conosce, toccano persone chiuse nel loro male, che non comunicano fra loro».
In questi casi, dunque, anche la medicina si arrende?
«Bisogna avere il coraggio di affrontare cose del mondo che sono evidenti, che non si possono negare, e, quindi, rifiutare. Che vada bene o no, il mondo è così».

l'Unità 5.10.08
Marcegaglia e le altre
di Furio Colombo


Marcegaglia, la signora che presiede l’Associazione degli industriali italiani, è una dirigente inflessibile. Fra poche ore potrebbe crollare la finanza del mondo ma lei non si distrae, tiene lo sguardo fisso sul punto «nuovo modo di rinnovare i contratti da lavoro in Italia per sbloccare lo sviluppo del Paese». La missione sembra piccola rispetto agli enormi problemi del momento. In realtà, così come lo vuole con perizia strategica il grosso dei suoi associati, porta l’Italia a fare, sia pure con deplorevole ritardo, ciò che è avvenuto in America ai tempi di Reagan: isolare il lavoro dipendente, umiliare i sindacati con il progetto di accantonarli, o di cooptarli con la strategia del «merito», della «produttività», della «competitività».
Ma in tutti questi bei progetti chi lavora con rischio e fatica, non c’entra niente, non può farci niente. Niente di tutto ciò dipende dai singoli lavoratori o da tutta la mano d’opera di un impresa. Però le tre parole, nate e poi risuscitate in America dalla celebre «scuola di Chicago» (il grande consigliere economico di Pinochet) e cresciute col reaganismo, suonano «moderne», fanno strage di consensi anche a sinistra (quante tesine vi hanno dedicato i giovani rampanti del Pd) e sono diventate luoghi comuni sia del liberismo che del riformismo in cerca di buona reputazione.
Ho letto della appassionata difesa del lavoro da parte di Epifani, il più competente e il meno populista, dunque il più moderno leader sindacale, in Italia, oggi (l’Unità, 3 ottobre). Infatti non subisce il fascino di parole vuote per il lavoro, che in America hanno portato all’iperfinanziarizzazione delle aziende e al crollo che adesso lascia tutti col cuore in gola. Tutti, salvo Marcegaglia e Berlusconi.
Berlusconi ha di fronte la montagna sconosciuta di detriti finanziari del mondo, non si sa quanti salvabili e quanti marci, non si sa quanti italiani e quanto importanti o, al contrario, quanti di questi debiti inesigibili siano, con discrezione non notata, diventati italiani e quanta Lehman Brothers ci sia nella filiale sotto casa, dove il direttore simpatico e rampante accostava il risparmiatore col gruzzoletto per fare proposte «interessanti». Berlusconi punta il dito come faceva a Napoli di fronte alla spazzatura e proclama: «tranquilli, ci penso io». Fa credere che anche per i prodotti tossici della finanza ci sarà un Castel Volturno, con i suoi italiani disperati e con i suoi immigrati disperati, disposti a lasciarsi portare in casa quest’altra spazzatura da nascondere.
Quanto alla Marcegaglia, donna giovane e non incolta, ci aspettavamo un soprassalto. Ovvero, per la prima volta in Confindustria, poteva accadere che finalmente qualcuno, magari perché donna, venisse avanti con le due cose che non sono state mai fatte: dire che cosa l’associazione degli imprenditori può fare per il Paese, invece di chiedere continuamente al Paese che cosa può fare, anzi deve fare per gli imprenditori.
E capire e dire ai propri consociati che la vecchia sceneggiata, comunisti cattivi contro liberisti buoni, Peppone contro Don Camillo è davvero finita, che l’incubo della finanziarizzazione tossica riporta attenzione e prestigio intorno all’impresa. Quell’incubo dice che - invece che mettersi in mano alle banche - è meglio lavorare, produrre, esportare. Ma per farlo ci vuole ricerca (qualcosa che nessuno fa e nessuno promette di fare in Italia) e un idea del tempo e del mondo. E ci vogliono lavoratori, ma non come fannulloni da rimettere al loro posto di ubbidienti subordinati che costano sempre troppo.
Chi «fa impresa» come si dice ai convegni di Confindustria con un tono ispirato, quasi religioso, come se si trattasse di prendere i voti, chi «fa impresa» sa che l’impresa è fatta di buon lavoro. Sa anche che il buon lavoro comincia come e dove l’azienda si identifica, quando si esprime con i suoi leader, nel modo in cui sa scegliere i suoi dirigenti. E sa che non è il conteggio dei minuti per andare in bagno dei dipendenti che assicura il buon lavoro ma un clima di lealtà reciproca che tiene conto del resto del mondo: quanto costa il lavoro a me imprenditore; quanto costa un minimo di dignità della vita a te che lavori.
Questa strada c’era, ed era modernissima, ai tempi di Adriano Olivetti in Italia, nelle imprese di David Rockefeller in America, dove ogni persona era una persona dall’inizio del lavoro fino ai livelli manageriali. Adesso, in questa Italia in ritardo, prevale il modello Thatcher-Reagan che era già vecchio e fallito, quando è stato riesumato dal prima della Depressione del 1929 e che, infatti, ci sta portando a un’altra depressione: distanza, diffidenza, delusione, sospetto, solitudine, tutte condizioni pessime per costruire il futuro del lavoro e dunque delle imprese.
Marcegaglia sta dicendo che preferisce che i lavoratori si presentino ad uno ad uno, per fare contratti legati al merito, alla produttività, cui segue l’eterna invocazione «per tornare a essere competitivi». Ma perché fingere di non sapere che la competitività d’impresa dipende dall’impresa, perché dipende dalla guida, dal realismo ma anche dalla visione; che la produttività è il compito e il capolavoro del manager, perché è il frutto della buona organizzazione; che il merito si misura soltanto dove si vede, ovvero se chi lavora è messo nelle condizioni psicologicamente sicure e fisicamente protette in cui può dare e mostrare (mostrare a chi? si potrebbe chiedere oggi) il meglio delle proprie capacità. Qualcuno vuole il meglio da un precario, oppure soltanto un tot di ore e un tot intercambiabile di fatica?
Ho fatto parte della vita aziendale del tipo rappresentato dalla Marcegaglia. E so che l’imprenditore si presenta a qualunque tavolo scortato da buoni avvocati, esperti fiscalisti, e dai più abili esecutori di tagli sui salari, di solito camuffati con il gentile titolo di responsabili delle risorse umane.
Il lavoratore invece - ci dice la Marcegaglia - deve presentarsi da solo e togliere di mezzo i sindacati. Che mercato è? Un simile squilibrio non ha mai generato civiltà. Questo sta dicendo Epifani. Quando insiste e tiene duro, non boicotta l’impresa. Propone il lavoro dignitoso, psicologicamente alla pari, che è parte essenziale dell’impresa.
***
Ma ecco che arriva sulla scena l’altra nuova dirigente di Confindustria, Federica Guidi, figlia di, Presidente dei Giovani imprenditori. Lei ha una visione del mondo. Ma lo vede da una prospettiva retrò in cui però invoca il retrò come futuro. Strano per una donna giovane, passata per buone scuole. Ma ecco quello che ha da dire, mentre i giovani industriali, tutti figli di anziani e robusti imprenditori della precedente generazione, si preparano, come i loro papà, a far festa al governo, a Berlusconi, a Tremonti, nel loro convegno di Capri. «Qui c’è qualcuno che continua a guardare al vecchio, che resta ancorato a schemi ormai passati, che nemmeno adesso, nel mezzo del crac finanziario che sta mettendo a dura prova il mondo, si rende conto di come quegli schemi siano del tutto inadeguati ad affrontare cambiamenti rapidissimi e a volte drammatici». (Corriere della Sera, 2 ottobre).
Santo cielo, ma davvero Federica Guidi pensa che Lehman Brothers, la banca che lo scorso Natale aveva pagato ai suoi top manager “bonus” (premi individuali) tra i cento e i duecento milioni di dollari, sia inciampata e caduta e scomparsa a causa della irresponsabile resistenza del sindacato dei fattorini e dei ragazzi che distribuiscono la posta ai piani bassi dell’azienda?
Non le ha raccontato nessuno che, nel Paese di Reagan e dei due Bush, una volta spezzato, troncato e poi gradatamente escluso da ogni partecipazione il sindacato, una volta reso il lavoro e anche la manodopera più specializzata una variabile di mercato di ultimo livello, un po' sotto la scelta e l’acquisto del materiale da ufficio, moltissime aziende si sono trasformate, come New Orleans, in avamposti abbandonati a raid, accorpamenti, merger, svendite delle divisioni più remunerative e preziose, perdita deliberata di personale specializzato, mentre calava l’originalità e desiderabilità dei prodotti, diminuivano le esportazioni e dalle finestre senza vetri dei piani alti passava il vento di uragani finanziari che si sta portando via l’intero management americano di generali senza esercito?
Dice ancora al Corriere la Guidi: «Persino in momenti di crescita l’Italia rimane ferma al palo». Quando, dove, quale azienda è stata bloccata dagli operai (che in Italia muoiono anche in tre al giorno, mentre lavorano, lavorano, lavorano di giorno e di notte)? Quando nell’Italia della Thyssen-Krupp (al processo i sindacati sono stati autorizzati dal giudice a costituirsi parte civile)? Quando, in questo Paese, prima di questa crisi mondiale che non ha niente di sindacale, un’azienda è rimasta al palo per colpa dei lavoratori, invece che per la responsabilità di un pessimo management?
Possibile che la giovane Guidi, Presidente dei Giovani imprenditori, non si sia accorta di suo, o non sia stata avvertita dai colleghi che stanno appena arrivando, come lei, a sostituire i padri (c’è da essere orgogliosi: sono tutti al convegno di Capri invece che al “Billionaire“) che la Fiat ha avuto una buona ripresa, che ha fatto notizia nel mondo, non per avere finalmente umiliato il lavoro, ma per avere ritrovato un management adeguato, nuovi progetti, nuovi modelli, nuovi modi di vendere?
Prendiamone atto al momento di riflettere sulle relazioni industriali: non è stata la «forte spinta» invocata dalla giovane Guidi (parola codice che significa mano dura sul sindacato) a far tornare in prima fila la Fiat. E’ stato il buon lavoro organizzato bene. Non c’è niente di più moderno che riconoscerlo. Non c’è niente di più vecchio che dare la colpa ai soldati, come facevano, ad ogni sconfitta i generali sabaudi, nella Prima Guerra mondiale.
Quasi nelle stesse ore si fa avanti Barbara Berlusconi, neolaureanda in filosofia, giovanissimo membro del consiglio di amministrazione di Fininvest. Partecipa, insieme alla madre Veronica, a un convegno sull’etica dell’impresa organizzato dai ragazzi di «Milano young», figli che esistono in nome del padre, come sempre in Italia e quasi solo in Italia. Dice Barbara Berlusconi che «Fininvest ha una struttura etica», ed è bello sentirglielo dire di una azienda fondata da e con Marcello Dell’Utri. Dice di avere imparato dal padre «il rispetto per gli altri e l’importanza di non ledere la libertà altrui». Non è il primo caso di padri affettuosi che in casa dicono una cosa e fuori gli scappa di dire che i giudici del proprio Paese o sono mentecatti o sono un cancro, e, in ogni caso, «dovranno presentarsi col cappello in mano». Sarebbe ingiusto giudicare gli affetti. Ma di nuovo si vede che cosa questi padri non hanno insegnato ai figli, persino i padri migliori di Berlusconi. Non gli hanno insegnato che un’azienda non è solo proprietà e dirigenti, altrimenti, sei i piani alti continuano a dare “bonus” a se stessi e a guardare giù con l’irritazione di Federica Guidi, ogni impresa sarà Lehman Brothers. Spiacerà a tutte queste signore, ma ha ragione Epifani: un’impresa è il lavoro.
furiocolombo@unita.it

sabato 4 ottobre 2008

l’Unità 4.10.08
La politica dell’odio
di Luigi Manconi


Tutti lì, nel centrodestra, ad affannarsi e ad arrabattarsi per spiegare che «no, non si tratta di razzismo», che «l’Italia non è un Paese razzista» e che, infine, non si deve definire come intolleranza etnica quello che è nient’altro che un episodio sgradevole (o, nel caso peggiore, criminale). Sullo sfondo, sottile, sottilissima, eppure tanto insidiosa da rischiare di penetrare nel senso comune, una interpretazione che, comunque la si voglia imbellettare, suona così: alla fin fine, se la sono cercata. Attenzione: se considerate puntualmente quest’ultima affermazione, al di là della sua formulazione triviale, vi accorgerete che essa sorregge le impalcature teoriche, proposte come complesse e responsabili, di gran parte delle politiche anti-immigrazione.
Queste ultime, ma anche le manifestazioni di intolleranza e di aggressività nelle relazioni tra italiani e stranieri, vengono fatte risalire pressoché esclusivamente a una causa: il numero eccessivo di immigrati presenti nel territorio nazionale. La riduzione di tale numero, comunque ottenuta, dovrebbe determinare l’effetto di contenere la xenofobia e le sue manifestazioni violente. Insomma, basta espellerne e respingerne tanti e ci sarà meno casino (e più decoro urbano, che non guasta mai). In una mossa sola, oplà, la vittima diventa responsabile della propria vittimizzazione: chi è causa del suo mal pianga se stesso. (Così come se tu, invece di voler fare a tutti i costi il proletario in un cantiere edile, avessi ascoltato i consigli di papà e operassi in Borsa: oggi non correresti il rischio di precipitare da un ponteggio oscillante nel vuoto).
Ripeto: non si tratta solo della reazione superficiale e, tutto sommato, difensiva e istintiva di un soggetto debole cui è stata “imposta” la fatica di una convivenza non prevista e non voluta con altri soggetti deboli, che vengono vissuti come totalmente estranei e potenzialmente, nemici. Quella stessa lettura alimenta molta pubblicistica e gran parte del discorso pubblico del ceto di governo. Unitamente a questo, c’è quell’accalorato agitarsi per negare che «l’Italia sia un Paese razzista». Ma chi mai l’ha detto? O meglio: quale scemo potrebbe mai dirlo? Affermare che un paese o una collettività nazionale siano “razzisti”, equivale propriamente ad adottare il medesimo paradigma razzista, fondato appunto sull’attribuzione a una comunità dei connotati o dei misfatti di un singolo componente (o di più componenti) di quella medesima comunità. Dunque, il problema è palesemente un altro. Ed è quello di riconoscere che, in una società complicata ed inquieta come la nostra, non è “il razzismo” (categoria che rischia l’astrattezza) che va enfatizzato, ma è la diffusione crescente di “atti di razzismo” che va considerata come una minaccia e risolutamente contrastata.
Il fatto che il centrodestra neghi questa evidenza o voglia attribuirle un segno neutrale («sono semplici atti di teppismo») è due volte inquietante. In primo luogo, perché rivela una vera e propria procedura di rimozione (in senso squisitamente psicanalitico), che conferma l’incapacità di riflettere sul problema e, in particolare, su come quel problema riguardi il “cuore profondo” del centrodestra stesso. In altre parole, spaventato dall’idea di scoprire in sé pulsioni inequivocabilmente razziste, il centrodestra nega quelle pulsioni censurandole, indirizzandole altrove, mutando il loro nome. Insomma, come ha ricordato opportunamente Gad Lerner nel corso della trasmissione televisiva Anno Zero, se in campagna elettorale esponenti politici urlano: cacceremo i clandestini a calci nel culo, è irresponsabile pensare che non si producano effetti pesanti sugli orientamenti individuali e collettivi. La rimozione del razzismo come problema esalta l’aggressività latente, rende patologici i sentimenti di frustrazione e la volontà di rivalsa, indirizza contro il capro espiatorio più a portata di mano la condizione diffusa di stress e di ansia. Quelli del centrodestra più fieri di aver frequentato il liceo classico ricordano, con modi petulanti, che xenofobia non significa odio razziale, bensì paura dello straniero. Ma è proprio qui il punto. Quella paura (motivata, immotivata o solo parzialmente motivata) si manifesta come umore e come sentimento: dopo di che la si può blandire o razionalizzare, galvanizzare o mediare, indirizzare politicamente o contenere intelligentemente.
In Italia, una parte significativa del ceto di governo (della Lega, di An, di Forza Italia) ha deciso di farsi “imprenditore politico” di quella paura. Ovvero di trattarla politicamente, di trasferirla nella sfera pubblico-istituzionale, di scagliarla contro gli avversari. E qui arriviamo alla seconda ragione di inquietudine.
Considerate quei disgraziati che hanno aggredito il cittadino cinese a Tor Bella Monaca. Si tratta di minorenni alcuni dei quali già responsabili di episodi analoghi. Li si deve giudicare e punire secondo quanto previsto dalla legge. Ma il farlo (si spera con tempestività) non deve impedirci di provare a “capirli”. Capirli non significa essere indulgenti: significa, piuttosto, indagare le cause che hanno indotto degli adolescenti a trasformarsi in criminali. Tra tali cause c’è quel fattore incentivante di cui già si è detto: se un leader politico o una leader politica urlano nei comizi cacceremo i clandestini a calci nel culo, perché mai, in presenza di determinate condizioni sociali e culturali, un adolescente frustrato e smarrito non dovrebbe passare a vie di fatto? O forse ci si aspetta che, prima di sferrare quei calci “nel culo” chieda alla sua vittima se è regolare o irregolare, se è titolare o meno di permesso di soggiorno, se è un rifugiato politico o un “clandestino”?
Qui si pone un problema di linguaggio: e di linguaggio del discorso pubblico. Il termine “clandestino” è diventato merce corrente anche nel dibattito della sinistra, ed è un termine due volte sbagliato. In primo luogo, perché è improprio sotto il profilo giuridico: chi viola le norme su ingresso e permanenza nel territorio italiano commette un illecito amministrativo - una infrazione - e diventa irregolare; poi, perché quel termine è fortemente e cupamente denotativo, richiamando una dimensione di illegalità e di tendenziale criminalità, che risponde al vero solo per una quota minoritaria di stranieri irregolari. Più in generale, quello del linguaggio è un vero campo di battaglia tra discriminazione e integrazione, tra rifiuto e accoglienza. Si pensi a quando Antonio Di Pietro, nel dirsi favorevole alla classificazione dell’immigrazione irregolare come fattispecie penale, spiegò che in caso contrario «l’Italia sarebbe diventata il vespasiano d’Europa». Non siamo in presenza solo di una irresponsabile volgarità, che la dice lunga sulla moralità del difensore della morale: si tratta di una formula propriamente razzistica nel suo assimilare gli immigrati agli escrementi. Ma assai più grave, evidentemente, è l’uso costante e massiccio di quel linguaggio da parte del centrodestra: e patetico il suo tentativo di scindere completamente quel vocabolario razzistico dagli effetti sociali che contribuisce a determinare. Tanto più che - ma qui non posso soffermarmi - alle parole si accompagnano i fatti: decreti legge e delibere che configurano qualcosa di molto simile alla “produzione di razzismo per via istituzionale” (basti pensare a quell’aggravante costituita dalla condizione di irregolarità, che discrimina tra “i cittadini di fronte alla legge” e penalizza non una azione, ma una condizione). Infine, va ricordato che nel corso degli ultimi dodici mesi è avvenuto qualcosa di terribile e tragico: oggi è possibile, in spazi pubblici e in sedi di partito, urlare l’equazione romeni uguale stupratori. È accaduto quasi senza che ce ne accorgessimo, ma la diffusione di quell’infame equiparazione corrisponde a una crisi dei fondamenti culturali di una società democratica e di uno stato di diritto. Certo, i minorenni di Tor Bella Monaca vanno puniti, ma il conto non dovrà esser chiesto loro, se non per quanto di stretta pertinenza e responsabilità. I “mandanti” sono altri e stanno altrove.

l’Unità 4.10.08
Tong, Emmanuel, Abdul
In Italia è emergenza razzismo
di Giovanni Maria Bellu


«Con ogni probabilità» oggi al Quirinale il presidente della Repubblica italiana e il papa parleranno del razzismo. Non è un’indiscrezione. L’ha detto ieri, nel presentare l’incontro, il consigliere diplomatico di Napolitano. Che ha aggiunto: «Si tratta di un argomento di estrema attualità che riguarda non solo l’Italia ma tutto il mondo».
È la settima volta nella storia della Repubblica che un papa si reca al Quirinale. Il primo fu Giovanni XXIII, nel 1962, quando il presidente era Antonio Segni. In questi 46 anni si sono succeduti quattro papi e sette capi di Stato e gli incontri si sono ripetuti con solenne regolarità mentre la storia andava avanti. Quarantasei anni: dall’Italia del boom e della guerra fredda alla fine del secondo millennio, a oggi. Ma non era mai accaduto che il razzismo - il razzismo «non solo in Italia» e dunque «anche in Italia» - fosse indicato tra i temi del colloquio.
Chiunque abbia seguito le cronache degli ultimi mesi non ne resterà stupito: gli episodi di violenza a sfondo razzista si ripetono con una tale regolarità da essere diventati una rubrica fissa nei quotidiani e nelle tv. Normale, dunque, che ne parlino il capo dello Stato e il papa, cioè il garante dei valori costituzionali («La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo») e il custode di quelli cristiani. («Ama il prossimo tuo come te stesso»). Del resto, come ha sottolineato il consigliere di Napolitano, «si tratta di un tema di estrema attualità».
Il fatto è che questo assunto è meno ovvio di quanto appaia. Che in Italia esista un «allarme razzismo» è sistematicamente negato dal centrodestra e dai suoi giornali. Lo schema è elementare: si separa il singolo episodio dal contesto, si individua, quando è possibile, una qualunque causale diversa e, infine, si afferma che certamente la sinistra strumentalizzerà la vicenda. Si potrebbe scrivere un’antologia su questa nuova forma di negazionismo.
Ieri, sul quotidiano Libero, è apparso un articolo sul pestaggio del ghanese Emmanuel Bondu Foster ad opera dei vigili di Parma. L’evidenza dei fatti ha obbligato l’autore a riconoscere che il ragazzo «ha assai probabilmente ragione»: «Di certo Emmanuel se n’è uscito con l’occhio tumefatto, le gambe scassate e una busta con scritto “Negro” in mano». Un quadretto che farebbe pensare a una motivazione razzista. No, invece: «Saremmo d’accordo se ce ne fossero dieci, cento, di questi episodi, tenendo conto che i comuni italiani sono ottomila».
In attesa che i pestaggi di immigrati raggiungano un numero sufficiente, e confortati dal più che probabile ingresso nella compagnia degli “allarmisti” del papa e del capo dello Stato, ricordiamo gli altri episodi di ”non razzismo” avvenuti in Italia di recente: sabato 13 settembre a Milano Abdul Gruibe, 19 anni, viene ucciso a colpi di spranga da due cittadini italiani che gli gridano "negro di merda". Il 29 settembre, a Pianura (Napoli) la folla si scaglia contro un corteo di immigrati al grido «Via da qua o vi ammazziamo». Nell’occasione un giovane senegalese viene picchiato a sangue. L’altro ieri, nuovamente a Milano, un altro senegalese, Ragan Ngone, 39 anni, accusato di «rubare lavoro agli italiani» viene colpito alla testa con una mazza. Lo stesso giorno, a Roma, Tong Hogheng, 36 anni, sposato e padre di tre figli, viene picchiato alla fermata dell’autobus da sei minorenni che gli gridano «Cinese di merda». Poco dopo, fermati dai vigili urbani, i sei bulli negano in coro di essere razzisti. I cinesi, in effetti, sono più di un miliardo e 300 milioni.

l’Unità 4.10.08
La truffa della sicurezza
di Moni Ovadia


Il crudele stillicidio della morte sul lavoro ieri ha nuovamente spento sei vite umane con atroce puntualità. Perché? la risposta è ovvia perché manca la sicurezza sul lavoro. E perché non si fa nulla per interrompere la vergognosa carneficina? Semplice, perché muoiono operai, italiani e stranieri, lavoratori clandestini, poveracci precari e giornalieri ecco perché. Uno scippo fatto da un bimbo rom, quando capita, viene indicato come emergenza nazionale, su un episodio di furto in un appartamento commesso da rumeni o albanesi si scatenano gogne mediatiche, fiumi di inchiostro si versano sull’insicurezza percepita come se il nostro paese fosse precipitato di colpo in uno di quei film di propaganda dell'epoca maccartista. Io non voglio irridere di certo il diritto alla sicurezza che spetta ad ogni persona, nè minimizzare i terribili casi di stupro e di rapina subiti da inermi cittadini, ma la sperequazione nell’attenzione politica e mediatica riguardo alle due fattispecie di diritto alla sicurezza è semplicemente sconcia. Non c’è sicurezza senza difesa della qualità della vita, senza crescita sociale e culturale. Non c’è sicurezza senza rispetto della dignità. Il lavoro occupa la maggior parte del nostro tempo esistenziale, sul lavoro è, o dovrebbe essere, basata la Repubblica Italiana, il lavoro è lo strumento con cui si sostentano le famiglie, eppure, quando si tratta di certe categorie di lavoratori la questione della loro sicurezza diventa veniale. Questa banale evidenza mostra che certa politica si occupa di sicurezza solo quando può ricavare benefici elettorali. Il centro destra ha condotto la scorsa campagna elettorale prevalentemente sulla questione della sicurezza, a tambur battente, seminando il panico, indicando lo straniero, l’extracomunitario, il clandestino schiavizzato, in quanto tali, come la fonte di tutti i guasti del Belpaese. Questa sciagurata campagna demagogica ha dato i frutti avvelenati che stiamo raccogliendo adesso: una ripugnante ondata di razzismo che ovviamente non argina la delinquenza ma fa vittime fra gli inermi. La sicurezza sul lavoro in compenso con tutta probabilità rimarrà lettera morta. Le ragioni di tanta vile indifferenza vengono comunque da più lontano. Gran parte dei politici e dei ceti conservatori hanno sempre nutrito insofferenza, quando non disprezzo, per i diritti del lavoro dipendente. La promulgazione di leggi come lo Statuto dei Lavoratori è stato per loro un intollerabile vulnus che non sono mai riusciti a mandar giù e quando, dopo il crollo reale e simbolico del muro di Berlino, l’ideologia iperliberista è divenuta il pensiero unico hanno cominciato il lavoro di erosione e, là dove possibile, di demolizione dei diritti sociali conquistati a prezzo di durissime lotte nel corso di quasi un secolo. Anche oggi, che le conseguenze dello strapotere dell’anarco-capitalismo finanziario emergono tragicamente, in Italia, divenuta da tempo “il laboratorio del peggio”, il centro-destra non trova niente di meglio che attaccare furiosamene il più grande sindacato italiano attribuendogli tutte le colpe del disastro nazionale, disastro che è stato prodotto in decenni di malgoverno del Paese prioritariamente da altri, ovvero da una classe dirigente politica ed economica che ha furbescamente gestito o accettato corruzione e privilegi di ogni sorta. Sia chiaro io penso che ogni organizzazione, in quanto diretta da uomini e non unti del Signore, sia criticabile per le sue scelte, ma passare dalla critica leale all’aggressione strumentale è vile. La Cgil è stata ed è uno dei pilastri della democrazia in questo Paese. Che cosa resterebbe ai lavoratori se un sindacato forte e combattivo non ne difendesse intessi e statuti, resterebbero loro solo le balle del Cavalier Pinocchio che li vuole fare lavorare il triplo del tempo per la stessa grama paga.

Repubblica 4.10.08
La forza senza cultura
di Gad Lerner


È auspicabile che i presidenti della Camera e del Senato siano lesti nel cogliere gli scricchiolii della pacifica convivenza e promuovano un osservatorio parlamentare sul razzismo che ormai tracima dalla greve licenza verbale in troppi episodi di violenza fisica. Lo stesso governo della "tolleranza zero" ha interesse a far suo un allarme che non riguarda più solo il diffondersi dell´inciviltà, ma anche l´ordine pubblico.Episodi come il pestaggio del giovane Samuel Bonsu Foster a Parma o l´umiliazione inflitta alla signora Amina Sheikh Said all´aeroporto di Ciampino ? quali che siano gli esiti delle indagini ? evidenziano un´impreparazione culturale di settori della forza pubblica nella pur necessaria opera di vigilanza e prevenzione anticrimine. Problemi simili esistono nelle polizie di tutto il mondo, il cui aggiornamento professionale deve tenere conto delle mutate condizioni ambientali. Ma ancor più inquieta l´ormai lunga collezione di aggressioni, squadristiche o individuali, che si tratti di pogrom incendiari contro gli abitanti delle baraccopoli o di sprangate sulla testa del malcapitato di turno. Tale esasperazione è stata spesso giustificata dagli imprenditori politici della paura come legittima furia popolare. Minimizzata tributando demagogicamente lo status di vittime ai "difensori del territorio". Fino a quando c´è scappato un morto: Abdoul Salam Guiebre. Ma nella stessa città di Milano la guerra tra poveri ha riproposto il bis martedì al mercato di via Archimede. Stavolta non per un pacco di biscotti: Ravan Ngon è stato pestato con una mazza da baseball dal venditore di frutta e verdura alla cui bancarella si era avvicinato troppo con la sua merce abusiva. Lo stesso giorno, nella borgata romana di Tor Bella Monaca, una banda di teppisti adolescenti pestava, così, a casaccio, Tong Hongshen, colpevole solo di aspettare l´autobus. Abdoul Salam Guiebre, Tong Hongshen, Ravan Ngon: nomi difficili da pronunciare, figure giuridiche differenti (un cittadino italiano, un immigrato con permesso di soggiorno, un altro che vive qui da cinque anni senza essere riuscito a regolarizzarsi), ma innanzitutto persone. Nostri simili che stentiamo a riconoscere come tali, di cui preferiamo ignorare le vicissitudini e i diritti.
Nelle interviste trasmesse da Sandro Ruotolo a "Annozero", abbiamo udito i parenti dei camorristi accusati dell´eccidio di Castel Volturno manifestare indignazione: la polizia si muove "solo quando i morti sono neri"! Che si trattasse di una vera e propria strage, sei omicidi, passava in second´ordine. Temo che quell´infame, velenoso rovesciamento delle parti tra vittime e carnefici, rischi di diventare in Italia senso comune, se le istituzioni non interverranno per tempo.
Di certo non aiutano i pubblici elogi di Maroni al vicesindaco di Treviso, che sul suo stesso palco si riprometteva di cacciare i musulmani "a pregare e pisciare nel deserto". Come se non fossero già centinaia di migliaia i nostri concittadini di fede islamica. Non aiutano i giornali filogovernativi che attribuiscono all´intero popolo zingaro una congenita propensione al furto. Non aiuta il cortocircuito semantico che equipara il minaccioso stigma di "clandestino" a un destino criminale. La regressione culturale di cui si è detto preoccupato anche il presidente dei vescovi italiani, Angelo Bagnasco, ha tra i suoi responsabili gli spacciatori di stereotipi colpevolizzanti che nel frattempo promettono l´impossibile: un paese in cui, grazie alla mano forte delle nuove autorità, i cittadini siano esentati dalla fatica della convivenza.
Così come si è rivelato fallace - inadeguato all´offensiva reazionaria - l’espediente retorico di una sicurezza che non sia "né di destra né di sinistra"; altrettanto insulso rischia di apparire oggi il richiamo al binomio "diritti e doveri" degli immigrati. Giusto, certo. Ma astratto, fin tanto che non verrà indicato loro un percorso praticabile d´integrazione e cittadinanza. O preferiamo forse che si organizzino separatamente per farci sentire la loro protesta, esasperando una contrapposizione separatista fino allo scontro con le istituzioni?
Tra i sintomi della regressione culturale c´è anche la miopia con cui le forze democratiche del paese, a cominciare dal Pd, finora hanno ignorato la necessità di dare rappresentanza politica agli immigrati. Sarà forse poco redditizio elettoralmente, ma è decisivo per il futuro della nostra società che si affermino leadership responsabili, organizzazioni accoglienti, punti di riferimento alternativi ai capiclan e ai propagandisti dell´integralismo religioso. Persone che hanno avuto l´intraprendenza di emigrare per sfuggire a una sorte infelice, e che spesso hanno conseguito traguardi culturali e professionali significativi dopo essere approdati senza un soldo sulle nostre coste, possono contribuire anche al rinnovamento della politica italiana, bisognosa di ritrovare idealità e speranza.

Corriere della Sera 4.10.08
I dilemmi di Veltroni
Il popolo non si abolisce
di Paolo Franchi


Dice Walter Veltroni all'Espresso: antiberlusconiano io? Non scherziamo, le riforme si fanno con l'avversario. È Berlusconi a berlusconeggiare più e peggio di prima. Non sarà Putin, ma noi, dialoganti e non inciucisti, non possiamo passargliela liscia.
Dice Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi: aumentando i poteri del premier si cade in un sistema autoritario? Ridicolo, semmai è con le regole attuali che i parlamentari sono diventati un popolo di depressi. E, se l'opposizione insiste con il suo ostruzionismo, avanti tutta con i decreti legge.
Non ci vuol molto a comprendere che, a impiantarlo su queste basi, l'unico dialogo possibile è nel migliore dei casi un dialogo tra sordi, in un clima di contrapposizione frontale e senza esclusione di colpi. Quello che semmai resta da capire è se sia ancora possibile sfuggire a un simile destino. E, nel caso, a chi spetti e, soprattutto, a chi convenga di più fare la prima mossa per cercare di cambiare rotta.
Sul primo interrogativo, la risposta è di necessità sospesa, e il pessimismo è d'obbligo: ma questo non significa che occorra prendere atto che non c'è niente fa fare, mettersi l'elmetto e scendere in trincea. Quanto al secondo quesito: sì, forse dovrebbe essere per primo il presidente del Consiglio a ritrovare il passo e lo stile delle sue prime settimane a Palazzo Chigi. Ma, se come tutto lascia immaginare (sbagliando) non lo farà, e magari farà esattamente il contrario, il Partito democratico e il suo leader commetterebbero il più grave degli errori a dare per archiviata la partita. E non solo per motivi di principio o per tener fede alle promesse elettorali. È a Veltroni e al Pd, molto più che a Berlusconi, che conviene tenerla aperta, cercando di distinguere il più rigorosamente possibile la disponibilità al confronto sulle riforme e l'opposizione al governo. Per uscire dall' angolo, per non essere ricacciati indietro: ne va del loro stesso destino.
Non è un'impresa difficile. È un'impresa difficilissima, e anche impopolare per un partito che fatica ancora assai a identificare se stesso. Il richiamo della foresta dell'antiberlusconismo, o per essere più precisi dell'idea che Berlusconi sia in ultima analisi un usurpatore e che il consenso di cui gode da un quindicennio sia la prova di una regressione antropologica prima ancora che politica di gran parte degli italiani, è formidabile, anche perché Berlusconi sembra fare di tutto per alimentarlo. L'antiberlusconismo, si sa, non riconosce né dialoghi né confronti, anzi, li avversa e li disprezza. Ma può fare da collante a un Cln o, tutto all'opposto, a una setta: non a una grande forza di opposizione che aspiri a diventare in tempi ragionevoli una grande forza di governo. Un grande partito, per dimostrarsi tale, è tenuto all'esatto contrario. A prendere atto che, se Berlusconi e il berlusconismo sono, e non da oggi, maggioritari, e se dallo scorso aprile quel che resta della Prima Repubblica è dopo quindici anni tutto all'opposizione, qualche ragione di fondo deve pur esserci; e a lavorare per venirne a capo, sempre che non voglia, brechtianamente, abolire il popolo. A fare tutta la propria parte, e anche qualcosa di più, per concorrere a portare a compimento l'interminabile transizione italiana, e a costruire le regole e gli istituti, i pesi e i contrappesi della democrazia dell'alternanza, primo e fondamentale antidoto anche a quel crescente deficit democratico che Veltroni individua con ragioni migliori di quanto pensino molti suoi stroncatori. Ad avere voce in capitolo, prendendosela se l'avversario gliela nega, piuttosto che a strillare dai tetti. Nel caso, a farsi sbattere la porta in faccia, e a darsi da fare non una ma cento volte per riaprirla.
L'obiezione è nota. Questa, si dice, è la via della svendita, della resa, della rinuncia a fare l'opposizione. Ma è vero l'esatto contrario. Combattere l'avversario come il nemico, anzi, come il male assoluto, è un cattivo surrogato dell'opposizione di cui ci sarebbe bisogno, e che invece latita. Un'opposizione capace di esercitare una funzione di controllo, di avanzare idee e proposte alternative, di sostenere con il voto misure che condivide ma anche di dare battaglia, dura, se occorre, sulle questioni che a suo giudizio governo e maggioranza affrontano in modo inaccettabile. Chiari saranno i nostri sì, chiari saranno i nostri no, recitava uno slogan antico. Non vorremmo apparire rétro, ma forse sarebbe il caso di rifletterci su.

l’Unità 4.10.08
Sessualità, i cattolici non seguono la Chiesa
L’amara constatazione del Papa. Che invita a stare alla larga da pillole e preservativi
di Roberto Monteforte


NO ALLA PILLOLA. No al preservativo. La procreazione, l’accoglienza dei figli è la naturale manifestazione dell’amore coniugale che è piena donazione del coniuge all’altro. No, quindi, alla pillola o ad altri mezzi artificiali e meccanici di contraccezione. Lo afferma papa Benedetto XVI. L’occasione è il 40° dell’enciclica di Paolo VI, l’Humanae Vitae, molto contestata al momento della sua promulgazione nel 1968 anche all’interno della Chiesa e, soprattutto, tanto disattesa ieri come oggi, anche dai cattolici. Ieri Ratzinger ha voluto confermare il no fermo e assoluto della Chiesa alle pratiche anticoncezionali. Al tempo stesso ha cercato di recupare i tanti fedeli poco propensi a seguire i precetti sulla morale sessuale. Lo ha fatto invitando a riflettere sulle ragioni dell’amore coniugale, della sessualità umana e della dimensione di coppia. A questo ha dedicato il suo messaggio al convegno sull’Humanae Vitae promosso dal Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia e dall’Università Cattolica del Sacro Cuore. Spiega cosa sia «il grande sì che implica l’amore coniugale». «Ogni forma d’amore tende a diffondere la pienezza di cui vive, l’amore coniugale ha un modo proprio di comunicarsi: generare figli. Escludere questa dimensione comunicativa - continua - mediante un’azione che miri ad impedire la procreazione significa negare la verità intima dell’amore sponsale con cui si comunica il dono divino». È questa per Ratzinger la ragione di fondo da riaffermare. Poi l’ammissione. Riconosce che «anche molti fedeli trovano difficoltà a comprendere il messaggio della Chiesa che difende la bellezza dell’amore coniugale nella sua manifestazione naturale». Quel generare «è partecipare all’amore di Dio». «Possiamo capire dunque che i figli non sono più l’obiettivo di un progetto umano, ma sono riconosciuti come un autentico dono, da accogliere con atteggiamento di responsabile generosità verso Dio». E pone quella che indica come la questione di fondo: «Il senso della sessualità umana e la necessità di una padronanza responsabile, perché il suo esercizio possa diventare espressione di amore personale». Non basta la ragione, servono «gli occhi del cuore». E quando una nascita può rappresentare un pericolo? O quando è «prudente» distanziare le nascite dei figli o addirittura sospenderle? Allora l’unica via da seguire è quella del metodo «naturale», seguendo i ritmi naturali della fertilità della donna. Il Papa parla di una sessualità da amministrare senza «turbare l’integro significato della donazione sessuale». Per questo serve maturità nell’amore «che non è immediata, ma comporta un dialogo e un ascolto reciproco e un singolare dominio dell’impulso sessuale in un cammino di crescita nella virtù». Sta alla Chiesa favorire questa consapevolezza.
Ma parlare di «dominio dell’impulso sessuale» o di condanna dell’uso dei contraccettivi è un discorso controcorrente, difficilmente comprensibile. L’Arcigay e i radicali hanno rinnovato la critica alla Chiesa. Questa condanna - si osserva - finisce per favorire la diffusione dell’Aids. «Non mi sento di escludere che in alcune condizioni la responsabilità possa indurre il fedele ad usare strumenti di prevenzione della maternità quando è in gioco la salute. Il dovere primo dell'essere umano è quello di difendere la propria salute» è stato, invece, il commento di Vincenzo Saraceni, presidente dell'associazione medici cattolici italiani. Peccato sarebbe fare il contrario.

Repubblica 4.10.08
L’amore addomesticato
di Adriano Prosperi


"Crescete e moltiplicatevi": l´invito divino a Adamo ed Eva (Genesi 1,28) è forse il passo della Bibbia ebraica di più lungo corso nelle omelie ecclesiastiche, almeno a partire da quando l´ingresso del matrimonio nella sfera dei sacramenti ha segnalato la volontà del clero di addomesticare l´eros. Oggi l´invito di papa Benedetto XVI ne ripropone la versione antica, di richiamo al dovere di produrre figli senza ricorrere a metodi contraccettivi "innaturali". Ritorna il volto severo e obbligante in coscienza del matrimonio cristiano come rimedio alla lussuria, strumento per spegnere il fuoco dei sensi ("meglio sposarsi che bruciare", un avvertimento paolino che forse il clero dovrebbe meditare di più. Volto antico: chi sfoglia i testi canonici in materia di matrimonio troverà testi di secoli e secoli fa dove la Chiesa si descrive nata dal costato di Cristo come Eva da quello di Adamo. Ma si dovrà arrivare al decreto approvato dal Concilio Vaticano II il 7 dicembre 1965 per trovare una definizione del matrimonio, dei legami tra marito e moglie e del rapporto coi figli incentrato su di una parola fino ad allora assente: l´amore, non quello spirituale, non quello divino - quello umano.Parole innovative: era l´uscita del linguaggio ufficiale cattolico dalla tradizione medievale dell´alleanza tra un clero celibatario e l´interesse maschile a disporre di una schiava a basso prezzo, per di più portatrice di dote. Con quel matrimonio l´amore, quello profano, non aveva nessun rapporto. Le novelle del Rinascimento ne sono testimoni, come raccontò in un vecchio bel libro Lucien Febvre, un grande storico francese non sospetto di anticlericalismo. Del dovere imposto da quella cultura alla donna - dovere di essere sempre e comunque soggetta al marito e obbligata a concepire e partorire, naturalmente nel dolore - approfittarono poteri d´ogni genere pronti ad allearsi con l´egemonia culturale del clero. Fare figli, possibilmente maschi, servì di volta in volta a tante cose. In primo luogo a far crescere la consistenza e la speranza di durata della famiglia e a trasmetterne il nome - quello maschile, cosa che oggi solo in Italia si ritiene ancora ovvia; ma poi anche a moltiplicare la popolazione come forza lavoro per i campi e le officine, come nerbo della potenza statale e carne da cannone. "La grande proletaria si è mossa", disse Giovanni Pascoli ai tempi di una guerra di Libia di cui paghiamo ancora i costi. La prole che si muoveva era nata da matrimoni obbligati a far molti figli. Ed è singolare che oggi si cerchi di pagare i costi di quella sciagurata avventura con un simbolo indiscutibile dell´amore umano, la Venere di Cirene graziosamente quanto arbitrariamente sottratta da Berlusconi al patrimonio artistico italiano per regalarla a Gheddafi (realizzando così una delle più cupe profezie di Federico Zeri).
Lungo i secoli, l´amore umano era rimasto assente dai documenti canonici e ancor più da quella scienza teologica chiamata a distinguere il lecito e l´illecito degli accoppiamenti umani ? una scienza che si insegnava ai preti nei seminari perché potessero poi interrogare con adeguata competenza in confessione mariti e soprattutto mogli sulle loro pratiche sessuali. Ben diverso dal voyerismo mediato dallo schermo televisivo, la confessione ha consentito per secoli di vedere e ancor più di dirigere gli attori nei gesti e nelle tecniche del momento della riproduzione. Su questo sfondo l´apparizione della parola "amore" in un documento ufficiale cattolico sul matrimonio dette l´impressione di una svolta, di una volontà di riprendere contatto con la vita e coi sentimenti reali di donne e uomini, considerati non più solo come "fedeli", cioè passivamente obbedienti.
Oggi si riapre la questione della contraccezione. Il rapporto coniugale cessa di essere visto come il disegno complessivo di una storia di rapporti umani per tornare a frammentarsi nella meccanica della riproduzione, analizzata nelle sue sequenze da uno sguardo estraniato e sospettoso. Verrà ascoltato questo appello? Il Papa lo ha formulato cercando di conciliarlo col linguaggio del testo conciliare ma tornando sul terreno delle istruzioni tecniche. Lo ha fatto richiamando in vigore quel dispositivo della "Humanae vitae" con cui Paolo VI cercò di mettere il vino nuovo dell´amore umano negli otri antichi di una teologia morale impegnata a sorvegliare gli accoppiamenti, a insinuare tra moglie e marito la presenza del prete. È un segno dei tempi che nello stesso momento giunga tra le mani dei lettori la riflessione del cardinal Martini su questo punto: nientedimeno che una domanda di perdono per la "Humanae vitae". Ripercorrendo il pontificato di Paolo VI il cardinale milanese ha scritto parole dense e pesanti sulla frattura che si è creata con quella enciclica oggi riattualizzata dal papa. La gioventù ? ha detto Martini ? ha cessato di chiedere alla Chiesa della "Humanae vitae" istruzioni per l´uso. È avvenuta una frattura di cui il Papa è stato invitato a tenere conto. Riconosciamo in queste parole l´esistenza di un mondo cattolico che non ha dimenticato quel documento conciliare e che non ha cessato di interrogarsi sulla realtà dei tempi e dei sentimenti. Nella società descritta dal cardinale milanese il messaggio di Benedetto XVI rischia fortemente di cadere nel vuoto, come lui stesso ha mostrato di rendersi conto. Il documento papale è dunque con ogni evidenza una risposta all´appello del cardinal Martini. Una risposta eloquente che documenta in quale direzione il pontificato attuale intende muoversi. Del resto, anche prescindendo dalla lettura di quella pagina del cardinal Martini, al pontefice romano non poteva essere sfuggito un dato di fatto che è sotto gli occhi di tutti: è proprio l´amore umano la molla che ha contribuito a rendere oceanici i raduni giovanili nei grandi eventi pubblici così amati in Vaticano. Un amore con largo uso di contraccettivi "non naturali": lo testimoniano le descrizioni di quel che si trova sui prati quando la festa finisce. E allora, perché tornare su quell´antico deposito di istruzioni tecniche? La domanda si aggiunge alle tante a cui oggi cercano di rispondere i vaticanisti, una specializzazione del sapere giornalistico che si coltiva soprattutto in Italia. Una cosa è certa: la questione della contraccezione sembra toccare ben poco l´opinione pubblica italiana. Il problema della contraccezione e più in generale dell´educazione sessuale è drammatico non da noi ma nei paesi di quegli altri mondi che compongono la geografia della fame e della sete. In Italia il passaggio dalla crescita demografia record del "crescete e moltiplicatevi" alla denatalità anch´essa da record è avvenuto con una rottura improvvisa e radicale, da parte di un popolo che si riteneva complessivamente cattolico ma non prestava molta attenzione agli avvertimenti ecclesiastici.
E tuttavia è facile prevedere che avremo altre occasioni di tornare sull´argomento. Questo appello fa parte di un´offensiva in atto sui diritti e le possibilità di scelta di tutti noi, credenti e non credenti. Diritti relativi ai momenti cruciali dell´esistenza: la nascita, la morte. Il matrimonio non poteva mancare: ma è come la tessera di un puzzle che viene collocata al suo posto. Senza particolare convinzione. Non è la più importante.

l’Unità 4.10.08
Il comunismo fa discutere Bertinotti e Ferrero
L’ex presidente della Camera: «È una parola indicibile». Il segretario del Prc va all’attacco: «Stai sbagliando»


Polemica a distanza tra l’ex leader di Rifondazione, Fausto Bertinotti, e l’attuale segretario Paolo Ferrero. Complice l’ultimo libro di Bruno Vespa - «Viaggio in un’Italia diversa», Mondadori-Eri - e una delle sue molteplici anticipazioni.
«Comunismo è una parola indicibile - sostiene Bertinotti - Se fermi qualcuno per strada e gli dici: io sono comunista, quello non ti capisce». Di qui la necessità di una nuova costituente di sinistra. Sbagliato invece, per Bertinotti, guardare con simpatia a Di Pietro «perché non ti fermi più se dal comunismo precipiti nel populismo». La polemica con Ferrero è più che trasparente.
La sconfitta elettorale? Nessuno, a parte la Caritas «ha capito davvero per tempo quale tragedia sociale abbia prodotto la perdita di potere d'acquisto dei salari. Vista la nostra efficacia ci hanno considerato inutili. Il governo dell' Unione ha colpito l'unica risorsa della sinistra radicale: il suo deposito di coerenza e credibilità». La conclusione: «pur essendo stato fatto cadere da destra, anche per la sinistra questo governo ha avuto un bilancio impresentabile». E Prodi? «C'è sempre stata una sua sordità. Nelle rare occasioni in cui si sono fatte valere un cambio di passo, mi è sembrato impossibile averne un riscontro».
Paolo Ferrero polemizza da un’altra pagina del libro di Vespa. Il comunismo, dice, «Ripropone innanzitutto il tema dell'uguaglianza in una situazione in cui la disuguaglianza sembra diventata un fenomeno naturale». E «ripropone in modo forte l'idea di libertà contro ogni discriminazione di genere, razza, religione, orientamento sessuale». Compito del comunismo «è tenere insieme la questione dei diritti sociali e dei diritti civili».
Ma la polemica libresca non basta. Ieri il segretario del Prc ha stilato un’altra risposta al subcomandante Fausto: «A differenza di Fausto, continuo a pensare che la parola comunismo sia evocativa e utile per illustrare il cammino di una lotta secolare, quella per l'eguaglianza e la libertà. Inoltre, se il problema è il logoramento di alcune parole, anche alcune che Fausto ha usato più volte con forza, come ad esempio la parola socialismo, non mi pare che stiano messe molto meglio della parola comunismo, anzi. Proprio per questo il nostro partito si chiama Rifondazione comunista, perché puntiamo e cerchiamo di elaborare, ormai da decenni, una riqualificazione anche delle parole, oltre che delle scelte e degli impegni politici che ne conseguono». Quanto alle alleanze, impensabili nuovi accordi di governo con Pd, e anche nelle giunte locali se c’è l’Udc.
«Sebbene - replica laconico Bertinotti - non pensi che l'affermazione possa stupire qualcuno e neppure interessare particolarmente chi non mi conosce: sono comunista. Punto».

Repubblica 4.10.08
Neuroscienze
"Il cervello dei musicisti è davvero differente"


ROMA - Geni della musica, e non solo. Sembra infatti che il cervello dei "giovani Mozart" funzioni in modo diverso. Gli psicologi della Vanderbilt University (Usa) hanno scoperto che i musicisti ricorrono in modo più efficace a una tecnica creativa chiamata "pensiero divergente", e usano contemporaneamente l´emisfero destro e sinistro della corteccia frontale più spesso rispetto all´uomo medio. E in generale gli studenti di musica presentano un quoziente di intelligenza più alto dei colleghi non musicisti.

Corriere Fiorentino 4.10.08
La rivolta dei precari (il 40% del totale): futuro incerto, blocco delle assunzioni e del turn over
I ricercatori occupano la sede del Cnr
«Nel giro di pochi mesi molti di noi rischiano di restare senza lavoro»
di Francesco Garozzo


I ricercatori del Cnr di Firenze hanno deciso di avviare la più classica delle forme di protesta: da ieri pomeriggio hanno iniziato un presidio permanente, occupando di fatto i locali della sede. Un allarme e insieme un atto di solidarietà alla lotta dei colleghi ricercatori universitari, che arriva da un ente pubblico formalmente staccato dall'Università, ma che ne condivide gran parte dei problemi.
Per arrivare al Cnr di Firenze bisogna raggiungere il nuovo polo scientifico di Sesto Fiorentino. È lì che, accanto alle facoltà scientifiche, si trova il palazzo del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Ed è lì che ieri mattina si sono incontrati 200 ricercatori del-l'ente, riunendosi in assemblea e votando a maggioranza l'occupazione. A fine mattina l'ingresso era già stato trasformato: effetto «occupazione universitaria» e temi che tornano uguali ai colleghi delle aule di facoltà. I ricercatori precari del Cnr fiorentino sono 235, il 40% del totale, divisi tra i vari istituti e con le più svariate forme contrattuali: si va dagli assegnisti, ai contratti a progetto, dagli interinali a quei 35 «stabilizzandi », gente cioè che doveva essere assunta e che invece sta ancora aspettando.
A fare due passi all'interno dell'aula occupata, ci si accorge che i ricercatori del Cnr assomigliano ai loro colleghi dell'università pubblica. Stessa fascia d'età — da 30 a 45 (e oltre) — stessi argomenti e stesse paure. «Il 40% di precari, in un ente che dovrebbe garantire la qualità della ricerca nazionale, è un dato spaventoso », dice Ilaria Lani, della Flc (federazione lavoratori conoscenza) della Cgil. «Con la legge 133 che limita a tre anni l'utilizzo dei contratti flessibili, nel giro di pochi mesi rischiamo di mandare a casa la maggior parte dei nostri ricercatori precari. Dal 2001 abbiamo assistito a una riduzione del personale del 20%, a causa del blocco delle assunzioni. Nella mozione finale d'assemblea — che i presenti hanno votato all'unanimità — ci siamo anche rivolti ai direttori degli istituti del Cnr, con la speranza che vengano a discutere con noi e ad appoggiare le richieste del personale».
Intanto l'annullamento delle stabilizzazioni in corso, il taglio «del 10% delle piante organiche» e il blocco del turn over fanno paura. Soprattutto perché «in gioco stavolta c'è il futuro della ricerca in Italia», aggiunge Andrea, ricercatore del Lamma, l'istituto toscano di meteorologia. Che subito dopo passa al problema finanziamenti: «Il Cnr basa il finanziamento dei suoi progetti su fondi che in gran parte arrivano dalla Comunità Europea e che ora rischiano di diminuire sensibilmente. Il rischio è che tra un po' non si possa più competere seriamente a livello internazionale: d'altra parte cosa aspettarsi in una situazione che dipende da fondi esterni e basa la sua attività su una forza lavoro precaria?».
Se si va a dare uno sguardo alla situazione nazionale del Cnr, dati aggiornati al 31 dicembre 2006, i numeri sono chiari e parlano di una situazione che riflette bene quella regionale. I dipendenti del Cnr con contratti a tempo determinato sono in Italia 1.056, contro i 6375 assunti: a questi bisogna aggiungere 1.150 assegnisti, 256 borsisti, 536 co.co.pro e altre 859 tipologie contrattuali. Il 37% di precari. A pochi passi dall'ingresso, mentre alcuni dei ricercatori appendono gli ultimi striscioni e altri aggiustano il banchetto con dati e statistiche della loro situazione, chiediamo cosa si aspettano a breve. Due risposte. La prima, generale, di speranza: «Speriamo che venga ritirato l'emendamento Brunetta che abroga le stabilizzazioni e che venga comunque modificata la 133»; la seconda, locale: «Con il nostro gesto speriamo di annullare la distanza, anche geografica, che ci separa dal mondo universitario fiorentino, dando così impulso al momento di lotta».
Il progetto a breve termine dei ricercatori Cnr parla di un viaggio e la destinazione sta scritta nella loro mozione d'assemblea: il prossimo 8 ottobre vanno a Roma, alla manifestazione nazionale. Dove? Sotto le finestre del ministero dell'Istruzione.

Corriere Fiorentino 4.10.08
Università Lo ha deciso il Consiglio di Facoltà
Farmacia, lezioni bloccate e ci sono anche i docenti
Architettura, proseguono le assemblee
di F.C.


E adesso è arrivato il turno di Farmacia. Lunedì prossimo, primo giorno di didattica, non ci sarà nessuna lezione. Lo ha deciso il Consiglio di Facoltà, stabilendo il blocco delle lezioni per una settimana e l'inizio di un confronto tra docenti, ricercatori e studenti sulla protesta contro i tagli previsti dalla legge 133. Farmacia è la più piccola facoltà fiorentina: ha 900 studenti, 60 docenti e 30 ricercatori. Numeri che hanno permesso di decidere per il blocco delle lezioni con una facilità da altre parti solo sognata «Sarà per la nostra mentalità pratica», scherza Alessandro Feis, ricercatore convinto di come «le nostre dimensioni abbiano aiutato a capire che ci si trova davanti a un problema che deve interessare tutte le componenti del mondo universitario. La settimana di informazione tra noi e i ragazzi mi sembra il modo migliore ed efficace per cominciare».
Il documento di Farmacia parla «di una situazione insostenibile, di un disegno di legge chiaramente mirato a colpire il sapere pubblico ». Di pesanti «tagli al Fondo di finanziamento ordinario», di «Università fiorentina già in forte difficoltà economica».
A colpire di Farmacia è anche l'atteggiamento dei docenti, in gran parte solidali con i colleghi ricercatori. La settimana di informazione sarà arricchita da iniziative pensate apposta per gli studenti, come l'apertura dei laboratori di ricerca: per vedere da vicino l'habitat naturale dei protagonisti principali della protesta.
In questo modo l'Ateneo fiorentino è sempre più compatto. La facoltà del Polo di Sesto (tra l'altro in stretti contatti con i neo-occupanti del Cnr) si è così aggiunta al gruppo di chi si è fermato: tutti i corsi di laurea di Scienze, Ingegneria e Architettura. E a chi potrebbe fermarsi: Agraria ne discuterà in due tappe. Lunedì si incontreranno i ricercatori della facoltà, il giorno dopo tutti gli studenti.
Ad Architettura intanto il movimento fa passi avanti. Ieri in Santa Verdiana è andata in scena un'assemblea, circa 350 persone presenti, che ha segnato un passo avanti nella protesta. Per la prima volta si è visto qualche docente ordinario, dato che «incoraggia ad andare avanti su questa strada », dice Alberto Di Cintio, ricercatore di Disegno industriale, presente ieri e intervenuto, tra molti applausi, anche all'assemblea in Rettorato di qualche giorno fa. In piazza San Marco aveva parlato di lotta che non si deve fermare, adesso è soddisfatto di vedere «che molti si sono resi conto della drammaticità del momento. Di come bisognerebbe restare uniti, sia precari che docenti. È emerso un pensiero comune, gli ordinari si stanno convincendo della bontà della protesta. Dobbiamo solo decidere con quale forma continuare la lotta, e mi incoraggiano le scene viste in facoltà».
Le scene viste sono quelle di un' assemblea partecipatissima, con posti a sedere esauriti e studenti in fila fuori dall'aula, a sforzarsi di vedere la faccia di chi prendeva in mano il microfono.
Davanti al preside di facoltà, Raimondo Innocenti, e a tutti i presidi dei corsi di laurea, il microfono l'hanno preso in tanti. Dagli attivissimi professori del dipartimento di Urbanistica guidati dal senatore Francesco Pardi, («il ministro Tremonti si vanta di approvare le leggi in nove minuti», «la ricerca non è una cosa che si può fare in tre mesi») — la professoressa Daniela Poli, il professor Pizziolo, il professor Vernetti del polo di Empoli — a molti studenti e ricercatori. Si sono contati e hanno deciso di istituire una commissione speciale, formata da docenti, ricercatori e studenti.
Uno dei problemi emersi riguarda gli studenti. Alcuni di loro, pur nella solidarietà ai ricercatori e alla comprensione del momento, hanno una paura: non è che, a forza di lezioni sospese, alla fine gli svantaggi più grandi li avremo noi?
Una risposta la suggerisce Di Cintio: «Si potrebbe profilare uno scenario. Tra un po' di giorni sarà chiaro se si è raggiunta l'unità con i docenti. A quel punto, restando fermo lo stato di agitazione e di protesta, le lezioni potrebbero ricominciare ».
Tanto, per Di Cintio e i suoi colleghi, l'importante è un'altra cosa. Che si capisca che «così non si può più andare avanti», che ci si renda conto di vivere in un'Università con pochi fondi e tanti paradossi. Come quello dei ricercatori, «che lavorano meno nel settore per cui sono pagati, la ricerca. E di più in quello dove per contratto non possono prendere una lira, le lezioni». L'impressione è che si sia soltanto all'inizio.