Roma raccoglie l’appello antirazzista
C’è la comunità cinese e molti arrivati da altre città. Carla, bolognese, ha sposato Ismala: «Reagiamo al dilagare dell’intolleranza». Jules, africano: stessi diritti stessi doveri
di Greta Filippini
TANTA PIOGGIA eppure sono accorsi in molti al corteo indetto da piccole formazioni politiche e della società civile per dare una risposta alle aggressioni xenofobe
Storie I numeri c’erano: secondo il comitato organizzatore, infatti, si contavano dalle 15 alle 20 mila persone. I colori, pure: quelli della grande bandiera della pace agitata in Piazza della Repubblica, quelli degli striscioni, e quelli della pelle. Gli slogan, anche: «Stop, stop, stop al razzismo!», era il grido che usciva dai megafoni impilati sui camioncini in mezzo al corteo. Così come c’erano la pioggia e il freddo, che non hanno dato tregua ai manifestanti fino a Piazza Venezia. Ma al corteo antirazzista, organizzato nel pomeriggio di ieri da Unicobas, Socialismo rivoluzionario, Partito Umanista e Centro delle Culture, c’erano soprattutto tante, tantissime storie. Luca, da 20 anni in Italia, è cinese come Tong, il 36enne pestato a Tor Bella Monaca da un gruppo di adolescenti. «L’hanno picchiato senza motivo, solo per divertirsi - denuncia intimidito -. Essere qui deve servire a cambiare la mentalità delle giovani generazioni italiane». Jules, distinto 40enne arrivato dall’Africa 20 anni fa, è sceso da Torino «per dire che gli immigrati, in quanto esseri umani, condividono gli stessi diritti e doveri delle altre persone». Accanto a lui, Carla, una giovane donna di Bologna, spinge un passeggino sul quale è appeso un cartello con scritto “Solidarietà e accoglienza per tutti”. Dentro, dorme pacifico il suo bimbo di tre mesi, mulatto. Lo ha avuto con Ismaila, africano da 12 anni in Italia. Hanno voluto essere entrambi a Roma per «reagire ad un razzismo dilagante,sempre più legittimato dall’impunibilità di chi commette violenza». Raccontano che anche Ismala, l’anno scorso, è stato aggredito nella sua macchina da un italiano, infuriato per una manovra giudicata troppo lenta. Hanno sporto denuncia, ma niente. non ci sono testimoni perchè, dice Carla, «la gente ha tirato dritto». Zahirul, invece, è arrivato col pullman da Vicenza. Ha 34 anni, è originario del Bangladesh e lavora alla segnaletica delle autostrade. «Prima avevano bisogno di noi per fare i lavori che gli italiani non fanno più. Ora - domanda - siamo troppi e non serviamo?». Ma, al corteo, non ci sono solo stranieri. Sandro,romano, è del Circolo Gianni Bosio, da 40 anni al lavoro per la diversità delle culture. «Il razzismo- dice - è da sempre una potenzialità latente. Oggi, però, ci sono legittimazione culturale, copertura politica e un oggetto contro cui scatenarsi». Annamaria, invece, è docente al Master “Immigrati e rifugiati” della Sapienza. «Stanno giocando col fuoco - avverte -. Se gli immigrati organizzassero uno sciopero nazionale, forse gli italiani si accorgerebbero di quanto sono importanti per il nostro paese». Tante voci. «Una sola manifestazione per la vita», gridano dal palco allestito accanto al Vittoriano. A denunciare i recenti fatti di razzismo, ci sono gli amici di Abba, il 19enne del Burkina Faso ucciso a Milano. C’è Christopher Schule, un ragazzo liberiano che da cinque anni vive a Castel Volturno nella stessa casa di uno degli immigrati freddati dai Casalesi. Immancabile, infine, la musica. Il corteo si conclude dopo quattro ore a suon di bonghi. Intanto, giù dal palco, c’è ancora la voce per urlare: «Equador, libertà. Algeria, libertà. Eritrea, libertà. Egitto, libertà. Cina, libertà. Burkina Faso, libertà...Italia, libertà!»
Repubblica 5.10.08
In tutta Italia le piazze contro l´intolleranza
Fini: il pericolo razzismo c´è. Veltroni: sarà al centro della nostra manifestazione del 25
di Marina Cavalieri
ROMA - Sanatoria e diritti, tamburi e reggae, slogan contro la camorra e cartelli in inglese sulla solidarietà. Striscioni con i nomi delle vittime. In un sabato «senza confini», poco italiano, ha marciato rumoroso e pacifico il popolo dei diversi, degli stranieri di buona volontà, di quelli che non tollerano più offese e rivendicano il diritto a rimanere, a stare qua, ad esserci.
A Roma, Caserta, Parma e Ancona, ci sono stati cortei contro il razzismo, si sono dati appuntamenti migranti e rifugiati, quelli che hanno conquistato il permesso di soggiorno e chi l´aspetta, ma anche ragazzi italiani, associazioni, rappresentanti delle istituzioni e sindacalisti. A Roma sono circa ventimila, a Caserta diecimila, tra loro anche il sindaco della città Petteruti e quello di Napoli Jervolino, con i gonfaloni e la fascia tricolore. E sono proprio gli immigrati di Castel Volturno ad aprire il corteo romano, sfilano a testa alta, dignitosi anche se vivono in palazzine diroccate, in baracche di lamiera, in luoghi senza nome. «Stop al razzismo, non siete morti invano», recita lo striscione. «La situazione è preoccupante, abbiamo paura, c´è stato un cambiamento di clima», dice uno di loro. Tra la folla ci sono anche i rappresentanti della comunità cinese, molti adolescenti, parlano con accento romano, sono quelli che in città vivono appartati, sempre cauti, qui sono venuti per Tong Hong-Shen, l´operaio cinese di Tor Bella Monaca aggredito senza un motivo, un perché. «È la prima volta che vengo ad una manifestazione», dice una signora in perfetto italiano. «Sono otto anni che vivo a Roma e finora non avevo mai avuto paura». Preoccupazione anche tra i senegalesi, gli amici di Abba venuti da Milano per ricordare il ragazzo morto, preso a sprangate per un pacco di biscotti in una notte di frontiera.
«Sarebbe sbagliato negare che esiste un pericolo razzismo e xenofobia», ammette Gianfranco Fini, presidente della Camera, ma riguardo la denuncia della signora somala maltrattata a Fiumicino, dice che occorre cautela. «Serve una politica chiara sull´immigrazione non si possono aprire le porte a tutti», spiega Fini che ricorda la necessità di costituire un osservatorio alla Camera sul razzismo. Sensibile al rischio razzismo anche Walter Veltroni, il segretario del Pd ha accolto l´appello che gli è stato rivolto da un gruppo d´intellettuali perché questo tema sia al centro della manifestazione del Pd in programma per il 25 ottobre. Politica e razzismo ma anche politica e camorra. «La politica si è indebolita, essa è spinta, non vorrei dire guidata, dal potere camorristico», ha detto severo monsignor Nogaro, vescovo di Caserta, durante il corteo che si è svolto in città. Corteo pacifico e trasversale, come quelli di Parma e Ancona. Nella città delle Marche si sono ritrovati in duemila sotto la pioggia, erano organizzati dalle comunità resistenti e l´Ambasciata dei diritti, al porto hanno appeso cinque manichini a rappresentare le vittime degli sbarchi, in ricordo di quelli che non possono più lottare, che cercando l´Italia sono finiti in fondo al mare.
Repubblica 5.10.08
"Il dittatore s´impose dopo la depressione"
Il tedesco Schaeuble fa il paragone col ‘29 "Un Hitler può tornare"
ROMA - Come nel 1929, l´attuale crisi finanziaria potrebbe aprire la strada ad una nuova, terribile minaccia per l´umanità e la pace mondiale. Il pericolo, paventato dal ministro dell´Interno tedesco, nonché esponente della Cdu (il partito di Angela Merkel) Wolfgang Schaeuble, è di quelli che fanno scorrere i brividi lungo la schiena: d´improvviso un nuovo Adolf Hitler potrebbe spuntare dalle ceneri della finanza mondiale in ginocchio, farsi largo tra le incertezze e il crollo delle economie di molti Paesi. E imporsi.
Mentre a Parigi si svolge il G4 straordinario sulla crisi finanziaria, a Berlino Schaeuble mette in guardia contro le possibili conseguenze politiche e di ordine pubblico dell´attuale situazione. La crisi della finanza mondiale, dice, potrebbe portare a uno sconvolgimento degli equilibri politici, gettando le basi per una «minaccia incredibile, che coinvolgerebbe l´intera società». I mercati hanno già conosciuto la Grande Depressione: adesso bisogna vigilare contro la nascita di un secondo Hitler, che fu una diretta conseguenza del crollo di Wall Street del 1929.
Il ministro non punta il dito contro un Paese specifico, ma fa l´esempio della Germania. «Fin dalla crisi economica mondiale degli anni Venti - dice al settimanale tedesco Der Spiegel - sappiamo che da una crisi economica può nascere una minaccia incredibile per l´intera società». Ecco il parallelo con la crisi del 1929: «I risultati della Depressione? Furono Adolf Hitler e, indirettamente, la seconda guerra mondiale e Auschwitz». Schaeuble, dunque, sembra preoccupato di un possibile ritorno alla dittatura, anche se si limita ad osservare «che nessuno sa, al momento, quanto sarà dura questa crisi». Secondo l´esponente della Cdu, si tratta comunque di una «svolta storica di cui leggeremo sui libri di storia, così com´è già successo per l´11 settembre del 2001».
l’Unità 5.10.08
Napolitano rilancia: allarme razzismo
di Marcella Ciarnelli
UNA STRETTA DI MANO. Più che formale, calda, affettuosa. Un cenno di saluto mentre l’automobile si allontana, come si fa con un amico che è venuto in visita e torna ai suoi gravosi impegni. Il presidente della Repubblica ha salutato così il Pontefice che ritornava in Vaticano al termine della mattinata al Quirinale. E’ stato un incontro segnato dai capricci del tempo, che ha messo a dura prova il cerimoniale, ma anche da un’amicizia e da una sintonia intellettuale che è stata più che evidente nelle fasi pubbliche della visita che, nel chiuso dello studio del Capo dello Stato, è durata trentacinque minuti. Di più del previsto. A ristorare i due anche qualche bibita. Poi la signora Clio, la moglie del Presidente, è stata fatta entrare nello studio per uno scambio informale di saluto con l’ospite venuto a Palazzo. I temi, nazionali e internazionali sul tappeto, sono molteplici. L’Italia e il mondo si stanno misurando con problemi che rischiano di soffocare il futuro di questa e delle prossime generazioni. E gli inquilini dei «due Colli molto vicini» li hanno affrontati in un clima «di rispetto e di collaborazione reciproca» come ha confermato all’inizio del suo discorso il Capo dello Stato che ha dedicato molte delle sue parole all’emergenza razzismo che è anche conseguenza di «una emergenza educativa» che è «fonte di disprezzo e discriminazione razziale che nulla può giustificare», in Italia come in altri Paesi; alla necessità della solidarietà verso chi è costretto ad emigrare per costruirsi un destino migliore e va accolto ed aiutato; ad un oscuramento complessivo di valori fondamentali che è anche alla base degli eventi che hanno investito l’economia internazionale. «Non vediamo forse perfino negli avvenimenti che stanno scuotendo le fondamenta dello sviluppo mondiale i guasti di una corrosiva caduta dell’etica nell’economia e nella politica?». Ed anche al consolidamento della pace contro ogni rischio di ritorno a contrapposizioni fatali che, Napolitano ha voluto ricordare, è uno degli obbiettivi dell’Unione europea.
«Il valore che ci deve guidare tutti -come ci dicono, con Vostra Santità, l’insegnamento e l’impegno della Chiesa - è il rispetto della dignità umana, in tutte le sue forme e in tutti i luoghi. Questo implica più che mai anche la coscienza e la pratica della solidarietà, cui non possono restare estranee - anche dinanzi alle questioni più complesse, come quella delle immigrazioni verso l’Europa - le responsabilità e le scelte dei governi». Napolitano ha così ricordato che «il rispetto della dignità umana si e’ tradotto nella grande conquista del superamento del razzismo» come ebbe a dire recentemente lo stesso Papa in un discorso da Castel Gandolfo. E’ dunque rispetto ai «fenomeni di oscuramento di valori fondamentali, quello della dignità umana, insieme ad altri, che noi sentiamo di trovarci di fronte, come Ella ha detto, ad una emergenza educativa anche nel nostro paese. Superare quell’emergenza è nostra comune responsabilità».
Di fronte ad una sfida di tale portata, l’Italia non è sola. «Davanti ad un tale cimento l’Italia può contare sulla forza del suo monito e su generosi contributi come quello - sempre di più - dei Movimenti laicali ispirati dal suo messaggio». Sul contributo del credente allo sforzo per il bene comune, Napolitano ha fatto riferimento da laico anche a conclusione del suo discorso: «Un’operosa convergenza di sforzi per il bene comune, così concepito, non offusca il alcun modo ’la distinzione’, da Lei richiamata anche a Parigi, «tra il politico e il religioso. Essa conforta la condizione - da tempo affermatasi in Italia - che il senso della laicità dello Stato, quale si coglie anche nel dettato della nostra Costituzione, abbraccia il riconoscimento della dimensione sociale e pubblica del fatto religioso, implica non solo rispetto della ricerca che muove l’universo dei credenti e ciascuno di essi, ma dialogo. Un dialogo fondato sull’esercizio non dogmatico della ragione, sulla sua naturale attitudine ad interrogarsi e ad aprirsi». Quindi un ricordo dell’insegnamento di San Francesco, patrono d’Italia, che viene ricordato proprio nella giornata in cui avviene la visita del Papa al palazzo la cui costruzione fu voluta da un Papa e che divenne luogo dello Stato, un «palazzo che ha conosciuto le ferite della storia». Hanno applaudito le alte cariche dello stato italiano e vaticano presenti nel salone delle Feste del Quirinale. Alle parole del Papa, a quelle del Pontefice. Le diversità tra le forze politiche, che pure ci sono, sembrano almeno per questi momenti essere state superate. C’è lo scambio dei doni. Una mappa del Vaticano a Napolitano, una scatola cesellata per il Pontefice. Poi arriva il momento dei saluti. Viene ammainata la bandiera del Papa che ha sventolato per un’ora e mezzo sul Torrino quirinalizio. Fino alla prossima visita ufficiale i due protagonisti della giornata si parlarenno in privato, ogni volta che ce ne sarà bisogno.
Il capo dello Stato incontra il Papa e chiede più solidarietà e accoglienza
Anche Fini concorda. Veltroni: il 25 il Pd in piazza anche contro la xenofobia
«Nulla può giustificare il disprezzo e la discriminazione razziale»: il presidente Giorgio Napolitano accoglie al Quirinale il Papa e rilancia l’allarme razzismo, usando proprio le parole pronunciate recentemente da Ratzinger. L’escalation di violenze, pestaggi e discriminazioni preoccupa il capo dello Stato che chiede più solidarietà e accoglienza verso gli immigrati. Il pericolo c’è anche per il presidente della Camera Gianfranco Fini, intervenuto a Milano. E il leader del Pd Walter Veltroni, rispondendo all’appello di intellettuali e personalità democratiche, annuncia che al centro della grande manifestazione del 25 ci sarà anche il no alla xenofobia.
l’Unità 5.10.08
«Pd, il 25 ottobre in piazza anche contro il razzismo»
Molte firme all’appello «È ormai emergenza»
«Il 25 ottobre il Pd sarà in piazza anche contro il razzismo». Lo dice Walter Veltroni che ieri ha risposto con parole preoccupate a un appello di intellettuali, politici esponenti religiosi, dopo gli ultimi episodi di intolleranza. Un clima condannato anche dal presidente della Camera Fini, oltreché dal Pontefice e dal presidente della Repubblica nel loro incontro, mentre in diverse città si sono svolte manifestazioni contro il ritorno di sentimenti razzisti e xenofobi.
«Il pesante clima di intolleranza che si sta diffondendo nel Paese impone a tutti una profonda riflessione», dice il leader del Pd, e «contribuire a salvare l’Italia da questo scenario è un dovere di cui il Partito democratico sente in pieno la responsabilità». La possibilità che il tema irrompesse nell’appuntamento del 25 ottobre era già stata evocata da Veltroni nella riunione della direzione del Pd dell’altro giorno, in cui aveva espresso timori per il clima di xenofobia alimentato dalla Destra. La manifestazione resta centrata sui problemi economici delle famiglie italiane, prezzi, salari bassi, crescita zero, ma lo slogan “Salva l’Italia”, aveva detto Veltroni, riguarda anche i valori. Ieri la lettera firmata tra gli altri da Bonomi, Lerner, Ozpetek, Nando Dalla Chiesa, Scialoja, Livia Turco, Moni Ovadia, Amato, Baliani, Marcella Lucidi, Cristina Comencini, Tullia Zevi, Piero Terracina, Vincenzo Vita, Luigina di Liegro e Amara Lakhous, ha funzionato da acceleratore. «Noi - scrivono i firmatari dell’appello a Veltroni - crediamo che questa sia ormai esplicitamente una delle emergenze di questo paese e che per affrontarla serva una iniziativa civile, politica e culturale tanto più forte perché dal governo non arrivano risposte ma spesso sottovalutazioni e silenzi, questo ci spinge a dire che aderiamo alla manifestazione del 25 indicando questo tema della concreta lotta al razzismo e insieme della necessità di serie politiche per l’integrazione come una delle questioni centrali».
Nella risposta il leader del Pd parla «di un’atmosfera cupa e negativa alimentata da una destra populista e demagogica che si è assunta la grave responsabilità di utilizzare e alimentare strumentalmente la paura degli italiani». «Avverto il rischio - continua - di una diffusione a macchia d’olio di rigurgiti razzisti e xenofobi, una prospettiva intollerabile per tutti quelli che hanno a cuore i valori della libertà, dell’uguaglianza e della giustizia sociale. Per questo mi sembra profondamente giusto che la manifestazione nazionale del 25 ottobre sia anche una grande mobilitazione di protesta contro il dilagare di una degenerazione che - conclude Veltroni - tutta l’Italia civile e democratica vuole respingere con tutte le sue forze».
In effetti la risposta all’escalation di aggressioni a sfondo razzista c’è. Anche se fa rumore il silenzio di Berlusconi. Il capo del governo ieri è tornato a parlare di mercati, rassicurando i risparmiatori italiani, ma non ha detto nulla sul tema al centro dell’incontro tra Napolitano e il Pontefice. Indicativa la reazione di Forza Italia alle parole di Veltroni: «Pur di portare qualche persona in più alla manifestazione del 25 ottobre - afferma Gaetano Quagliariello, vicecapogruppo del Pdl al Senato - sarebbe ormai capace di strumentalizzare pure l’acqua calda».
A livello istituzionale ne ha parlato invece il presidente della Camera Fini: «Sarebbe sbagliato negare che esiste un pericolo razzismo e xenofobia», ha detto alla festa della Libertà di Milano. Fini nega che la cultura razzista sia «di destra», ma ribadisce che serve integrazione e rispetto reciproco tra immigrati e italiani e che «bisogna tenere alta la guardia, perché il tema del razzismo, come dice il Pontefice, impegnerà la politica anche per i prossimi anni».
Intanto ieri da Roma a Caserta sono scesi in piazza a migliaia, immigrati e non, contro il razzismo.
A Roma ventimila persone hanno partecipato al corteo organizzato da varie sigle della sinistra. In testa le comunità africane con in mano le foto dei ragazzi trucidati dal clan dei Casalesi, presente una folta delegazione cinese, segnata dal pestaggio di un loro connazionale a Tor Bella Monaca.
«Roma non è mai stata razzista, però qualcosa è cambiato», ha detto Ji Xin dell’Unione degli studenti cinesi. A Caserta 15mila in corteo, manifestazioni analoghe, ad Ancona, Parma e Milano.
l’Unità 5.10.08
I moniti contro la xenofobia sono stati numerosi. «Alcune forze amplificano paure e insicurezza»
La Chiesa e quel dito puntato sulla politica
di Roberto Monteforte
Fronte comune contro l’emergenza razzismo. Chiesa e Stato lavorino insieme alla formazione dei giovani. Trasmettino valori positivi per contrastare la pericolosa ondata xenofoba. Anche di questo si è discusso ieri al Quirinale, durante la visita di «restituzione» di papa Benedetto XVI al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Giustizia nella distribuzione delle risorse e nelle opportunità di sviluppo di fronte al premere delle diseguaglianze e della povertà, al progredire in determinate regioni di condizioni di guerra e di estrema sofferenza e umiliazione. La pace e la cooperazione tra gli Stati e i popoli da consolidare. Il rispetto della dignità umana. È questo il terreno dell’impegno comune tra Stato e Chiesa richiamati ieri dal capo dello Stato. Con una sottolineatura particolare. Fare fronte alle «nuove e preoccupanti manifestazioni di razzismo». Napolitano fa sue le impegnative parole pronunciate da Benedetto XVI all’Angelus a Castel Gandolfo lo scorso 17 agosto: nulla può giustificare «il disprezzo e la discriminazione razziale». E a questo ha legato il tema tanto caro a papa Ratzinger dell’«emergenza educativa», non tanto da considerare come una tutela della scuola cattolica, quanto piuttosto come capacità di trasmettere alle nuove generazioni valori positivi come quello dell’accoglienza, del dialogo, della solidarietà, dell’attenzione all’altro. Terreni di impegno concreto e di battaglia culturale e politica che vede schierata in prima fila la Chiesa cattolica e le tante realtà e movimenti di credenti e non credenti impegnati nel sociale e nel volontariato a favore degli immigrati. Su quest’opera di formazione delle coscienze e di impegno concreto è la più alta carica dello Stato ad esprimere condivisione ed apprezzamento.
È la convergenza per realizzare il «bene comune». Una convergenza che vuole però dire scelte coerenti. È stato eloquente dalle colonne dell’Osservatore Romano don Vittorio Nozza, il direttore generale della Caritas: «Quando la Chiesa predica i valori della dignità, solidarietà, condivisione tra i popoli, di incontro tra le culture e le religioni, non fa battaglie politiche ma precisa i presupposti sui quali la politica deve costruire». Aggiungendo che la politica deve operare «affinché si determinino cambiamenti nell’opinione pubblica imperante. Invece - ha rilevato - è accaduto che la politica intercetti e manipoli gli umori della gente, finendo per amplificare paure e insicurezze». È una critica precisa e tagliente alle scelte del governo Berlusconi. Come ferme sono state quelle dell’arcivescovo Marchetto, segretario del Pontificio Consiglio dei Migranti prima sugli zingari e poi sulla stretta per i richiedenti asilo e sui ricongiungimenti familiari o dello stesso presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco. Ieri il Papa non le ha riproposte nel discorso ufficiale pronunciato nella sala delle Vetrate. Come neanche ha richiamato quei temi «etici» dal forte impatto politico, come la difesa della vita o della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna. Si è limitato a richiamare la difesa della libertà religiosa da intendere anche nella sua dimensione «pubblica». E a rassicurare. «Missione della Chiesa è contribuire all’edificazione di una società fondata sulla verità e libertà, sul rispetto della vita e della dignità umana, sulla giustizia e sulla solidarietà sociale». «Non si propone - aggiunge - mire di potere. Né pretende privilegi o aspira a posizioni di vantaggio economico e sociale». Chiede che i credenti possano fare la loro parte nella costruzione dell’ordine sociale. Per il resto si offre come sponda positiva alla massima istituzione della Repubblica italiana. Tra i due «colli», Quirinale e Vaticano, c’è intesa. Di più: c’è sintonia. La «questione romana» è archiviata da tempo. Se il «laico» Giorgio Napolitano sottolinea l’intesa sui valori con la Chiesa, la Santa Sede e la stessa Chiesa italiana guardano al presidente della Repubblica come al vero custode del bene comune da perseguire. Come al garante di una visione politica che, come sull’immigrazione, va oltre l’emergenza ed è attenta ai valori della persona umana da tutelare.
Repubblica 5.10.08
Scuola, sindacati uniti: sciopero generale
La Cisl: Gelmini cambi il piano o blocchiamo tutto. Ieri migliaia in piazza
di Mario Reggio
ROMA - Lo sciopero generale della scuola è alle porte. Divisi, rissosi, a volte ambigui, i sindacati della scuola hanno ritrovato l´unità e serrano le fila contro la riforma Gelmini. Dopo la scelta della Cgil di fronteggiare da sola il governo, è stato il segretario generale della Cisl Raffaele Bonanni a sciogliere ieri al riserva: senza un tavolo di confronto si va allo sciopero generale. La discesa in campo della Cisl ha messo in moto l´effetto domino: dopo la Uil anche la Gilda e lo Snals si sono schierati per lo sciopero generale e una grande manifestazione a Roma. A dire il vero, i primi a decidere la linea dura sono stati i Cobas che scenderanno in piazza a Roma il 17 ottobre.
E il ministro Mariastella Gelmini? «Mi auguro che la Cisl rifletta e si possa evitare uno sciopero generale che non sarebbe utile al Paese a fronte dei sondaggi che vedono e registrano il parere positivo della maggioranza dei cittadini - afferma il ministro della Pubblica Istruzione - ci sono delle frange che preferiscono la protesta alla proposta».
Il primo segnale poco incoraggiante per il ministro della Pubblica Istruzione è arrivato ieri da Torino: 30 mila, tra studenti, genitori e insegnanti hanno invaso il centro per dire no al maestro unico, al taglio dei 150 mila posti di lavoro e delle ore di insegnamento.
«Grande soddisfazione» è stata espressa dal segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, per la decisione unitaria dei sindacati di categoria della scuola di ricorrere allo sciopero. «Una scelta opportuna» per il leader della Cgil secondo il quale «è molto positivo che si sia trattato di una decisione unitaria. E´ necessario - ha aggiunto Epifani - reagire alla controriforma della scuola proposta dal ministro Gelmini. C´è una grande aspettativa in questo senso come ha dimostrato la manifestazione di Torino».
Cosa succederà nei prossimi giorni? Martedì 7 ottobre approda in aula il decreto Gelmini sul quale il governo ha annunciato la volontà di porre la fiducia. Nella stessa giornata i segretari dei cinque sindacati della scuola s´incontrano per decidere la data dello sciopero. E dovranno superare uno grosso scoglio: i Cobas hanno prenotato lo sciopero nazionale e la manifestazione a Roma per il 17 ottobre. In base alla legge sugli scioperi nel settore pubblico la moratoria nello stesso settore dura dieci giorni. Quindi confederali e autonomi potrebbero puntare sul 31 ottobre. Tutto si gioca sul filo dei lavori parlamentari. Se il decreto passerà alla Camera dovrà poi affrontare l´aula del Senato ma deve diventare legge entro il 2 novembre. Il governo deciderà di ritirare il decreto? La risposta è chiaramente no. E allo allora potrebbe riaffacciarsi l´ipotesi di uno sciopero per il 17 ottobre, ma non assieme ai Cobas, percorsi dei diversi e diversa piattaforma rivendicativa.
l’Unità 5.10.08
Anche la Cisl dice sì, sarà sciopero generale
L’annuncio di Bonanni accolto bene da Epifani: bisogna reagire alla controriforma Gelmini
di Felicia Masocco
LA LINEA Anche la Cisl rompe gli indugi e va allo sciopero generale della scuola contro la riforma del governo. L’annuncio viene dato da Raffaele Bonanni nel corso della manifestazione che il sindacato di via Po ha tenuto ieri a Roma. «La scuola deve essere
di tutti, il governo deve cambiare programma», dice. Nell’ascoltarlo la folla del palazzetto dello Sport si scalda, applaude, sventola le bandiere. «Bravo, bravo», «Era ora», grida qualcuno dagli spalti. Si è visto chiaramente che il popolo cislino vuole la linea dura. Non solo sulla scuola. Infatti poco dopo la scena si ripete. Il segretario generale parla della politica economica del governo, del taglio delle tasse, dei salari e degli investimenti, di quelle politiche anticicliche che non ci sono e dovrebbero esserci. «Non siamo timidi - dice - siamo cauti con questo governo perché cerchiamo l’accordo. Vogliamo un tavolo di confronto e se le nostre richieste non verranno accolte lo sciopero lo faremo noi e varrà due volte perché sarà uno sciopero sindacale, non politico». «Sarà uno sciopero contro il governo Berlusconi». Scatta l’applauso più forte dell’intera mattinata. Ed è una sorpresa che cambia di segno alla giornata di mobilitazione.
Fino ad allora il leader della Cisl si era speso ad attaccare la Cgil e Guglielmo Epifani. Non li nomina, li chiama «cotanti sindacalai», li accusa di «essere andati con i corporativi» nel caso Alitalia. Di «radicalismo sindacale infantile, sterile e pericoloso» sui contratti. «Mesi e mesi di trattative e poi un sacco di bugie per giustificare il loro diniego». Bugiardi, dunque, danno «calcoli sballati». Bonanni si associa a Confindustria nell’accusare Epifani di rimpiangere la scala mobile, «l’abbiamo seppellita - ha dichiarato - ha prodotto un sacco di guasti. E il nostro Ezio Tarantelli ci ha rimesso la vita». Ha elencato le buone ragioni per fare un accordo, ha elencato i passi avanti degli industriali «che vanno incontro alle richieste sindacali». «Per noi è una buona notizia - ha sottolineato Bonanni - spero lo sia anche per i “cotanti sindacalai”. Ma la Cgil dà i numeri pur di portare avanti una tattica di esasperazione per delegittimare la trattativa». Una Cgil «egocentrica», «narcisista». Ma «noi non ci stiamo allo sfascio - conclude -. Ripensateci». Ce n’è anche per il Pd, «non abbiamo bisogno di badanti», dice riferendosi al tentativo di mediazione di Walter Veltroni.
Una pioggia di accuse, toni pesantissimi solo in parte giustificati dall’enfasi del comizio e dalla volontà di andare a toccare le corde dell’orgoglio identitario della Cisl. Avessero voluto, i cinquemila del palazzetto dello Sport lo avrebbero fatto venir giù con gli applausi. Che ci sono stati, ma timidi. Paradossalmente il pieno consenso a Bonanni arriva quando parla degli scioperi per la scuola e contro le scelte del governo, quando cioè gli argomenti coicidono con quelli del «collega» della Cgil.
Anche sul pubblico impiego. Ed è polemica tra il leader della Cisl e il ministro Renato Brunetta. «Vogliamo un tavolo di confronto - è la richiesta di Bonanni - basta con le pagliacciate e i talk show». Ancora: sull’attacco ai dipendenti pubblici «si comincia con l’ottimo professor Ichino e si finisce con il superlativo professor Brunetta». Al ministero della Pubblica amministrazione non la mandano giù. In serata viene diffusa una nota con cui si esprime «sconcerto, disappunto e amarezza» per le parole del segretario della Cisl. «Gli lasciamo la responsabilità delle sue parole - conclude la nota del portavoce - e gli cediamo volentieri il triste monopolio delle offese, delle invettive e della ricerca del facile applauso». «Non scenderemo mai al suo stesso livello». Insomma, si è aperto un altro fronte.
Sulla scuola (e solo sulla scuola), interviene in serata Guglielmo Epifani che lo sciopero lo aveva annunciato una settimana fa. «Una decisione opportuna - commenta -. È molto positivo che si sia trattato di una scelta unitaria. Bisogna reagire alla controriforma del ministro Gelmini. C’è molta aspettativa delle famiglie, degli studenti e dei lavoratori della scuola». Si schiera la Uil, «in assenza di risposte, ci sarà lo sciopero generale», afferma il segretario generale della scuola, Massimo Di Menna. E la Gilda degli insegnanti ha già individuato la data del 31 ottobre.
l’Unità 5.10.08
Citazioni: «Marx resta sempre Marx»
Marx resta sempre Marx, anche se a citarlo è Giulio Tremonti. Si toglie una soddisfazione Massimo D’Alema quando, davanti ai giovani industriali riuniti a Capri, ricorda il discorso di venerdì del ministro dell’Economia che, parlando della crisi dei mercati finanziari, aveva sottolineato il valore dell’etica in economia e la necessità dello Stato.
In più il ministro dell’Economia aveva citato questa bella frase: «Il denaro non produce magicamente denaro...». Ma non è un’idea frutto del brillante ministro, sempre alle prese con mercati e mercatisti. La citazione è del filosofo di Treviri, il pericoloso comunista Carlo Marx.
Così D’Alema ha potuto fare la rivelazione ai giovani imprenditori che, molto probabilmente, sono a digiuno di Marx e anche di molti altri: «Tremonti parla come Marx», ha detto l’ex ministro degli Esteri, dal palco del convegno di Confindustria, discutendo della crisi della finanza internazionale e delle misure per fronteggiarla.
«Sono d’accordo con Tremonti che, in fondo, ha usato una citazione di Marx. Ma il fatto che lo dica Tremonti mi fa piacere perché, anche se in bocca a Tremonti, Marx resta sempre Marx», ha concluso l’ex ministro degli Esteri. Non è la prima volta che D’Alema e Tremonti duellano a distanza, non sarà nemmeno l’ultima.
Repubblica 5.10.08
E D´Alema provoca Tremonti "Sulla ricchezza parli come Marx"
di r.ma.
L´esponente del Pd: Bruxelles più flessibile di fronte alla crisi. Fini: il deficit-Pil non è un tabù
CAPRI - «Carlo Marx sia pure in bocca a Tremonti, resta Carlo Marx». Massimo D´Alema cita il filosofo tedesco più che il ministro italiano dell´Economia per leggere la crisi finanziaria mondiale. Può farlo senza essere accusato di nostalgia - lui ormai maturo ex comunista - proprio perché a precederlo era stato il giorno prima dalla medesima tribuna (quella del convegno dei Giovani industriali di Capri) Giulio Tremonti, teorico dell´anti-mercatismo più che di un neo-comunismo. Già perché il ministro aveva spiegato che «la finanza non produce ricchezza» e che per uscire dal baratro bisogna tornare al valore dell´economia reale, e forse - hanno supposto in molti - anche al valore del lavoro marxianamente inteso. E allora ha avuto gioco facile l´esponente del Pd: «Ho letto sui giornali che ha detto "il denaro non produce magicamente denaro". E´ una citazione di Carlo Marx. E´ un concetto ampiamente sviluppato nell´ultimo libro del Capitale».
Sorride e si prende anche l´applauso, ma non - è evidente - per via di Carlo Marx. Che - si sa - non ha mai sfondato tra gli industriali.
Convergenze allora tra D´Alema e Tremonti? Dialogo? Difficile dirlo davvero perché i due a Capri avrebbero dovuto fronteggiarsi in diretta invece, per via degli impegni del ministro, va in onda una specie di duello in differita. Per esempio Tremonti non aveva nemmeno accennato alla "violabilità" dei vincoli di Maastricht in questa fase di recessione profonda. Perché il Tremonti, che ora cerca la via di una rinnovata economia sociale di mercato, appare rigorista convinto nel difendere il rispetto dei parametri, a cominciare dal 3% del deficit-Pil. D´altra parte lui il patto "stupido" (questa volta per citare Romano Prodi) l´aveva già combattuto. Ma ora è Massimo D´Alema che di fronte alla crisi dice che ci vorrebbe più flessibilità. Dovrebbe proporla Bruxelles «per una politica di riequilibrio sociale». Insomma più risorse, per via fiscale, a chi non arriva alla fine del mese. D´altra parte, ma questo è Gianfranco Fini che parla da Milano, «non si può considerare un totem il rispetto al centesimo del rapporto tra deficit e Pil». Dialogo?
Repubblica 5.10.08
Sul testamento biologico si segua la Costituzione
di Stefano Rodotà
Rischia di avverarsi la facile previsione di chi, nell´"apertura" delle gerarchie ecclesiastiche ad una legge sul testamento biologico, ha subito visto non il riconoscimento di un diritto della persona, ma una mossa volta proprio a limitare quanto è già garantito dal nostro sistema costituzionale. Alla vigilia del dibattito parlamentare su questo tema caldissimo, il segretario della Cei è intervenuto in modo molto determinato, dettando i contenuti della futura legge. Fa il suo mestiere. Ma sarà il Parlamento capace di fare la sua parte, consapevole che l´unica sua guida sono i principi della Costituzione, non i valori proclamati da qualsiasi fede religiosa o ideologia?
Il segretario della Cei ha detto che la vita è "indisponibile"; che non si può riconoscere un diritto all´autodeterminazione perché "questa è una visione che va contro le radici cristiane della nostra cultura"; che vi è "una condizione insicura sul piano giurisprudenziale". Sono argomenti fondati?
Equivoci pericolosi nascono proprio dall´insistenza su formule come "indisponibilità della vita", quando ad essa si voglia attribuire la specifica portata tecnico-giuridica di limitazione del potere di decisione della persona interessata, andando così oltre la forza simbolica che quell´espressione assume quando la si adopera per manifestare legittimamente una convinzione morale o religiosa. Dal punto di vista tecnico, di indisponibilità della vita si parla correttamente solo per escludere la possibilità di disporre della vita altrui. Ma un vincolo alla libertà di decisione della persona interessata non può essere dedotto da nessuna norma costituzionale. Quando si dice che il riconoscimento e la garanzia dei "diritti inviolabili dell´uomo", di cui parla l´articolo 2 della Costituzione, implicano una indisponibilità della vita, si dà una interpretazione del tutto arbitraria di quell´articolo. Esso va letto nel quadro delle norme costituzionali sulla libertà della persona e sulla salute, che mostrano chiaramente come il diritto fondamentale da tutelare sia proprio quello relativo all´autonomia della persona, che comprende anche quello di disporre della propria vita. Lo dimostrano concretamente molti casi. I più eloquenti sono quelli legati proprio al rifiuto delle cure: una donna, rifiutando l´amputazione di una gamba, ha scelto legitimamente di morire; una recentissima sentenza ha ribadito il diritto dei Testimoni di Geova di rifiutare le trasfusioni di sangue, anche se ciò determina la morte.
La posizione della Cei entra clamorosamente in conflitto con questo dato istituzionale, riconosciuto e consolidato. Si possono certo discutere le modalità secondo le quali il rifiuto di cure può essere manifestato in vista di una incapacità futura. Ma non si può cancellare quel dato considerandolo incompatibile con "le radici cristiane della nostra cultura". Sarebbe gravissimo se il Parlamento seguisse questa impostazione. L´unica incompatibilità da tener presente, discutendo una legge, è quella che riguarda norme e principi costituzionali. Guai se alla Costituzione venisse sostituita qualsiasi tavola di valori ad essa esterna.
La "radice" culturale del principio di autodeterminazione è salda e profonda nei principi costituzionali, espressi nitidamente nell´articolo 32. Qui, dopo aver considerato la salute come diritto fondamentale dell´individuo, si stabilisce che a nessuno può essere imposto un trattamento sanitario se non per legge: e tuttavia "in nessun caso" la stessa legge può violare il limite imposto dal "rispetto della persona umana". È, questa, una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, poiché pone al legislatore un limite invalicabile, più incisivo ancora di quello previsto dall´articolo 13 per la libertà personale, per la quale si ammettono limitazioni sulla base della legge e con provvedimento motivato del giudice. Nell´articolo 32 si va oltre. Quando si giunge al nucleo duro dell´esistenza, alla necessità di rispettare la persona umana in quanto tale, siamo di fronte all´indecidibile, nel senso che nessuna volontà esterna, fosse pure quella coralmente espressa da tutti i cittadini o da un Parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell´interessato.
Da questa ricca trama di principi sono partiti i giudici che, affrontando le drammatiche questioni nate dai casi di Eluana Englaro e di Piergiorgio Welby, hanno delineato le modalità di applicazione di quei principi ai casi concreti, come è dovere d´ogni buon giudice. Nessuna invasione delle competenze del legislatore, dunque. All´orizzonte, invece, sta comparendo una prepotenza del legislatore, che vorrebbe espropriare le persone del diritto di governare liberamente la propria esistenza, vivendola dignitosamente fino al momento finale. Qui è il rischio ricordato all´inizio. Una legge che nelle apparenze riconosce il testamento biologico, ma in sostanza gli nega ogni valore vincolante, poiché lo subordina alla valutazione del medico e esclude che possa riguardare l´idratazione e la nutrizione forzata, che non sarebbero terapie rinunciabili. Questa è una ulteriore forzatura, perché sono in molti a riconoscere ad esse proprio il carattere terapeutico, come aveva fatto in Italia una commissione istituita dal ministro Veronesi. Di fronte alla diversità delle opinioni, in materie tanto delicate e difficili, dovrebbe essere buona regola per il legislatore lasciare gli interessati liberi di decidere secondo i propri convincimenti. Certo, la decisione dev´essere libera da ogni forma di condizionamento. Ma questo si fa astenendosi da pretese autoritarie e mettendo a disposizione di ciascuno servizi sociali adeguati, assistenza e terapie antidolore.
La discussione parlamentare sul testamento biologico metterà alla prova il senso dello Stato delle forze politiche e meriterà il massimo di attenzione dell´opinione pubblica. Ma sarà anche rivelatrice di molte ipocrisie. Si rischia d´essere doppiamente crudeli verso i morenti. Appropriandosi della loro libertà e dignità, da una parte. E, dall´altra, negando le risorse per i servizi ad essi destinati, come sta avvenendo, e annunciando la privatizzazione degli ospedali, senza riflettere sul fatto che proprio lì, nelle strutture private, sono stati chiusi reparti per la terapia del dolore perché economicamente non redditizi.
l’Unità 5.10.08
Legge elettorale, Fini apre «a chi sta fuori dal Parlamento»
Il presidente della Camera a 360 gradi in un dibattito a Milano: «Bisogna continuare a tessere il filo con la sinistra»
di Giuseppe Caruso
«Bisogna provare a tessere ancora il filo». Gianfranco Fini non ha rinunciato alla possibilità di avere un dialogo con l’opposizione ed ha voluto ribadire il suo punto di vista anche ieri pomeriggio, durante un confronto con il direttore del Corriere della Sera, Paolo Mieli, durante la festa del Pdl al Lido di Milano.
«In questa fase» ha spiegato il presidente della Camera «il confronto fra maggioranza e opposizione è molto aspro, ma mi auguro che coloro che guardano al di là del momento contingente abbiano la forza e la capacità politica di avviare e di portare a compimento un confronto in Parlamento sulle riforme. Perché non provare a tessere il filo?»
«Per esempio per quanto riguarda la legge elettorale per le elezioni europee» ha continuato Fini «si potrebbe provare a coinvolgere anche chi è rimasto fuori dal parlamento, attraverso dei tavoli sul modello di quelli fatti con i sindacati. Da queste consultazioni potrebbe venire fuori una bozza di progetto che metta tutti d’accordo».
Il presidente della Camera ha poi affrontato la questione della crisi economica internazionale: «Credo che l’Unione Europea si debba porre il problema di rivedere il patto di stabilità, alla luce di quello che sta succedendo nell’economia globalizzata con le decisioni prese anche dagli Stati Uniti. Questo non significa allargare i cordoni della spesa pubblica. I conti bisogna sempre tenerli sotto controllo. Ma l’economia si riattiva anche con i cordoni della spesa pubblica, questo non è un controsenso. La Bce fa benissimo a tenere fermi i tassi, ma fa altrettanto bene nel rispettare al centesimo il rapporto deficit-Pil? Credo che la Comunità europea debba aiutare di più in questo senso i Paesi membri».
Fini ha sottolineato l’importanza del ruolo delle istituzioni e della politica per arginare i danni e le ricadute della crisi sull’economia reale: «In epoca di globalizzazione, se non ci fossero istituzioni nazionali e sovranazionali e quindi la politica, rischieremmo grosso. In questo senso una certa cultura politica, non solo di destra ma anche cattolica, aveva capito meglio di altri. Il problema è la finanziarizzazione dell’economia. Quando c’è la scissione tra capitale e lavoro, quando l’economia è legata unicamente alla finanza il rischio di tonfo c’è. Dalla crisi è emerso poi che il mercato necessita di regole. Va messo in discussione il dogma del mercato libero. Servono regole e le regole deve darle la politica».
Per finire una tirata di orecchie ai deputati, che secondo Fini dovrebbero «lavorare di più e non arrivare il lunedì mattina e tornare a casa il giovedì sera. Se serve si può arrivare fino al sabato, senza problemi. Da questo punto di vista bisogna dare dei buoni esempi agli elettori».
l’Unità Roma 5.10.08
Musica e parole per il Manifesto
Martedì al circolo degli artisti la serata dedicata alla «cara libertà»
di f.f.
L’INCIPIT di una lettera, o di un appello disperato, sembra il titolo scelto da Il Manifesto per la serata di martedì al Circolo degli artisti. Lo storico quotidiano attraversa infatti una profonda crisi, che i tagli ai finanziamenti per l’editoria voluti da Tremonti aggravano pesantemente. "Libertà" è una parola molto bella e densa di significato, che ultimamente è usata da qualcuno a sproposito, a volte addirittura in palese contraddizione con il suo significato. "Cara" è sinonimo di affetto e dedizione, ma anche di costi poiché, in particolar modo nella società capitalista, la libertà ha anche un prezzo economico, che può diventare molto difficile da sostenere. Fra queste contraddizioni sempre più pressanti si muovono i colleghi del quotidiano alle prese con la crisi che minaccia di essere la più grave e pericolosa. Quella indetta per martedì è dunque una serata di mobilitazione, oltre che di riflessione, per salvare una delle ormai sempre più rade, e quindi ancor più indispensabili, voci di dissenso italiano. «Cara Libertà - parole e musica per il Manifesto» chiama a raccolta le coscienze e le persone dalle 18,00 con una prima parte dedicata alla riflessione e al dibattito sulla libertà d’informazione e sulla tutela dei diritti, con Gabriele Polo, Giancarlo Aresta, Valentino Parlato. Fra gli invitati troviamo i nomi di Piero Sansonetti, Concita De Gregorio, Paolo Serventi Longhi, Vincenzo Vita, Giuseppe Giulietti, Paolo Ferrero, Claudio Fava, Stefano Benni, Pierluigi Sullo, Enrico Pugliese, Giovanna Melandri. In serata la solidarietà si farà invece sentire attraverso le parole e la musica di Acustimantico, Nicola Alesini, Ardecore, Assalti Frontali, Baobab International Orchestra, Francesco Bruno, Edoardo De Angelis , Rocco de Rosa, Canio Lo Guercio, Piccola orchestra la Viola, Tetes de Bois e i musicisti del Circolo Gianni Bosio.
Circolo degli artisti via Casilina,42. Ingresso a sottoscrizione
Corriere della Sera 5.10.08
La riflessione del Nobel Paul Nurse mostra come Charles Darwin e John Milton non siano così lontani. Risposta a Emanuele Severino
Evviva Eraclito
La creazione, un'evoluzione continua L'esistenza è un divenire nella libertà
di Giulio Giorello
Eraclito di Efeso (535 a.C. – 475 a.C.), filosofo presocratico, noto per la teoria del «Panta rei», tutto scorre.
Eraclito sostiene che solo il cambiamento sia reale
La Terra «aprendo il suo fertile grembo diede alla luce in un unico parto innumerevoli creature di forma perfetta, mature, complete di membra». Così il racconto del Genesi si dispiega nei versi del Paradiso perduto di John Milton: sembra, a prima vista, antitetico a quel Vangelo di crudeltà che avrebbe potuto scrivere solo «un cappellano del Diavolo», affascinato dalla «oscura e distruttiva opera della Natura» — per riprendere le parole con cui Charles Darwin definiva se stesso in una lettera del 1856 all'amico Joseph Hooker. Tre anni dopo sarebbe stata pubblicata L'origine delle specie, subito divenuta un bestseller, facendo dell'autore — «un certo signor Darwin, nipote del noto filosofo e poeta Erasmus» — la pietra di paragone e di scandalo per teologi e per scienziati dell'austera Inghilterra vittoriana. L'ultimo tocco doveva aggiungerlo L'origine dell'uomo (1871), ove Darwin scrive: «Ognuno di noi, pur con tutte le sue nobili qualità (…), reca nel suo schema corporeo il marchio indelebile della sua bassa origine».
Come Milton, anche Darwin ebbe modo di frequentare il Christ's College di Cambridge. A questi due celeberrimi figli di quell'istituzione ha dedicato nel 2005 un'appassionata lezione il Nobel Paul Nurse ( Two Views of Creation: Milton and Darwin, pubblicata dal Christ's l'anno successivo), ripresa poi in varie conferenze. A me è capitata l'occasione di sentirne una a Oxford nel febbraio scorso. Ora, sostiene Nurse, il contrasto tra «il creazionista» e «l'evoluzionista» tende a diventare meno netto appena si consideri l'ambiguità del poeta, che ha saputo persino celebrare «la volontà indomabile… e il coraggio di non sottomettersi mai» di Satana il ribelle. Il nemico di Dio e del futuro genere umano si insinua nel sistema solare per portarvi scompiglio, simile a quelle macchie che gli astronomi avevano disvelato «nell'orbe lucente del Sole» grazie al loro «cilindro ottico vetrato». Milton alludeva all'osservazione effettuata da Galileo col suo cannocchiale delle «macchie solari» (1613) — che gli aveva consentito di mandare in pezzi il pregiudizio dell'incorruttibilità dei corpi celesti, ormai ridotto a mera consolazione per uomini che hanno troppa paura di riconoscere se stessi corruttibili e mortali. Quando Eva e Adamo cedono alle lusinghe di Satana, celato nelle spire di un serpente, il loro «peccato originale » sconvolge l'intero Universo. I pianeti sono perturbati nelle loro orbite, la Terra conosce le sue catastrofi, nella vita si insinua la morte. Persino le stelle possono venir distrutte, e «su questa macchia di fango» non c'è da stupirsi che gli esseri umani sperimentino la sofferenza e la dissoluzione del corpo. I figli di Eva avranno, però, «la conoscenza proibita»: l'esperienza della sofferenza che intesse tutta la loro storia, ma anche la scienza che modifica inesorabilmente le loro abitudini quotidiane e che consente di scegliere come plasmare la propria esistenze.
Satana è dunque all'origine dei turbamenti, ma anche delle libertà degli esseri umani. Chi è allora il suo vero cappellano? Mettiamo al posto di Satana il marchio della bassa origine di Homo sapiens e ritroviamo il discorso evoluzionistico — da Charles Darwin fino a Daniel Dennett — circa l'emergenza di sentimenti e codici di condotta, della morale e perfino del diritto, di strumenti e teorie scientifiche. A spiegare la stessa «evoluzione della libertà» nel quadro delle differenti culture umane, scrive Nurse, oggi contribuisce da una parte la sintesi che il secolo scorso ha operato tra evoluzionismo darwiniano, genetica e studio della cellula, quest'ultima intesa come «l'elemento più semplice che esibisca le caratteristiche della vita»; dall'altra la sempre più approfondita conoscenza neurofisiologica dell'animale uomo.
Se Milton oggi rinascesse, non credo affatto che bollerebbe tutto questo come deplorevole «riduzionismo»: lui, che nella sua Areopagitica (1644) era insorto in difesa di Galileo, che aveva avuto l'occasione di visitare, ormai vecchio e cieco, costretto a una sorta di domicilio coatto «per aver osato pensare in astronomia diversamente da quel che pretendevano i suoi censori francescani e domenicani». Quel che unisce Milton e Darwin è la comune insofferenza per i pregiudizi ereditati, per le consuetudini ricevute senza prova critica, per ogni forma di costrizione della ricerca intellettuale. Non manca, in entrambi, l'elogio del conflitto tra opinioni rivali, nella scienza come nella politica, poiché — come scriveva Milton — tutto ciò provoca «molta discussione, molti interventi scritti, una pletora di opinioni», e «l'opinione non è altro che la conoscenza nel suo farsi».
Non è un caso che, al di là delle differenze dottrinali di superficie, questo comune sentimento tra l'autore del Paradiso perduto e quello dell'Origine delle specie venga enfatizzato da un personaggio come sir Paul Nurse. Insieme a Leland Hartwell e Tim Hunt, questo biochimico britannico è stato insignito nel 2001 del Nobel per le sue ricerche sugli elementi regolatori del ciclo cellulare che, per così dire, decidono quando è il momento di copiare il Dna controllandone la corretta ripartizione fra le cellule figlie nella mitosi. Non diversamente dal collega Hunt, Nurse ama sottolineare come la ricerca con le cellule staminali embrionali costituisca un'opportunità «contro alcune delle malattie più gravi che colpiscono l'uomo, come quelle neurodegenerative». L'insofferenza nei confronti di vincoli giuridici, ispirati a concezioni arcaiche di cosa conti veramente come «essere umano», non diventa in Nurse facile ottimismo o tracotante scientismo. Di fronte a spietate malattie, non bisogna nutrire speranze eccessive, ma sperimentare a lungo e con pazienza, imparando dai propri errori. Per quanto poi riguarda l'intera impresa scientifica nel suo complesso, Nurse mette in guardia circa estrapolazioni a buon mercato, «specie quando si toccano argomenti così delicati come quello dell'origine», sia essa dell'intelligenza umana, della vita, o magari dell'Universo intero. Lo dice lui, che nelle pagine web ufficiali dei Nobel ha fatto aggiungere nel febbraio scorso che «la sua personale origine» non era quella che aveva fino a quel momento creduto: aveva scoperto che la sua mamma ufficiale era in realtà sua nonna, e che la vera genitrice era una figlia di quella signora, rimasta incinta giovanissima e che per anni lui aveva considerato come «una sorella maggiore».
Anche questo piccolo aneddoto mostra come non si debba aver paura della verità, come non ne avevano Milton o Darwin, l'uno leggendo a suo modo la Bibbia, l'altro il «gran libro della natura». Potrà anche darsi che entrambe le due narrazioni siano espressioni differenti di uno stesso atteggiamento che privilegia il divenire sull'essere (come ha sostenuto Emanuele Severino sul Corriere di venerdì 26 settembre). Quel che mi pare rilevante è che entrambi, l'uno in versi stupendi l'altro in una prosa scientifica che è un modello di chiarezza e indipendenza di giudizio, abbiano saputo esprimere la natura processuale della realtà. Viva, dunque, Eraclito — o, magari, Hegel o Whitehead? Direi di sì, ma con una precisazione. Non c'è Logos che regga o spieghi il divenire, né una Legge che sovrasti ogni cosa; piuttosto, c'è il gioco dell'evoluzione, rispetto al quale la ragione o meglio le ragioni sono prodotti contingenti. È in questa contingenza che si radica la nostra stessa libertà. Dobbiamo averne paura? Dobbiamo rimediare con una logica dell'essere? Credo proprio di no.
Corriere della Sera 5.10.08
Parla l'autore libanese di «Hakawati»: un confronto tra Oriente e Occidente in stile «Mille e una notte»
Multiculturalismo, un'invenzione
Rabih Alameddine: ebrei e palestinesi sono uguali. Per questo si odiano
di Livia Manera
Mi guardo attorno e vedo lo stesso cibo, la stessa musica, le stesse storie
In una casa di Beirut, in una stanza di un appartamento di gente agiata, un nonno armeno arrivato tanti anni prima dalla città turca di Urfa, guarda col nipotino una carta del Medio Oriente e puntando il dito su Hebron, spiega: «Questa ora è la Tomba dei Patriarchi, dove i figli di Sara stanno ancora tentando di scacciare i figli di Agar». E siccome il dito indica la Giudea, il nipote chiede: «Raccontami la storia di Abramo che sacrifica Ismaele sulla montagna». Ma il nonno, che è stato cantore di storie di professione, si rifiuta. «È trita e ritrita» protesta. «Persino noiosa... e zeppa di cliché. Una storia deve incantare». E un libro fatto di mille storie, nell'opinione di Rabih Alameddine, l'autore di Hakawati. Il cantore di storie, che la Bompiani sta per pubblicare nella traduzione di Marina Rotondo e Francesco Nitti, deve incantare almeno altrettante volte. E provocare.
Lo incontro nell'ultimo giorno di Ramadan, ma Rabih Alameddine non digiuna. Beve birra, invece, e mangia noccioline, prima di andare a celebrare l'uscita internazionale del suo romanzo, in una Beirut che si prepara a due giorni di festa facendo esplodere petardi, come se non avesse avuto già abbastanza bombe. Come Osama al-Kharrat, il protagonista del suo romanzo che si chiama così «perché Osama è un bellissimo nome che significa "colui che è destinato ad alti scopi", e non vorrei che d'ora in poi fosse riservato ai cani», Alameddine è druso di nascita e ateo di vocazione. Come lui è libanese ma è anche americano. Solo che a differenza del nonno di Osama, quello di Rabih era un medico che ha fatto nascere re Hussein di Giordania. Ed è per questo che lui è nato ad Amman.
La storia che Alameddine sta raccontando di sé è quella di un ragazzo ansioso di non deludere i genitori, che ha studiato a Los Angeles ingegneria ed economia, ha lavorato in Kuwait, è scappato dopo pochi mesi in Brasile, e ha finito per sistemarsi a San Francisco, dove si è messo a dipingere con successo ma senza convinzione, e finalmente a scrivere: tre romanzi, prima di questo volume di settecentocinquanta pagine che attinge ai miti dell'antichità classica e al folclore mediorientale. Mentre parliamo, mostra un tatuaggio sul polpaccio sinistro: è la traduzione giapponese di Hakawati. «Significa cantastorie », sorride. «"Haki" in libanese vuol dire "conversare". Come dire che in Libano l'atto di conversare e quello di raccontare storie sono la stessa cosa».
Perché improvvisamente il mondo occidentale concentra la sua attenzione su un libro come Hakawati?
In parte perché a scoprirlo è stata Nicole Aragi, la più quotata talent scout dell'universo letterario americano, che prima di Alameddine ha fatto conoscere autori come Nathan Englander, Monica Ali, Junot Diaz e Jonathan Safran Foer (lei stessa, anglo-libanese). Ma soprattutto perché in un mondo che guarda sempre più al Medio Oriente come alla culla del terrorismo e poco altro, un libro come Hakawati è una provocazione ad allargare i propri orizzonti: un romanzo che attingendo all'opera di Ovidio e di Omero, alle Mille e una Notte e al Corano, all'Antico Testamento e ai miti babilonesi, mette a confronto una cultura vastissima e stratificata con la storia del Libano degli ultimi cinquant'anni. La sua vita spensierata, la sua vita dissipata, la guerra dei Sei Giorni e la guerra civile, le bombe, i rapimenti, i concorsi di bellezza e gli assassinii. «Il Libano è un Paese tollerante e allo stesso tempo ingiusto», dice Alameddine senza giri di parole. «È stato capace di accogliere e assimilare gli armeni perché erano cristiani, ma ha discriminato i palestinesi musulmani con la scusa che non erano venuti per restare. È anche un Paese governato da gente che dovrebbe essere in galera per crimini di guerra. Ma la sua salvezza è la sua cultura. E il suo futuro è nell'istruzione ».
Solo che per tenere insieme una cultura così ricca di storie ci vuole una cornice. E la cornice che Alameddine ha scelto per rielaborare le gesta di Fatima e di Abramo, di Isacco e di Ismaele e del principe Beybars, è il ritorno del suo alter ego Osama al-Kharrat nella Beirut del dopo 11 settembre, dopo molti anni passati a Los Angeles. Il padre di Osama sta morendo, e al capezzale la famiglia soffre, scherza, spettegola. Osama ricorda il matrimonio di una sorella impetuosa e la morte di un amabile zio che trova la resistenza palestinese «deliziosamente melodrammatica»; descrive la madre come una donna «che guidava la Jaguar come un guerriero », e la zia Wasila come colei che «era per noi ciò che Israele era per il mondo arabo: l'elemento che affratellava tutti nell'odio». La struttura che usa Alameddine è quella del racconto speculare: in un paragrafo il padre di Osama, ricco venditore d'auto, inizia in un letto d'ospedale la sua discesa nella morte. In quello successivo la schiava Fatima inizia la sua discesa agli inferi alla ricerca della mano che un demone le ha tagliato. Ma sono specchi distorti, quelli che usa Alameddine: mentre il padre soccombe lentamente, la bella schiava trionfa sui jinn, i serpenti e gli scorpioni. In sostanza, è come se questo scrittore torrenziale avesse voluto mettere tutta la sua malizia, il suo senso dell'umorismo e la sua cultura enciclopedica al servizio di ciò di cui è profondamente e polemicamente convinto: che non esiste una società multiculturale in Medio Oriente. «Mi guardo attorno e vedo solo lo stesso popolo», dice. «Con variazioni minime, a volte infinitesimali, delle stesse storie. O delle stesse ricette. Ditemi dov'è la differenza! Uno va a Milano, o a New York, e vede tante razze diverse. Ma questi sono tutti uguali. È uguale il loro cibo, è uguale la loro musica... guardate i palestinesi che hanno dovuto lasciare le proprie case e rifugiarsi in Libano: si comportano esattamente come gli ebrei della diaspora. Per questo si ammazzano: perché sono uguali. La Pepsi non odia la Seven Up, odia la Coca-Cola».
Quell'odio Alameddine lo racconta attraverso la propria confusione e le proprie esperienze prestate a Osama: come quel lunedì di giugno del '67, quando a scuola la preside disse ai bambini di preparare le loro cose in fretta perché i genitori stavano venendo a prenderli. La radio che gridava: «Il perfido nemico ha attaccato il valoroso esercito arabo». Gli amici ebrei che abbandonavano Beirut senza salutare. E il Libano della tolleranza che si trasformava nel Libano della paura.
Corriere della Sera 5.10.08
Antologie «Italics» a Palazzo Grassi
Naufragio pilotato
di Giorgio Cortenova
Già il titolo è allarmante: Italics richiama per insopprimibili assonanze
Titanic, e non è un buon preludio immaginare che, mentre Francesco Bonami strimpella, la nave affonda. Le cose non vanno meglio per quanto riguarda il sottotitolo,
Arte italiana tra tradiz ione e rivoluzione 1968-2008. Chissà che cosa ci si aspetta! Invece no, perché Bonami è rimasto legato a schemi ormai logori e non si è accorto che è meglio essere ciechi ma veggenti come l'antico Omero, invece che vederci male e riciclare vecchie lenti spacciandole per nuove.
E' veggente anche l'arte, quando è autentica; ed è rivoluzionaria sempre, quando si nutre di poesia, emozione, autenticità. Perciò, con la nave, non affonda l'arte italiana, ma l'idea che della stessa si vuole trasmettere, tirata per la giacca a far da «testimonial » a strategie di mercato e di private soddisfazioni italo-francesi.
Bonami ha raccolto oltre 250 opere di 106 artisti italiani. Dice che contano solo le opere. E si stupisce che qualcuno, ad esempio quel «nessuno » di Kounellis, non abbia voluto lasciargli esporre le sue Scarpette d'oro in santa pace: Ulisse e Nessuno sono in realtà la stessa persona e sanno da sempre che a volte l'assenza vale più della presenza.
Ma è piuttosto in relazione all'idea, infantile, e agli artisti presenti che Bonami commette veri e propri disastri critici. Prendiamo Emilio Vedova: il «curator» confessa di avere esposto una sua opera malgrado l'artista — parole sue — non gli vada proprio a garbo, e solo perché la mostra è allestita a Venezia. Si tratta insomma di opportunità geo-politiche, come nel football. Così tutto finisce nel pallone.
La mostra di Bonami è grigia, triste, dimessa. E' inoltre pretestuosa e millanta coraggio senza metterci cuore e ardimento necessari. Contrappone tradizione a rivoluzione, ma non si accorge che spesso la seconda nasce dalla prima e non in rottura con la stessa. Per essere spicci, lo sanno tutti che esiste una tradizione del moderno e si sta già consumando quella del post-moderno. A Palazzo Grassi ci sono opere belle e meno, distribuite nelle sale secondo una logica semplicistica di assonanze-dissonanze, armonie-disarmonie. Il problema è che se la critica è morta, anche i curatori non devono sentirsi molto bene.
Bonami, ad esempio, soffre di vuoti storici. La sua «idea» prende le mosse dal '68, ma indugia nel retroterra degli anni Sessanta, si trascina dietro Schifano e Festa da un lato, Tadini e Adami dall'altro: per lui sono campionature di «tradizione » da contrapporre ai campioni della «rivoluzione », a Zorio, Merz, Penone. Su Agnetti, invece, è calato un ingiusto silenzio. Per non dire della «pittura analitica», che negli anni Sett anta è stata un'esperienza centrale.
Ma dove sta l'anticonformismo, se poi si espongono i lavori di Baj e Rotella, dei maestri «poveristi» targati Celant e di alcuni campioni della scuderia Abo (Paladino escluso, e si sa perché)? Coraggioso sarebbe stato lasciarne a casa qualcuno in più, per fare posto a Turcato, Cremonini, Tornabuoni, Calzolari, per fare solo qualche esempio. Annigoni e Clerici da un lato, e Guttuso dal-l'altro, non sono scelte coraggiose, ma solo uno specchietto per le allodole. Ma è noto che «il coraggio uno non se lo può dare». In realtà Bonami è un curator protetto da buoni protettori. Il resto non è Tuttofuoco, ma tutto fumo. E in questo la mostra è davvero «italiana».
ITALICS Venezia, Palazzo Grassi, sino al 22 marzo. Tel. 041/2401345 Luciano Fabro: «L'Italia d'oro» (1971)
Corriere della Sera Salute 5.10.08
Prostituzione Le motivazioni, secondo il sessuologo
Sesso, quelli che preferiscono pagare
Perché si cercano rapporti mercenari
di Cesare Capone
«Frequentare prostitute equivale alla masturbazione, è un mediocre piacere e una lezione di antisessualità» Parole di Rinaldo Pellegrini, pioniere della sessuologia, un secolo fa
Si accavallano proposte (e multe) per arginare il fenomeno prostituzione, ma l'attenzione, si sposta sugli «acquirenti»...
Secondo il Dipartimento delle pari opportunità della presidenza del Consiglio, sono nove milioni gli italiani che frequentano le settantamila prostitute (più della metà straniere) presenti in Italia. Ma chi sono tutti questi maschi che alimentano il mercato del sesso e che in alcune città (Verona, Roma, Milano, Brescia) già rischiano di pagare multe salate se trovati a «contrattare», misura che per altro si estenderà a tutto il Paese se passerà il disegno di legge della ministra Carfagna? Le indagini più attendibili indicano che, in Italia, i clienti delle prostitute sono soprattutto single; professionisti, imprenditori, impiegati sono le classi sociali che ricorrono più di frequentemente al sesso a pagamento e, dall'adolescenza alla tarda maturità, tutte le classi di età sono ben rappresentate e l'età media si attesta intorno ai 35 anni.
Emmanuele Jannini, docente di sessuologia medica all'università dell'Aquila, che si è occupato in modo particolare della questione, chiarisce: «Nella maggior parte dei casi, il cliente delle prostitute è una persona normale, integrata nella società. Non è una categoria a sé stante, il cliente tipo non esiste perché diversi sono i motivi e i comportamenti dell'uomo nei confronti della donna "che si vende". C'è però un denominatore comune: la prostituzione è una valvola di sfogo molto più genitale che erotica, la comoda scorciatoia che permette di ottenere subito un rapporto sessuale senza complicazioni, senza attese».
La prostituzione, prosegue Jannini, non è sesso senza amore: è scambio di sesso con denaro, una transazione economica che avviene fra due soggetti, la donna che offre il proprio corpo e l'uomo che lo prende in affitto per brevissimo tempo. Una distinzione comunque va fatta fra cliente occasionale e cliente abituale.
Secondo Jannini, bisogna distinguere tra chi occasionalmente si rivolge a una prostituta (per noia, per curiosità, per una scorribanda con amici, per avere una compagnia femminile durante un weekend, un viaggio di affari; per uno stato temporaneo di depressione o di euforia da alcol o da droga) e il cliente abituale.
Chi ricorre a rapporti mercenari in maniera continuativa può rientrare in due sole grandi categorie. Alla prima appartengono adolescenti troppo inesperti per avere successo con coetanee; oppure uomini variamente disabili e anziani. Molto più interessante per lo psicologo è però l'altra categoria: quella di chi frequenta abitualmente le prostitute perché spinto da motivazioni interiori: forte inibizione dinanzi al problema del corteggiamento; desiderio di cambiare continuamente donna, soddisfatto prendendo la via più spiccia; insoddisfazione nel sesso coniugale; solitudine affettiva che induce a frequentare le prostitute per avere compagnia femminile prima che rapporti sessuali. Contrariamente a quanto comunemente si pensa, tra i clienti delle prostitute le persone con perversioni (parafilie) come masochismo, sadismo, feticismo sono scarsamente rappresentate.
Chissà a quale tipo di cliente sarebbero più adatti i corsi di «rieducazione sentimentale » proposti dal Partito democratico romano per tutti gli uomini colti in flagranza di reato sulle strade del sesso a pagamento?
Corriere della Sera Salute 5.10.08
L'infettivologo. L'aumento delle malattie veneree
di R.Cor.
Aumento delle malattie veneree, sifilide in testa.
Ma anche Hiv da ceppi non presenti prima in Italia. Sulle strade, come tra le mura domestiche, le malattie sessualmente trasmissibili viaggiano che è un piacere. Lo conferma Massimo Galli, infettivologo all'università di Milano. I nuovi ceppi di Hiv in prostitute che arrivano da zone dove la diffusione del virus è bassa, però, farebbe pensare a un contagio da parte di clienti dediti magari al turismo sessuale. «Bisogna ripartire dall'educazione dei giovani — sottolinea Galli, che segnala un nuovo fenomeno. «Tra gli omosessuali — dice — si sta affacciando una leva molto meno attenta rispetto al passato. Spesso nei rapporti con uomini più anziani non si usa il preservativo per un equivoco: il giovane pensa che l'altro non lo chieda perché sano. L'anziano malato giustifica se stesso, pensando che il giovane, comunque, sia infetto».
Repubblica Genova 5.10.08
Lo psichiatra Romolo Rossi e la legge Basaglia: "Più attenzione e meno ipocrisia"
"Non disagio, la mente è malata ma la violenza si può curare"
di Wanda Valli
Il messaggio di Basaglia è stato inteso molto male, cambiare i manicomi, trasformarli, non equivaleva a dire che i matti non esistessero più. Lo scopo della legge 180 era un altro
Bisogna avere il coraggio di affrontare cose del mondo che sono evidenti, che non si possono negare, e, quindi, rifiutare Che vada bene o no, il mondo è così
La malattia della mente che porta a uccidere, che si scatena contro chi, inconsapevole, scatena nell´altro paure, dà forza ai suoi demoni silenti solo grazie ai farmaci, alle cure. E´ successo pochi giorni fa a un sottufficiale di polizia. Era stato chiamato dai vigili urbani per effettuare un ricovero coatto, consentito dalla legge: quel malato l´ha colpito con una coltellata. Una sola, fatale. E, venerdì notte, un uomo è morto bruciato nella casa in cui viveva con il compagno, che si auto accusa, poi racconta storie tutte da verificare. Entrambi erano in cura presso i servizi di igiene mentale. Così torna la paura, torna il dibattito sulla legge 180, la legge Basaglia - Orsini, che ha tolto l´orrore delle cure in manicomi - lager, ha ridato al malato la dignità di persona. I matti non esistono, è stata una delle semplificazioni del messaggio di Basaglia. Romolo Rossi, psichiatra e psicoanalista, ragiona con "Repubblica" sulle paure e sulla legge, spiega che la malattia mentale esiste eccome, che chiamarla "disagio" è un´ipocrisia, chiarisce dove e perché Franco Basaglia e Bruno Orsini, psichiatra genovese che quella legge l´ha materialmente scritta, sono stati fraintesi.
Professor Rossi, i "matti", per usare un termine non politicamente corretto, esistono o no?
«La malattia mentale c´è, eccome, non è un disagio, chiamarla così è un´ipocrisia. Io posso provare disagio in determinate situazioni, la malattia della mente è altro, è un qualcosa che si sviluppa in tre dimensioni. La prima biologica, la seconda psicologica, la terza sociologica».
Il professor Basaglia, con la legge 180, diceva, in sostanza, che i matti non esistono se non per la società che vuole eliminare un problema, creando una categoria, e chiudendola nei manicomi. Ha ancora ragione?
«Il messaggio di Basaglia, nella considerazione generale, è stato molto male inteso. Cambiare i manicomi, trasformarli, non equivaleva a dire che i matti non esistono, ma solo che certe situazioni accentuano questa malattia. Lo scopo della legge 180 era un altro».
Quale, professor Rossi?
«Bisognava dare alla malattia mentale la dignità di ogni altra, inserirla nei problemi di salute che capitano a noi individui».
I casi recenti, il poliziotto ucciso, l´uomo morto carbonizzato, fanno pensare, però, a un male di vivere che resta così, che non si può guarire.
«Sostenere che una malattia mentale non guarisca mai non è corretto. Come in tutte le altre specialità della medicina, alcune forme possono guarire, altre vanno tenute sotto controllo sempre e per sempre, come capita per il diabete, o per l´anemia mediterranea».
Facciamo un esempio: può migliorare un oligofrenico, chi nasce con il cervello compromesso?
«Esistono diverse forme di malattia psichica, un oligofrenico ha una danno costituzionale, genetico, ma si può aiutare, cercare di farlo vivere bene, tra l´altro è uno dei malati più tranquilli».
I manicomi sono stati chiusi, ma negli ospedali psichiatrici sopravvivono piccoli reparti per i malati violenti, pericolosi a se stesi e agli altri.
«In genere una persona con problemi psichici diventa violenta a seconda del modo in cui viene trattata. Esistono sempre cure».
La legge prevede che un malato di mente si possa ricoverare solo se lo vuole, se firma. Accade raramente e, spesso, sono drammi per le famiglie che li accudiscono. Come si può intervenire?
«Esiste il Tso, il trattamento sanitario obbligatorio, si può prolungare per sette giorni, così stabilisce la legge. Del resto, e torniamo al perché è nata la 180, il principio ispiratore generale era favorire il reinserimento dei malati nel contesto anche familiare».
Professor Rossi, tragedia come quelle accadute la scorsa notte o la settimana scorsa, dovute al male della mente, si possono evitare?
«In una certa misura, con un sistema complesso di cure e sorveglianza. In altri casi, invece, no. Sono i più pericolosi, perché nessuno li conosce, toccano persone chiuse nel loro male, che non comunicano fra loro».
In questi casi, dunque, anche la medicina si arrende?
«Bisogna avere il coraggio di affrontare cose del mondo che sono evidenti, che non si possono negare, e, quindi, rifiutare. Che vada bene o no, il mondo è così».
l'Unità 5.10.08
Marcegaglia e le altre
di Furio Colombo
Marcegaglia, la signora che presiede l’Associazione degli industriali italiani, è una dirigente inflessibile. Fra poche ore potrebbe crollare la finanza del mondo ma lei non si distrae, tiene lo sguardo fisso sul punto «nuovo modo di rinnovare i contratti da lavoro in Italia per sbloccare lo sviluppo del Paese». La missione sembra piccola rispetto agli enormi problemi del momento. In realtà, così come lo vuole con perizia strategica il grosso dei suoi associati, porta l’Italia a fare, sia pure con deplorevole ritardo, ciò che è avvenuto in America ai tempi di Reagan: isolare il lavoro dipendente, umiliare i sindacati con il progetto di accantonarli, o di cooptarli con la strategia del «merito», della «produttività», della «competitività».
Ma in tutti questi bei progetti chi lavora con rischio e fatica, non c’entra niente, non può farci niente. Niente di tutto ciò dipende dai singoli lavoratori o da tutta la mano d’opera di un impresa. Però le tre parole, nate e poi risuscitate in America dalla celebre «scuola di Chicago» (il grande consigliere economico di Pinochet) e cresciute col reaganismo, suonano «moderne», fanno strage di consensi anche a sinistra (quante tesine vi hanno dedicato i giovani rampanti del Pd) e sono diventate luoghi comuni sia del liberismo che del riformismo in cerca di buona reputazione.
Ho letto della appassionata difesa del lavoro da parte di Epifani, il più competente e il meno populista, dunque il più moderno leader sindacale, in Italia, oggi (l’Unità, 3 ottobre). Infatti non subisce il fascino di parole vuote per il lavoro, che in America hanno portato all’iperfinanziarizzazione delle aziende e al crollo che adesso lascia tutti col cuore in gola. Tutti, salvo Marcegaglia e Berlusconi.
Berlusconi ha di fronte la montagna sconosciuta di detriti finanziari del mondo, non si sa quanti salvabili e quanti marci, non si sa quanti italiani e quanto importanti o, al contrario, quanti di questi debiti inesigibili siano, con discrezione non notata, diventati italiani e quanta Lehman Brothers ci sia nella filiale sotto casa, dove il direttore simpatico e rampante accostava il risparmiatore col gruzzoletto per fare proposte «interessanti». Berlusconi punta il dito come faceva a Napoli di fronte alla spazzatura e proclama: «tranquilli, ci penso io». Fa credere che anche per i prodotti tossici della finanza ci sarà un Castel Volturno, con i suoi italiani disperati e con i suoi immigrati disperati, disposti a lasciarsi portare in casa quest’altra spazzatura da nascondere.
Quanto alla Marcegaglia, donna giovane e non incolta, ci aspettavamo un soprassalto. Ovvero, per la prima volta in Confindustria, poteva accadere che finalmente qualcuno, magari perché donna, venisse avanti con le due cose che non sono state mai fatte: dire che cosa l’associazione degli imprenditori può fare per il Paese, invece di chiedere continuamente al Paese che cosa può fare, anzi deve fare per gli imprenditori.
E capire e dire ai propri consociati che la vecchia sceneggiata, comunisti cattivi contro liberisti buoni, Peppone contro Don Camillo è davvero finita, che l’incubo della finanziarizzazione tossica riporta attenzione e prestigio intorno all’impresa. Quell’incubo dice che - invece che mettersi in mano alle banche - è meglio lavorare, produrre, esportare. Ma per farlo ci vuole ricerca (qualcosa che nessuno fa e nessuno promette di fare in Italia) e un idea del tempo e del mondo. E ci vogliono lavoratori, ma non come fannulloni da rimettere al loro posto di ubbidienti subordinati che costano sempre troppo.
Chi «fa impresa» come si dice ai convegni di Confindustria con un tono ispirato, quasi religioso, come se si trattasse di prendere i voti, chi «fa impresa» sa che l’impresa è fatta di buon lavoro. Sa anche che il buon lavoro comincia come e dove l’azienda si identifica, quando si esprime con i suoi leader, nel modo in cui sa scegliere i suoi dirigenti. E sa che non è il conteggio dei minuti per andare in bagno dei dipendenti che assicura il buon lavoro ma un clima di lealtà reciproca che tiene conto del resto del mondo: quanto costa il lavoro a me imprenditore; quanto costa un minimo di dignità della vita a te che lavori.
Questa strada c’era, ed era modernissima, ai tempi di Adriano Olivetti in Italia, nelle imprese di David Rockefeller in America, dove ogni persona era una persona dall’inizio del lavoro fino ai livelli manageriali. Adesso, in questa Italia in ritardo, prevale il modello Thatcher-Reagan che era già vecchio e fallito, quando è stato riesumato dal prima della Depressione del 1929 e che, infatti, ci sta portando a un’altra depressione: distanza, diffidenza, delusione, sospetto, solitudine, tutte condizioni pessime per costruire il futuro del lavoro e dunque delle imprese.
Marcegaglia sta dicendo che preferisce che i lavoratori si presentino ad uno ad uno, per fare contratti legati al merito, alla produttività, cui segue l’eterna invocazione «per tornare a essere competitivi». Ma perché fingere di non sapere che la competitività d’impresa dipende dall’impresa, perché dipende dalla guida, dal realismo ma anche dalla visione; che la produttività è il compito e il capolavoro del manager, perché è il frutto della buona organizzazione; che il merito si misura soltanto dove si vede, ovvero se chi lavora è messo nelle condizioni psicologicamente sicure e fisicamente protette in cui può dare e mostrare (mostrare a chi? si potrebbe chiedere oggi) il meglio delle proprie capacità. Qualcuno vuole il meglio da un precario, oppure soltanto un tot di ore e un tot intercambiabile di fatica?
Ho fatto parte della vita aziendale del tipo rappresentato dalla Marcegaglia. E so che l’imprenditore si presenta a qualunque tavolo scortato da buoni avvocati, esperti fiscalisti, e dai più abili esecutori di tagli sui salari, di solito camuffati con il gentile titolo di responsabili delle risorse umane.
Il lavoratore invece - ci dice la Marcegaglia - deve presentarsi da solo e togliere di mezzo i sindacati. Che mercato è? Un simile squilibrio non ha mai generato civiltà. Questo sta dicendo Epifani. Quando insiste e tiene duro, non boicotta l’impresa. Propone il lavoro dignitoso, psicologicamente alla pari, che è parte essenziale dell’impresa.
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Ma ecco che arriva sulla scena l’altra nuova dirigente di Confindustria, Federica Guidi, figlia di, Presidente dei Giovani imprenditori. Lei ha una visione del mondo. Ma lo vede da una prospettiva retrò in cui però invoca il retrò come futuro. Strano per una donna giovane, passata per buone scuole. Ma ecco quello che ha da dire, mentre i giovani industriali, tutti figli di anziani e robusti imprenditori della precedente generazione, si preparano, come i loro papà, a far festa al governo, a Berlusconi, a Tremonti, nel loro convegno di Capri. «Qui c’è qualcuno che continua a guardare al vecchio, che resta ancorato a schemi ormai passati, che nemmeno adesso, nel mezzo del crac finanziario che sta mettendo a dura prova il mondo, si rende conto di come quegli schemi siano del tutto inadeguati ad affrontare cambiamenti rapidissimi e a volte drammatici». (Corriere della Sera, 2 ottobre).Santo cielo, ma davvero Federica Guidi pensa che Lehman Brothers, la banca che lo scorso Natale aveva pagato ai suoi top manager “bonus” (premi individuali) tra i cento e i duecento milioni di dollari, sia inciampata e caduta e scomparsa a causa della irresponsabile resistenza del sindacato dei fattorini e dei ragazzi che distribuiscono la posta ai piani bassi dell’azienda?
Non le ha raccontato nessuno che, nel Paese di Reagan e dei due Bush, una volta spezzato, troncato e poi gradatamente escluso da ogni partecipazione il sindacato, una volta reso il lavoro e anche la manodopera più specializzata una variabile di mercato di ultimo livello, un po' sotto la scelta e l’acquisto del materiale da ufficio, moltissime aziende si sono trasformate, come New Orleans, in avamposti abbandonati a raid, accorpamenti, merger, svendite delle divisioni più remunerative e preziose, perdita deliberata di personale specializzato, mentre calava l’originalità e desiderabilità dei prodotti, diminuivano le esportazioni e dalle finestre senza vetri dei piani alti passava il vento di uragani finanziari che si sta portando via l’intero management americano di generali senza esercito?
Dice ancora al Corriere la Guidi: «Persino in momenti di crescita l’Italia rimane ferma al palo». Quando, dove, quale azienda è stata bloccata dagli operai (che in Italia muoiono anche in tre al giorno, mentre lavorano, lavorano, lavorano di giorno e di notte)? Quando nell’Italia della Thyssen-Krupp (al processo i sindacati sono stati autorizzati dal giudice a costituirsi parte civile)? Quando, in questo Paese, prima di questa crisi mondiale che non ha niente di sindacale, un’azienda è rimasta al palo per colpa dei lavoratori, invece che per la responsabilità di un pessimo management?
Possibile che la giovane Guidi, Presidente dei Giovani imprenditori, non si sia accorta di suo, o non sia stata avvertita dai colleghi che stanno appena arrivando, come lei, a sostituire i padri (c’è da essere orgogliosi: sono tutti al convegno di Capri invece che al “Billionaire“) che la Fiat ha avuto una buona ripresa, che ha fatto notizia nel mondo, non per avere finalmente umiliato il lavoro, ma per avere ritrovato un management adeguato, nuovi progetti, nuovi modelli, nuovi modi di vendere?
Prendiamone atto al momento di riflettere sulle relazioni industriali: non è stata la «forte spinta» invocata dalla giovane Guidi (parola codice che significa mano dura sul sindacato) a far tornare in prima fila la Fiat. E’ stato il buon lavoro organizzato bene. Non c’è niente di più moderno che riconoscerlo. Non c’è niente di più vecchio che dare la colpa ai soldati, come facevano, ad ogni sconfitta i generali sabaudi, nella Prima Guerra mondiale.
Quasi nelle stesse ore si fa avanti Barbara Berlusconi, neolaureanda in filosofia, giovanissimo membro del consiglio di amministrazione di Fininvest. Partecipa, insieme alla madre Veronica, a un convegno sull’etica dell’impresa organizzato dai ragazzi di «Milano young», figli che esistono in nome del padre, come sempre in Italia e quasi solo in Italia. Dice Barbara Berlusconi che «Fininvest ha una struttura etica», ed è bello sentirglielo dire di una azienda fondata da e con Marcello Dell’Utri. Dice di avere imparato dal padre «il rispetto per gli altri e l’importanza di non ledere la libertà altrui». Non è il primo caso di padri affettuosi che in casa dicono una cosa e fuori gli scappa di dire che i giudici del proprio Paese o sono mentecatti o sono un cancro, e, in ogni caso, «dovranno presentarsi col cappello in mano». Sarebbe ingiusto giudicare gli affetti. Ma di nuovo si vede che cosa questi padri non hanno insegnato ai figli, persino i padri migliori di Berlusconi. Non gli hanno insegnato che un’azienda non è solo proprietà e dirigenti, altrimenti, sei i piani alti continuano a dare “bonus” a se stessi e a guardare giù con l’irritazione di Federica Guidi, ogni impresa sarà Lehman Brothers. Spiacerà a tutte queste signore, ma ha ragione Epifani: un’impresa è il lavoro.
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