martedì 7 ottobre 2008

l’Unità 7.10.08
Razzismo? Meglio negare
di Luigi Manconi


Lo straniero, rispetto alla domanda di conservazione e di conformità della destra, è il portatore della molteplicità: ne consegue la paura per ciò che essa produce: appunto, una società multi-etnica

Anch’io come Massimo Bordin, direttore di «Radio Radicale», non capisco perché si debba «scrivere una palla in prima pagina per poi smentirla già a pagina due». In effetti, sulla prima de il Giornale di lunedì 6 ottobre si legge che «Nella gang che picchiò il cinese la metà sono figli di immigrati»; poi, si va alla pagina seguente e nel relativo articolo si trovano quelle che il cronista definisce «strane verità»: ovvero che uno dei presunti aggressori è un adolescente «arabo» e che un altro, italiano, ha una fidanzatina dalla «pelle scura» (sua madre è eritrea, il papà italiano). E così si può titolare che «metà» degli aggressori di Tong Hong Shen sono «figli di immigrati» (ma non erano sette i membri della gang?).
Ricorrendo a questa micidiale logica aristotelica, se tra gli aggressori vi fosse l’amico di un egiziano il cui permesso di soggiorno turistico fosse scaduto o anche il conoscente del figlio di una badante non ancora regolarizzata, il quadro sarebbe perfetto e il Giornale potrebbe tranquillamente titolare: «cinese aggredito da una banda di clandestini». Ma non c’è solo un vertiginoso deficit di senso del ridicolo, dietro una simile lettura giornalistica: c’è qualcosa di estremamente interessante che va considerato con cura. Nessuno, ovviamente, ha mai detto o scritto che «l’Italia è un Paese razzista». E chi mai potrebbe pensare una simile scemenza? Si è detto e scritto, piuttosto, che il numero crescente di «atti di razzismo» deve suscitare allarme e venire adeguatamente contrastato. Ma perché, allora, la destra, i suoi dirigenti politici, i suoi intellettuali e i suoi mezzi di comunicazione si affannano a negare un dato inesistente (l’Italia è un Paese razzista) e a ignorare quello reale (aumentano gli atti di razzismo)? Perché tanta agitazione scomposta e sudaticcia per “neutralizzare” episodi incontestabili e incontestati di violenza a base etnica e per banalizzarne altri? La destra avrebbe potuto tranquillamente dire: gli episodi di razzismo si verificano, tendono ad aumentare e sono il risultato della politica irresponsabile della sinistra. E avrebbe potuto, con qualche argomento, provare a motivare la sua tesi. Non lo ha fatto e non lo fa. La ragione è una: la destra intuisce che il razzismo, qualunque sia la sua dimensione e qualunque sia la sua possibilità di espansione, ci parla di noi. Sia chiaro: anche della sinistra (e perché mai la sinistra dovrebbe essere immune da pregiudizi etnici e da volontà di discriminazione?), ma in particolare parla della destra perché essa non ha saputo e voluto fare i conti con le proprie radici oscure, le proprie pulsioni profonde, i propri umori indicibili. Dunque, il problema non è semplicemente che nel centrodestra si trovino (a loro perfetto agio) Borghezio e Prosperini, Calderoli e Santanchè: il vero problema è piuttosto che le loro dinamiche mentali e le loro parole pubbliche incrociano sentimenti diffusi nella popolazione, li incentivano e ne sono incentivati, li blandiscono e ne sono confortati e - ecco il punto - sono fatti della stessa sostanza, rimandano a medesime concezioni del mondo e a interpretazioni della realtà affini. Non mi riferisco, pertanto, solo ad interessi politico-elettorali, seppure non possa essere sottovalutato il fatto che Silvio Berlusconi, in un quindicennio di attività pubblica, non ha espresso mai, dico mai, una condanna inequivocabile del fascismo e del razzismo. E tuttavia la questione di fondo è un’altra: è che il primo tratto culturale e il principale connotato politico, il fondamentale bisogno e la più potente proiezione dell’identità della destra si esprimono, nonostante tutte le trasformazioni possibili e immaginabili, in una domanda di conservazione. Quella domanda, tanto più nell’epoca della globalizzazione, corrisponde sul piano sociale alla difesa del proprio territorio e del proprio sistema di rapporti e di scambi, del proprio stile di vita e della propria mentalità. Lo straniero, rispetto a quella domanda di conservazione e di conformità, è il portatore della molteplicità: ne consegue la paura per ciò che essa produce. Appunto, una società multi-etnica, multi-culturale, multi-religiosa.
È qui, esattamente qui, che la destra politica è strutturalmente portata a rappresentare le tendenze alla chiusura e all’autodifesa, all’autoreferenzialità e all’autosufficienza delle comunità (locali e nazionali) che si percepiscono come assediate; e ad assecondare, se non decide di contrastarle, tutte le possibili degenerazioni, dalle pulsioni più regressive fino alle inclinazioni più esplicitamente intolleranti. Non è fatale: la politica, qui quella di destra, può operare una mediazione, funzionare da filtro, portare a razionalità ciò che si propone come mero istinto. L’oggetto del contendere è proprio questo: se l’attuale destra italiana stia realizzando politiche e stia inviando messaggi tali da mediare intelligentemente o incentivare irresponsabilmente le tensioni attuali e possibili tra italiani e stranieri. Siamo in molti a credere che le misure di legge finora approvate e il discorso pubblico quotidianamente reiterato vadano nella direzione di esaltare le ansie collettive e, in qualche caso, di organizzarle politicamente. Le campagne contro gli zingari e contro i romeni non cadono dal cielo: sono gestite in prima persona da settori del governo e da pubblici amministratori, che a quelle ansie collettive offrono legittimazione istituzionale, canali di espressione, bersagli da colpire. Per questa ragione appare del tutto fuori luogo la domanda di Fiamma Nirenstein sul il Giornale di domenica scorsa: «È razzista quella ragazza che ha paura?» quando «tornando a casa in un quartiere popolare di notte» si allarma «se incontra giovani stranieri che parlano un’altra lingua, hanno un altro modo di approcciare?». Ma è ovvio che non lo è, e a quella ragazza vanno garantite sicurezza e libertà di movimento. Se nasce un problema politico è perché c’è chi, su quella paura (comprensibile e parzialmente motivata), effettua un investimento politico e ottiene un rendimento politico. Resta il fatto che la destra italiana rimuove tutto ciò: il suo inconscio le suggerisce di non guardarlo, per non dovervi fare i conti. Ma la discussione non finisce qui. In un editoriale de Il Corriere della Sera di ieri, Giuseppe De Rita descrive bene le forme del “modello italiano” di integrazione, segnalando i processi positivi di inserimento degli stranieri all’interno della nostra vita sociale («nelle fabbriche, nelle famiglie, nelle realtà locali») e due aree di maggiore crisi: quella «delle grandi città e delle loro periferie» dove «si intrecciano la devianza degli immigrati e l’aggressività dei bulli e teppisti indigeni»; e quella «delle zone di forte criminalità organizzata dove la vulnerabilità sociale è più alta e dove possono intrecciarsi devianze di diversa origine e potenza». E sono due questioni, come nota opportunamente De Rita, che «andrebbero affrontate anche se non ci vivesse neppure un immigrato». Dopo di che De Rita critica la tendenza a enfatizzare il razzismo «come nuova grande malattia italiana». Per De Rita, questa è una «tentazione doverosa per chi deve ricordare grandi principi di civiltà collettiva» (si riferisce, immagino, al Pontefice e al capo dello Stato) ma «ci allontana dalla realtà, dai processi e dai percorsi su cui senza clamori si fa integrazione sociale di immigrati». Non ne sono convinto: e proprio perché l’immigrazione si presenta e come grande questione sociale, che ha nei processi di integrazione la prova più delicata e insieme più remunerativa; e come grande questione culturale, e, direi, morale: essa richiama, infatti, i temi cruciali dell’eguaglianza e dei diritti universali della persona. Temi che non vanno evocati retoricamente né declinati in chiave sentimentale e solidaristica, ma vanno calati concretamente dentro il sistema di cittadinanza e dentro i nuovi statuti dei rapporti internazionali. (Oltre che, beninteso, attraverso politiche pubbliche e strategie amministrative razionali e intelligenti, non demagogiche e non velleitarie. Che richiedono notevoli risorse). Per capirci: non penso affatto che ci sia quella “generale deriva razzistica”, e tuttavia segnalo due fatti. Il primo: la caduta nel discorso pubblico di quel tabù che impediva di urlare in una sede politica “i romeni sono stupratori”; il secondo: l’aggravante di clandestinità per gli immigrati irregolari che commettano reato; aggravante non dipendente dall’illegalità dell’azione, bensì dalla mera condizione amministrativa (e in qualche modo esistenziale). Se le dinamiche culturali e giuridiche derivate da questi due fatti non vengono adeguatamente contrastate, i processi di integrazione - ecco il punto - subiranno contraccolpi, ritardi, deterioramenti. Più in generale i fondamenti di valore del sistema democratico e dello Stato di diritto ne risulteranno intaccati.
È questo che, a mio avviso, dovrebbe indurre la sinistra a fare della questione dell’immigrazione uno dei tratti essenziali della propria identità culturale programmatica. E non in nome di una “società multiculturale” che, come direbbe Giovanni Trapattoni «non è una passeggiata, ma un’ardua fatica»: e non è, certo, quel surrogato del socialismo che molti hanno creduto (o lo è nel suo senso peggiore); e nemmeno in nome della solidarietà, che è virtù preziosa ma propria della sfera privata e delle opzioni personali, e non può essere imposta per legge o raccomandata fraternamente a chi non ha occhi per piangere. Bensì, in nome dei diritti e delle garanzie e di un “calcolo razionale”. È interesse mio e dei miei figli realizzare una società nella quale la convivenza sia la più pacifica possibile e l’integrazione riduca tensioni e conflitti che pure saranno inevitabili, ed è interesse mio e dei miei figli che gli standard di diritti e garanzie non siano a geometria variabile: la compressione di quelli dei soggetti meno tutelati, come gli immigrati, non innalza il livello dei nostri. Li deprime tutti.

l’Unità 7.10.08
Giorgio Lunghini. Il docente dell’Iuss di Pavia: viviamo l’ultimo atto della caduta dell’economia americana
Questa crisi cambierà gli assetti del potere nel mondo
di Luigina Venturelli


«L’attenzione di tutti è concentrata sul crollo delle Borse, ma questa crisi non è solamente finanziaria: è l’ultimo atto di una crisi reale iniziata tanti anni fa, quella dell’economia americana». Così Giorgio Lunghini, economista di lungo corso dell’Istituto di Studi superiori dell’Università di Pavia, spazza via anche l’ultimo tentativo di circoscrivere la bufera che si sta abbattendo sui mercati mondiali: quello di descriverla come il frutto amaro di titoli derivati e mutui subprime.
Quali saranno le conseguenze di questo tracollo?
«Una risposta definitiva potranno darla solo gli storici tra qualche anno. Sicuramente ci sarà una redistribuzione del potere a livello mondiale tra Stati Uniti, Europa, Russia e il blocco asiatico costituito da Cina e India».
Da ovest verso est?
«Gli Stati Uniti perderanno peso sul fronte del lavoro, della produzione, della finanza e quindi della politica. La crisi dell’economia americana è iniziata molto tempo fa: prima si è manifestata con il crollo della new economy, poi è stata spostata sulla Borsa grazie ad una politica accomodante della Federal Reserve. Quindi, per evitare che scoppiasse, è stata indirizzata da Greenspan verso il mercato immobiliare con la promessa di una casa per tutti, anche per i soggetti non solvibili».
Così si arriva ai subprime.
«A questo percorso si aggiungano le costanti degli ultimi trent’anni di storia economica a stelle e strisce: il deficit strutturale del commercio estero, a lungo compensato con un afflusso di capitali dall’estero che ora si è interrotto; l’elevato debito pubblico, che dipende in gran parte dalle spese militari; l’eccezionale debito privato accumulato dai cittadini americani. Gli Stati Uniti sono un paese oberato dai debiti ed ora si è arrivati alla resa dei conti».
Che cosa succederà, invece, all’Europa?
«L’Europa è in una situazione meno drammatica, ma non è l’isola felice che si credeva solo poche settimane fa. Da un lato la crisi è globale e i costi del crollo Usa si scaricheranno su tutto il capitalismo occidentale. Dall’altro lato l’Unione europea non esiste come federazione, quindi manca delle politiche unitarie di bilancio che servirebbero per arginare la crisi. Dispone solo della leva monetaria, che viene gestita da Trichet in modo prekeynesiano, con l’unico obiettivo di contenere l’inflazione dimenticando la promozione della crescita».
Qualche governo si sta muovendo autonomamente. La Germania, ad esempio, ha garantito con denaro pubblico i depositi dei suoi risparmiatori.
«La prima economia europea cerca di tranquillizzare i suoi cittadini e probabilmente ci riesce. Ma sono preoccupanti le reazioni indispettite degli altri governi. Forse perchè non si sentono in grado di fornire una garanzia analoga ai propri cittadini?».

l’Unità 7.10.08
Sulla scuola non si discute, imposta la fiducia
Decreto, il ministro Elio Vito parla di «motivi tecnici». L’opposizione insorge: tagliano così 8 miliardi
di Eduardo Di Blasi


AFFERMA ELIO VITO, ministro per i rapporti con il Parlamento, nell’annunciare il ricorso al voto di fiducia da parte del governo sul decreto Gelmini, che la scelta non è dovuta «ad un ostruzionismo dell’opposizione, che in questo caso non si è registra-
to» né «a presunte divisioni interne alla maggioranza, che non ci sono state».
Ma allora perché ricorrere al sesto voto di fiducia in pochi mesi con una maggioranza che numericamente non dovrebbe avere alcun problema ad affrontare un dibattito in aula? Secondo il rappresentante dell’esecutivo, la fiducia posta sul maxi-emendamento governativo sarebbe solo una questione «tecnica» dettata dai tempi ristretti: il decreto deve ancora passare per l’aula del Senato, e scade il 31 ottobre.
Spiegazione condivisibile? Secondo il capogruppo del Pd Antonello Soro, no: «Credo che nei precedenti della Camera dei deputati non ci sia mai stato un passaggio alla seconda lettura con 26 giorni utili», dirà in aula. Il ricorso alla fiducia resta dunque un dato inspiegato se anche il ministro Gelmini, in Transatlantico, continua a sottolineare la sussistenza dei «presupposti d’urgenza», contraddicendo quanto detto dal collega Vito pochi minuti prima («Non è vero che non c’è stato ostruzionismo, perché il numero degli emendamenti è aumentato»). E aggiungendo: «Credo che sia urgente rispondere al bullismo, introdurre il voto in condotta, una semplificazione dei meccanismi con il ritorno ai voti ed è importante lo studio dell’educazione civica», come se questi possano configurarsi come «presupposti d’urgenza». La maggioranza abbozza.
Valentina Aprea, relatrice del provvedimento, si lancia in un pericoloso ringraziamento del governo che, pur ponendo la fiducia espropriando il Parlamento, avrebbe accolto nel testo le modifiche della commissione (la prima, voluta dalla Lega, riprovincializza le graduatorie degli insegnanti, la seconda, indicata dall’opposizione e da l’Unità, ha cancellato l’errore di bocciare un bimbo delle elementari per una sola insufficienza). Eppure manca anche la certificazione della copertura finanziaria. La commissione Bilancio ci ha provato fino a sera a farsi dare i numeri. La questione è ben spiegata in aula dal capogruppo dell’Udc in commissione Gian Luca Galletti. «Si prevede il maestro unico. Sappiamo che il maestro unico dovrà svolgere due ore in più rispetto a quelle che svolge attualmente, da 22 a 24. Questo comporterà la necessità di un rinnovo contrattuale, che recherà maggiori oneri per lo Stato. Per tutto il pomeriggio abbiamo chiesto alla Ragioneria dello Stato, alla maggioranza e al Governo di quantificarci questo maggiore onere, per vedere se era compatibile con la copertura che si prevede nel decreto-legge. Questo dato non siamo riusciti ad averlo». Di più spiegano gli onorevoli Lino Duilio e Maino Marchi (entrambi del Pd), «prima hanno rimpallato le competenze tra Cultura e Bilancio, poi ci hanno mostrato un documento della Ragioneria dello Stato, con data 1 settembre, che sconfessava la copertura finanziaria così come era stata predisposta, infine un sottosegretario ci ha risposto “garantisco io”». E in numeri? Anche per questi, si direbbe, a fiducia.
Antonello Soro va dritto al merito: «Il punto è che si sta, di fatto, operando una trasformazione del processo legislativo in contrasto con la Costituzione vigente. L’utilizzo del decreto-legge e del voto di fiducia in un’assemblea deputata esclusivamente alla ratifica configura un cambio sostanziale, di fatto, materiale, ma direi in violenza alla Costituzione vigente».

l’Unità 7.10.08
La protesta dei docenti
Gli atenei verso l’occupazione
di Federica Fantozzi


Blocco delle inaugurazioni dell’anno accademico, forse l’università di Padova sarà la prima, e La Sapienza di Roma verso l’occupazione studentesca.
Sale la protesta di docenti, sindacati e ragazzi contro il piano del governo sugli atenei. Il cahier de doléances è lungo. Ricerca e università in ginocchio. Docenti «dimezzati» dal blocco del turn over e dai licenziamenti. Decreto «ammazza-precari» che impedisce stabilizzazioni. Meno laboratori e biblioteche, addio sperimentazioni. Tagli del 10% al fondo di finanziamento nel 2010, scendendo dai 7,4 miliardi attuali a 6,4 entro il 2013. Azzeramento dei fondi per l’edilizia mirata. Limiti alla contrattazione integrativa. Atenei trasformati in «super-licei» di serie A (privati) e B (pubblici). E non più in grado di pagare gli stipendi nè di chiudere in pareggio i bilanci.
Una débacle, denunciano gli operatori. Un «Piano Marshall al contrario». Le forbici infieriranno per 10 miliardi nel prossimo quinquennio: cifra speculare agli aiuti americani che nel Dopoguerra consentirono all’Italia di risollevarsi.
Il mondo della formazione e della ricerca si è già mobilitato. Molte le iniziative in campo. L’appello di un gruppo di docenti ai rettori affinché rinuncino alle inaugurazioni dell’anno accademico ha superato in pochi giorni le 1300 adesioni. Tra i promotori ci sono Gianni Vattimo, Alberto Asor Rosa, Piero Bevilacqua della Sapienza di Roma, il rettore di Padova Umberto Curi, Fulvio Tessitore dell’università di Napoli.
Proprio a Padova, a novembre, potrebbero iniziare le proteste. Ma crescono le voci di un’imminente occupazione della facoltà di Lettere della Sapienza. In quell’aula simbolica i promotori dell’appello stanno organizzando un’assemblea per il 23 ottobre. In calendario anche una giornata in cui gli studenti porteranno in facoltà i genitori e i professori spiegheranno il «valore della formazione pubblica».
I docenti hanno anche elaborato un documento che analizza nel dettaglio i guasti del decreto legge 112: quasi 1500 milioni di euro in meno in 5 anni «passando dall’ordine dell’1% del 2009 al 7,8% nel 2012-2013». Riduzione di servizi agli studenti e di infrastrutture. Prospettiva a medio termine: «Dimezzamento del numero dei docenti».
La conseguenza sarà la concentrazione dell’attività sulla didattica a scapito della ricerca, delle tesi sperimentali, dell’aggiornamento al mondo che cambia. Altrettanto devastante - denunciano - la trasformazione delle università in fondazioni: «Il sistema del diritto allo studio verrà cancellato, non sarà più assicurato per i meritevoli in condizioni disagiate». E sparirà la differenza con le private sulle tasse universitarie, più alte per tutti.
Come reagire? L’invito per il governo è a «una seria valutazione anziché tagli discriminati». La Crui, la conferenza dei rettori, ha consegnato un pacchetto di proposte al ministro Gelmini, condite da un avvertimento: o il governo rivede i contenuti della manovra, o gli atenei non riusciranno a pagare gli stipendi al personale e i conti finiranno in rosso. L’Unione Universitari è scesa in piazza contro «l’attacco del governo con tagli pesanti e la possibilità di privatizzare tutti gli atenei» inserito «in un progetto di screditamento e distruzione di tutti i servizi pubblici».
La Flc Ggil intanto fornisce i primi effetti sul settore, dove il precariato sfiora il 50%. Oggetto delle proteste l’emendamento «ammazza precari» di Brunetta: «Non si può negare il diritto a un lavoro stabile a tantissimi giovani ricercatori e universitari qualificati». Già in mobilitazione i 500 precari dell’Isfol (Istituto per la formazione professionale dei lavoratori), i 700 dell’Ispra (Istituto per la protezione e la ricerca ambientale), i 400 dell’Ingv (Istituto Nazionale di geofisica e vulcanologia). Secondo la Finanziaria in cantiere le università potranno assumere nel triennio 2009-2011 fino al 20% dei pensionamenti e fino al 50% nel 2012. Inoltre, dal primo gennaio 2009 gli scatti biennali dei docenti, con lo stesso importo, diventano triennali.
Infine l’entità dei tagli: 63,5 milioni di euro nel 2009, 190 milioni nel 2010, 316 nel 1011, 417 milioni nel 2012 e, infine, 455 milioni nel 2013. Totale: meno 1.441 milioni in aree cruciali per la crescita e la formazione dei giovani.

Corriere della Sera 7.10.08
Il patto con i pazienti L'oncologo propone una legge sul testamento biologico e lancia 10 diritti etici
Veronesi ai malati: i medici devono ubbidirvi
di Mario Pappagallo


MILANO — «I medici facciano un passo indietro, i pazienti uno avanti». Umberto Veronesi ( foto) nel 1973 è stato il fondatore del primo comitato etico in Italia, all'Istituto nazionale dei tumori di Milano, e ora, dopo 35 anni, si rende conto che occorre rilanciare il motto di quel primo comitato: «Tutto è concesso all'uso della scienza per l'uomo, tutto è negato all'uso dell'uomo per la scienza». Due le azioni: il Veronesi senatore ha presentano il primo ottobre un disegno di legge sul consenso informato e le dichiarazioni anticipate di volontà, il Veronesi medico fissa un suo decalogo dei diritti del malato. Lo presenterà il 13 ottobre al Circolo della Stampa di Milano e l'invierà a tutti i comitati etici italiani. Il «patto» con i malati prevede: cure scientificamente valide e sollecite, diritto a una seconda opinione e alla privacy, diritto a conoscere la verità sulla malattia e a essere informato sulle terapie, diritto a rifiutare le cure e ad esprimere le proprie volontà anticipate, diritto a non soffrire, diritto al rispetto, alla dignità. «Mi sono basato — spiega l'oncologo milanese — sui principi fondanti della bioetica che sono l'autonomia e la beneficenza ». Che cosa significa? «Che ognuno ha il diritto di autodeterminarsi nella malattia così come ce l'ha in salute. È il principio di autonomia: spetta al malato decidere che cosa è bene per lui. Questo è il pilastro su cui si basa anche il secondo principio: la beneficenza. Significa che l'atto medico deve essere a puro vantaggio del malato ». Ma non è tautologico? «Sembra, ma non lo è. La bioetica, per esempio, non ammette che un atto medico sia fatto in nome della ricerca scientifica. Ci si deve concentrare su quel malato in quel momento e non ci deve essere la preoccupazione di ciò che sarà in futuro, perché nessun malato mai deve pagare il prezzo della ricerca».
Nel 1970 Von Potter, nel suo
Bioethics: a bridge to the future,
sostiene che l'etica deve ispirarsi alla biologia dell'uomo e si dichiara preoccupato dello sviluppo di tecnologie che alterano gli equilibri dell'esistenza umana... «Esatto — continua Veronesi —. Una tempesta si è abbattuta su questi equilibri con l'introduzione della vita artificiale, cioè quando (a metà del secolo scorso) sono state introdotte nei reparti di rianimazione macchine in grado di mantenere l'ossigenazione del sangue e il battito del cuore, anche a funzioni cerebrali cessate. Nasce così l'incubo della vita artificiale, come esito non voluto dei progressi della tecnologia». E allora che cosa dovrebbe accadere oggi? «Per la bioetica è importante il rispetto delle leggi naturali. Per esempio Eluana, in base alla natura, sarebbe morta 16 anni fa. La vita artificiale è un'infrazione alle leggi naturali. Oltre che alla volontà del paziente, se espressa».
Eluana non ha lasciato una volontà anticipata scritta? «Se ci fosse stata però andava rispettata. Se una persona può decidere in salute e coscienza di rifiutarsi di mangiare o di bere, nessuno può costringerlo con la forza a farlo. E questo per la legge e per il codice deontologico dei medici. Per questo ho presentato un disegno di legge sul testamento biologico. Per questo lancio i 10 diritti del malato e invito medici e cittadini a farli propri».

Corriere della Sera 7.10.08
La civiltà dei barbari
C'è un cambiamento in atto che non è solo culturale, ma antropologico e genetico e che può produrre un'umanità radicalmente nuova, diversa dalla nostra
conversazione tra Claudio Magris e Alessandro Baricco


Claudio Magris: Nietzsche ha descritto con genialità l'avvento di una società nichilista dove tutto è interscambiabile come moneta

Durante la campagna elettorale del 2001 mi sono accorto che non capivo più il mondo. Un manifesto di Forza Italia mostrava Berlusconi in maglione, con la scritta «Presidente operaio»; un'idea che sarebbe potuta venire in mente a me e ai miei amici per una goliardata che lo mettesse in ridicolo. Sarebbe stato altrettanto comico proclamare Veltroni o Prodi «Presidenti operai». Ma se qualcosa che per me era una caricatura satirica funzionava invece quale efficace propaganda, voleva dire che erano cambiate le regole del mondo, i metri di giudizio, i meccanismi della risata; mi trovavo a un tavolo di poker credendo che l'asso fosse la carta più alta e scoprivo che invece valeva meno del due di picche, come quando il protagonista dell'Uomo senza qualità di Musil, leggendo su un giornale di un «geniale» cavallo da corsa, capisce che le sue categorie mentali sono saltate, non afferrano e non valutano più le cose.
Alessandro Baricco si addentra nel paesaggio di questa mutazione epocale con straordinaria acutezza; con quella profondità dissimulata in leggerezza che caratterizza il suo narrare. Forse Baricco è scrittore dell'Ottocento e del Duemila più che del Novecento, cui pure s'intitola un suo celebre libro. Si muove nel mondo saccheggiato dai barbari, come egli li chiama, con l'agilità di un'antilope in un territorio che non è proprio il suo, ma nel quale non si trova affatto a disagio. I barbari sono tali rispetto a quella che si considera — a noi che ci consideriamo — la civiltà, la quale si sente devastata nei suoi valori essenziali: la durata, l'autenticità, la profondità, la continuità, la ricerca del senso della vita e dell'arte, l'esigenza di assoluti, la verità, la grande forma epica, la logica consueta, ogni gerarchia d'importanza tra i fenomeni. In luogo di tutto questo trionfano la superficie, l'effimero, l'artificio, la spettacolarità, il successo quale unica misura del valore, l'uomo orizzontale che cerca l'esperienza in una girandola continuamente mutevole. Il vivere diventa un surfing, una navigazione veloce che salta da una cosa all'altra come da un tasto all'altro su Internet; l'esperienza è una traiettoria di sensazioni in cui Pulp Fiction e Disneyland valgono quanto Moby Dick e non lasciano il tempo di leggere
Moby Dick.
Nietzsche ha descritto con genialità unica l'avvento di questo nuovo uomo e della sua società nichilista, in cui tutto è interscambiabile con qualsiasi altra cosa, come la cartamoneta. Tutto ciò nasce già col romanticismo, che ha infranto ogni canone classico, anzi ogni canone; come ricorda Baricco, la prima esecuzione della Nona di Beethoven venne stroncata dai più seri critici musicali con termini analoghi a quelli con cui oggi si stroncano, accusandole di complicità con i gusti più bassi e volgari, tante performance artistiche o pseudoartistiche. Baricco cerca di descrivere — o, nei suoi romanzi, di raccontare — e soprattutto di capire il mondo, anziché deplorarlo, e sostiene giustamente, nel bellissimo finale de I barbari (Feltrinelli), che ogni identità e ogni valore si salvano non erigendo una muraglia contro la mutazione, bensì operando all'interno della mutazione che è comunque il prezzo, talora pesante, che si paga per un grande progresso, per la possibilità di accedere alla cultura data a masse prima iniquamente escluse e che non possono avere già acquisito una coerente signorilità «Se tutto va compreso — gli chiedo incontrandolo nella sua e un po' anche mia Revigliasco— non tutto va accettato. Tu stesso scrivi che occorre sapere cosa salvare del vecchio — che dunque non è tale — in questa totale trasformazione. Questo implica un giudizio, che non identifica dunque, come oggi si pretende, il valore col successo. Anche Il piccolo alpino vendeva un secolo fa tante più copie delle poesie di Saba, ma non per questo chi lo leggeva capiva meglio la vita. Se i giornali — come dici — non parlano di una tragedia in Africa finché non diventa gossip di veline o di sottosegretari, non è una buona ragione per non correggere questa informazione scalcagnata prima ancora che falsa. Del resto è quello che fanno tanti blog, in cui si trova spesso più «verità» che nei media tradizionali. I barbari ci aiutano quindi forse anche a combattere la barbarica identificazione del valore col successo».
Baricco — Certo, non tutto va accettato, hai ragione. Ma capire la mutazione, accettarla, è l'unico modo di conservare una possibilità di giudizio, di scelta. Se si riconosce alla nuova civiltà barbara uno statuto, appunto, di civiltà, allora diventa possibile discuterne i tratti più deboli, che sono molti. D'altronde io credo che la stessa barbarie abbia una certa coscienza dei suoi limiti, dei suoi passaggi rischiosi e potenzialmente autodistruttivi: in un certo senso sente il bisogno di vecchi maestri, ne ha una fame spasmodica: il fatto è che i vecchi maestri spesso non accettano di sedersi a un tavolo comune, e questo complica le cose.
Magris — Credo che non esista una contrapposizione fra i barbari e gli altri (noi?). Anche chi combatte molti aspetti «barbarici» non è patetiout, ma contribuisce alla trasformazione della realtà. Come nel Kim di Kipling, in cui tutti spingono la Ruota e ne sono schiacciati. Senza pathos della Fine né di un miracoloso e fatale Inizio. La civiltà absburgica, così esperta di invasioni barbariche, non le demonizzava né le enfatizzava; si limitava a dire: «È capitato che...».
Baricco — «È capitato che...», bellissimo. Quando ho pensato di scrivere I barbari avevo proprio uno stato d'animo di quel tipo… Sta capitando che… Non avevo in mente di raccontare un'apocalisse e nemmeno di annunciare qualche salvezza… volevo solo dire che stava succedendo qualcosa di geniale, e mi sembrava assurdo non prenderne atto. Forse ho letto troppi mitteleuropei da giovane e mi son trasformato in un von Trotta. Colpa tua, in un certo senso…
Magris — Tu indaghi splendidamente lo stretto rapporto che c'era tra profondità, rifuggita dai barbari, e fatica, sublimata e cupa moralità del lavoro e del dovere, che spesso conduce a sacrificio e a violenza. Ma la profondità non è necessariamente legata alla falsa etica del sacrificio. Immergersi e reimmergersi in un testo — in un amore, in un'amicizia, anziché toccarli di sfuggita come oggi i barbari — non vuol dire sfiancarsi a scavare come un forzato nella miniera, ma è come scendere ripetutamente in mare, scoprendo ogni volta nuove luci e colori, che arricchiscono quelle precedenti, o come fare all'amore tante volte con una persona amata, ogni volta più intensamente grazie alla libertà dell'accresciuta confidenza.
Baricco — La profondità, quello è un bel tema. Sai, scrivendo I barbari, ho dedicato molto tempo a capire e a descrivere la formidabile reinvenzione della superficialità che questa mutazione sta realizzando. E trovo fantastico ciò che siamo riusciti a fare, riscattando una categoria che ufficialmente era l'identificazione stessa del male, e restituendola alla gente come uno dei luoghi riservati al Senso. Ma mi rendo anche conto che questo non significa affatto demonizzare, automaticamente, la profondità. Tu giustamente parli di amicizia, di amore, e se tu guardi i giovani di oggi, quasi tutti tipici barbari, tu troverai lo stesso desiderio di profondità che potevamo avere noi. O se pensi alla loro domanda religiosa, ci trovi un'ansia di verticalità che non riesci bene a coniugare con la loro cultura del surfing. Alla fine sai cosa penso? Che la mutazione abbia smontato la dicotomia di superficiale e profondo: non sono più due categorie antitetiche: sono le due mosse di un unico movimento. Sono i due nomi di una stessa cosa. Non so, non so spiegarlo meglio, è una cosa che intuisco ma devo ancora pensare: ma credimi, il punto è quello. Ti dirò di più: la superficialità, nelle opere d'arte barbare, non è già più distinguibile come tale, non più di quanto tu possa distinguere cosa è ornamento in un quadro di Klimt, o pura aritmetica in una suite di Bach.
Magris — Pur più allergico di te — anche per ragioni d'età — ai barbari, vorrei difenderli da una loro immagine totalitaria. In Google vedo anche una — pur immensa — reticella simile a quelle con cui i bambini pescano in mare granchi e conchiglie. Non ho bisogno di Google per sapere qualcosa su Goethe, «linkatissimo», perché lo trovo altrettanto facilmente altrove, come in passato. Invece è Google che mi ha dato qualche notizia su un personaggio minimo di cui mi sto interessando, una nera africana del Cinquecento fatta schiava, divenuta dama di corte in Spagna, rapita dai Caraibi e poi loro regina. I blog correggono l'unilateralità barbarica dei media, che parlano solo di ciò di cui si parla e si sa. Non credo che Faulkner possa sparire, meglio allora se sparisse Google; credo che Google possa semmai aiutare a far riscoprire la sua grandezza a molti ignoranti. I barbari che hanno invaso l'impero romano ne sono stati gli eredi, hanno letto e diffuso i Vangeli...
Baricco — I barbari che hanno invaso l'impero romano erano spesso popolazioni già parzialmente romanizzate guidate da condottieri che venivano dalle file degli ufficiali dell'esercito imperiale...
Magris — La profondità, tu scrivi, è spesso fondamentalista, ha condotto, in nome di valori forti, a guerra e a distruzione. Non credo però che la folla barbarica, innocente, pacifista dei consumatori di videogame sia adatta a scongiurare la violenza; la vedo semmai disarmata e ingenua e dunque facile preda di persuasioni collettive che portano alla guerra. Nella tua straordinaria
Postilla a Omero, Iliade tu dici — e concordo pienamente — che la guerra non si sconfigge con l'astratto pacifismo, ma con la creazione di un'altra bellezza, slegata da quella pur altissima ma sempre atroce del passato, come nell'Iliade. Non vedo però nei consumatori di Matrix questi costruttori di pace...
Baricco — Apparentemente è così. Ma ogni tanto mi chiedo, ad esempio, se una delle ragioni per cui, dopo le due Torri, non siamo precipitati in una vera e propria guerra di religione su vasta scala, non sia proprio la barbarie diffusa delle masse occidentali e cristiane: il loro nuovo sospetto per tutto ciò che si dà in forma mitica impedisce di aderire in modo viscerale ai possibili slogan guerrafondai che in passato, e per secoli, hanno fatto così larga breccia tra la gente.
Magris — I barbari di cui parliamo sono occidentali, anche se integrano elementi di altre culture. Oggi la cosiddetta globalizzazione mescola su scala planetaria altre culture, tradizioni, livelli sociali, quasi epoche diverse, e introduce pure valori di profondità e di fatica, Assoluti, fondamentalismi. Una nuova folla di esclusi si affaccia al mercato della civiltà; rispetto ad essi, i nostri barbari sembreranno presto aristocratici di un altro ancien régime. Certo, passerà del tempo prima che i clandestini d'ogni lingua e cultura levino veramente la voce, ma...
Baricco — È vero. Quando parliamo di Umanesimo o di Romanticismo parliamo di mutazioni che riguardavano un mondo piccolissimo (l'Europa, e nemmeno tutta), mentre oggi qualsiasi mutazione si deve confrontare con il mondo tutto, perché con il mondo tutto si trova a dialogare. Sarà un'avventura affascinante. Ci sono intere parti di mondo con cui facciamo affari che nemmeno sono mai passate dall'Illuminismo: non sarà che l'uomo che stiamo diventando riuscirà a dialogare meglio con loro che con i suoi vecchi sacerdoti del sapere?
Magris — C'è un'altra mutazione in atto — non solo culturale, bensì antropologica, genetica, biologica — che potrà generare un'umanità radicalmente diversa dalla nostra, padrona della propria corporeità, capace di orientare a piacere il proprio patrimonio genetico e di connettere i propri neuroni a circuiti elettronici artificiali, portatrice di una sessualità che non ha nulla a che fare con quella che, più o meno, è ancora la nostra. Certo, passerà comunque molto tempo prima che ciò possa avvenire. Ma se quest'uomo o il suo clone sarà veramente «altro» rispetto a noi, non avrà senso chiedersi se sarà orizzontale o profondo, come non avrebbe senso chiederselo per i nostri avi scimmieschi o magari roditori...
Baricco — Tu dici? Non so. A me pare una frontiera assai più vicina, un destino che appartiene all'uomo come lo conosciamo oggi, a quell'animale lì. Perché credo che una delle acquisizioni fondamentali dell'uomo moderno sia stata quella di immaginare e generare una continuità nel suo cammino, una continuità pressoché indistruttibile. Non importa quanto tempo ci vorrà ma quando connetteremo i nostri neuroni con circuiti elettronici artificiali ci sarà ancora, accanto a noi, un comodino e sul comodino un libro: magari sarà in titanio, ma sarà un libro. E quello che facciamo ogni giorno, oggi, magari senza neanche saperlo, è scegliere che libro sarà: riesci a immaginare un compito più alto, e divertente?

Corriere della Sera 28.7.05
Fagioli: con Fausto perché è un passionale libero dalle ideologie
di Alessandro Trocino


MILANO - Lui se la rideva, a vederlo nella sua piccola libreria romana «Amore e psiche», «un po’ terrorizzato dalle nostre domande», a discettare sul giovane Marx e Feuerbach, a spiegare se venga prima la prassi o le idee, a intimorirsi sulle domande di giovani fanciulle sulla «sofferenza della mente». Però a Massimo Fagioli, l’anziano psichiatra eretico, è piaciuto molto «questo Bertinotti che si cimenta nelle idee, che considera la politica non come calcolo amministrativo delle risorse, ma come passionalità, emozione, ricerca di liberazione».
Dicono che Bertinotti senta molto la sua influenza. Del resto, la chiamano guru.
«Bertinotti l’ho conosciuto l’anno scorso, ma evidentemente i miei scritti li conosceva già: lui stesso lega la scelta della non violenza alle mie teorie. Ma guru non mi piace. A meno che non si scherzi».
La non violenza, una scelta contestata da alcuni.
«C’è una frase terribile che non sono riuscito a dire: non ci sarà mai nessun comunismo se non si affronta la realtà umana. Persino Marx ha fallito e si è dato all’economia politica. Io sono convinto di avere scoperto questa realtà».
Riesce dove Marx ha fallito.
«Una bella superbia, eh? Ma l’ha detto lei, io mi astengo».
Che cos’è questa realtà umana?
«Che dobbiamo scoprire un’altra violenza, quella invisibile che sta nella mente, nelle pulsioni. Lei sa che per Freud l’inconscio è perverso. E invece è sano. Se si ammala, si cura».
Lei non ha mai amato Freud.
«Era un povero cretino, un demente. Nevrotico e psicotico».
Ma non era non violento?
«Distruggo il distruttore della realtà umana. Senza toccarlo: è morto da quasi 70 anni».
Che cosa c’entra tutto questo con Bertinotti?
«Bertinotti ha capito che non si tratta soltanto di procurare benessere fisico, bisogna fare un lavoro sulla mente, liberarla dalle ideologie, dalle religioni, dagli orchi del male, dalle fate».
Il comunismo è un’ideologia.
«Anche Bertinotti ha ammesso che è fallito e ora cerca di farne uno nuovo. Per questo occorre una teoria sulla mente umana. Non basta la fratellanza universale: quella c’era già nel cristianesimo e non è bastata».
Lei è comunista?
«Mai stato. All’epoca stavo con il socialismo di sinistra di Lombardi. Con il Psiup, che era più estremista dei comunisti».
L’Unione di Prodi le piace?
«Prodi è abile, ma non mi convince il suo cattolicesimo. E’ un chierico, basta vedere il modo in cui si muove. Ora dice di essere un cattolico laico. Prima, però, ha votato la legge criminale sulla fecondazione».
Rutelli?
«Mah, era laico, radicale, anticlericale. Ora è un baciapile».
E Fassino?
«Pure lui ora crede in Dio. Una volta, nel Pci bisognava essere atei. Ora anche la Turco è ultracattolica. Sono problemi».
Teme lo Stato confessionale?
«Altroché. Il capo di uno Stato straniero si permette di dirci che leggi fare e nessuno protesta. Ormai è uno Stato teocratico. In Italia c’è democrazia, ma poi alla fine uno viene isolato. Al limite, c’è più libertà in Iran».
Bertinotti ultima speranza?
«Beh, così mi pare eccessivo. Ma anche Fausto, ora che ha abbracciato la non violenza, dovrebbe liberarsi di quelli dell’Ernesto. Dei leninisti, dei trotzkisti. E’ roba vecchia, pesante».
Ce la farà alle primarie?
«Chissà. Non so nemmeno come si fa. Ma dove si vota, poi?».

Repubblica 27.7.05
Il personaggio
Il lancio della candidatura nella libreria dello psicanalista Fagioli tra gli applausi di militanti e fan
Fausto abbraccia il Guru e s'affida alla Provvidenza rossa
Per il leader del Prc una grande cornice mediatica: il rituale di applausi, grida festose e foto scattate con i telefonini
Adorato dalle signore dei salotti
Dice di lui Suni Agnelli: "Si ama la politica e si finisce per innamorarsi di Bertinotti"
di Filippo Ceccarelli


Dio li fa e poi li accoppia. Anche applicato a non credenti, o a persone «in ricerca», come potrebbero essere l´onorevole Fausto Bertinotti e il professor Massimo Fagioli, il vecchio proverbio non solo conferma la propria inesorabile certezza, ma si preoccupa pure di gestire l´accoppiamento, lo rende visibile, gli dà una cornice mediatica, gli monta attorno un rituale fatto di applausi, grida festose e foto scattate con i telefonini tanto dai rifondatori quanto dalla gran massa dei «fagiolini», come ormai da un quarto di secolo vengono chiamati nella sinistra romana i seguaci di Fagioli.
Con il che si va ad allestire la scena, usciti sgocciolanti come sommergibilisti dalla libreria-sauna "Amore e Psiche", sotto lo schioppo del sole, il Leader e lo Psicoterapeuta si abbracciano. Una, due volte, per la comodità dei fotografi. I vigili urbani hanno addirittura chiuso la strada. Bertinotti è pelato e indossa un abito chiaro, Fagioli ha una chioma fluente, autorevole, ma è vestito più sciolto, una camicia azzurra e occhiali da sole un po´ cattivi.
Le lingue lunghe della politica dicono che c´è lui, già guru di Marco Bellocchio, dietro la svolta neo-esistenzialista e non violenta di Bertinotti, e la riprova starebbe nel fatto che per lanciare - con accaldata scomodità, invero - la sua candidatura alle primarie, abbia scelto proprio quella libreria che Fagioli, cui i fans attribuiscono un genio quasi leonardesco, ha addirittura progettato e realizzato con archi e scale in legno chiaro, piuttosto elegante.
Fagioli, infatti, è un guru, un classico guru. Giovane e luminosa promessa della psicanalisi freudiana, già negli anni sessanta ne scosse le fondamenta guadagnandosi la disagevole, ma esaltante fama di eretico, che in seguito estese anche al marxismo. Fu scacciato dalla Spi e malvisto dall´ortodossia comunista, ma dalla sua aveva esperienza, fascino e carisma. Fece ricerca per conto suo, alla metà degli anni settanta ebbe un successo travolgente tra i giovani di sinistra, molti in via di disperato disincanto, che lo inseguivano in cliniche psichiatriche, università e conventi occupati, a migliaia, per farsi interpretare i sogni.
Era l´Analisi Collettiva, o psicoterapia di folla (gratuita, comunque), in pratica l´evoluzione dell´assemblea in senso introspettivo. I «fagiolini», imploranti, alzavano la mano e il Maestro sceglieva a quale domanda dare corso. Per dire il successo di quelle atmosfere, a un certo punto venne fuori pure una radio «fagiolina», con conferenze e telefonate in diretta. Arrivò la gloria, naturalmente, ma anche una stagione di polemiche. Ai tempi de «Il diavolo in corpo» Bellocchio fu duramente contestato dal produttore perché si portava Fagioli sempre sul set, come regista del regista, lasciandogli mettere bocca anche sul montaggio.
Vera, falsa o enfatizzata che fosse, la venerazione di parecchi pazienti, pure ribattezzata «massimo-dipendenza», finì per alimentare attorno a Fagioli e ai suoi fans una qualche sulfurea nomea di setta. Ma di tutto, com´è noto, i guru possono preoccuparsi, meno che di quella. Così, nel tempo, il Maestro ha continuato a scrivere sceneggiature per Bellocchio, come pure ha seguitato adoratissimo a guarire, a insegnare, a editare pubblicazioni, a disegnare mobili e ispirare architetti; si è pure fatto celebrare in un paio di convegni, uno dei quali divenuto autocentrico documentario; quindi ha girato un film tutto suo, «Il cielo della luna», per il quale ha scelto le musiche e recitato la parte di un barbone, per quanto muto, lasciando il ruolo dei protagonisti a due «fagiolini». E infine - qui viene il bello - Massimo Fagioli ha incontrato Bertinotti.
Il bello sta nella fantastica circostanza che anche Bertinotti è un po´ un guru. Certo: rispetto allo psicanalista se lo può permettere di meno, con sei correnti, tre solo trotzkiste, nel suo partito. C´è però da dire che «il Grande Fausto», come l´ha chiamato Liberazione il giorno del suo compleanno, è un santone a suo modo poliedrico, un seduttore adattabile, un poetico cacciatore di anime che sa sempre cogliere il momento.
Così, più che con gli impervi trotzkisti, vale la pena di vederlo all´opera nella sua intensa vita mondana: cortese, elegante, telegenico, pacato, con tanto di erre moscia e civettuola bustina portaocchiali. Come tale invitatissimo «prezzemolino», insieme con la simpatica moglie signora Lella, record di presenze a Porta a porta, premio Oscar del Riformista: «Si ama la politica - ha detto di recente Suni Agnelli - e si finisce per innamorarsi per Bertinotti».
Le signore, specie quelle dei salotti-spettacolo di una Roma al tempo stesso prestigiosa e sgangheratissima, vanno pazze per lui: e lui lo sa. E non c´è niente di male, non è reato frequentarle, tantomeno è peccato ritrovarsi con i reduci del Grande Fratello. E´ solo un po´ buffo, o surreale, o straniante, come in un film di Bunuel, veder così spesso Bertinotti in foto al fianco di Donna Assunta Almirante, o a Maria Pia Dell´Utri, sorridente con Valeriona Marini, Cecchi Gori, Romiti, Sgarbi e Marione D´Urso; oppure intervistato sulla fede da don Santino Spartià, comunque assiduo a casa Suspisio, immancabile a villa «La Furibonda» di Marisela Federici. E insomma tutto bene, ci mancherebbe altro, però il giorno dopo è curioso sentirlo parlare del «popolo», parola desueta, parola potente. Chissà se il popolo si divertirebbe pure lui a «La Furibonda» o a «La Città del Gusto».
Ad "Amore e Psiche", intanto, lo Psicologo è rimasto nobilmente in platea a fare sì-sì con la testa non appena il Politico dava segno di aver assorbito un linguaggio che si nutre ormai di «felicità», «premonizione», «desiderio», «promessa», «liberazione», «attesa». A un dato momento, deposti i vecchi attrezzi lessicali vetero-marxisti, Bertinotti ha pure invocato la «Provvidenza rossa». Fuori, dietro le vetrine, la gran massa degli adepti animava la strada con sorrisi e applausi. Dopo l´abbraccio, c´è il tempo per un´ultima domanda, con la speranza che non suoni troppo indisponente: «Scusi, Fagioli, ma chi è più guru: lei o Bertinotti?». E il Maestro, senza fare una piega: «E´ più guru Bertinotti». Ma forse, per una risposta più articolata, potrebbe non bastare un seminario.

lettera a Lotta continua
Lotta Continua Giovedì 24 Aprile 1980
Ragazzino donne e sifilide
di Massimo Fagioli


Caro Luciano,
ho avuto la ventura, da ragazzino, di incontrare una donna assai brutta. A me parve bruttissima appena la vidi. Ho sempre bevuto molto, da tutti, le strade e le stradine percorse, deserte, salvo le molte puttane, molli di pioggia, si trasformarono per me in uno di quei labirinti che fanno ogni istituto di psicologia, da un milione di anni, che servono per certi esperimenti sugli uomini: sull’istinto animale, la ripetizione, la rassegnazione, la passività.
Dentro quei vicoli mi muovevo con pochissima sicurezza, dapprima, che diventava, poi, sempre maggiore. Guidato da un desiderio forsennato e dalla certezza che le cose non potevano essere in quel modo. Era una sensazione dolorosa aumentata dalla mia nebbia di allora. E il mio corpo era in subbuglio. Penso che tu intenda cosa voglio dire. Quella donna, la realtà psichica umana, le cui labbra bellissime nascondevano spesso, troppo spesso, i denti guasti dell'invidia e della rabbia.
Ne cercai di donne, anch'io avevo bisogno di quella sana che curasse la mia sifilide, il mio desiderio cieco, la negazione della realtà psichica umana.
Ebbene, Luciano, tutte erano sifilitiche come me, più di me, e quando lo erano meno di me succhiavo avidamente fino ad ubriacarmi.
Non lo seppi subito. Passarono anni in cui provavo sensazioni strane; camminavo a piedi nudi sul marmo freddo del pavimento della camera dopo aver fatto l'amore e mi pareva di camminare sul velluto, mi bruciavo la pelle delle dita cercando di spegnere al buio mozziconi di sigaretta e sentivo solo una leggera puntura di spillo. Attribuivo sulle prime questi sintomi alla grandezza straordinaria del mio amore.
Era pulsione di annullamento e di negazione dell’inconscio mare calmo: quella latente, quella invisibile come le spirochete ma terribile, mortale.
La luce gialla dei lampioni metteva in evidenza silhouettes di donne, vicino al duomo, sottomesse al duomo, accecate dal duomo, quando, tante volte, ormai stavo per rinunciare mi accingevo ad uscire dal labirinto per una stradina laterale che tutti conosciamo molto bene: l’indifferenza. Tante volte l’avrei ammazzate quelle donne. Tornavo in me furibondo. Ma poi le loro labbra di velluto succhiavano la mia rabbia; i loro occhi mi ritrascinavano di colpo nel mare in tempesta della nostra relazione amorosa.
Mi curai per sei anni in maniera intensiva con la mia ricerca, per resistere, non soccombere, non impazzire. Poi ancora per altri venti anni. Studiai. Avevo scoperto che non c’era nessun medico che potesse dire che non era amore, era negazione. Non c’era nessun medico che avesse la penicillina.
Ovviamente. Dovevo dire che gli esseri umani sono bellissimi. Ce l’avevo dentro da tanti anni. Ogni volta che mi avvicinavo ognuno mi succhiava le parole dal cuore con dei baci che, caro Luciano, ti auguro di non provare mai. Se fossi un poeta invece che uno psichiatra forse potrei tentare di descrivere i liquidi infuocati che mi scendevano e salivano per il corpo mescolandosi alle labbra incollate a quelle degli altri, ad un fresco sapore di mentuccia prealpina che fluisce dal respiro degli altri.
Quell’incontro ha segnato in maniera indelebile la mia vita. Sono passati tantissimi anni ed ora tu mi chiedi una risposta. Perché sono diventato medico, scienziato, terapeuta, ricercatore, critico duro, caustico, ma costruttivo.
Perché ogni volta, sempre, quando baciavo come te, le labbra delle donne, sentivo sempre la domanda continua, neppure sussurrata, senza suoni materiali: “toglimi la follia, che è dentro di me, ripulisci la mia mente dal mio Io infetto e restituiscimi la dolcezza dell’inconscio mare calmo con cui sono nata. Fammi rinascere in maniera diecimila volte più bella perché questa volta, tu ed io, siamo gestante e feto ad un tempo. Ma tu devi essere anche levatrice. Fammi rinascere con la coscienza di nascere. E di nascere sana".
Ed io, te lo confesso, qualche volta, tante volte forse, ho tentato di non ascoltare. Ma non ci sono riuscito. Non sono riuscito ad accecarmi per non vedere quello che c’era al di là delle labbra bellissime, al di là della rabbia dei denti guasti.
La domanda degli occhi. Tu l’avrai notato che, talvolta, gli occhi, nel bacio rimangono aperti e hanno un non so che di vuoto. E dietro al vuoto ancora c’è la domanda appassionata, invisibile; c’è l’ordine, il comando, il Potere giusto al quale bisogna sottomettersi. “Se tu puoi devi guarirmi della follia che è dentro di me”.
Allora ti succhiano le parole dal cuore, in un bacio continuo che, caro Luciano, non ti auguro di provare. Perché ti danno tutto quello che hanno, ma ti chiedono tanto, tutto quello che hai, e tutto quello che puoi fare nella vita. Ti chiedono anche di essere duro, sempre critico, caustico, di pretendere sempre di più e di meglio. Allora devi rinunciare a far l’amore; perché mentre ti dicono ti amo, ti dicono “non fare l’amore con me, non ingannarti, perché io sono sifilitica. Non permettere che la mia malattia uccida entrambi”.
Perché la gente vuole vivere, anche se è malata. E ciascuno di noi chiede all’altro, sempre, un po’ di vita.
Oggi sono contento di non aver chiesto mai a nessuno se era malato; sono contento di aver avuto con gli altri l’unico rapporto dialettico possibile: non essere scappato. Stiamo ancora bene insieme, con gli altri, più di quando non c’era la penicillina.
Non ti dico cosa manca a te: non lo so. Hai scritto una bellissima lettera, te l’ho quasi interamente copiata. Per immergermi nel rapporto anche se non tutto è uguale. E’ così: “…liquidi infuocati in ogni rapporto interumano che scendono e salgono per il corpo, mescolandosi nelle labbra incollate dell’uno e dell’altro ad un fresco sapore di mentuccia che fluisce dal respiro di ognuno”.
Ma, poi, ecco il medico-scienziato e, se vuoi, il politico. Necessario per non morire. Non con tutti. C’è gente per “razza”, più sensibile, più vera artista, più grande genio, amanti più abili, battoni più puri, sensibilità maggiore, anima più bella. Una “razza” ariana di cui tu, dal momento che dici di non essere più tanto giovane, dovresti ricordarti, e ricordandoti, accorgerti che è accanto a te, nella stessa pagina.
Vedi, quando si vuole fare scienza le distrazioni sono mortali. Ecco, forse ti manca questo per essere scienziato: l’attenzione per il latente. O forse un po’ di metodo politico. Il latente uccide e la gente non vuole morire, non vuole che tu muoia perché ognuno di noi serve agli altri per vivere. Il democraticismo volgare non serve; fa morire quanto la repressione del potere.
Tu hai amato una donna, io più di una. Forse occorre questo per essere scienziato: prendere la sifilide da più di una donna, lasciarsi andare ogni volta senza fare lo scienziato. Poi ti costringono ad esserlo. Perché sono tutte diverse, bellissime, ti danno la vita e la gioia di vivere ma sono tutte uguali nella sofferenza, nell’angoscia, nel vuoto della mente.
Spero di ascoltare sempre più frequentemente gente come te, gente che ha affrontato in proprio, sulla propria pelle il rapporto con gli altri e si è curata. Ora sei sano ma… se non ci fosse stato Fleming? Te lo devo ricordare io il disfacimento luetico, la pazzia luetica, i figli scemi luetici? Nessuna gratitudine ma… una rosa gliela vuoi mandare a Fleming?
Massimo Fagioli

Corriere della Sera 26.9.08
E i lingotti salvano il Vaticano dal «rosso»


Il Vaticano sembra potersi permettere, in questi tempi inquieti, di guardare con una certa serenità e distacco alla crisi dei mutui e alle tempeste finanziarie che stanno scuotendo il resto del mondo: sta infatti seduto - rivela il settimanale britannico Tablet - su una «roccia d’oro» perché già nel 2007, e su consiglio di abili consulenti finanziari, aveva trasformato i suoi investimenti azionari in lingotti, oltre che obbligazioni e contanti.
La rivista del Regno Unito ha fatto esaminare a un analista economico i dati contenuti nel rapporto annuale sulla gestione delle finanze vaticane relativa allo scorso anno, preparato dalla Prefettura degli Affari economici della Santa sede e reso pubblico già nel luglio 2008. Non si tratta di cifre nuove, ma dalla lettura degli esperti emerge ora che la Santa sede, sapientemente consigliata, aveva fiutato in anticipo i venti avversi del mercato e convertito i propri investimenti azionari, come un novello «re Mida», in tanto metallo prezioso. La Santa sede possiede attualmente una tonnellata di oro che può valere circa 19 milioni di euro. Il Tablet ironizza: «La roccia di Pietro, su cui è stata fondata la Chiesa, si è trasformata in una roccia d’oro». E da quale posto migliore osservare quanto sta accadendo in queste ore nelle tumultuose acque dell’economia mondiale?
Il settimanale riporta l’opinione di un esperto finanziario, di cui non fa il nome, secondo il quale la Santa sede «appare finanziariamente ben posizionata per raccogliere profitti, anche nell’attuale tempesta finanziaria». «Complessivamente - aggiunge - la Santa sede è stata ben consigliata e non ha probabilmente perso molto nella crisi. Hanno abbandonato man mano le azioni e nel tempo si sono concentrati su investimenti obbligazionari e monetari».
Secondo i dati contenuti nel rapporto finanziario del 2007, il Vaticano disporrebbe di 340 milioni di euro in valuta, di 520 milioni in obbligazioni e in poche azioni, insieme ai 19 milioni in oro più molti altri in preziosi. Una quota più che ragguardevole per un piccolo stato come quello pontificio. La roccia tuttavia è più traballante di quello che appare. «I risultati del primo periodo del 2008 sono preoccupanti e non inducono all’ottimismo», dice il vescovo Vincenzo Di Mauro, segretario della Prefettura degli Affari economici. «Si rende sempre più necessario - aggiunge - il richiamo alle Amministrazioni della Santa sede a operare con prudenza e con la massima oculatezza nella gestione operativa delle spese e nell’assunzione di nuovo personale».
In ogni caso, questo è certo, il Vaticano si avvale dei migliori consulenti disponibili sul mercato, che finora non lo hanno tradito. Solo una decina di anni fa avvenne un curioso incidente, mai reso noto. Il «portafoglio» personale del Papa era affidato a una grande banca internazionale e se ne occupava un funzionario che aveva il compito di investire nel modo migliore il denaro raccolto nell’Obolo di San Pietro e di essere pronto a smobilizzarlo a ogni occorrenza per le opere di carità. Era però in vacanza mentre Papa Wojtyla, in Brasile nel 1997, staccava un assegno per la costruzione di un orfanotrofio a Rio de Janeiro. Assegno risultato «scoperto»: un errore tenuto nascosto a cui però fu poi dato rapido rimedio.

L’Unione Sarda.it, 26.9.08
Il Vaticano al riparo dalla crisi ha investito in lingotti d'oro


Il Vaticano sembra potersi permettere, in questi tempi inquieti, di guardare con una certa serenità e distacco alla crisi dei mutui e alle tempeste finanziarie che stanno scuotendo il resto del mondo: sta infatti seduto - rivela il settimanale britannico "Tablet" - su una "roccia d'oro" perché già nel 2007, e su consiglio di abili consulenti finanziari, aveva trasformato i suoi investimenti azionari in lingotti, oltre che obbligazioni e contanti.
La rivista del Regno Unito ha fatto esaminare ad un analista economico i dati contenuti nel rapporto annuale sulla gestione delle finanze vaticane relativa allo scorso anno, preparato dalla Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede e reso pubblico già nel luglio 2008. Non si tratta di cifre nuove, ma dalla lettura degli esperti emerge ora che la Santa Sede, sapientemente consigliata, aveva fiutato in anticipo i venti avversi del mercato e convertito i propri investimenti azionari, come un novello "re Mida", in tanto metallo prezioso. La Santa Sede possiede attualmente una tonnellata di oro che può valere circa 19 milioni di euro. Il Tablet ironizza: "la roccia di Pietro, su cui è stata fondata la Chiesa, si è trasformata in una roccia d'oro". E da quale posto migliore osservare quanto sta accadendo in queste ore nelle tumultuose acque dell'economia mondiale? Il settimanale riporta l'opinione di un esperto finanziario, di cui non fa il nome, secondo il quale la Santa Sede "appare finanziariamente ben posizionata per raccogliere profitti, anche nell'attuale tempesta finanziaria". "Complessivamente - aggiunge - la Santa Sede è stata ben consigliata e non ha probabilmente perso molto nella crisi. Hanno abbandonato man mano le azioni e nel tempo si sono concentrati su investimenti obbligazionari e monetari". Secondo i dati contenuti nel rapporto finanziario del 2007, il Vaticano disporrebbe di 340 milioni di euro in valuta, di 520 milioni in obbligazioni e in poche azioni, insieme ai 19 milioni in oro più molti altri in preziosi. Una quota più che ragguardevole per un piccolo stato come quello pontificio. La roccia tuttavia è più traballante di quello che appare, secondo un responsabile della Santa Sede, citato sempre dal Tablet. "I risultati del primo periodo del 2008 sono preoccupanti e non inducono all'ottimismo", dice monsignor Vincenzo Di Mauro, segretario della Prefettura vaticana degli Affari Economici. "Si rende sempre più necessario - aggiunge - il richiamo alle Amministrazioni della Santa Sede ad operare con prudenza e con la massima oculatezza nella gestione operativa delle spese e nell'assunzione di nuovo personale". In ogni caso, questo è certo, il Vaticano si avvale dei migliori consulenti disponibili sul mercato, che finora non lo hanno tradito. Solo una decina di anni fa avvenne un curioso incidente, mai reso noto, durante una visita di Giovanni Paolo II in Brasile. Il "portafoglio" personale del Papa era affidato ad una grande banca internazionale e se ne occupava un funzionario di base nel New Jersey che aveva il compito di investire nel modo migliore il denaro raccolto nell'Obolo di San Pietro e di essere pronto a smobilizzarlo ad ogni occorrenza per le opere di carità. Era però in vacanza mentre Wojtyla, in Brasile nel 1997, staccava un assegno per la costruzione di un orfanotrofio a Rio De Janeiro. Assegno risultato "scoperto": un errore tenuto nascosto a cui però fu poi dato rapido rimedio

Liberazione 31.7.08
Marco Revelli: «Fuori c'è un incendio sociale, nel Prc ci si divide il guscio vuoto».»
intervista di Davide Varì


Marco Revelli è riluttante, proprio non ha voglia di parlare dell'epilogo del congresso di Chianciano. «Conosco e stimo molti dirigenti di Rifondazione - spiega - ma ho un'idea davvero negativa di quel che ho visto in questi ultimi due mesi».
Alla fine Revelli cede e accetta di essere intervistato. Lui, intellettuale storico della sinistra, sa forse che non può sottrarsi in un momento così delicato. E' un atto di responsabilità il suo, «quella stessa responsabilità che è invece mancata ai protagonisti di Chianciano». «E dire - spiega sorridendo - che sono tra i pochi folli che ha votato per la Sinistra Arcobaleno. Mi viene il dubbio di non aver capito nulla, di non aver colto l'animo profondo di questo partito. Parlo dell'animo degenerato che si è manifestato in quel congresso».
Ha i toni pacati della rassegnazione Revelli, ma non risparmia critiche, anzi, vere e proprie bordate a nessuno. «Nessuno dei contendenti di Chianciano - spiega infatti sereno - è riuscito a sollevare la testa dalle proprie miserie».
Un'analisi impietosa quella di Marco Revelli, un'analisi che parla di «distanza dalla vita dei cittadini» e di totale incomprensione del momento storico e sociale che stiamo vivendo: «Fuori da quelle stanze - dalle chiuse stanze di Rifondazione, s'intende - c'è una società in frantumi, c'è un incendio sociale che divampa e che si estende. E in tutto questo i dirigenti del partito pensano solo a tirarsi addosso le macerie di quel palazzo in frantumi».
E in questo scenario apocalittico, ci sono due grandi questioni che secondo Revelli la "sinistra" non riesce proprio a cogliere: i limiti della forma partito, «quella stessa forma che forse ha generato i demoni di Chianciano», ed i limiti di questo sviluppo. Anzi, il vero e proprio esaurirsi dello sviluppo economico e sociale per come lo abbiamo conosciuto in questi ultimi due secoli. «Ecco - spiega Revelli - finché la sinistra non si doterà degli strumenti necessari a comprendere il mondo che ci troviamo a vivere e finché non avrà la forza di spiegare che questo modello di vita andrà sempre più esaurendosi, non nascerà alcun progetto politico credibile».
Impietoso, si diceva, il giudizio di Revelli sugli attuali ed i vecchi dirigenti di Rifondazione: «Conosco e stimo molti di quelli che si sono affrontati a Chianciano. Conosco Nichi Vendola e conosco Paolo Ferrero. Nessuno di loro è riuscito però ad affrontare il congresso per come doveva essere affrontato. E' incredibile che dopo una sconfitta elettorale così pesante, l'unico obiettivo e l'unica preoccupazione fosse il controllo del partito».
Ed ora? Quale futuro per questa sinistra? O meglio, c'è un futuro per questa sinistra? «L'unica strada - conclude Revelli - è quella di iniziare a guardarsi intorno. Ma le "riterritorializzazione" di cui molti parlano non nasce per decreto, non vorrei che qualcuno pensasse che sia sufficiente mandare i funzionari di partito in giro per i territori».

La prima domanda è d'obbligo: cosa pensi dell'epilogo del congresso di Chianciano?
Sono amico e rimarrò amico di molti dei protagonisti del congresso. Sono amico di Paolo Ferrero e di Nichi Vendola. Li conosco da molti anni eppure, in questa battaglia politica non sono proprio riuscito a riconoscerli.

E questa è la premessa, manca il giudizio su quanto accaduto...
E' come se ognuno di loro fosse preso dai propri demoni. Non riesco ancora a credere che, dopo una sconfitta politica tanto severa e netta, nessuno di loro sia riuscito a guardare le cose per quelle che sono nella realtà. Nessuno di loro ha capito, né si è sforzato di farlo, la società italiana e i profondi cambiamenti che la stanno attraversando. Ognuno di loro si è rinchiuso nella sede di partito per prepararsi alla resa dei conti finale. Una resa dei conti, vorrei dir loro, che ai più è apparsa del tutto incomprensibile e distante. I dirigenti di questo partito hanno pensato bene di tirarsi addosso le macerie di una casa in frantumi. Macerie che sono franate su di noi che stavamo in basso, ignari di quanto stava accadendo.

Eppure c'erano 5 mozioni diverse che, almeno in teoria, avrebbero dovuto rappresentare almeno 5 letture diverse della realtà italiana...
Nessuna lettura, nessuna comprensione del Paese. E' come se nel corso della vicenda congressuale tutte le componenti di Rifondazione fossero impegnate a legittimare le ragioni della sconfitta elettorale. Una sconfitta che, a questo punto, era forse giusta. Quello che voglio dire è che a Chianciano Rifondazione si è presentata come un'accozzaglia di schegge autoreferenziali. Io sono tra quelli che hanno votato per la Sinistra Arcobaleno ma, a questo punto, mi viene il dubbio di non aver capito la degenerazione di quel partito. Forse chi non l'ha votato l'ha capito prima di me.

E' un giudizio molto duro. Davvero non vedi tracce di "redenzione"?
Nessuna. L'unico problema era il controllo del partito. Ma un dubbio mi è venuto. Visto che conosco e stimo molte di quelle persone che si sono affrontate a Chianciano, allora, forse, il problema è nello strumento.

Intendi dire che la forma partito è il vero ostacolo?
Certo. Se il problema non sono le persone, allora il vizio sta nello strumento. Una prova evidente di quanto dico sta nel fatto che c'è stata una enorme divaricazione tra i contenuti espressi ed i mezzi utilizzati per ottenere il controllo del partito. Io ho notato una plateale schizofrenia tra i contenuti delle proposte politiche - ognuna delle quali apprezzabile per la propria onestà - che venivano però contraddetti dallo stile e dal metodo con cui venivano affermati. La mozione Ferrero che teorizzava l'iniziativa dal basso veniva affermata con una pratica che più di vertice non potrebbe essere, senza che nessuno all'esterno se ne sentisse coinvolto; d'altra parte la proposta di Vendola di partito aperto avveniva nel chiuso di un ristretto cerchio di partito. Di qui l'idea che sia proprio la forma partito ad alimentare i demoni. Tanto più che non stiamo parlando del controllo di un grande partito comunista. Nella realtà questo congresso ha mobilitato poche decine di migliaia di persone. Ma io dico: almeno tenetevi segreti questi dati, questi numeri ridicoli. Non siamo mica all'XI congresso del Pci che ha mobilitato milioni di iscritti. Capisco la passione, ma dividersi un guscio vuoto con uno scontro cosi feroce è davvero difficile da comprendere.

In molti hanno criticato l'incapacità di guardare fuori dalle stanze di partito...
Certo, senza considerare che ciò che accade fuori non è certo ordinaria amministrazione. Fuori da quelle stanze c'è infatti un Paese in fiamme, una società incandescente che accusa processi di degenerazione davvero allarmanti. Fuori c'è un incendio. Non c'è solo una maggioranza politica oscena, c'è una situazione sociale e culturale in caduta libera e l'emergere di un modello politico e culturale feroce. Io vedo tutti i segni di un'apocalisse culturale.

Bene, allora proviamo a metterlo noi il naso fuori dalle "stanze" di partito. Quali sono le questioni più urgenti?
Innanzi tutto c'è da dire che siamo di fronte ad una trasformazione genetica dei soggetti e della stessa classe operaia. Il tutto dentro un quadro internazionale molto preoccupante che lascia intravvedere cedimenti strutturali della democrazia. Insomma, una vera e propria mutazione antropologica. Ecco, io dentro quel dibattito non ho visto quasi nulla di tutto ciò. Di fronte a questo quadro ci si aspetterebbe un livello altissimo di responsabilità prima di rompere alcunchè, prima di darsi battaglia senza esclusioni di colpi. Io vedo una mancanza assoluta di consapevolezza di tutto questo. Ecco l'assenza di questa consapevolezza è la questione delle questioni. Un'assenza che spiega la mancanza di una reale opposizione. Al di là delle colpe soggettive di Veltroni ,del Pd e di Rifondazione, oltre a tutto questo, il vuoto di opposizione deriva da questo vuoto di consapevolezza. Poi c'è una altra questione fondamentale: la fine dello sviluppo.

Parli del nostro modello di sviluppo economico?
Certo, questo è il nodo intorno al quale dipanare la matassa dei progetti politici. Noi siamo di fronte alla fine di una lunga epoca, la fine di un lungo ciclo dominato dalla logica dello sviluppo. Per decenni la rappresentazione complessiva del mondo si basava sull'assunto che le risorse andavano crescendo. Ecco, quel mondo non ci sarà più ma nessuno ha il coraggio di dirlo e di spiegarlo.

A dirla tutta, una parte della destra, pensiamo a Giulio Tremonti, lo dice molto più che la sinistra...
E' vero, ma la destra lo spiega a modo suo. Parla di crisi e di fine delle risorse per gestire l'allarme da essa procurato e si candida a governare l'esclusione e l'inclusione dal nostro mondo. Taglia a fette la società e decide chi sta dentro e chi sta fuori. Il compito della sinistra è quello di spiegare che ci sono limiti insuperabili. Deve trovare la forza di dire che alla decrescita non c'è alternativa e che l'unica alternativa è data dal fatto che questa decrescita si può subire oppure governare. La crisi energetica e quella alimentare rappresentano l'orizzonte dei prossimi decenni. Ma questa cosa qui, a quanto pare è indicibile. Non lo dice e non lo spiega Veltroni ma neanche il tardo-marxismo di Rifondazione che continua a predicare stancamente la redistribuzione. Siamo fermi al Keynes degli anni '30. Finchè non si dichiara questa cosa qui non potrà nascere nessun progetto politico. Per questo le logiche identitarie diventano formalistiche; e le pseudo aperture appaiono virtuali e meramente mediatiche visto che non hanno alcuna sostanza storica. Quando non c'è più rapporto con la storia ci si affida alla retorica.

Dunque è questo l'orizzonte della sinistra?
Bisogna liberarsi degli occhiali dell'illusione sviluppista e mettere le mani in questo sporco contesto sociale che è la materialità dell'ultimo secolo. Un'operazione nella quale non ci aiutano nè Lenin nè Trotsky. Bisogna fare da noi.

lunedì 6 ottobre 2008

l’Unità 6.10.08
Sono bianco, meno male
di Maurizio Chierici


SONO CONTENTO di essere nato in Europa, la nostra Europa di prima, quando i rumeni non erano europei come noi. Ormai non devono scappare per ascoltare i dischi di Madonna o immergersi nella civiltà del bere e ballare fino allo sballo del mattino, oppure spiare dalla poltrona le isole dei famosi, felici con i nostri piaceri. Sono contento di essere nato in una città benestante del Nord di un paese del Sud, respiro l’aria delle fabbriche approfittando della loro concretezza per liberarmi dalle zavorre di un secolo fa: comprensione, condivisione, fantasia, sentimenti inutili nei lampi dei telefonini che parlano con internet. E sono contento d’essere bianco, passaporto indispensabile se non voglio perdere la speranza. Con altri colori esistono otto possibilità su dieci di finire nei guai. Sospettati, temuti, emarginati. Purtroppo, diversi da noi.
Quando scende il buio è un sollievo andare per strada indossando la pelle chiara. Posso alzare la mano verso un taxi senza il sospetto di una rapina. O fare quattro passi nel parco senza finire in manette, denudato, frugato, maltrattato, insultato. Negro, è il loro nome nel registro dei giustizieri. Posso suonare il campanello di qualsiasi casa a qualsiasi ora e scusarmi per aver sbagliato porta: nessuno chiamerà la polizia. Sono contento di non essere nato in Pakistan, Colombia, Cecenia, Iraq, Afghanistan, Zaire. Quando dormo, e passi guardinghi si avvicinano alla porta accanto, al massimo sono ladri e non squadre della morte. E contento di non essere un indio dell’Amazzonia peruviana: se non brucio assieme alla foresta e se non mi uccidono per scavare oro, quando arrivo in Italia con la piccola moglie e i piccoli figli, li accoglie l’ironia di chi guarda come allo zoo: bestie rare. A volte la libertà diventa meno decorosa dell’obbedienza alle mani dure. Sono contento di essere battezzato. I nuovi fascisti non si allarmano quando prego e i Borghezio della razza padroncina non ridono se rifiuto il prosciutto ogni venerdì di quaresima. Sono contento di non essere costretto ad attraversare il mare, via dalla fame e dalla guerra, per finire nei campi di raccolta dove impacchettano e rimandano a casa. Sono contento di appartenere ad una cultura dal cinismo sincero. Godo della situazione senza scrupoli lasciandomi trascinare dalla nostra storia di occidentali, maschi, bianchi, adulti, garantiti da frontiere proibite ai disperati, con polizie rinforzate dai parà che i vigili urbani dei sindaci sceriffi appassionatamente provano ad imitare. Malgrado il lamento delle borse faccio ancora parte dei padroni del mondo e sono autorizzato ad adeguarmi al costume corrente: lasciar scorrere il dolore dei neri, dei gialli, dei marron senza prendere carico delle loro sofferenze, osservando col distacco un po’ umido dell’impresario di pompe funebri. In fondo non siamo noi gli assassini. Ci sarebbero vie d’uscita: solidarietà o il compromesso di far finta che gli altri siano uguali a noi. Faticose; lasciamole ai fanatici. Meglio chiudersi nelle patrie dei dialetti che la nostra pelle conserva con orgoglio. Perché una patria bianca esalta mille possibilità. Se Bush fosse nato in Georgia potrebbe decidere se ai georgiani è permesso vivere in pace?
Anni fa un testimone doveva raccontare la non speranza che sfiniva popoli lontani dai paesi del benessere, adesso i problemi sono arrivati sui nostri marciapiedi e bisogna pur vivere con le braccia che ci servono tenendone a distanza le pretese. Finito il lavoro, vogliono diventare corpi con fame sete, malattie, scuola per i figli e stanze almeno decenti. Insopportabili. Fuori dai giardini Italia l’infelicità si moltiplica spingendo nelle nostre strade persone non bene educate, almeno come noi l’intendiamo. Milioni di profughi che non conoscono l’innocenza stampata dagli idealisti nella loro storia. Per sopravvivere hanno sopportato ogni avventura. Sono giovani e spaventati e spaventano le abitudini delle città. Quando si è trattato di convivere con la folle della grande fuga che sta cambiando il futuro di tutti, ci siamo distratti affidando la soluzione ai teologi delle piccole patrie e ai giornali e alle Tv che agitano la paura per nascondere l’incapacità dei poteri forti. Albert Camus, scrittore nato in Algeria, va in Francia per resistere ai nazisti e diventa uno dei padri dell’esistenzialismo. Quando Parigi ridiventa la Parigi della libertà, si guarda allo specchio, scrive «Lo straniero», vince il Nobel ma non si libera della malinconia dello sradicamento. Camus ricorda che la libertà di stampa soffre più di ogni altra piega della vita se degrada l’idea di libertà lasciando spazio al populismo a buon mercato. Elabora la presenza di un nemico sconosciuto da reprimere con parole soavi destinate alla tranquillità degli amici G8. Insomma, non siamo razzisti. Geneticamente per gli italiani è impossibile esserlo: secoli di invasioni straniere, chissà cos’è successo alle bisnonne delle nostre bisnonne. Ma il ripeterlo ogni giorno, dopo pestaggi e violenze sempre uguali, fa capire l’impaccio del dover giustificare gli allarmi che gli untori del terrore (giornali, Tv, tanti politici) sciolgono nelle abitudini quotidiane. L’indifferenza si trasforma nell’ansia che criminalizza ogni ombra. Colpisce persone di una certa età, cultura debole, piccola borghesia che si è arrampicata per avere l’onore del mondo e non sopporta vederlo ingrigire, colpa delle braccia che costano niente. La non cultura o l’arroganza del benessere salda i ragazzi distratti alle generazioni intimorite. Il fastidio delle facce nuove minaccia l’ambizione del guadagnare in fretta quando gli altri lavorano per meno e studiano con la determinazione di chi è all’ultima speranza. Per carità, nessun italiano è razzista. Dopo il pestaggio di Parma, ex città della grazia di Stendhal, piccole storie sfumano attorno alle polemiche. Non fanno notizia. La signora che dà la precedenza ad una signora eritrea arrivata prima di lei davanti al banco del negozio, scatena la terza signora della fila: «Adesso lasciamo passare davanti anche quelle lì (esclamativo dell’indignazione). Domani ci mangiano in testa». Gli altri avventori in silenzio: bottegaio e massaie non se la sentono di dare torto a una di loro. O la studentessa che chiede ai professori dell’università di poter allargare la tesi sul razzismo in Italia. Mentre passeggiava per strada con un amico africano, un signore di quarant’anni rallenta la pedalata per gridare: «Vergogna, le nostre ragazze vanno in giro con i negri!». Il quale «negro» gli si mette davanti chiedendo spiegazione. Come tutti i razzisti solitari e non in branco, il ciclista dell’offesa è un pavido. Invoca la solidarietà dei passanti: «Guardate chi mi salta addosso. Sempre loro. Chiamo la polizia». «La polizia è qui», voce di un carabiniere in borghese. Sorride ai ragazzi: andate, andate. E prende il nome del cittadino perbene. «Noi di Parma-Italia razzisti? Nemmeno per sogno», scrive sul Corriere della Sera Alberto Bevilacqua di professione parmigiano in esilio a Roma da mezzo secolo. Vero qualche anno fa. La vecchia morale resiste nei giovani diversi dai ragazzi delle feste: parcheggiano il suv, continuano a bere e cantare nelle strade della città cantiere. Ma altri ragazzi, o non più ragazzi, accolgono l’invito dei partiti del buonsenso, sfilano con striscioni Cgil per spiegare che chi lavora con la pelle scura è diventato uno di noi. Indignazione di non tanti, i passanti tirano diritto. Sopravvive a fatica la memoria di Mario Tommasini, sociologo senza studi: ha liberato i matti assieme a Basaglia e vuotato i brefotrofi per evitare ad ogni bambino di crescere senza famiglia. Purtroppo i tempi declinano, i consumi impallidiscono. La crisi sembra lì. Bisogna difenderci con la paura. Maledetti stranieri (se non appartengono agli ariani onorari che alla domenica fanno gol).
mchieric2@libero.it

l’Unità 6.10.08
Maroni: «Macché razzismo, episodi e calunnie»
Il ministero denuncia Amina, umiliata a Ciampino. Parma, una testimone racconta: ho visto picchiare Emmanuel
di Massimo Solani


IL MIGLIOR MODO PER COMBATTERE l’emergenza razzismo testimoniata dal ripetersi di aggressioni a carico di cittadini extracomunitari? Fingere di non vederla e minimizzare. Parola del ministro dell’Interno Roberto Maroni che ieri, sul palco della festa
del Pdl a Milano, ha messo una pietra sopra al problema, come se le vicenda di Parma e Milano (solo per restare all’ultima settimana) non fossero mai esistite. Come se un esponente del suo stesso partito, il vicesindaco di Treviso Giancarlo Gentilini, non sia stato di nuovo iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di incitamento alla discriminazione razziale. «Non credo che ci sia una emergenza razzismo - ha spiegato infatti il titolare del Viminale - ci sono episodi che vanno colpiti e che saranno colpiti». Per ora la sicurezza del ministro dell’Interno è una, semplice e chiara. «C’è qualche montatura, come quella della signora somala, che sarà colpita allo stesso modo». E infatti, ha annunciato Maroni, il ministero dell’Interno si costituirà parte civile nel processo per diffamazione che la polizia ha intentato contro Amina Sheik Said, la donna somala che venerdì ha denunciato di essere stata vittima di maltrattamenti e vessazioni ad opera della Polaria in servizio a Fiumicino. E non è dato sapere se il ministro Maroni su quanto accaduto, era il luglio scorso, abbia promosso una indagine interna. La sua assoluzione a prescindere all’operato degli agenti in servizio all’aeroporto è solida e non intaccata da alcun dubbio. Un po’ come quella di Maurizio Gasparri: «Davanti ad una dichiarazione di una donna somala e una dei poliziotti - ha spiegato infatti ieri l’esponente di An - io credo a quella dei poliziotti. Non credo che un gruppo di poliziotti possa mentire». Per conferma chiedere al Emmanuel, il ragazzo ghanese pestato a Parma da alcuni vigili urbani. Oppure alla donna testimone oculare della aggressione che ha parlato ieri nel corso di “Chi l’ha visto?”: «Ho sentito urlare. C’era quel ragazzo per terra, con quattro uomini e una donna che lo tenevano per non farlo muovere. Uno di quel gruppo gli ha dato un calcio nel fianco, e lui ha urlato. Ho visto poi che lo portavano via, e uno degli uomini saliva sulla sua bicicletta. Il ragazzo ha urlato: “perché mi portate via la bicicletta?”. E uno del gruppo gli ha dato un altro pugno nel fianco e gli ha detto: “stai zitto”».
Ma tant’è, in Italia non c’è nessuna emergenza razzismo, e il ripetersi di episodi inquietanti a distanza di pochi giorni è solo una tragica concatenazione di singoli eventi. «Nella destra - commentava ieri Marco Minniti, ministro dell’Interno nel governo ombra del Pd - si continua a sottovalutare la questione e a nascondere la testa sotto la sabbia. Un atteggiamento che cerca di esorcizzare il rischio di essersi mossi come apprendisti stregoni evocando fantasmi e paure che ora non riescono più a gestire». Anche perché, come ha ripetuto ieri Maroni, se un’emergenza c’è è quella che riguarda l’immigrazione. E per questo il governo ha intenzione di continuare a rendere sempre più strette le maglie per l’accesso dei migranti sul nostro territorio. Si trattasse anche di rifugiati che scappano da guerre e persecuzioni politiche. «Anche sulla materia dei rifugiati vogliamo mettere una stretta - ha spiegato infatti il ministro dell’Interno - La sinistra se ci sta bene, altrimenti noi abbiamo la maggioranza alla Camera e al Senato e possiamo farcela da soli».

Repubblica 6.10.08
Ma siamo il popolo più spaventato
La penisola della paura dove la tolleranza fa perdere i consensi
di Ilvo Diamanti


Fino a ieri la parola razzismo era tabù, oggi ne parlano le cariche politiche
L´allarme viene alimentato dall´uso politico dell´immigrazione anche nelle leggi

Il contagio razzista ha coinvolto l´Italia. Perlomeno: nel linguaggio pubblico. Fino a ieri l´altro era un tabù. Ora, invece, le autorità religiose e politiche ne parlano esplicitamente. Il Papa, il presidente della Repubblica e perfino quello della Camera, Gianfranco Fini. Leader di destra. Perfino il sindaco di Roma, Alemanno, che ha espresso le scuse della città a un cittadino cinese, malmenato nei giorni scorsi da un gruppo di bulletti. Dunque, il tabù si è rotto.
Oggi a denunciare il razzismo degli italiani non sono esclusivamente i "soliti noti". Sinistra radicale, no global, cattolici solidali. Giornali come il Manifesto e Famiglia Cristiana. Ma ciò solleva il rischio opposto. Scivolare dalla drammatizzazione alla banalizzazione. "Allarme siam razzisti?" No, se intendiamo definire, in questo modo, l´orientamento e il comportamento degli italiani. O meglio: il razzismo c´è, in Italia, come nel resto d´Europa. Dove gli episodi di intolleranza sono numerosi e violenti, anche più che da noi. In Gran Bretagna, in Francia, in Germania, in Belgio, in Spagna. D´altronde, l´importanza del fenomeno è sottolineato dai successi elettorali di formazioni politiche di impronta apertamente xenofoba. Da ultimo, in Austria, una settimana fa. La reticenza è, dunque, pericolosa, quanto la generalizzazione. Tanto più, il sensazionalismo, che sposta il fenomeno al centro dei talk show e nei titoli di prima pagina. D´altronde, gli episodi di razzismo, probabilmente, esistevano anche prima, (sempre troppo) numerosi. Ma non se ne parlava, perché le vittime, per prime, preferivano tacere. Come è avvenuto, in passato, per le violenze sessuali sulle donne e sui minori. Ora invece il clima è cambiato e gli episodi di razzismo sembrano moltiplicarsi, anche perché - più di ieri ? sono riconosciuti come tali e denunciati. Anche se, di fronte alle ripetute aggressioni ai danni di stranieri e rom, è diffusa la tendenza a sostenere che "il razzismo non c´entra". Oppure a giustificarle: conseguenze della "legittima furia popolare" (come ha osservato Gad Lerner, su questo giornale). Invece, il razzismo c´è. La tentazione di costruire barriere fra noi e gli altri, in base a fondamenti in-fondati e in-dimostrabili. Come l´idea stessa di "razza", d´altronde. Il razzismo c´è. Allontanarlo da noi con un gesto di fastidio, non aiuta ad affrontarlo. Il razzismo esiste: in Italia come altrove. La storia e l´esperienza non rendono immuni neppure la Germania, l´Austria o la Francia.
Tuttavia, il confronto su base europea mostra come in Italia l´allarme sollevato dagli immigrati sia fra i più elevati. Il più alto, in assoluto, fra i paesi della vecchia Europa. Come emerge, chiaramente, dall´indagine europea curata da Demos, laPolis e Pragma (in collaborazione con Intesa Sanpaolo). In particolare, l´Italia è il paese dove l´allarme suscitato dagli stranieri è più forte, relativamente alla sicurezza e all´ordine pubblico, come denuncia una persona su due. In paese dove, al tempo stesso, i "pregiudizi positivi" si attestano su livelli più bassi. Meno della metà della popolazione accetta l´immagine degli immigrati come "risorsa dello sviluppo" oppure "fattore di apertura culturale". L´Italia, in particolare, è il paese in cui tutti gli indici di allarme son cresciuti maggiormente, negli ultimi anni. Come se qualcosa avesse abbassato le nostre difese, le nostre inibizioni. Alimentando la nostra paura. Madre del razzismo, come ha scritto Zygmunt Bauman nei giorni scorsi sulla Repubblica. Il razzismo, allora, forse non è un´emergenza, come ha sostenuto ieri il ministro Maroni. Ma lo è sicuramente la xenofobia. Letteralmente: la "paura dello straniero". Che ha diverse cause, comprensibili, e che vanno comprese, se la vogliamo contrastare. Una su tutte: la distanza fra rappresentazione e realtà. La realtà è che ci siamo trasformati in un paese di immigrazione, dopo che per oltre un secolo è avvenuto il contrario. In poco più di un decennio il peso degli immigrati è passato dallo 0 virgola al 5-6% della popolazione. In alcune aree, soprattutto nel Nordest e nelle province più produttive del Nord, questa misura è doppia, talora tripla. In dieci anni o poco più abbiamo raggiunto e superato paesi in cui questi processi hanno storia e tradizione assai più lunghe. Abbiamo "il primato dell´immigrazione veloce", come hanno scritto i demografi Billari e Dalla Zuanna, in un recente saggio ("La rivoluzione nella culla", Università Bocconi Editore). La realtà è che ci siamo adattati altrettanto in fretta. Non siamo stati travolti. In particolare, le zone dove si registrano i maggiori indici di integrazione (come sottolinea il periodico rapporto della Caritas) sono proprio quelle dove l´immigrazione ha assunto proporzioni più ampie. Il Veneto, la Lombardia, il Friuli Venezia Giulia. Fra le province: Bergamo, Treviso, Vicenza. Dove, cioè, la Lega è più forte. Ma la rappresentazione è opposta, perché proprio qui la "paura dell´altro" è più elevata. In altri termini: abbiamo accolto e integrato milioni di stranieri ? perché ne abbiamo bisogno, dal punto di vista economico, dell´assistenza, ma anche della demografia. Ma si stenta ad ammetterlo, ad accettarlo. In parte, è inevitabile. Flussi di stranieri tanto ampi e tanto rapidi generano inquietudine. Soprattutto se non sono regolati da politiche adeguate (sociali e urbane), a livello locale. Se si "permette" la concentrazione degli stranieri in ampie periferie degradate.
La paura, tuttavia, è alimentata dall´uso politico dell´immigrazione. Dal fatto che la paura degli immigrati e dei rom "paga". In termini elettorali e di consenso. La stessa legislazione riflette questo sentimento. Si preoccupa di rassicurare assecondando la diffidenza. Promette di "arginare" gli stranieri alle frontiere. Oppure di regolarne i flussi, in base a quote irrealistiche. Con l´esito che gli stranieri continuano ad entrare, lasciando dietro sé una scia di morte che non emoziona quasi nessuno. E quando sono in Italia diventano "clandestini". Per legge. Per la stessa ragione, si irrigidiscono le restrizioni agli istituti che rafforzano l´integrazione. Primo fra tutti: i ricongiungimenti familiari. Così gli stranieri diventano viandanti di passaggio. "Altri" da cui difendersi.
Invece di promuovere un modello ? magari involontario - che ci ha permesso di "sopportare" e, anzi, di integrare flussi di immigrati così imponenti in così poco tempo, ci si affretta a negare l´evidenza. Si indossa la maschera più dura. Perché la faccia tollerante non è di moda. Fa perdere consensi. Per contrastare il razzismo, si dovrebbe, quindi, combattere la paura. Invece, viene lasciata crescere in modo incontrollato. E molti, troppi, la coltivano. Questa pianta dai frutti avvelenati, che cresce nel giardino di casa nostra.

Repubblica 6.10.08
In Italia il timore per lo straniero immigrato è più alto che negli altri paesi della "vecchia Europa"
Sicurezza e lavoro i temi più caldi
di Fabio Bordignon


L´Italia è tornata ad essere la "penisola della paura". Il VI rapporto su Immigrazione e cittadinanza in Europa, curato da Demos-LaPolis-Pragma per Intesa Sanpaolo, sembra riportarci indietro di quasi 10 anni. I risultati dell´indagine, di cui Repubblica offre un´anteprima, delineano una società inquieta di fronte al fenomeno dell´immigrazione. Dopo una fase di parziale riassorbimento, l´allarme è tornato sui livelli del 1999. Anzi, li ha superati. Tanto da riproporre la specificità dell´Italia in Europa.
Sicurezza e lavoro: attorno a queste due dimensioni tende a svilupparsi la "paura dello straniero". Solo in seconda battuta entrano in gioco fattori di matrice religiosa e culturale. Se circoscriviamo l´analisi ai quattro paesi dell´Europa occidentale inclusi nell´indagine, l´Italia è il contesto dove la paura generata dalla presenza straniera tocca i massimi livelli. Già nel 1999, il peso di quanti associavano immigrazione e criminalità aveva raggiunto il 46%: il dato più alto su scala continentale. Nella fase successiva, l´atteggiamento degli italiani si è prima "normalizzato", per poi subire una nuova inversione di rotta. Oltre il 50%, nell´autunno del 2007, afferma di vedere negli immigrati un pericolo per la sicurezza, e la rilevazione più recente fa segnare un valore di poco inferiore (45%, nel 2008). La "geografia sociale" della xenofobia trova i suoi punti di maggiore intensità fra i lavoratori autonomi e le casalinghe, nelle regioni del Centro-Sud, fra gli elettori del PdL e della Lega.
Anche nel Regno Unito la preoccupazione si presenta elevata (37%), mentre è più contenuta in Francia (22%) e Germania (29%). A differenza di quanto avviene in Italia, negli altri paesi l´immigrazione suscita allarme soprattutto per motivi legati all´occupazione. Il tema è particolarmente sentito nel Regno Unito, dove il 48% dei cittadini vede l´immigrato come un concorrente per il posto di lavoro, ma anche in Francia (26%) e Germania (36%). Parallelamente, in Italia è più limitata la quota di persone che valuta in modo positivo il contributo dell´immigrazione, come risorsa per l´economia e l´apertura culturale: circa il 45%, mentre negli altri tre paesi oscilla fra il 50% e il 70%.

Corriere della Sera 6.10.08
Troppe tentazioni
di Giuseppe De Rita


Alcuni ripetuti episodi di insofferenze e di violenza nei confronti di stranieri e di immigrati hanno nelle ultime settimane dato spazio a due fenomeni d'opinione collettiva molto frequenti in Italia. Da un lato la messa in fila e in evidenza mediatica di tali episodi ha fatto pensare che di evento in evento si possa arrivare a un grande avvento, quello del razzismo come nuova grande malattia italiana; e conseguentemente si è scatenata la sequela di dichiarazioni di segnalazione e denuncia del pericolo; di dialettica culturale e di scontro politico; di riaffermazione dei principi di civile convivenza che ha nei secoli contraddistinto la nostra società.
Per carità, abbiamo il dovere di aver paura del razzismo e di riproporre atteggiamenti e comportamenti di adeguata nobiltà. Ma non si sfugge all'impressione che vi sia un notevole scollamento fra le polemiche in corso, con inevitabile loro calor bianco, e la più fisiologica e silenziosa evoluzione del modo in cui si fa quotidianamente integrazione di immigrati nelle fabbriche, nelle famiglie, nelle realtà locali italiane.
Ogni società fa integrazione attraverso lo sfruttamento delle proprie componenti socio-economiche dominanti: la Germania attraverso la grande impresa, quella che ha metabolizzato senza traumi milioni e milioni di turchi; la Gran Bretagna attraverso i mille percorsi di una multiculturalità ricevuta in eredità dai trascorsi imperiali; la Francia attraverso una regolazione assistenzialista a forte e nota tradizione statalista. Noi facciamo integrazione utilizzando anche inconsciamente le tre grandi componenti del modello italiano: facciamo integrazione nella piccola e piccolissima impresa dove gli immigrati trovano un clima relativamente sereno e parametri di responsabilizzazione personale tanto che non a caso, imitandoci, corrono anche l'avventura imprenditoriale; facciamo integrazione nelle famiglie, dove milioni di collaboratori domestici e di badanti entrano lentamente nella dinamica sociale quotidiana; facciamo integrazione nelle piccole città, nei paesi, nei borghi, dove milioni di immigrati trovano un alto tasso di socializzazione collettiva e sperimentano un adeguato tasso di controllo sociale.
Qualcuno ha parlato in proposito di integrazione «morbida» certo un po' esagerando specialmente se si ricorda che dai tre processi sopra citati restano fuori due inquietanti realtà: quella delle grandi città e delle loro periferie nella cui anomia senza socializzazione si intrecciano pericolosamente la devianza degli immigrati e l'aggressività di bulli e teppisti indigeni; e quella delle zone di forte criminalità organizzata dove la vulnerabilità sociale è più alta e dove possono intrecciarsi devianze di diversa origine e potenza. Ma è proprio su queste due sorgenti di inquietudine e pericolo che vanno focalizzate attenzione e impegno senza dimenticare che esse andrebbero affrontate anche se non ci vivesse neppure un immigrato; e senza soprattutto cedere alla diffusa attuale tentazione di ragionare su una generale «deriva razzistica».
È questa tentazione naturale per chi vive di drammatizzazioni sovrastrutturali (mediatiche o politiche che siano); ed è una tentazione doverosa per chi deve ricordare grandi principi di civiltà collettiva; ma è una tentazione che ci allontana dalla realtà, dai processi e dai percorsi su cui senza clamori si fa integrazione sociale di immigrati, processi e percorsi inadatti certo all'enfatizzazione mediatica e alla cultura degli eventi, ma incardinati saldamente in quella forza della lunga durata che ci ha sempre accompagnato nel tempo.

Repubblica 6.10.08
Il potere delle parole. "Il sacramento del linguaggio"
di Giorgio Agamben
Quando si rompe il giuramento


È fondamentale la relazione etica che si stabilisce tra il parlante e la sua lingua
Votandosi al "logos" l´uomo decide di mettere in gioco la sua vita e il suo destino

Pubblichiamo parte di un capitolo del nuovo libro di , "Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento", che uscirà a giorni da Laterza (pagg. 107, euro 14)

I linguisti hanno spesso cercato di definire la differenza fra il linguaggio umano e quello animale. Benveniste ha opposto in questo senso il linguaggio delle api, codice di segnali fisso e il cui contenuto è definito una volta per tutte, alla lingua umana, che si lascia analizzare in morfemi e fonemi la cui combinazione permette una potenzialità di comunicazione virtualmente infinita. Ancora una volta, tuttavia, la specificità del linguaggio umano rispetto a quello animale non può risiedere soltanto nelle peculiarità dello strumento, che ulteriori analisi potrebbero ritrovare - e, di fatto, continuamente ritrovano - in questo o quel linguaggio animale; essa consiste, piuttosto, in misura certo non meno decisiva, nel fatto che, unico fra i viventi, l´uomo non si è limitato ad acquisire il linguaggio come una capacità fra le altre di cui è dotato, ma ne ha fatto la sua potenza specifica, ha messo, cioè, in gioco nel linguaggio la sua stessa natura.
Come, nelle parole di Foucault, l´uomo «è un animale nella cui politica ne va della sua vita di essere vivente», così egli è anche il vivente nella cui lingua ne va della sua vita. Queste due definizioni sono, anzi, inseparabili e dipendono costitutivamente l´una dall´altra. Al loro incrocio si situa il giuramento, inteso come l´operatore antropogenetico attraverso cui il vivente, che si è scoperto parlante, ha deciso di rispondere delle sue parole e, votandosi al logos, di costituirsi come il «vivente che ha il linguaggio». Perché qualcosa come un giuramento possa aver luogo, è necessario, infatti, poter innanzitutto distinguere, e articolare in qualche modo insieme, vita e linguaggio, azioni e parole - e questo è precisamente ciò che l´animale, per il quale il linguaggio è ancora parte integrante della sua prassi vitale, non può fare. La prima promessa, la prima - e, per così dire, trascendentale - sacratio si produce attraverso questa scissione, in cui l´uomo, opponendo la sua lingua alle sue azioni, può mettersi in gioco in essa, può promettersi al logos.
Qualcosa come una lingua umana ha potuto, infatti, prodursi solo nel momento in cui il vivente, che si è trovato cooriginariamente esposto tanto alla possibilità della verità che a quella della menzogna, si è impegnato a rispondere con la sua vita delle sue parole, a testimoniare in prima persona per esse. E come il mana esprime, secondo Lévi-Strauss, l´inadeguatezza fondamentale fra significante e significato, che costituisce "la servitù di ogni pensiero finito", così il giuramento esprime l´esigenza, per l´animale parlante in ogni senso decisiva, di mettere in gioco nel linguaggio la sua natura e di legare insieme in un nesso etico e politico le parole, le cose e le azioni.
Solo per questo qualcosa come una storia, distinta dalla natura e, tuttavia, a essa inseparabilmente intrecciata, ha potuto prodursi. È nel solco di questa decisione, nella fedeltà a questo giuramento, che la specie umana, per la sua sventura come per la sua ventura, in qualche modo ancora vive. Ogni nominazione è, infatti, duplice: è benedizione o maledizione. Benedizione, se la parola è piena, se vi è corrispondenza fra il significante e il significato, fra le parole e le cose; maledizione se la parola resta vana, se permangono, fra il semiotico e il semantico, un vuoto e uno scarto. Giuramento e spergiuro, bene-dizione e male-dizione corrispondono a questa duplice possibilità iscritta nel logos, nell´esperienza attraverso cui il vivente si è costituito come essere parlante. Religione e diritto tecnicizzano questa esperienza antropogenetica della parola nel giuramento e nella maledizione come istituzioni storiche, separando e opponendo punto per punto verità e menzogna, nome vero e nome falso, formula efficace e formula scorretta. Ciò che era «detto male» diventa in questo modo maledizione in senso tecnico, la fedeltà alla parola cura ossessiva e scrupolosa delle formule e dei riti appropriati, cioè religio e ius. L´esperienza performativa della parola si costituisce e si separa così in un «sacramento del linguaggio» e questo in un «sacramento del potere». La "forza della legge" che regge le società umane, l´idea di enunciati linguistici che obbligano stabilmente i viventi, che possono essere osservati o trasgrediti, derivano da questo tentativo di fissare l´originaria forza performativa dell´esperienza antropogenetica, sono, in questo senso, un epifenomeno del giuramento e della maledizione che l´accompagnava.
Paolo Prodi apriva la sua storia del "sacramento del potere" con la constatazione che noi siamo oggi le prime generazioni che vivono la propria vita collettiva senza il vincolo del giuramento e che questo mutamento non può non implicare una trasformazione delle modalità di associazione politica. Se questa diagnosi coglie in qualche misura nel vero, ciò significa che l´umanità si trova oggi davanti a una disgiunzione o, quanto meno, a un allentamento del vincolo che, attraverso il giuramento, univa il vivente alla sua lingua. Da una parte sta ora il vivente, sempre più ridotto a una realtà puramente biologica e a nuda vita, e, dall´altra, il parlante, separato artificiosamente da esso, attraverso una molteplicità di dispositivi tecnico-mediatici, in un´esperienza della parola sempre più vana, di cui gli è impossibile rispondere e in cui qualcosa come un´esperienza politica diventa sempre più precaria. Quando il nesso etico - e non semplicemente cognitivo - che unisce le parole, le cose e le azioni umane si spezza, si assiste infatti a una proliferazione spettacolare senza precedenti di parole vane da una parte e, dall´altra, di dispositivi legislativi che cercano ostinatamente di legiferare su ogni aspetto di quella vita su cui sembrano non avere più alcuna presa. L´età dell´eclissi del giuramento è anche l´età della bestemmia, in cui il nome di Dio esce dal suo nesso vivente con la lingua e può soltanto essere proferito "in vano".
E´ forse tempo di mettere in questione il prestigio di cui il linguaggio ha goduto e gode nella nostra cultura, in quanto strumento di potenza, efficacia e bellezza incomparabili. Eppure, considerato in se stesso, esso non è più bello del canto degli uccelli, non è più efficace dei segnali che si scambiano gli insetti, non può potente del ruggito con cui il leone afferma la sua signoria.
L´elemento decisivo che conferisce al linguaggio umano le sue virtù peculiari non è nello strumento in se stesso, ma nel posto che esso lascia al parlante, nel suo predisporre dentro di sé una forma in cavo che il locutore deve ogni volta assumere per parlare. Cioè: nella relazione etica che si stabilisce fra il parlante e la sua lingua. L´uomo è quel vivente che, per parlare, deve dire "io", deve, cioè, "prendere la parola", assumerla e farla propria.
La riflessione occidentale sul linguaggio ha impiegato quasi due millenni per isolare, nell´apparato formale della lingua, la funzione enunciativa, l´insieme di quegli indicatori o shifters ("io", "tu", "qui", "ora", ecc.) attraverso i quali colui che parla assume la lingua in un atto concreto di discorso. Ciò che la linguistica non è, però, certamente in grado di descrivere è l´ethos che si produce in questo gesto e che definisce l´implicazione specialissima del soggetto nella sua parola. E´ in questa relazione etica, il cui significato antropogenetico abbiamo cercato di definire, che il "sacramento del linguaggio" ha luogo. Proprio perché, a differenza degli altri viventi, l´uomo per parlare deve mettersi in gioco nella sua parola, egli può, per questo, benedire e maledire, giurare e spergiurare.
Alle origini della cultura occidentale, in un piccolo territorio ai confini orientali dell´Europa, era apparsa un´esperienza di parola che, tenendosi nel rischio tanto della verità che dell´errore, aveva pronunciato con forza, senza né giurare né maledire, il suo sì alla lingua, all´uomo come animale parlante e politico. La filosofia comincia nel momento in cui il parlante, contro la religio della formula, mette risolutamente in questione il primato dei nomi, quando Eraclito oppone logos a epea, il discorso alle parole incerte e contraddittorie che lo costituiscono o quando Platone, nel Cratilo, rinuncia all´idea di una corrispondenza esatta fra il nome e la cosa nominata e, insieme, avvicina onomastica e legislazione, esperienza del logos e politica. La filosofia è, in questo senso, costitutivamente critica del giuramento: essa mette, cioè, in questione il vincolo sacramentale che lega l´uomo al linguaggio, senza per questo semplicemente parlare a vanvera, cadere nella vanità della parola. In un momento in cui tutte le lingue europee sembrano condannate a giurare in vano e in cui la politica non può che assumere la forma di una oikonomia, cioè di un governo della vuota parola sulla nuda vita, è ancora dalla filosofia che può venire, nella sobria consapevolezza della situazione estrema cui è giunto nella sua storia il vivente che ha il linguaggio, l´indicazione di una linea di resistenza e di svolta.

Corriere della Sera 6.10.08
La legge. I medici giudicano le norme sull'Ivg a trent'anni dalla loro entrata in vigore
Le cifre Diminuito il numero degli interventi legali. I tempi di attesa sono sempre più lunghi
194, aumentano gli obiettori «Tanti gli aborti clandestini»
I ginecologi: 15 mila tra le italiane
di Mario Pappagallo


Il 22 maggio del 1978 l'Italia approvava la legge 194. L'interruzione volontaria della gravidanza (Ivg) diventava legale. Prima della 194 gli aborti clandestini venivano stimati in oltre 250.000 all'anno. Oggi, purtroppo, se ne fanno ancora 15 mila. Perché?
A 30 anni di distanza sono i ginecologi italiani a tracciare il bilancio di come la 194 è applicata. Domani a Torino, durante l'84mo congresso della Sigo (si chiuderà l'8 ottobre) che riunisce tremila specialisti provenienti da tutt'Italia, verrà presentata un'indagine effettuata in 45 centri italiani. Ecco qualche numero. Nel 2007 sono state effettuate 127.038 interruzioni, con un decremento del 3% rispetto al dato definitivo del 2006 (131.018 casi) e un decremento del 45,9% rispetto al 1982, anno in cui si è registrato il più alto ricorso all'aborto (234.801 casi). Nel corso degli anni è andato crescendo il numero degli interventi effettuato da donne straniere, raggiungendo nel 2006 il 31,6% del totale, mentre, nel 1998, tale percentuale era del 10,1%. «Questo fenomeno — dice Giorgio Vittori, presidente della Società italiana di ginecologia e ostetricia — nasconde la diminuzione del ricorso all'Ivg in atto tra le donne italiane».
Comunque, nell'applicazione della 194, non mancano gli spunti negativi su cui riflettere: tra i medici aumentano gli obiettori, vi sono ancora aborti clandestini, vanno migliorati i rapporti ospedali-consultori, sono in aumento gli aborti nelle minorenni.
Gli aborti clandestini si fanno ancora nonostante la legge. La stima è di 15.000: il dato riguarda solo le italiane, in quanto non si dispone di stime affidabili per le donne straniere. E il numero potrebbe salire a 30 mila se si conoscesse la situazione delle immigrate, soprattutto clandestine. Sono peraltro cresciuti i procedimenti penali per aborto clandestino: dai 26 del 1995, ai 41 del 2007. Nel 1997, il 37% dei procedimenti penali riguardava medici, dato sceso al 17% nel 2007. Aumenta quindi il numero di aborti fuorilegge praticati da paramedici, «mammane», ecc. «È frutto della forte presa di posizione di noi ginecologi nel condannare le illegalità — commenta Giovanni Monni, presidente dei ginecologi ospedalieri (Aogoi) —. I dati sul ricorso all'aborto fuori dalle strutture sanitarie restano però allarmanti». Ed emerge un fenomeno nuovo: l'aborto «fai da te». Conferma Monni: «Si tratta di Ivg con pillole acquistate su internet o in mercati illegali. Fra le più diffuse le prostaglandine, antiulcera che possono avere un effetto abortivo soprattutto all'inizio della gravidanza, con elevato rischio di emorragie e infezioni».
L'Italia, inoltre, è agli ultimi posti nel mondo occidentale nell'uso di metodi contraccettivi. Motivi? Per scelta (53%), scarsa conoscenza (38%), errato utilizzo (9%). La pillola, che ha rappresentato una svolta culturale ed epocale per la sessualità della donna, è molto poco usata nel nostro Paese. Ancor meno usato il preservativo. Tra gli effetti nefasti, l'aumento degli aborti tra le minorenni. «Cresce fra le minorenni — aggiunge Vittori —. E aumentano quelle con meno di 14 anni che abortiscono: dallo 0,5% del totale nel 1995 all'1,2% nel 2005». La maggior parte di richieste al giudice da parte delle minorenni arriva da 17enni (il 50,2%) e 16enni (30,3%). Ma le 14enni sono il 4,2%. «Complessivamente — spiega Vittori — l'età media è passata dai 17 anni del 1995 ai 16 anni e 9 mesi del 2005».
Nell'applicazione della 194 qualcosa non va anche nelle strutture. «In particolare — commenta Emilio Arisi, responsabile della ricerca Sigo — solo nel 34,2% dei centri viene oggi garantito di poter eseguire l'intervento in anestesia locale. Resta più diffusa l'anestesia generale, più pericolosa e maggiormente dispendiosa. Altra nota dolente è il rapporto diretto fra ospedale e consultorio: i protocolli di collaborazione, esistenti nel 71% dei casi, spesso vivono solo sulla carta. Nel 73% dei casi è la stessa paziente ad effettuare la prenotazione, a fronte di solo il 23% in cui provvede il consultorio».
In aumento anche i tempi di attesa tra il rilascio della certificazione e l'intervento, un dato legato anche all'altissimo numero di obiettori dentro gli ospedali: il 72% dei medici e il 59% dei primari, e solo il 39,5% degli ospedali assicura la presenza di personale non obiettore disponibile per ogni turno. Qualcuno paventa anche che in alcune Regioni «la carriera si giochi a favore di chi obietta». Obiettori in aumento? A livello nazionale, per i ginecologi si è passati negli ultimi anni dal 58,7% al 69,2%; per gli anestesisti dal 45,7% al 50,4%. In alcune Regioni l'aumento è molto rilevante, soprattutto nel Sud. In Campania gli obiettori sono quasi raddoppiati (i ginecologi sono passati dal 44,1% all'83%; gli anestesisti dal 40,4% al 73,7%; il personale non medico dal 50% al 74%). In Sicilia, i ginecologi obiettori sono saliti dal 44,1% all'84,2% e gli anestesisti dal 43,2% al 76,4%. Ma anche al Nord. In Veneto, l'obiezione è superiore al dato nazionale: 79,1% dei ginecologi; 49,7% degli anestesisti; 56,8% del personale non medico. «Anche trent'anni fa, comunque — commenta Mario Campogrande, presidente del Congresso —, erano prevalenti gli obiettori rispetto a chi applica la legge». Certo se aumentano ancora potrebbero esserci problemi organizzativi. Già oggi vi sono migrazioni in centri della stessa città o addirittura in Regioni dove i numeri di operatori sono adeguati. «E l'importante — conclude Vittori — è che non si creino discriminazioni a svantaggio delle donne». Ma c'è chi vede in questi dati una delle concause di tempi d'attesa ben oltre il consentito in certe Regioni del Sud e di quei 15 mila aborti clandestini. Soprattutto le minorenni potrebbero ricorrere alle «mammane» o a Internet per risolvere il «problema». Anche perché la cosiddetta pillola del giorno dopo, che non è quella abortiva, incontra ostacoli nel nostro Paese: non è facilmente reperibile come in buona parte d'Europa.
Riguardo, infine, alla RU-486 (la pillola abortiva) utilizzata in cinque Regioni (Trento, Emilia Romagna, Toscana, Marche e Puglia), nel 2007 è stata utilizzata per 1.070 aborti (erano stati 1.151 nel 2006). Conseguenze negative per la salute delle donne? Non ne risultano.

Corriere della Sera 6.10.08
La ginecologa Alessandra Kustermann: ignorata dalle giovanissime, che non hanno informazioni corrette sulla contraccezione
La pillola che non piace alle ragazze
Solo due donne su dieci la usano come anticoncezionale. Prima volta senza precauzioni
di Giulia Ziino


L'esperta. Alessandra Kustermann, ginecologa, responsabile del servizio di Diagnosi prenatale della Mangiagalli di Milano: «È importante promuovere la conoscenza della pillola»

MILANO — Pillola, questa sconosciuta. Per le donne italiane, che in fatto di uso dei contraccettivi ormonali risultano agli ultimi posti in Europa. Con un 20,2% (la fonte è il primo rapporto sui lavori della Commissione Salute delle donne) nel l'Italia è quintultima in classifica in quanto a percentuale d'impiego della contraccezione ormonale tra le donne tra 15 e 44 anni: sotto di noi solo Spagna, Repubblica Slovacca, Polonia e Grecia. L'Olanda, prima in classifica, segna un 51,9%. Una differenza che rivela quanto le italiane utilizzino poco la pillola. E il tasso di disaffezione è più alto tra le giovanissime se, come dimostrano i sondaggi della Società italiana di ginecologia e ostetricia (Sigo), una su tre affronta la sua prima volta senza precauzioni. Ci sono stati progressi (dal 1986 al 2002 l'uso dei contraccettivi ormonali nel nostro Paese è passato dal 6 al 20%) ma le percentuali sono ancora basse. Per mancata conoscenza della pillola (38%) o per un'errata valutazione dei suoi «effetti collaterali», come la paura di ingrassare, spauracchio per il 20-30% delle donne ma conseguenza realmente fondata solo nel 4-6% dei casi.
Ma la disaffezione delle ragazze italiane per la pillola ha anche delle ragioni di carattere sociale. «In Italia — spiega Alessandra Kustermann, ginecologa, responsabile del servizio di Diagnosi prenatale della Mangiagalli di Milano — l'età media del primo rapporto sessuale si attesta, nei dati del Global sex survey 2004, sui 17,6 anni. Un'età relativamente alta rispetto agli altri paesi europei: sopra di noi ci sono solo Spagna, Slovacchia e Polonia, la Germania si attesta sui 16,2, il Regno Unito sui 16,7, la Francia sui 17,1. Questa sessualità relativamente tardiva fa sì che le ragazze arrivino in media al rapporto sessuale comunque più coscienti di come autoregolamentare la propria sessualità attraverso metodi contraccettivi poco sicuri come il coito interrotto, l'astinenza periodica o il condom, ma pur sempre in grado di diminuire la percentuale di gravidanze. Inoltre, il preservativo ha il vantaggio di diminuire il rischio di contrarre malattie sessualmente trasmesse. La pillola resta il metodo contraccettivo ideale per le giovani donne che abbiano rapporti sessuali frequenti e non vogliano assolutamente correre il rischio di restare incinte: in altri casi, in cui l'età è più avanzata o la possibilità di avere un figlio è un rischio che, per mutate condizioni economiche o di vita affettiva, si può correre, molte optano per altri metodi. Tutto questo unito al fatto che in Italia l'età media in cui si va via di casa è piuttosto alta (dunque per le giovanissime avere una vita sessuale libera è più complicato) rende così basso l'uso della pillola nel nostro Paese».
Una circostanza non auspicabile ma che non necessariamente ha una conseguenza diretta sul numero di gravidanze indesiderate e di aborti: «I dati — spiega ancora Kustermann — dimostrano che non c'è una corrispondenza diretta tra i due fenomeni: secondo la relazione 2008 presentata al Parlamento dal ministero della Salute, in Italia dal 1983 al 2006 gli aborti delle donne sotto i 20 anni sono calati del 2,5%, quelli delle donne tra 20 e 24 del 30,3%, tra 25 e 29 del 42,9%. Riduzioni notevoli a fronte di un aumento dell'uso della contraccezione ormonale non così elevato. Rispetto agli altri paesi europei, l'Italia è insieme alla Svizzera il paese con meno gravidanze e aborti nella fascia 15-19 anni. Al contrario, ci sono paesi come l'Inghilterra che, pur registrando un uso elevato della pillola, hanno un alto tasso di gravidanze e aborti tra le giovanissime. Questo dimostra che il nesso tra aumento della contraccezione ormonale e diminuzione degli aborti non è così automatico».
Ciò non toglie che promuovere la conoscenza della pillola sia comunque importante: «Da un rapporto del 2001 su pillola e giovanissimi — continua Kustermann — veniamo a sapere che il 68,8% dei giovani italiani trae le sue informazioni sulla contraccezione da tv, giornali e libri, il 22,4% dal partner, il 18,2% dagli insegnanti e solo l'11% dai medici. I giovani sanno ancora poco di contraccezione e hanno molti pregiudizi sulla pillola, ma il tasso relativamente basso di gravidanze e aborti dimostra che, alla fine, qualcosa arriva».

Corriere della Sera 6.10.08
Educazione comune Zanda: ragionevole. Nencini: troppo limitativa
Vacca, l'apertura ai cattolici divide i laici del centrosinistra
di Paolo Foschi


ROMA — Divide i laici del centrosinistra la proposta di Giuseppe Vacca lanciata ieri attraverso le colonne dell'Avvenire. L'ex esponente del Pci, attualmente presidente della Fondazione Istituto Antonio Gramsci, in un'intervista rilasciata al giornale della Conferenza episcopale ha chiesto che «tutti insieme», laici e cattolici, «si prenda in mano la questione educativa ». L'idea è di creare un «fronte comune», un'alleanza che passi attraverso il concetto «dell'allargamento della ragione » laica per combattere «l'emergenza educativa» di cui il presidente Giorgio Napolitano ha parlato due giorni fa con Papa Benedetto XVI nell'incontro al Quirinale. «Trovo molto rilevante — ha dichiarato Giuseppe Vacca — che il presidente faccia sua questa espressione che la Chiesa usa da tempo. Emergenza educativa che non significa crisi della scuola, ma è qualcosa di più ampio, giacché gli agenti educanti non sono più solo quelli tradizionali, e la questione educazione oggi non può prescindere dall'influenza straordinaria dei media».
La posizione di Giuseppe Vacca ha suscitato reazioni contrapposte. «Premesso che non conosco a fondo la posizione del professore su questa tematica, considero l'appello a fare fronte comune assolutamente ragionevole — afferma Luigi Zanda, senatore del Pd di area laica —, questo però a patto che si intenda il fronte comune come impegno a risolvere i problemi sul metodo del confronto e delle possibili convergenze. Non ci vedo nulla di male».
Di tutt'altro avviso invece è Riccardo Nencini: «C'è una differenza fondamentale fra laici e cattolici — ha commentato il segretario del Partito socialista —. Il laico è chi ha un atteggiamento critico e non dogmatico nella pratica. Il cattolico invece ha un atteggiamento dogmatico. Se ci può essere un punto di vista coralmente condiviso, ben venga, ma non per la sottomissione ai valori cattolici. Se penso all'educazione scolastica, il riferimento Costituzionale non prevede insegnamenti dogmatici. E in generale etica e vita pubblica devono essere svincolati dal dogmatismo religioso, lasciando piena libertà ai laici».
Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione ma anche credente (valdese), è contrario alla contaminazione Stato-Religione. «Il problema è secondo me complesso — ha affermato l'ex ministro —, perché l'emergenza educativa andrebbe prima di tutto inquadrata diversamente e riguarda tutta la società, a cominciare dai valori che vengono trasmessi da esponenti di un partito di governo come la Lega. Penso a Borghezio che organizza raduni anti-islamici, facendo passare ai giovani messaggi di tipo razzista. Prima di fare un fronte comune, serve un senso di responsabilità maggiore da parte di tutti». Secondo Paolo Ferrero, «sono comunque condivisibili alcune posizioni della Chiesa, su immigrazione e solidarietà sociale, ma non possiamo dimenticare le chiusure sulle libertà religiosa e sulle questioni etiche. Per questo trovo difficili le convergenze sui temi dell'educazione».

Corriere della Sera 6.10.08
Incontri Il famoso psicoanalista e filosofo racconta il crollo dei poteri tradizionali (economico e militare) e il fascino duraturo dello stile di vita
Pop e hamburger salveranno l'America
James Hillman: la crisi della storia produce un risveglio delle coscienze, soprattutto sui temi ambientali
di Ranieri Polese


SIRACUSA — Quante volte è stato a Siracusa, professore? «Con questa, sono quattro volte ». Una in più di Platone. «Sì, in effetti una volta in più, ma — James Hillman ride — Platone era venuto qui con grandi ambizioni, voleva creare in questa città il governo perfetto. Pensava che i tiranni di Siracusa fossero pronti a realizzare il suo ideale di Stato. Le cose andarono diversamente, e ogni volta il grande filosofo dovette scappare dalla città, tremendamente deluso. Io no. Sono qui per una lezione sull'architettura ("L'anima dei luoghi. Il corpo nello spazio", con il professor Carlo Truppi, oggi a Palazzo Vermexio, ndr), non sono qui per imporre un modo di governare, per cambiare il mondo. Certo, vedo il mondo come va, dico quello che penso su quanto sta succedendo, suggerisco un modo di pensare a quello che accade.
Insomma, chiedo a tutti di non sottovalutare certi segnali. Che oggi mi sembrano talmente forti, difficili da ignorare… ».
E Siracusa? «C'ero venuto l'ultima volta sei anni fa (da quella conferenza-incontro, sempre con il professor Truppi della Facoltà di Architettura, è nato il libro L'anima dei luoghi, uscito da Rizzoli nel 2004, ndr). È una città mirabile, per questo mescolarsi di epoche, l'antica Grecia, il cristianesimo, il Barocco: l'isola di Ortigia è un posto unico al mondo. Purtroppo, arrivando, mi è sembrato che le raffinerie lungo la costa siano aumentate. Danno occupazione e lavoro, certo, ma mettono anche in pericolo la bellezza del luogo». E di questo Hillman ha parlato all'ex sindaco della città Titti Bonfardici, ora vicepresidente e assessore al turismo della Regione Sicilia.
Ottantadue anni, con sempre una inesauribile voglia di viaggiare, lo psicoanalista e filosofo James Hillman è uno degli autori più amati e più letti in Italia. Libri come Saggio su Pan
o Il codice dell'anima (entrambi Adelphi) sono dei longseller; ogni sua apparizione in pubblico (Mantova, la Milanesiana ecc.) registra il tutto esaurito. Della sua conferenza tenuta a Capri, nel settembre 2007, l'editore La Conchiglia ha appena pubblicato il testo col titolo La giustizia di Afrodite, traduzione a fronte di Silvia Ronchey.
Lei parla di segnali. Nel suo Codice dell'anima
diceva che il daimon invia dei segnali a ciascuno di noi per farci capire cosa non fare. Poi noi decidiamo come agire. È una teoria che vale non solo per gli individui e le loro scelte private, ma anche per le collettività e i grandi problemi? «Certo. Guardiamo un po' il crollo del capitalismo finanziario che si è consumato in questi giorni in America. Da tempo c'erano segnali. Cominciando dagli anni Novanta, con le bubbles
giapponesi e il crac della borsa di Tokyo. A seguire ci sono stati i disastri delle economie asiatiche, del Brasile eccetera.
Ma sembra che nessuno ne abbia tenuto conto… Nemmeno Ben Bernanke, il presidente della Federal Reserve, uno che pure ha studiato le grandi crisi economiche del Novecento».
Vuol dire che la storia si ripete, nonostante tutto? «È un'idea radicata e diffusa, uno dei modi con cui si guarda al futuro. Certi avvenimenti ricordano fatti precedenti, la crisi di oggi non può non richiamare quella del 1929. Anche se poi ci sono molte differenze, per esempio il nuovo sistema globale, o la rapidità con cui oggi, con un clic sul computer, possiamo trasferire miliardi di dollari. Un grande pensatore americano del Novecento, Georges Santayana, diceva che solo chi non conosce la storia è condannato a ripeterla. Ma poi, oggi, anche chi conosce la storia — Bernanke, per esempio — ripete gli stessi errori. Non solo nella politica economica. Prendiamo per esempio John McCain e la guerra in Iraq».
Anche lui ripete qualcosa di già visto? «Assolutamente sì. Quando il candidato repubblicano alla Casa Bianca ci dice che questa guerra dobbiamo vincerla perché non possiamo perderla; che, se ci ritirassimo ora, lasceremmo Al Qaeda libera di impadronirsi di tutto il Medio Oriente fino all'Afghanistan e al Pakistan, ecco quando dice queste cose ripete quello che diceva il presidente Lyndon Johnson sulla guerra del Vietnam. Usava, Johnson, la stessa teoria del domino: se molli una pedina, tutte le altre cadono. Allora si diceva in mano ai comunisti, oggi si parla di Al Qaeda. Ma il ragionamento è lo stesso». Qualcuno dice che il crac finanziario segna il crollo dell'America. «Ci sono due idee dell'America da considerare, come ho scritto in un articolo apparso mesi fa su Liberal, scritto dunque prima della caduta di Wall Street. C'è l'America della forza, dell'impero, l'America secondo Bush; e c'è l'America dell'immaginario, dell'American way of life, della cultura. La prima, sì, è crollata. La seconda invece resiste nonostante la crisi, ed è ancora forte. Se 300 milioni di cinesi studiano l'inglese, se tutto il mondo consuma hamburger, se i giovani giapponesi rifiutano il riso per mangiare il pane americano (che è terribile); se tutti gli emigranti del mondo sognano solo di venire a vivere in America, se la cultura pop è, insieme alla lingua, la cultura universale, tutto ciò vuol dire che questa idea d'America non è morta. Anzi, continua a prosperare. Forte com'è del fatto — prenda il pop americano, musica, cinema eccetera — che ha saputo inglobare, mischiare contributi del mondo intero, dal Brasile al Giappone, e formare un qualcosa che tutto il mondo consuma e apprezza. Il problema è che oggi l'America, arroccata com'è nella sua idea di potenza, non sa, non vuole cooperare con il resto del mondo, per esempio con la Russia».
C'è scontro, in effetti, tra Washington e Mosca. «Anche se, nella questione dei pirati in Somalia, Stati Uniti e Russia stanno collaborando. Ma poi, sulla crisi del Kosovo, sulla Georgia, torna a predominare la logica della contrapposizione ». Banche che falliscono, miliardi di dollari bruciati, il rischio della catastrofe: qual è il suo stato d'animo? «Non si scandalizzi, ma io, politicamente parlando, le dico che sono felice. Certo, vedo la gente che teme per i propri risparmi, non ce la fa a pagare i mutui eccetera. Però, per me, questo è un allarme salutare. Una sveglia per tutti, non solo per i padroni della finanza o gli uomini di Stato. Ci vuol dire, questo segnale, che bisogna ripensare tutto, vedere che il capitalismo avanzato non genera solo utili ma anche grandi problemi, che il cosiddetto mercato libero in realtà libero non è. Insomma, per me oggi siamo come nel novembre 1989, quando la caduta del Muro di Berlino ci fece aprire gli occhi sul comunismo. E la crisi del comunismo, a ben vedere, ha molti tratti simili con la crisi odierna del capitalismo».
In che senso? «Entrambi cadono per collasso, per implosione, insomma per fattori interni e non per l'azione di nemici esterni. Per il regime sovietico la minaccia veniva sempre da fuori. Non voleva vedere il sistema di corruzione, avidità, intrighi che lo minavano internamente; era un sistema che dichiarava anche con i suoi capi, Brezhnev per esempio, la sua senilità, l'impossibilità di un ricambio. Mi pare che questa diagnosi si possa ripetere per il capitalismo americano. Che non ha voluto vedere i giochi speculativi, le avidità degli uomini della finanza. Poi, anche in America, c'è la propensione a pensare che il pericolo viene sempre dagli altri, da fuori. Siamo, noi americani, convinti che i nemici ci minacciano sempre, siano essi i comunisti, Al Qaeda, i neri, i messicani che premono per entrare. È un tratto paranoico del nostro carattere nazionale. Come la convinzione che noi e solo noi siamo depositari del bene e della verità».
Un segnale d'allarme, un risveglio per la coscienza della common people, la gente comune, dunque. «Certo, non come gli attentati dell' 11 settembre, che generarono solo paura con le conseguenze che tutti conosciamo, guerre e tutto il resto. Oggi, questa crisi ci spinge a ripensare il modo di vivere generale, a cominciare dall'uso delle risorse energetiche. Ci spinge a pensare "verde", a non rischiare più la salute di questo pianeta».
Tra poche settimane, ci saranno le elezioni in America. James Hillman, per chi voterà? «Obama».

Corriere della Sera 6.10.08
Bioetica. La polemica tra Roberta de Monticelli e monsignor Giuseppe Betori
Spetta alla persona decidere sulla sua vita
di Vito Mancuso


Il 1˚ottobre monsignor Giuseppe Betori, segretario uscente della Cei, dichiara che sull'interruzione o meno delle cure «non spetta alla persona decidere». Il giorno dopo la filosofa Roberta de Monticelli scrive sul Foglio che «questa dichiarazione è la più tremenda, la più diabolica negazione dell'esistenza della possibilità stessa di ogni morale», e con ciò sancisce «l'addio a qualunque collaborazione diretta o indiretta con la Chiesa cattolica italiana». Il giorno dopo monsignor Betori replica su Avvenire,
distinguendo la libertà di coscienza (che approva) dal principio di autodeterminazione (che deplora). Non riuscendo a cogliere la pertinenza di tale distinzione, io chiedo in che senso la libertà di coscienza sarebbe diversa dalla libertà di autodeterminazione. Che cosa se ne fa un uomo di una coscienza libera a livello teorico, se poi, a livello pratico, non può autodeterminarsi deliberando su se stesso? Di se stessi infatti si tratta quando si parla di testamento biologico, della propria vita e della propria morte, non di quella di altri.
Il fatto è che noi cattolici non abbiamo le idee chiare in materia di libertà di coscienza.
L'abbiamo rivendicata contro l'Impero romano quando eravamo minoranza, poi l'abbiamo negata quando siamo diventati maggioranza, arrivando persino (noi che oggi difendiamo gli embrioni!) a uccidere chissà quante migliaia di eretici solo per il fatto che esercitavano la loro libertà di coscienza. Tale repressione della Chiesa era motivata dalla difesa della verità, oggettivamente superiore alla capacità soggettiva di intenderla. Oggi che i Papi sono paladini della libertà di coscienza, si è forse svenduto il primato della verità? No, si è semplicemente fatto un passo in avanti, capendo che il rapporto dell'uomo con la verità passa necessariamente attraverso la coscienza. Il primato oggettivo della verità permane, ma non è tale da sopprimere la libertà della coscienza, la quale può persino giungere a rifiutare la verità; e immagino che anche monsignor Betori sia contrario a punire con il rogo una tale condotta.
Allo stesso modo questo vale per la vita fisica. L'affermazione del primato della vita come dono non può esercitarsi a scapito di chi, tale dono, non lo riconosce o non lo vuole più. Se è un dono, dono deve rimanere, e non trasformarsi in un giogo. Nel Vangelo è lampante la libertà di cui si gode: i figli se ne possono andare da casa, le pecore allontanarsi dal gregge, persino le monete si possono perdere. Dio rispetta l'autodeterminazione dei singoli. Se così non fosse, non sarebbe la fede ciò che ci lega a lui, ma l'evidenza che non ammette deviazioni. Insomma a me pare che sia molto più evangelica (oltre che molto più moderna) l'identificazione tra libertà di coscienza e principio di autodeterminazione sostenuta da Roberta de Monticelli, che non la loro distinzione sostenuta da monsignor Betori. Ma ho fiducia nello Spirito: come la Chiesa è giunta ad accettare la libertà di coscienza sulla dottrina, così giungerà ad accettare la libertà del soggetto rispetto alla propria (alla propria, non a quella di altri!) vita biologica. Spetta alla persona decidere; non ai medici (che vanno ascoltati), non ai vescovi (che vanno ascoltati), ma alla persona, a ognuno di noi.

l’Unità 6.10.08
Sanità e ospedali: evitare i tagli è necessario
di Luigi Cancrini


Gentile professore,
come lei sa e come il bellissimo articolo di Furio Colombo ha raccontato, è stata decisa la chiusura dell’ospedale San Giacomo. Personal-
mente lo ritengo un errore culturale, scientifico ed assistenziale grave e quindi politicamente miope. Come medico e come persona in contatto con i familiari ed i pazienti "psichiatrici" che hanno utilizzato più volte il reparto di psichiatria del San Giacomo sono preoccupato. Sono preoccupato che questo reparto venga trasferito, smembrato, che non operi più in questa importante area di Roma: il "centro" non è solo "storico", è pieno di disagio, di uomini e donne che ci lavorano, di povera gente che cerca tra i rifiuti una propria vita e di chi vi arriva smarrita da altri paesi e da altri mondi. Togliere a questa parte di Roma la psichiatria vuol dire togliere il dato antropologico del disagio. Negarlo. Per far posto invece ad una immagine del "benessere", tanto fragile appunto da voler vedere annientato qualsiasi dolore intorno a sé per poter esistere.
G. De Tibertis

Mi sono detto tante volte, pensando agli entusiasmi che gli amministratori di sinistra (ma anche del centro e della destra) dimostrarono per la legge voluta da Basaglia, che quello che soprattutto piaceva a loro, in quanto amministratori, era l’idea (che non aveva nulla a che fare con quella di Basaglia) di poter considerare l’ospedale psichiatrico e la psichiatria come la vera causa del disturbo psichiatrico. Superare l’ospedale e sostituirlo con il nulla della normalità era fantastico non solo dal punto di vista di chi ha bisogno di negare il male e la sofferenza inventandosi (o accettando) soluzioni tremendamente semplici ma anche da quello, per loro fondamentale, del risparmio. Interpretata da molti, in buona o in cattiva fede, come una riforma senza costi e capace ugualmente, tuttavia, di migliorare la condizione delle persone che stanno male, la legge scritta a quel tempo con tanto entusiasmo diede luogo, in molte parti d’Italia, ad una situazione in cui la psichiatria tornò ad essere la cenerentola della sanità. Una spesa in più, fastidiosa ed evitabile per dei pazienti che, alla fine, di provvedimenti sociali e d’affetto solidale hanno bisogno più che di cure costose e di altro livello professionale.
La vicenda del reparto psichiatrico del San Giacomo di cui tu mi parli, caro G., è, da questo punto di vista, una vicenda esemplare. Sostanzialmente ignorata nel dibattito in corso, essa potrebbe (dovrebbe) essere messa in primo piano, invece, da quello che viene presentato come un progetto di riorganizzazione dei servizi nel centro (nel cuore) della città. Tenendo conto seriamente di tre argomenti fondamentali.
Il primo e più importante di questi argomenti è quello legato alla carenza strutturale, nota da decenni a tutti gli operatori del settore, di posti letto psichiatrici nei nostri ospedali. Malati e famiglie sono costretti spesso, per questa carenza grave ed ingiustificata, a vere e proprie deportazioni (il lungo viaggio in ambulanza del malato legato) in ospedali della Provincia (per esempio a Monterotondo) e della Regione (per esempio Ceccano). Quando vengono ricoverati a Roma, d’altra parte, questi stessi malati rischiano di essere dimessi dopo uno o due giorni di degenza anche quando le loro condizioni consiglierebbero di prolungare la degenza, di stare disperatamente male fuori e di dover rientrare drammaticamente dentro (altre contenzioni e altre deportazioni) a distanza di poche ore o di pochi giorni in una situazione in cui quella che domina è solo e sempre la fretta di farli uscire "per carenza di posti letto". Quanto sia folle in queste condizioni (la follia degli amministratori non li porta mai al ricovero per fortuna, altrimenti i posti liberi non ci sarebbero mai) chiudere il Pronto Intervento ed i posti letto psichiatrici del San Giacomo disperdendo il personale che li ha tenuti in attività fino ad oggi possono dirlo solo gli operatori, i malati e le loro famiglie. La Regione se ne era forse in parte resa conto l’11 agosto 2008 quando solennemente affermò che il San Giacomo andava chiuso ma che i posti letto della psichiatria e della nefrologia sarebbero stati mantenuti. Oggi, tuttavia, di questo mantenimento non si parla più: a ulteriore riprova, in fondo, del modo disattento e confuso in cui tutta questa vicenda è stata condotta.
Il secondo argomento riguarda la spesa psichiatrica. La mancanza di posti letto negli ospedali è compensata infatti, a Roma, da un numero di posti letto psichiatrici convenzionati che è superiore di circa 10 volte a quello delle altre Regioni italiane. L’AIOP che li coordina ha strappato d’altra parte, al tempo di Storace, condizioni estremamente vantaggiose (e molto discutibili dal punto di vista medico ed amministrativo) per i proprietari delle cliniche che la Giunta Marrazzo ha sostanzialmente mantenuto: la spesa per la psichiatria è altissima per questo motivo nel Lazio. Quello che è davvero difficile accettare, ora, è che il risparmio lo si faccia diminuendo le attività di un pubblico già insufficiente senza preoccuparsi, in nessun modo, di un privato straripante. E così avviene, tuttavia, in una Regione in cui il "privato è bello" di Berlusconi è già ampliamente applicato: nel campo, almeno, della psichiatria con risultati che non sono, purtroppo, per niente soddisfacenti.
Il terzo e ultimo argomento è quello, più generale, del modo in cui Governo e Regioni stanno affrontando in questi anni il tema della spesa sanitaria. L’idea che i tagli sono "dolorosi ma necessari" continua ad essere proposta infatti come l’unica di cui si deve tenere conto. Il problema da mettere in primo piano dovrebbe essere, invece, quello legato ad una programmazione intelligente in quanto capace di rispondere ai bisogni reali delle persone. Risparmiando (come sicuramente è possibile, a Roma, nel Lazio e altrove, sulle spese superflue o gonfiate che sono molte) dalla avidità dei privati convenzionati e dalla negligenza o dalla corruzione (ampiamente provata, purtroppo) di troppi amministratori.
Sono personalmente convinto, avendo avuto per quindici anni responsabilità di programmazione degli interventi sanitari della Regione Lazio, che la chiusura del San Giacomo sia un errore. Destinare ad altro uso una struttura sanitaria legata con tanta forza alle abitudini e ai bisogni dei cittadini romani ha un senso solo per chi crede nell’ importanza prioritaria dei tagli ed avrà ripercussione negative sulla efficienza e sulla funzionalità della rete ospedaliera romana. Aggiungere al danno certo della chiusura del San Giacomo la beffa di una perdita seria dei posti letto della psichiatria e della nefrologia sarebbe, tuttavia, la prova di una irresponsabilità assoluta. In cui davvero, da cittadino, non voglio credere.

l’Unità 6.10.08
Afghanistan. L’ammissione a un giornale britannico arriva pochi giorni dopo che il presidente Karzai aveva invitato il mullah Omar, leader degli integralisti, a trattare
Perfino il generale inglese si arrende: «Non possiamo vincere. Negoziare con i talebani»
di Gabriel Bertinetto


Altro che vittoria. Un pareggio andrebbe benissimo. Dopo le aperture del presidente Hamid Karzai, che offre al mullah Omar un negoziato per una futura compartecipazione al potere, si pronuncia apertamente per il dialogo anche il comandante delle forze britanniche in Afghanistan, generale Mark Carleton-Smith. Ed è quanto mai significativo che a queste conclusioni arrivi non un politico ma un militare, cioè chi di mestiere si occupa di guerra più che di diplomazia.
L’alto ufficiale affida al Sunday Times sagge considerazioni sull’impossibilità di sconfiggere la rivolta talebana. L’obiettivo è piuttosto ridurre la ribellione «ad un livello gestibile, che non costituisca una minaccia strategica e che possa essere affrontata dall’esercito afghano». In altre parole, togliamoci dalla testa di eliminare l’opposizione armata in Afghanistan. Prepariamo piuttosto il terreno affinché le forze regolari locali siano in grado, dopo il nostro ritiro, di tenerla sotto controllo. Oppure -e qui Carleton-Smith trae coraggiose deduzioni politiche dalla sua drammatica esperienza di comando militare nel sud Afghanistan, dove le truppe inglesi constatano ogni giorno la forza dell’insurrezione talebana-, accettiamo di venire a patti con il nemico.
Siamo a questo punto. Sette anni dopo il rovesciamento della dittatura teocratica, la comunità internazionale è alle prese con la crisi di un progetto di rinascita democratica e ricostruzione materiale nel quale aveva investito rilevanti risorse politiche, militari, economiche. Era un obiettivo apparentemente alla portata di un fronte così ampio e concorde. A differenza di quello che sarebbe poi accaduto meno di due anni dopo per la sciagurata avventura irachena di Bush, nel settembre 2001 il mondo intero si era schierato per la cacciata dei mullah e delle bande di Al Qaeda loro ospiti. Una missione di evidente legittimità. Per l’avallo dell’Onu, e per la chiarezza dell’obiettivo: liberare un popolo oppresso dalla morsa di oppressori retrivi e violenti, distruggere il retroterra logistico di una minaccia terroristica di portata planetaria.
L’impresa, iniziata sotto i migliori auspici, si è incagliata nelle secche della superficialità politica e culturale dei suoi protagonisti. Gli Usa in particolare, il Paese maggiormente impegnato nell’operazione, hanno puntato sulla superiore potenza di fuoco dei loro aerei, elicotteri, e reparti speciali. Salvo poi limitare il numero delle forze impegnate sul campo, per potere destinare il grosso degli effettivi al conflitto mesopotamico. L’inadeguatezza quantitativa dei contingenti dispiegati dagli Stati Uniti e dagli altri Paesi è però uno degli errori e forse non il più importante. Si è sbagliato quando ci si è illusi che lo svolgimento di elezioni sul modello delle democrazie occidentali bastasse ad avvicinare i cittadini afghani alle neonate istituzioni statali. Non si è stati sempre capaci di convogliare gli aiuti economici attraverso canali che non si perdessero nel fiume della corruzione e dell’inefficienza burocratica. Non si è cercato di capire le particolarità culturali e sociali di una società multietnica, strutturata secondo vincoli di tipo tribale. Non bastava il voto individualmente favorevole a Karzai o ai suoi deputati per legare gli afghani alla nuova Repubblica democratica. Era necessario che i leader tradizionali, i capi-clan, gli anziani delle comunità di quartiere o dii villaggio fossero più e meglio coinvolti nel processo di rinascita civile ed economica. Karzai ed una parte della classe dirigente afghana l’hanno capito e ci hanno provato. Ma non sempre hanno trovato una sponda solida e convinta negli sponsor stranieri. E quando alcuni governi amici hanno provato a percorrere quella strada (vedi le iniziative del governo Prodi e del ministero degli Esteri guidato da D’Alema nel 2007) qualcuno a Washington o altrove ha fatto sapere che certe iniziative rischiavano di essere velleitarie e che bisognava prima di tutto combattere. E se per uccidere un guerrigliero o un terrorista si bombardava un villaggio facendo strage di civili, pazienza.
Tanti errori sommati gli uni agli altri hanno fatto il gioco dei talebani. Alla fine del 2001 erano dispersi ed isolati. Sono riusciti a risalire la china attraverso l’uso metodico della violenza, dell’intimidazione e della potenza finanziaria derivante dal narcotraffico. Ma hanno soprattutto riempito un vuoto di iniziativa politica da parte degli avversari. Karzai l’ha capito così a fondo da proporre loro un compromesso. Il generale Carleton Smith pure. Forse troppo tardi.

Repubblica 6.10.08
Mantegna. L’artista della pittura scolpita
Una grande retrospettiva al Louvre


Le duecento opere esposte permettono un percorso cronologico ricco di originali e di suggestivi confronti
Trasformò la corte mantovana nel celebre avamposto dell´arte italiana
Entrò a servizio dai Gonzaga nel 1458 e vi restò fino alla morte nel 1506
Il sodalizio con Giovanni Bellini forte come quello Picasso-Braque
La prima sezione affronta lo studio dove lavorò quasi bambino a Padova

PARIGI. Pochi grandi artisti del Rinascimento possono vantare una fortuna espositiva pari a quella di cui ha goduto Mantegna, a partire dall´ormai mitica retrospettiva mantovana del 1961, che nell´Italia del primo boom economico aprì la strada all´era delle grandi mostre, per continuare con la altrettanto straordinaria esposizione che si tenne nel ?92, prima alla Royal Academy londinese e poi al Metropolitan di New York. Un percorso trionfale che sembrava essersi un po´ inceppato due anni fa, quando la ricorrenza del V centenario della morte dell´artista fu celebrata in Italia con una pluralità di mostre di vario livello, la più discutibile delle quali fu proprio quella organizzata nella città in cui l´artista spese la maggior parte della sua carriera, dominando ininterrottamente la scena per un cinquantennio.
A risarcire prontamente il danno d´immagine provocato da questo deprecabile incidente di percorso, giunge ora questa magnifica retrospettiva parigina a cura di Giovanni Agosti e Dominique Thiébaut (Mantegna 1431-1506, Louvre, con il sostegno dell´Eni, fino al 5 gennaio), che ha le carte in regola per segnare nella storia della fortuna critica dell´artista una tappa non meno memorabile di quelle del ?61 e del ?92.
Fin da quando era in vita, Mantegna godette in Francia di una fama eccezionale, tanto che nel 1499 Georges d´Amboise, ministro di Luigi XII, nel manifestare al marchese Francesco Gonzaga, che monopolizzava l´attività dell´artista, il suo ardente desiderio di ottenere una tavola dipinta da Mantegna per la sua cappella palatina, non esitò a definirlo «el primo pittore del mondo». La morte dell´artista, ma ancor più l´arrivo di Leonardo in Francia affievolirono un po´ questo entusiasmo, che però riprese presto a vigoreggiare grazie anche alla precoce presenza in territorio transalpino di importanti opere del maestro e alla diffusione delle sue invenzioni tramite stampe e placchette in bronzo. Può dunque ben dirsi che la fortuna critica del Mantegna in Francia non ha mai conosciuto momenti di crisi, come dimostrano l´impatto delle sue opere su un protagonista del ?600 come Poussin e la presenza di parecchi suoi capolavori nelle più prestigiose raccolte francesi del XVII e XVIII secolo. Per non dire di quell´ardente «ritorno di fiamma» che si manifestò nel tardo ?800 e che vide in prima fila i coniugi Jacquemart-André, intenti a non lasciarsi sfuggire neppure una delle sue rare opere ancora sul mercato, sostenuti dall´entusiasmo di studiosi come Yriarte e da romanzieri del calibro di Proust.
Potendo contare sul nutrito gruppo di capolavori mantegneschi presenti nei musei francesi, ma anche sul concorso generoso di tante prestigiose raccolte di tutto il mondo - con la deprecabile eccezione della Carrara di Bergamo, delle Gallerie veneziane dell´Accademia e della Ca´d´Oro e della Gemäldegalerie berlinese che non hanno voluto essere all´altezza dell´occasione - i due curatori della mostra sono riusciti ad allestire un percorso espositivo forte di 200 opere, distribuite in dieci sezioni che scandiscono in ordine cronologico la carriera dell´artista, illustrandone ogni snodo con una grande ricchezza di originali e di appropriati confronti. Giovanni Agosti è senza dubbio lo studioso italiano che maggiormente ha contribuito negli ultimi anni a rilanciare gli studi su Mantegna, con scritti in cui l´erudizione e l´intelligenza critica sono surriscaldate da un´acuta sensibilità estetica e da una scoppiettante vena letteraria. Thiébaut ha saputo coadiuvarlo egregiamente, tenendo ben ferma la barra di una mostra che sa parlare anche al grande pubblico, ma rifugge da ogni semplificazione banalizzante. Esemplari, sotto questo punto di vista, le brevi ma dense didascalie che accompagnano ogni singola opera, fornendo al visitatore un prezioso filo d´Arianna.
Pur conferendo all´insieme un´impronta unitaria e personale, Agosti e Thiébaut hanno curato in proprio solo una sezione ciascuno, affidando le altre otto a specialisti. Aldo Galli e Laura Cavazzini, ad esempio, hanno curato la prima, intitolata «Padova, crocevia artistico», in cui si segue la precocissima ascesa di Andrea, che entra a dieci anni nella fervida bottega dello Squarcione, frequentata da giovani artisti di belle speranze venuti da ogni dove, ne assorbe il clima di curiosità antiquaria alimentato dagli umanisti dello Studio padovano e si confronta con la dominante personalità di Donatello, che è presente in città per un intero decennio.
Più di ogni altro, fu proprio quel genio fiorentino a marchiare a fuoco la fantasia figurativa del giovane Andrea, imprimendo nel suo stile quella minerale durezza del marmo e forbitezza del bronzo, che hanno fatto non a caso parlare di «pittura scolpita». La sezione che segue, curata da Bellosi, è fra le più emozionanti e innovative, mostrandoci Andrea, che nel ?53 ha sposato la figlia di Jacopo Bellini, Nicolosia, procedere «in cordata» con il giovane cognato, Giovanni Bellini, in un sodalizio così stretto e reciprocamente proficuo da indurre Agosti ad evocare quello che legò Braque e Picasso negli anni eroici del primo Cubismo. Segue una sezione curata da De Marchi, il cui fulcro è la presentazione unitaria dei tre pannelli della predella del Trittico di San Zeno, che di norma sono divisi tra il Louvre e il Museo di Tours, mentre la quarta sezione, a cura di Marco Tanzi, affronta il primo decennio mantovano dell´artista, che entrando al servizio dei Gonzaga nel ?58 per restarvi fino alla morte (1506), prende in mano le redini dell´intera produzione artistica, trasformando quella corte padana, fino ad allora culturalmente periferica, nel più celebrato avamposto dell´arte italiana. La quinta sezione ruota attorno al famoso San Sebastiano proveniente da Aigueperse, il primo capolavoro di Mantegna entrato in Francia quando il pittore era ancora nel pieno della sua attività, mentre la sesta è dedicata al denso capitolo della diffusione delle invenzioni mantegnesche tramite l´incisione e le arti applicate, un espediente cui l´artista si dedicò intensamente anche per affrancarsi dallo stretto controllo sulla sua produzione esercitato dai Gonzaga, suoi signori e padroni. Le due sezioni successive poggiano quasi esclusivamente sulle straordinarie raccolte del Louvre, essendo dedicate, la settima alla Madonna della Vittoria, che è del ?95-´96, e l´ottava al celebre Studiolo di Isabella d´Este, che la mostra offre l´eccezionale occasione di vedere al completo, con le due tele di Mantegna, assieme a quelle di Perugino, di Costa e di Correggio, esposte proprio come lo erano nella Corte mantovana. Dopo la sezione dedicata ai Trionfi, che grazie alla generosità della regina inglese può vantare la presenza di una delle nove celeberrime tele della Royal Collection, la mostra si chiude in modo avvincente con una sezione in cui le ultime opere di Mantegna, prossimo alla morte, si alternano a quelle del giovane Correggio, rivelandoci come il trapasso da un mondo che andava inesorabilmente tramontando e il nuovo universo figurativo della «maniera moderna», non si sia consumato in modo improvviso e violento, ma come un naturale passaggio di testimone: il sorgere di un nuovo e vigoroso virgulto, capace però di trarre ancora alimento dalle radici di una vecchia quercia abbattuta.

Repubblica 6.10.08
PARIGI. Picasso e i maestri
Galeries Nationales du Grand Palais


Dall'8 ottobre. Da vedere la mostra evento che ripercorre l'opera del maestro spagnolo in rapporto allo studio dei capolavori del passato, prendendo in esame il suo «cannibalismo pittorico» senza precedenti nella storia dell'arte. Organizzata in collaborazione con il Musée du Louvre (qui c'è la sezione dedicata a "Les femmes d'Alger" di Delacroix) e con il Musée d'Orsay (dove è allestita quella riservata a "Le déjeuner sur l'herbe" di Manet), l'esposizione, curata da Anne Baldessari e Marie-Laure Bernadac, fornisce attraverso duecento opere un primo, raffinato bilancio di questa particolare metodologia di lavoro che rompe con la tradizione della copia, della parafrasi, della citazione. Formatosi con il padre, docente e direttore dell'Accademia di Malaga, e in altre scuole d'arte, Picasso disegna dall'antico, confrontandosi con Michelangelo e Raffaello, e copia i dipinti dei grandi maestri spagnoli. Questo lungo apprendistato, mai banale, lo conduce nel tempo a operare la più radicale delle innovazioni formali: il cubismo. Trasposizione, mimetismo, svisamento, snaturazione sono alcune componenti della strategia dell'artista nei confronti dei suoi pittori prediletti, che porta l'arte contemporanea sulla strada della duplicazione perversa, dell'ironia e del pastiche.

Repubblica 6.10.08
Mantova. Il Cammeo Gonzaga. Arti preziose alla corte di Mantova
Fruttiere di Palazzo Te. Dal 12 ottobre



Celebri per la loro magnificenza, le raccolte dei signori di Mantova erano costituite da dipinti e sculture, che furono poi acquistati in gran parte da Carlo I nel 1627-28. La mostra, curata da Ornella Casazza, prende invece in esame gli oggetti d'arte, facenti parte dello studiolo del Castello di San Giorgio, voluto da Isabella d'Este. Il percorso, costituito da centoventi opere tra dipinti e oggetti preziosi, racconta il gusto della famiglia per il bello. A partire dal Cammeo Gonzaga, databile al III secolo a. C., raffigurante Tolomeo II Filadelfo e Arsinoe II, appartenuto a Isabella d'Este e oggi conservato all'Ermitage di San Pietroburgo. La visita inizia con il dipinto da Raffaello che ritrae Elisabetta con un pendente a forma di scorpione. Da vedere inoltre le sezione dedicate a Giulio Romano e a Rubens.

Repubblica 6.10.08
"Il confronto in Parlamento"
D´Alema: "Orticaria per la parola dialogo" Comizio con Vendola


BARI - «Trovo stucchevole la discussione sul dialogo. Dirò di più: mi fa venire l´orticaria, perché siamo in Parlamento per confrontarci». Massimo D´Alema sposta il tiro sulle cose concrete. In un faccia a faccia con il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, nel corso della prima festa del Pd di Terra di Bari, l´ex ministro degli Esteri auspica interventi del governo per far fronte alla crisi economica mondiale. «Il problema - dice - non è il dialogo per il dialogo, ma trovare soluzioni. Se il governo si fa promotore di programmi di investimenti e di provvedimenti per ridurre le tasse ai più poveri, noi sicuramente ci saremo per dialogare». Nichi Vendola parla del suo futuro politico. «Io sto in Rifondazione comunista - spiega - ma se diventa restaurazione comunista mi sarà difficile restare. Tuttavia, deve essere chiaro che il Pd non è la mia casa. A sinistra del Partito democratico, c´è bisogno di uno spazio grande: io rappresento una minoranza che vive con la vocazione di diventare maggioranza». Allo stesso tempo, Vendola auspica che il centrosinistra torni a dialogare: «È un errore aver organizzato due manifestazioni nazionali, una l´11 e l´altra il 25 ottobre. Ne sarebbe bastata una sola. Mi auguro, comunque, che entrambe mettano al centro la difesa del sindacato nel diritto a rappresentare il mondo del lavoro, perché è in atto un assalto al contratto nazionale di lavoro e alla Cgil».
Sul futuro dei rapporti tra la sinistra vendoliana e il Pd non si è sottratto Massimo D´Alema, senza tuttavia sollevare polemiche: «Noi dobbiamo guardare con attenzione a quel che avviene a sinistra, ma non spetta a noi dirimere dall´esterno il destino di Rifondazione. Dove va Nichi Vendola lo vedremo poi». Intanto, ha proseguito l´ex ministro degli Esteri, «noi abbiamo interesse che questa sinistra non si autoemargini in un culto del passato: dobbiamo prestare attenzione, essere aperti al dialogo, incoraggiare i processi di rinnovamento senza la pretesa che tutto si riassuma all´interno del Partito Democratico».
(raffaele lorusso)

Repubblica 6.10.08
"Legale il sesso tra prof e studenti" Proposta shock nella scuola inglese


LONDRA - Polemiche in Gran Bretagna per la proposta della segretaria generale di uno dei principali sindacati degli insegnanti di non processare i professori che hanno rapporti sessuali consenzienti con studenti di età superiore ai 16 anni.
Chris Keates - leader della National Association of Schoolmasters Union of Women Teachers - ha affermato in un´intervista che è una «autentica anomalia» la legge in vigore dal 2001 che vieta in modo categorico ai professori ogni forma di «attività sessuale» con gli studenti della propria scuola sotto i 18 anni. A suo avviso la legge dovrebbe tenere conto dell´età minima del consenso per i rapporti intimi, attualmente 16 anni. «La legge - ha sostenuto la sindacalista in una intervista televisiva - sembra essere eccessiva quando si tratta di un rapporto consensuale, anche perchè non riguarda i rapporti di un insegnante con studenti di un´altra scuola».
La Nspcc, la principale associazione britannica di protezione dei minorenni, ha contestato la sindacalista e difeso la legge.