lunedì 6 ottobre 2008

l’Unità 6.10.08
Sono bianco, meno male
di Maurizio Chierici


SONO CONTENTO di essere nato in Europa, la nostra Europa di prima, quando i rumeni non erano europei come noi. Ormai non devono scappare per ascoltare i dischi di Madonna o immergersi nella civiltà del bere e ballare fino allo sballo del mattino, oppure spiare dalla poltrona le isole dei famosi, felici con i nostri piaceri. Sono contento di essere nato in una città benestante del Nord di un paese del Sud, respiro l’aria delle fabbriche approfittando della loro concretezza per liberarmi dalle zavorre di un secolo fa: comprensione, condivisione, fantasia, sentimenti inutili nei lampi dei telefonini che parlano con internet. E sono contento d’essere bianco, passaporto indispensabile se non voglio perdere la speranza. Con altri colori esistono otto possibilità su dieci di finire nei guai. Sospettati, temuti, emarginati. Purtroppo, diversi da noi.
Quando scende il buio è un sollievo andare per strada indossando la pelle chiara. Posso alzare la mano verso un taxi senza il sospetto di una rapina. O fare quattro passi nel parco senza finire in manette, denudato, frugato, maltrattato, insultato. Negro, è il loro nome nel registro dei giustizieri. Posso suonare il campanello di qualsiasi casa a qualsiasi ora e scusarmi per aver sbagliato porta: nessuno chiamerà la polizia. Sono contento di non essere nato in Pakistan, Colombia, Cecenia, Iraq, Afghanistan, Zaire. Quando dormo, e passi guardinghi si avvicinano alla porta accanto, al massimo sono ladri e non squadre della morte. E contento di non essere un indio dell’Amazzonia peruviana: se non brucio assieme alla foresta e se non mi uccidono per scavare oro, quando arrivo in Italia con la piccola moglie e i piccoli figli, li accoglie l’ironia di chi guarda come allo zoo: bestie rare. A volte la libertà diventa meno decorosa dell’obbedienza alle mani dure. Sono contento di essere battezzato. I nuovi fascisti non si allarmano quando prego e i Borghezio della razza padroncina non ridono se rifiuto il prosciutto ogni venerdì di quaresima. Sono contento di non essere costretto ad attraversare il mare, via dalla fame e dalla guerra, per finire nei campi di raccolta dove impacchettano e rimandano a casa. Sono contento di appartenere ad una cultura dal cinismo sincero. Godo della situazione senza scrupoli lasciandomi trascinare dalla nostra storia di occidentali, maschi, bianchi, adulti, garantiti da frontiere proibite ai disperati, con polizie rinforzate dai parà che i vigili urbani dei sindaci sceriffi appassionatamente provano ad imitare. Malgrado il lamento delle borse faccio ancora parte dei padroni del mondo e sono autorizzato ad adeguarmi al costume corrente: lasciar scorrere il dolore dei neri, dei gialli, dei marron senza prendere carico delle loro sofferenze, osservando col distacco un po’ umido dell’impresario di pompe funebri. In fondo non siamo noi gli assassini. Ci sarebbero vie d’uscita: solidarietà o il compromesso di far finta che gli altri siano uguali a noi. Faticose; lasciamole ai fanatici. Meglio chiudersi nelle patrie dei dialetti che la nostra pelle conserva con orgoglio. Perché una patria bianca esalta mille possibilità. Se Bush fosse nato in Georgia potrebbe decidere se ai georgiani è permesso vivere in pace?
Anni fa un testimone doveva raccontare la non speranza che sfiniva popoli lontani dai paesi del benessere, adesso i problemi sono arrivati sui nostri marciapiedi e bisogna pur vivere con le braccia che ci servono tenendone a distanza le pretese. Finito il lavoro, vogliono diventare corpi con fame sete, malattie, scuola per i figli e stanze almeno decenti. Insopportabili. Fuori dai giardini Italia l’infelicità si moltiplica spingendo nelle nostre strade persone non bene educate, almeno come noi l’intendiamo. Milioni di profughi che non conoscono l’innocenza stampata dagli idealisti nella loro storia. Per sopravvivere hanno sopportato ogni avventura. Sono giovani e spaventati e spaventano le abitudini delle città. Quando si è trattato di convivere con la folle della grande fuga che sta cambiando il futuro di tutti, ci siamo distratti affidando la soluzione ai teologi delle piccole patrie e ai giornali e alle Tv che agitano la paura per nascondere l’incapacità dei poteri forti. Albert Camus, scrittore nato in Algeria, va in Francia per resistere ai nazisti e diventa uno dei padri dell’esistenzialismo. Quando Parigi ridiventa la Parigi della libertà, si guarda allo specchio, scrive «Lo straniero», vince il Nobel ma non si libera della malinconia dello sradicamento. Camus ricorda che la libertà di stampa soffre più di ogni altra piega della vita se degrada l’idea di libertà lasciando spazio al populismo a buon mercato. Elabora la presenza di un nemico sconosciuto da reprimere con parole soavi destinate alla tranquillità degli amici G8. Insomma, non siamo razzisti. Geneticamente per gli italiani è impossibile esserlo: secoli di invasioni straniere, chissà cos’è successo alle bisnonne delle nostre bisnonne. Ma il ripeterlo ogni giorno, dopo pestaggi e violenze sempre uguali, fa capire l’impaccio del dover giustificare gli allarmi che gli untori del terrore (giornali, Tv, tanti politici) sciolgono nelle abitudini quotidiane. L’indifferenza si trasforma nell’ansia che criminalizza ogni ombra. Colpisce persone di una certa età, cultura debole, piccola borghesia che si è arrampicata per avere l’onore del mondo e non sopporta vederlo ingrigire, colpa delle braccia che costano niente. La non cultura o l’arroganza del benessere salda i ragazzi distratti alle generazioni intimorite. Il fastidio delle facce nuove minaccia l’ambizione del guadagnare in fretta quando gli altri lavorano per meno e studiano con la determinazione di chi è all’ultima speranza. Per carità, nessun italiano è razzista. Dopo il pestaggio di Parma, ex città della grazia di Stendhal, piccole storie sfumano attorno alle polemiche. Non fanno notizia. La signora che dà la precedenza ad una signora eritrea arrivata prima di lei davanti al banco del negozio, scatena la terza signora della fila: «Adesso lasciamo passare davanti anche quelle lì (esclamativo dell’indignazione). Domani ci mangiano in testa». Gli altri avventori in silenzio: bottegaio e massaie non se la sentono di dare torto a una di loro. O la studentessa che chiede ai professori dell’università di poter allargare la tesi sul razzismo in Italia. Mentre passeggiava per strada con un amico africano, un signore di quarant’anni rallenta la pedalata per gridare: «Vergogna, le nostre ragazze vanno in giro con i negri!». Il quale «negro» gli si mette davanti chiedendo spiegazione. Come tutti i razzisti solitari e non in branco, il ciclista dell’offesa è un pavido. Invoca la solidarietà dei passanti: «Guardate chi mi salta addosso. Sempre loro. Chiamo la polizia». «La polizia è qui», voce di un carabiniere in borghese. Sorride ai ragazzi: andate, andate. E prende il nome del cittadino perbene. «Noi di Parma-Italia razzisti? Nemmeno per sogno», scrive sul Corriere della Sera Alberto Bevilacqua di professione parmigiano in esilio a Roma da mezzo secolo. Vero qualche anno fa. La vecchia morale resiste nei giovani diversi dai ragazzi delle feste: parcheggiano il suv, continuano a bere e cantare nelle strade della città cantiere. Ma altri ragazzi, o non più ragazzi, accolgono l’invito dei partiti del buonsenso, sfilano con striscioni Cgil per spiegare che chi lavora con la pelle scura è diventato uno di noi. Indignazione di non tanti, i passanti tirano diritto. Sopravvive a fatica la memoria di Mario Tommasini, sociologo senza studi: ha liberato i matti assieme a Basaglia e vuotato i brefotrofi per evitare ad ogni bambino di crescere senza famiglia. Purtroppo i tempi declinano, i consumi impallidiscono. La crisi sembra lì. Bisogna difenderci con la paura. Maledetti stranieri (se non appartengono agli ariani onorari che alla domenica fanno gol).
mchieric2@libero.it

l’Unità 6.10.08
Maroni: «Macché razzismo, episodi e calunnie»
Il ministero denuncia Amina, umiliata a Ciampino. Parma, una testimone racconta: ho visto picchiare Emmanuel
di Massimo Solani


IL MIGLIOR MODO PER COMBATTERE l’emergenza razzismo testimoniata dal ripetersi di aggressioni a carico di cittadini extracomunitari? Fingere di non vederla e minimizzare. Parola del ministro dell’Interno Roberto Maroni che ieri, sul palco della festa
del Pdl a Milano, ha messo una pietra sopra al problema, come se le vicenda di Parma e Milano (solo per restare all’ultima settimana) non fossero mai esistite. Come se un esponente del suo stesso partito, il vicesindaco di Treviso Giancarlo Gentilini, non sia stato di nuovo iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di incitamento alla discriminazione razziale. «Non credo che ci sia una emergenza razzismo - ha spiegato infatti il titolare del Viminale - ci sono episodi che vanno colpiti e che saranno colpiti». Per ora la sicurezza del ministro dell’Interno è una, semplice e chiara. «C’è qualche montatura, come quella della signora somala, che sarà colpita allo stesso modo». E infatti, ha annunciato Maroni, il ministero dell’Interno si costituirà parte civile nel processo per diffamazione che la polizia ha intentato contro Amina Sheik Said, la donna somala che venerdì ha denunciato di essere stata vittima di maltrattamenti e vessazioni ad opera della Polaria in servizio a Fiumicino. E non è dato sapere se il ministro Maroni su quanto accaduto, era il luglio scorso, abbia promosso una indagine interna. La sua assoluzione a prescindere all’operato degli agenti in servizio all’aeroporto è solida e non intaccata da alcun dubbio. Un po’ come quella di Maurizio Gasparri: «Davanti ad una dichiarazione di una donna somala e una dei poliziotti - ha spiegato infatti ieri l’esponente di An - io credo a quella dei poliziotti. Non credo che un gruppo di poliziotti possa mentire». Per conferma chiedere al Emmanuel, il ragazzo ghanese pestato a Parma da alcuni vigili urbani. Oppure alla donna testimone oculare della aggressione che ha parlato ieri nel corso di “Chi l’ha visto?”: «Ho sentito urlare. C’era quel ragazzo per terra, con quattro uomini e una donna che lo tenevano per non farlo muovere. Uno di quel gruppo gli ha dato un calcio nel fianco, e lui ha urlato. Ho visto poi che lo portavano via, e uno degli uomini saliva sulla sua bicicletta. Il ragazzo ha urlato: “perché mi portate via la bicicletta?”. E uno del gruppo gli ha dato un altro pugno nel fianco e gli ha detto: “stai zitto”».
Ma tant’è, in Italia non c’è nessuna emergenza razzismo, e il ripetersi di episodi inquietanti a distanza di pochi giorni è solo una tragica concatenazione di singoli eventi. «Nella destra - commentava ieri Marco Minniti, ministro dell’Interno nel governo ombra del Pd - si continua a sottovalutare la questione e a nascondere la testa sotto la sabbia. Un atteggiamento che cerca di esorcizzare il rischio di essersi mossi come apprendisti stregoni evocando fantasmi e paure che ora non riescono più a gestire». Anche perché, come ha ripetuto ieri Maroni, se un’emergenza c’è è quella che riguarda l’immigrazione. E per questo il governo ha intenzione di continuare a rendere sempre più strette le maglie per l’accesso dei migranti sul nostro territorio. Si trattasse anche di rifugiati che scappano da guerre e persecuzioni politiche. «Anche sulla materia dei rifugiati vogliamo mettere una stretta - ha spiegato infatti il ministro dell’Interno - La sinistra se ci sta bene, altrimenti noi abbiamo la maggioranza alla Camera e al Senato e possiamo farcela da soli».

Repubblica 6.10.08
Ma siamo il popolo più spaventato
La penisola della paura dove la tolleranza fa perdere i consensi
di Ilvo Diamanti


Fino a ieri la parola razzismo era tabù, oggi ne parlano le cariche politiche
L´allarme viene alimentato dall´uso politico dell´immigrazione anche nelle leggi

Il contagio razzista ha coinvolto l´Italia. Perlomeno: nel linguaggio pubblico. Fino a ieri l´altro era un tabù. Ora, invece, le autorità religiose e politiche ne parlano esplicitamente. Il Papa, il presidente della Repubblica e perfino quello della Camera, Gianfranco Fini. Leader di destra. Perfino il sindaco di Roma, Alemanno, che ha espresso le scuse della città a un cittadino cinese, malmenato nei giorni scorsi da un gruppo di bulletti. Dunque, il tabù si è rotto.
Oggi a denunciare il razzismo degli italiani non sono esclusivamente i "soliti noti". Sinistra radicale, no global, cattolici solidali. Giornali come il Manifesto e Famiglia Cristiana. Ma ciò solleva il rischio opposto. Scivolare dalla drammatizzazione alla banalizzazione. "Allarme siam razzisti?" No, se intendiamo definire, in questo modo, l´orientamento e il comportamento degli italiani. O meglio: il razzismo c´è, in Italia, come nel resto d´Europa. Dove gli episodi di intolleranza sono numerosi e violenti, anche più che da noi. In Gran Bretagna, in Francia, in Germania, in Belgio, in Spagna. D´altronde, l´importanza del fenomeno è sottolineato dai successi elettorali di formazioni politiche di impronta apertamente xenofoba. Da ultimo, in Austria, una settimana fa. La reticenza è, dunque, pericolosa, quanto la generalizzazione. Tanto più, il sensazionalismo, che sposta il fenomeno al centro dei talk show e nei titoli di prima pagina. D´altronde, gli episodi di razzismo, probabilmente, esistevano anche prima, (sempre troppo) numerosi. Ma non se ne parlava, perché le vittime, per prime, preferivano tacere. Come è avvenuto, in passato, per le violenze sessuali sulle donne e sui minori. Ora invece il clima è cambiato e gli episodi di razzismo sembrano moltiplicarsi, anche perché - più di ieri ? sono riconosciuti come tali e denunciati. Anche se, di fronte alle ripetute aggressioni ai danni di stranieri e rom, è diffusa la tendenza a sostenere che "il razzismo non c´entra". Oppure a giustificarle: conseguenze della "legittima furia popolare" (come ha osservato Gad Lerner, su questo giornale). Invece, il razzismo c´è. La tentazione di costruire barriere fra noi e gli altri, in base a fondamenti in-fondati e in-dimostrabili. Come l´idea stessa di "razza", d´altronde. Il razzismo c´è. Allontanarlo da noi con un gesto di fastidio, non aiuta ad affrontarlo. Il razzismo esiste: in Italia come altrove. La storia e l´esperienza non rendono immuni neppure la Germania, l´Austria o la Francia.
Tuttavia, il confronto su base europea mostra come in Italia l´allarme sollevato dagli immigrati sia fra i più elevati. Il più alto, in assoluto, fra i paesi della vecchia Europa. Come emerge, chiaramente, dall´indagine europea curata da Demos, laPolis e Pragma (in collaborazione con Intesa Sanpaolo). In particolare, l´Italia è il paese dove l´allarme suscitato dagli stranieri è più forte, relativamente alla sicurezza e all´ordine pubblico, come denuncia una persona su due. In paese dove, al tempo stesso, i "pregiudizi positivi" si attestano su livelli più bassi. Meno della metà della popolazione accetta l´immagine degli immigrati come "risorsa dello sviluppo" oppure "fattore di apertura culturale". L´Italia, in particolare, è il paese in cui tutti gli indici di allarme son cresciuti maggiormente, negli ultimi anni. Come se qualcosa avesse abbassato le nostre difese, le nostre inibizioni. Alimentando la nostra paura. Madre del razzismo, come ha scritto Zygmunt Bauman nei giorni scorsi sulla Repubblica. Il razzismo, allora, forse non è un´emergenza, come ha sostenuto ieri il ministro Maroni. Ma lo è sicuramente la xenofobia. Letteralmente: la "paura dello straniero". Che ha diverse cause, comprensibili, e che vanno comprese, se la vogliamo contrastare. Una su tutte: la distanza fra rappresentazione e realtà. La realtà è che ci siamo trasformati in un paese di immigrazione, dopo che per oltre un secolo è avvenuto il contrario. In poco più di un decennio il peso degli immigrati è passato dallo 0 virgola al 5-6% della popolazione. In alcune aree, soprattutto nel Nordest e nelle province più produttive del Nord, questa misura è doppia, talora tripla. In dieci anni o poco più abbiamo raggiunto e superato paesi in cui questi processi hanno storia e tradizione assai più lunghe. Abbiamo "il primato dell´immigrazione veloce", come hanno scritto i demografi Billari e Dalla Zuanna, in un recente saggio ("La rivoluzione nella culla", Università Bocconi Editore). La realtà è che ci siamo adattati altrettanto in fretta. Non siamo stati travolti. In particolare, le zone dove si registrano i maggiori indici di integrazione (come sottolinea il periodico rapporto della Caritas) sono proprio quelle dove l´immigrazione ha assunto proporzioni più ampie. Il Veneto, la Lombardia, il Friuli Venezia Giulia. Fra le province: Bergamo, Treviso, Vicenza. Dove, cioè, la Lega è più forte. Ma la rappresentazione è opposta, perché proprio qui la "paura dell´altro" è più elevata. In altri termini: abbiamo accolto e integrato milioni di stranieri ? perché ne abbiamo bisogno, dal punto di vista economico, dell´assistenza, ma anche della demografia. Ma si stenta ad ammetterlo, ad accettarlo. In parte, è inevitabile. Flussi di stranieri tanto ampi e tanto rapidi generano inquietudine. Soprattutto se non sono regolati da politiche adeguate (sociali e urbane), a livello locale. Se si "permette" la concentrazione degli stranieri in ampie periferie degradate.
La paura, tuttavia, è alimentata dall´uso politico dell´immigrazione. Dal fatto che la paura degli immigrati e dei rom "paga". In termini elettorali e di consenso. La stessa legislazione riflette questo sentimento. Si preoccupa di rassicurare assecondando la diffidenza. Promette di "arginare" gli stranieri alle frontiere. Oppure di regolarne i flussi, in base a quote irrealistiche. Con l´esito che gli stranieri continuano ad entrare, lasciando dietro sé una scia di morte che non emoziona quasi nessuno. E quando sono in Italia diventano "clandestini". Per legge. Per la stessa ragione, si irrigidiscono le restrizioni agli istituti che rafforzano l´integrazione. Primo fra tutti: i ricongiungimenti familiari. Così gli stranieri diventano viandanti di passaggio. "Altri" da cui difendersi.
Invece di promuovere un modello ? magari involontario - che ci ha permesso di "sopportare" e, anzi, di integrare flussi di immigrati così imponenti in così poco tempo, ci si affretta a negare l´evidenza. Si indossa la maschera più dura. Perché la faccia tollerante non è di moda. Fa perdere consensi. Per contrastare il razzismo, si dovrebbe, quindi, combattere la paura. Invece, viene lasciata crescere in modo incontrollato. E molti, troppi, la coltivano. Questa pianta dai frutti avvelenati, che cresce nel giardino di casa nostra.

Repubblica 6.10.08
In Italia il timore per lo straniero immigrato è più alto che negli altri paesi della "vecchia Europa"
Sicurezza e lavoro i temi più caldi
di Fabio Bordignon


L´Italia è tornata ad essere la "penisola della paura". Il VI rapporto su Immigrazione e cittadinanza in Europa, curato da Demos-LaPolis-Pragma per Intesa Sanpaolo, sembra riportarci indietro di quasi 10 anni. I risultati dell´indagine, di cui Repubblica offre un´anteprima, delineano una società inquieta di fronte al fenomeno dell´immigrazione. Dopo una fase di parziale riassorbimento, l´allarme è tornato sui livelli del 1999. Anzi, li ha superati. Tanto da riproporre la specificità dell´Italia in Europa.
Sicurezza e lavoro: attorno a queste due dimensioni tende a svilupparsi la "paura dello straniero". Solo in seconda battuta entrano in gioco fattori di matrice religiosa e culturale. Se circoscriviamo l´analisi ai quattro paesi dell´Europa occidentale inclusi nell´indagine, l´Italia è il contesto dove la paura generata dalla presenza straniera tocca i massimi livelli. Già nel 1999, il peso di quanti associavano immigrazione e criminalità aveva raggiunto il 46%: il dato più alto su scala continentale. Nella fase successiva, l´atteggiamento degli italiani si è prima "normalizzato", per poi subire una nuova inversione di rotta. Oltre il 50%, nell´autunno del 2007, afferma di vedere negli immigrati un pericolo per la sicurezza, e la rilevazione più recente fa segnare un valore di poco inferiore (45%, nel 2008). La "geografia sociale" della xenofobia trova i suoi punti di maggiore intensità fra i lavoratori autonomi e le casalinghe, nelle regioni del Centro-Sud, fra gli elettori del PdL e della Lega.
Anche nel Regno Unito la preoccupazione si presenta elevata (37%), mentre è più contenuta in Francia (22%) e Germania (29%). A differenza di quanto avviene in Italia, negli altri paesi l´immigrazione suscita allarme soprattutto per motivi legati all´occupazione. Il tema è particolarmente sentito nel Regno Unito, dove il 48% dei cittadini vede l´immigrato come un concorrente per il posto di lavoro, ma anche in Francia (26%) e Germania (36%). Parallelamente, in Italia è più limitata la quota di persone che valuta in modo positivo il contributo dell´immigrazione, come risorsa per l´economia e l´apertura culturale: circa il 45%, mentre negli altri tre paesi oscilla fra il 50% e il 70%.

Corriere della Sera 6.10.08
Troppe tentazioni
di Giuseppe De Rita


Alcuni ripetuti episodi di insofferenze e di violenza nei confronti di stranieri e di immigrati hanno nelle ultime settimane dato spazio a due fenomeni d'opinione collettiva molto frequenti in Italia. Da un lato la messa in fila e in evidenza mediatica di tali episodi ha fatto pensare che di evento in evento si possa arrivare a un grande avvento, quello del razzismo come nuova grande malattia italiana; e conseguentemente si è scatenata la sequela di dichiarazioni di segnalazione e denuncia del pericolo; di dialettica culturale e di scontro politico; di riaffermazione dei principi di civile convivenza che ha nei secoli contraddistinto la nostra società.
Per carità, abbiamo il dovere di aver paura del razzismo e di riproporre atteggiamenti e comportamenti di adeguata nobiltà. Ma non si sfugge all'impressione che vi sia un notevole scollamento fra le polemiche in corso, con inevitabile loro calor bianco, e la più fisiologica e silenziosa evoluzione del modo in cui si fa quotidianamente integrazione di immigrati nelle fabbriche, nelle famiglie, nelle realtà locali italiane.
Ogni società fa integrazione attraverso lo sfruttamento delle proprie componenti socio-economiche dominanti: la Germania attraverso la grande impresa, quella che ha metabolizzato senza traumi milioni e milioni di turchi; la Gran Bretagna attraverso i mille percorsi di una multiculturalità ricevuta in eredità dai trascorsi imperiali; la Francia attraverso una regolazione assistenzialista a forte e nota tradizione statalista. Noi facciamo integrazione utilizzando anche inconsciamente le tre grandi componenti del modello italiano: facciamo integrazione nella piccola e piccolissima impresa dove gli immigrati trovano un clima relativamente sereno e parametri di responsabilizzazione personale tanto che non a caso, imitandoci, corrono anche l'avventura imprenditoriale; facciamo integrazione nelle famiglie, dove milioni di collaboratori domestici e di badanti entrano lentamente nella dinamica sociale quotidiana; facciamo integrazione nelle piccole città, nei paesi, nei borghi, dove milioni di immigrati trovano un alto tasso di socializzazione collettiva e sperimentano un adeguato tasso di controllo sociale.
Qualcuno ha parlato in proposito di integrazione «morbida» certo un po' esagerando specialmente se si ricorda che dai tre processi sopra citati restano fuori due inquietanti realtà: quella delle grandi città e delle loro periferie nella cui anomia senza socializzazione si intrecciano pericolosamente la devianza degli immigrati e l'aggressività di bulli e teppisti indigeni; e quella delle zone di forte criminalità organizzata dove la vulnerabilità sociale è più alta e dove possono intrecciarsi devianze di diversa origine e potenza. Ma è proprio su queste due sorgenti di inquietudine e pericolo che vanno focalizzate attenzione e impegno senza dimenticare che esse andrebbero affrontate anche se non ci vivesse neppure un immigrato; e senza soprattutto cedere alla diffusa attuale tentazione di ragionare su una generale «deriva razzistica».
È questa tentazione naturale per chi vive di drammatizzazioni sovrastrutturali (mediatiche o politiche che siano); ed è una tentazione doverosa per chi deve ricordare grandi principi di civiltà collettiva; ma è una tentazione che ci allontana dalla realtà, dai processi e dai percorsi su cui senza clamori si fa integrazione sociale di immigrati, processi e percorsi inadatti certo all'enfatizzazione mediatica e alla cultura degli eventi, ma incardinati saldamente in quella forza della lunga durata che ci ha sempre accompagnato nel tempo.

Repubblica 6.10.08
Il potere delle parole. "Il sacramento del linguaggio"
di Giorgio Agamben
Quando si rompe il giuramento


È fondamentale la relazione etica che si stabilisce tra il parlante e la sua lingua
Votandosi al "logos" l´uomo decide di mettere in gioco la sua vita e il suo destino

Pubblichiamo parte di un capitolo del nuovo libro di , "Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento", che uscirà a giorni da Laterza (pagg. 107, euro 14)

I linguisti hanno spesso cercato di definire la differenza fra il linguaggio umano e quello animale. Benveniste ha opposto in questo senso il linguaggio delle api, codice di segnali fisso e il cui contenuto è definito una volta per tutte, alla lingua umana, che si lascia analizzare in morfemi e fonemi la cui combinazione permette una potenzialità di comunicazione virtualmente infinita. Ancora una volta, tuttavia, la specificità del linguaggio umano rispetto a quello animale non può risiedere soltanto nelle peculiarità dello strumento, che ulteriori analisi potrebbero ritrovare - e, di fatto, continuamente ritrovano - in questo o quel linguaggio animale; essa consiste, piuttosto, in misura certo non meno decisiva, nel fatto che, unico fra i viventi, l´uomo non si è limitato ad acquisire il linguaggio come una capacità fra le altre di cui è dotato, ma ne ha fatto la sua potenza specifica, ha messo, cioè, in gioco nel linguaggio la sua stessa natura.
Come, nelle parole di Foucault, l´uomo «è un animale nella cui politica ne va della sua vita di essere vivente», così egli è anche il vivente nella cui lingua ne va della sua vita. Queste due definizioni sono, anzi, inseparabili e dipendono costitutivamente l´una dall´altra. Al loro incrocio si situa il giuramento, inteso come l´operatore antropogenetico attraverso cui il vivente, che si è scoperto parlante, ha deciso di rispondere delle sue parole e, votandosi al logos, di costituirsi come il «vivente che ha il linguaggio». Perché qualcosa come un giuramento possa aver luogo, è necessario, infatti, poter innanzitutto distinguere, e articolare in qualche modo insieme, vita e linguaggio, azioni e parole - e questo è precisamente ciò che l´animale, per il quale il linguaggio è ancora parte integrante della sua prassi vitale, non può fare. La prima promessa, la prima - e, per così dire, trascendentale - sacratio si produce attraverso questa scissione, in cui l´uomo, opponendo la sua lingua alle sue azioni, può mettersi in gioco in essa, può promettersi al logos.
Qualcosa come una lingua umana ha potuto, infatti, prodursi solo nel momento in cui il vivente, che si è trovato cooriginariamente esposto tanto alla possibilità della verità che a quella della menzogna, si è impegnato a rispondere con la sua vita delle sue parole, a testimoniare in prima persona per esse. E come il mana esprime, secondo Lévi-Strauss, l´inadeguatezza fondamentale fra significante e significato, che costituisce "la servitù di ogni pensiero finito", così il giuramento esprime l´esigenza, per l´animale parlante in ogni senso decisiva, di mettere in gioco nel linguaggio la sua natura e di legare insieme in un nesso etico e politico le parole, le cose e le azioni.
Solo per questo qualcosa come una storia, distinta dalla natura e, tuttavia, a essa inseparabilmente intrecciata, ha potuto prodursi. È nel solco di questa decisione, nella fedeltà a questo giuramento, che la specie umana, per la sua sventura come per la sua ventura, in qualche modo ancora vive. Ogni nominazione è, infatti, duplice: è benedizione o maledizione. Benedizione, se la parola è piena, se vi è corrispondenza fra il significante e il significato, fra le parole e le cose; maledizione se la parola resta vana, se permangono, fra il semiotico e il semantico, un vuoto e uno scarto. Giuramento e spergiuro, bene-dizione e male-dizione corrispondono a questa duplice possibilità iscritta nel logos, nell´esperienza attraverso cui il vivente si è costituito come essere parlante. Religione e diritto tecnicizzano questa esperienza antropogenetica della parola nel giuramento e nella maledizione come istituzioni storiche, separando e opponendo punto per punto verità e menzogna, nome vero e nome falso, formula efficace e formula scorretta. Ciò che era «detto male» diventa in questo modo maledizione in senso tecnico, la fedeltà alla parola cura ossessiva e scrupolosa delle formule e dei riti appropriati, cioè religio e ius. L´esperienza performativa della parola si costituisce e si separa così in un «sacramento del linguaggio» e questo in un «sacramento del potere». La "forza della legge" che regge le società umane, l´idea di enunciati linguistici che obbligano stabilmente i viventi, che possono essere osservati o trasgrediti, derivano da questo tentativo di fissare l´originaria forza performativa dell´esperienza antropogenetica, sono, in questo senso, un epifenomeno del giuramento e della maledizione che l´accompagnava.
Paolo Prodi apriva la sua storia del "sacramento del potere" con la constatazione che noi siamo oggi le prime generazioni che vivono la propria vita collettiva senza il vincolo del giuramento e che questo mutamento non può non implicare una trasformazione delle modalità di associazione politica. Se questa diagnosi coglie in qualche misura nel vero, ciò significa che l´umanità si trova oggi davanti a una disgiunzione o, quanto meno, a un allentamento del vincolo che, attraverso il giuramento, univa il vivente alla sua lingua. Da una parte sta ora il vivente, sempre più ridotto a una realtà puramente biologica e a nuda vita, e, dall´altra, il parlante, separato artificiosamente da esso, attraverso una molteplicità di dispositivi tecnico-mediatici, in un´esperienza della parola sempre più vana, di cui gli è impossibile rispondere e in cui qualcosa come un´esperienza politica diventa sempre più precaria. Quando il nesso etico - e non semplicemente cognitivo - che unisce le parole, le cose e le azioni umane si spezza, si assiste infatti a una proliferazione spettacolare senza precedenti di parole vane da una parte e, dall´altra, di dispositivi legislativi che cercano ostinatamente di legiferare su ogni aspetto di quella vita su cui sembrano non avere più alcuna presa. L´età dell´eclissi del giuramento è anche l´età della bestemmia, in cui il nome di Dio esce dal suo nesso vivente con la lingua e può soltanto essere proferito "in vano".
E´ forse tempo di mettere in questione il prestigio di cui il linguaggio ha goduto e gode nella nostra cultura, in quanto strumento di potenza, efficacia e bellezza incomparabili. Eppure, considerato in se stesso, esso non è più bello del canto degli uccelli, non è più efficace dei segnali che si scambiano gli insetti, non può potente del ruggito con cui il leone afferma la sua signoria.
L´elemento decisivo che conferisce al linguaggio umano le sue virtù peculiari non è nello strumento in se stesso, ma nel posto che esso lascia al parlante, nel suo predisporre dentro di sé una forma in cavo che il locutore deve ogni volta assumere per parlare. Cioè: nella relazione etica che si stabilisce fra il parlante e la sua lingua. L´uomo è quel vivente che, per parlare, deve dire "io", deve, cioè, "prendere la parola", assumerla e farla propria.
La riflessione occidentale sul linguaggio ha impiegato quasi due millenni per isolare, nell´apparato formale della lingua, la funzione enunciativa, l´insieme di quegli indicatori o shifters ("io", "tu", "qui", "ora", ecc.) attraverso i quali colui che parla assume la lingua in un atto concreto di discorso. Ciò che la linguistica non è, però, certamente in grado di descrivere è l´ethos che si produce in questo gesto e che definisce l´implicazione specialissima del soggetto nella sua parola. E´ in questa relazione etica, il cui significato antropogenetico abbiamo cercato di definire, che il "sacramento del linguaggio" ha luogo. Proprio perché, a differenza degli altri viventi, l´uomo per parlare deve mettersi in gioco nella sua parola, egli può, per questo, benedire e maledire, giurare e spergiurare.
Alle origini della cultura occidentale, in un piccolo territorio ai confini orientali dell´Europa, era apparsa un´esperienza di parola che, tenendosi nel rischio tanto della verità che dell´errore, aveva pronunciato con forza, senza né giurare né maledire, il suo sì alla lingua, all´uomo come animale parlante e politico. La filosofia comincia nel momento in cui il parlante, contro la religio della formula, mette risolutamente in questione il primato dei nomi, quando Eraclito oppone logos a epea, il discorso alle parole incerte e contraddittorie che lo costituiscono o quando Platone, nel Cratilo, rinuncia all´idea di una corrispondenza esatta fra il nome e la cosa nominata e, insieme, avvicina onomastica e legislazione, esperienza del logos e politica. La filosofia è, in questo senso, costitutivamente critica del giuramento: essa mette, cioè, in questione il vincolo sacramentale che lega l´uomo al linguaggio, senza per questo semplicemente parlare a vanvera, cadere nella vanità della parola. In un momento in cui tutte le lingue europee sembrano condannate a giurare in vano e in cui la politica non può che assumere la forma di una oikonomia, cioè di un governo della vuota parola sulla nuda vita, è ancora dalla filosofia che può venire, nella sobria consapevolezza della situazione estrema cui è giunto nella sua storia il vivente che ha il linguaggio, l´indicazione di una linea di resistenza e di svolta.

Corriere della Sera 6.10.08
La legge. I medici giudicano le norme sull'Ivg a trent'anni dalla loro entrata in vigore
Le cifre Diminuito il numero degli interventi legali. I tempi di attesa sono sempre più lunghi
194, aumentano gli obiettori «Tanti gli aborti clandestini»
I ginecologi: 15 mila tra le italiane
di Mario Pappagallo


Il 22 maggio del 1978 l'Italia approvava la legge 194. L'interruzione volontaria della gravidanza (Ivg) diventava legale. Prima della 194 gli aborti clandestini venivano stimati in oltre 250.000 all'anno. Oggi, purtroppo, se ne fanno ancora 15 mila. Perché?
A 30 anni di distanza sono i ginecologi italiani a tracciare il bilancio di come la 194 è applicata. Domani a Torino, durante l'84mo congresso della Sigo (si chiuderà l'8 ottobre) che riunisce tremila specialisti provenienti da tutt'Italia, verrà presentata un'indagine effettuata in 45 centri italiani. Ecco qualche numero. Nel 2007 sono state effettuate 127.038 interruzioni, con un decremento del 3% rispetto al dato definitivo del 2006 (131.018 casi) e un decremento del 45,9% rispetto al 1982, anno in cui si è registrato il più alto ricorso all'aborto (234.801 casi). Nel corso degli anni è andato crescendo il numero degli interventi effettuato da donne straniere, raggiungendo nel 2006 il 31,6% del totale, mentre, nel 1998, tale percentuale era del 10,1%. «Questo fenomeno — dice Giorgio Vittori, presidente della Società italiana di ginecologia e ostetricia — nasconde la diminuzione del ricorso all'Ivg in atto tra le donne italiane».
Comunque, nell'applicazione della 194, non mancano gli spunti negativi su cui riflettere: tra i medici aumentano gli obiettori, vi sono ancora aborti clandestini, vanno migliorati i rapporti ospedali-consultori, sono in aumento gli aborti nelle minorenni.
Gli aborti clandestini si fanno ancora nonostante la legge. La stima è di 15.000: il dato riguarda solo le italiane, in quanto non si dispone di stime affidabili per le donne straniere. E il numero potrebbe salire a 30 mila se si conoscesse la situazione delle immigrate, soprattutto clandestine. Sono peraltro cresciuti i procedimenti penali per aborto clandestino: dai 26 del 1995, ai 41 del 2007. Nel 1997, il 37% dei procedimenti penali riguardava medici, dato sceso al 17% nel 2007. Aumenta quindi il numero di aborti fuorilegge praticati da paramedici, «mammane», ecc. «È frutto della forte presa di posizione di noi ginecologi nel condannare le illegalità — commenta Giovanni Monni, presidente dei ginecologi ospedalieri (Aogoi) —. I dati sul ricorso all'aborto fuori dalle strutture sanitarie restano però allarmanti». Ed emerge un fenomeno nuovo: l'aborto «fai da te». Conferma Monni: «Si tratta di Ivg con pillole acquistate su internet o in mercati illegali. Fra le più diffuse le prostaglandine, antiulcera che possono avere un effetto abortivo soprattutto all'inizio della gravidanza, con elevato rischio di emorragie e infezioni».
L'Italia, inoltre, è agli ultimi posti nel mondo occidentale nell'uso di metodi contraccettivi. Motivi? Per scelta (53%), scarsa conoscenza (38%), errato utilizzo (9%). La pillola, che ha rappresentato una svolta culturale ed epocale per la sessualità della donna, è molto poco usata nel nostro Paese. Ancor meno usato il preservativo. Tra gli effetti nefasti, l'aumento degli aborti tra le minorenni. «Cresce fra le minorenni — aggiunge Vittori —. E aumentano quelle con meno di 14 anni che abortiscono: dallo 0,5% del totale nel 1995 all'1,2% nel 2005». La maggior parte di richieste al giudice da parte delle minorenni arriva da 17enni (il 50,2%) e 16enni (30,3%). Ma le 14enni sono il 4,2%. «Complessivamente — spiega Vittori — l'età media è passata dai 17 anni del 1995 ai 16 anni e 9 mesi del 2005».
Nell'applicazione della 194 qualcosa non va anche nelle strutture. «In particolare — commenta Emilio Arisi, responsabile della ricerca Sigo — solo nel 34,2% dei centri viene oggi garantito di poter eseguire l'intervento in anestesia locale. Resta più diffusa l'anestesia generale, più pericolosa e maggiormente dispendiosa. Altra nota dolente è il rapporto diretto fra ospedale e consultorio: i protocolli di collaborazione, esistenti nel 71% dei casi, spesso vivono solo sulla carta. Nel 73% dei casi è la stessa paziente ad effettuare la prenotazione, a fronte di solo il 23% in cui provvede il consultorio».
In aumento anche i tempi di attesa tra il rilascio della certificazione e l'intervento, un dato legato anche all'altissimo numero di obiettori dentro gli ospedali: il 72% dei medici e il 59% dei primari, e solo il 39,5% degli ospedali assicura la presenza di personale non obiettore disponibile per ogni turno. Qualcuno paventa anche che in alcune Regioni «la carriera si giochi a favore di chi obietta». Obiettori in aumento? A livello nazionale, per i ginecologi si è passati negli ultimi anni dal 58,7% al 69,2%; per gli anestesisti dal 45,7% al 50,4%. In alcune Regioni l'aumento è molto rilevante, soprattutto nel Sud. In Campania gli obiettori sono quasi raddoppiati (i ginecologi sono passati dal 44,1% all'83%; gli anestesisti dal 40,4% al 73,7%; il personale non medico dal 50% al 74%). In Sicilia, i ginecologi obiettori sono saliti dal 44,1% all'84,2% e gli anestesisti dal 43,2% al 76,4%. Ma anche al Nord. In Veneto, l'obiezione è superiore al dato nazionale: 79,1% dei ginecologi; 49,7% degli anestesisti; 56,8% del personale non medico. «Anche trent'anni fa, comunque — commenta Mario Campogrande, presidente del Congresso —, erano prevalenti gli obiettori rispetto a chi applica la legge». Certo se aumentano ancora potrebbero esserci problemi organizzativi. Già oggi vi sono migrazioni in centri della stessa città o addirittura in Regioni dove i numeri di operatori sono adeguati. «E l'importante — conclude Vittori — è che non si creino discriminazioni a svantaggio delle donne». Ma c'è chi vede in questi dati una delle concause di tempi d'attesa ben oltre il consentito in certe Regioni del Sud e di quei 15 mila aborti clandestini. Soprattutto le minorenni potrebbero ricorrere alle «mammane» o a Internet per risolvere il «problema». Anche perché la cosiddetta pillola del giorno dopo, che non è quella abortiva, incontra ostacoli nel nostro Paese: non è facilmente reperibile come in buona parte d'Europa.
Riguardo, infine, alla RU-486 (la pillola abortiva) utilizzata in cinque Regioni (Trento, Emilia Romagna, Toscana, Marche e Puglia), nel 2007 è stata utilizzata per 1.070 aborti (erano stati 1.151 nel 2006). Conseguenze negative per la salute delle donne? Non ne risultano.

Corriere della Sera 6.10.08
La ginecologa Alessandra Kustermann: ignorata dalle giovanissime, che non hanno informazioni corrette sulla contraccezione
La pillola che non piace alle ragazze
Solo due donne su dieci la usano come anticoncezionale. Prima volta senza precauzioni
di Giulia Ziino


L'esperta. Alessandra Kustermann, ginecologa, responsabile del servizio di Diagnosi prenatale della Mangiagalli di Milano: «È importante promuovere la conoscenza della pillola»

MILANO — Pillola, questa sconosciuta. Per le donne italiane, che in fatto di uso dei contraccettivi ormonali risultano agli ultimi posti in Europa. Con un 20,2% (la fonte è il primo rapporto sui lavori della Commissione Salute delle donne) nel l'Italia è quintultima in classifica in quanto a percentuale d'impiego della contraccezione ormonale tra le donne tra 15 e 44 anni: sotto di noi solo Spagna, Repubblica Slovacca, Polonia e Grecia. L'Olanda, prima in classifica, segna un 51,9%. Una differenza che rivela quanto le italiane utilizzino poco la pillola. E il tasso di disaffezione è più alto tra le giovanissime se, come dimostrano i sondaggi della Società italiana di ginecologia e ostetricia (Sigo), una su tre affronta la sua prima volta senza precauzioni. Ci sono stati progressi (dal 1986 al 2002 l'uso dei contraccettivi ormonali nel nostro Paese è passato dal 6 al 20%) ma le percentuali sono ancora basse. Per mancata conoscenza della pillola (38%) o per un'errata valutazione dei suoi «effetti collaterali», come la paura di ingrassare, spauracchio per il 20-30% delle donne ma conseguenza realmente fondata solo nel 4-6% dei casi.
Ma la disaffezione delle ragazze italiane per la pillola ha anche delle ragioni di carattere sociale. «In Italia — spiega Alessandra Kustermann, ginecologa, responsabile del servizio di Diagnosi prenatale della Mangiagalli di Milano — l'età media del primo rapporto sessuale si attesta, nei dati del Global sex survey 2004, sui 17,6 anni. Un'età relativamente alta rispetto agli altri paesi europei: sopra di noi ci sono solo Spagna, Slovacchia e Polonia, la Germania si attesta sui 16,2, il Regno Unito sui 16,7, la Francia sui 17,1. Questa sessualità relativamente tardiva fa sì che le ragazze arrivino in media al rapporto sessuale comunque più coscienti di come autoregolamentare la propria sessualità attraverso metodi contraccettivi poco sicuri come il coito interrotto, l'astinenza periodica o il condom, ma pur sempre in grado di diminuire la percentuale di gravidanze. Inoltre, il preservativo ha il vantaggio di diminuire il rischio di contrarre malattie sessualmente trasmesse. La pillola resta il metodo contraccettivo ideale per le giovani donne che abbiano rapporti sessuali frequenti e non vogliano assolutamente correre il rischio di restare incinte: in altri casi, in cui l'età è più avanzata o la possibilità di avere un figlio è un rischio che, per mutate condizioni economiche o di vita affettiva, si può correre, molte optano per altri metodi. Tutto questo unito al fatto che in Italia l'età media in cui si va via di casa è piuttosto alta (dunque per le giovanissime avere una vita sessuale libera è più complicato) rende così basso l'uso della pillola nel nostro Paese».
Una circostanza non auspicabile ma che non necessariamente ha una conseguenza diretta sul numero di gravidanze indesiderate e di aborti: «I dati — spiega ancora Kustermann — dimostrano che non c'è una corrispondenza diretta tra i due fenomeni: secondo la relazione 2008 presentata al Parlamento dal ministero della Salute, in Italia dal 1983 al 2006 gli aborti delle donne sotto i 20 anni sono calati del 2,5%, quelli delle donne tra 20 e 24 del 30,3%, tra 25 e 29 del 42,9%. Riduzioni notevoli a fronte di un aumento dell'uso della contraccezione ormonale non così elevato. Rispetto agli altri paesi europei, l'Italia è insieme alla Svizzera il paese con meno gravidanze e aborti nella fascia 15-19 anni. Al contrario, ci sono paesi come l'Inghilterra che, pur registrando un uso elevato della pillola, hanno un alto tasso di gravidanze e aborti tra le giovanissime. Questo dimostra che il nesso tra aumento della contraccezione ormonale e diminuzione degli aborti non è così automatico».
Ciò non toglie che promuovere la conoscenza della pillola sia comunque importante: «Da un rapporto del 2001 su pillola e giovanissimi — continua Kustermann — veniamo a sapere che il 68,8% dei giovani italiani trae le sue informazioni sulla contraccezione da tv, giornali e libri, il 22,4% dal partner, il 18,2% dagli insegnanti e solo l'11% dai medici. I giovani sanno ancora poco di contraccezione e hanno molti pregiudizi sulla pillola, ma il tasso relativamente basso di gravidanze e aborti dimostra che, alla fine, qualcosa arriva».

Corriere della Sera 6.10.08
Educazione comune Zanda: ragionevole. Nencini: troppo limitativa
Vacca, l'apertura ai cattolici divide i laici del centrosinistra
di Paolo Foschi


ROMA — Divide i laici del centrosinistra la proposta di Giuseppe Vacca lanciata ieri attraverso le colonne dell'Avvenire. L'ex esponente del Pci, attualmente presidente della Fondazione Istituto Antonio Gramsci, in un'intervista rilasciata al giornale della Conferenza episcopale ha chiesto che «tutti insieme», laici e cattolici, «si prenda in mano la questione educativa ». L'idea è di creare un «fronte comune», un'alleanza che passi attraverso il concetto «dell'allargamento della ragione » laica per combattere «l'emergenza educativa» di cui il presidente Giorgio Napolitano ha parlato due giorni fa con Papa Benedetto XVI nell'incontro al Quirinale. «Trovo molto rilevante — ha dichiarato Giuseppe Vacca — che il presidente faccia sua questa espressione che la Chiesa usa da tempo. Emergenza educativa che non significa crisi della scuola, ma è qualcosa di più ampio, giacché gli agenti educanti non sono più solo quelli tradizionali, e la questione educazione oggi non può prescindere dall'influenza straordinaria dei media».
La posizione di Giuseppe Vacca ha suscitato reazioni contrapposte. «Premesso che non conosco a fondo la posizione del professore su questa tematica, considero l'appello a fare fronte comune assolutamente ragionevole — afferma Luigi Zanda, senatore del Pd di area laica —, questo però a patto che si intenda il fronte comune come impegno a risolvere i problemi sul metodo del confronto e delle possibili convergenze. Non ci vedo nulla di male».
Di tutt'altro avviso invece è Riccardo Nencini: «C'è una differenza fondamentale fra laici e cattolici — ha commentato il segretario del Partito socialista —. Il laico è chi ha un atteggiamento critico e non dogmatico nella pratica. Il cattolico invece ha un atteggiamento dogmatico. Se ci può essere un punto di vista coralmente condiviso, ben venga, ma non per la sottomissione ai valori cattolici. Se penso all'educazione scolastica, il riferimento Costituzionale non prevede insegnamenti dogmatici. E in generale etica e vita pubblica devono essere svincolati dal dogmatismo religioso, lasciando piena libertà ai laici».
Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione ma anche credente (valdese), è contrario alla contaminazione Stato-Religione. «Il problema è secondo me complesso — ha affermato l'ex ministro —, perché l'emergenza educativa andrebbe prima di tutto inquadrata diversamente e riguarda tutta la società, a cominciare dai valori che vengono trasmessi da esponenti di un partito di governo come la Lega. Penso a Borghezio che organizza raduni anti-islamici, facendo passare ai giovani messaggi di tipo razzista. Prima di fare un fronte comune, serve un senso di responsabilità maggiore da parte di tutti». Secondo Paolo Ferrero, «sono comunque condivisibili alcune posizioni della Chiesa, su immigrazione e solidarietà sociale, ma non possiamo dimenticare le chiusure sulle libertà religiosa e sulle questioni etiche. Per questo trovo difficili le convergenze sui temi dell'educazione».

Corriere della Sera 6.10.08
Incontri Il famoso psicoanalista e filosofo racconta il crollo dei poteri tradizionali (economico e militare) e il fascino duraturo dello stile di vita
Pop e hamburger salveranno l'America
James Hillman: la crisi della storia produce un risveglio delle coscienze, soprattutto sui temi ambientali
di Ranieri Polese


SIRACUSA — Quante volte è stato a Siracusa, professore? «Con questa, sono quattro volte ». Una in più di Platone. «Sì, in effetti una volta in più, ma — James Hillman ride — Platone era venuto qui con grandi ambizioni, voleva creare in questa città il governo perfetto. Pensava che i tiranni di Siracusa fossero pronti a realizzare il suo ideale di Stato. Le cose andarono diversamente, e ogni volta il grande filosofo dovette scappare dalla città, tremendamente deluso. Io no. Sono qui per una lezione sull'architettura ("L'anima dei luoghi. Il corpo nello spazio", con il professor Carlo Truppi, oggi a Palazzo Vermexio, ndr), non sono qui per imporre un modo di governare, per cambiare il mondo. Certo, vedo il mondo come va, dico quello che penso su quanto sta succedendo, suggerisco un modo di pensare a quello che accade.
Insomma, chiedo a tutti di non sottovalutare certi segnali. Che oggi mi sembrano talmente forti, difficili da ignorare… ».
E Siracusa? «C'ero venuto l'ultima volta sei anni fa (da quella conferenza-incontro, sempre con il professor Truppi della Facoltà di Architettura, è nato il libro L'anima dei luoghi, uscito da Rizzoli nel 2004, ndr). È una città mirabile, per questo mescolarsi di epoche, l'antica Grecia, il cristianesimo, il Barocco: l'isola di Ortigia è un posto unico al mondo. Purtroppo, arrivando, mi è sembrato che le raffinerie lungo la costa siano aumentate. Danno occupazione e lavoro, certo, ma mettono anche in pericolo la bellezza del luogo». E di questo Hillman ha parlato all'ex sindaco della città Titti Bonfardici, ora vicepresidente e assessore al turismo della Regione Sicilia.
Ottantadue anni, con sempre una inesauribile voglia di viaggiare, lo psicoanalista e filosofo James Hillman è uno degli autori più amati e più letti in Italia. Libri come Saggio su Pan
o Il codice dell'anima (entrambi Adelphi) sono dei longseller; ogni sua apparizione in pubblico (Mantova, la Milanesiana ecc.) registra il tutto esaurito. Della sua conferenza tenuta a Capri, nel settembre 2007, l'editore La Conchiglia ha appena pubblicato il testo col titolo La giustizia di Afrodite, traduzione a fronte di Silvia Ronchey.
Lei parla di segnali. Nel suo Codice dell'anima
diceva che il daimon invia dei segnali a ciascuno di noi per farci capire cosa non fare. Poi noi decidiamo come agire. È una teoria che vale non solo per gli individui e le loro scelte private, ma anche per le collettività e i grandi problemi? «Certo. Guardiamo un po' il crollo del capitalismo finanziario che si è consumato in questi giorni in America. Da tempo c'erano segnali. Cominciando dagli anni Novanta, con le bubbles
giapponesi e il crac della borsa di Tokyo. A seguire ci sono stati i disastri delle economie asiatiche, del Brasile eccetera.
Ma sembra che nessuno ne abbia tenuto conto… Nemmeno Ben Bernanke, il presidente della Federal Reserve, uno che pure ha studiato le grandi crisi economiche del Novecento».
Vuol dire che la storia si ripete, nonostante tutto? «È un'idea radicata e diffusa, uno dei modi con cui si guarda al futuro. Certi avvenimenti ricordano fatti precedenti, la crisi di oggi non può non richiamare quella del 1929. Anche se poi ci sono molte differenze, per esempio il nuovo sistema globale, o la rapidità con cui oggi, con un clic sul computer, possiamo trasferire miliardi di dollari. Un grande pensatore americano del Novecento, Georges Santayana, diceva che solo chi non conosce la storia è condannato a ripeterla. Ma poi, oggi, anche chi conosce la storia — Bernanke, per esempio — ripete gli stessi errori. Non solo nella politica economica. Prendiamo per esempio John McCain e la guerra in Iraq».
Anche lui ripete qualcosa di già visto? «Assolutamente sì. Quando il candidato repubblicano alla Casa Bianca ci dice che questa guerra dobbiamo vincerla perché non possiamo perderla; che, se ci ritirassimo ora, lasceremmo Al Qaeda libera di impadronirsi di tutto il Medio Oriente fino all'Afghanistan e al Pakistan, ecco quando dice queste cose ripete quello che diceva il presidente Lyndon Johnson sulla guerra del Vietnam. Usava, Johnson, la stessa teoria del domino: se molli una pedina, tutte le altre cadono. Allora si diceva in mano ai comunisti, oggi si parla di Al Qaeda. Ma il ragionamento è lo stesso». Qualcuno dice che il crac finanziario segna il crollo dell'America. «Ci sono due idee dell'America da considerare, come ho scritto in un articolo apparso mesi fa su Liberal, scritto dunque prima della caduta di Wall Street. C'è l'America della forza, dell'impero, l'America secondo Bush; e c'è l'America dell'immaginario, dell'American way of life, della cultura. La prima, sì, è crollata. La seconda invece resiste nonostante la crisi, ed è ancora forte. Se 300 milioni di cinesi studiano l'inglese, se tutto il mondo consuma hamburger, se i giovani giapponesi rifiutano il riso per mangiare il pane americano (che è terribile); se tutti gli emigranti del mondo sognano solo di venire a vivere in America, se la cultura pop è, insieme alla lingua, la cultura universale, tutto ciò vuol dire che questa idea d'America non è morta. Anzi, continua a prosperare. Forte com'è del fatto — prenda il pop americano, musica, cinema eccetera — che ha saputo inglobare, mischiare contributi del mondo intero, dal Brasile al Giappone, e formare un qualcosa che tutto il mondo consuma e apprezza. Il problema è che oggi l'America, arroccata com'è nella sua idea di potenza, non sa, non vuole cooperare con il resto del mondo, per esempio con la Russia».
C'è scontro, in effetti, tra Washington e Mosca. «Anche se, nella questione dei pirati in Somalia, Stati Uniti e Russia stanno collaborando. Ma poi, sulla crisi del Kosovo, sulla Georgia, torna a predominare la logica della contrapposizione ». Banche che falliscono, miliardi di dollari bruciati, il rischio della catastrofe: qual è il suo stato d'animo? «Non si scandalizzi, ma io, politicamente parlando, le dico che sono felice. Certo, vedo la gente che teme per i propri risparmi, non ce la fa a pagare i mutui eccetera. Però, per me, questo è un allarme salutare. Una sveglia per tutti, non solo per i padroni della finanza o gli uomini di Stato. Ci vuol dire, questo segnale, che bisogna ripensare tutto, vedere che il capitalismo avanzato non genera solo utili ma anche grandi problemi, che il cosiddetto mercato libero in realtà libero non è. Insomma, per me oggi siamo come nel novembre 1989, quando la caduta del Muro di Berlino ci fece aprire gli occhi sul comunismo. E la crisi del comunismo, a ben vedere, ha molti tratti simili con la crisi odierna del capitalismo».
In che senso? «Entrambi cadono per collasso, per implosione, insomma per fattori interni e non per l'azione di nemici esterni. Per il regime sovietico la minaccia veniva sempre da fuori. Non voleva vedere il sistema di corruzione, avidità, intrighi che lo minavano internamente; era un sistema che dichiarava anche con i suoi capi, Brezhnev per esempio, la sua senilità, l'impossibilità di un ricambio. Mi pare che questa diagnosi si possa ripetere per il capitalismo americano. Che non ha voluto vedere i giochi speculativi, le avidità degli uomini della finanza. Poi, anche in America, c'è la propensione a pensare che il pericolo viene sempre dagli altri, da fuori. Siamo, noi americani, convinti che i nemici ci minacciano sempre, siano essi i comunisti, Al Qaeda, i neri, i messicani che premono per entrare. È un tratto paranoico del nostro carattere nazionale. Come la convinzione che noi e solo noi siamo depositari del bene e della verità».
Un segnale d'allarme, un risveglio per la coscienza della common people, la gente comune, dunque. «Certo, non come gli attentati dell' 11 settembre, che generarono solo paura con le conseguenze che tutti conosciamo, guerre e tutto il resto. Oggi, questa crisi ci spinge a ripensare il modo di vivere generale, a cominciare dall'uso delle risorse energetiche. Ci spinge a pensare "verde", a non rischiare più la salute di questo pianeta».
Tra poche settimane, ci saranno le elezioni in America. James Hillman, per chi voterà? «Obama».

Corriere della Sera 6.10.08
Bioetica. La polemica tra Roberta de Monticelli e monsignor Giuseppe Betori
Spetta alla persona decidere sulla sua vita
di Vito Mancuso


Il 1˚ottobre monsignor Giuseppe Betori, segretario uscente della Cei, dichiara che sull'interruzione o meno delle cure «non spetta alla persona decidere». Il giorno dopo la filosofa Roberta de Monticelli scrive sul Foglio che «questa dichiarazione è la più tremenda, la più diabolica negazione dell'esistenza della possibilità stessa di ogni morale», e con ciò sancisce «l'addio a qualunque collaborazione diretta o indiretta con la Chiesa cattolica italiana». Il giorno dopo monsignor Betori replica su Avvenire,
distinguendo la libertà di coscienza (che approva) dal principio di autodeterminazione (che deplora). Non riuscendo a cogliere la pertinenza di tale distinzione, io chiedo in che senso la libertà di coscienza sarebbe diversa dalla libertà di autodeterminazione. Che cosa se ne fa un uomo di una coscienza libera a livello teorico, se poi, a livello pratico, non può autodeterminarsi deliberando su se stesso? Di se stessi infatti si tratta quando si parla di testamento biologico, della propria vita e della propria morte, non di quella di altri.
Il fatto è che noi cattolici non abbiamo le idee chiare in materia di libertà di coscienza.
L'abbiamo rivendicata contro l'Impero romano quando eravamo minoranza, poi l'abbiamo negata quando siamo diventati maggioranza, arrivando persino (noi che oggi difendiamo gli embrioni!) a uccidere chissà quante migliaia di eretici solo per il fatto che esercitavano la loro libertà di coscienza. Tale repressione della Chiesa era motivata dalla difesa della verità, oggettivamente superiore alla capacità soggettiva di intenderla. Oggi che i Papi sono paladini della libertà di coscienza, si è forse svenduto il primato della verità? No, si è semplicemente fatto un passo in avanti, capendo che il rapporto dell'uomo con la verità passa necessariamente attraverso la coscienza. Il primato oggettivo della verità permane, ma non è tale da sopprimere la libertà della coscienza, la quale può persino giungere a rifiutare la verità; e immagino che anche monsignor Betori sia contrario a punire con il rogo una tale condotta.
Allo stesso modo questo vale per la vita fisica. L'affermazione del primato della vita come dono non può esercitarsi a scapito di chi, tale dono, non lo riconosce o non lo vuole più. Se è un dono, dono deve rimanere, e non trasformarsi in un giogo. Nel Vangelo è lampante la libertà di cui si gode: i figli se ne possono andare da casa, le pecore allontanarsi dal gregge, persino le monete si possono perdere. Dio rispetta l'autodeterminazione dei singoli. Se così non fosse, non sarebbe la fede ciò che ci lega a lui, ma l'evidenza che non ammette deviazioni. Insomma a me pare che sia molto più evangelica (oltre che molto più moderna) l'identificazione tra libertà di coscienza e principio di autodeterminazione sostenuta da Roberta de Monticelli, che non la loro distinzione sostenuta da monsignor Betori. Ma ho fiducia nello Spirito: come la Chiesa è giunta ad accettare la libertà di coscienza sulla dottrina, così giungerà ad accettare la libertà del soggetto rispetto alla propria (alla propria, non a quella di altri!) vita biologica. Spetta alla persona decidere; non ai medici (che vanno ascoltati), non ai vescovi (che vanno ascoltati), ma alla persona, a ognuno di noi.

l’Unità 6.10.08
Sanità e ospedali: evitare i tagli è necessario
di Luigi Cancrini


Gentile professore,
come lei sa e come il bellissimo articolo di Furio Colombo ha raccontato, è stata decisa la chiusura dell’ospedale San Giacomo. Personal-
mente lo ritengo un errore culturale, scientifico ed assistenziale grave e quindi politicamente miope. Come medico e come persona in contatto con i familiari ed i pazienti "psichiatrici" che hanno utilizzato più volte il reparto di psichiatria del San Giacomo sono preoccupato. Sono preoccupato che questo reparto venga trasferito, smembrato, che non operi più in questa importante area di Roma: il "centro" non è solo "storico", è pieno di disagio, di uomini e donne che ci lavorano, di povera gente che cerca tra i rifiuti una propria vita e di chi vi arriva smarrita da altri paesi e da altri mondi. Togliere a questa parte di Roma la psichiatria vuol dire togliere il dato antropologico del disagio. Negarlo. Per far posto invece ad una immagine del "benessere", tanto fragile appunto da voler vedere annientato qualsiasi dolore intorno a sé per poter esistere.
G. De Tibertis

Mi sono detto tante volte, pensando agli entusiasmi che gli amministratori di sinistra (ma anche del centro e della destra) dimostrarono per la legge voluta da Basaglia, che quello che soprattutto piaceva a loro, in quanto amministratori, era l’idea (che non aveva nulla a che fare con quella di Basaglia) di poter considerare l’ospedale psichiatrico e la psichiatria come la vera causa del disturbo psichiatrico. Superare l’ospedale e sostituirlo con il nulla della normalità era fantastico non solo dal punto di vista di chi ha bisogno di negare il male e la sofferenza inventandosi (o accettando) soluzioni tremendamente semplici ma anche da quello, per loro fondamentale, del risparmio. Interpretata da molti, in buona o in cattiva fede, come una riforma senza costi e capace ugualmente, tuttavia, di migliorare la condizione delle persone che stanno male, la legge scritta a quel tempo con tanto entusiasmo diede luogo, in molte parti d’Italia, ad una situazione in cui la psichiatria tornò ad essere la cenerentola della sanità. Una spesa in più, fastidiosa ed evitabile per dei pazienti che, alla fine, di provvedimenti sociali e d’affetto solidale hanno bisogno più che di cure costose e di altro livello professionale.
La vicenda del reparto psichiatrico del San Giacomo di cui tu mi parli, caro G., è, da questo punto di vista, una vicenda esemplare. Sostanzialmente ignorata nel dibattito in corso, essa potrebbe (dovrebbe) essere messa in primo piano, invece, da quello che viene presentato come un progetto di riorganizzazione dei servizi nel centro (nel cuore) della città. Tenendo conto seriamente di tre argomenti fondamentali.
Il primo e più importante di questi argomenti è quello legato alla carenza strutturale, nota da decenni a tutti gli operatori del settore, di posti letto psichiatrici nei nostri ospedali. Malati e famiglie sono costretti spesso, per questa carenza grave ed ingiustificata, a vere e proprie deportazioni (il lungo viaggio in ambulanza del malato legato) in ospedali della Provincia (per esempio a Monterotondo) e della Regione (per esempio Ceccano). Quando vengono ricoverati a Roma, d’altra parte, questi stessi malati rischiano di essere dimessi dopo uno o due giorni di degenza anche quando le loro condizioni consiglierebbero di prolungare la degenza, di stare disperatamente male fuori e di dover rientrare drammaticamente dentro (altre contenzioni e altre deportazioni) a distanza di poche ore o di pochi giorni in una situazione in cui quella che domina è solo e sempre la fretta di farli uscire "per carenza di posti letto". Quanto sia folle in queste condizioni (la follia degli amministratori non li porta mai al ricovero per fortuna, altrimenti i posti liberi non ci sarebbero mai) chiudere il Pronto Intervento ed i posti letto psichiatrici del San Giacomo disperdendo il personale che li ha tenuti in attività fino ad oggi possono dirlo solo gli operatori, i malati e le loro famiglie. La Regione se ne era forse in parte resa conto l’11 agosto 2008 quando solennemente affermò che il San Giacomo andava chiuso ma che i posti letto della psichiatria e della nefrologia sarebbero stati mantenuti. Oggi, tuttavia, di questo mantenimento non si parla più: a ulteriore riprova, in fondo, del modo disattento e confuso in cui tutta questa vicenda è stata condotta.
Il secondo argomento riguarda la spesa psichiatrica. La mancanza di posti letto negli ospedali è compensata infatti, a Roma, da un numero di posti letto psichiatrici convenzionati che è superiore di circa 10 volte a quello delle altre Regioni italiane. L’AIOP che li coordina ha strappato d’altra parte, al tempo di Storace, condizioni estremamente vantaggiose (e molto discutibili dal punto di vista medico ed amministrativo) per i proprietari delle cliniche che la Giunta Marrazzo ha sostanzialmente mantenuto: la spesa per la psichiatria è altissima per questo motivo nel Lazio. Quello che è davvero difficile accettare, ora, è che il risparmio lo si faccia diminuendo le attività di un pubblico già insufficiente senza preoccuparsi, in nessun modo, di un privato straripante. E così avviene, tuttavia, in una Regione in cui il "privato è bello" di Berlusconi è già ampliamente applicato: nel campo, almeno, della psichiatria con risultati che non sono, purtroppo, per niente soddisfacenti.
Il terzo e ultimo argomento è quello, più generale, del modo in cui Governo e Regioni stanno affrontando in questi anni il tema della spesa sanitaria. L’idea che i tagli sono "dolorosi ma necessari" continua ad essere proposta infatti come l’unica di cui si deve tenere conto. Il problema da mettere in primo piano dovrebbe essere, invece, quello legato ad una programmazione intelligente in quanto capace di rispondere ai bisogni reali delle persone. Risparmiando (come sicuramente è possibile, a Roma, nel Lazio e altrove, sulle spese superflue o gonfiate che sono molte) dalla avidità dei privati convenzionati e dalla negligenza o dalla corruzione (ampiamente provata, purtroppo) di troppi amministratori.
Sono personalmente convinto, avendo avuto per quindici anni responsabilità di programmazione degli interventi sanitari della Regione Lazio, che la chiusura del San Giacomo sia un errore. Destinare ad altro uso una struttura sanitaria legata con tanta forza alle abitudini e ai bisogni dei cittadini romani ha un senso solo per chi crede nell’ importanza prioritaria dei tagli ed avrà ripercussione negative sulla efficienza e sulla funzionalità della rete ospedaliera romana. Aggiungere al danno certo della chiusura del San Giacomo la beffa di una perdita seria dei posti letto della psichiatria e della nefrologia sarebbe, tuttavia, la prova di una irresponsabilità assoluta. In cui davvero, da cittadino, non voglio credere.

l’Unità 6.10.08
Afghanistan. L’ammissione a un giornale britannico arriva pochi giorni dopo che il presidente Karzai aveva invitato il mullah Omar, leader degli integralisti, a trattare
Perfino il generale inglese si arrende: «Non possiamo vincere. Negoziare con i talebani»
di Gabriel Bertinetto


Altro che vittoria. Un pareggio andrebbe benissimo. Dopo le aperture del presidente Hamid Karzai, che offre al mullah Omar un negoziato per una futura compartecipazione al potere, si pronuncia apertamente per il dialogo anche il comandante delle forze britanniche in Afghanistan, generale Mark Carleton-Smith. Ed è quanto mai significativo che a queste conclusioni arrivi non un politico ma un militare, cioè chi di mestiere si occupa di guerra più che di diplomazia.
L’alto ufficiale affida al Sunday Times sagge considerazioni sull’impossibilità di sconfiggere la rivolta talebana. L’obiettivo è piuttosto ridurre la ribellione «ad un livello gestibile, che non costituisca una minaccia strategica e che possa essere affrontata dall’esercito afghano». In altre parole, togliamoci dalla testa di eliminare l’opposizione armata in Afghanistan. Prepariamo piuttosto il terreno affinché le forze regolari locali siano in grado, dopo il nostro ritiro, di tenerla sotto controllo. Oppure -e qui Carleton-Smith trae coraggiose deduzioni politiche dalla sua drammatica esperienza di comando militare nel sud Afghanistan, dove le truppe inglesi constatano ogni giorno la forza dell’insurrezione talebana-, accettiamo di venire a patti con il nemico.
Siamo a questo punto. Sette anni dopo il rovesciamento della dittatura teocratica, la comunità internazionale è alle prese con la crisi di un progetto di rinascita democratica e ricostruzione materiale nel quale aveva investito rilevanti risorse politiche, militari, economiche. Era un obiettivo apparentemente alla portata di un fronte così ampio e concorde. A differenza di quello che sarebbe poi accaduto meno di due anni dopo per la sciagurata avventura irachena di Bush, nel settembre 2001 il mondo intero si era schierato per la cacciata dei mullah e delle bande di Al Qaeda loro ospiti. Una missione di evidente legittimità. Per l’avallo dell’Onu, e per la chiarezza dell’obiettivo: liberare un popolo oppresso dalla morsa di oppressori retrivi e violenti, distruggere il retroterra logistico di una minaccia terroristica di portata planetaria.
L’impresa, iniziata sotto i migliori auspici, si è incagliata nelle secche della superficialità politica e culturale dei suoi protagonisti. Gli Usa in particolare, il Paese maggiormente impegnato nell’operazione, hanno puntato sulla superiore potenza di fuoco dei loro aerei, elicotteri, e reparti speciali. Salvo poi limitare il numero delle forze impegnate sul campo, per potere destinare il grosso degli effettivi al conflitto mesopotamico. L’inadeguatezza quantitativa dei contingenti dispiegati dagli Stati Uniti e dagli altri Paesi è però uno degli errori e forse non il più importante. Si è sbagliato quando ci si è illusi che lo svolgimento di elezioni sul modello delle democrazie occidentali bastasse ad avvicinare i cittadini afghani alle neonate istituzioni statali. Non si è stati sempre capaci di convogliare gli aiuti economici attraverso canali che non si perdessero nel fiume della corruzione e dell’inefficienza burocratica. Non si è cercato di capire le particolarità culturali e sociali di una società multietnica, strutturata secondo vincoli di tipo tribale. Non bastava il voto individualmente favorevole a Karzai o ai suoi deputati per legare gli afghani alla nuova Repubblica democratica. Era necessario che i leader tradizionali, i capi-clan, gli anziani delle comunità di quartiere o dii villaggio fossero più e meglio coinvolti nel processo di rinascita civile ed economica. Karzai ed una parte della classe dirigente afghana l’hanno capito e ci hanno provato. Ma non sempre hanno trovato una sponda solida e convinta negli sponsor stranieri. E quando alcuni governi amici hanno provato a percorrere quella strada (vedi le iniziative del governo Prodi e del ministero degli Esteri guidato da D’Alema nel 2007) qualcuno a Washington o altrove ha fatto sapere che certe iniziative rischiavano di essere velleitarie e che bisognava prima di tutto combattere. E se per uccidere un guerrigliero o un terrorista si bombardava un villaggio facendo strage di civili, pazienza.
Tanti errori sommati gli uni agli altri hanno fatto il gioco dei talebani. Alla fine del 2001 erano dispersi ed isolati. Sono riusciti a risalire la china attraverso l’uso metodico della violenza, dell’intimidazione e della potenza finanziaria derivante dal narcotraffico. Ma hanno soprattutto riempito un vuoto di iniziativa politica da parte degli avversari. Karzai l’ha capito così a fondo da proporre loro un compromesso. Il generale Carleton Smith pure. Forse troppo tardi.

Repubblica 6.10.08
Mantegna. L’artista della pittura scolpita
Una grande retrospettiva al Louvre


Le duecento opere esposte permettono un percorso cronologico ricco di originali e di suggestivi confronti
Trasformò la corte mantovana nel celebre avamposto dell´arte italiana
Entrò a servizio dai Gonzaga nel 1458 e vi restò fino alla morte nel 1506
Il sodalizio con Giovanni Bellini forte come quello Picasso-Braque
La prima sezione affronta lo studio dove lavorò quasi bambino a Padova

PARIGI. Pochi grandi artisti del Rinascimento possono vantare una fortuna espositiva pari a quella di cui ha goduto Mantegna, a partire dall´ormai mitica retrospettiva mantovana del 1961, che nell´Italia del primo boom economico aprì la strada all´era delle grandi mostre, per continuare con la altrettanto straordinaria esposizione che si tenne nel ?92, prima alla Royal Academy londinese e poi al Metropolitan di New York. Un percorso trionfale che sembrava essersi un po´ inceppato due anni fa, quando la ricorrenza del V centenario della morte dell´artista fu celebrata in Italia con una pluralità di mostre di vario livello, la più discutibile delle quali fu proprio quella organizzata nella città in cui l´artista spese la maggior parte della sua carriera, dominando ininterrottamente la scena per un cinquantennio.
A risarcire prontamente il danno d´immagine provocato da questo deprecabile incidente di percorso, giunge ora questa magnifica retrospettiva parigina a cura di Giovanni Agosti e Dominique Thiébaut (Mantegna 1431-1506, Louvre, con il sostegno dell´Eni, fino al 5 gennaio), che ha le carte in regola per segnare nella storia della fortuna critica dell´artista una tappa non meno memorabile di quelle del ?61 e del ?92.
Fin da quando era in vita, Mantegna godette in Francia di una fama eccezionale, tanto che nel 1499 Georges d´Amboise, ministro di Luigi XII, nel manifestare al marchese Francesco Gonzaga, che monopolizzava l´attività dell´artista, il suo ardente desiderio di ottenere una tavola dipinta da Mantegna per la sua cappella palatina, non esitò a definirlo «el primo pittore del mondo». La morte dell´artista, ma ancor più l´arrivo di Leonardo in Francia affievolirono un po´ questo entusiasmo, che però riprese presto a vigoreggiare grazie anche alla precoce presenza in territorio transalpino di importanti opere del maestro e alla diffusione delle sue invenzioni tramite stampe e placchette in bronzo. Può dunque ben dirsi che la fortuna critica del Mantegna in Francia non ha mai conosciuto momenti di crisi, come dimostrano l´impatto delle sue opere su un protagonista del ?600 come Poussin e la presenza di parecchi suoi capolavori nelle più prestigiose raccolte francesi del XVII e XVIII secolo. Per non dire di quell´ardente «ritorno di fiamma» che si manifestò nel tardo ?800 e che vide in prima fila i coniugi Jacquemart-André, intenti a non lasciarsi sfuggire neppure una delle sue rare opere ancora sul mercato, sostenuti dall´entusiasmo di studiosi come Yriarte e da romanzieri del calibro di Proust.
Potendo contare sul nutrito gruppo di capolavori mantegneschi presenti nei musei francesi, ma anche sul concorso generoso di tante prestigiose raccolte di tutto il mondo - con la deprecabile eccezione della Carrara di Bergamo, delle Gallerie veneziane dell´Accademia e della Ca´d´Oro e della Gemäldegalerie berlinese che non hanno voluto essere all´altezza dell´occasione - i due curatori della mostra sono riusciti ad allestire un percorso espositivo forte di 200 opere, distribuite in dieci sezioni che scandiscono in ordine cronologico la carriera dell´artista, illustrandone ogni snodo con una grande ricchezza di originali e di appropriati confronti. Giovanni Agosti è senza dubbio lo studioso italiano che maggiormente ha contribuito negli ultimi anni a rilanciare gli studi su Mantegna, con scritti in cui l´erudizione e l´intelligenza critica sono surriscaldate da un´acuta sensibilità estetica e da una scoppiettante vena letteraria. Thiébaut ha saputo coadiuvarlo egregiamente, tenendo ben ferma la barra di una mostra che sa parlare anche al grande pubblico, ma rifugge da ogni semplificazione banalizzante. Esemplari, sotto questo punto di vista, le brevi ma dense didascalie che accompagnano ogni singola opera, fornendo al visitatore un prezioso filo d´Arianna.
Pur conferendo all´insieme un´impronta unitaria e personale, Agosti e Thiébaut hanno curato in proprio solo una sezione ciascuno, affidando le altre otto a specialisti. Aldo Galli e Laura Cavazzini, ad esempio, hanno curato la prima, intitolata «Padova, crocevia artistico», in cui si segue la precocissima ascesa di Andrea, che entra a dieci anni nella fervida bottega dello Squarcione, frequentata da giovani artisti di belle speranze venuti da ogni dove, ne assorbe il clima di curiosità antiquaria alimentato dagli umanisti dello Studio padovano e si confronta con la dominante personalità di Donatello, che è presente in città per un intero decennio.
Più di ogni altro, fu proprio quel genio fiorentino a marchiare a fuoco la fantasia figurativa del giovane Andrea, imprimendo nel suo stile quella minerale durezza del marmo e forbitezza del bronzo, che hanno fatto non a caso parlare di «pittura scolpita». La sezione che segue, curata da Bellosi, è fra le più emozionanti e innovative, mostrandoci Andrea, che nel ?53 ha sposato la figlia di Jacopo Bellini, Nicolosia, procedere «in cordata» con il giovane cognato, Giovanni Bellini, in un sodalizio così stretto e reciprocamente proficuo da indurre Agosti ad evocare quello che legò Braque e Picasso negli anni eroici del primo Cubismo. Segue una sezione curata da De Marchi, il cui fulcro è la presentazione unitaria dei tre pannelli della predella del Trittico di San Zeno, che di norma sono divisi tra il Louvre e il Museo di Tours, mentre la quarta sezione, a cura di Marco Tanzi, affronta il primo decennio mantovano dell´artista, che entrando al servizio dei Gonzaga nel ?58 per restarvi fino alla morte (1506), prende in mano le redini dell´intera produzione artistica, trasformando quella corte padana, fino ad allora culturalmente periferica, nel più celebrato avamposto dell´arte italiana. La quinta sezione ruota attorno al famoso San Sebastiano proveniente da Aigueperse, il primo capolavoro di Mantegna entrato in Francia quando il pittore era ancora nel pieno della sua attività, mentre la sesta è dedicata al denso capitolo della diffusione delle invenzioni mantegnesche tramite l´incisione e le arti applicate, un espediente cui l´artista si dedicò intensamente anche per affrancarsi dallo stretto controllo sulla sua produzione esercitato dai Gonzaga, suoi signori e padroni. Le due sezioni successive poggiano quasi esclusivamente sulle straordinarie raccolte del Louvre, essendo dedicate, la settima alla Madonna della Vittoria, che è del ?95-´96, e l´ottava al celebre Studiolo di Isabella d´Este, che la mostra offre l´eccezionale occasione di vedere al completo, con le due tele di Mantegna, assieme a quelle di Perugino, di Costa e di Correggio, esposte proprio come lo erano nella Corte mantovana. Dopo la sezione dedicata ai Trionfi, che grazie alla generosità della regina inglese può vantare la presenza di una delle nove celeberrime tele della Royal Collection, la mostra si chiude in modo avvincente con una sezione in cui le ultime opere di Mantegna, prossimo alla morte, si alternano a quelle del giovane Correggio, rivelandoci come il trapasso da un mondo che andava inesorabilmente tramontando e il nuovo universo figurativo della «maniera moderna», non si sia consumato in modo improvviso e violento, ma come un naturale passaggio di testimone: il sorgere di un nuovo e vigoroso virgulto, capace però di trarre ancora alimento dalle radici di una vecchia quercia abbattuta.

Repubblica 6.10.08
PARIGI. Picasso e i maestri
Galeries Nationales du Grand Palais


Dall'8 ottobre. Da vedere la mostra evento che ripercorre l'opera del maestro spagnolo in rapporto allo studio dei capolavori del passato, prendendo in esame il suo «cannibalismo pittorico» senza precedenti nella storia dell'arte. Organizzata in collaborazione con il Musée du Louvre (qui c'è la sezione dedicata a "Les femmes d'Alger" di Delacroix) e con il Musée d'Orsay (dove è allestita quella riservata a "Le déjeuner sur l'herbe" di Manet), l'esposizione, curata da Anne Baldessari e Marie-Laure Bernadac, fornisce attraverso duecento opere un primo, raffinato bilancio di questa particolare metodologia di lavoro che rompe con la tradizione della copia, della parafrasi, della citazione. Formatosi con il padre, docente e direttore dell'Accademia di Malaga, e in altre scuole d'arte, Picasso disegna dall'antico, confrontandosi con Michelangelo e Raffaello, e copia i dipinti dei grandi maestri spagnoli. Questo lungo apprendistato, mai banale, lo conduce nel tempo a operare la più radicale delle innovazioni formali: il cubismo. Trasposizione, mimetismo, svisamento, snaturazione sono alcune componenti della strategia dell'artista nei confronti dei suoi pittori prediletti, che porta l'arte contemporanea sulla strada della duplicazione perversa, dell'ironia e del pastiche.

Repubblica 6.10.08
Mantova. Il Cammeo Gonzaga. Arti preziose alla corte di Mantova
Fruttiere di Palazzo Te. Dal 12 ottobre



Celebri per la loro magnificenza, le raccolte dei signori di Mantova erano costituite da dipinti e sculture, che furono poi acquistati in gran parte da Carlo I nel 1627-28. La mostra, curata da Ornella Casazza, prende invece in esame gli oggetti d'arte, facenti parte dello studiolo del Castello di San Giorgio, voluto da Isabella d'Este. Il percorso, costituito da centoventi opere tra dipinti e oggetti preziosi, racconta il gusto della famiglia per il bello. A partire dal Cammeo Gonzaga, databile al III secolo a. C., raffigurante Tolomeo II Filadelfo e Arsinoe II, appartenuto a Isabella d'Este e oggi conservato all'Ermitage di San Pietroburgo. La visita inizia con il dipinto da Raffaello che ritrae Elisabetta con un pendente a forma di scorpione. Da vedere inoltre le sezione dedicate a Giulio Romano e a Rubens.

Repubblica 6.10.08
"Il confronto in Parlamento"
D´Alema: "Orticaria per la parola dialogo" Comizio con Vendola


BARI - «Trovo stucchevole la discussione sul dialogo. Dirò di più: mi fa venire l´orticaria, perché siamo in Parlamento per confrontarci». Massimo D´Alema sposta il tiro sulle cose concrete. In un faccia a faccia con il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, nel corso della prima festa del Pd di Terra di Bari, l´ex ministro degli Esteri auspica interventi del governo per far fronte alla crisi economica mondiale. «Il problema - dice - non è il dialogo per il dialogo, ma trovare soluzioni. Se il governo si fa promotore di programmi di investimenti e di provvedimenti per ridurre le tasse ai più poveri, noi sicuramente ci saremo per dialogare». Nichi Vendola parla del suo futuro politico. «Io sto in Rifondazione comunista - spiega - ma se diventa restaurazione comunista mi sarà difficile restare. Tuttavia, deve essere chiaro che il Pd non è la mia casa. A sinistra del Partito democratico, c´è bisogno di uno spazio grande: io rappresento una minoranza che vive con la vocazione di diventare maggioranza». Allo stesso tempo, Vendola auspica che il centrosinistra torni a dialogare: «È un errore aver organizzato due manifestazioni nazionali, una l´11 e l´altra il 25 ottobre. Ne sarebbe bastata una sola. Mi auguro, comunque, che entrambe mettano al centro la difesa del sindacato nel diritto a rappresentare il mondo del lavoro, perché è in atto un assalto al contratto nazionale di lavoro e alla Cgil».
Sul futuro dei rapporti tra la sinistra vendoliana e il Pd non si è sottratto Massimo D´Alema, senza tuttavia sollevare polemiche: «Noi dobbiamo guardare con attenzione a quel che avviene a sinistra, ma non spetta a noi dirimere dall´esterno il destino di Rifondazione. Dove va Nichi Vendola lo vedremo poi». Intanto, ha proseguito l´ex ministro degli Esteri, «noi abbiamo interesse che questa sinistra non si autoemargini in un culto del passato: dobbiamo prestare attenzione, essere aperti al dialogo, incoraggiare i processi di rinnovamento senza la pretesa che tutto si riassuma all´interno del Partito Democratico».
(raffaele lorusso)

Repubblica 6.10.08
"Legale il sesso tra prof e studenti" Proposta shock nella scuola inglese


LONDRA - Polemiche in Gran Bretagna per la proposta della segretaria generale di uno dei principali sindacati degli insegnanti di non processare i professori che hanno rapporti sessuali consenzienti con studenti di età superiore ai 16 anni.
Chris Keates - leader della National Association of Schoolmasters Union of Women Teachers - ha affermato in un´intervista che è una «autentica anomalia» la legge in vigore dal 2001 che vieta in modo categorico ai professori ogni forma di «attività sessuale» con gli studenti della propria scuola sotto i 18 anni. A suo avviso la legge dovrebbe tenere conto dell´età minima del consenso per i rapporti intimi, attualmente 16 anni. «La legge - ha sostenuto la sindacalista in una intervista televisiva - sembra essere eccessiva quando si tratta di un rapporto consensuale, anche perchè non riguarda i rapporti di un insegnante con studenti di un´altra scuola».
La Nspcc, la principale associazione britannica di protezione dei minorenni, ha contestato la sindacalista e difeso la legge.

domenica 5 ottobre 2008

l’Unità Roma 5.10.08
Roma raccoglie l’appello antirazzista
C’è la comunità cinese e molti arrivati da altre città. Carla, bolognese, ha sposato Ismala: «Reagiamo al dilagare dell’intolleranza». Jules, africano: stessi diritti stessi doveri
di Greta Filippini


TANTA PIOGGIA eppure sono accorsi in molti al corteo indetto da piccole formazioni politiche e della società civile per dare una risposta alle aggressioni xenofobe

Storie I numeri c’erano: secondo il comitato organizzatore, infatti, si contavano dalle 15 alle 20 mila persone. I colori, pure: quelli della grande bandiera della pace agitata in Piazza della Repubblica, quelli degli striscioni, e quelli della pelle. Gli slogan, anche: «Stop, stop, stop al razzismo!», era il grido che usciva dai megafoni impilati sui camioncini in mezzo al corteo. Così come c’erano la pioggia e il freddo, che non hanno dato tregua ai manifestanti fino a Piazza Venezia. Ma al corteo antirazzista, organizzato nel pomeriggio di ieri da Unicobas, Socialismo rivoluzionario, Partito Umanista e Centro delle Culture, c’erano soprattutto tante, tantissime storie. Luca, da 20 anni in Italia, è cinese come Tong, il 36enne pestato a Tor Bella Monaca da un gruppo di adolescenti. «L’hanno picchiato senza motivo, solo per divertirsi - denuncia intimidito -. Essere qui deve servire a cambiare la mentalità delle giovani generazioni italiane». Jules, distinto 40enne arrivato dall’Africa 20 anni fa, è sceso da Torino «per dire che gli immigrati, in quanto esseri umani, condividono gli stessi diritti e doveri delle altre persone». Accanto a lui, Carla, una giovane donna di Bologna, spinge un passeggino sul quale è appeso un cartello con scritto “Solidarietà e accoglienza per tutti”. Dentro, dorme pacifico il suo bimbo di tre mesi, mulatto. Lo ha avuto con Ismaila, africano da 12 anni in Italia. Hanno voluto essere entrambi a Roma per «reagire ad un razzismo dilagante,sempre più legittimato dall’impunibilità di chi commette violenza». Raccontano che anche Ismala, l’anno scorso, è stato aggredito nella sua macchina da un italiano, infuriato per una manovra giudicata troppo lenta. Hanno sporto denuncia, ma niente. non ci sono testimoni perchè, dice Carla, «la gente ha tirato dritto». Zahirul, invece, è arrivato col pullman da Vicenza. Ha 34 anni, è originario del Bangladesh e lavora alla segnaletica delle autostrade. «Prima avevano bisogno di noi per fare i lavori che gli italiani non fanno più. Ora - domanda - siamo troppi e non serviamo?». Ma, al corteo, non ci sono solo stranieri. Sandro,romano, è del Circolo Gianni Bosio, da 40 anni al lavoro per la diversità delle culture. «Il razzismo- dice - è da sempre una potenzialità latente. Oggi, però, ci sono legittimazione culturale, copertura politica e un oggetto contro cui scatenarsi». Annamaria, invece, è docente al Master “Immigrati e rifugiati” della Sapienza. «Stanno giocando col fuoco - avverte -. Se gli immigrati organizzassero uno sciopero nazionale, forse gli italiani si accorgerebbero di quanto sono importanti per il nostro paese». Tante voci. «Una sola manifestazione per la vita», gridano dal palco allestito accanto al Vittoriano. A denunciare i recenti fatti di razzismo, ci sono gli amici di Abba, il 19enne del Burkina Faso ucciso a Milano. C’è Christopher Schule, un ragazzo liberiano che da cinque anni vive a Castel Volturno nella stessa casa di uno degli immigrati freddati dai Casalesi. Immancabile, infine, la musica. Il corteo si conclude dopo quattro ore a suon di bonghi. Intanto, giù dal palco, c’è ancora la voce per urlare: «Equador, libertà. Algeria, libertà. Eritrea, libertà. Egitto, libertà. Cina, libertà. Burkina Faso, libertà...Italia, libertà!»

Repubblica 5.10.08
In tutta Italia le piazze contro l´intolleranza
Fini: il pericolo razzismo c´è. Veltroni: sarà al centro della nostra manifestazione del 25
di Marina Cavalieri


ROMA - Sanatoria e diritti, tamburi e reggae, slogan contro la camorra e cartelli in inglese sulla solidarietà. Striscioni con i nomi delle vittime. In un sabato «senza confini», poco italiano, ha marciato rumoroso e pacifico il popolo dei diversi, degli stranieri di buona volontà, di quelli che non tollerano più offese e rivendicano il diritto a rimanere, a stare qua, ad esserci.
A Roma, Caserta, Parma e Ancona, ci sono stati cortei contro il razzismo, si sono dati appuntamenti migranti e rifugiati, quelli che hanno conquistato il permesso di soggiorno e chi l´aspetta, ma anche ragazzi italiani, associazioni, rappresentanti delle istituzioni e sindacalisti. A Roma sono circa ventimila, a Caserta diecimila, tra loro anche il sindaco della città Petteruti e quello di Napoli Jervolino, con i gonfaloni e la fascia tricolore. E sono proprio gli immigrati di Castel Volturno ad aprire il corteo romano, sfilano a testa alta, dignitosi anche se vivono in palazzine diroccate, in baracche di lamiera, in luoghi senza nome. «Stop al razzismo, non siete morti invano», recita lo striscione. «La situazione è preoccupante, abbiamo paura, c´è stato un cambiamento di clima», dice uno di loro. Tra la folla ci sono anche i rappresentanti della comunità cinese, molti adolescenti, parlano con accento romano, sono quelli che in città vivono appartati, sempre cauti, qui sono venuti per Tong Hong-Shen, l´operaio cinese di Tor Bella Monaca aggredito senza un motivo, un perché. «È la prima volta che vengo ad una manifestazione», dice una signora in perfetto italiano. «Sono otto anni che vivo a Roma e finora non avevo mai avuto paura». Preoccupazione anche tra i senegalesi, gli amici di Abba venuti da Milano per ricordare il ragazzo morto, preso a sprangate per un pacco di biscotti in una notte di frontiera.
«Sarebbe sbagliato negare che esiste un pericolo razzismo e xenofobia», ammette Gianfranco Fini, presidente della Camera, ma riguardo la denuncia della signora somala maltrattata a Fiumicino, dice che occorre cautela. «Serve una politica chiara sull´immigrazione non si possono aprire le porte a tutti», spiega Fini che ricorda la necessità di costituire un osservatorio alla Camera sul razzismo. Sensibile al rischio razzismo anche Walter Veltroni, il segretario del Pd ha accolto l´appello che gli è stato rivolto da un gruppo d´intellettuali perché questo tema sia al centro della manifestazione del Pd in programma per il 25 ottobre. Politica e razzismo ma anche politica e camorra. «La politica si è indebolita, essa è spinta, non vorrei dire guidata, dal potere camorristico», ha detto severo monsignor Nogaro, vescovo di Caserta, durante il corteo che si è svolto in città. Corteo pacifico e trasversale, come quelli di Parma e Ancona. Nella città delle Marche si sono ritrovati in duemila sotto la pioggia, erano organizzati dalle comunità resistenti e l´Ambasciata dei diritti, al porto hanno appeso cinque manichini a rappresentare le vittime degli sbarchi, in ricordo di quelli che non possono più lottare, che cercando l´Italia sono finiti in fondo al mare.

Repubblica 5.10.08
"Il dittatore s´impose dopo la depressione"
Il tedesco Schaeuble fa il paragone col ‘29 "Un Hitler può tornare"


ROMA - Come nel 1929, l´attuale crisi finanziaria potrebbe aprire la strada ad una nuova, terribile minaccia per l´umanità e la pace mondiale. Il pericolo, paventato dal ministro dell´Interno tedesco, nonché esponente della Cdu (il partito di Angela Merkel) Wolfgang Schaeuble, è di quelli che fanno scorrere i brividi lungo la schiena: d´improvviso un nuovo Adolf Hitler potrebbe spuntare dalle ceneri della finanza mondiale in ginocchio, farsi largo tra le incertezze e il crollo delle economie di molti Paesi. E imporsi.
Mentre a Parigi si svolge il G4 straordinario sulla crisi finanziaria, a Berlino Schaeuble mette in guardia contro le possibili conseguenze politiche e di ordine pubblico dell´attuale situazione. La crisi della finanza mondiale, dice, potrebbe portare a uno sconvolgimento degli equilibri politici, gettando le basi per una «minaccia incredibile, che coinvolgerebbe l´intera società». I mercati hanno già conosciuto la Grande Depressione: adesso bisogna vigilare contro la nascita di un secondo Hitler, che fu una diretta conseguenza del crollo di Wall Street del 1929.
Il ministro non punta il dito contro un Paese specifico, ma fa l´esempio della Germania. «Fin dalla crisi economica mondiale degli anni Venti - dice al settimanale tedesco Der Spiegel - sappiamo che da una crisi economica può nascere una minaccia incredibile per l´intera società». Ecco il parallelo con la crisi del 1929: «I risultati della Depressione? Furono Adolf Hitler e, indirettamente, la seconda guerra mondiale e Auschwitz». Schaeuble, dunque, sembra preoccupato di un possibile ritorno alla dittatura, anche se si limita ad osservare «che nessuno sa, al momento, quanto sarà dura questa crisi». Secondo l´esponente della Cdu, si tratta comunque di una «svolta storica di cui leggeremo sui libri di storia, così com´è già successo per l´11 settembre del 2001».

l’Unità 5.10.08
Napolitano rilancia: allarme razzismo
di Marcella Ciarnelli


UNA STRETTA DI MANO. Più che formale, calda, affettuosa. Un cenno di saluto mentre l’automobile si allontana, come si fa con un amico che è venuto in visita e torna ai suoi gravosi impegni. Il presidente della Repubblica ha salutato così il Pontefice che ritornava in Vaticano al termine della mattinata al Quirinale. E’ stato un incontro segnato dai capricci del tempo, che ha messo a dura prova il cerimoniale, ma anche da un’amicizia e da una sintonia intellettuale che è stata più che evidente nelle fasi pubbliche della visita che, nel chiuso dello studio del Capo dello Stato, è durata trentacinque minuti. Di più del previsto. A ristorare i due anche qualche bibita. Poi la signora Clio, la moglie del Presidente, è stata fatta entrare nello studio per uno scambio informale di saluto con l’ospite venuto a Palazzo. I temi, nazionali e internazionali sul tappeto, sono molteplici. L’Italia e il mondo si stanno misurando con problemi che rischiano di soffocare il futuro di questa e delle prossime generazioni. E gli inquilini dei «due Colli molto vicini» li hanno affrontati in un clima «di rispetto e di collaborazione reciproca» come ha confermato all’inizio del suo discorso il Capo dello Stato che ha dedicato molte delle sue parole all’emergenza razzismo che è anche conseguenza di «una emergenza educativa» che è «fonte di disprezzo e discriminazione razziale che nulla può giustificare», in Italia come in altri Paesi; alla necessità della solidarietà verso chi è costretto ad emigrare per costruirsi un destino migliore e va accolto ed aiutato; ad un oscuramento complessivo di valori fondamentali che è anche alla base degli eventi che hanno investito l’economia internazionale. «Non vediamo forse perfino negli avvenimenti che stanno scuotendo le fondamenta dello sviluppo mondiale i guasti di una corrosiva caduta dell’etica nell’economia e nella politica?». Ed anche al consolidamento della pace contro ogni rischio di ritorno a contrapposizioni fatali che, Napolitano ha voluto ricordare, è uno degli obbiettivi dell’Unione europea.
«Il valore che ci deve guidare tutti -come ci dicono, con Vostra Santità, l’insegnamento e l’impegno della Chiesa - è il rispetto della dignità umana, in tutte le sue forme e in tutti i luoghi. Questo implica più che mai anche la coscienza e la pratica della solidarietà, cui non possono restare estranee - anche dinanzi alle questioni più complesse, come quella delle immigrazioni verso l’Europa - le responsabilità e le scelte dei governi». Napolitano ha così ricordato che «il rispetto della dignità umana si e’ tradotto nella grande conquista del superamento del razzismo» come ebbe a dire recentemente lo stesso Papa in un discorso da Castel Gandolfo. E’ dunque rispetto ai «fenomeni di oscuramento di valori fondamentali, quello della dignità umana, insieme ad altri, che noi sentiamo di trovarci di fronte, come Ella ha detto, ad una emergenza educativa anche nel nostro paese. Superare quell’emergenza è nostra comune responsabilità».
Di fronte ad una sfida di tale portata, l’Italia non è sola. «Davanti ad un tale cimento l’Italia può contare sulla forza del suo monito e su generosi contributi come quello - sempre di più - dei Movimenti laicali ispirati dal suo messaggio». Sul contributo del credente allo sforzo per il bene comune, Napolitano ha fatto riferimento da laico anche a conclusione del suo discorso: «Un’operosa convergenza di sforzi per il bene comune, così concepito, non offusca il alcun modo ’la distinzione’, da Lei richiamata anche a Parigi, «tra il politico e il religioso. Essa conforta la condizione - da tempo affermatasi in Italia - che il senso della laicità dello Stato, quale si coglie anche nel dettato della nostra Costituzione, abbraccia il riconoscimento della dimensione sociale e pubblica del fatto religioso, implica non solo rispetto della ricerca che muove l’universo dei credenti e ciascuno di essi, ma dialogo. Un dialogo fondato sull’esercizio non dogmatico della ragione, sulla sua naturale attitudine ad interrogarsi e ad aprirsi». Quindi un ricordo dell’insegnamento di San Francesco, patrono d’Italia, che viene ricordato proprio nella giornata in cui avviene la visita del Papa al palazzo la cui costruzione fu voluta da un Papa e che divenne luogo dello Stato, un «palazzo che ha conosciuto le ferite della storia». Hanno applaudito le alte cariche dello stato italiano e vaticano presenti nel salone delle Feste del Quirinale. Alle parole del Papa, a quelle del Pontefice. Le diversità tra le forze politiche, che pure ci sono, sembrano almeno per questi momenti essere state superate. C’è lo scambio dei doni. Una mappa del Vaticano a Napolitano, una scatola cesellata per il Pontefice. Poi arriva il momento dei saluti. Viene ammainata la bandiera del Papa che ha sventolato per un’ora e mezzo sul Torrino quirinalizio. Fino alla prossima visita ufficiale i due protagonisti della giornata si parlarenno in privato, ogni volta che ce ne sarà bisogno.

Il capo dello Stato incontra il Papa e chiede più solidarietà e accoglienza
Anche Fini concorda. Veltroni: il 25 il Pd in piazza anche contro la xenofobia
«Nulla può giustificare il disprezzo e la discriminazione razziale»: il presidente Giorgio Napolitano accoglie al Quirinale il Papa e rilancia l’allarme razzismo, usando proprio le parole pronunciate recentemente da Ratzinger. L’escalation di violenze, pestaggi e discriminazioni preoccupa il capo dello Stato che chiede più solidarietà e accoglienza verso gli immigrati. Il pericolo c’è anche per il presidente della Camera Gianfranco Fini, intervenuto a Milano. E il leader del Pd Walter Veltroni, rispondendo all’appello di intellettuali e personalità democratiche, annuncia che al centro della grande manifestazione del 25 ci sarà anche il no alla xenofobia.

l’Unità 5.10.08
«Pd, il 25 ottobre in piazza anche contro il razzismo»
Molte firme all’appello «È ormai emergenza»


«Il 25 ottobre il Pd sarà in piazza anche contro il razzismo». Lo dice Walter Veltroni che ieri ha risposto con parole preoccupate a un appello di intellettuali, politici esponenti religiosi, dopo gli ultimi episodi di intolleranza. Un clima condannato anche dal presidente della Camera Fini, oltreché dal Pontefice e dal presidente della Repubblica nel loro incontro, mentre in diverse città si sono svolte manifestazioni contro il ritorno di sentimenti razzisti e xenofobi.
«Il pesante clima di intolleranza che si sta diffondendo nel Paese impone a tutti una profonda riflessione», dice il leader del Pd, e «contribuire a salvare l’Italia da questo scenario è un dovere di cui il Partito democratico sente in pieno la responsabilità». La possibilità che il tema irrompesse nell’appuntamento del 25 ottobre era già stata evocata da Veltroni nella riunione della direzione del Pd dell’altro giorno, in cui aveva espresso timori per il clima di xenofobia alimentato dalla Destra. La manifestazione resta centrata sui problemi economici delle famiglie italiane, prezzi, salari bassi, crescita zero, ma lo slogan “Salva l’Italia”, aveva detto Veltroni, riguarda anche i valori. Ieri la lettera firmata tra gli altri da Bonomi, Lerner, Ozpetek, Nando Dalla Chiesa, Scialoja, Livia Turco, Moni Ovadia, Amato, Baliani, Marcella Lucidi, Cristina Comencini, Tullia Zevi, Piero Terracina, Vincenzo Vita, Luigina di Liegro e Amara Lakhous, ha funzionato da acceleratore. «Noi - scrivono i firmatari dell’appello a Veltroni - crediamo che questa sia ormai esplicitamente una delle emergenze di questo paese e che per affrontarla serva una iniziativa civile, politica e culturale tanto più forte perché dal governo non arrivano risposte ma spesso sottovalutazioni e silenzi, questo ci spinge a dire che aderiamo alla manifestazione del 25 indicando questo tema della concreta lotta al razzismo e insieme della necessità di serie politiche per l’integrazione come una delle questioni centrali».
Nella risposta il leader del Pd parla «di un’atmosfera cupa e negativa alimentata da una destra populista e demagogica che si è assunta la grave responsabilità di utilizzare e alimentare strumentalmente la paura degli italiani». «Avverto il rischio - continua - di una diffusione a macchia d’olio di rigurgiti razzisti e xenofobi, una prospettiva intollerabile per tutti quelli che hanno a cuore i valori della libertà, dell’uguaglianza e della giustizia sociale. Per questo mi sembra profondamente giusto che la manifestazione nazionale del 25 ottobre sia anche una grande mobilitazione di protesta contro il dilagare di una degenerazione che - conclude Veltroni - tutta l’Italia civile e democratica vuole respingere con tutte le sue forze».
In effetti la risposta all’escalation di aggressioni a sfondo razzista c’è. Anche se fa rumore il silenzio di Berlusconi. Il capo del governo ieri è tornato a parlare di mercati, rassicurando i risparmiatori italiani, ma non ha detto nulla sul tema al centro dell’incontro tra Napolitano e il Pontefice. Indicativa la reazione di Forza Italia alle parole di Veltroni: «Pur di portare qualche persona in più alla manifestazione del 25 ottobre - afferma Gaetano Quagliariello, vicecapogruppo del Pdl al Senato - sarebbe ormai capace di strumentalizzare pure l’acqua calda».
A livello istituzionale ne ha parlato invece il presidente della Camera Fini: «Sarebbe sbagliato negare che esiste un pericolo razzismo e xenofobia», ha detto alla festa della Libertà di Milano. Fini nega che la cultura razzista sia «di destra», ma ribadisce che serve integrazione e rispetto reciproco tra immigrati e italiani e che «bisogna tenere alta la guardia, perché il tema del razzismo, come dice il Pontefice, impegnerà la politica anche per i prossimi anni».
Intanto ieri da Roma a Caserta sono scesi in piazza a migliaia, immigrati e non, contro il razzismo.
A Roma ventimila persone hanno partecipato al corteo organizzato da varie sigle della sinistra. In testa le comunità africane con in mano le foto dei ragazzi trucidati dal clan dei Casalesi, presente una folta delegazione cinese, segnata dal pestaggio di un loro connazionale a Tor Bella Monaca.
«Roma non è mai stata razzista, però qualcosa è cambiato», ha detto Ji Xin dell’Unione degli studenti cinesi. A Caserta 15mila in corteo, manifestazioni analoghe, ad Ancona, Parma e Milano.

l’Unità 5.10.08
I moniti contro la xenofobia sono stati numerosi. «Alcune forze amplificano paure e insicurezza»
La Chiesa e quel dito puntato sulla politica
di Roberto Monteforte


Fronte comune contro l’emergenza razzismo. Chiesa e Stato lavorino insieme alla formazione dei giovani. Trasmettino valori positivi per contrastare la pericolosa ondata xenofoba. Anche di questo si è discusso ieri al Quirinale, durante la visita di «restituzione» di papa Benedetto XVI al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Giustizia nella distribuzione delle risorse e nelle opportunità di sviluppo di fronte al premere delle diseguaglianze e della povertà, al progredire in determinate regioni di condizioni di guerra e di estrema sofferenza e umiliazione. La pace e la cooperazione tra gli Stati e i popoli da consolidare. Il rispetto della dignità umana. È questo il terreno dell’impegno comune tra Stato e Chiesa richiamati ieri dal capo dello Stato. Con una sottolineatura particolare. Fare fronte alle «nuove e preoccupanti manifestazioni di razzismo». Napolitano fa sue le impegnative parole pronunciate da Benedetto XVI all’Angelus a Castel Gandolfo lo scorso 17 agosto: nulla può giustificare «il disprezzo e la discriminazione razziale». E a questo ha legato il tema tanto caro a papa Ratzinger dell’«emergenza educativa», non tanto da considerare come una tutela della scuola cattolica, quanto piuttosto come capacità di trasmettere alle nuove generazioni valori positivi come quello dell’accoglienza, del dialogo, della solidarietà, dell’attenzione all’altro. Terreni di impegno concreto e di battaglia culturale e politica che vede schierata in prima fila la Chiesa cattolica e le tante realtà e movimenti di credenti e non credenti impegnati nel sociale e nel volontariato a favore degli immigrati. Su quest’opera di formazione delle coscienze e di impegno concreto è la più alta carica dello Stato ad esprimere condivisione ed apprezzamento.
È la convergenza per realizzare il «bene comune». Una convergenza che vuole però dire scelte coerenti. È stato eloquente dalle colonne dell’Osservatore Romano don Vittorio Nozza, il direttore generale della Caritas: «Quando la Chiesa predica i valori della dignità, solidarietà, condivisione tra i popoli, di incontro tra le culture e le religioni, non fa battaglie politiche ma precisa i presupposti sui quali la politica deve costruire». Aggiungendo che la politica deve operare «affinché si determinino cambiamenti nell’opinione pubblica imperante. Invece - ha rilevato - è accaduto che la politica intercetti e manipoli gli umori della gente, finendo per amplificare paure e insicurezze». È una critica precisa e tagliente alle scelte del governo Berlusconi. Come ferme sono state quelle dell’arcivescovo Marchetto, segretario del Pontificio Consiglio dei Migranti prima sugli zingari e poi sulla stretta per i richiedenti asilo e sui ricongiungimenti familiari o dello stesso presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco. Ieri il Papa non le ha riproposte nel discorso ufficiale pronunciato nella sala delle Vetrate. Come neanche ha richiamato quei temi «etici» dal forte impatto politico, come la difesa della vita o della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna. Si è limitato a richiamare la difesa della libertà religiosa da intendere anche nella sua dimensione «pubblica». E a rassicurare. «Missione della Chiesa è contribuire all’edificazione di una società fondata sulla verità e libertà, sul rispetto della vita e della dignità umana, sulla giustizia e sulla solidarietà sociale». «Non si propone - aggiunge - mire di potere. Né pretende privilegi o aspira a posizioni di vantaggio economico e sociale». Chiede che i credenti possano fare la loro parte nella costruzione dell’ordine sociale. Per il resto si offre come sponda positiva alla massima istituzione della Repubblica italiana. Tra i due «colli», Quirinale e Vaticano, c’è intesa. Di più: c’è sintonia. La «questione romana» è archiviata da tempo. Se il «laico» Giorgio Napolitano sottolinea l’intesa sui valori con la Chiesa, la Santa Sede e la stessa Chiesa italiana guardano al presidente della Repubblica come al vero custode del bene comune da perseguire. Come al garante di una visione politica che, come sull’immigrazione, va oltre l’emergenza ed è attenta ai valori della persona umana da tutelare.

Repubblica 5.10.08
Scuola, sindacati uniti: sciopero generale
La Cisl: Gelmini cambi il piano o blocchiamo tutto. Ieri migliaia in piazza
di Mario Reggio


ROMA - Lo sciopero generale della scuola è alle porte. Divisi, rissosi, a volte ambigui, i sindacati della scuola hanno ritrovato l´unità e serrano le fila contro la riforma Gelmini. Dopo la scelta della Cgil di fronteggiare da sola il governo, è stato il segretario generale della Cisl Raffaele Bonanni a sciogliere ieri al riserva: senza un tavolo di confronto si va allo sciopero generale. La discesa in campo della Cisl ha messo in moto l´effetto domino: dopo la Uil anche la Gilda e lo Snals si sono schierati per lo sciopero generale e una grande manifestazione a Roma. A dire il vero, i primi a decidere la linea dura sono stati i Cobas che scenderanno in piazza a Roma il 17 ottobre.
E il ministro Mariastella Gelmini? «Mi auguro che la Cisl rifletta e si possa evitare uno sciopero generale che non sarebbe utile al Paese a fronte dei sondaggi che vedono e registrano il parere positivo della maggioranza dei cittadini - afferma il ministro della Pubblica Istruzione - ci sono delle frange che preferiscono la protesta alla proposta».
Il primo segnale poco incoraggiante per il ministro della Pubblica Istruzione è arrivato ieri da Torino: 30 mila, tra studenti, genitori e insegnanti hanno invaso il centro per dire no al maestro unico, al taglio dei 150 mila posti di lavoro e delle ore di insegnamento.
«Grande soddisfazione» è stata espressa dal segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, per la decisione unitaria dei sindacati di categoria della scuola di ricorrere allo sciopero. «Una scelta opportuna» per il leader della Cgil secondo il quale «è molto positivo che si sia trattato di una decisione unitaria. E´ necessario - ha aggiunto Epifani - reagire alla controriforma della scuola proposta dal ministro Gelmini. C´è una grande aspettativa in questo senso come ha dimostrato la manifestazione di Torino».
Cosa succederà nei prossimi giorni? Martedì 7 ottobre approda in aula il decreto Gelmini sul quale il governo ha annunciato la volontà di porre la fiducia. Nella stessa giornata i segretari dei cinque sindacati della scuola s´incontrano per decidere la data dello sciopero. E dovranno superare uno grosso scoglio: i Cobas hanno prenotato lo sciopero nazionale e la manifestazione a Roma per il 17 ottobre. In base alla legge sugli scioperi nel settore pubblico la moratoria nello stesso settore dura dieci giorni. Quindi confederali e autonomi potrebbero puntare sul 31 ottobre. Tutto si gioca sul filo dei lavori parlamentari. Se il decreto passerà alla Camera dovrà poi affrontare l´aula del Senato ma deve diventare legge entro il 2 novembre. Il governo deciderà di ritirare il decreto? La risposta è chiaramente no. E allo allora potrebbe riaffacciarsi l´ipotesi di uno sciopero per il 17 ottobre, ma non assieme ai Cobas, percorsi dei diversi e diversa piattaforma rivendicativa.

l’Unità 5.10.08
Anche la Cisl dice sì, sarà sciopero generale
L’annuncio di Bonanni accolto bene da Epifani: bisogna reagire alla controriforma Gelmini
di Felicia Masocco


LA LINEA Anche la Cisl rompe gli indugi e va allo sciopero generale della scuola contro la riforma del governo. L’annuncio viene dato da Raffaele Bonanni nel corso della manifestazione che il sindacato di via Po ha tenuto ieri a Roma. «La scuola deve essere
di tutti, il governo deve cambiare programma», dice. Nell’ascoltarlo la folla del palazzetto dello Sport si scalda, applaude, sventola le bandiere. «Bravo, bravo», «Era ora», grida qualcuno dagli spalti. Si è visto chiaramente che il popolo cislino vuole la linea dura. Non solo sulla scuola. Infatti poco dopo la scena si ripete. Il segretario generale parla della politica economica del governo, del taglio delle tasse, dei salari e degli investimenti, di quelle politiche anticicliche che non ci sono e dovrebbero esserci. «Non siamo timidi - dice - siamo cauti con questo governo perché cerchiamo l’accordo. Vogliamo un tavolo di confronto e se le nostre richieste non verranno accolte lo sciopero lo faremo noi e varrà due volte perché sarà uno sciopero sindacale, non politico». «Sarà uno sciopero contro il governo Berlusconi». Scatta l’applauso più forte dell’intera mattinata. Ed è una sorpresa che cambia di segno alla giornata di mobilitazione.
Fino ad allora il leader della Cisl si era speso ad attaccare la Cgil e Guglielmo Epifani. Non li nomina, li chiama «cotanti sindacalai», li accusa di «essere andati con i corporativi» nel caso Alitalia. Di «radicalismo sindacale infantile, sterile e pericoloso» sui contratti. «Mesi e mesi di trattative e poi un sacco di bugie per giustificare il loro diniego». Bugiardi, dunque, danno «calcoli sballati». Bonanni si associa a Confindustria nell’accusare Epifani di rimpiangere la scala mobile, «l’abbiamo seppellita - ha dichiarato - ha prodotto un sacco di guasti. E il nostro Ezio Tarantelli ci ha rimesso la vita». Ha elencato le buone ragioni per fare un accordo, ha elencato i passi avanti degli industriali «che vanno incontro alle richieste sindacali». «Per noi è una buona notizia - ha sottolineato Bonanni - spero lo sia anche per i “cotanti sindacalai”. Ma la Cgil dà i numeri pur di portare avanti una tattica di esasperazione per delegittimare la trattativa». Una Cgil «egocentrica», «narcisista». Ma «noi non ci stiamo allo sfascio - conclude -. Ripensateci». Ce n’è anche per il Pd, «non abbiamo bisogno di badanti», dice riferendosi al tentativo di mediazione di Walter Veltroni.
Una pioggia di accuse, toni pesantissimi solo in parte giustificati dall’enfasi del comizio e dalla volontà di andare a toccare le corde dell’orgoglio identitario della Cisl. Avessero voluto, i cinquemila del palazzetto dello Sport lo avrebbero fatto venir giù con gli applausi. Che ci sono stati, ma timidi. Paradossalmente il pieno consenso a Bonanni arriva quando parla degli scioperi per la scuola e contro le scelte del governo, quando cioè gli argomenti coicidono con quelli del «collega» della Cgil.
Anche sul pubblico impiego. Ed è polemica tra il leader della Cisl e il ministro Renato Brunetta. «Vogliamo un tavolo di confronto - è la richiesta di Bonanni - basta con le pagliacciate e i talk show». Ancora: sull’attacco ai dipendenti pubblici «si comincia con l’ottimo professor Ichino e si finisce con il superlativo professor Brunetta». Al ministero della Pubblica amministrazione non la mandano giù. In serata viene diffusa una nota con cui si esprime «sconcerto, disappunto e amarezza» per le parole del segretario della Cisl. «Gli lasciamo la responsabilità delle sue parole - conclude la nota del portavoce - e gli cediamo volentieri il triste monopolio delle offese, delle invettive e della ricerca del facile applauso». «Non scenderemo mai al suo stesso livello». Insomma, si è aperto un altro fronte.
Sulla scuola (e solo sulla scuola), interviene in serata Guglielmo Epifani che lo sciopero lo aveva annunciato una settimana fa. «Una decisione opportuna - commenta -. È molto positivo che si sia trattato di una scelta unitaria. Bisogna reagire alla controriforma del ministro Gelmini. C’è molta aspettativa delle famiglie, degli studenti e dei lavoratori della scuola». Si schiera la Uil, «in assenza di risposte, ci sarà lo sciopero generale», afferma il segretario generale della scuola, Massimo Di Menna. E la Gilda degli insegnanti ha già individuato la data del 31 ottobre.

l’Unità 5.10.08
Citazioni: «Marx resta sempre Marx»


Marx resta sempre Marx, anche se a citarlo è Giulio Tremonti. Si toglie una soddisfazione Massimo D’Alema quando, davanti ai giovani industriali riuniti a Capri, ricorda il discorso di venerdì del ministro dell’Economia che, parlando della crisi dei mercati finanziari, aveva sottolineato il valore dell’etica in economia e la necessità dello Stato.
In più il ministro dell’Economia aveva citato questa bella frase: «Il denaro non produce magicamente denaro...». Ma non è un’idea frutto del brillante ministro, sempre alle prese con mercati e mercatisti. La citazione è del filosofo di Treviri, il pericoloso comunista Carlo Marx.
Così D’Alema ha potuto fare la rivelazione ai giovani imprenditori che, molto probabilmente, sono a digiuno di Marx e anche di molti altri: «Tremonti parla come Marx», ha detto l’ex ministro degli Esteri, dal palco del convegno di Confindustria, discutendo della crisi della finanza internazionale e delle misure per fronteggiarla.
«Sono d’accordo con Tremonti che, in fondo, ha usato una citazione di Marx. Ma il fatto che lo dica Tremonti mi fa piacere perché, anche se in bocca a Tremonti, Marx resta sempre Marx», ha concluso l’ex ministro degli Esteri. Non è la prima volta che D’Alema e Tremonti duellano a distanza, non sarà nemmeno l’ultima.

Repubblica 5.10.08
E D´Alema provoca Tremonti "Sulla ricchezza parli come Marx"
di r.ma.


L´esponente del Pd: Bruxelles più flessibile di fronte alla crisi. Fini: il deficit-Pil non è un tabù

CAPRI - «Carlo Marx sia pure in bocca a Tremonti, resta Carlo Marx». Massimo D´Alema cita il filosofo tedesco più che il ministro italiano dell´Economia per leggere la crisi finanziaria mondiale. Può farlo senza essere accusato di nostalgia - lui ormai maturo ex comunista - proprio perché a precederlo era stato il giorno prima dalla medesima tribuna (quella del convegno dei Giovani industriali di Capri) Giulio Tremonti, teorico dell´anti-mercatismo più che di un neo-comunismo. Già perché il ministro aveva spiegato che «la finanza non produce ricchezza» e che per uscire dal baratro bisogna tornare al valore dell´economia reale, e forse - hanno supposto in molti - anche al valore del lavoro marxianamente inteso. E allora ha avuto gioco facile l´esponente del Pd: «Ho letto sui giornali che ha detto "il denaro non produce magicamente denaro". E´ una citazione di Carlo Marx. E´ un concetto ampiamente sviluppato nell´ultimo libro del Capitale».
Sorride e si prende anche l´applauso, ma non - è evidente - per via di Carlo Marx. Che - si sa - non ha mai sfondato tra gli industriali.
Convergenze allora tra D´Alema e Tremonti? Dialogo? Difficile dirlo davvero perché i due a Capri avrebbero dovuto fronteggiarsi in diretta invece, per via degli impegni del ministro, va in onda una specie di duello in differita. Per esempio Tremonti non aveva nemmeno accennato alla "violabilità" dei vincoli di Maastricht in questa fase di recessione profonda. Perché il Tremonti, che ora cerca la via di una rinnovata economia sociale di mercato, appare rigorista convinto nel difendere il rispetto dei parametri, a cominciare dal 3% del deficit-Pil. D´altra parte lui il patto "stupido" (questa volta per citare Romano Prodi) l´aveva già combattuto. Ma ora è Massimo D´Alema che di fronte alla crisi dice che ci vorrebbe più flessibilità. Dovrebbe proporla Bruxelles «per una politica di riequilibrio sociale». Insomma più risorse, per via fiscale, a chi non arriva alla fine del mese. D´altra parte, ma questo è Gianfranco Fini che parla da Milano, «non si può considerare un totem il rispetto al centesimo del rapporto tra deficit e Pil». Dialogo?

Repubblica 5.10.08
Sul testamento biologico si segua la Costituzione
di Stefano Rodotà


Rischia di avverarsi la facile previsione di chi, nell´"apertura" delle gerarchie ecclesiastiche ad una legge sul testamento biologico, ha subito visto non il riconoscimento di un diritto della persona, ma una mossa volta proprio a limitare quanto è già garantito dal nostro sistema costituzionale. Alla vigilia del dibattito parlamentare su questo tema caldissimo, il segretario della Cei è intervenuto in modo molto determinato, dettando i contenuti della futura legge. Fa il suo mestiere. Ma sarà il Parlamento capace di fare la sua parte, consapevole che l´unica sua guida sono i principi della Costituzione, non i valori proclamati da qualsiasi fede religiosa o ideologia?
Il segretario della Cei ha detto che la vita è "indisponibile"; che non si può riconoscere un diritto all´autodeterminazione perché "questa è una visione che va contro le radici cristiane della nostra cultura"; che vi è "una condizione insicura sul piano giurisprudenziale". Sono argomenti fondati?
Equivoci pericolosi nascono proprio dall´insistenza su formule come "indisponibilità della vita", quando ad essa si voglia attribuire la specifica portata tecnico-giuridica di limitazione del potere di decisione della persona interessata, andando così oltre la forza simbolica che quell´espressione assume quando la si adopera per manifestare legittimamente una convinzione morale o religiosa. Dal punto di vista tecnico, di indisponibilità della vita si parla correttamente solo per escludere la possibilità di disporre della vita altrui. Ma un vincolo alla libertà di decisione della persona interessata non può essere dedotto da nessuna norma costituzionale. Quando si dice che il riconoscimento e la garanzia dei "diritti inviolabili dell´uomo", di cui parla l´articolo 2 della Costituzione, implicano una indisponibilità della vita, si dà una interpretazione del tutto arbitraria di quell´articolo. Esso va letto nel quadro delle norme costituzionali sulla libertà della persona e sulla salute, che mostrano chiaramente come il diritto fondamentale da tutelare sia proprio quello relativo all´autonomia della persona, che comprende anche quello di disporre della propria vita. Lo dimostrano concretamente molti casi. I più eloquenti sono quelli legati proprio al rifiuto delle cure: una donna, rifiutando l´amputazione di una gamba, ha scelto legitimamente di morire; una recentissima sentenza ha ribadito il diritto dei Testimoni di Geova di rifiutare le trasfusioni di sangue, anche se ciò determina la morte.
La posizione della Cei entra clamorosamente in conflitto con questo dato istituzionale, riconosciuto e consolidato. Si possono certo discutere le modalità secondo le quali il rifiuto di cure può essere manifestato in vista di una incapacità futura. Ma non si può cancellare quel dato considerandolo incompatibile con "le radici cristiane della nostra cultura". Sarebbe gravissimo se il Parlamento seguisse questa impostazione. L´unica incompatibilità da tener presente, discutendo una legge, è quella che riguarda norme e principi costituzionali. Guai se alla Costituzione venisse sostituita qualsiasi tavola di valori ad essa esterna.
La "radice" culturale del principio di autodeterminazione è salda e profonda nei principi costituzionali, espressi nitidamente nell´articolo 32. Qui, dopo aver considerato la salute come diritto fondamentale dell´individuo, si stabilisce che a nessuno può essere imposto un trattamento sanitario se non per legge: e tuttavia "in nessun caso" la stessa legge può violare il limite imposto dal "rispetto della persona umana". È, questa, una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, poiché pone al legislatore un limite invalicabile, più incisivo ancora di quello previsto dall´articolo 13 per la libertà personale, per la quale si ammettono limitazioni sulla base della legge e con provvedimento motivato del giudice. Nell´articolo 32 si va oltre. Quando si giunge al nucleo duro dell´esistenza, alla necessità di rispettare la persona umana in quanto tale, siamo di fronte all´indecidibile, nel senso che nessuna volontà esterna, fosse pure quella coralmente espressa da tutti i cittadini o da un Parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell´interessato.
Da questa ricca trama di principi sono partiti i giudici che, affrontando le drammatiche questioni nate dai casi di Eluana Englaro e di Piergiorgio Welby, hanno delineato le modalità di applicazione di quei principi ai casi concreti, come è dovere d´ogni buon giudice. Nessuna invasione delle competenze del legislatore, dunque. All´orizzonte, invece, sta comparendo una prepotenza del legislatore, che vorrebbe espropriare le persone del diritto di governare liberamente la propria esistenza, vivendola dignitosamente fino al momento finale. Qui è il rischio ricordato all´inizio. Una legge che nelle apparenze riconosce il testamento biologico, ma in sostanza gli nega ogni valore vincolante, poiché lo subordina alla valutazione del medico e esclude che possa riguardare l´idratazione e la nutrizione forzata, che non sarebbero terapie rinunciabili. Questa è una ulteriore forzatura, perché sono in molti a riconoscere ad esse proprio il carattere terapeutico, come aveva fatto in Italia una commissione istituita dal ministro Veronesi. Di fronte alla diversità delle opinioni, in materie tanto delicate e difficili, dovrebbe essere buona regola per il legislatore lasciare gli interessati liberi di decidere secondo i propri convincimenti. Certo, la decisione dev´essere libera da ogni forma di condizionamento. Ma questo si fa astenendosi da pretese autoritarie e mettendo a disposizione di ciascuno servizi sociali adeguati, assistenza e terapie antidolore.
La discussione parlamentare sul testamento biologico metterà alla prova il senso dello Stato delle forze politiche e meriterà il massimo di attenzione dell´opinione pubblica. Ma sarà anche rivelatrice di molte ipocrisie. Si rischia d´essere doppiamente crudeli verso i morenti. Appropriandosi della loro libertà e dignità, da una parte. E, dall´altra, negando le risorse per i servizi ad essi destinati, come sta avvenendo, e annunciando la privatizzazione degli ospedali, senza riflettere sul fatto che proprio lì, nelle strutture private, sono stati chiusi reparti per la terapia del dolore perché economicamente non redditizi.

l’Unità 5.10.08
Legge elettorale, Fini apre «a chi sta fuori dal Parlamento»
Il presidente della Camera a 360 gradi in un dibattito a Milano: «Bisogna continuare a tessere il filo con la sinistra»
di Giuseppe Caruso


«Bisogna provare a tessere ancora il filo». Gianfranco Fini non ha rinunciato alla possibilità di avere un dialogo con l’opposizione ed ha voluto ribadire il suo punto di vista anche ieri pomeriggio, durante un confronto con il direttore del Corriere della Sera, Paolo Mieli, durante la festa del Pdl al Lido di Milano.
«In questa fase» ha spiegato il presidente della Camera «il confronto fra maggioranza e opposizione è molto aspro, ma mi auguro che coloro che guardano al di là del momento contingente abbiano la forza e la capacità politica di avviare e di portare a compimento un confronto in Parlamento sulle riforme. Perché non provare a tessere il filo?»
«Per esempio per quanto riguarda la legge elettorale per le elezioni europee» ha continuato Fini «si potrebbe provare a coinvolgere anche chi è rimasto fuori dal parlamento, attraverso dei tavoli sul modello di quelli fatti con i sindacati. Da queste consultazioni potrebbe venire fuori una bozza di progetto che metta tutti d’accordo».
Il presidente della Camera ha poi affrontato la questione della crisi economica internazionale: «Credo che l’Unione Europea si debba porre il problema di rivedere il patto di stabilità, alla luce di quello che sta succedendo nell’economia globalizzata con le decisioni prese anche dagli Stati Uniti. Questo non significa allargare i cordoni della spesa pubblica. I conti bisogna sempre tenerli sotto controllo. Ma l’economia si riattiva anche con i cordoni della spesa pubblica, questo non è un controsenso. La Bce fa benissimo a tenere fermi i tassi, ma fa altrettanto bene nel rispettare al centesimo il rapporto deficit-Pil? Credo che la Comunità europea debba aiutare di più in questo senso i Paesi membri».
Fini ha sottolineato l’importanza del ruolo delle istituzioni e della politica per arginare i danni e le ricadute della crisi sull’economia reale: «In epoca di globalizzazione, se non ci fossero istituzioni nazionali e sovranazionali e quindi la politica, rischieremmo grosso. In questo senso una certa cultura politica, non solo di destra ma anche cattolica, aveva capito meglio di altri. Il problema è la finanziarizzazione dell’economia. Quando c’è la scissione tra capitale e lavoro, quando l’economia è legata unicamente alla finanza il rischio di tonfo c’è. Dalla crisi è emerso poi che il mercato necessita di regole. Va messo in discussione il dogma del mercato libero. Servono regole e le regole deve darle la politica».
Per finire una tirata di orecchie ai deputati, che secondo Fini dovrebbero «lavorare di più e non arrivare il lunedì mattina e tornare a casa il giovedì sera. Se serve si può arrivare fino al sabato, senza problemi. Da questo punto di vista bisogna dare dei buoni esempi agli elettori».

l’Unità Roma 5.10.08
Musica e parole per il Manifesto
Martedì al circolo degli artisti la serata dedicata alla «cara libertà»
di f.f.


L’INCIPIT di una lettera, o di un appello disperato, sembra il titolo scelto da Il Manifesto per la serata di martedì al Circolo degli artisti. Lo storico quotidiano attraversa infatti una profonda crisi, che i tagli ai finanziamenti per l’editoria voluti da Tremonti aggravano pesantemente. "Libertà" è una parola molto bella e densa di significato, che ultimamente è usata da qualcuno a sproposito, a volte addirittura in palese contraddizione con il suo significato. "Cara" è sinonimo di affetto e dedizione, ma anche di costi poiché, in particolar modo nella società capitalista, la libertà ha anche un prezzo economico, che può diventare molto difficile da sostenere. Fra queste contraddizioni sempre più pressanti si muovono i colleghi del quotidiano alle prese con la crisi che minaccia di essere la più grave e pericolosa. Quella indetta per martedì è dunque una serata di mobilitazione, oltre che di riflessione, per salvare una delle ormai sempre più rade, e quindi ancor più indispensabili, voci di dissenso italiano. «Cara Libertà - parole e musica per il Manifesto» chiama a raccolta le coscienze e le persone dalle 18,00 con una prima parte dedicata alla riflessione e al dibattito sulla libertà d’informazione e sulla tutela dei diritti, con Gabriele Polo, Giancarlo Aresta, Valentino Parlato. Fra gli invitati troviamo i nomi di Piero Sansonetti, Concita De Gregorio, Paolo Serventi Longhi, Vincenzo Vita, Giuseppe Giulietti, Paolo Ferrero, Claudio Fava, Stefano Benni, Pierluigi Sullo, Enrico Pugliese, Giovanna Melandri. In serata la solidarietà si farà invece sentire attraverso le parole e la musica di Acustimantico, Nicola Alesini, Ardecore, Assalti Frontali, Baobab International Orchestra, Francesco Bruno, Edoardo De Angelis , Rocco de Rosa, Canio Lo Guercio, Piccola orchestra la Viola, Tetes de Bois e i musicisti del Circolo Gianni Bosio.
Circolo degli artisti via Casilina,42. Ingresso a sottoscrizione

Corriere della Sera 5.10.08
La riflessione del Nobel Paul Nurse mostra come Charles Darwin e John Milton non siano così lontani. Risposta a Emanuele Severino
Evviva Eraclito
La creazione, un'evoluzione continua L'esistenza è un divenire nella libertà
di Giulio Giorello


Eraclito di Efeso (535 a.C. – 475 a.C.), filosofo presocratico, noto per la teoria del «Panta rei», tutto scorre.
Eraclito sostiene che solo il cambiamento sia reale

La Terra «aprendo il suo fertile grembo diede alla luce in un unico parto innumerevoli creature di forma perfetta, mature, complete di membra». Così il racconto del Genesi si dispiega nei versi del Paradiso perduto di John Milton: sembra, a prima vista, antitetico a quel Vangelo di crudeltà che avrebbe potuto scrivere solo «un cappellano del Diavolo», affascinato dalla «oscura e distruttiva opera della Natura» — per riprendere le parole con cui Charles Darwin definiva se stesso in una lettera del 1856 all'amico Joseph Hooker. Tre anni dopo sarebbe stata pubblicata L'origine delle specie, subito divenuta un bestseller, facendo dell'autore — «un certo signor Darwin, nipote del noto filosofo e poeta Erasmus» — la pietra di paragone e di scandalo per teologi e per scienziati dell'austera Inghilterra vittoriana. L'ultimo tocco doveva aggiungerlo L'origine dell'uomo (1871), ove Darwin scrive: «Ognuno di noi, pur con tutte le sue nobili qualità (…), reca nel suo schema corporeo il marchio indelebile della sua bassa origine».
Come Milton, anche Darwin ebbe modo di frequentare il Christ's College di Cambridge. A questi due celeberrimi figli di quell'istituzione ha dedicato nel 2005 un'appassionata lezione il Nobel Paul Nurse ( Two Views of Creation: Milton and Darwin, pubblicata dal Christ's l'anno successivo), ripresa poi in varie conferenze. A me è capitata l'occasione di sentirne una a Oxford nel febbraio scorso. Ora, sostiene Nurse, il contrasto tra «il creazionista» e «l'evoluzionista» tende a diventare meno netto appena si consideri l'ambiguità del poeta, che ha saputo persino celebrare «la volontà indomabile… e il coraggio di non sottomettersi mai» di Satana il ribelle. Il nemico di Dio e del futuro genere umano si insinua nel sistema solare per portarvi scompiglio, simile a quelle macchie che gli astronomi avevano disvelato «nell'orbe lucente del Sole» grazie al loro «cilindro ottico vetrato». Milton alludeva all'osservazione effettuata da Galileo col suo cannocchiale delle «macchie solari» (1613) — che gli aveva consentito di mandare in pezzi il pregiudizio dell'incorruttibilità dei corpi celesti, ormai ridotto a mera consolazione per uomini che hanno troppa paura di riconoscere se stessi corruttibili e mortali. Quando Eva e Adamo cedono alle lusinghe di Satana, celato nelle spire di un serpente, il loro «peccato originale » sconvolge l'intero Universo. I pianeti sono perturbati nelle loro orbite, la Terra conosce le sue catastrofi, nella vita si insinua la morte. Persino le stelle possono venir distrutte, e «su questa macchia di fango» non c'è da stupirsi che gli esseri umani sperimentino la sofferenza e la dissoluzione del corpo. I figli di Eva avranno, però, «la conoscenza proibita»: l'esperienza della sofferenza che intesse tutta la loro storia, ma anche la scienza che modifica inesorabilmente le loro abitudini quotidiane e che consente di scegliere come plasmare la propria esistenze.
Satana è dunque all'origine dei turbamenti, ma anche delle libertà degli esseri umani. Chi è allora il suo vero cappellano? Mettiamo al posto di Satana il marchio della bassa origine di Homo sapiens e ritroviamo il discorso evoluzionistico — da Charles Darwin fino a Daniel Dennett — circa l'emergenza di sentimenti e codici di condotta, della morale e perfino del diritto, di strumenti e teorie scientifiche. A spiegare la stessa «evoluzione della libertà» nel quadro delle differenti culture umane, scrive Nurse, oggi contribuisce da una parte la sintesi che il secolo scorso ha operato tra evoluzionismo darwiniano, genetica e studio della cellula, quest'ultima intesa come «l'elemento più semplice che esibisca le caratteristiche della vita»; dall'altra la sempre più approfondita conoscenza neurofisiologica dell'animale uomo.
Se Milton oggi rinascesse, non credo affatto che bollerebbe tutto questo come deplorevole «riduzionismo»: lui, che nella sua Areopagitica (1644) era insorto in difesa di Galileo, che aveva avuto l'occasione di visitare, ormai vecchio e cieco, costretto a una sorta di domicilio coatto «per aver osato pensare in astronomia diversamente da quel che pretendevano i suoi censori francescani e domenicani». Quel che unisce Milton e Darwin è la comune insofferenza per i pregiudizi ereditati, per le consuetudini ricevute senza prova critica, per ogni forma di costrizione della ricerca intellettuale. Non manca, in entrambi, l'elogio del conflitto tra opinioni rivali, nella scienza come nella politica, poiché — come scriveva Milton — tutto ciò provoca «molta discussione, molti interventi scritti, una pletora di opinioni», e «l'opinione non è altro che la conoscenza nel suo farsi».
Non è un caso che, al di là delle differenze dottrinali di superficie, questo comune sentimento tra l'autore del Paradiso perduto e quello dell'Origine delle specie venga enfatizzato da un personaggio come sir Paul Nurse. Insieme a Leland Hartwell e Tim Hunt, questo biochimico britannico è stato insignito nel 2001 del Nobel per le sue ricerche sugli elementi regolatori del ciclo cellulare che, per così dire, decidono quando è il momento di copiare il Dna controllandone la corretta ripartizione fra le cellule figlie nella mitosi. Non diversamente dal collega Hunt, Nurse ama sottolineare come la ricerca con le cellule staminali embrionali costituisca un'opportunità «contro alcune delle malattie più gravi che colpiscono l'uomo, come quelle neurodegenerative». L'insofferenza nei confronti di vincoli giuridici, ispirati a concezioni arcaiche di cosa conti veramente come «essere umano», non diventa in Nurse facile ottimismo o tracotante scientismo. Di fronte a spietate malattie, non bisogna nutrire speranze eccessive, ma sperimentare a lungo e con pazienza, imparando dai propri errori. Per quanto poi riguarda l'intera impresa scientifica nel suo complesso, Nurse mette in guardia circa estrapolazioni a buon mercato, «specie quando si toccano argomenti così delicati come quello dell'origine», sia essa dell'intelligenza umana, della vita, o magari dell'Universo intero. Lo dice lui, che nelle pagine web ufficiali dei Nobel ha fatto aggiungere nel febbraio scorso che «la sua personale origine» non era quella che aveva fino a quel momento creduto: aveva scoperto che la sua mamma ufficiale era in realtà sua nonna, e che la vera genitrice era una figlia di quella signora, rimasta incinta giovanissima e che per anni lui aveva considerato come «una sorella maggiore».
Anche questo piccolo aneddoto mostra come non si debba aver paura della verità, come non ne avevano Milton o Darwin, l'uno leggendo a suo modo la Bibbia, l'altro il «gran libro della natura». Potrà anche darsi che entrambe le due narrazioni siano espressioni differenti di uno stesso atteggiamento che privilegia il divenire sull'essere (come ha sostenuto Emanuele Severino sul Corriere di venerdì 26 settembre). Quel che mi pare rilevante è che entrambi, l'uno in versi stupendi l'altro in una prosa scientifica che è un modello di chiarezza e indipendenza di giudizio, abbiano saputo esprimere la natura processuale della realtà. Viva, dunque, Eraclito — o, magari, Hegel o Whitehead? Direi di sì, ma con una precisazione. Non c'è Logos che regga o spieghi il divenire, né una Legge che sovrasti ogni cosa; piuttosto, c'è il gioco dell'evoluzione, rispetto al quale la ragione o meglio le ragioni sono prodotti contingenti. È in questa contingenza che si radica la nostra stessa libertà. Dobbiamo averne paura? Dobbiamo rimediare con una logica dell'essere? Credo proprio di no.

Corriere della Sera 5.10.08
Parla l'autore libanese di «Hakawati»: un confronto tra Oriente e Occidente in stile «Mille e una notte»
Multiculturalismo, un'invenzione
Rabih Alameddine: ebrei e palestinesi sono uguali. Per questo si odiano
di Livia Manera


Mi guardo attorno e vedo lo stesso cibo, la stessa musica, le stesse storie

In una casa di Beirut, in una stanza di un appartamento di gente agiata, un nonno armeno arrivato tanti anni prima dalla città turca di Urfa, guarda col nipotino una carta del Medio Oriente e puntando il dito su Hebron, spiega: «Questa ora è la Tomba dei Patriarchi, dove i figli di Sara stanno ancora tentando di scacciare i figli di Agar». E siccome il dito indica la Giudea, il nipote chiede: «Raccontami la storia di Abramo che sacrifica Ismaele sulla montagna». Ma il nonno, che è stato cantore di storie di professione, si rifiuta. «È trita e ritrita» protesta. «Persino noiosa... e zeppa di cliché. Una storia deve incantare». E un libro fatto di mille storie, nell'opinione di Rabih Alameddine, l'autore di Hakawati. Il cantore di storie, che la Bompiani sta per pubblicare nella traduzione di Marina Rotondo e Francesco Nitti, deve incantare almeno altrettante volte. E provocare.
Lo incontro nell'ultimo giorno di Ramadan, ma Rabih Alameddine non digiuna. Beve birra, invece, e mangia noccioline, prima di andare a celebrare l'uscita internazionale del suo romanzo, in una Beirut che si prepara a due giorni di festa facendo esplodere petardi, come se non avesse avuto già abbastanza bombe. Come Osama al-Kharrat, il protagonista del suo romanzo che si chiama così «perché Osama è un bellissimo nome che significa "colui che è destinato ad alti scopi", e non vorrei che d'ora in poi fosse riservato ai cani», Alameddine è druso di nascita e ateo di vocazione. Come lui è libanese ma è anche americano. Solo che a differenza del nonno di Osama, quello di Rabih era un medico che ha fatto nascere re Hussein di Giordania. Ed è per questo che lui è nato ad Amman.
La storia che Alameddine sta raccontando di sé è quella di un ragazzo ansioso di non deludere i genitori, che ha studiato a Los Angeles ingegneria ed economia, ha lavorato in Kuwait, è scappato dopo pochi mesi in Brasile, e ha finito per sistemarsi a San Francisco, dove si è messo a dipingere con successo ma senza convinzione, e finalmente a scrivere: tre romanzi, prima di questo volume di settecentocinquanta pagine che attinge ai miti dell'antichità classica e al folclore mediorientale. Mentre parliamo, mostra un tatuaggio sul polpaccio sinistro: è la traduzione giapponese di Hakawati. «Significa cantastorie », sorride. «"Haki" in libanese vuol dire "conversare". Come dire che in Libano l'atto di conversare e quello di raccontare storie sono la stessa cosa».
Perché improvvisamente il mondo occidentale concentra la sua attenzione su un libro come Hakawati?
In parte perché a scoprirlo è stata Nicole Aragi, la più quotata talent scout dell'universo letterario americano, che prima di Alameddine ha fatto conoscere autori come Nathan Englander, Monica Ali, Junot Diaz e Jonathan Safran Foer (lei stessa, anglo-libanese). Ma soprattutto perché in un mondo che guarda sempre più al Medio Oriente come alla culla del terrorismo e poco altro, un libro come Hakawati è una provocazione ad allargare i propri orizzonti: un romanzo che attingendo all'opera di Ovidio e di Omero, alle Mille e una Notte e al Corano, all'Antico Testamento e ai miti babilonesi, mette a confronto una cultura vastissima e stratificata con la storia del Libano degli ultimi cinquant'anni. La sua vita spensierata, la sua vita dissipata, la guerra dei Sei Giorni e la guerra civile, le bombe, i rapimenti, i concorsi di bellezza e gli assassinii. «Il Libano è un Paese tollerante e allo stesso tempo ingiusto», dice Alameddine senza giri di parole. «È stato capace di accogliere e assimilare gli armeni perché erano cristiani, ma ha discriminato i palestinesi musulmani con la scusa che non erano venuti per restare. È anche un Paese governato da gente che dovrebbe essere in galera per crimini di guerra. Ma la sua salvezza è la sua cultura. E il suo futuro è nell'istruzione ».
Solo che per tenere insieme una cultura così ricca di storie ci vuole una cornice. E la cornice che Alameddine ha scelto per rielaborare le gesta di Fatima e di Abramo, di Isacco e di Ismaele e del principe Beybars, è il ritorno del suo alter ego Osama al-Kharrat nella Beirut del dopo 11 settembre, dopo molti anni passati a Los Angeles. Il padre di Osama sta morendo, e al capezzale la famiglia soffre, scherza, spettegola. Osama ricorda il matrimonio di una sorella impetuosa e la morte di un amabile zio che trova la resistenza palestinese «deliziosamente melodrammatica»; descrive la madre come una donna «che guidava la Jaguar come un guerriero », e la zia Wasila come colei che «era per noi ciò che Israele era per il mondo arabo: l'elemento che affratellava tutti nell'odio». La struttura che usa Alameddine è quella del racconto speculare: in un paragrafo il padre di Osama, ricco venditore d'auto, inizia in un letto d'ospedale la sua discesa nella morte. In quello successivo la schiava Fatima inizia la sua discesa agli inferi alla ricerca della mano che un demone le ha tagliato. Ma sono specchi distorti, quelli che usa Alameddine: mentre il padre soccombe lentamente, la bella schiava trionfa sui jinn, i serpenti e gli scorpioni. In sostanza, è come se questo scrittore torrenziale avesse voluto mettere tutta la sua malizia, il suo senso dell'umorismo e la sua cultura enciclopedica al servizio di ciò di cui è profondamente e polemicamente convinto: che non esiste una società multiculturale in Medio Oriente. «Mi guardo attorno e vedo solo lo stesso popolo», dice. «Con variazioni minime, a volte infinitesimali, delle stesse storie. O delle stesse ricette. Ditemi dov'è la differenza! Uno va a Milano, o a New York, e vede tante razze diverse. Ma questi sono tutti uguali. È uguale il loro cibo, è uguale la loro musica... guardate i palestinesi che hanno dovuto lasciare le proprie case e rifugiarsi in Libano: si comportano esattamente come gli ebrei della diaspora. Per questo si ammazzano: perché sono uguali. La Pepsi non odia la Seven Up, odia la Coca-Cola».
Quell'odio Alameddine lo racconta attraverso la propria confusione e le proprie esperienze prestate a Osama: come quel lunedì di giugno del '67, quando a scuola la preside disse ai bambini di preparare le loro cose in fretta perché i genitori stavano venendo a prenderli. La radio che gridava: «Il perfido nemico ha attaccato il valoroso esercito arabo». Gli amici ebrei che abbandonavano Beirut senza salutare. E il Libano della tolleranza che si trasformava nel Libano della paura.

Corriere della Sera 5.10.08
Antologie «Italics» a Palazzo Grassi
Naufragio pilotato
di Giorgio Cortenova


Già il titolo è allarmante: Italics richiama per insopprimibili assonanze
Titanic, e non è un buon preludio immaginare che, mentre Francesco Bonami strimpella, la nave affonda. Le cose non vanno meglio per quanto riguarda il sottotitolo,
Arte italiana tra tradiz ione e rivoluzione 1968-2008. Chissà che cosa ci si aspetta! Invece no, perché Bonami è rimasto legato a schemi ormai logori e non si è accorto che è meglio essere ciechi ma veggenti come l'antico Omero, invece che vederci male e riciclare vecchie lenti spacciandole per nuove.
E' veggente anche l'arte, quando è autentica; ed è rivoluzionaria sempre, quando si nutre di poesia, emozione, autenticità. Perciò, con la nave, non affonda l'arte italiana, ma l'idea che della stessa si vuole trasmettere, tirata per la giacca a far da «testimonial » a strategie di mercato e di private soddisfazioni italo-francesi.
Bonami ha raccolto oltre 250 opere di 106 artisti italiani. Dice che contano solo le opere. E si stupisce che qualcuno, ad esempio quel «nessuno » di Kounellis, non abbia voluto lasciargli esporre le sue Scarpette d'oro in santa pace: Ulisse e Nessuno sono in realtà la stessa persona e sanno da sempre che a volte l'assenza vale più della presenza.
Ma è piuttosto in relazione all'idea, infantile, e agli artisti presenti che Bonami commette veri e propri disastri critici. Prendiamo Emilio Vedova: il «curator» confessa di avere esposto una sua opera malgrado l'artista — parole sue — non gli vada proprio a garbo, e solo perché la mostra è allestita a Venezia. Si tratta insomma di opportunità geo-politiche, come nel football. Così tutto finisce nel pallone.
La mostra di Bonami è grigia, triste, dimessa. E' inoltre pretestuosa e millanta coraggio senza metterci cuore e ardimento necessari. Contrappone tradizione a rivoluzione, ma non si accorge che spesso la seconda nasce dalla prima e non in rottura con la stessa. Per essere spicci, lo sanno tutti che esiste una tradizione del moderno e si sta già consumando quella del post-moderno. A Palazzo Grassi ci sono opere belle e meno, distribuite nelle sale secondo una logica semplicistica di assonanze-dissonanze, armonie-disarmonie. Il problema è che se la critica è morta, anche i curatori non devono sentirsi molto bene.
Bonami, ad esempio, soffre di vuoti storici. La sua «idea» prende le mosse dal '68, ma indugia nel retroterra degli anni Sessanta, si trascina dietro Schifano e Festa da un lato, Tadini e Adami dall'altro: per lui sono campionature di «tradizione » da contrapporre ai campioni della «rivoluzione », a Zorio, Merz, Penone. Su Agnetti, invece, è calato un ingiusto silenzio. Per non dire della «pittura analitica», che negli anni Sett anta è stata un'esperienza centrale.
Ma dove sta l'anticonformismo, se poi si espongono i lavori di Baj e Rotella, dei maestri «poveristi» targati Celant e di alcuni campioni della scuderia Abo (Paladino escluso, e si sa perché)? Coraggioso sarebbe stato lasciarne a casa qualcuno in più, per fare posto a Turcato, Cremonini, Tornabuoni, Calzolari, per fare solo qualche esempio. Annigoni e Clerici da un lato, e Guttuso dal-l'altro, non sono scelte coraggiose, ma solo uno specchietto per le allodole. Ma è noto che «il coraggio uno non se lo può dare». In realtà Bonami è un curator protetto da buoni protettori. Il resto non è Tuttofuoco, ma tutto fumo. E in questo la mostra è davvero «italiana».
ITALICS Venezia, Palazzo Grassi, sino al 22 marzo. Tel. 041/2401345 Luciano Fabro: «L'Italia d'oro» (1971)

Corriere della Sera Salute 5.10.08
Prostituzione Le motivazioni, secondo il sessuologo
Sesso, quelli che preferiscono pagare
Perché si cercano rapporti mercenari
di Cesare Capone


«Frequentare prostitute equivale alla masturbazione, è un mediocre piacere e una lezione di antisessualità» Parole di Rinaldo Pellegrini, pioniere della sessuologia, un secolo fa

Si accavallano proposte (e multe) per arginare il fenomeno prostituzione, ma l'attenzione, si sposta sugli «acquirenti»...
Secondo il Dipartimento delle pari opportunità della presidenza del Consiglio, sono nove milioni gli italiani che frequentano le settantamila prostitute (più della metà straniere) presenti in Italia. Ma chi sono tutti questi maschi che alimentano il mercato del sesso e che in alcune città (Verona, Roma, Milano, Brescia) già rischiano di pagare multe salate se trovati a «contrattare», misura che per altro si estenderà a tutto il Paese se passerà il disegno di legge della ministra Carfagna? Le indagini più attendibili indicano che, in Italia, i clienti delle prostitute sono soprattutto single; professionisti, imprenditori, impiegati sono le classi sociali che ricorrono più di frequentemente al sesso a pagamento e, dall'adolescenza alla tarda maturità, tutte le classi di età sono ben rappresentate e l'età media si attesta intorno ai 35 anni.
Emmanuele Jannini, docente di sessuologia medica all'università dell'Aquila, che si è occupato in modo particolare della questione, chiarisce: «Nella maggior parte dei casi, il cliente delle prostitute è una persona normale, integrata nella società. Non è una categoria a sé stante, il cliente tipo non esiste perché diversi sono i motivi e i comportamenti dell'uomo nei confronti della donna "che si vende". C'è però un denominatore comune: la prostituzione è una valvola di sfogo molto più genitale che erotica, la comoda scorciatoia che permette di ottenere subito un rapporto sessuale senza complicazioni, senza attese».
La prostituzione, prosegue Jannini, non è sesso senza amore: è scambio di sesso con denaro, una transazione economica che avviene fra due soggetti, la donna che offre il proprio corpo e l'uomo che lo prende in affitto per brevissimo tempo. Una distinzione comunque va fatta fra cliente occasionale e cliente abituale.
Secondo Jannini, bisogna distinguere tra chi occasionalmente si rivolge a una prostituta (per noia, per curiosità, per una scorribanda con amici, per avere una compagnia femminile durante un weekend, un viaggio di affari; per uno stato temporaneo di depressione o di euforia da alcol o da droga) e il cliente abituale.
Chi ricorre a rapporti mercenari in maniera continuativa può rientrare in due sole grandi categorie. Alla prima appartengono adolescenti troppo inesperti per avere successo con coetanee; oppure uomini variamente disabili e anziani. Molto più interessante per lo psicologo è però l'altra categoria: quella di chi frequenta abitualmente le prostitute perché spinto da motivazioni interiori: forte inibizione dinanzi al problema del corteggiamento; desiderio di cambiare continuamente donna, soddisfatto prendendo la via più spiccia; insoddisfazione nel sesso coniugale; solitudine affettiva che induce a frequentare le prostitute per avere compagnia femminile prima che rapporti sessuali. Contrariamente a quanto comunemente si pensa, tra i clienti delle prostitute le persone con perversioni (parafilie) come masochismo, sadismo, feticismo sono scarsamente rappresentate.
Chissà a quale tipo di cliente sarebbero più adatti i corsi di «rieducazione sentimentale » proposti dal Partito democratico romano per tutti gli uomini colti in flagranza di reato sulle strade del sesso a pagamento?

Corriere della Sera Salute 5.10.08
L'infettivologo. L'aumento delle malattie veneree
di R.Cor.


Aumento delle malattie veneree, sifilide in testa.
Ma anche Hiv da ceppi non presenti prima in Italia. Sulle strade, come tra le mura domestiche, le malattie sessualmente trasmissibili viaggiano che è un piacere. Lo conferma Massimo Galli, infettivologo all'università di Milano. I nuovi ceppi di Hiv in prostitute che arrivano da zone dove la diffusione del virus è bassa, però, farebbe pensare a un contagio da parte di clienti dediti magari al turismo sessuale. «Bisogna ripartire dall'educazione dei giovani — sottolinea Galli, che segnala un nuovo fenomeno. «Tra gli omosessuali — dice — si sta affacciando una leva molto meno attenta rispetto al passato. Spesso nei rapporti con uomini più anziani non si usa il preservativo per un equivoco: il giovane pensa che l'altro non lo chieda perché sano. L'anziano malato giustifica se stesso, pensando che il giovane, comunque, sia infetto».

Repubblica Genova 5.10.08
Lo psichiatra Romolo Rossi e la legge Basaglia: "Più attenzione e meno ipocrisia"
"Non disagio, la mente è malata ma la violenza si può curare"
di Wanda Valli


Il messaggio di Basaglia è stato inteso molto male, cambiare i manicomi, trasformarli, non equivaleva a dire che i matti non esistessero più. Lo scopo della legge 180 era un altro
Bisogna avere il coraggio di affrontare cose del mondo che sono evidenti, che non si possono negare, e, quindi, rifiutare Che vada bene o no, il mondo è così

La malattia della mente che porta a uccidere, che si scatena contro chi, inconsapevole, scatena nell´altro paure, dà forza ai suoi demoni silenti solo grazie ai farmaci, alle cure. E´ successo pochi giorni fa a un sottufficiale di polizia. Era stato chiamato dai vigili urbani per effettuare un ricovero coatto, consentito dalla legge: quel malato l´ha colpito con una coltellata. Una sola, fatale. E, venerdì notte, un uomo è morto bruciato nella casa in cui viveva con il compagno, che si auto accusa, poi racconta storie tutte da verificare. Entrambi erano in cura presso i servizi di igiene mentale. Così torna la paura, torna il dibattito sulla legge 180, la legge Basaglia - Orsini, che ha tolto l´orrore delle cure in manicomi - lager, ha ridato al malato la dignità di persona. I matti non esistono, è stata una delle semplificazioni del messaggio di Basaglia. Romolo Rossi, psichiatra e psicoanalista, ragiona con "Repubblica" sulle paure e sulla legge, spiega che la malattia mentale esiste eccome, che chiamarla "disagio" è un´ipocrisia, chiarisce dove e perché Franco Basaglia e Bruno Orsini, psichiatra genovese che quella legge l´ha materialmente scritta, sono stati fraintesi.
Professor Rossi, i "matti", per usare un termine non politicamente corretto, esistono o no?
«La malattia mentale c´è, eccome, non è un disagio, chiamarla così è un´ipocrisia. Io posso provare disagio in determinate situazioni, la malattia della mente è altro, è un qualcosa che si sviluppa in tre dimensioni. La prima biologica, la seconda psicologica, la terza sociologica».
Il professor Basaglia, con la legge 180, diceva, in sostanza, che i matti non esistono se non per la società che vuole eliminare un problema, creando una categoria, e chiudendola nei manicomi. Ha ancora ragione?
«Il messaggio di Basaglia, nella considerazione generale, è stato molto male inteso. Cambiare i manicomi, trasformarli, non equivaleva a dire che i matti non esistono, ma solo che certe situazioni accentuano questa malattia. Lo scopo della legge 180 era un altro».
Quale, professor Rossi?
«Bisognava dare alla malattia mentale la dignità di ogni altra, inserirla nei problemi di salute che capitano a noi individui».
I casi recenti, il poliziotto ucciso, l´uomo morto carbonizzato, fanno pensare, però, a un male di vivere che resta così, che non si può guarire.
«Sostenere che una malattia mentale non guarisca mai non è corretto. Come in tutte le altre specialità della medicina, alcune forme possono guarire, altre vanno tenute sotto controllo sempre e per sempre, come capita per il diabete, o per l´anemia mediterranea».
Facciamo un esempio: può migliorare un oligofrenico, chi nasce con il cervello compromesso?
«Esistono diverse forme di malattia psichica, un oligofrenico ha una danno costituzionale, genetico, ma si può aiutare, cercare di farlo vivere bene, tra l´altro è uno dei malati più tranquilli».
I manicomi sono stati chiusi, ma negli ospedali psichiatrici sopravvivono piccoli reparti per i malati violenti, pericolosi a se stesi e agli altri.
«In genere una persona con problemi psichici diventa violenta a seconda del modo in cui viene trattata. Esistono sempre cure».
La legge prevede che un malato di mente si possa ricoverare solo se lo vuole, se firma. Accade raramente e, spesso, sono drammi per le famiglie che li accudiscono. Come si può intervenire?
«Esiste il Tso, il trattamento sanitario obbligatorio, si può prolungare per sette giorni, così stabilisce la legge. Del resto, e torniamo al perché è nata la 180, il principio ispiratore generale era favorire il reinserimento dei malati nel contesto anche familiare».
Professor Rossi, tragedia come quelle accadute la scorsa notte o la settimana scorsa, dovute al male della mente, si possono evitare?
«In una certa misura, con un sistema complesso di cure e sorveglianza. In altri casi, invece, no. Sono i più pericolosi, perché nessuno li conosce, toccano persone chiuse nel loro male, che non comunicano fra loro».
In questi casi, dunque, anche la medicina si arrende?
«Bisogna avere il coraggio di affrontare cose del mondo che sono evidenti, che non si possono negare, e, quindi, rifiutare. Che vada bene o no, il mondo è così».

l'Unità 5.10.08
Marcegaglia e le altre
di Furio Colombo


Marcegaglia, la signora che presiede l’Associazione degli industriali italiani, è una dirigente inflessibile. Fra poche ore potrebbe crollare la finanza del mondo ma lei non si distrae, tiene lo sguardo fisso sul punto «nuovo modo di rinnovare i contratti da lavoro in Italia per sbloccare lo sviluppo del Paese». La missione sembra piccola rispetto agli enormi problemi del momento. In realtà, così come lo vuole con perizia strategica il grosso dei suoi associati, porta l’Italia a fare, sia pure con deplorevole ritardo, ciò che è avvenuto in America ai tempi di Reagan: isolare il lavoro dipendente, umiliare i sindacati con il progetto di accantonarli, o di cooptarli con la strategia del «merito», della «produttività», della «competitività».
Ma in tutti questi bei progetti chi lavora con rischio e fatica, non c’entra niente, non può farci niente. Niente di tutto ciò dipende dai singoli lavoratori o da tutta la mano d’opera di un impresa. Però le tre parole, nate e poi risuscitate in America dalla celebre «scuola di Chicago» (il grande consigliere economico di Pinochet) e cresciute col reaganismo, suonano «moderne», fanno strage di consensi anche a sinistra (quante tesine vi hanno dedicato i giovani rampanti del Pd) e sono diventate luoghi comuni sia del liberismo che del riformismo in cerca di buona reputazione.
Ho letto della appassionata difesa del lavoro da parte di Epifani, il più competente e il meno populista, dunque il più moderno leader sindacale, in Italia, oggi (l’Unità, 3 ottobre). Infatti non subisce il fascino di parole vuote per il lavoro, che in America hanno portato all’iperfinanziarizzazione delle aziende e al crollo che adesso lascia tutti col cuore in gola. Tutti, salvo Marcegaglia e Berlusconi.
Berlusconi ha di fronte la montagna sconosciuta di detriti finanziari del mondo, non si sa quanti salvabili e quanti marci, non si sa quanti italiani e quanto importanti o, al contrario, quanti di questi debiti inesigibili siano, con discrezione non notata, diventati italiani e quanta Lehman Brothers ci sia nella filiale sotto casa, dove il direttore simpatico e rampante accostava il risparmiatore col gruzzoletto per fare proposte «interessanti». Berlusconi punta il dito come faceva a Napoli di fronte alla spazzatura e proclama: «tranquilli, ci penso io». Fa credere che anche per i prodotti tossici della finanza ci sarà un Castel Volturno, con i suoi italiani disperati e con i suoi immigrati disperati, disposti a lasciarsi portare in casa quest’altra spazzatura da nascondere.
Quanto alla Marcegaglia, donna giovane e non incolta, ci aspettavamo un soprassalto. Ovvero, per la prima volta in Confindustria, poteva accadere che finalmente qualcuno, magari perché donna, venisse avanti con le due cose che non sono state mai fatte: dire che cosa l’associazione degli imprenditori può fare per il Paese, invece di chiedere continuamente al Paese che cosa può fare, anzi deve fare per gli imprenditori.
E capire e dire ai propri consociati che la vecchia sceneggiata, comunisti cattivi contro liberisti buoni, Peppone contro Don Camillo è davvero finita, che l’incubo della finanziarizzazione tossica riporta attenzione e prestigio intorno all’impresa. Quell’incubo dice che - invece che mettersi in mano alle banche - è meglio lavorare, produrre, esportare. Ma per farlo ci vuole ricerca (qualcosa che nessuno fa e nessuno promette di fare in Italia) e un idea del tempo e del mondo. E ci vogliono lavoratori, ma non come fannulloni da rimettere al loro posto di ubbidienti subordinati che costano sempre troppo.
Chi «fa impresa» come si dice ai convegni di Confindustria con un tono ispirato, quasi religioso, come se si trattasse di prendere i voti, chi «fa impresa» sa che l’impresa è fatta di buon lavoro. Sa anche che il buon lavoro comincia come e dove l’azienda si identifica, quando si esprime con i suoi leader, nel modo in cui sa scegliere i suoi dirigenti. E sa che non è il conteggio dei minuti per andare in bagno dei dipendenti che assicura il buon lavoro ma un clima di lealtà reciproca che tiene conto del resto del mondo: quanto costa il lavoro a me imprenditore; quanto costa un minimo di dignità della vita a te che lavori.
Questa strada c’era, ed era modernissima, ai tempi di Adriano Olivetti in Italia, nelle imprese di David Rockefeller in America, dove ogni persona era una persona dall’inizio del lavoro fino ai livelli manageriali. Adesso, in questa Italia in ritardo, prevale il modello Thatcher-Reagan che era già vecchio e fallito, quando è stato riesumato dal prima della Depressione del 1929 e che, infatti, ci sta portando a un’altra depressione: distanza, diffidenza, delusione, sospetto, solitudine, tutte condizioni pessime per costruire il futuro del lavoro e dunque delle imprese.
Marcegaglia sta dicendo che preferisce che i lavoratori si presentino ad uno ad uno, per fare contratti legati al merito, alla produttività, cui segue l’eterna invocazione «per tornare a essere competitivi». Ma perché fingere di non sapere che la competitività d’impresa dipende dall’impresa, perché dipende dalla guida, dal realismo ma anche dalla visione; che la produttività è il compito e il capolavoro del manager, perché è il frutto della buona organizzazione; che il merito si misura soltanto dove si vede, ovvero se chi lavora è messo nelle condizioni psicologicamente sicure e fisicamente protette in cui può dare e mostrare (mostrare a chi? si potrebbe chiedere oggi) il meglio delle proprie capacità. Qualcuno vuole il meglio da un precario, oppure soltanto un tot di ore e un tot intercambiabile di fatica?
Ho fatto parte della vita aziendale del tipo rappresentato dalla Marcegaglia. E so che l’imprenditore si presenta a qualunque tavolo scortato da buoni avvocati, esperti fiscalisti, e dai più abili esecutori di tagli sui salari, di solito camuffati con il gentile titolo di responsabili delle risorse umane.
Il lavoratore invece - ci dice la Marcegaglia - deve presentarsi da solo e togliere di mezzo i sindacati. Che mercato è? Un simile squilibrio non ha mai generato civiltà. Questo sta dicendo Epifani. Quando insiste e tiene duro, non boicotta l’impresa. Propone il lavoro dignitoso, psicologicamente alla pari, che è parte essenziale dell’impresa.
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Ma ecco che arriva sulla scena l’altra nuova dirigente di Confindustria, Federica Guidi, figlia di, Presidente dei Giovani imprenditori. Lei ha una visione del mondo. Ma lo vede da una prospettiva retrò in cui però invoca il retrò come futuro. Strano per una donna giovane, passata per buone scuole. Ma ecco quello che ha da dire, mentre i giovani industriali, tutti figli di anziani e robusti imprenditori della precedente generazione, si preparano, come i loro papà, a far festa al governo, a Berlusconi, a Tremonti, nel loro convegno di Capri. «Qui c’è qualcuno che continua a guardare al vecchio, che resta ancorato a schemi ormai passati, che nemmeno adesso, nel mezzo del crac finanziario che sta mettendo a dura prova il mondo, si rende conto di come quegli schemi siano del tutto inadeguati ad affrontare cambiamenti rapidissimi e a volte drammatici». (Corriere della Sera, 2 ottobre).
Santo cielo, ma davvero Federica Guidi pensa che Lehman Brothers, la banca che lo scorso Natale aveva pagato ai suoi top manager “bonus” (premi individuali) tra i cento e i duecento milioni di dollari, sia inciampata e caduta e scomparsa a causa della irresponsabile resistenza del sindacato dei fattorini e dei ragazzi che distribuiscono la posta ai piani bassi dell’azienda?
Non le ha raccontato nessuno che, nel Paese di Reagan e dei due Bush, una volta spezzato, troncato e poi gradatamente escluso da ogni partecipazione il sindacato, una volta reso il lavoro e anche la manodopera più specializzata una variabile di mercato di ultimo livello, un po' sotto la scelta e l’acquisto del materiale da ufficio, moltissime aziende si sono trasformate, come New Orleans, in avamposti abbandonati a raid, accorpamenti, merger, svendite delle divisioni più remunerative e preziose, perdita deliberata di personale specializzato, mentre calava l’originalità e desiderabilità dei prodotti, diminuivano le esportazioni e dalle finestre senza vetri dei piani alti passava il vento di uragani finanziari che si sta portando via l’intero management americano di generali senza esercito?
Dice ancora al Corriere la Guidi: «Persino in momenti di crescita l’Italia rimane ferma al palo». Quando, dove, quale azienda è stata bloccata dagli operai (che in Italia muoiono anche in tre al giorno, mentre lavorano, lavorano, lavorano di giorno e di notte)? Quando nell’Italia della Thyssen-Krupp (al processo i sindacati sono stati autorizzati dal giudice a costituirsi parte civile)? Quando, in questo Paese, prima di questa crisi mondiale che non ha niente di sindacale, un’azienda è rimasta al palo per colpa dei lavoratori, invece che per la responsabilità di un pessimo management?
Possibile che la giovane Guidi, Presidente dei Giovani imprenditori, non si sia accorta di suo, o non sia stata avvertita dai colleghi che stanno appena arrivando, come lei, a sostituire i padri (c’è da essere orgogliosi: sono tutti al convegno di Capri invece che al “Billionaire“) che la Fiat ha avuto una buona ripresa, che ha fatto notizia nel mondo, non per avere finalmente umiliato il lavoro, ma per avere ritrovato un management adeguato, nuovi progetti, nuovi modelli, nuovi modi di vendere?
Prendiamone atto al momento di riflettere sulle relazioni industriali: non è stata la «forte spinta» invocata dalla giovane Guidi (parola codice che significa mano dura sul sindacato) a far tornare in prima fila la Fiat. E’ stato il buon lavoro organizzato bene. Non c’è niente di più moderno che riconoscerlo. Non c’è niente di più vecchio che dare la colpa ai soldati, come facevano, ad ogni sconfitta i generali sabaudi, nella Prima Guerra mondiale.
Quasi nelle stesse ore si fa avanti Barbara Berlusconi, neolaureanda in filosofia, giovanissimo membro del consiglio di amministrazione di Fininvest. Partecipa, insieme alla madre Veronica, a un convegno sull’etica dell’impresa organizzato dai ragazzi di «Milano young», figli che esistono in nome del padre, come sempre in Italia e quasi solo in Italia. Dice Barbara Berlusconi che «Fininvest ha una struttura etica», ed è bello sentirglielo dire di una azienda fondata da e con Marcello Dell’Utri. Dice di avere imparato dal padre «il rispetto per gli altri e l’importanza di non ledere la libertà altrui». Non è il primo caso di padri affettuosi che in casa dicono una cosa e fuori gli scappa di dire che i giudici del proprio Paese o sono mentecatti o sono un cancro, e, in ogni caso, «dovranno presentarsi col cappello in mano». Sarebbe ingiusto giudicare gli affetti. Ma di nuovo si vede che cosa questi padri non hanno insegnato ai figli, persino i padri migliori di Berlusconi. Non gli hanno insegnato che un’azienda non è solo proprietà e dirigenti, altrimenti, sei i piani alti continuano a dare “bonus” a se stessi e a guardare giù con l’irritazione di Federica Guidi, ogni impresa sarà Lehman Brothers. Spiacerà a tutte queste signore, ma ha ragione Epifani: un’impresa è il lavoro.
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