Razzismo? Meglio negare
di Luigi Manconi
Lo straniero, rispetto alla domanda di conservazione e di conformità della destra, è il portatore della molteplicità: ne consegue la paura per ciò che essa produce: appunto, una società multi-etnica
Anch’io come Massimo Bordin, direttore di «Radio Radicale», non capisco perché si debba «scrivere una palla in prima pagina per poi smentirla già a pagina due». In effetti, sulla prima de il Giornale di lunedì 6 ottobre si legge che «Nella gang che picchiò il cinese la metà sono figli di immigrati»; poi, si va alla pagina seguente e nel relativo articolo si trovano quelle che il cronista definisce «strane verità»: ovvero che uno dei presunti aggressori è un adolescente «arabo» e che un altro, italiano, ha una fidanzatina dalla «pelle scura» (sua madre è eritrea, il papà italiano). E così si può titolare che «metà» degli aggressori di Tong Hong Shen sono «figli di immigrati» (ma non erano sette i membri della gang?).
Ricorrendo a questa micidiale logica aristotelica, se tra gli aggressori vi fosse l’amico di un egiziano il cui permesso di soggiorno turistico fosse scaduto o anche il conoscente del figlio di una badante non ancora regolarizzata, il quadro sarebbe perfetto e il Giornale potrebbe tranquillamente titolare: «cinese aggredito da una banda di clandestini». Ma non c’è solo un vertiginoso deficit di senso del ridicolo, dietro una simile lettura giornalistica: c’è qualcosa di estremamente interessante che va considerato con cura. Nessuno, ovviamente, ha mai detto o scritto che «l’Italia è un Paese razzista». E chi mai potrebbe pensare una simile scemenza? Si è detto e scritto, piuttosto, che il numero crescente di «atti di razzismo» deve suscitare allarme e venire adeguatamente contrastato. Ma perché, allora, la destra, i suoi dirigenti politici, i suoi intellettuali e i suoi mezzi di comunicazione si affannano a negare un dato inesistente (l’Italia è un Paese razzista) e a ignorare quello reale (aumentano gli atti di razzismo)? Perché tanta agitazione scomposta e sudaticcia per “neutralizzare” episodi incontestabili e incontestati di violenza a base etnica e per banalizzarne altri? La destra avrebbe potuto tranquillamente dire: gli episodi di razzismo si verificano, tendono ad aumentare e sono il risultato della politica irresponsabile della sinistra. E avrebbe potuto, con qualche argomento, provare a motivare la sua tesi. Non lo ha fatto e non lo fa. La ragione è una: la destra intuisce che il razzismo, qualunque sia la sua dimensione e qualunque sia la sua possibilità di espansione, ci parla di noi. Sia chiaro: anche della sinistra (e perché mai la sinistra dovrebbe essere immune da pregiudizi etnici e da volontà di discriminazione?), ma in particolare parla della destra perché essa non ha saputo e voluto fare i conti con le proprie radici oscure, le proprie pulsioni profonde, i propri umori indicibili. Dunque, il problema non è semplicemente che nel centrodestra si trovino (a loro perfetto agio) Borghezio e Prosperini, Calderoli e Santanchè: il vero problema è piuttosto che le loro dinamiche mentali e le loro parole pubbliche incrociano sentimenti diffusi nella popolazione, li incentivano e ne sono incentivati, li blandiscono e ne sono confortati e - ecco il punto - sono fatti della stessa sostanza, rimandano a medesime concezioni del mondo e a interpretazioni della realtà affini. Non mi riferisco, pertanto, solo ad interessi politico-elettorali, seppure non possa essere sottovalutato il fatto che Silvio Berlusconi, in un quindicennio di attività pubblica, non ha espresso mai, dico mai, una condanna inequivocabile del fascismo e del razzismo. E tuttavia la questione di fondo è un’altra: è che il primo tratto culturale e il principale connotato politico, il fondamentale bisogno e la più potente proiezione dell’identità della destra si esprimono, nonostante tutte le trasformazioni possibili e immaginabili, in una domanda di conservazione. Quella domanda, tanto più nell’epoca della globalizzazione, corrisponde sul piano sociale alla difesa del proprio territorio e del proprio sistema di rapporti e di scambi, del proprio stile di vita e della propria mentalità. Lo straniero, rispetto a quella domanda di conservazione e di conformità, è il portatore della molteplicità: ne consegue la paura per ciò che essa produce. Appunto, una società multi-etnica, multi-culturale, multi-religiosa.
È qui, esattamente qui, che la destra politica è strutturalmente portata a rappresentare le tendenze alla chiusura e all’autodifesa, all’autoreferenzialità e all’autosufficienza delle comunità (locali e nazionali) che si percepiscono come assediate; e ad assecondare, se non decide di contrastarle, tutte le possibili degenerazioni, dalle pulsioni più regressive fino alle inclinazioni più esplicitamente intolleranti. Non è fatale: la politica, qui quella di destra, può operare una mediazione, funzionare da filtro, portare a razionalità ciò che si propone come mero istinto. L’oggetto del contendere è proprio questo: se l’attuale destra italiana stia realizzando politiche e stia inviando messaggi tali da mediare intelligentemente o incentivare irresponsabilmente le tensioni attuali e possibili tra italiani e stranieri. Siamo in molti a credere che le misure di legge finora approvate e il discorso pubblico quotidianamente reiterato vadano nella direzione di esaltare le ansie collettive e, in qualche caso, di organizzarle politicamente. Le campagne contro gli zingari e contro i romeni non cadono dal cielo: sono gestite in prima persona da settori del governo e da pubblici amministratori, che a quelle ansie collettive offrono legittimazione istituzionale, canali di espressione, bersagli da colpire. Per questa ragione appare del tutto fuori luogo la domanda di Fiamma Nirenstein sul il Giornale di domenica scorsa: «È razzista quella ragazza che ha paura?» quando «tornando a casa in un quartiere popolare di notte» si allarma «se incontra giovani stranieri che parlano un’altra lingua, hanno un altro modo di approcciare?». Ma è ovvio che non lo è, e a quella ragazza vanno garantite sicurezza e libertà di movimento. Se nasce un problema politico è perché c’è chi, su quella paura (comprensibile e parzialmente motivata), effettua un investimento politico e ottiene un rendimento politico. Resta il fatto che la destra italiana rimuove tutto ciò: il suo inconscio le suggerisce di non guardarlo, per non dovervi fare i conti. Ma la discussione non finisce qui. In un editoriale de Il Corriere della Sera di ieri, Giuseppe De Rita descrive bene le forme del “modello italiano” di integrazione, segnalando i processi positivi di inserimento degli stranieri all’interno della nostra vita sociale («nelle fabbriche, nelle famiglie, nelle realtà locali») e due aree di maggiore crisi: quella «delle grandi città e delle loro periferie» dove «si intrecciano la devianza degli immigrati e l’aggressività dei bulli e teppisti indigeni»; e quella «delle zone di forte criminalità organizzata dove la vulnerabilità sociale è più alta e dove possono intrecciarsi devianze di diversa origine e potenza». E sono due questioni, come nota opportunamente De Rita, che «andrebbero affrontate anche se non ci vivesse neppure un immigrato». Dopo di che De Rita critica la tendenza a enfatizzare il razzismo «come nuova grande malattia italiana». Per De Rita, questa è una «tentazione doverosa per chi deve ricordare grandi principi di civiltà collettiva» (si riferisce, immagino, al Pontefice e al capo dello Stato) ma «ci allontana dalla realtà, dai processi e dai percorsi su cui senza clamori si fa integrazione sociale di immigrati». Non ne sono convinto: e proprio perché l’immigrazione si presenta e come grande questione sociale, che ha nei processi di integrazione la prova più delicata e insieme più remunerativa; e come grande questione culturale, e, direi, morale: essa richiama, infatti, i temi cruciali dell’eguaglianza e dei diritti universali della persona. Temi che non vanno evocati retoricamente né declinati in chiave sentimentale e solidaristica, ma vanno calati concretamente dentro il sistema di cittadinanza e dentro i nuovi statuti dei rapporti internazionali. (Oltre che, beninteso, attraverso politiche pubbliche e strategie amministrative razionali e intelligenti, non demagogiche e non velleitarie. Che richiedono notevoli risorse). Per capirci: non penso affatto che ci sia quella “generale deriva razzistica”, e tuttavia segnalo due fatti. Il primo: la caduta nel discorso pubblico di quel tabù che impediva di urlare in una sede politica “i romeni sono stupratori”; il secondo: l’aggravante di clandestinità per gli immigrati irregolari che commettano reato; aggravante non dipendente dall’illegalità dell’azione, bensì dalla mera condizione amministrativa (e in qualche modo esistenziale). Se le dinamiche culturali e giuridiche derivate da questi due fatti non vengono adeguatamente contrastate, i processi di integrazione - ecco il punto - subiranno contraccolpi, ritardi, deterioramenti. Più in generale i fondamenti di valore del sistema democratico e dello Stato di diritto ne risulteranno intaccati.
È questo che, a mio avviso, dovrebbe indurre la sinistra a fare della questione dell’immigrazione uno dei tratti essenziali della propria identità culturale programmatica. E non in nome di una “società multiculturale” che, come direbbe Giovanni Trapattoni «non è una passeggiata, ma un’ardua fatica»: e non è, certo, quel surrogato del socialismo che molti hanno creduto (o lo è nel suo senso peggiore); e nemmeno in nome della solidarietà, che è virtù preziosa ma propria della sfera privata e delle opzioni personali, e non può essere imposta per legge o raccomandata fraternamente a chi non ha occhi per piangere. Bensì, in nome dei diritti e delle garanzie e di un “calcolo razionale”. È interesse mio e dei miei figli realizzare una società nella quale la convivenza sia la più pacifica possibile e l’integrazione riduca tensioni e conflitti che pure saranno inevitabili, ed è interesse mio e dei miei figli che gli standard di diritti e garanzie non siano a geometria variabile: la compressione di quelli dei soggetti meno tutelati, come gli immigrati, non innalza il livello dei nostri. Li deprime tutti.
l’Unità 7.10.08
Giorgio Lunghini. Il docente dell’Iuss di Pavia: viviamo l’ultimo atto della caduta dell’economia americana
Questa crisi cambierà gli assetti del potere nel mondo
di Luigina Venturelli
«L’attenzione di tutti è concentrata sul crollo delle Borse, ma questa crisi non è solamente finanziaria: è l’ultimo atto di una crisi reale iniziata tanti anni fa, quella dell’economia americana». Così Giorgio Lunghini, economista di lungo corso dell’Istituto di Studi superiori dell’Università di Pavia, spazza via anche l’ultimo tentativo di circoscrivere la bufera che si sta abbattendo sui mercati mondiali: quello di descriverla come il frutto amaro di titoli derivati e mutui subprime.
Quali saranno le conseguenze di questo tracollo?
«Una risposta definitiva potranno darla solo gli storici tra qualche anno. Sicuramente ci sarà una redistribuzione del potere a livello mondiale tra Stati Uniti, Europa, Russia e il blocco asiatico costituito da Cina e India».
Da ovest verso est?
«Gli Stati Uniti perderanno peso sul fronte del lavoro, della produzione, della finanza e quindi della politica. La crisi dell’economia americana è iniziata molto tempo fa: prima si è manifestata con il crollo della new economy, poi è stata spostata sulla Borsa grazie ad una politica accomodante della Federal Reserve. Quindi, per evitare che scoppiasse, è stata indirizzata da Greenspan verso il mercato immobiliare con la promessa di una casa per tutti, anche per i soggetti non solvibili».
Così si arriva ai subprime.
«A questo percorso si aggiungano le costanti degli ultimi trent’anni di storia economica a stelle e strisce: il deficit strutturale del commercio estero, a lungo compensato con un afflusso di capitali dall’estero che ora si è interrotto; l’elevato debito pubblico, che dipende in gran parte dalle spese militari; l’eccezionale debito privato accumulato dai cittadini americani. Gli Stati Uniti sono un paese oberato dai debiti ed ora si è arrivati alla resa dei conti».
Che cosa succederà, invece, all’Europa?
«L’Europa è in una situazione meno drammatica, ma non è l’isola felice che si credeva solo poche settimane fa. Da un lato la crisi è globale e i costi del crollo Usa si scaricheranno su tutto il capitalismo occidentale. Dall’altro lato l’Unione europea non esiste come federazione, quindi manca delle politiche unitarie di bilancio che servirebbero per arginare la crisi. Dispone solo della leva monetaria, che viene gestita da Trichet in modo prekeynesiano, con l’unico obiettivo di contenere l’inflazione dimenticando la promozione della crescita».
Qualche governo si sta muovendo autonomamente. La Germania, ad esempio, ha garantito con denaro pubblico i depositi dei suoi risparmiatori.
«La prima economia europea cerca di tranquillizzare i suoi cittadini e probabilmente ci riesce. Ma sono preoccupanti le reazioni indispettite degli altri governi. Forse perchè non si sentono in grado di fornire una garanzia analoga ai propri cittadini?».
l’Unità 7.10.08
Sulla scuola non si discute, imposta la fiducia
Decreto, il ministro Elio Vito parla di «motivi tecnici». L’opposizione insorge: tagliano così 8 miliardi
di Eduardo Di Blasi
AFFERMA ELIO VITO, ministro per i rapporti con il Parlamento, nell’annunciare il ricorso al voto di fiducia da parte del governo sul decreto Gelmini, che la scelta non è dovuta «ad un ostruzionismo dell’opposizione, che in questo caso non si è registra-
to» né «a presunte divisioni interne alla maggioranza, che non ci sono state».
Ma allora perché ricorrere al sesto voto di fiducia in pochi mesi con una maggioranza che numericamente non dovrebbe avere alcun problema ad affrontare un dibattito in aula? Secondo il rappresentante dell’esecutivo, la fiducia posta sul maxi-emendamento governativo sarebbe solo una questione «tecnica» dettata dai tempi ristretti: il decreto deve ancora passare per l’aula del Senato, e scade il 31 ottobre.
Spiegazione condivisibile? Secondo il capogruppo del Pd Antonello Soro, no: «Credo che nei precedenti della Camera dei deputati non ci sia mai stato un passaggio alla seconda lettura con 26 giorni utili», dirà in aula. Il ricorso alla fiducia resta dunque un dato inspiegato se anche il ministro Gelmini, in Transatlantico, continua a sottolineare la sussistenza dei «presupposti d’urgenza», contraddicendo quanto detto dal collega Vito pochi minuti prima («Non è vero che non c’è stato ostruzionismo, perché il numero degli emendamenti è aumentato»). E aggiungendo: «Credo che sia urgente rispondere al bullismo, introdurre il voto in condotta, una semplificazione dei meccanismi con il ritorno ai voti ed è importante lo studio dell’educazione civica», come se questi possano configurarsi come «presupposti d’urgenza». La maggioranza abbozza.
Valentina Aprea, relatrice del provvedimento, si lancia in un pericoloso ringraziamento del governo che, pur ponendo la fiducia espropriando il Parlamento, avrebbe accolto nel testo le modifiche della commissione (la prima, voluta dalla Lega, riprovincializza le graduatorie degli insegnanti, la seconda, indicata dall’opposizione e da l’Unità, ha cancellato l’errore di bocciare un bimbo delle elementari per una sola insufficienza). Eppure manca anche la certificazione della copertura finanziaria. La commissione Bilancio ci ha provato fino a sera a farsi dare i numeri. La questione è ben spiegata in aula dal capogruppo dell’Udc in commissione Gian Luca Galletti. «Si prevede il maestro unico. Sappiamo che il maestro unico dovrà svolgere due ore in più rispetto a quelle che svolge attualmente, da 22 a 24. Questo comporterà la necessità di un rinnovo contrattuale, che recherà maggiori oneri per lo Stato. Per tutto il pomeriggio abbiamo chiesto alla Ragioneria dello Stato, alla maggioranza e al Governo di quantificarci questo maggiore onere, per vedere se era compatibile con la copertura che si prevede nel decreto-legge. Questo dato non siamo riusciti ad averlo». Di più spiegano gli onorevoli Lino Duilio e Maino Marchi (entrambi del Pd), «prima hanno rimpallato le competenze tra Cultura e Bilancio, poi ci hanno mostrato un documento della Ragioneria dello Stato, con data 1 settembre, che sconfessava la copertura finanziaria così come era stata predisposta, infine un sottosegretario ci ha risposto “garantisco io”». E in numeri? Anche per questi, si direbbe, a fiducia.
Antonello Soro va dritto al merito: «Il punto è che si sta, di fatto, operando una trasformazione del processo legislativo in contrasto con la Costituzione vigente. L’utilizzo del decreto-legge e del voto di fiducia in un’assemblea deputata esclusivamente alla ratifica configura un cambio sostanziale, di fatto, materiale, ma direi in violenza alla Costituzione vigente».
l’Unità 7.10.08
La protesta dei docenti
Gli atenei verso l’occupazione
di Federica Fantozzi
Blocco delle inaugurazioni dell’anno accademico, forse l’università di Padova sarà la prima, e La Sapienza di Roma verso l’occupazione studentesca.
Sale la protesta di docenti, sindacati e ragazzi contro il piano del governo sugli atenei. Il cahier de doléances è lungo. Ricerca e università in ginocchio. Docenti «dimezzati» dal blocco del turn over e dai licenziamenti. Decreto «ammazza-precari» che impedisce stabilizzazioni. Meno laboratori e biblioteche, addio sperimentazioni. Tagli del 10% al fondo di finanziamento nel 2010, scendendo dai 7,4 miliardi attuali a 6,4 entro il 2013. Azzeramento dei fondi per l’edilizia mirata. Limiti alla contrattazione integrativa. Atenei trasformati in «super-licei» di serie A (privati) e B (pubblici). E non più in grado di pagare gli stipendi nè di chiudere in pareggio i bilanci.
Una débacle, denunciano gli operatori. Un «Piano Marshall al contrario». Le forbici infieriranno per 10 miliardi nel prossimo quinquennio: cifra speculare agli aiuti americani che nel Dopoguerra consentirono all’Italia di risollevarsi.
Il mondo della formazione e della ricerca si è già mobilitato. Molte le iniziative in campo. L’appello di un gruppo di docenti ai rettori affinché rinuncino alle inaugurazioni dell’anno accademico ha superato in pochi giorni le 1300 adesioni. Tra i promotori ci sono Gianni Vattimo, Alberto Asor Rosa, Piero Bevilacqua della Sapienza di Roma, il rettore di Padova Umberto Curi, Fulvio Tessitore dell’università di Napoli.
Proprio a Padova, a novembre, potrebbero iniziare le proteste. Ma crescono le voci di un’imminente occupazione della facoltà di Lettere della Sapienza. In quell’aula simbolica i promotori dell’appello stanno organizzando un’assemblea per il 23 ottobre. In calendario anche una giornata in cui gli studenti porteranno in facoltà i genitori e i professori spiegheranno il «valore della formazione pubblica».
I docenti hanno anche elaborato un documento che analizza nel dettaglio i guasti del decreto legge 112: quasi 1500 milioni di euro in meno in 5 anni «passando dall’ordine dell’1% del 2009 al 7,8% nel 2012-2013». Riduzione di servizi agli studenti e di infrastrutture. Prospettiva a medio termine: «Dimezzamento del numero dei docenti».
La conseguenza sarà la concentrazione dell’attività sulla didattica a scapito della ricerca, delle tesi sperimentali, dell’aggiornamento al mondo che cambia. Altrettanto devastante - denunciano - la trasformazione delle università in fondazioni: «Il sistema del diritto allo studio verrà cancellato, non sarà più assicurato per i meritevoli in condizioni disagiate». E sparirà la differenza con le private sulle tasse universitarie, più alte per tutti.
Come reagire? L’invito per il governo è a «una seria valutazione anziché tagli discriminati». La Crui, la conferenza dei rettori, ha consegnato un pacchetto di proposte al ministro Gelmini, condite da un avvertimento: o il governo rivede i contenuti della manovra, o gli atenei non riusciranno a pagare gli stipendi al personale e i conti finiranno in rosso. L’Unione Universitari è scesa in piazza contro «l’attacco del governo con tagli pesanti e la possibilità di privatizzare tutti gli atenei» inserito «in un progetto di screditamento e distruzione di tutti i servizi pubblici».
La Flc Ggil intanto fornisce i primi effetti sul settore, dove il precariato sfiora il 50%. Oggetto delle proteste l’emendamento «ammazza precari» di Brunetta: «Non si può negare il diritto a un lavoro stabile a tantissimi giovani ricercatori e universitari qualificati». Già in mobilitazione i 500 precari dell’Isfol (Istituto per la formazione professionale dei lavoratori), i 700 dell’Ispra (Istituto per la protezione e la ricerca ambientale), i 400 dell’Ingv (Istituto Nazionale di geofisica e vulcanologia). Secondo la Finanziaria in cantiere le università potranno assumere nel triennio 2009-2011 fino al 20% dei pensionamenti e fino al 50% nel 2012. Inoltre, dal primo gennaio 2009 gli scatti biennali dei docenti, con lo stesso importo, diventano triennali.
Infine l’entità dei tagli: 63,5 milioni di euro nel 2009, 190 milioni nel 2010, 316 nel 1011, 417 milioni nel 2012 e, infine, 455 milioni nel 2013. Totale: meno 1.441 milioni in aree cruciali per la crescita e la formazione dei giovani.
Corriere della Sera 7.10.08
Il patto con i pazienti L'oncologo propone una legge sul testamento biologico e lancia 10 diritti etici
Veronesi ai malati: i medici devono ubbidirvi
di Mario Pappagallo
MILANO — «I medici facciano un passo indietro, i pazienti uno avanti». Umberto Veronesi ( foto) nel 1973 è stato il fondatore del primo comitato etico in Italia, all'Istituto nazionale dei tumori di Milano, e ora, dopo 35 anni, si rende conto che occorre rilanciare il motto di quel primo comitato: «Tutto è concesso all'uso della scienza per l'uomo, tutto è negato all'uso dell'uomo per la scienza». Due le azioni: il Veronesi senatore ha presentano il primo ottobre un disegno di legge sul consenso informato e le dichiarazioni anticipate di volontà, il Veronesi medico fissa un suo decalogo dei diritti del malato. Lo presenterà il 13 ottobre al Circolo della Stampa di Milano e l'invierà a tutti i comitati etici italiani. Il «patto» con i malati prevede: cure scientificamente valide e sollecite, diritto a una seconda opinione e alla privacy, diritto a conoscere la verità sulla malattia e a essere informato sulle terapie, diritto a rifiutare le cure e ad esprimere le proprie volontà anticipate, diritto a non soffrire, diritto al rispetto, alla dignità. «Mi sono basato — spiega l'oncologo milanese — sui principi fondanti della bioetica che sono l'autonomia e la beneficenza ». Che cosa significa? «Che ognuno ha il diritto di autodeterminarsi nella malattia così come ce l'ha in salute. È il principio di autonomia: spetta al malato decidere che cosa è bene per lui. Questo è il pilastro su cui si basa anche il secondo principio: la beneficenza. Significa che l'atto medico deve essere a puro vantaggio del malato ». Ma non è tautologico? «Sembra, ma non lo è. La bioetica, per esempio, non ammette che un atto medico sia fatto in nome della ricerca scientifica. Ci si deve concentrare su quel malato in quel momento e non ci deve essere la preoccupazione di ciò che sarà in futuro, perché nessun malato mai deve pagare il prezzo della ricerca».
Nel 1970 Von Potter, nel suo
Bioethics: a bridge to the future,
sostiene che l'etica deve ispirarsi alla biologia dell'uomo e si dichiara preoccupato dello sviluppo di tecnologie che alterano gli equilibri dell'esistenza umana... «Esatto — continua Veronesi —. Una tempesta si è abbattuta su questi equilibri con l'introduzione della vita artificiale, cioè quando (a metà del secolo scorso) sono state introdotte nei reparti di rianimazione macchine in grado di mantenere l'ossigenazione del sangue e il battito del cuore, anche a funzioni cerebrali cessate. Nasce così l'incubo della vita artificiale, come esito non voluto dei progressi della tecnologia». E allora che cosa dovrebbe accadere oggi? «Per la bioetica è importante il rispetto delle leggi naturali. Per esempio Eluana, in base alla natura, sarebbe morta 16 anni fa. La vita artificiale è un'infrazione alle leggi naturali. Oltre che alla volontà del paziente, se espressa».
Eluana non ha lasciato una volontà anticipata scritta? «Se ci fosse stata però andava rispettata. Se una persona può decidere in salute e coscienza di rifiutarsi di mangiare o di bere, nessuno può costringerlo con la forza a farlo. E questo per la legge e per il codice deontologico dei medici. Per questo ho presentato un disegno di legge sul testamento biologico. Per questo lancio i 10 diritti del malato e invito medici e cittadini a farli propri».
Corriere della Sera 7.10.08
La civiltà dei barbari
C'è un cambiamento in atto che non è solo culturale, ma antropologico e genetico e che può produrre un'umanità radicalmente nuova, diversa dalla nostra
conversazione tra Claudio Magris e Alessandro Baricco
Claudio Magris: Nietzsche ha descritto con genialità l'avvento di una società nichilista dove tutto è interscambiabile come moneta
Durante la campagna elettorale del 2001 mi sono accorto che non capivo più il mondo. Un manifesto di Forza Italia mostrava Berlusconi in maglione, con la scritta «Presidente operaio»; un'idea che sarebbe potuta venire in mente a me e ai miei amici per una goliardata che lo mettesse in ridicolo. Sarebbe stato altrettanto comico proclamare Veltroni o Prodi «Presidenti operai». Ma se qualcosa che per me era una caricatura satirica funzionava invece quale efficace propaganda, voleva dire che erano cambiate le regole del mondo, i metri di giudizio, i meccanismi della risata; mi trovavo a un tavolo di poker credendo che l'asso fosse la carta più alta e scoprivo che invece valeva meno del due di picche, come quando il protagonista dell'Uomo senza qualità di Musil, leggendo su un giornale di un «geniale» cavallo da corsa, capisce che le sue categorie mentali sono saltate, non afferrano e non valutano più le cose.
Alessandro Baricco si addentra nel paesaggio di questa mutazione epocale con straordinaria acutezza; con quella profondità dissimulata in leggerezza che caratterizza il suo narrare. Forse Baricco è scrittore dell'Ottocento e del Duemila più che del Novecento, cui pure s'intitola un suo celebre libro. Si muove nel mondo saccheggiato dai barbari, come egli li chiama, con l'agilità di un'antilope in un territorio che non è proprio il suo, ma nel quale non si trova affatto a disagio. I barbari sono tali rispetto a quella che si considera — a noi che ci consideriamo — la civiltà, la quale si sente devastata nei suoi valori essenziali: la durata, l'autenticità, la profondità, la continuità, la ricerca del senso della vita e dell'arte, l'esigenza di assoluti, la verità, la grande forma epica, la logica consueta, ogni gerarchia d'importanza tra i fenomeni. In luogo di tutto questo trionfano la superficie, l'effimero, l'artificio, la spettacolarità, il successo quale unica misura del valore, l'uomo orizzontale che cerca l'esperienza in una girandola continuamente mutevole. Il vivere diventa un surfing, una navigazione veloce che salta da una cosa all'altra come da un tasto all'altro su Internet; l'esperienza è una traiettoria di sensazioni in cui Pulp Fiction e Disneyland valgono quanto Moby Dick e non lasciano il tempo di leggere
Moby Dick.
Nietzsche ha descritto con genialità unica l'avvento di questo nuovo uomo e della sua società nichilista, in cui tutto è interscambiabile con qualsiasi altra cosa, come la cartamoneta. Tutto ciò nasce già col romanticismo, che ha infranto ogni canone classico, anzi ogni canone; come ricorda Baricco, la prima esecuzione della Nona di Beethoven venne stroncata dai più seri critici musicali con termini analoghi a quelli con cui oggi si stroncano, accusandole di complicità con i gusti più bassi e volgari, tante performance artistiche o pseudoartistiche. Baricco cerca di descrivere — o, nei suoi romanzi, di raccontare — e soprattutto di capire il mondo, anziché deplorarlo, e sostiene giustamente, nel bellissimo finale de I barbari (Feltrinelli), che ogni identità e ogni valore si salvano non erigendo una muraglia contro la mutazione, bensì operando all'interno della mutazione che è comunque il prezzo, talora pesante, che si paga per un grande progresso, per la possibilità di accedere alla cultura data a masse prima iniquamente escluse e che non possono avere già acquisito una coerente signorilità «Se tutto va compreso — gli chiedo incontrandolo nella sua e un po' anche mia Revigliasco— non tutto va accettato. Tu stesso scrivi che occorre sapere cosa salvare del vecchio — che dunque non è tale — in questa totale trasformazione. Questo implica un giudizio, che non identifica dunque, come oggi si pretende, il valore col successo. Anche Il piccolo alpino vendeva un secolo fa tante più copie delle poesie di Saba, ma non per questo chi lo leggeva capiva meglio la vita. Se i giornali — come dici — non parlano di una tragedia in Africa finché non diventa gossip di veline o di sottosegretari, non è una buona ragione per non correggere questa informazione scalcagnata prima ancora che falsa. Del resto è quello che fanno tanti blog, in cui si trova spesso più «verità» che nei media tradizionali. I barbari ci aiutano quindi forse anche a combattere la barbarica identificazione del valore col successo».
Baricco — Certo, non tutto va accettato, hai ragione. Ma capire la mutazione, accettarla, è l'unico modo di conservare una possibilità di giudizio, di scelta. Se si riconosce alla nuova civiltà barbara uno statuto, appunto, di civiltà, allora diventa possibile discuterne i tratti più deboli, che sono molti. D'altronde io credo che la stessa barbarie abbia una certa coscienza dei suoi limiti, dei suoi passaggi rischiosi e potenzialmente autodistruttivi: in un certo senso sente il bisogno di vecchi maestri, ne ha una fame spasmodica: il fatto è che i vecchi maestri spesso non accettano di sedersi a un tavolo comune, e questo complica le cose.
Magris — Credo che non esista una contrapposizione fra i barbari e gli altri (noi?). Anche chi combatte molti aspetti «barbarici» non è patetiout, ma contribuisce alla trasformazione della realtà. Come nel Kim di Kipling, in cui tutti spingono la Ruota e ne sono schiacciati. Senza pathos della Fine né di un miracoloso e fatale Inizio. La civiltà absburgica, così esperta di invasioni barbariche, non le demonizzava né le enfatizzava; si limitava a dire: «È capitato che...».
Baricco — «È capitato che...», bellissimo. Quando ho pensato di scrivere I barbari avevo proprio uno stato d'animo di quel tipo… Sta capitando che… Non avevo in mente di raccontare un'apocalisse e nemmeno di annunciare qualche salvezza… volevo solo dire che stava succedendo qualcosa di geniale, e mi sembrava assurdo non prenderne atto. Forse ho letto troppi mitteleuropei da giovane e mi son trasformato in un von Trotta. Colpa tua, in un certo senso…
Magris — Tu indaghi splendidamente lo stretto rapporto che c'era tra profondità, rifuggita dai barbari, e fatica, sublimata e cupa moralità del lavoro e del dovere, che spesso conduce a sacrificio e a violenza. Ma la profondità non è necessariamente legata alla falsa etica del sacrificio. Immergersi e reimmergersi in un testo — in un amore, in un'amicizia, anziché toccarli di sfuggita come oggi i barbari — non vuol dire sfiancarsi a scavare come un forzato nella miniera, ma è come scendere ripetutamente in mare, scoprendo ogni volta nuove luci e colori, che arricchiscono quelle precedenti, o come fare all'amore tante volte con una persona amata, ogni volta più intensamente grazie alla libertà dell'accresciuta confidenza.
Baricco — La profondità, quello è un bel tema. Sai, scrivendo I barbari, ho dedicato molto tempo a capire e a descrivere la formidabile reinvenzione della superficialità che questa mutazione sta realizzando. E trovo fantastico ciò che siamo riusciti a fare, riscattando una categoria che ufficialmente era l'identificazione stessa del male, e restituendola alla gente come uno dei luoghi riservati al Senso. Ma mi rendo anche conto che questo non significa affatto demonizzare, automaticamente, la profondità. Tu giustamente parli di amicizia, di amore, e se tu guardi i giovani di oggi, quasi tutti tipici barbari, tu troverai lo stesso desiderio di profondità che potevamo avere noi. O se pensi alla loro domanda religiosa, ci trovi un'ansia di verticalità che non riesci bene a coniugare con la loro cultura del surfing. Alla fine sai cosa penso? Che la mutazione abbia smontato la dicotomia di superficiale e profondo: non sono più due categorie antitetiche: sono le due mosse di un unico movimento. Sono i due nomi di una stessa cosa. Non so, non so spiegarlo meglio, è una cosa che intuisco ma devo ancora pensare: ma credimi, il punto è quello. Ti dirò di più: la superficialità, nelle opere d'arte barbare, non è già più distinguibile come tale, non più di quanto tu possa distinguere cosa è ornamento in un quadro di Klimt, o pura aritmetica in una suite di Bach.
Magris — Pur più allergico di te — anche per ragioni d'età — ai barbari, vorrei difenderli da una loro immagine totalitaria. In Google vedo anche una — pur immensa — reticella simile a quelle con cui i bambini pescano in mare granchi e conchiglie. Non ho bisogno di Google per sapere qualcosa su Goethe, «linkatissimo», perché lo trovo altrettanto facilmente altrove, come in passato. Invece è Google che mi ha dato qualche notizia su un personaggio minimo di cui mi sto interessando, una nera africana del Cinquecento fatta schiava, divenuta dama di corte in Spagna, rapita dai Caraibi e poi loro regina. I blog correggono l'unilateralità barbarica dei media, che parlano solo di ciò di cui si parla e si sa. Non credo che Faulkner possa sparire, meglio allora se sparisse Google; credo che Google possa semmai aiutare a far riscoprire la sua grandezza a molti ignoranti. I barbari che hanno invaso l'impero romano ne sono stati gli eredi, hanno letto e diffuso i Vangeli...
Baricco — I barbari che hanno invaso l'impero romano erano spesso popolazioni già parzialmente romanizzate guidate da condottieri che venivano dalle file degli ufficiali dell'esercito imperiale...
Magris — La profondità, tu scrivi, è spesso fondamentalista, ha condotto, in nome di valori forti, a guerra e a distruzione. Non credo però che la folla barbarica, innocente, pacifista dei consumatori di videogame sia adatta a scongiurare la violenza; la vedo semmai disarmata e ingenua e dunque facile preda di persuasioni collettive che portano alla guerra. Nella tua straordinaria
Postilla a Omero, Iliade tu dici — e concordo pienamente — che la guerra non si sconfigge con l'astratto pacifismo, ma con la creazione di un'altra bellezza, slegata da quella pur altissima ma sempre atroce del passato, come nell'Iliade. Non vedo però nei consumatori di Matrix questi costruttori di pace...
Baricco — Apparentemente è così. Ma ogni tanto mi chiedo, ad esempio, se una delle ragioni per cui, dopo le due Torri, non siamo precipitati in una vera e propria guerra di religione su vasta scala, non sia proprio la barbarie diffusa delle masse occidentali e cristiane: il loro nuovo sospetto per tutto ciò che si dà in forma mitica impedisce di aderire in modo viscerale ai possibili slogan guerrafondai che in passato, e per secoli, hanno fatto così larga breccia tra la gente.
Magris — I barbari di cui parliamo sono occidentali, anche se integrano elementi di altre culture. Oggi la cosiddetta globalizzazione mescola su scala planetaria altre culture, tradizioni, livelli sociali, quasi epoche diverse, e introduce pure valori di profondità e di fatica, Assoluti, fondamentalismi. Una nuova folla di esclusi si affaccia al mercato della civiltà; rispetto ad essi, i nostri barbari sembreranno presto aristocratici di un altro ancien régime. Certo, passerà del tempo prima che i clandestini d'ogni lingua e cultura levino veramente la voce, ma...
Baricco — È vero. Quando parliamo di Umanesimo o di Romanticismo parliamo di mutazioni che riguardavano un mondo piccolissimo (l'Europa, e nemmeno tutta), mentre oggi qualsiasi mutazione si deve confrontare con il mondo tutto, perché con il mondo tutto si trova a dialogare. Sarà un'avventura affascinante. Ci sono intere parti di mondo con cui facciamo affari che nemmeno sono mai passate dall'Illuminismo: non sarà che l'uomo che stiamo diventando riuscirà a dialogare meglio con loro che con i suoi vecchi sacerdoti del sapere?
Magris — C'è un'altra mutazione in atto — non solo culturale, bensì antropologica, genetica, biologica — che potrà generare un'umanità radicalmente diversa dalla nostra, padrona della propria corporeità, capace di orientare a piacere il proprio patrimonio genetico e di connettere i propri neuroni a circuiti elettronici artificiali, portatrice di una sessualità che non ha nulla a che fare con quella che, più o meno, è ancora la nostra. Certo, passerà comunque molto tempo prima che ciò possa avvenire. Ma se quest'uomo o il suo clone sarà veramente «altro» rispetto a noi, non avrà senso chiedersi se sarà orizzontale o profondo, come non avrebbe senso chiederselo per i nostri avi scimmieschi o magari roditori...
Baricco — Tu dici? Non so. A me pare una frontiera assai più vicina, un destino che appartiene all'uomo come lo conosciamo oggi, a quell'animale lì. Perché credo che una delle acquisizioni fondamentali dell'uomo moderno sia stata quella di immaginare e generare una continuità nel suo cammino, una continuità pressoché indistruttibile. Non importa quanto tempo ci vorrà ma quando connetteremo i nostri neuroni con circuiti elettronici artificiali ci sarà ancora, accanto a noi, un comodino e sul comodino un libro: magari sarà in titanio, ma sarà un libro. E quello che facciamo ogni giorno, oggi, magari senza neanche saperlo, è scegliere che libro sarà: riesci a immaginare un compito più alto, e divertente?
Corriere della Sera 28.7.05
Fagioli: con Fausto perché è un passionale libero dalle ideologie
di Alessandro Trocino
MILANO - Lui se la rideva, a vederlo nella sua piccola libreria romana «Amore e psiche», «un po’ terrorizzato dalle nostre domande», a discettare sul giovane Marx e Feuerbach, a spiegare se venga prima la prassi o le idee, a intimorirsi sulle domande di giovani fanciulle sulla «sofferenza della mente». Però a Massimo Fagioli, l’anziano psichiatra eretico, è piaciuto molto «questo Bertinotti che si cimenta nelle idee, che considera la politica non come calcolo amministrativo delle risorse, ma come passionalità, emozione, ricerca di liberazione».
Dicono che Bertinotti senta molto la sua influenza. Del resto, la chiamano guru.
«Bertinotti l’ho conosciuto l’anno scorso, ma evidentemente i miei scritti li conosceva già: lui stesso lega la scelta della non violenza alle mie teorie. Ma guru non mi piace. A meno che non si scherzi».
La non violenza, una scelta contestata da alcuni.
«C’è una frase terribile che non sono riuscito a dire: non ci sarà mai nessun comunismo se non si affronta la realtà umana. Persino Marx ha fallito e si è dato all’economia politica. Io sono convinto di avere scoperto questa realtà».
Riesce dove Marx ha fallito.
«Una bella superbia, eh? Ma l’ha detto lei, io mi astengo».
Che cos’è questa realtà umana?
«Che dobbiamo scoprire un’altra violenza, quella invisibile che sta nella mente, nelle pulsioni. Lei sa che per Freud l’inconscio è perverso. E invece è sano. Se si ammala, si cura».
Lei non ha mai amato Freud.
«Era un povero cretino, un demente. Nevrotico e psicotico».
Ma non era non violento?
«Distruggo il distruttore della realtà umana. Senza toccarlo: è morto da quasi 70 anni».
Che cosa c’entra tutto questo con Bertinotti?
«Bertinotti ha capito che non si tratta soltanto di procurare benessere fisico, bisogna fare un lavoro sulla mente, liberarla dalle ideologie, dalle religioni, dagli orchi del male, dalle fate».
Il comunismo è un’ideologia.
«Anche Bertinotti ha ammesso che è fallito e ora cerca di farne uno nuovo. Per questo occorre una teoria sulla mente umana. Non basta la fratellanza universale: quella c’era già nel cristianesimo e non è bastata».
Lei è comunista?
«Mai stato. All’epoca stavo con il socialismo di sinistra di Lombardi. Con il Psiup, che era più estremista dei comunisti».
L’Unione di Prodi le piace?
«Prodi è abile, ma non mi convince il suo cattolicesimo. E’ un chierico, basta vedere il modo in cui si muove. Ora dice di essere un cattolico laico. Prima, però, ha votato la legge criminale sulla fecondazione».
Rutelli?
«Mah, era laico, radicale, anticlericale. Ora è un baciapile».
E Fassino?
«Pure lui ora crede in Dio. Una volta, nel Pci bisognava essere atei. Ora anche la Turco è ultracattolica. Sono problemi».
Teme lo Stato confessionale?
«Altroché. Il capo di uno Stato straniero si permette di dirci che leggi fare e nessuno protesta. Ormai è uno Stato teocratico. In Italia c’è democrazia, ma poi alla fine uno viene isolato. Al limite, c’è più libertà in Iran».
Bertinotti ultima speranza?
«Beh, così mi pare eccessivo. Ma anche Fausto, ora che ha abbracciato la non violenza, dovrebbe liberarsi di quelli dell’Ernesto. Dei leninisti, dei trotzkisti. E’ roba vecchia, pesante».
Ce la farà alle primarie?
«Chissà. Non so nemmeno come si fa. Ma dove si vota, poi?».
Repubblica 27.7.05
Il personaggio
Il lancio della candidatura nella libreria dello psicanalista Fagioli tra gli applausi di militanti e fan
Fausto abbraccia il Guru e s'affida alla Provvidenza rossa
Per il leader del Prc una grande cornice mediatica: il rituale di applausi, grida festose e foto scattate con i telefonini
Adorato dalle signore dei salotti
Dice di lui Suni Agnelli: "Si ama la politica e si finisce per innamorarsi di Bertinotti"
di Filippo Ceccarelli
Dio li fa e poi li accoppia. Anche applicato a non credenti, o a persone «in ricerca», come potrebbero essere l´onorevole Fausto Bertinotti e il professor Massimo Fagioli, il vecchio proverbio non solo conferma la propria inesorabile certezza, ma si preoccupa pure di gestire l´accoppiamento, lo rende visibile, gli dà una cornice mediatica, gli monta attorno un rituale fatto di applausi, grida festose e foto scattate con i telefonini tanto dai rifondatori quanto dalla gran massa dei «fagiolini», come ormai da un quarto di secolo vengono chiamati nella sinistra romana i seguaci di Fagioli.
Con il che si va ad allestire la scena, usciti sgocciolanti come sommergibilisti dalla libreria-sauna "Amore e Psiche", sotto lo schioppo del sole, il Leader e lo Psicoterapeuta si abbracciano. Una, due volte, per la comodità dei fotografi. I vigili urbani hanno addirittura chiuso la strada. Bertinotti è pelato e indossa un abito chiaro, Fagioli ha una chioma fluente, autorevole, ma è vestito più sciolto, una camicia azzurra e occhiali da sole un po´ cattivi.
Le lingue lunghe della politica dicono che c´è lui, già guru di Marco Bellocchio, dietro la svolta neo-esistenzialista e non violenta di Bertinotti, e la riprova starebbe nel fatto che per lanciare - con accaldata scomodità, invero - la sua candidatura alle primarie, abbia scelto proprio quella libreria che Fagioli, cui i fans attribuiscono un genio quasi leonardesco, ha addirittura progettato e realizzato con archi e scale in legno chiaro, piuttosto elegante.
Fagioli, infatti, è un guru, un classico guru. Giovane e luminosa promessa della psicanalisi freudiana, già negli anni sessanta ne scosse le fondamenta guadagnandosi la disagevole, ma esaltante fama di eretico, che in seguito estese anche al marxismo. Fu scacciato dalla Spi e malvisto dall´ortodossia comunista, ma dalla sua aveva esperienza, fascino e carisma. Fece ricerca per conto suo, alla metà degli anni settanta ebbe un successo travolgente tra i giovani di sinistra, molti in via di disperato disincanto, che lo inseguivano in cliniche psichiatriche, università e conventi occupati, a migliaia, per farsi interpretare i sogni.
Era l´Analisi Collettiva, o psicoterapia di folla (gratuita, comunque), in pratica l´evoluzione dell´assemblea in senso introspettivo. I «fagiolini», imploranti, alzavano la mano e il Maestro sceglieva a quale domanda dare corso. Per dire il successo di quelle atmosfere, a un certo punto venne fuori pure una radio «fagiolina», con conferenze e telefonate in diretta. Arrivò la gloria, naturalmente, ma anche una stagione di polemiche. Ai tempi de «Il diavolo in corpo» Bellocchio fu duramente contestato dal produttore perché si portava Fagioli sempre sul set, come regista del regista, lasciandogli mettere bocca anche sul montaggio.
Vera, falsa o enfatizzata che fosse, la venerazione di parecchi pazienti, pure ribattezzata «massimo-dipendenza», finì per alimentare attorno a Fagioli e ai suoi fans una qualche sulfurea nomea di setta. Ma di tutto, com´è noto, i guru possono preoccuparsi, meno che di quella. Così, nel tempo, il Maestro ha continuato a scrivere sceneggiature per Bellocchio, come pure ha seguitato adoratissimo a guarire, a insegnare, a editare pubblicazioni, a disegnare mobili e ispirare architetti; si è pure fatto celebrare in un paio di convegni, uno dei quali divenuto autocentrico documentario; quindi ha girato un film tutto suo, «Il cielo della luna», per il quale ha scelto le musiche e recitato la parte di un barbone, per quanto muto, lasciando il ruolo dei protagonisti a due «fagiolini». E infine - qui viene il bello - Massimo Fagioli ha incontrato Bertinotti.
Il bello sta nella fantastica circostanza che anche Bertinotti è un po´ un guru. Certo: rispetto allo psicanalista se lo può permettere di meno, con sei correnti, tre solo trotzkiste, nel suo partito. C´è però da dire che «il Grande Fausto», come l´ha chiamato Liberazione il giorno del suo compleanno, è un santone a suo modo poliedrico, un seduttore adattabile, un poetico cacciatore di anime che sa sempre cogliere il momento.
Così, più che con gli impervi trotzkisti, vale la pena di vederlo all´opera nella sua intensa vita mondana: cortese, elegante, telegenico, pacato, con tanto di erre moscia e civettuola bustina portaocchiali. Come tale invitatissimo «prezzemolino», insieme con la simpatica moglie signora Lella, record di presenze a Porta a porta, premio Oscar del Riformista: «Si ama la politica - ha detto di recente Suni Agnelli - e si finisce per innamorarsi per Bertinotti».
Le signore, specie quelle dei salotti-spettacolo di una Roma al tempo stesso prestigiosa e sgangheratissima, vanno pazze per lui: e lui lo sa. E non c´è niente di male, non è reato frequentarle, tantomeno è peccato ritrovarsi con i reduci del Grande Fratello. E´ solo un po´ buffo, o surreale, o straniante, come in un film di Bunuel, veder così spesso Bertinotti in foto al fianco di Donna Assunta Almirante, o a Maria Pia Dell´Utri, sorridente con Valeriona Marini, Cecchi Gori, Romiti, Sgarbi e Marione D´Urso; oppure intervistato sulla fede da don Santino Spartià, comunque assiduo a casa Suspisio, immancabile a villa «La Furibonda» di Marisela Federici. E insomma tutto bene, ci mancherebbe altro, però il giorno dopo è curioso sentirlo parlare del «popolo», parola desueta, parola potente. Chissà se il popolo si divertirebbe pure lui a «La Furibonda» o a «La Città del Gusto».
Ad "Amore e Psiche", intanto, lo Psicologo è rimasto nobilmente in platea a fare sì-sì con la testa non appena il Politico dava segno di aver assorbito un linguaggio che si nutre ormai di «felicità», «premonizione», «desiderio», «promessa», «liberazione», «attesa». A un dato momento, deposti i vecchi attrezzi lessicali vetero-marxisti, Bertinotti ha pure invocato la «Provvidenza rossa». Fuori, dietro le vetrine, la gran massa degli adepti animava la strada con sorrisi e applausi. Dopo l´abbraccio, c´è il tempo per un´ultima domanda, con la speranza che non suoni troppo indisponente: «Scusi, Fagioli, ma chi è più guru: lei o Bertinotti?». E il Maestro, senza fare una piega: «E´ più guru Bertinotti». Ma forse, per una risposta più articolata, potrebbe non bastare un seminario.
lettera a Lotta continua
Lotta Continua Giovedì 24 Aprile 1980
Ragazzino donne e sifilide
di Massimo Fagioli
Caro Luciano,
ho avuto la ventura, da ragazzino, di incontrare una donna assai brutta. A me parve bruttissima appena la vidi. Ho sempre bevuto molto, da tutti, le strade e le stradine percorse, deserte, salvo le molte puttane, molli di pioggia, si trasformarono per me in uno di quei labirinti che fanno ogni istituto di psicologia, da un milione di anni, che servono per certi esperimenti sugli uomini: sull’istinto animale, la ripetizione, la rassegnazione, la passività.
Dentro quei vicoli mi muovevo con pochissima sicurezza, dapprima, che diventava, poi, sempre maggiore. Guidato da un desiderio forsennato e dalla certezza che le cose non potevano essere in quel modo. Era una sensazione dolorosa aumentata dalla mia nebbia di allora. E il mio corpo era in subbuglio. Penso che tu intenda cosa voglio dire. Quella donna, la realtà psichica umana, le cui labbra bellissime nascondevano spesso, troppo spesso, i denti guasti dell'invidia e della rabbia.
Ne cercai di donne, anch'io avevo bisogno di quella sana che curasse la mia sifilide, il mio desiderio cieco, la negazione della realtà psichica umana.
Ebbene, Luciano, tutte erano sifilitiche come me, più di me, e quando lo erano meno di me succhiavo avidamente fino ad ubriacarmi.
Non lo seppi subito. Passarono anni in cui provavo sensazioni strane; camminavo a piedi nudi sul marmo freddo del pavimento della camera dopo aver fatto l'amore e mi pareva di camminare sul velluto, mi bruciavo la pelle delle dita cercando di spegnere al buio mozziconi di sigaretta e sentivo solo una leggera puntura di spillo. Attribuivo sulle prime questi sintomi alla grandezza straordinaria del mio amore.
Era pulsione di annullamento e di negazione dell’inconscio mare calmo: quella latente, quella invisibile come le spirochete ma terribile, mortale.
La luce gialla dei lampioni metteva in evidenza silhouettes di donne, vicino al duomo, sottomesse al duomo, accecate dal duomo, quando, tante volte, ormai stavo per rinunciare mi accingevo ad uscire dal labirinto per una stradina laterale che tutti conosciamo molto bene: l’indifferenza. Tante volte l’avrei ammazzate quelle donne. Tornavo in me furibondo. Ma poi le loro labbra di velluto succhiavano la mia rabbia; i loro occhi mi ritrascinavano di colpo nel mare in tempesta della nostra relazione amorosa.
Mi curai per sei anni in maniera intensiva con la mia ricerca, per resistere, non soccombere, non impazzire. Poi ancora per altri venti anni. Studiai. Avevo scoperto che non c’era nessun medico che potesse dire che non era amore, era negazione. Non c’era nessun medico che avesse la penicillina.
Ovviamente. Dovevo dire che gli esseri umani sono bellissimi. Ce l’avevo dentro da tanti anni. Ogni volta che mi avvicinavo ognuno mi succhiava le parole dal cuore con dei baci che, caro Luciano, ti auguro di non provare mai. Se fossi un poeta invece che uno psichiatra forse potrei tentare di descrivere i liquidi infuocati che mi scendevano e salivano per il corpo mescolandosi alle labbra incollate a quelle degli altri, ad un fresco sapore di mentuccia prealpina che fluisce dal respiro degli altri.
Quell’incontro ha segnato in maniera indelebile la mia vita. Sono passati tantissimi anni ed ora tu mi chiedi una risposta. Perché sono diventato medico, scienziato, terapeuta, ricercatore, critico duro, caustico, ma costruttivo.
Perché ogni volta, sempre, quando baciavo come te, le labbra delle donne, sentivo sempre la domanda continua, neppure sussurrata, senza suoni materiali: “toglimi la follia, che è dentro di me, ripulisci la mia mente dal mio Io infetto e restituiscimi la dolcezza dell’inconscio mare calmo con cui sono nata. Fammi rinascere in maniera diecimila volte più bella perché questa volta, tu ed io, siamo gestante e feto ad un tempo. Ma tu devi essere anche levatrice. Fammi rinascere con la coscienza di nascere. E di nascere sana".
Ed io, te lo confesso, qualche volta, tante volte forse, ho tentato di non ascoltare. Ma non ci sono riuscito. Non sono riuscito ad accecarmi per non vedere quello che c’era al di là delle labbra bellissime, al di là della rabbia dei denti guasti.
La domanda degli occhi. Tu l’avrai notato che, talvolta, gli occhi, nel bacio rimangono aperti e hanno un non so che di vuoto. E dietro al vuoto ancora c’è la domanda appassionata, invisibile; c’è l’ordine, il comando, il Potere giusto al quale bisogna sottomettersi. “Se tu puoi devi guarirmi della follia che è dentro di me”.
Allora ti succhiano le parole dal cuore, in un bacio continuo che, caro Luciano, non ti auguro di provare. Perché ti danno tutto quello che hanno, ma ti chiedono tanto, tutto quello che hai, e tutto quello che puoi fare nella vita. Ti chiedono anche di essere duro, sempre critico, caustico, di pretendere sempre di più e di meglio. Allora devi rinunciare a far l’amore; perché mentre ti dicono ti amo, ti dicono “non fare l’amore con me, non ingannarti, perché io sono sifilitica. Non permettere che la mia malattia uccida entrambi”.
Perché la gente vuole vivere, anche se è malata. E ciascuno di noi chiede all’altro, sempre, un po’ di vita.
Oggi sono contento di non aver chiesto mai a nessuno se era malato; sono contento di aver avuto con gli altri l’unico rapporto dialettico possibile: non essere scappato. Stiamo ancora bene insieme, con gli altri, più di quando non c’era la penicillina.
Non ti dico cosa manca a te: non lo so. Hai scritto una bellissima lettera, te l’ho quasi interamente copiata. Per immergermi nel rapporto anche se non tutto è uguale. E’ così: “…liquidi infuocati in ogni rapporto interumano che scendono e salgono per il corpo, mescolandosi nelle labbra incollate dell’uno e dell’altro ad un fresco sapore di mentuccia che fluisce dal respiro di ognuno”.
Ma, poi, ecco il medico-scienziato e, se vuoi, il politico. Necessario per non morire. Non con tutti. C’è gente per “razza”, più sensibile, più vera artista, più grande genio, amanti più abili, battoni più puri, sensibilità maggiore, anima più bella. Una “razza” ariana di cui tu, dal momento che dici di non essere più tanto giovane, dovresti ricordarti, e ricordandoti, accorgerti che è accanto a te, nella stessa pagina.
Vedi, quando si vuole fare scienza le distrazioni sono mortali. Ecco, forse ti manca questo per essere scienziato: l’attenzione per il latente. O forse un po’ di metodo politico. Il latente uccide e la gente non vuole morire, non vuole che tu muoia perché ognuno di noi serve agli altri per vivere. Il democraticismo volgare non serve; fa morire quanto la repressione del potere.
Tu hai amato una donna, io più di una. Forse occorre questo per essere scienziato: prendere la sifilide da più di una donna, lasciarsi andare ogni volta senza fare lo scienziato. Poi ti costringono ad esserlo. Perché sono tutte diverse, bellissime, ti danno la vita e la gioia di vivere ma sono tutte uguali nella sofferenza, nell’angoscia, nel vuoto della mente.
Spero di ascoltare sempre più frequentemente gente come te, gente che ha affrontato in proprio, sulla propria pelle il rapporto con gli altri e si è curata. Ora sei sano ma… se non ci fosse stato Fleming? Te lo devo ricordare io il disfacimento luetico, la pazzia luetica, i figli scemi luetici? Nessuna gratitudine ma… una rosa gliela vuoi mandare a Fleming?
Massimo Fagioli
Corriere della Sera 26.9.08
E i lingotti salvano il Vaticano dal «rosso»
Il Vaticano sembra potersi permettere, in questi tempi inquieti, di guardare con una certa serenità e distacco alla crisi dei mutui e alle tempeste finanziarie che stanno scuotendo il resto del mondo: sta infatti seduto - rivela il settimanale britannico Tablet - su una «roccia d’oro» perché già nel 2007, e su consiglio di abili consulenti finanziari, aveva trasformato i suoi investimenti azionari in lingotti, oltre che obbligazioni e contanti.
La rivista del Regno Unito ha fatto esaminare a un analista economico i dati contenuti nel rapporto annuale sulla gestione delle finanze vaticane relativa allo scorso anno, preparato dalla Prefettura degli Affari economici della Santa sede e reso pubblico già nel luglio 2008. Non si tratta di cifre nuove, ma dalla lettura degli esperti emerge ora che la Santa sede, sapientemente consigliata, aveva fiutato in anticipo i venti avversi del mercato e convertito i propri investimenti azionari, come un novello «re Mida», in tanto metallo prezioso. La Santa sede possiede attualmente una tonnellata di oro che può valere circa 19 milioni di euro. Il Tablet ironizza: «La roccia di Pietro, su cui è stata fondata la Chiesa, si è trasformata in una roccia d’oro». E da quale posto migliore osservare quanto sta accadendo in queste ore nelle tumultuose acque dell’economia mondiale?
Il settimanale riporta l’opinione di un esperto finanziario, di cui non fa il nome, secondo il quale la Santa sede «appare finanziariamente ben posizionata per raccogliere profitti, anche nell’attuale tempesta finanziaria». «Complessivamente - aggiunge - la Santa sede è stata ben consigliata e non ha probabilmente perso molto nella crisi. Hanno abbandonato man mano le azioni e nel tempo si sono concentrati su investimenti obbligazionari e monetari».
Secondo i dati contenuti nel rapporto finanziario del 2007, il Vaticano disporrebbe di 340 milioni di euro in valuta, di 520 milioni in obbligazioni e in poche azioni, insieme ai 19 milioni in oro più molti altri in preziosi. Una quota più che ragguardevole per un piccolo stato come quello pontificio. La roccia tuttavia è più traballante di quello che appare. «I risultati del primo periodo del 2008 sono preoccupanti e non inducono all’ottimismo», dice il vescovo Vincenzo Di Mauro, segretario della Prefettura degli Affari economici. «Si rende sempre più necessario - aggiunge - il richiamo alle Amministrazioni della Santa sede a operare con prudenza e con la massima oculatezza nella gestione operativa delle spese e nell’assunzione di nuovo personale».
In ogni caso, questo è certo, il Vaticano si avvale dei migliori consulenti disponibili sul mercato, che finora non lo hanno tradito. Solo una decina di anni fa avvenne un curioso incidente, mai reso noto. Il «portafoglio» personale del Papa era affidato a una grande banca internazionale e se ne occupava un funzionario che aveva il compito di investire nel modo migliore il denaro raccolto nell’Obolo di San Pietro e di essere pronto a smobilizzarlo a ogni occorrenza per le opere di carità. Era però in vacanza mentre Papa Wojtyla, in Brasile nel 1997, staccava un assegno per la costruzione di un orfanotrofio a Rio de Janeiro. Assegno risultato «scoperto»: un errore tenuto nascosto a cui però fu poi dato rapido rimedio.
L’Unione Sarda.it, 26.9.08
Il Vaticano al riparo dalla crisi ha investito in lingotti d'oro
Il Vaticano sembra potersi permettere, in questi tempi inquieti, di guardare con una certa serenità e distacco alla crisi dei mutui e alle tempeste finanziarie che stanno scuotendo il resto del mondo: sta infatti seduto - rivela il settimanale britannico "Tablet" - su una "roccia d'oro" perché già nel 2007, e su consiglio di abili consulenti finanziari, aveva trasformato i suoi investimenti azionari in lingotti, oltre che obbligazioni e contanti.
La rivista del Regno Unito ha fatto esaminare ad un analista economico i dati contenuti nel rapporto annuale sulla gestione delle finanze vaticane relativa allo scorso anno, preparato dalla Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede e reso pubblico già nel luglio 2008. Non si tratta di cifre nuove, ma dalla lettura degli esperti emerge ora che la Santa Sede, sapientemente consigliata, aveva fiutato in anticipo i venti avversi del mercato e convertito i propri investimenti azionari, come un novello "re Mida", in tanto metallo prezioso. La Santa Sede possiede attualmente una tonnellata di oro che può valere circa 19 milioni di euro. Il Tablet ironizza: "la roccia di Pietro, su cui è stata fondata la Chiesa, si è trasformata in una roccia d'oro". E da quale posto migliore osservare quanto sta accadendo in queste ore nelle tumultuose acque dell'economia mondiale? Il settimanale riporta l'opinione di un esperto finanziario, di cui non fa il nome, secondo il quale la Santa Sede "appare finanziariamente ben posizionata per raccogliere profitti, anche nell'attuale tempesta finanziaria". "Complessivamente - aggiunge - la Santa Sede è stata ben consigliata e non ha probabilmente perso molto nella crisi. Hanno abbandonato man mano le azioni e nel tempo si sono concentrati su investimenti obbligazionari e monetari". Secondo i dati contenuti nel rapporto finanziario del 2007, il Vaticano disporrebbe di 340 milioni di euro in valuta, di 520 milioni in obbligazioni e in poche azioni, insieme ai 19 milioni in oro più molti altri in preziosi. Una quota più che ragguardevole per un piccolo stato come quello pontificio. La roccia tuttavia è più traballante di quello che appare, secondo un responsabile della Santa Sede, citato sempre dal Tablet. "I risultati del primo periodo del 2008 sono preoccupanti e non inducono all'ottimismo", dice monsignor Vincenzo Di Mauro, segretario della Prefettura vaticana degli Affari Economici. "Si rende sempre più necessario - aggiunge - il richiamo alle Amministrazioni della Santa Sede ad operare con prudenza e con la massima oculatezza nella gestione operativa delle spese e nell'assunzione di nuovo personale". In ogni caso, questo è certo, il Vaticano si avvale dei migliori consulenti disponibili sul mercato, che finora non lo hanno tradito. Solo una decina di anni fa avvenne un curioso incidente, mai reso noto, durante una visita di Giovanni Paolo II in Brasile. Il "portafoglio" personale del Papa era affidato ad una grande banca internazionale e se ne occupava un funzionario di base nel New Jersey che aveva il compito di investire nel modo migliore il denaro raccolto nell'Obolo di San Pietro e di essere pronto a smobilizzarlo ad ogni occorrenza per le opere di carità. Era però in vacanza mentre Wojtyla, in Brasile nel 1997, staccava un assegno per la costruzione di un orfanotrofio a Rio De Janeiro. Assegno risultato "scoperto": un errore tenuto nascosto a cui però fu poi dato rapido rimedio
Liberazione 31.7.08
Marco Revelli: «Fuori c'è un incendio sociale, nel Prc ci si divide il guscio vuoto».»
intervista di Davide Varì
Marco Revelli è riluttante, proprio non ha voglia di parlare dell'epilogo del congresso di Chianciano. «Conosco e stimo molti dirigenti di Rifondazione - spiega - ma ho un'idea davvero negativa di quel che ho visto in questi ultimi due mesi».
Alla fine Revelli cede e accetta di essere intervistato. Lui, intellettuale storico della sinistra, sa forse che non può sottrarsi in un momento così delicato. E' un atto di responsabilità il suo, «quella stessa responsabilità che è invece mancata ai protagonisti di Chianciano». «E dire - spiega sorridendo - che sono tra i pochi folli che ha votato per la Sinistra Arcobaleno. Mi viene il dubbio di non aver capito nulla, di non aver colto l'animo profondo di questo partito. Parlo dell'animo degenerato che si è manifestato in quel congresso».
Ha i toni pacati della rassegnazione Revelli, ma non risparmia critiche, anzi, vere e proprie bordate a nessuno. «Nessuno dei contendenti di Chianciano - spiega infatti sereno - è riuscito a sollevare la testa dalle proprie miserie».
Un'analisi impietosa quella di Marco Revelli, un'analisi che parla di «distanza dalla vita dei cittadini» e di totale incomprensione del momento storico e sociale che stiamo vivendo: «Fuori da quelle stanze - dalle chiuse stanze di Rifondazione, s'intende - c'è una società in frantumi, c'è un incendio sociale che divampa e che si estende. E in tutto questo i dirigenti del partito pensano solo a tirarsi addosso le macerie di quel palazzo in frantumi».
E in questo scenario apocalittico, ci sono due grandi questioni che secondo Revelli la "sinistra" non riesce proprio a cogliere: i limiti della forma partito, «quella stessa forma che forse ha generato i demoni di Chianciano», ed i limiti di questo sviluppo. Anzi, il vero e proprio esaurirsi dello sviluppo economico e sociale per come lo abbiamo conosciuto in questi ultimi due secoli. «Ecco - spiega Revelli - finché la sinistra non si doterà degli strumenti necessari a comprendere il mondo che ci troviamo a vivere e finché non avrà la forza di spiegare che questo modello di vita andrà sempre più esaurendosi, non nascerà alcun progetto politico credibile».
Impietoso, si diceva, il giudizio di Revelli sugli attuali ed i vecchi dirigenti di Rifondazione: «Conosco e stimo molti di quelli che si sono affrontati a Chianciano. Conosco Nichi Vendola e conosco Paolo Ferrero. Nessuno di loro è riuscito però ad affrontare il congresso per come doveva essere affrontato. E' incredibile che dopo una sconfitta elettorale così pesante, l'unico obiettivo e l'unica preoccupazione fosse il controllo del partito».
Ed ora? Quale futuro per questa sinistra? O meglio, c'è un futuro per questa sinistra? «L'unica strada - conclude Revelli - è quella di iniziare a guardarsi intorno. Ma le "riterritorializzazione" di cui molti parlano non nasce per decreto, non vorrei che qualcuno pensasse che sia sufficiente mandare i funzionari di partito in giro per i territori».
La prima domanda è d'obbligo: cosa pensi dell'epilogo del congresso di Chianciano?
Sono amico e rimarrò amico di molti dei protagonisti del congresso. Sono amico di Paolo Ferrero e di Nichi Vendola. Li conosco da molti anni eppure, in questa battaglia politica non sono proprio riuscito a riconoscerli.
E questa è la premessa, manca il giudizio su quanto accaduto...
E' come se ognuno di loro fosse preso dai propri demoni. Non riesco ancora a credere che, dopo una sconfitta politica tanto severa e netta, nessuno di loro sia riuscito a guardare le cose per quelle che sono nella realtà. Nessuno di loro ha capito, né si è sforzato di farlo, la società italiana e i profondi cambiamenti che la stanno attraversando. Ognuno di loro si è rinchiuso nella sede di partito per prepararsi alla resa dei conti finale. Una resa dei conti, vorrei dir loro, che ai più è apparsa del tutto incomprensibile e distante. I dirigenti di questo partito hanno pensato bene di tirarsi addosso le macerie di una casa in frantumi. Macerie che sono franate su di noi che stavamo in basso, ignari di quanto stava accadendo.
Eppure c'erano 5 mozioni diverse che, almeno in teoria, avrebbero dovuto rappresentare almeno 5 letture diverse della realtà italiana...
Nessuna lettura, nessuna comprensione del Paese. E' come se nel corso della vicenda congressuale tutte le componenti di Rifondazione fossero impegnate a legittimare le ragioni della sconfitta elettorale. Una sconfitta che, a questo punto, era forse giusta. Quello che voglio dire è che a Chianciano Rifondazione si è presentata come un'accozzaglia di schegge autoreferenziali. Io sono tra quelli che hanno votato per la Sinistra Arcobaleno ma, a questo punto, mi viene il dubbio di non aver capito la degenerazione di quel partito. Forse chi non l'ha votato l'ha capito prima di me.
E' un giudizio molto duro. Davvero non vedi tracce di "redenzione"?
Nessuna. L'unico problema era il controllo del partito. Ma un dubbio mi è venuto. Visto che conosco e stimo molte di quelle persone che si sono affrontate a Chianciano, allora, forse, il problema è nello strumento.
Intendi dire che la forma partito è il vero ostacolo?
Certo. Se il problema non sono le persone, allora il vizio sta nello strumento. Una prova evidente di quanto dico sta nel fatto che c'è stata una enorme divaricazione tra i contenuti espressi ed i mezzi utilizzati per ottenere il controllo del partito. Io ho notato una plateale schizofrenia tra i contenuti delle proposte politiche - ognuna delle quali apprezzabile per la propria onestà - che venivano però contraddetti dallo stile e dal metodo con cui venivano affermati. La mozione Ferrero che teorizzava l'iniziativa dal basso veniva affermata con una pratica che più di vertice non potrebbe essere, senza che nessuno all'esterno se ne sentisse coinvolto; d'altra parte la proposta di Vendola di partito aperto avveniva nel chiuso di un ristretto cerchio di partito. Di qui l'idea che sia proprio la forma partito ad alimentare i demoni. Tanto più che non stiamo parlando del controllo di un grande partito comunista. Nella realtà questo congresso ha mobilitato poche decine di migliaia di persone. Ma io dico: almeno tenetevi segreti questi dati, questi numeri ridicoli. Non siamo mica all'XI congresso del Pci che ha mobilitato milioni di iscritti. Capisco la passione, ma dividersi un guscio vuoto con uno scontro cosi feroce è davvero difficile da comprendere.
In molti hanno criticato l'incapacità di guardare fuori dalle stanze di partito...
Certo, senza considerare che ciò che accade fuori non è certo ordinaria amministrazione. Fuori da quelle stanze c'è infatti un Paese in fiamme, una società incandescente che accusa processi di degenerazione davvero allarmanti. Fuori c'è un incendio. Non c'è solo una maggioranza politica oscena, c'è una situazione sociale e culturale in caduta libera e l'emergere di un modello politico e culturale feroce. Io vedo tutti i segni di un'apocalisse culturale.
Bene, allora proviamo a metterlo noi il naso fuori dalle "stanze" di partito. Quali sono le questioni più urgenti?
Innanzi tutto c'è da dire che siamo di fronte ad una trasformazione genetica dei soggetti e della stessa classe operaia. Il tutto dentro un quadro internazionale molto preoccupante che lascia intravvedere cedimenti strutturali della democrazia. Insomma, una vera e propria mutazione antropologica. Ecco, io dentro quel dibattito non ho visto quasi nulla di tutto ciò. Di fronte a questo quadro ci si aspetterebbe un livello altissimo di responsabilità prima di rompere alcunchè, prima di darsi battaglia senza esclusioni di colpi. Io vedo una mancanza assoluta di consapevolezza di tutto questo. Ecco l'assenza di questa consapevolezza è la questione delle questioni. Un'assenza che spiega la mancanza di una reale opposizione. Al di là delle colpe soggettive di Veltroni ,del Pd e di Rifondazione, oltre a tutto questo, il vuoto di opposizione deriva da questo vuoto di consapevolezza. Poi c'è una altra questione fondamentale: la fine dello sviluppo.
Parli del nostro modello di sviluppo economico?
Certo, questo è il nodo intorno al quale dipanare la matassa dei progetti politici. Noi siamo di fronte alla fine di una lunga epoca, la fine di un lungo ciclo dominato dalla logica dello sviluppo. Per decenni la rappresentazione complessiva del mondo si basava sull'assunto che le risorse andavano crescendo. Ecco, quel mondo non ci sarà più ma nessuno ha il coraggio di dirlo e di spiegarlo.
A dirla tutta, una parte della destra, pensiamo a Giulio Tremonti, lo dice molto più che la sinistra...
E' vero, ma la destra lo spiega a modo suo. Parla di crisi e di fine delle risorse per gestire l'allarme da essa procurato e si candida a governare l'esclusione e l'inclusione dal nostro mondo. Taglia a fette la società e decide chi sta dentro e chi sta fuori. Il compito della sinistra è quello di spiegare che ci sono limiti insuperabili. Deve trovare la forza di dire che alla decrescita non c'è alternativa e che l'unica alternativa è data dal fatto che questa decrescita si può subire oppure governare. La crisi energetica e quella alimentare rappresentano l'orizzonte dei prossimi decenni. Ma questa cosa qui, a quanto pare è indicibile. Non lo dice e non lo spiega Veltroni ma neanche il tardo-marxismo di Rifondazione che continua a predicare stancamente la redistribuzione. Siamo fermi al Keynes degli anni '30. Finchè non si dichiara questa cosa qui non potrà nascere nessun progetto politico. Per questo le logiche identitarie diventano formalistiche; e le pseudo aperture appaiono virtuali e meramente mediatiche visto che non hanno alcuna sostanza storica. Quando non c'è più rapporto con la storia ci si affida alla retorica.
Dunque è questo l'orizzonte della sinistra?
Bisogna liberarsi degli occhiali dell'illusione sviluppista e mettere le mani in questo sporco contesto sociale che è la materialità dell'ultimo secolo. Un'operazione nella quale non ci aiutano nè Lenin nè Trotsky. Bisogna fare da noi.
E i lingotti salvano il Vaticano dal «rosso»
Il Vaticano sembra potersi permettere, in questi tempi inquieti, di guardare con una certa serenità e distacco alla crisi dei mutui e alle tempeste finanziarie che stanno scuotendo il resto del mondo: sta infatti seduto - rivela il settimanale britannico Tablet - su una «roccia d’oro» perché già nel 2007, e su consiglio di abili consulenti finanziari, aveva trasformato i suoi investimenti azionari in lingotti, oltre che obbligazioni e contanti.
La rivista del Regno Unito ha fatto esaminare a un analista economico i dati contenuti nel rapporto annuale sulla gestione delle finanze vaticane relativa allo scorso anno, preparato dalla Prefettura degli Affari economici della Santa sede e reso pubblico già nel luglio 2008. Non si tratta di cifre nuove, ma dalla lettura degli esperti emerge ora che la Santa sede, sapientemente consigliata, aveva fiutato in anticipo i venti avversi del mercato e convertito i propri investimenti azionari, come un novello «re Mida», in tanto metallo prezioso. La Santa sede possiede attualmente una tonnellata di oro che può valere circa 19 milioni di euro. Il Tablet ironizza: «La roccia di Pietro, su cui è stata fondata la Chiesa, si è trasformata in una roccia d’oro». E da quale posto migliore osservare quanto sta accadendo in queste ore nelle tumultuose acque dell’economia mondiale?
Il settimanale riporta l’opinione di un esperto finanziario, di cui non fa il nome, secondo il quale la Santa sede «appare finanziariamente ben posizionata per raccogliere profitti, anche nell’attuale tempesta finanziaria». «Complessivamente - aggiunge - la Santa sede è stata ben consigliata e non ha probabilmente perso molto nella crisi. Hanno abbandonato man mano le azioni e nel tempo si sono concentrati su investimenti obbligazionari e monetari».
Secondo i dati contenuti nel rapporto finanziario del 2007, il Vaticano disporrebbe di 340 milioni di euro in valuta, di 520 milioni in obbligazioni e in poche azioni, insieme ai 19 milioni in oro più molti altri in preziosi. Una quota più che ragguardevole per un piccolo stato come quello pontificio. La roccia tuttavia è più traballante di quello che appare. «I risultati del primo periodo del 2008 sono preoccupanti e non inducono all’ottimismo», dice il vescovo Vincenzo Di Mauro, segretario della Prefettura degli Affari economici. «Si rende sempre più necessario - aggiunge - il richiamo alle Amministrazioni della Santa sede a operare con prudenza e con la massima oculatezza nella gestione operativa delle spese e nell’assunzione di nuovo personale».
In ogni caso, questo è certo, il Vaticano si avvale dei migliori consulenti disponibili sul mercato, che finora non lo hanno tradito. Solo una decina di anni fa avvenne un curioso incidente, mai reso noto. Il «portafoglio» personale del Papa era affidato a una grande banca internazionale e se ne occupava un funzionario che aveva il compito di investire nel modo migliore il denaro raccolto nell’Obolo di San Pietro e di essere pronto a smobilizzarlo a ogni occorrenza per le opere di carità. Era però in vacanza mentre Papa Wojtyla, in Brasile nel 1997, staccava un assegno per la costruzione di un orfanotrofio a Rio de Janeiro. Assegno risultato «scoperto»: un errore tenuto nascosto a cui però fu poi dato rapido rimedio.
L’Unione Sarda.it, 26.9.08
Il Vaticano al riparo dalla crisi ha investito in lingotti d'oro
Il Vaticano sembra potersi permettere, in questi tempi inquieti, di guardare con una certa serenità e distacco alla crisi dei mutui e alle tempeste finanziarie che stanno scuotendo il resto del mondo: sta infatti seduto - rivela il settimanale britannico "Tablet" - su una "roccia d'oro" perché già nel 2007, e su consiglio di abili consulenti finanziari, aveva trasformato i suoi investimenti azionari in lingotti, oltre che obbligazioni e contanti.
La rivista del Regno Unito ha fatto esaminare ad un analista economico i dati contenuti nel rapporto annuale sulla gestione delle finanze vaticane relativa allo scorso anno, preparato dalla Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede e reso pubblico già nel luglio 2008. Non si tratta di cifre nuove, ma dalla lettura degli esperti emerge ora che la Santa Sede, sapientemente consigliata, aveva fiutato in anticipo i venti avversi del mercato e convertito i propri investimenti azionari, come un novello "re Mida", in tanto metallo prezioso. La Santa Sede possiede attualmente una tonnellata di oro che può valere circa 19 milioni di euro. Il Tablet ironizza: "la roccia di Pietro, su cui è stata fondata la Chiesa, si è trasformata in una roccia d'oro". E da quale posto migliore osservare quanto sta accadendo in queste ore nelle tumultuose acque dell'economia mondiale? Il settimanale riporta l'opinione di un esperto finanziario, di cui non fa il nome, secondo il quale la Santa Sede "appare finanziariamente ben posizionata per raccogliere profitti, anche nell'attuale tempesta finanziaria". "Complessivamente - aggiunge - la Santa Sede è stata ben consigliata e non ha probabilmente perso molto nella crisi. Hanno abbandonato man mano le azioni e nel tempo si sono concentrati su investimenti obbligazionari e monetari". Secondo i dati contenuti nel rapporto finanziario del 2007, il Vaticano disporrebbe di 340 milioni di euro in valuta, di 520 milioni in obbligazioni e in poche azioni, insieme ai 19 milioni in oro più molti altri in preziosi. Una quota più che ragguardevole per un piccolo stato come quello pontificio. La roccia tuttavia è più traballante di quello che appare, secondo un responsabile della Santa Sede, citato sempre dal Tablet. "I risultati del primo periodo del 2008 sono preoccupanti e non inducono all'ottimismo", dice monsignor Vincenzo Di Mauro, segretario della Prefettura vaticana degli Affari Economici. "Si rende sempre più necessario - aggiunge - il richiamo alle Amministrazioni della Santa Sede ad operare con prudenza e con la massima oculatezza nella gestione operativa delle spese e nell'assunzione di nuovo personale". In ogni caso, questo è certo, il Vaticano si avvale dei migliori consulenti disponibili sul mercato, che finora non lo hanno tradito. Solo una decina di anni fa avvenne un curioso incidente, mai reso noto, durante una visita di Giovanni Paolo II in Brasile. Il "portafoglio" personale del Papa era affidato ad una grande banca internazionale e se ne occupava un funzionario di base nel New Jersey che aveva il compito di investire nel modo migliore il denaro raccolto nell'Obolo di San Pietro e di essere pronto a smobilizzarlo ad ogni occorrenza per le opere di carità. Era però in vacanza mentre Wojtyla, in Brasile nel 1997, staccava un assegno per la costruzione di un orfanotrofio a Rio De Janeiro. Assegno risultato "scoperto": un errore tenuto nascosto a cui però fu poi dato rapido rimedio
Liberazione 31.7.08
Marco Revelli: «Fuori c'è un incendio sociale, nel Prc ci si divide il guscio vuoto».»
intervista di Davide Varì
Marco Revelli è riluttante, proprio non ha voglia di parlare dell'epilogo del congresso di Chianciano. «Conosco e stimo molti dirigenti di Rifondazione - spiega - ma ho un'idea davvero negativa di quel che ho visto in questi ultimi due mesi».
Alla fine Revelli cede e accetta di essere intervistato. Lui, intellettuale storico della sinistra, sa forse che non può sottrarsi in un momento così delicato. E' un atto di responsabilità il suo, «quella stessa responsabilità che è invece mancata ai protagonisti di Chianciano». «E dire - spiega sorridendo - che sono tra i pochi folli che ha votato per la Sinistra Arcobaleno. Mi viene il dubbio di non aver capito nulla, di non aver colto l'animo profondo di questo partito. Parlo dell'animo degenerato che si è manifestato in quel congresso».
Ha i toni pacati della rassegnazione Revelli, ma non risparmia critiche, anzi, vere e proprie bordate a nessuno. «Nessuno dei contendenti di Chianciano - spiega infatti sereno - è riuscito a sollevare la testa dalle proprie miserie».
Un'analisi impietosa quella di Marco Revelli, un'analisi che parla di «distanza dalla vita dei cittadini» e di totale incomprensione del momento storico e sociale che stiamo vivendo: «Fuori da quelle stanze - dalle chiuse stanze di Rifondazione, s'intende - c'è una società in frantumi, c'è un incendio sociale che divampa e che si estende. E in tutto questo i dirigenti del partito pensano solo a tirarsi addosso le macerie di quel palazzo in frantumi».
E in questo scenario apocalittico, ci sono due grandi questioni che secondo Revelli la "sinistra" non riesce proprio a cogliere: i limiti della forma partito, «quella stessa forma che forse ha generato i demoni di Chianciano», ed i limiti di questo sviluppo. Anzi, il vero e proprio esaurirsi dello sviluppo economico e sociale per come lo abbiamo conosciuto in questi ultimi due secoli. «Ecco - spiega Revelli - finché la sinistra non si doterà degli strumenti necessari a comprendere il mondo che ci troviamo a vivere e finché non avrà la forza di spiegare che questo modello di vita andrà sempre più esaurendosi, non nascerà alcun progetto politico credibile».
Impietoso, si diceva, il giudizio di Revelli sugli attuali ed i vecchi dirigenti di Rifondazione: «Conosco e stimo molti di quelli che si sono affrontati a Chianciano. Conosco Nichi Vendola e conosco Paolo Ferrero. Nessuno di loro è riuscito però ad affrontare il congresso per come doveva essere affrontato. E' incredibile che dopo una sconfitta elettorale così pesante, l'unico obiettivo e l'unica preoccupazione fosse il controllo del partito».
Ed ora? Quale futuro per questa sinistra? O meglio, c'è un futuro per questa sinistra? «L'unica strada - conclude Revelli - è quella di iniziare a guardarsi intorno. Ma le "riterritorializzazione" di cui molti parlano non nasce per decreto, non vorrei che qualcuno pensasse che sia sufficiente mandare i funzionari di partito in giro per i territori».
La prima domanda è d'obbligo: cosa pensi dell'epilogo del congresso di Chianciano?
Sono amico e rimarrò amico di molti dei protagonisti del congresso. Sono amico di Paolo Ferrero e di Nichi Vendola. Li conosco da molti anni eppure, in questa battaglia politica non sono proprio riuscito a riconoscerli.
E questa è la premessa, manca il giudizio su quanto accaduto...
E' come se ognuno di loro fosse preso dai propri demoni. Non riesco ancora a credere che, dopo una sconfitta politica tanto severa e netta, nessuno di loro sia riuscito a guardare le cose per quelle che sono nella realtà. Nessuno di loro ha capito, né si è sforzato di farlo, la società italiana e i profondi cambiamenti che la stanno attraversando. Ognuno di loro si è rinchiuso nella sede di partito per prepararsi alla resa dei conti finale. Una resa dei conti, vorrei dir loro, che ai più è apparsa del tutto incomprensibile e distante. I dirigenti di questo partito hanno pensato bene di tirarsi addosso le macerie di una casa in frantumi. Macerie che sono franate su di noi che stavamo in basso, ignari di quanto stava accadendo.
Eppure c'erano 5 mozioni diverse che, almeno in teoria, avrebbero dovuto rappresentare almeno 5 letture diverse della realtà italiana...
Nessuna lettura, nessuna comprensione del Paese. E' come se nel corso della vicenda congressuale tutte le componenti di Rifondazione fossero impegnate a legittimare le ragioni della sconfitta elettorale. Una sconfitta che, a questo punto, era forse giusta. Quello che voglio dire è che a Chianciano Rifondazione si è presentata come un'accozzaglia di schegge autoreferenziali. Io sono tra quelli che hanno votato per la Sinistra Arcobaleno ma, a questo punto, mi viene il dubbio di non aver capito la degenerazione di quel partito. Forse chi non l'ha votato l'ha capito prima di me.
E' un giudizio molto duro. Davvero non vedi tracce di "redenzione"?
Nessuna. L'unico problema era il controllo del partito. Ma un dubbio mi è venuto. Visto che conosco e stimo molte di quelle persone che si sono affrontate a Chianciano, allora, forse, il problema è nello strumento.
Intendi dire che la forma partito è il vero ostacolo?
Certo. Se il problema non sono le persone, allora il vizio sta nello strumento. Una prova evidente di quanto dico sta nel fatto che c'è stata una enorme divaricazione tra i contenuti espressi ed i mezzi utilizzati per ottenere il controllo del partito. Io ho notato una plateale schizofrenia tra i contenuti delle proposte politiche - ognuna delle quali apprezzabile per la propria onestà - che venivano però contraddetti dallo stile e dal metodo con cui venivano affermati. La mozione Ferrero che teorizzava l'iniziativa dal basso veniva affermata con una pratica che più di vertice non potrebbe essere, senza che nessuno all'esterno se ne sentisse coinvolto; d'altra parte la proposta di Vendola di partito aperto avveniva nel chiuso di un ristretto cerchio di partito. Di qui l'idea che sia proprio la forma partito ad alimentare i demoni. Tanto più che non stiamo parlando del controllo di un grande partito comunista. Nella realtà questo congresso ha mobilitato poche decine di migliaia di persone. Ma io dico: almeno tenetevi segreti questi dati, questi numeri ridicoli. Non siamo mica all'XI congresso del Pci che ha mobilitato milioni di iscritti. Capisco la passione, ma dividersi un guscio vuoto con uno scontro cosi feroce è davvero difficile da comprendere.
In molti hanno criticato l'incapacità di guardare fuori dalle stanze di partito...
Certo, senza considerare che ciò che accade fuori non è certo ordinaria amministrazione. Fuori da quelle stanze c'è infatti un Paese in fiamme, una società incandescente che accusa processi di degenerazione davvero allarmanti. Fuori c'è un incendio. Non c'è solo una maggioranza politica oscena, c'è una situazione sociale e culturale in caduta libera e l'emergere di un modello politico e culturale feroce. Io vedo tutti i segni di un'apocalisse culturale.
Bene, allora proviamo a metterlo noi il naso fuori dalle "stanze" di partito. Quali sono le questioni più urgenti?
Innanzi tutto c'è da dire che siamo di fronte ad una trasformazione genetica dei soggetti e della stessa classe operaia. Il tutto dentro un quadro internazionale molto preoccupante che lascia intravvedere cedimenti strutturali della democrazia. Insomma, una vera e propria mutazione antropologica. Ecco, io dentro quel dibattito non ho visto quasi nulla di tutto ciò. Di fronte a questo quadro ci si aspetterebbe un livello altissimo di responsabilità prima di rompere alcunchè, prima di darsi battaglia senza esclusioni di colpi. Io vedo una mancanza assoluta di consapevolezza di tutto questo. Ecco l'assenza di questa consapevolezza è la questione delle questioni. Un'assenza che spiega la mancanza di una reale opposizione. Al di là delle colpe soggettive di Veltroni ,del Pd e di Rifondazione, oltre a tutto questo, il vuoto di opposizione deriva da questo vuoto di consapevolezza. Poi c'è una altra questione fondamentale: la fine dello sviluppo.
Parli del nostro modello di sviluppo economico?
Certo, questo è il nodo intorno al quale dipanare la matassa dei progetti politici. Noi siamo di fronte alla fine di una lunga epoca, la fine di un lungo ciclo dominato dalla logica dello sviluppo. Per decenni la rappresentazione complessiva del mondo si basava sull'assunto che le risorse andavano crescendo. Ecco, quel mondo non ci sarà più ma nessuno ha il coraggio di dirlo e di spiegarlo.
A dirla tutta, una parte della destra, pensiamo a Giulio Tremonti, lo dice molto più che la sinistra...
E' vero, ma la destra lo spiega a modo suo. Parla di crisi e di fine delle risorse per gestire l'allarme da essa procurato e si candida a governare l'esclusione e l'inclusione dal nostro mondo. Taglia a fette la società e decide chi sta dentro e chi sta fuori. Il compito della sinistra è quello di spiegare che ci sono limiti insuperabili. Deve trovare la forza di dire che alla decrescita non c'è alternativa e che l'unica alternativa è data dal fatto che questa decrescita si può subire oppure governare. La crisi energetica e quella alimentare rappresentano l'orizzonte dei prossimi decenni. Ma questa cosa qui, a quanto pare è indicibile. Non lo dice e non lo spiega Veltroni ma neanche il tardo-marxismo di Rifondazione che continua a predicare stancamente la redistribuzione. Siamo fermi al Keynes degli anni '30. Finchè non si dichiara questa cosa qui non potrà nascere nessun progetto politico. Per questo le logiche identitarie diventano formalistiche; e le pseudo aperture appaiono virtuali e meramente mediatiche visto che non hanno alcuna sostanza storica. Quando non c'è più rapporto con la storia ci si affida alla retorica.
Dunque è questo l'orizzonte della sinistra?
Bisogna liberarsi degli occhiali dell'illusione sviluppista e mettere le mani in questo sporco contesto sociale che è la materialità dell'ultimo secolo. Un'operazione nella quale non ci aiutano nè Lenin nè Trotsky. Bisogna fare da noi.