mercoledì 8 ottobre 2008

l’Unità 8.10.08
Torna centrale nel dibattito e nella polemica politica lo spettro di Carlo Marx: tutta colpa dei mutui e della crisi del capitalismo
Tremonti e Bersani, chi è il più comunista

Comunista non lo è mai stato. Giulio Tremonti lo ha tenuto a specificare. Recentemente ha rivalutato Marx, è vero, ma è stato solo per un momento. Non è mai stato neanche «un liberista selvaggio». Anche questo ha voluto specificare ieri. Semmai un innovatore, l’inventore delle cartolarizzazioni, che ha trasformato il mattone in titoli, della finanza creativa, dei condoni. Tutto ma non comunista o liberista. Lui no, ma Pier Luigi Bersani, anzi «Bersanov», sì. Comunista perché Bersani avrebbe usato, come ogni buon sovietico, carte false contro un avversario politico, e cioè lo stesso Tremonti, liberista perché soggiogato nella sua carriera politica «dalla City finanziaria», tanto da «trasferire i suoi denari da Mosca a Londra» e da «adottare lo stile di vita dei manager».
Che avrebbe fatto dunque “Bersanov” per meritare tanto livore? Ha ricordato, con il segretario del Pd Walter Veltroni, che nel 2003, solo cinque anni fa, l’allora ministro dell’Economia, e cioè Tremonti, aveva proposto nel Documento di programmazione economica e finanziaria, un piano per l’introduzione di «mutui ipotecari» anche in Italia. L’ipotesi era semplice. Gli stessi strumenti finanziari che sono alla base dell’attuale crisi mondiale potevano essere utilizzati dagli anziani per ipotecare la casa e avere soldi per far lievitare in questo modo i consumi. E non faceva nulla se poi erano creditori poco solvibili, a quello avrebbe pensato la finanza.
Quell’idea, ha contestato Tremonti, non venne tradotta in carta e quindi non esiste. «Un ministro risponde solo dei testi che firma». E in effetti ce ne sarebbero tanti per i quali il ministro potrebbe anche spendere una parola in più. Tralasciando le misure già ricordate, Tremonti potrebbe dire agli italiani a quanto ammontano, ad esempio, i contratti «swap» che il suo governo ha stipulato con la banca d’affari americana Lehman Brothers, recentemente finita a gambe all’aria.
Il difensore della massaia di Voghera, l’uomo che lancia in resta si è gettato contro i mercati finanziari e gli avidi manager che li hanno regolati fino a questo momento, ai quali il suo studio legale fa onostamente il 740, dopo aver infilzato banche e petrolieri potrebbe anche spiegare perché la scorsa settimana non si è presentato in Parlamento e non ha risposto alle domande dell’opposizione sui debiti finanziari «swappati» dal Tesoro. A noi, vecchi vetero comunisti sovietici, viene il dubbio, che questa assenza forzata derivi dal fatto che il ministro Tremonti, come ha spiegato anche il parlamentare ed economista del Pd Francesco Boccia, abbia dato vita a «un tentativo affannoso di coprire quelle perdite con altre operazioni di finanza derivata».
ro.ro.

l’Unità Lettere 8.10.08
La Bibbia, la maratona e le parole di Einstein


Cara Unità,
è un evento straordinario la maratona della Bibbia. Sei giorni e sei notti di interrotta lettura: 1250 lettori, dal papa a Benigni, da Andreotti alla Carfagna, da Ciampi all’uomo della strada. Farà conoscere il testo che pochi italiani, cattolici o non cattolici, hanno letto nonostante l’ora di religione. È bello pensare che questo grande originale progetto, a cui concorrono tanti uomini e donne e moderne tecnologie, promuova la conoscenza di un libro fondante dell’immaginario collettivo del mondo occidentale.
Ma vorremmo che fosse soprattutto un’operazione culturale e che, pertanto, a conclusione della lettura, ci fossero altrettanti giorni di discussione e di approfondimento che facciano conoscere la Bibbia per quello che è: un libro scritto dagli uomini e non da Dio. Altrimenti si farebbe un’operazione anticulturale e persino antireligiosa attribuendo a Dio ridicole fantasie, quali l’esistenza di giganti e di uomini tanto longevi da arrivare ad ottocento anni ed oltre, capaci di diventare padri a duecento anni, o che Sansone avesse la forza nei capelli, che uccise 1000 filistei armato di una micidiale mascella d’asino, che Giona sortì tutto intero dalla pancia di un pesce, che Dio fermò il sole per aiutare Giosuè e tante altre storie di questo tipo.
Sull’argomento una grande mente quale Albert Einstein aveva idee chiare. Nella lettera del 3 gennaio 1954 all’amico filosofo Eric Gutkind, sostiene che la Bibbia è: «una raccolta di leggende dignitose ma primitive» e altrove definisce la fede dogmatica una «infantile superstizione».

Repubblica 8.10.08
Discriminante far scegliere i professori dalla Chiesa
La Commissione di Bruxelles accoglie un esposto che ritiene violato il principio di uguaglianza
I dubbi della Ue sui docenti di religione "Assunti in base alla fede, l´Italia spieghi"
di Alberto D’Argenio


BRUXELLES - In Italia per diventare insegnante di religione, anche in una scuola pubblica, bisogna ottenere il via libera del vescovo. Una prassi in vigore dai Patti lateranensi del 1929 ma entrata in collisione con le regole europee che vietano qualsiasi forma di discriminazione in ragione del credo religioso di un lavoratore. E per vederci chiaro Bruxelles ha aperto un dossier e inviato una richiesta di informazioni al governo Berlusconi. Il caso nasce da una denuncia alla Commissione europea promossa dal deputato radicale Maurizio Turco, dall´avvocato Alessandro Nucara e dal fiscalista Carlo Pontesilli. Le accuse del pool radicale sono molto precise e si fondano sulle regole cardine dell´Unione europea. Afferma infatti la direttiva comunitaria del 2000 contro la discriminazione che un lavoratore non può essere discriminato per ragioni «fondate sulla religione". Ma c´è di più, visto che la parità di trattamento a prescindere dalla confessione è garantita anche dalla Dichiarazione universale dell´Onu, richiamata dal Trattato di Maastricht, e dalla Convenzione europea sui diritti dell´uomo. E, a quanto sembra, la regola in vigore da ottant´anni e confermata nel 1985 in seguito al rinnovo dei Patti firmato da Bettino Craxi va in un´altra direzione.
L´avallo vescovile, è la tesi radicale, rappresenta infatti una violazione delle regole comunitarie. A non andare è soprattutto la diversità di trattamento tra i professori di religione e quelli delle altre materie: chi vuole insegnare, infatti, deve svolgere un corso di abilitazione di un anno e poi sperare di diventare precario, prima tappa della sua incerta carriera. Chi insegna religione, sottolinea la denuncia recapitata a Bruxelles, invece deve solo ottenere la nomina vescovile (fatti salvi alcuni requisiti professionali) godendo dunque di un trattamento privilegiato vietato dalla Ue. E ovviamente va da sé che un ateo o un non cattolico non può diventare docente di religione, con palese discriminazione rispetto a chi è credente. Ma non finisce qui, visto che c´è anche una disparità di trattamento retributivo tra i circa 23 mila insegnanti di religione e gli altri, con i primi che prendono più soldi dei secondi. Prassi bocciata a luglio dalla giustizia italiana, che ha condannato il ministero dell´istruzione a parificare lo stipendio di un professore che ha fatto ricorso aprendo la strada a nuove singole denunce (in Italia non esiste il ricorso collettivo). Argomentazioni che hanno fatto breccia a Bruxelles, con la direzione generale Affari sociali e pari opportunità della Commissione europea che a cavallo dell´estate ha chiesto una serie di informazioni al governo riservandosi di decidere sul caso solo quando avrà letto la risposta, attesa a breve. Insomma, non si tratta ancora di una procedura formale contro l´Italia, ma l´invio di un questionario significa che la Ue nutre seri dubbi sulla legalità della nostra legge. Esattamente come avvenuto nel 2007, quando Bruxelles ha chiesto una serie di informazioni sui colossali sgravi fiscali accordati alla Chiesa. Un dossier, questo, ancora al vaglio della Commissione che, secondo diversi interlocutori, prende tempo viste le ingombranti pressioni politiche che spingono per un´archiviazione.

Repubblica 8.10.08
Il Latino, nuova lingua d´America
In dieci anni aumentato del 30% il numero di chi supera l´esame
Sorpresa, nei licei americani è di moda studiare latino
di Marina Cavallieri


Raggiunto il record degli ultimi trent´anni di ragazzi che traducono Orazio e Cicerone Il preside di una scuola di Brooklyn: "È lo studio che distingue le persone di successo"

ROMA. Sarà responsabile la crisi economica e dei valori o semplicemente colpa dei film dai grandi incassi, dal "Gladiatore" a "Troy" fino alle formule magiche di "Harry Potter", ma il paese più moderno e più avanzato del mondo torna all´antico e sui banchi di scuola sceglie di studiare il rigore, il passato ovvero il latino. Nelle scuole di New York ma anche in Nuovo Messico e Alaska, sempre più studenti si applicano alla lingua di Cicerone.
Si cimentano con i futuri e i participi, abituati ad un idioma sintetico e globale guardano indietro e scelgono di declinare rosa, rosae.
Un articolo del New York Times illustra una tendenza che forse è qualcosa di più di un episodio e qualcosa di diverso da una moda scolastica, è una ventata di classicismo che si diffonde nelle aule dove gli studenti navigano su Internet e comunicano con sms e chat. Crescono infatti i corsi di latino, fa proseliti la cultura dei "padri europei", un mondo non più noioso, obsoleto o snob, ma per i ragazzi semplicemente cool.
Le cifre sono sufficienti a far parlare di un fenomeno e a spingere ad indagare: negli ultimi due anni sono stati più di 134 mila gli studenti americani che si sono presentati all´Esame nazionale di latino, erano stati 124 mila del 2003 e i 101 mila del 1998. Gli studenti che superano l´Advanced Placement Test sono raddoppiati in dieci anni, più di 8 mila nel 2007. Non solo corsi di studio ma anche scuole come la Brooklyn latin school, sorta nel 2006, dove il preside Jason Griffiths spiega solennemente che il latino è «la lingua delle persone di successo». Non ci sono però solo i libri per studenti secchioni ma anche spettacoli per nuovi fans come quello che mette su il liceo di Scarsdale, nello stato di New York, che organizza ogni anno un banchetto per le Idi di marzo dove bisogna presentarsi vestiti con la toga. Gli studenti invece di inorridire sono aumentati del 14 per cento. È così che dopo il francese e lo spagnolo la lingua di Cicerone potrebbe raggiungere il tedesco nella classifica delle più studiate lasciando indietro il cinese, troppo lontano e oscuro anche se emergente.
«Non mi stupisce questo interesse, mi stupisce che arrivi adesso», dice in Italia Filippo Tarantino, preside e protagonista di una rete europea di scuole e insegnanti che promuove la cultura classica e i valori umanisti, si chiama Ewhum ed è attiva in nove paesi, dalla Spagna alla Romania. «Gian Battista Vico diceva che quando una nazione vuole nobilitarsi deve cercare le radici. Le nazioni più avanzate hanno capito che se vogliono radicarsi, devono andare al passato. Dal latino c´è molto da imparare, la sua logica è la cosa più istruttiva che ci sia, ma tutta la storia è ancora ricca d´insegnamenti: gli antichi romani sono riusciti a costruire un impero grandissimo e far parlare tanti popoli lo stesso linguaggio».
«Futuro latino» recitava un convegno recente che proponeva uno sguardo al passato per affrontare i rischi e le incognite della globalizzazione. «Credo che questo interesse si possa leggere anche come un antidoto alla modernità e ai suoi eccessi», spiega Michele Cortellazzo, docente di linguistica. «In Italia siamo ancora dentro ad un discorso di distacco e abbandono ma i paesi più avanzati possono volgersi al passato senza complessi». Il latino ha confini chiusi, «monolitici, è una lingua ancora governabile», nel mondo che cambia la lingua dei Cesari può essere anche rassicurante.

Repubblica 8.10.08
Il mondo drogato dalla vita a credito
di Zygmunt Bauman


Un quotidiano britannico ha pubblicato la storia di un cinquantunenne che ha accumulato un debito di 58.000 sterline su 14 carte di credito e finanziamenti vari. Con l´inpennata dei costi del carburante, dell´elettricità e del gas non riusciva più a pagare gli interessi.

Dall´industria dei prestiti è nata quella dei nuovi prestiti per pagare quelli vecchi
Il piano di Bush serve solo a rimettere in moto un meccanismo ormai inceppato

Deplorando, col senno di poi, la sconsideratezza che lo ha gettato in questa situazione spiacevole se la prendeva con chi gli aveva prestato il denaro: parte della colpa è anche loro, diceva, perché rendono terribilmente facile indebitarsi. In un altro articolo pubblicato lo stesso giorno, una coppia spiegava di aver dovuto drasticamente ridurre il bilancio familiare, ma esprimeva anche preoccupazione per la figlia, una ragazza giovane già pesantemente indebitata. Ogni volta che esaurisce il plafond della carta di credito subito le viene offerto in prestito altro denaro. A giudizio dei genitori le banche che incoraggiano i giovani a prendere prestiti per acquistare, e poi altri prestiti per pagare gli interessi, sono corresponsabili delle sventure della figlia.
C´era un vecchio aneddoto su due agenti di commercio che giravano l´Africa per conto dei rispettivi calzaturifici. Il primo inviò in ditta questo messaggio: inutile spedire scarpe , qui tutti vanno scalzi. Il secondo scrisse: richiedo spedizione immediata di due milioni di paia di scarpe, tutti qui vanno scalzi. La storiella mirava ad esaltare l´intuito imprenditoriale aggressivo, criticando la filosofia prevalente all´epoca secondo cui il commercio rispondeva ai bisogni esistenti e l´offerta seguiva l´andamento della domanda. Nel giro di qualche decennio la filosofia imprenditoriale si è completamente capovolta. Gli agenti di commercio che la pensano come il primo rappresentante sono rarissimi, se ancora esistono. La filosofia imprenditoriale vigente ribadisce che il commercio ha l´obiettivo di impedire che si soddisfino i bisogni, deve creare altri bisogni che esigano di essere soddisfatti e identifica il compito dell´offerta col creare domanda. Questa tesi si applica a qualsiasi prodotto, venga esso dalle fabbriche o dalle società finanziarie. La suddetta filosofia imprenditoriale si applica anche ai prestiti: l´offerta di un prestito deve creare e ingigantire il bisogno di indebitarsi.
L´introduzione delle carte di credito è stata un segno premonitore. Le carte di credito erano state lanciate sul mercato con uno slogan rivelatore e straordinariamente seducente: «Perché aspettare per avere quello che vuoi?». Desideri una cosa ma non hai guadagnato abbastanza per pagarla? Beh, ai vecchi tempi, ora fortunatamente andati, si doveva procrastinare l´appagamento dei propri desideri: stringere la cinghia, negarsi altri diletti, essere prudenti e parchi nelle spese e depositare il denaro così racimolato su un libretto di risparmio nella speranza di riuscire, con la cura e la pazienza necessarie, ad accumularne abbastanza per poter realizzare i propri sogni. Grazie a Dio e al buon cuore delle banche non è più così! Con la carta di credito si può invertire l´ordine: prendi subito, paghi dopo. La carta di credito rende liberi di appagare i desideri a propria discrezione: avere le cose nel momento in cui le vuoi, non quando te le sei guadagnate e te le puoi permettere.
Questa era la promessa, ma sotto c´era anche una nota in caratteri minuscoli, difficile da decifrare anche se facile da intuire in un momento di riflessione: quel perenne "dopo" ad un certo punto si trasformerà in "subito" e bisognerà ripagare il prestito. Il pagamento dei prestiti contratti per non aspettare e soddisfare subito i vecchi desideri, renderà difficilissimo soddisfarne di nuovi? Non pensare al "dopo", significò , come sempre, guai in vista. Si può smettere di pensare al futuro solo a proprio rischio e pericolo. Sicuramente il conto sarà salato. Più presto che tardi arriva la consapevolezza che allo sgradevole differimento dell´appagamento si è sostituito un breve differimento della vera terribile punizione per l´essere stati precipitosi. Ci si può togliere uno sfizio quando si vuole, ma anticipare il diletto non lo renderà più abbordabile? In ultima analisi, sarà differita solo la presa di coscienza della triste realtà.
Per quanto nociva e dolorosa, questa non è l´unica nota in caratteri minuscoli sotto la promessa del «prendi subito, paga dopo». Per evitare di limitare ad un solo prestatore il profitto derivante dalle carte di credito e dai prestiti facili, il debito contratto doveva essere (e così è stato) trasformato in un bene che procuri profitto permanente. Non riesci a ripagare il tuo debito? Non preoccuparti: a differenza degli avidi prestatori di denaro vecchio stile, ansiosi di veder ripagate le somme prestate entro termini ben precisi e non differibili, noi prestatori di denaro moderni e disponibili non ti chiediamo indietro i nostri soldi, bensì ci offriamo di prestartene altri per pagare il vecchio debito e avere un po´ di disponibilità (cioè di debito) in più per toglierti nuovi sfizi. Siamo le banche che dicono "sì", le banche disponibili, le banche col sorriso, come diceva una delle pubblicità più geniali.
Quello che nessuno spot diceva apertamente, lasciando la verità ai cupi presagi del debitore, era che le banche prestatrici in realtà non volevano che i debitori pagassero i debiti. Se lo avessero fatto entro i termini non sarebbero stati più in debito, ma sono proprio i loro debiti (il relativo interesse mensile) che i moderni, disponibili (e geniali) prestatori di denaro hanno deciso, con successo, di riciclare come fonte prima del loro profitto costante, assicurato (e si spera garantito). I clienti che restituiscono puntualmente il denaro preso in prestito sono l´incubo dei prestatori. Le persone che si rifiutano di spendere denaro che non abbiano già guadagnato e si astengono dal prenderlo in prestito, non sono di alcuna utilità ai prestatori ? perché sono quelli che (spinti dalla prudenza o da un senso antiquato dell´onore) si affrettano a ripagare i propri debiti alle scadenze. Una delle maggiori società di carte di credito presenti in Gran Bretagna ha suscitato pubbliche proteste (che certo avranno vita breve) nel momento in cui ha scoperto il suo gioco rifiutando il rinnovo delle carte ai clienti che pagavano ogni mese il loro intero debito, senza quindi incorrere in sanzioni finanziarie.
L´odierna stretta creditizia non è risultato del fallimento delle banche. Al contrario, è il frutto del tutto prevedibile, anche se nel complesso inatteso, del loro straordinario successo: successo nel trasformare una enorme maggioranza di uomini e donne, vecchi e giovani, in una genìa di debitori. Perenni debitori, perché si è fatto sì che lo status di debitore si auto-perpetui e si continuino a offrire nuovi debiti come unico modo realistico per salvarsi da quelli già contratti. Entrare in questa condizione, ultimamente, è diventato facile quanto mai prima nella storia dell´uomo: uscirne non è mai stato così difficile. Tutti coloro che erano nelle condizioni di ricevere un prestito, e milioni di altri che non potevano e non dovevano essere allettati a chiederlo, sono già stati ammaliati e sedotti a indebitarsi. E proprio come la scomparsa di chi va a piedi nudi è un guaio per l´industria calzaturiera, così la scomparsa delle persone senza debiti è un disastro per l´industria dei prestiti. Quanto predetto da Rosa Luxemburg si è nuovamente avverato: comportandosi come un serpente che si mangia la coda il capitalismo è nuovamente arrivato pericolosamente vicino al suicidio involontario, riuscendo ad esaurire la scorta di nuove terre vergini da sfruttare?
Negli Usa il debito medio delle famiglie è cresciuto negli ultimi otto anni ? anni di apparente prosperità senza precedenti- del 22 per cento. L´ammontare totale dei prestiti su carta di credito non pagati è cresciuto del 15%. E , cosa forse più minacciosa, il debito complessivo degli studenti universitari, la futura élite politica, economica e spirituale della nazione, è raddoppiato. L´insegnamento dell´arte di "vivere indebitati", per sempre, è ormai inserito nei programmi scolastici nazionali? Si è arrivati a una situazione molto simile in Gran Bretagna. Il resto dei Paesi europei segue a non grande distacco. Il pianeta bancario è a corto di terre vergini avendo già sconsideratamente dedicato allo sfruttamento vaste estensioni di terreno sterile.
La reazione finora, per quanto possa apparire imponente e addirittura rivoluzionaria per come emerge dai titoli dei media e dalle dichiarazioni dei politici, è stata la solita : il tentativo di ricapitalizzare i prestatori di denaro e di rendere i loro debitori nuovamente in grado di ricevere credito, così il business di prestare e prendere in prestito, dell´indebitarsi e mantenersi indebitato, potrebbe tornare alla "normalità". Il welfare state per i ricchi (che a differenza del suo omonimo per i poveri non è mai stato messo fuori servizio) è stato riportato in vetrina dopo essere stato temporaneamente relegato nel retrobottega per evitare invidiosi paragoni. Lo Stato ha nuovamente flesso in pubblico muscoli a lungo rimasti inattivi, stavolta al fine di proseguire il gioco che rende questo esercizio ingrato ma, abominevole a dirsi, inevitabile; un gioco che stranamente non sopporta che lo Stato fletta i muscoli, ma non può sopravvivere senza.
Quello che si dimentica allegramente (e stoltamente) in quest´occasione è che l´uomo soffre a seconda di come vive. Le radici del dolore oggi lamentato, al pari delle radici di ogni male sociale, sono profondamente insite nel nostro modo di vivere: dipendono dalla nostra abitudine accuratamente coltivata e ormai profondamente radicata di ricorrere al credito al consumo ogni volta che si affronta un problema o si deve superare una difficoltà. Vivere a credito dà dipendenza come poche altre droghe, e decenni di abbondante disponibilità di una droga non possono che portare a uno shock e a un trauma quando la disponibilità cessa. Oggi ci viene proposta una via d´uscita apparentemente semplice dallo shock che affligge sia i tossicodipendenti che gli spacciatori: riprendere (con auspicabile regolarità) la fornitura di droga.
Andare alle radici del problema non significa risolverlo all´istante. È però l´unica soluzione che possa rivelarsi adeguata all´enormità del problema e a sopravvivere alle intense, seppur relativamente brevi , sofferenze delle crisi di astinenza.
(Traduzione di Emilia Benghi)

Repubblica 8.10.08
Lodo Alfano
Referendum, la Sinistra insieme a Di Pietro


ROMA - Sabato prossimo comincerà ufficialmente la raccolta delle firme contro il Lodo Alfano. Ad annunciarlo è stato ieri il leader dell´Idv Antonio Di Pietro insieme a Arturo Parisi del Pd («ma non sono qui a nome del mio partito»), al segretario del Prc Paolo Ferrero, a Carlo Leoni della Sinistra Democratica e a Manuela Palermi del Pdci. «Questo referendum lo vinceremo» avverte Parisi, ma il risultato comunque importa poco perché la battaglia «è così importante che va combattuta comunque». È una battaglia in «difesa della democrazia» ha aggiunto Di Pietro.

Corriere della Sera 8.10.08
L'iniziativa L'ex pm sabato torna in piazza Navona: Guzzanti e Grillo? Li abbiamo invitati
«Referendum sul lodo Alfano» Alleanza Di Pietro-sinistra
Via alla raccolta di firme. Parisi tra i promotori
Manifestazioni separate per i due fronti anti-governo. L'ex ministro della Difesa: momento tragico


ROMA — Guzzanti e Grillo ci saranno? «E perché no? Noi li abbiamo invitati». Nessuna paura di una «piazza Navona 2», con insulti e isterismi, scomuniche e pentimenti? «E che, dobbiamo metterci il bavaglio? Figuriamoci, ci saremo tutti». Antonio Di Pietro lancia la carica, tutti in piazza sabato a Roma (e in altre 650 città) contro il lodo Alfano e per firmare il referendum. Iniziativa condivisa da Prc, Pdci e Sinistra democratica. Che però sfileranno in un loro corteo, più radicale, contro il governo, da piazza Esedra alla Bocca della Verità. Con possibile tappa congiunta a piazza Navona. Il Pd se ne starà prudentemente alla larga. Tranne Arturo Parisi, presente «non in nome del Pd» ma dei Democratici per la Democrazia. Veltroni, a Ballarò,
ribadisce le sue perplessità: «Se Di Pietro mi critica non mi fa nessuna impressione: oggi dice una cosa, domani il contrario».
Sabato, dunque, tutti (o quasi) in piazza. E poco importa se presto ci sarà una sentenza della Consulta: «E allora? Il Lodo è illegittimo ma anche immorale ». Si associa Paolo Ferrero, Prc, che denuncia «una legge Aradam Via
castale». E annuncia la riscossa: «Sabato finisce la ritirata». A Manuela Palermi, Pdci, il referendum pare «giusto, morale e di sinistra». Carlo Leoni, Sd, critica il Pd: «Non capisco, si lancia l'allarme di deriva democratica e poi non si fa nulla».
Parisi usa toni forti: «C'è il rischio che salti la democrazia, è il momento di serrare le fila. Il lodo Alfano ha aperto una stagione tragica: è un clamoroso abuso e un oltraggio alla democrazia ». Il referendum «si vince »: ma, comunque vada, «sarà un modo per lasciare a verbale la nostra indignazione».
A proposito di indignazione, a piazza Navona ce n'erano dosi da cavallo, vedi Guzzanti e Grillo. Quest'ultimo ne ha ancora da vendere: «Siamo in un socialcapitalismo da rapina, Veltroni è Topo scemo, se crolla il mercato piazzale Loreto non basta più per contenere la banda». In Borsa Grillo non ha azioni: «Ma dalla crisi non mi salvo neanche io. Ci salveranno i musulmani, con la loro sharia: lì se fai un derivato ti tagliano i coglioni ». Sarà in piazza? «Non ho deciso. Ma sabato firmo per il referendum, a Udine». Di Pietro? «È l'unico oppositore credibile nel Paese. Ma io sono un solitario. E poi i giornali mi hanno cancellato: se vado finisce che lo danneggio ».
Tirerà un sospiro di sollievo Arturo Parisi, che grillismi e guzzantismi non li apprezza granché. In cartellone a piazza Navona per ora ci sono Andrea Rivera, Enzo Avitabile e Simone Cristicchi. Ed è in arrivo un appello di intellettuali.
A Montecitorio Di Pietro, Ferrero, Parisi, Leoni e Palermi
Alessandro Trocino

Repubblica 8.10.08
Se i governi alimentano le paure dei cittadini
di Nadia Urbinati


Le società occidentali vivono in una paradossale situazione che ripropone in tutta la sua gravità la lungimiranza del paradigma di Thomas Hobbes secondo il quale, proprio perché difficilmente razionalizzabile, la paura indistinta e generica è la condizione peggiore per l´affermazione della pace sociale. Al tempo di Hobbes erano i profeti religiosi e i fanatici ad alimentare quella paura con l´arma della retorica e del linguaggio apocalittico delle sacre scritture. Oggi è la stessa società liberale che sembra trovare economicamente e politicamente conveniente alimentare una paura indistinta e anonima per nemici che possono essere dovunque e che sono totali. In ogni epoca, la pace civile è stata minacciata da tiranni, dittatori o demagoghi. Si trattava di minacce visibili e identificabili.
Oggi è il sistema sociale stesso che genera panico e minaccia la pace. Scrive Jaume Curbet in un libro sulla insicurezza in uscita presso Donzelli che espressioni generiche come "insicurezza urbana", "criminalità organizzata", "disastro ecologico", infine "terrorismo" creano un tipo di paura che molto più di quella per i tiranni del passato tocca le corde più ancestrali ed è quindi più estrema e meno risolvibile. Questo rende il bisogno di sicurezza un bisogno mai appagato tanto che neppure lo Stato riesce a trasmettere sicurezza attraverso la paura della legge. L´indistinta paura si traduce in soluzioni che sono altrettanto indistinte - che mirano più a colpire l´immaginazione dei cittadini che a risolvere la loro insicurezza. In effetti, una volta che la paura è associata a un oggetto indistinto, è al contingente che si presta più attenzione. Questo spiega la richiesta da parte dei cittadini di interventi immediati o del "qui e ora"; richiesta di provvedimenti di emergenza e di decisioni esemplari; soluzioni effimere (e poco in sintonia con le procedure e la deliberazione democratiche) che servono essenzialmente a tenere sotto controllo i sintomi dell´insicurezza. La politica della sicurezza nell´era dell´insicurezza indeterminata e globale, dove tutti subiscono l´influenza di tutti, ha una funzione essenzialmente sedativa.
Chiamiamo sicurezza lo stato psicologico che ci viene dal credere di vivere in un ambiente immutato, uguale a se stesso. Quindi ogni turbamento dell´ordinario status quo è visto come fonte di sicurezza. Questo spiega il paradosso descritto da Zygmunt Bauman: sebbene le nostre siano tra le società più sicure, ciò nonostante, molti di noi si sentono più minacciati, insicuri e spaventati, e sono quindi più propensi a cadere in preda al panico e ad entusiasmarsi di tutto ciò che è relativo alla protezione e alla sicurezza. In un mondo nel quale il rischio prende i contorni dell´imprevedibile e dell´indefinito, ai cittadini non importa sapere che le cause del pericolo sono complesse e non riducibili a una; desiderano soltanto che i rimedi siano semplici, immediati e soprattutto vicini nel tempo e nello spazio; esperimentabili nella quotidianità. Per esempio, la globalizzazione dei mercati e delle speranze di benessere porta milioni di immigrati a cercare una vita migliore nel nostro continente e nel nostro Paese. La trasformazione multietnica di molti quartieri delle nostre città basta da sola a mobilitare la paura, una paura senza una causa specifica; la prima condizione per domarla è che gli immigrati siano pochi o che siano e restino invisibili; che infine, o soprattutto, contro di loro si mobiliti lo Stato (e i privati cittadini se necessario) con tutti i mezzi disponibili, anche se arbitrari e anche se incostituzionali. Purché se ne vedano alcuni esiti immediati, anche se minimi.
Ma un aspetto nuovo di questa "ossessione per la sicurezza" consiste nel fatto che essa è anche un business sotto molti punti di vista. Esiste un mercato della insicurezza il quale, come ogni altro mercato, deve per poter prosperare e quindi alimentare il bisogno di sicurezza. Ecco il circolo vizioso del quale sono vittima le società democratiche mature: la paura generica alimenta il bisogno di sicurezza ed è a sua volta alimentata da questo bisogno. In cima a questa catena vi è la sicurezza come affare (politico prima di tutto, ma non solo, perché le "aziende" che offrono sicurezza sono sempre di più). Alimentare la paura artificialmente, dunque: questa è l´arte delle agenzie che si occupano della sicurezza. Ma come produrre insicurezza artificialmente? Se è vero che la paura anonima e indistinta è all´origine del panico dell´insicurezza, non c´è modo migliore per tenerla viva che creare capri espiatori. La storia è prodiga di esempi: la caccia alle streghe, la caccia agli ebrei, la caccia ai sovversivi. L´odierna insicurezza urbana è alimentata artificialmente dalla retorica dalla paura del diverso: zingaro, nero, extra-comunitario, musulmano. È certo che l´origine della nostra criminalità (causa tangibile e documentata di giustificata paura) non sta per nulla qui: l´Italia ha una criminalità organizzata e spietata che strangola metà o forse più del suo territorio nazionale, eppure giornali e televisioni ci parlano quasi soltanto degli episodi di violenza che coinvolgono gli "altri".
La politica dell´insicurezza trova un naturale alimento nelle politiche neoliberali, quelle che oggi godono di maggiore stima presso i nostri governi, politiche orientate principalmente a rispondere alle richieste di sicurezza di una popolazione spaventata più che a risolvere i problemi e i diversi conflitti che stanno all´origine delle varie manifestazioni di delinquenza. Le politiche della sicurezza hanno preso il posto delle politiche sociali. La filosofia dei governi di destra, come quello italiano, è che se disagio si dà questo non è un segno di ingiustizia sociale, ma invece di cattiva sorte e disgrazia, oppure di incapacità personale o mancanza di merito. In ogni caso, la carità umanitaria e religiosa può meglio dello stato sociale curare queste piaghe. Spetta quindi alle associazioni civili, alla famiglia (alle donne in primo luogo, potente surrogato dello stato sociale in ritirata) e alle parrocchie occuparsi della povertà. Lo Stato dovrà al massimo dispensare tessera di povertà ai bisognosi e sostegno economico a chi li soccorre. Ma il suo compito è un altro: quello di occuparsi dell´insicurezza generata dalla paura. Il neoliberalismo libera lo Stato dall´impegno di promuovere politiche sociali (questo è il significato della sussidiarietà) per occuparlo intensamente nel compito repressivo. Dissociando il disagio sociale dalla sicurezza viene messa in atto un´interessante divisione del lavoro tra società civile e Stato: la prima si occupa del disagio, il secondo della sicurezza.
Il paradosso è che, vivendo della insicurezza lo Stato sarà naturalmente portato a alimentare la percezione della insicurezza. Esso ha bisogno di cittadini impauriti per essere legittimato nel proprio ruolo. Lo fa moltiplicando esponenzialmente le sue polizie perché, come si è detto, è l´azione esemplare che colpisce l´immaginazione; quindi il territorio più vicino deve essere soprattutto curato e pattugliato - i quartieri, le città (questo spiega il favore che incontra la retorica federalista). Insieme alle polizie di Stato nascono e si moltiplicano piccole polizie private, in un crescendo di offerte di sicurezza, la quale è, come ha scritto Ulrich Beck, «come l´acqua o l´elettricità, un bene di consumo, amministrato sia pubblicamente che privatamente per ottenere benefici». In ogni caso, le frontiere apparentemente forti tra sicurezza pubblica e sicurezza privata sembrano svanire e quella che è una paura indistinta per il non consueto e il diverso diventa una formidabile merce: venduta dai governi per tenere alta la tensione e quindi incrementare consensi, amplificata dai media che sono comunque un prodotto di mercato, recepita dai cittadini nella solitudine dei loro quartieri che una paura generica alimentata ad arte sta desertificando.

Repubblica 8.10.08
Su "Lettera internazionale" un saggio di Starobinski
Dall´epica di Virgilio al dio di Dante
La memoria e il futuro
di Jean Starobinski


Il potere e la forza della poesia e delle immagini Nell´Eneide e nella Commedia due diversi modi di raccontare il passaggio da una catastrofe a una redenzione
Nel poema latino il ricordo di Enea inizia con la distruzione di Troia
Il percorso delle tre cantiche dantesche somiglia a quello virgiliano

La memoria che Virgilio attribuisce al suo eroe assume la distruzione come suo inizio. È una storia di fragore e di furore. E il celebre racconto si annuncia come il ritorno di un dolore che le parole non possono tradurre.
Infandum regina jubes renovare dolorem. «Mi chiedi, o regina, di rinnovare un dolore indicibile» (Eneide, II, v. 1). La rammemorazione stessa è oggetto di orrore (animus meminisse horret, II, v. 12). La parola si dichiara in difetto, inadatta a rievocare le sventure subìte. Questa precauzione oratoria invita i destinatari fittizi, la regina e il suo seguito, e i lettori reali, che siamo noi, ad ascoltare tutto ciò che sarà narrato loro superandolo con l´immaginazione. La realtà fu peggiore del quadro che può esserne dipinto. Non resta nulla della città così a lungo difesa, e anche alla parola manca il terreno su cui poggiare. Perché, allora, non accordare fiducia a un racconto che confessa subito l´insufficienza delle sue risorse?
Nella notte del disastro, si dispone ancora di un aiuto. Apparizioni, voci divine guidano l´avanzare delle navi, promettendo una terra di Ponente per la città nuova che i discendenti dei vinti fonderanno. La notte fatale sarà così il punto zero, senza ritorno né ritirata possibili, da cui prenderà le mosse tutta l´azione successiva. L´incendio, i suoi bagliori, le sue ceneri sono preliminari che imprimono un carattere di necessità alla navigazione avventurosa e ai discorsi narrativi che seguiranno.
Nel terribile notturno virgiliano, ogni forma, fattasi precaria, è travolta dal crollo generale. Voci, clamori, fracasso assumono un´importanza eccezionale nello spazio sensoriale. Il racconto di Enea sviluppa così un registro uditivo di notevole ampiezza. Dall´elevato linguaggio divino al fragore inarticolato della catastrofe, l´orecchio del lettore di Virgilio è tenuto in uno stato di costante allerta. Per convincersene basterà scorrere rapidamente il testo.
Enea è inizialmente un testimone tra gli altri. Racconta quello che, come i suoi compagni, ha visto e sentito: le menzogne del falso transfuga Sinone, la morte di Laocoonte e dei suoi figli, strangolati da due serpenti usciti con gran frastuono dai flutti: il sacerdote muore lanciando orribili clamori verso le stelle (clamores horrendos). Queste grida mostruose segnano l´inizio della rovina.
Nella notte che avanza, le parole e i rumori assumeranno un´importanza sempre maggiore. Appena scivolato nel primo sonno, Enea è messo in guardia dall´ombra di Ettore che gli ingiunge di fuggire: il suo compito è ormai quello di raccogliere intorno a sé i suoi compagni e di cercare con essi, altrove, quelle «grandi mura, che infine fonderai, percorso il mare». A quattro versi di distanza, la stessa parola moenia (le mura) designa i bastioni di Troia che stanno per crollare e quelli della città che bisognerà costruire. Ma la devastazione è già cominciata e il sogno si interrompe perché i suoni diventano sempre più violenti: Frattanto da tutte le parti un terribile pianto / Sconvolge le mura, e sempre di più, sebbene remota dalle altre / e protetta da alberi la casa del padre Anchise si apparti, / i suoni si fanno chiari e incombe il fragore delle armi. / Mi riscuoto dal sonno e salendo giungo sul colmo / del tetto e mi fermo con gli orecchi tesi: come / quando all´infuriare degli austri cade una fiamma / tra le messi, o un rapace torrente con fiotto montano / spiana i campi e i floridi seminati e le opere dei buoi, / e trascina a precipizio le selve: il pastore stupisce / ignaro ascoltando il rombo da un´alta rupe (II, v. 298 e segg.).
Il disastro è attraversato dalle grida di lutto (luctus), dai gemiti (gemitus), dal fragore della bufera (sonitus), dallo strepito degli esseri umani (clamor), dagli squilli delle trombe (clangor). Nelle parole di Enea (II, vv. 361-362), Virgilio dichiara l´impotenza della parola e delle lacrime a dire la distruzione e la vana lotta contro la morte (clades, funera, labores). «L´interno del palazzo risuona di gemiti / e d´un misero tumulto; le ampie stanze remote / ululano di pianti femminili; il clamore ferisce le auree stelle» (II, vv.486-488). Il rumore fa pensare al fracasso dell´albero che si abbatte sotto l´infuriare della tempesta. Nella notte che si fa sempre più buia, Enea incontra sua madre Venere, apparizione luminosa che gli mostra brevemente ciò che i mortali non vedono: gli dèi accaniti contro Troia che collaborano attivamente alla sua distruzione. E l´ordine di fuggire viene ripetuto. Il baccano, il crepitio del fuoco, il terrore si moltiplicano. Infine, nell´incendio e nel silenzio terrificante che si stabilisce quando cessa ogni resistenza (simul ipsa silentia terrent, II, v. 755), Enea vede apparire l´ombra di Creusa, sua moglie, che gli rivolge le ultime parole premonitrici e gli annuncia che la sua destinazione è l´Esperia, la terra del tramonto, là dove scorre il Tevere. Nel corso del racconto, il registro dei suoni avrà dunque mostrato tutta la sua complessità e la sua varietà, tra il silenzio della notte e il clamore assordante della distruzione e del massacro - tra le grida inumane e il linguaggio elevato della profezia che spinge all´azione.
L´epopea di Virgilio ha offerto alla letteratura europea un grande modello, in cui coesistono un passato rammemorato e un futuro in cui avrà luogo l´azione. Questa doppia prospettiva diventa più evidente quando Enea, disceso agli Inferi, nel VI libro, incontra alcune figure del passato - il padre Anchise, Didone morta suicida - e le anime che si apprestano a fare il loro ingresso nella vita, futuri viventi, eroi che si sacrificheranno per la patria. Sente pianti e musiche, i vagiti dei bambini morti e i canti religiosi dei beati. Voci premonitrici mostrano l´impero che verrà. Con la discesa agli Inferi, l´eroe virgiliano si inoltra nell´intrico dei tempi. Durante le tappe successive del suo viaggio sotterraneo impara a quali castighi sono condannati coloro che sono stati giudicati e scorge il nugolo delle anime il cui destino è annunciato senza essersi ancora compiuto. Gli antenati troiani e i discendenti romani abitano negli stessi boschi. Virgilio si afferma così come il poeta che sa in che modo passato e futuro si compenetrano.
E quando appare Virgilio, nel I canto della Commedia, Dante lo designa facendogli dichiarare: «Poeta fui, e cantai di quel giusto / figliuol d´Anchise che venne da Troia / poi che il superbo Ilion fu combusto». Si trova così giustificato il suo compito di guida iniziale nel grande viaggio cosmoteologico, in un ruolo che ricorda quello che l´Eneide attribuisce alla Sibilla nel VI libro. Con il suo percorso, che somiglia volutamente a quello della discesa agli inferi dell´epopea latina, la Divina Commedia si muove tra passato e futuro, a partire dal «mezzo del cammin».
Lo scopo non è quello di fondare un impero, ma di accogliere la rivelazione della giustizia di Dio e di accedere alla conoscenza amorosa, alla visione beatifica. Virgilio, il poeta pagano, accompagna Dante solo fino alla soglia del Paradiso terrestre (Purgatorio, XXX), quando con Beatrice si manifesta la chiarezza divina. Durante tutto il tragitto e fino al suo termine contemplativo, il registro dei suoni svolge un ruolo fondamentale, in cui Dante mostra di essere un discepolo perfetto.
L´ambito sonoro si estende dalle urla dei dannati ai canti degli angeli, dalle dissonanze infernali alle armonie celesti. Il viaggio di Dante avrà come punto di arrivo non le mura di una capitale temporale, ma la contemplazione della «luce sovrana». Sono due citazioni latine nel XXX canto del Purgatorio a suggellare il nesso: per i lettori che hanno memoria dei contesti, uno stretto legame si stabilisce tra i versi dell´Eneide, dove Anchise, che ha assistito all´incendio di Troia, annuncia l´avvenire di Roma fino ai funerali di Marcello, e le parole del Vangelo di Matteo che fanno parte del rituale della messa. I «messagger di vita eterna» salutano l´arrivo di Beatrice cantando successivamente «Benedictus qui venit» (Mt., XXI, 9) e «Manibus, oh, date lilia plenis» (Eneide, VI, 883).
Il potere della poesia fa sì che una memoria storica fittizia si aggiunga alle immagini inventate e sostenute da una fede reale. Ma al contrario del racconto di Enea che cominciava con il dichiarare inadeguato il linguaggio quando si tratta di dire tutta la sofferenza patita, Dante si vede invece costretto a rinunciare a esprimere la gioia più alta: «Oh quanto è corto il dire e come fioco / al mio concetto! e questo, a quel ch´io vidi, / è tanto che non basta a dicer poco» (Paradiso, XXXIII, vv. 121-123).

Corriere della Sera 8.10.08
Mercati e teorie
La psicologia di Soros e il circuito della paura
di Massimo Gaggi


NEW YORK — «Adesso a impedire una ripresa non sono solo i fattori economici e la psicologia dei mercati entrata in una spirale negativa, ma anche lo stress prolungato di chi vede accavallarsi brutte notizie da oltre un anno» dice il neuropsichiatra Richard Peterson, più noto come gestore di un «hedge fund» basato sull'«emotional arbitrage». «L'ormone dello stress condiziona la nostra mente, ci spinge a fare ragionamenti di breve periodo, a essere impulsivi».
Condivide John Schott, un altro psichiatra che si è dato agli affari (è «portfolio manager» di Steinberg Asset Management e autore di "Mind Over Money", un saggio sulla psicologia del risparmiatore): «In momenti come questi si instaura un circuito della paura inconscio e incontrollabile. E' un fenomeno che possiamo addirittura vedere fisicamente con una risonanza magnetica cerebrale, ma che non possiamo controllare. Emotività che prevale sulla nostra razionalità, che ci spinge a tirarci indietro: è come una "slot machine" che funziona al contrario: respinge invece di attirare».
Wall Street ha vissuto un'altra giornata nera nonostante i nuovi, massicci interventi della Federal Reserve a sostegno dell'economia americana e tutti si chiedono che cosa deve ancora succedere perché si spezzi questa spirale che paralizza il credito e deprime il sistema produttivo del Paese. Costringendo le autorità monetarie a ipotizzare addirittura l'«elettrochoc» di un calo dei tassi d'interesse concertato a livello mondiale.
Non saranno certo le analisi degli psichiatri trasformatisi in trader a indicare la via d'uscita da questa crisi. Ma è evidente che negli ultimi anni, nel valutare il comportamento dei mercati, i fattori psicologici, i comportamenti emotivi dell'«homo oeconomicus», sono stati molto sottovalutati. E ciò, nonostante che i cosiddetti «economisti comportamentali» avessero sfidato da tempo gli assunti dell'economia neoclassica sul comportamento razionale dei mercati. E avessero anche vinto qualche premio Nobel (ad esempio quello di Daniel Kahneman) dimostrando che il comportamento dei soggetti del mercato non è «modellizzabile» perché è influenzato dalle reazioni soggettive e dalla variabile dei comportamenti collettivi. Certo, oggi fa impressione vedere Wall Street continuare a flettere nonostante il governo leader del mondo abbia messo in piedi interventi a sostegno del mercato dei capitali di dimensioni mai viste nella storia dell'umanità. Ma bisogna chiedersi se l'assenza di reazione agli stimoli mostrata in questi giorni dai mercati sia il frutto di un'anomalia emotiva inferiore o superiore a quella, di segno opposto, prodotta dalla lunga stagione dell'«esuberanza irrazionale». Perché anche nel galoppante ciclo della crescita e della moltiplicazione del debito degli anni scorsi, i fattori emotivi, la propensione a rischiare al di là del ragionevole, il sovrappiù di testosterone misurato in una ricerca dell'università di Cambridge basata sul comportamento di un gruppo di trader della City di Londra hanno avuto il loro peso.
Se ne erano accorti in molti. Non solo studiosi della psiche ed economisti, ma anche grandi investitori come George Soros che anche nel suo ultimo saggio («Il nuovo paradigma dei mercati finanziari») sostiene che l'idea che i mercati sappiano autoregolamentarsi e tendano naturalmente all'equilibrio è sbagliata. Un'illusione che solo il fondamentalismo mercatista ha potuto continuare ad alimentare anche davanti all'evidenza delle bolle speculative — soprattutto quella immobiliare — che continuavano a gonfiarsi sull'onda dell'eccessivo indebitamento: un fenomeno che dava agli operatori una sensazione di grande sicurezza che li spingeva a rischiare ancora di più in una spirale perversa che, ora, si è improvvisamente capovolta.
L'epitaffio di un'era di fiducia cieca nell'ottimismo emotivo degli investitori l'ha scritto, nel luglio del 2007, l'allora capo di Citigroup, Chuck Prince, che, con la banca già in grosse difficoltà, disse al «Financial Times»: «Quando la musica si fermerà, la situazione sarà complicata, in termini di liquidità. Ma finché l'orchestra suona, noi continuiamo a ballare». Pochi giorni dopo la crisi cominciò ad avvitarsi, Citigroup si ritrovò con le spalle al muro e Prince fu messo alla porta. Ritrovare uno per uno gli orchestrali e rimetterli insieme non sarà facile, anche perché dopo gli anni della moltiplicazione «selvaggia » del debito e dell'esposizione delle banche, ora assistiamo a un «deleveraging» altrettanto selvaggio che deprime l'economia. Dopo i salvataggi bancari e le immissioni massicce di liquidità, ora, forse, si prova coi tassi.

Corriere della Sera 8.10.08
Le finanze della santa sede e la grande crisi del ‘29
Risponde Sergio Romano


Da racconti dell'epoca, mi risulta che il Vaticano uscì indenne dalla crisi del 1929, anzi ne trasse vantaggi.
Anche nell'odierna bufera che investe i mercati, a detta di un quotidiano inglese, i banchieri di Dio si sono messi anticipatamente in salvo investendo in beni rifugio. Invece di leggere le cronache finanziarie, sarebbe stato probabilmente più utile aver sottoscritto un abbonamento all'Osservatore
Romano.
Adriano Ponti

Temo che i «racconti dell'epoca » abbiano diffuso una idea alquanto sbagliata del modo in cui le finanze della Santa Sede uscirono dalla grande crisi finanziaria del 1929. Per capire ciò che accadde occorre fare un piccolo passo indietro al febbraio del 1929, quando Mussolini e il cardinale Gasparri firmarono i Patti lateranensi. L'Italia liquidò il debito assunto con la Legge delle guarentigie e versò allo Stato pontificio un miliardo e 750 milioni, di cui un miliardo in consolidato 5% al portatore e 750 milioni in contanti. La Chiesa non poteva vendere immediatamente il consolidato (se lo avesse fatto l'Italia avrebbe corso il rischio di una crisi finanziaria), ma disponeva di una somma che, tradotta in euro, ammonterebbe oggi a 534 milioni. Per investirla e trarne frutto, Pio XI creò una Amministrazione speciale e chiamò a dirigerla uno dei più abili e intelligenti finanzieri di quegli anni. Si chiamava Bernardino Nogara, era stato dirigente della Banca Commerciale Italiana, aveva rappresentato l'Italia in alcuni dei maggiori negoziati economico- finanziari degli anni precedenti ed era per più (aspetto molto importante agli occhi di papa Ratti) un cattolico lombardo, membro di quelle famiglie della buona borghesia milanese che Paolo XI aveva conosciuto e apprezzato negli anni in cui era stato Prefetto dell'Ambrosiana e arcivescovo della «capitale morale». Per bene amministrare questo nuovo patrimonio vaticano, Nogara si servì dei suoi contatti internazionali e distribuì la somma prudentemente fra diversi investimenti: oro, valuta, azioni di società ferroviarie e titoli pubblici dei Paesi più affidabili, con una preferenza per Svizzera, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Secondo lo storico inglese John Pollard, autore di un libro sulle finanze vaticane apparso anche in Italia presso Corbaccio («L'obolo di Pietro. Le finanze del Papato moderno 1850-1950»), il portafoglio avrebbe dovuto fruttare ogni anno più di 87 milioni di lire. Rassicurato da queste previsioni e dai buoni risultati della fase iniziale, Pio XI si lanciò in un ambizioso programma edilizio per rinnovare la Città del Vaticano, restaurare Castel Gandolfo, promuovere la costruzione di nuove chiese e realizzare le opere pubbliche (fra cui una stazione ferroviaria) necessarie alle esigenze del nuovo Stato.
Le opere vennero in parte realizzate, ma la fonte dei redditi, nel 1931, cominciò a inaridirsi.
Nogara dovette spiegare al Papa che il crollo della sterlina, l'insolvenza delle banche e il fallimento di alcune grandi imprese avevano duramente colpito le finanze vaticane. Per uscire dalla crisi dovette in primo luogo convincere Pio XI a ridurre le dimensioni del suo programma edilizio e decise in secondo luogo di puntare soprattutto su due investimenti: l'oro e il mercato immobiliare. Riuscì a salvare in tal modo una parte consistente del patrimonio, ma il reddito del capitale fu considerevolmente ridotto. Sembra che il Papa, poco esperto di cose economiche, abbia capito con un certo ritardo la gravità della crisi. Quando ne fu consapevole disse che era «la più grande calamità umana dopo il Diluvio».

Corriere della Sera 8.10.08
Uno scritto polemico
Schopenhauer nichilista: quant'è dannoso leggere
di Giorgio De Rienzo


Con una incisiva nota introduttiva di Andrea Felis leggiamo, nella traduzione di Valerio Consonni (con testo tedesco a fronte), il XXIV capitolo dei Parerga und Paralipomena di Arthur Schopenhauer, dedicato alla lettura e ai libri. La tesi che il filosofo sostiene va inquadrata nella polemica tardo-settecentesca contro i libri di intrattenimento culturale che riescono a creare un «falso movimento» di conoscenza, perché «quando leggiamo, un altro pensa al posto nostro » e il lettore ripete semplicemente (e inutilmente) «il suo processo mentale». Può essere attuale (e istruttivo), pur nella sua esasperazione nichilista, il ragionamento di Schopenhauer. «Veramente la nostra testa», scrive, «durante la lettura, altro non è che il teatro di pensieri estranei. Quando questi infine si dileguano, cosa resta? Di qui deriva che chi legge proprio molto e durante quasi l'intero giorno, si rilassa frattanto col passatempo dell'assenza del pensiero, e lentamente smarrisce la facoltà del pensare da sé. Proprio questo è il caso di parecchi dotti: si sono rimbecilliti col leggere». Da qui la terapia drastica di imparare a non leggere, di liberarsi, come interpreta Felis, dalle «letture nocive e velenose che distruggono lo spirito». Da qui il dettato addirittura di un'«arte del non leggere», perché i libri (anche quelli buoni) producono non solo un inutile esercizio delle facoltà cognitive, ma offrono al lettore un pericoloso «spettacolo dell'universalità», che è solo illusorio.
ARTHUR SCHOPENHAUER Sulla lettura e sui libri LA VITA FELICE PP. 61, e 6,50

Corriere della Sera 8.10.08
La donna che doma il Centauro sarebbe in realtà la vergine Camilla
Botticelli e la «vera identità» di Pallade
di Wanda Lattes


La notizia sorprenderà gli studiosi del Rinascimento e i milioni di pellegrini che vengono agli Uffizi per Botticelli: la donna biancovestita che doma il Centauro nella grande tela (due metri per un metro e 47, nella foto) dipinta da Sandro per la famiglia Medici, non è la dea Minerva ma Camilla, un'eroina celebrata da Virgilio nell'Eneide e ben conosciuta nella Firenze del Quattrocento.
Il quadro, esposto non lontano dalla «Venere » e dalla «Primavera», dovrebbe dunque cambiare il proprio titolo («Pallade e il Centauro »). L'ipotesi, già formulata in ambito accademico, trova ora ulteriori conferme che saranno illustrate venerdì prossimo a Firenze da Barbara Deimling, durante la prima giornata del convegno internazionale dedicato a Botticelli e a Herbert Horne, suo massimo studioso, dalla Harvard University, dalla Syracuse University e dalla stessa Fondazione Horne (l'occasione è il centenario della pubblicazione della fondamentale monografia sul Botticelli firmata da Horne).
Molti i temi che saranno affrontati durante il convegno (www.museohorne.it). Ma la relazione di Barbara Deimling, storica dell'arte e direttrice della Syracuse, sembra destinata a provocare vera emozione. Riassumendo i fatti bisogna ricordare come il titolo di «Pallade e il Centauro» sia stato attribuito soltanto nel 1895 da William Spencer, un amatore inglese, dopo che la tela, abbandonata a lungo in un corridoio di Palazzo Pitti, era stata riportata ai dovuti onori. La storia, narrata da Horne, ricorda come il riconoscimento di Pallade nella donna fino ad allora chiamata «Allegoria» fosse legata a un arazzo nel quale Botticelli riprendeva la leggenda di Minerva vittoriosa.
Ma la Deimling adesso porta elementi probanti. Camilla, il personaggio dell'«Eneide», la vergine combattente dei Volsci, è raffigurata con veste, acconciatura, armi, ornamenti, piante simboliche simili a quelle dipinte da Botticelli, in decine di cassoni, affreschi, ceramiche dell'epoca. E il suo gesto di dominio sul Centauro corrisponde alla leggenda di una donna che vince gli istinti bestiali.

martedì 7 ottobre 2008

l’Unità 7.10.08
Razzismo? Meglio negare
di Luigi Manconi


Lo straniero, rispetto alla domanda di conservazione e di conformità della destra, è il portatore della molteplicità: ne consegue la paura per ciò che essa produce: appunto, una società multi-etnica

Anch’io come Massimo Bordin, direttore di «Radio Radicale», non capisco perché si debba «scrivere una palla in prima pagina per poi smentirla già a pagina due». In effetti, sulla prima de il Giornale di lunedì 6 ottobre si legge che «Nella gang che picchiò il cinese la metà sono figli di immigrati»; poi, si va alla pagina seguente e nel relativo articolo si trovano quelle che il cronista definisce «strane verità»: ovvero che uno dei presunti aggressori è un adolescente «arabo» e che un altro, italiano, ha una fidanzatina dalla «pelle scura» (sua madre è eritrea, il papà italiano). E così si può titolare che «metà» degli aggressori di Tong Hong Shen sono «figli di immigrati» (ma non erano sette i membri della gang?).
Ricorrendo a questa micidiale logica aristotelica, se tra gli aggressori vi fosse l’amico di un egiziano il cui permesso di soggiorno turistico fosse scaduto o anche il conoscente del figlio di una badante non ancora regolarizzata, il quadro sarebbe perfetto e il Giornale potrebbe tranquillamente titolare: «cinese aggredito da una banda di clandestini». Ma non c’è solo un vertiginoso deficit di senso del ridicolo, dietro una simile lettura giornalistica: c’è qualcosa di estremamente interessante che va considerato con cura. Nessuno, ovviamente, ha mai detto o scritto che «l’Italia è un Paese razzista». E chi mai potrebbe pensare una simile scemenza? Si è detto e scritto, piuttosto, che il numero crescente di «atti di razzismo» deve suscitare allarme e venire adeguatamente contrastato. Ma perché, allora, la destra, i suoi dirigenti politici, i suoi intellettuali e i suoi mezzi di comunicazione si affannano a negare un dato inesistente (l’Italia è un Paese razzista) e a ignorare quello reale (aumentano gli atti di razzismo)? Perché tanta agitazione scomposta e sudaticcia per “neutralizzare” episodi incontestabili e incontestati di violenza a base etnica e per banalizzarne altri? La destra avrebbe potuto tranquillamente dire: gli episodi di razzismo si verificano, tendono ad aumentare e sono il risultato della politica irresponsabile della sinistra. E avrebbe potuto, con qualche argomento, provare a motivare la sua tesi. Non lo ha fatto e non lo fa. La ragione è una: la destra intuisce che il razzismo, qualunque sia la sua dimensione e qualunque sia la sua possibilità di espansione, ci parla di noi. Sia chiaro: anche della sinistra (e perché mai la sinistra dovrebbe essere immune da pregiudizi etnici e da volontà di discriminazione?), ma in particolare parla della destra perché essa non ha saputo e voluto fare i conti con le proprie radici oscure, le proprie pulsioni profonde, i propri umori indicibili. Dunque, il problema non è semplicemente che nel centrodestra si trovino (a loro perfetto agio) Borghezio e Prosperini, Calderoli e Santanchè: il vero problema è piuttosto che le loro dinamiche mentali e le loro parole pubbliche incrociano sentimenti diffusi nella popolazione, li incentivano e ne sono incentivati, li blandiscono e ne sono confortati e - ecco il punto - sono fatti della stessa sostanza, rimandano a medesime concezioni del mondo e a interpretazioni della realtà affini. Non mi riferisco, pertanto, solo ad interessi politico-elettorali, seppure non possa essere sottovalutato il fatto che Silvio Berlusconi, in un quindicennio di attività pubblica, non ha espresso mai, dico mai, una condanna inequivocabile del fascismo e del razzismo. E tuttavia la questione di fondo è un’altra: è che il primo tratto culturale e il principale connotato politico, il fondamentale bisogno e la più potente proiezione dell’identità della destra si esprimono, nonostante tutte le trasformazioni possibili e immaginabili, in una domanda di conservazione. Quella domanda, tanto più nell’epoca della globalizzazione, corrisponde sul piano sociale alla difesa del proprio territorio e del proprio sistema di rapporti e di scambi, del proprio stile di vita e della propria mentalità. Lo straniero, rispetto a quella domanda di conservazione e di conformità, è il portatore della molteplicità: ne consegue la paura per ciò che essa produce. Appunto, una società multi-etnica, multi-culturale, multi-religiosa.
È qui, esattamente qui, che la destra politica è strutturalmente portata a rappresentare le tendenze alla chiusura e all’autodifesa, all’autoreferenzialità e all’autosufficienza delle comunità (locali e nazionali) che si percepiscono come assediate; e ad assecondare, se non decide di contrastarle, tutte le possibili degenerazioni, dalle pulsioni più regressive fino alle inclinazioni più esplicitamente intolleranti. Non è fatale: la politica, qui quella di destra, può operare una mediazione, funzionare da filtro, portare a razionalità ciò che si propone come mero istinto. L’oggetto del contendere è proprio questo: se l’attuale destra italiana stia realizzando politiche e stia inviando messaggi tali da mediare intelligentemente o incentivare irresponsabilmente le tensioni attuali e possibili tra italiani e stranieri. Siamo in molti a credere che le misure di legge finora approvate e il discorso pubblico quotidianamente reiterato vadano nella direzione di esaltare le ansie collettive e, in qualche caso, di organizzarle politicamente. Le campagne contro gli zingari e contro i romeni non cadono dal cielo: sono gestite in prima persona da settori del governo e da pubblici amministratori, che a quelle ansie collettive offrono legittimazione istituzionale, canali di espressione, bersagli da colpire. Per questa ragione appare del tutto fuori luogo la domanda di Fiamma Nirenstein sul il Giornale di domenica scorsa: «È razzista quella ragazza che ha paura?» quando «tornando a casa in un quartiere popolare di notte» si allarma «se incontra giovani stranieri che parlano un’altra lingua, hanno un altro modo di approcciare?». Ma è ovvio che non lo è, e a quella ragazza vanno garantite sicurezza e libertà di movimento. Se nasce un problema politico è perché c’è chi, su quella paura (comprensibile e parzialmente motivata), effettua un investimento politico e ottiene un rendimento politico. Resta il fatto che la destra italiana rimuove tutto ciò: il suo inconscio le suggerisce di non guardarlo, per non dovervi fare i conti. Ma la discussione non finisce qui. In un editoriale de Il Corriere della Sera di ieri, Giuseppe De Rita descrive bene le forme del “modello italiano” di integrazione, segnalando i processi positivi di inserimento degli stranieri all’interno della nostra vita sociale («nelle fabbriche, nelle famiglie, nelle realtà locali») e due aree di maggiore crisi: quella «delle grandi città e delle loro periferie» dove «si intrecciano la devianza degli immigrati e l’aggressività dei bulli e teppisti indigeni»; e quella «delle zone di forte criminalità organizzata dove la vulnerabilità sociale è più alta e dove possono intrecciarsi devianze di diversa origine e potenza». E sono due questioni, come nota opportunamente De Rita, che «andrebbero affrontate anche se non ci vivesse neppure un immigrato». Dopo di che De Rita critica la tendenza a enfatizzare il razzismo «come nuova grande malattia italiana». Per De Rita, questa è una «tentazione doverosa per chi deve ricordare grandi principi di civiltà collettiva» (si riferisce, immagino, al Pontefice e al capo dello Stato) ma «ci allontana dalla realtà, dai processi e dai percorsi su cui senza clamori si fa integrazione sociale di immigrati». Non ne sono convinto: e proprio perché l’immigrazione si presenta e come grande questione sociale, che ha nei processi di integrazione la prova più delicata e insieme più remunerativa; e come grande questione culturale, e, direi, morale: essa richiama, infatti, i temi cruciali dell’eguaglianza e dei diritti universali della persona. Temi che non vanno evocati retoricamente né declinati in chiave sentimentale e solidaristica, ma vanno calati concretamente dentro il sistema di cittadinanza e dentro i nuovi statuti dei rapporti internazionali. (Oltre che, beninteso, attraverso politiche pubbliche e strategie amministrative razionali e intelligenti, non demagogiche e non velleitarie. Che richiedono notevoli risorse). Per capirci: non penso affatto che ci sia quella “generale deriva razzistica”, e tuttavia segnalo due fatti. Il primo: la caduta nel discorso pubblico di quel tabù che impediva di urlare in una sede politica “i romeni sono stupratori”; il secondo: l’aggravante di clandestinità per gli immigrati irregolari che commettano reato; aggravante non dipendente dall’illegalità dell’azione, bensì dalla mera condizione amministrativa (e in qualche modo esistenziale). Se le dinamiche culturali e giuridiche derivate da questi due fatti non vengono adeguatamente contrastate, i processi di integrazione - ecco il punto - subiranno contraccolpi, ritardi, deterioramenti. Più in generale i fondamenti di valore del sistema democratico e dello Stato di diritto ne risulteranno intaccati.
È questo che, a mio avviso, dovrebbe indurre la sinistra a fare della questione dell’immigrazione uno dei tratti essenziali della propria identità culturale programmatica. E non in nome di una “società multiculturale” che, come direbbe Giovanni Trapattoni «non è una passeggiata, ma un’ardua fatica»: e non è, certo, quel surrogato del socialismo che molti hanno creduto (o lo è nel suo senso peggiore); e nemmeno in nome della solidarietà, che è virtù preziosa ma propria della sfera privata e delle opzioni personali, e non può essere imposta per legge o raccomandata fraternamente a chi non ha occhi per piangere. Bensì, in nome dei diritti e delle garanzie e di un “calcolo razionale”. È interesse mio e dei miei figli realizzare una società nella quale la convivenza sia la più pacifica possibile e l’integrazione riduca tensioni e conflitti che pure saranno inevitabili, ed è interesse mio e dei miei figli che gli standard di diritti e garanzie non siano a geometria variabile: la compressione di quelli dei soggetti meno tutelati, come gli immigrati, non innalza il livello dei nostri. Li deprime tutti.

l’Unità 7.10.08
Giorgio Lunghini. Il docente dell’Iuss di Pavia: viviamo l’ultimo atto della caduta dell’economia americana
Questa crisi cambierà gli assetti del potere nel mondo
di Luigina Venturelli


«L’attenzione di tutti è concentrata sul crollo delle Borse, ma questa crisi non è solamente finanziaria: è l’ultimo atto di una crisi reale iniziata tanti anni fa, quella dell’economia americana». Così Giorgio Lunghini, economista di lungo corso dell’Istituto di Studi superiori dell’Università di Pavia, spazza via anche l’ultimo tentativo di circoscrivere la bufera che si sta abbattendo sui mercati mondiali: quello di descriverla come il frutto amaro di titoli derivati e mutui subprime.
Quali saranno le conseguenze di questo tracollo?
«Una risposta definitiva potranno darla solo gli storici tra qualche anno. Sicuramente ci sarà una redistribuzione del potere a livello mondiale tra Stati Uniti, Europa, Russia e il blocco asiatico costituito da Cina e India».
Da ovest verso est?
«Gli Stati Uniti perderanno peso sul fronte del lavoro, della produzione, della finanza e quindi della politica. La crisi dell’economia americana è iniziata molto tempo fa: prima si è manifestata con il crollo della new economy, poi è stata spostata sulla Borsa grazie ad una politica accomodante della Federal Reserve. Quindi, per evitare che scoppiasse, è stata indirizzata da Greenspan verso il mercato immobiliare con la promessa di una casa per tutti, anche per i soggetti non solvibili».
Così si arriva ai subprime.
«A questo percorso si aggiungano le costanti degli ultimi trent’anni di storia economica a stelle e strisce: il deficit strutturale del commercio estero, a lungo compensato con un afflusso di capitali dall’estero che ora si è interrotto; l’elevato debito pubblico, che dipende in gran parte dalle spese militari; l’eccezionale debito privato accumulato dai cittadini americani. Gli Stati Uniti sono un paese oberato dai debiti ed ora si è arrivati alla resa dei conti».
Che cosa succederà, invece, all’Europa?
«L’Europa è in una situazione meno drammatica, ma non è l’isola felice che si credeva solo poche settimane fa. Da un lato la crisi è globale e i costi del crollo Usa si scaricheranno su tutto il capitalismo occidentale. Dall’altro lato l’Unione europea non esiste come federazione, quindi manca delle politiche unitarie di bilancio che servirebbero per arginare la crisi. Dispone solo della leva monetaria, che viene gestita da Trichet in modo prekeynesiano, con l’unico obiettivo di contenere l’inflazione dimenticando la promozione della crescita».
Qualche governo si sta muovendo autonomamente. La Germania, ad esempio, ha garantito con denaro pubblico i depositi dei suoi risparmiatori.
«La prima economia europea cerca di tranquillizzare i suoi cittadini e probabilmente ci riesce. Ma sono preoccupanti le reazioni indispettite degli altri governi. Forse perchè non si sentono in grado di fornire una garanzia analoga ai propri cittadini?».

l’Unità 7.10.08
Sulla scuola non si discute, imposta la fiducia
Decreto, il ministro Elio Vito parla di «motivi tecnici». L’opposizione insorge: tagliano così 8 miliardi
di Eduardo Di Blasi


AFFERMA ELIO VITO, ministro per i rapporti con il Parlamento, nell’annunciare il ricorso al voto di fiducia da parte del governo sul decreto Gelmini, che la scelta non è dovuta «ad un ostruzionismo dell’opposizione, che in questo caso non si è registra-
to» né «a presunte divisioni interne alla maggioranza, che non ci sono state».
Ma allora perché ricorrere al sesto voto di fiducia in pochi mesi con una maggioranza che numericamente non dovrebbe avere alcun problema ad affrontare un dibattito in aula? Secondo il rappresentante dell’esecutivo, la fiducia posta sul maxi-emendamento governativo sarebbe solo una questione «tecnica» dettata dai tempi ristretti: il decreto deve ancora passare per l’aula del Senato, e scade il 31 ottobre.
Spiegazione condivisibile? Secondo il capogruppo del Pd Antonello Soro, no: «Credo che nei precedenti della Camera dei deputati non ci sia mai stato un passaggio alla seconda lettura con 26 giorni utili», dirà in aula. Il ricorso alla fiducia resta dunque un dato inspiegato se anche il ministro Gelmini, in Transatlantico, continua a sottolineare la sussistenza dei «presupposti d’urgenza», contraddicendo quanto detto dal collega Vito pochi minuti prima («Non è vero che non c’è stato ostruzionismo, perché il numero degli emendamenti è aumentato»). E aggiungendo: «Credo che sia urgente rispondere al bullismo, introdurre il voto in condotta, una semplificazione dei meccanismi con il ritorno ai voti ed è importante lo studio dell’educazione civica», come se questi possano configurarsi come «presupposti d’urgenza». La maggioranza abbozza.
Valentina Aprea, relatrice del provvedimento, si lancia in un pericoloso ringraziamento del governo che, pur ponendo la fiducia espropriando il Parlamento, avrebbe accolto nel testo le modifiche della commissione (la prima, voluta dalla Lega, riprovincializza le graduatorie degli insegnanti, la seconda, indicata dall’opposizione e da l’Unità, ha cancellato l’errore di bocciare un bimbo delle elementari per una sola insufficienza). Eppure manca anche la certificazione della copertura finanziaria. La commissione Bilancio ci ha provato fino a sera a farsi dare i numeri. La questione è ben spiegata in aula dal capogruppo dell’Udc in commissione Gian Luca Galletti. «Si prevede il maestro unico. Sappiamo che il maestro unico dovrà svolgere due ore in più rispetto a quelle che svolge attualmente, da 22 a 24. Questo comporterà la necessità di un rinnovo contrattuale, che recherà maggiori oneri per lo Stato. Per tutto il pomeriggio abbiamo chiesto alla Ragioneria dello Stato, alla maggioranza e al Governo di quantificarci questo maggiore onere, per vedere se era compatibile con la copertura che si prevede nel decreto-legge. Questo dato non siamo riusciti ad averlo». Di più spiegano gli onorevoli Lino Duilio e Maino Marchi (entrambi del Pd), «prima hanno rimpallato le competenze tra Cultura e Bilancio, poi ci hanno mostrato un documento della Ragioneria dello Stato, con data 1 settembre, che sconfessava la copertura finanziaria così come era stata predisposta, infine un sottosegretario ci ha risposto “garantisco io”». E in numeri? Anche per questi, si direbbe, a fiducia.
Antonello Soro va dritto al merito: «Il punto è che si sta, di fatto, operando una trasformazione del processo legislativo in contrasto con la Costituzione vigente. L’utilizzo del decreto-legge e del voto di fiducia in un’assemblea deputata esclusivamente alla ratifica configura un cambio sostanziale, di fatto, materiale, ma direi in violenza alla Costituzione vigente».

l’Unità 7.10.08
La protesta dei docenti
Gli atenei verso l’occupazione
di Federica Fantozzi


Blocco delle inaugurazioni dell’anno accademico, forse l’università di Padova sarà la prima, e La Sapienza di Roma verso l’occupazione studentesca.
Sale la protesta di docenti, sindacati e ragazzi contro il piano del governo sugli atenei. Il cahier de doléances è lungo. Ricerca e università in ginocchio. Docenti «dimezzati» dal blocco del turn over e dai licenziamenti. Decreto «ammazza-precari» che impedisce stabilizzazioni. Meno laboratori e biblioteche, addio sperimentazioni. Tagli del 10% al fondo di finanziamento nel 2010, scendendo dai 7,4 miliardi attuali a 6,4 entro il 2013. Azzeramento dei fondi per l’edilizia mirata. Limiti alla contrattazione integrativa. Atenei trasformati in «super-licei» di serie A (privati) e B (pubblici). E non più in grado di pagare gli stipendi nè di chiudere in pareggio i bilanci.
Una débacle, denunciano gli operatori. Un «Piano Marshall al contrario». Le forbici infieriranno per 10 miliardi nel prossimo quinquennio: cifra speculare agli aiuti americani che nel Dopoguerra consentirono all’Italia di risollevarsi.
Il mondo della formazione e della ricerca si è già mobilitato. Molte le iniziative in campo. L’appello di un gruppo di docenti ai rettori affinché rinuncino alle inaugurazioni dell’anno accademico ha superato in pochi giorni le 1300 adesioni. Tra i promotori ci sono Gianni Vattimo, Alberto Asor Rosa, Piero Bevilacqua della Sapienza di Roma, il rettore di Padova Umberto Curi, Fulvio Tessitore dell’università di Napoli.
Proprio a Padova, a novembre, potrebbero iniziare le proteste. Ma crescono le voci di un’imminente occupazione della facoltà di Lettere della Sapienza. In quell’aula simbolica i promotori dell’appello stanno organizzando un’assemblea per il 23 ottobre. In calendario anche una giornata in cui gli studenti porteranno in facoltà i genitori e i professori spiegheranno il «valore della formazione pubblica».
I docenti hanno anche elaborato un documento che analizza nel dettaglio i guasti del decreto legge 112: quasi 1500 milioni di euro in meno in 5 anni «passando dall’ordine dell’1% del 2009 al 7,8% nel 2012-2013». Riduzione di servizi agli studenti e di infrastrutture. Prospettiva a medio termine: «Dimezzamento del numero dei docenti».
La conseguenza sarà la concentrazione dell’attività sulla didattica a scapito della ricerca, delle tesi sperimentali, dell’aggiornamento al mondo che cambia. Altrettanto devastante - denunciano - la trasformazione delle università in fondazioni: «Il sistema del diritto allo studio verrà cancellato, non sarà più assicurato per i meritevoli in condizioni disagiate». E sparirà la differenza con le private sulle tasse universitarie, più alte per tutti.
Come reagire? L’invito per il governo è a «una seria valutazione anziché tagli discriminati». La Crui, la conferenza dei rettori, ha consegnato un pacchetto di proposte al ministro Gelmini, condite da un avvertimento: o il governo rivede i contenuti della manovra, o gli atenei non riusciranno a pagare gli stipendi al personale e i conti finiranno in rosso. L’Unione Universitari è scesa in piazza contro «l’attacco del governo con tagli pesanti e la possibilità di privatizzare tutti gli atenei» inserito «in un progetto di screditamento e distruzione di tutti i servizi pubblici».
La Flc Ggil intanto fornisce i primi effetti sul settore, dove il precariato sfiora il 50%. Oggetto delle proteste l’emendamento «ammazza precari» di Brunetta: «Non si può negare il diritto a un lavoro stabile a tantissimi giovani ricercatori e universitari qualificati». Già in mobilitazione i 500 precari dell’Isfol (Istituto per la formazione professionale dei lavoratori), i 700 dell’Ispra (Istituto per la protezione e la ricerca ambientale), i 400 dell’Ingv (Istituto Nazionale di geofisica e vulcanologia). Secondo la Finanziaria in cantiere le università potranno assumere nel triennio 2009-2011 fino al 20% dei pensionamenti e fino al 50% nel 2012. Inoltre, dal primo gennaio 2009 gli scatti biennali dei docenti, con lo stesso importo, diventano triennali.
Infine l’entità dei tagli: 63,5 milioni di euro nel 2009, 190 milioni nel 2010, 316 nel 1011, 417 milioni nel 2012 e, infine, 455 milioni nel 2013. Totale: meno 1.441 milioni in aree cruciali per la crescita e la formazione dei giovani.

Corriere della Sera 7.10.08
Il patto con i pazienti L'oncologo propone una legge sul testamento biologico e lancia 10 diritti etici
Veronesi ai malati: i medici devono ubbidirvi
di Mario Pappagallo


MILANO — «I medici facciano un passo indietro, i pazienti uno avanti». Umberto Veronesi ( foto) nel 1973 è stato il fondatore del primo comitato etico in Italia, all'Istituto nazionale dei tumori di Milano, e ora, dopo 35 anni, si rende conto che occorre rilanciare il motto di quel primo comitato: «Tutto è concesso all'uso della scienza per l'uomo, tutto è negato all'uso dell'uomo per la scienza». Due le azioni: il Veronesi senatore ha presentano il primo ottobre un disegno di legge sul consenso informato e le dichiarazioni anticipate di volontà, il Veronesi medico fissa un suo decalogo dei diritti del malato. Lo presenterà il 13 ottobre al Circolo della Stampa di Milano e l'invierà a tutti i comitati etici italiani. Il «patto» con i malati prevede: cure scientificamente valide e sollecite, diritto a una seconda opinione e alla privacy, diritto a conoscere la verità sulla malattia e a essere informato sulle terapie, diritto a rifiutare le cure e ad esprimere le proprie volontà anticipate, diritto a non soffrire, diritto al rispetto, alla dignità. «Mi sono basato — spiega l'oncologo milanese — sui principi fondanti della bioetica che sono l'autonomia e la beneficenza ». Che cosa significa? «Che ognuno ha il diritto di autodeterminarsi nella malattia così come ce l'ha in salute. È il principio di autonomia: spetta al malato decidere che cosa è bene per lui. Questo è il pilastro su cui si basa anche il secondo principio: la beneficenza. Significa che l'atto medico deve essere a puro vantaggio del malato ». Ma non è tautologico? «Sembra, ma non lo è. La bioetica, per esempio, non ammette che un atto medico sia fatto in nome della ricerca scientifica. Ci si deve concentrare su quel malato in quel momento e non ci deve essere la preoccupazione di ciò che sarà in futuro, perché nessun malato mai deve pagare il prezzo della ricerca».
Nel 1970 Von Potter, nel suo
Bioethics: a bridge to the future,
sostiene che l'etica deve ispirarsi alla biologia dell'uomo e si dichiara preoccupato dello sviluppo di tecnologie che alterano gli equilibri dell'esistenza umana... «Esatto — continua Veronesi —. Una tempesta si è abbattuta su questi equilibri con l'introduzione della vita artificiale, cioè quando (a metà del secolo scorso) sono state introdotte nei reparti di rianimazione macchine in grado di mantenere l'ossigenazione del sangue e il battito del cuore, anche a funzioni cerebrali cessate. Nasce così l'incubo della vita artificiale, come esito non voluto dei progressi della tecnologia». E allora che cosa dovrebbe accadere oggi? «Per la bioetica è importante il rispetto delle leggi naturali. Per esempio Eluana, in base alla natura, sarebbe morta 16 anni fa. La vita artificiale è un'infrazione alle leggi naturali. Oltre che alla volontà del paziente, se espressa».
Eluana non ha lasciato una volontà anticipata scritta? «Se ci fosse stata però andava rispettata. Se una persona può decidere in salute e coscienza di rifiutarsi di mangiare o di bere, nessuno può costringerlo con la forza a farlo. E questo per la legge e per il codice deontologico dei medici. Per questo ho presentato un disegno di legge sul testamento biologico. Per questo lancio i 10 diritti del malato e invito medici e cittadini a farli propri».

Corriere della Sera 7.10.08
La civiltà dei barbari
C'è un cambiamento in atto che non è solo culturale, ma antropologico e genetico e che può produrre un'umanità radicalmente nuova, diversa dalla nostra
conversazione tra Claudio Magris e Alessandro Baricco


Claudio Magris: Nietzsche ha descritto con genialità l'avvento di una società nichilista dove tutto è interscambiabile come moneta

Durante la campagna elettorale del 2001 mi sono accorto che non capivo più il mondo. Un manifesto di Forza Italia mostrava Berlusconi in maglione, con la scritta «Presidente operaio»; un'idea che sarebbe potuta venire in mente a me e ai miei amici per una goliardata che lo mettesse in ridicolo. Sarebbe stato altrettanto comico proclamare Veltroni o Prodi «Presidenti operai». Ma se qualcosa che per me era una caricatura satirica funzionava invece quale efficace propaganda, voleva dire che erano cambiate le regole del mondo, i metri di giudizio, i meccanismi della risata; mi trovavo a un tavolo di poker credendo che l'asso fosse la carta più alta e scoprivo che invece valeva meno del due di picche, come quando il protagonista dell'Uomo senza qualità di Musil, leggendo su un giornale di un «geniale» cavallo da corsa, capisce che le sue categorie mentali sono saltate, non afferrano e non valutano più le cose.
Alessandro Baricco si addentra nel paesaggio di questa mutazione epocale con straordinaria acutezza; con quella profondità dissimulata in leggerezza che caratterizza il suo narrare. Forse Baricco è scrittore dell'Ottocento e del Duemila più che del Novecento, cui pure s'intitola un suo celebre libro. Si muove nel mondo saccheggiato dai barbari, come egli li chiama, con l'agilità di un'antilope in un territorio che non è proprio il suo, ma nel quale non si trova affatto a disagio. I barbari sono tali rispetto a quella che si considera — a noi che ci consideriamo — la civiltà, la quale si sente devastata nei suoi valori essenziali: la durata, l'autenticità, la profondità, la continuità, la ricerca del senso della vita e dell'arte, l'esigenza di assoluti, la verità, la grande forma epica, la logica consueta, ogni gerarchia d'importanza tra i fenomeni. In luogo di tutto questo trionfano la superficie, l'effimero, l'artificio, la spettacolarità, il successo quale unica misura del valore, l'uomo orizzontale che cerca l'esperienza in una girandola continuamente mutevole. Il vivere diventa un surfing, una navigazione veloce che salta da una cosa all'altra come da un tasto all'altro su Internet; l'esperienza è una traiettoria di sensazioni in cui Pulp Fiction e Disneyland valgono quanto Moby Dick e non lasciano il tempo di leggere
Moby Dick.
Nietzsche ha descritto con genialità unica l'avvento di questo nuovo uomo e della sua società nichilista, in cui tutto è interscambiabile con qualsiasi altra cosa, come la cartamoneta. Tutto ciò nasce già col romanticismo, che ha infranto ogni canone classico, anzi ogni canone; come ricorda Baricco, la prima esecuzione della Nona di Beethoven venne stroncata dai più seri critici musicali con termini analoghi a quelli con cui oggi si stroncano, accusandole di complicità con i gusti più bassi e volgari, tante performance artistiche o pseudoartistiche. Baricco cerca di descrivere — o, nei suoi romanzi, di raccontare — e soprattutto di capire il mondo, anziché deplorarlo, e sostiene giustamente, nel bellissimo finale de I barbari (Feltrinelli), che ogni identità e ogni valore si salvano non erigendo una muraglia contro la mutazione, bensì operando all'interno della mutazione che è comunque il prezzo, talora pesante, che si paga per un grande progresso, per la possibilità di accedere alla cultura data a masse prima iniquamente escluse e che non possono avere già acquisito una coerente signorilità «Se tutto va compreso — gli chiedo incontrandolo nella sua e un po' anche mia Revigliasco— non tutto va accettato. Tu stesso scrivi che occorre sapere cosa salvare del vecchio — che dunque non è tale — in questa totale trasformazione. Questo implica un giudizio, che non identifica dunque, come oggi si pretende, il valore col successo. Anche Il piccolo alpino vendeva un secolo fa tante più copie delle poesie di Saba, ma non per questo chi lo leggeva capiva meglio la vita. Se i giornali — come dici — non parlano di una tragedia in Africa finché non diventa gossip di veline o di sottosegretari, non è una buona ragione per non correggere questa informazione scalcagnata prima ancora che falsa. Del resto è quello che fanno tanti blog, in cui si trova spesso più «verità» che nei media tradizionali. I barbari ci aiutano quindi forse anche a combattere la barbarica identificazione del valore col successo».
Baricco — Certo, non tutto va accettato, hai ragione. Ma capire la mutazione, accettarla, è l'unico modo di conservare una possibilità di giudizio, di scelta. Se si riconosce alla nuova civiltà barbara uno statuto, appunto, di civiltà, allora diventa possibile discuterne i tratti più deboli, che sono molti. D'altronde io credo che la stessa barbarie abbia una certa coscienza dei suoi limiti, dei suoi passaggi rischiosi e potenzialmente autodistruttivi: in un certo senso sente il bisogno di vecchi maestri, ne ha una fame spasmodica: il fatto è che i vecchi maestri spesso non accettano di sedersi a un tavolo comune, e questo complica le cose.
Magris — Credo che non esista una contrapposizione fra i barbari e gli altri (noi?). Anche chi combatte molti aspetti «barbarici» non è patetiout, ma contribuisce alla trasformazione della realtà. Come nel Kim di Kipling, in cui tutti spingono la Ruota e ne sono schiacciati. Senza pathos della Fine né di un miracoloso e fatale Inizio. La civiltà absburgica, così esperta di invasioni barbariche, non le demonizzava né le enfatizzava; si limitava a dire: «È capitato che...».
Baricco — «È capitato che...», bellissimo. Quando ho pensato di scrivere I barbari avevo proprio uno stato d'animo di quel tipo… Sta capitando che… Non avevo in mente di raccontare un'apocalisse e nemmeno di annunciare qualche salvezza… volevo solo dire che stava succedendo qualcosa di geniale, e mi sembrava assurdo non prenderne atto. Forse ho letto troppi mitteleuropei da giovane e mi son trasformato in un von Trotta. Colpa tua, in un certo senso…
Magris — Tu indaghi splendidamente lo stretto rapporto che c'era tra profondità, rifuggita dai barbari, e fatica, sublimata e cupa moralità del lavoro e del dovere, che spesso conduce a sacrificio e a violenza. Ma la profondità non è necessariamente legata alla falsa etica del sacrificio. Immergersi e reimmergersi in un testo — in un amore, in un'amicizia, anziché toccarli di sfuggita come oggi i barbari — non vuol dire sfiancarsi a scavare come un forzato nella miniera, ma è come scendere ripetutamente in mare, scoprendo ogni volta nuove luci e colori, che arricchiscono quelle precedenti, o come fare all'amore tante volte con una persona amata, ogni volta più intensamente grazie alla libertà dell'accresciuta confidenza.
Baricco — La profondità, quello è un bel tema. Sai, scrivendo I barbari, ho dedicato molto tempo a capire e a descrivere la formidabile reinvenzione della superficialità che questa mutazione sta realizzando. E trovo fantastico ciò che siamo riusciti a fare, riscattando una categoria che ufficialmente era l'identificazione stessa del male, e restituendola alla gente come uno dei luoghi riservati al Senso. Ma mi rendo anche conto che questo non significa affatto demonizzare, automaticamente, la profondità. Tu giustamente parli di amicizia, di amore, e se tu guardi i giovani di oggi, quasi tutti tipici barbari, tu troverai lo stesso desiderio di profondità che potevamo avere noi. O se pensi alla loro domanda religiosa, ci trovi un'ansia di verticalità che non riesci bene a coniugare con la loro cultura del surfing. Alla fine sai cosa penso? Che la mutazione abbia smontato la dicotomia di superficiale e profondo: non sono più due categorie antitetiche: sono le due mosse di un unico movimento. Sono i due nomi di una stessa cosa. Non so, non so spiegarlo meglio, è una cosa che intuisco ma devo ancora pensare: ma credimi, il punto è quello. Ti dirò di più: la superficialità, nelle opere d'arte barbare, non è già più distinguibile come tale, non più di quanto tu possa distinguere cosa è ornamento in un quadro di Klimt, o pura aritmetica in una suite di Bach.
Magris — Pur più allergico di te — anche per ragioni d'età — ai barbari, vorrei difenderli da una loro immagine totalitaria. In Google vedo anche una — pur immensa — reticella simile a quelle con cui i bambini pescano in mare granchi e conchiglie. Non ho bisogno di Google per sapere qualcosa su Goethe, «linkatissimo», perché lo trovo altrettanto facilmente altrove, come in passato. Invece è Google che mi ha dato qualche notizia su un personaggio minimo di cui mi sto interessando, una nera africana del Cinquecento fatta schiava, divenuta dama di corte in Spagna, rapita dai Caraibi e poi loro regina. I blog correggono l'unilateralità barbarica dei media, che parlano solo di ciò di cui si parla e si sa. Non credo che Faulkner possa sparire, meglio allora se sparisse Google; credo che Google possa semmai aiutare a far riscoprire la sua grandezza a molti ignoranti. I barbari che hanno invaso l'impero romano ne sono stati gli eredi, hanno letto e diffuso i Vangeli...
Baricco — I barbari che hanno invaso l'impero romano erano spesso popolazioni già parzialmente romanizzate guidate da condottieri che venivano dalle file degli ufficiali dell'esercito imperiale...
Magris — La profondità, tu scrivi, è spesso fondamentalista, ha condotto, in nome di valori forti, a guerra e a distruzione. Non credo però che la folla barbarica, innocente, pacifista dei consumatori di videogame sia adatta a scongiurare la violenza; la vedo semmai disarmata e ingenua e dunque facile preda di persuasioni collettive che portano alla guerra. Nella tua straordinaria
Postilla a Omero, Iliade tu dici — e concordo pienamente — che la guerra non si sconfigge con l'astratto pacifismo, ma con la creazione di un'altra bellezza, slegata da quella pur altissima ma sempre atroce del passato, come nell'Iliade. Non vedo però nei consumatori di Matrix questi costruttori di pace...
Baricco — Apparentemente è così. Ma ogni tanto mi chiedo, ad esempio, se una delle ragioni per cui, dopo le due Torri, non siamo precipitati in una vera e propria guerra di religione su vasta scala, non sia proprio la barbarie diffusa delle masse occidentali e cristiane: il loro nuovo sospetto per tutto ciò che si dà in forma mitica impedisce di aderire in modo viscerale ai possibili slogan guerrafondai che in passato, e per secoli, hanno fatto così larga breccia tra la gente.
Magris — I barbari di cui parliamo sono occidentali, anche se integrano elementi di altre culture. Oggi la cosiddetta globalizzazione mescola su scala planetaria altre culture, tradizioni, livelli sociali, quasi epoche diverse, e introduce pure valori di profondità e di fatica, Assoluti, fondamentalismi. Una nuova folla di esclusi si affaccia al mercato della civiltà; rispetto ad essi, i nostri barbari sembreranno presto aristocratici di un altro ancien régime. Certo, passerà del tempo prima che i clandestini d'ogni lingua e cultura levino veramente la voce, ma...
Baricco — È vero. Quando parliamo di Umanesimo o di Romanticismo parliamo di mutazioni che riguardavano un mondo piccolissimo (l'Europa, e nemmeno tutta), mentre oggi qualsiasi mutazione si deve confrontare con il mondo tutto, perché con il mondo tutto si trova a dialogare. Sarà un'avventura affascinante. Ci sono intere parti di mondo con cui facciamo affari che nemmeno sono mai passate dall'Illuminismo: non sarà che l'uomo che stiamo diventando riuscirà a dialogare meglio con loro che con i suoi vecchi sacerdoti del sapere?
Magris — C'è un'altra mutazione in atto — non solo culturale, bensì antropologica, genetica, biologica — che potrà generare un'umanità radicalmente diversa dalla nostra, padrona della propria corporeità, capace di orientare a piacere il proprio patrimonio genetico e di connettere i propri neuroni a circuiti elettronici artificiali, portatrice di una sessualità che non ha nulla a che fare con quella che, più o meno, è ancora la nostra. Certo, passerà comunque molto tempo prima che ciò possa avvenire. Ma se quest'uomo o il suo clone sarà veramente «altro» rispetto a noi, non avrà senso chiedersi se sarà orizzontale o profondo, come non avrebbe senso chiederselo per i nostri avi scimmieschi o magari roditori...
Baricco — Tu dici? Non so. A me pare una frontiera assai più vicina, un destino che appartiene all'uomo come lo conosciamo oggi, a quell'animale lì. Perché credo che una delle acquisizioni fondamentali dell'uomo moderno sia stata quella di immaginare e generare una continuità nel suo cammino, una continuità pressoché indistruttibile. Non importa quanto tempo ci vorrà ma quando connetteremo i nostri neuroni con circuiti elettronici artificiali ci sarà ancora, accanto a noi, un comodino e sul comodino un libro: magari sarà in titanio, ma sarà un libro. E quello che facciamo ogni giorno, oggi, magari senza neanche saperlo, è scegliere che libro sarà: riesci a immaginare un compito più alto, e divertente?

Corriere della Sera 28.7.05
Fagioli: con Fausto perché è un passionale libero dalle ideologie
di Alessandro Trocino


MILANO - Lui se la rideva, a vederlo nella sua piccola libreria romana «Amore e psiche», «un po’ terrorizzato dalle nostre domande», a discettare sul giovane Marx e Feuerbach, a spiegare se venga prima la prassi o le idee, a intimorirsi sulle domande di giovani fanciulle sulla «sofferenza della mente». Però a Massimo Fagioli, l’anziano psichiatra eretico, è piaciuto molto «questo Bertinotti che si cimenta nelle idee, che considera la politica non come calcolo amministrativo delle risorse, ma come passionalità, emozione, ricerca di liberazione».
Dicono che Bertinotti senta molto la sua influenza. Del resto, la chiamano guru.
«Bertinotti l’ho conosciuto l’anno scorso, ma evidentemente i miei scritti li conosceva già: lui stesso lega la scelta della non violenza alle mie teorie. Ma guru non mi piace. A meno che non si scherzi».
La non violenza, una scelta contestata da alcuni.
«C’è una frase terribile che non sono riuscito a dire: non ci sarà mai nessun comunismo se non si affronta la realtà umana. Persino Marx ha fallito e si è dato all’economia politica. Io sono convinto di avere scoperto questa realtà».
Riesce dove Marx ha fallito.
«Una bella superbia, eh? Ma l’ha detto lei, io mi astengo».
Che cos’è questa realtà umana?
«Che dobbiamo scoprire un’altra violenza, quella invisibile che sta nella mente, nelle pulsioni. Lei sa che per Freud l’inconscio è perverso. E invece è sano. Se si ammala, si cura».
Lei non ha mai amato Freud.
«Era un povero cretino, un demente. Nevrotico e psicotico».
Ma non era non violento?
«Distruggo il distruttore della realtà umana. Senza toccarlo: è morto da quasi 70 anni».
Che cosa c’entra tutto questo con Bertinotti?
«Bertinotti ha capito che non si tratta soltanto di procurare benessere fisico, bisogna fare un lavoro sulla mente, liberarla dalle ideologie, dalle religioni, dagli orchi del male, dalle fate».
Il comunismo è un’ideologia.
«Anche Bertinotti ha ammesso che è fallito e ora cerca di farne uno nuovo. Per questo occorre una teoria sulla mente umana. Non basta la fratellanza universale: quella c’era già nel cristianesimo e non è bastata».
Lei è comunista?
«Mai stato. All’epoca stavo con il socialismo di sinistra di Lombardi. Con il Psiup, che era più estremista dei comunisti».
L’Unione di Prodi le piace?
«Prodi è abile, ma non mi convince il suo cattolicesimo. E’ un chierico, basta vedere il modo in cui si muove. Ora dice di essere un cattolico laico. Prima, però, ha votato la legge criminale sulla fecondazione».
Rutelli?
«Mah, era laico, radicale, anticlericale. Ora è un baciapile».
E Fassino?
«Pure lui ora crede in Dio. Una volta, nel Pci bisognava essere atei. Ora anche la Turco è ultracattolica. Sono problemi».
Teme lo Stato confessionale?
«Altroché. Il capo di uno Stato straniero si permette di dirci che leggi fare e nessuno protesta. Ormai è uno Stato teocratico. In Italia c’è democrazia, ma poi alla fine uno viene isolato. Al limite, c’è più libertà in Iran».
Bertinotti ultima speranza?
«Beh, così mi pare eccessivo. Ma anche Fausto, ora che ha abbracciato la non violenza, dovrebbe liberarsi di quelli dell’Ernesto. Dei leninisti, dei trotzkisti. E’ roba vecchia, pesante».
Ce la farà alle primarie?
«Chissà. Non so nemmeno come si fa. Ma dove si vota, poi?».

Repubblica 27.7.05
Il personaggio
Il lancio della candidatura nella libreria dello psicanalista Fagioli tra gli applausi di militanti e fan
Fausto abbraccia il Guru e s'affida alla Provvidenza rossa
Per il leader del Prc una grande cornice mediatica: il rituale di applausi, grida festose e foto scattate con i telefonini
Adorato dalle signore dei salotti
Dice di lui Suni Agnelli: "Si ama la politica e si finisce per innamorarsi di Bertinotti"
di Filippo Ceccarelli


Dio li fa e poi li accoppia. Anche applicato a non credenti, o a persone «in ricerca», come potrebbero essere l´onorevole Fausto Bertinotti e il professor Massimo Fagioli, il vecchio proverbio non solo conferma la propria inesorabile certezza, ma si preoccupa pure di gestire l´accoppiamento, lo rende visibile, gli dà una cornice mediatica, gli monta attorno un rituale fatto di applausi, grida festose e foto scattate con i telefonini tanto dai rifondatori quanto dalla gran massa dei «fagiolini», come ormai da un quarto di secolo vengono chiamati nella sinistra romana i seguaci di Fagioli.
Con il che si va ad allestire la scena, usciti sgocciolanti come sommergibilisti dalla libreria-sauna "Amore e Psiche", sotto lo schioppo del sole, il Leader e lo Psicoterapeuta si abbracciano. Una, due volte, per la comodità dei fotografi. I vigili urbani hanno addirittura chiuso la strada. Bertinotti è pelato e indossa un abito chiaro, Fagioli ha una chioma fluente, autorevole, ma è vestito più sciolto, una camicia azzurra e occhiali da sole un po´ cattivi.
Le lingue lunghe della politica dicono che c´è lui, già guru di Marco Bellocchio, dietro la svolta neo-esistenzialista e non violenta di Bertinotti, e la riprova starebbe nel fatto che per lanciare - con accaldata scomodità, invero - la sua candidatura alle primarie, abbia scelto proprio quella libreria che Fagioli, cui i fans attribuiscono un genio quasi leonardesco, ha addirittura progettato e realizzato con archi e scale in legno chiaro, piuttosto elegante.
Fagioli, infatti, è un guru, un classico guru. Giovane e luminosa promessa della psicanalisi freudiana, già negli anni sessanta ne scosse le fondamenta guadagnandosi la disagevole, ma esaltante fama di eretico, che in seguito estese anche al marxismo. Fu scacciato dalla Spi e malvisto dall´ortodossia comunista, ma dalla sua aveva esperienza, fascino e carisma. Fece ricerca per conto suo, alla metà degli anni settanta ebbe un successo travolgente tra i giovani di sinistra, molti in via di disperato disincanto, che lo inseguivano in cliniche psichiatriche, università e conventi occupati, a migliaia, per farsi interpretare i sogni.
Era l´Analisi Collettiva, o psicoterapia di folla (gratuita, comunque), in pratica l´evoluzione dell´assemblea in senso introspettivo. I «fagiolini», imploranti, alzavano la mano e il Maestro sceglieva a quale domanda dare corso. Per dire il successo di quelle atmosfere, a un certo punto venne fuori pure una radio «fagiolina», con conferenze e telefonate in diretta. Arrivò la gloria, naturalmente, ma anche una stagione di polemiche. Ai tempi de «Il diavolo in corpo» Bellocchio fu duramente contestato dal produttore perché si portava Fagioli sempre sul set, come regista del regista, lasciandogli mettere bocca anche sul montaggio.
Vera, falsa o enfatizzata che fosse, la venerazione di parecchi pazienti, pure ribattezzata «massimo-dipendenza», finì per alimentare attorno a Fagioli e ai suoi fans una qualche sulfurea nomea di setta. Ma di tutto, com´è noto, i guru possono preoccuparsi, meno che di quella. Così, nel tempo, il Maestro ha continuato a scrivere sceneggiature per Bellocchio, come pure ha seguitato adoratissimo a guarire, a insegnare, a editare pubblicazioni, a disegnare mobili e ispirare architetti; si è pure fatto celebrare in un paio di convegni, uno dei quali divenuto autocentrico documentario; quindi ha girato un film tutto suo, «Il cielo della luna», per il quale ha scelto le musiche e recitato la parte di un barbone, per quanto muto, lasciando il ruolo dei protagonisti a due «fagiolini». E infine - qui viene il bello - Massimo Fagioli ha incontrato Bertinotti.
Il bello sta nella fantastica circostanza che anche Bertinotti è un po´ un guru. Certo: rispetto allo psicanalista se lo può permettere di meno, con sei correnti, tre solo trotzkiste, nel suo partito. C´è però da dire che «il Grande Fausto», come l´ha chiamato Liberazione il giorno del suo compleanno, è un santone a suo modo poliedrico, un seduttore adattabile, un poetico cacciatore di anime che sa sempre cogliere il momento.
Così, più che con gli impervi trotzkisti, vale la pena di vederlo all´opera nella sua intensa vita mondana: cortese, elegante, telegenico, pacato, con tanto di erre moscia e civettuola bustina portaocchiali. Come tale invitatissimo «prezzemolino», insieme con la simpatica moglie signora Lella, record di presenze a Porta a porta, premio Oscar del Riformista: «Si ama la politica - ha detto di recente Suni Agnelli - e si finisce per innamorarsi per Bertinotti».
Le signore, specie quelle dei salotti-spettacolo di una Roma al tempo stesso prestigiosa e sgangheratissima, vanno pazze per lui: e lui lo sa. E non c´è niente di male, non è reato frequentarle, tantomeno è peccato ritrovarsi con i reduci del Grande Fratello. E´ solo un po´ buffo, o surreale, o straniante, come in un film di Bunuel, veder così spesso Bertinotti in foto al fianco di Donna Assunta Almirante, o a Maria Pia Dell´Utri, sorridente con Valeriona Marini, Cecchi Gori, Romiti, Sgarbi e Marione D´Urso; oppure intervistato sulla fede da don Santino Spartià, comunque assiduo a casa Suspisio, immancabile a villa «La Furibonda» di Marisela Federici. E insomma tutto bene, ci mancherebbe altro, però il giorno dopo è curioso sentirlo parlare del «popolo», parola desueta, parola potente. Chissà se il popolo si divertirebbe pure lui a «La Furibonda» o a «La Città del Gusto».
Ad "Amore e Psiche", intanto, lo Psicologo è rimasto nobilmente in platea a fare sì-sì con la testa non appena il Politico dava segno di aver assorbito un linguaggio che si nutre ormai di «felicità», «premonizione», «desiderio», «promessa», «liberazione», «attesa». A un dato momento, deposti i vecchi attrezzi lessicali vetero-marxisti, Bertinotti ha pure invocato la «Provvidenza rossa». Fuori, dietro le vetrine, la gran massa degli adepti animava la strada con sorrisi e applausi. Dopo l´abbraccio, c´è il tempo per un´ultima domanda, con la speranza che non suoni troppo indisponente: «Scusi, Fagioli, ma chi è più guru: lei o Bertinotti?». E il Maestro, senza fare una piega: «E´ più guru Bertinotti». Ma forse, per una risposta più articolata, potrebbe non bastare un seminario.

lettera a Lotta continua
Lotta Continua Giovedì 24 Aprile 1980
Ragazzino donne e sifilide
di Massimo Fagioli


Caro Luciano,
ho avuto la ventura, da ragazzino, di incontrare una donna assai brutta. A me parve bruttissima appena la vidi. Ho sempre bevuto molto, da tutti, le strade e le stradine percorse, deserte, salvo le molte puttane, molli di pioggia, si trasformarono per me in uno di quei labirinti che fanno ogni istituto di psicologia, da un milione di anni, che servono per certi esperimenti sugli uomini: sull’istinto animale, la ripetizione, la rassegnazione, la passività.
Dentro quei vicoli mi muovevo con pochissima sicurezza, dapprima, che diventava, poi, sempre maggiore. Guidato da un desiderio forsennato e dalla certezza che le cose non potevano essere in quel modo. Era una sensazione dolorosa aumentata dalla mia nebbia di allora. E il mio corpo era in subbuglio. Penso che tu intenda cosa voglio dire. Quella donna, la realtà psichica umana, le cui labbra bellissime nascondevano spesso, troppo spesso, i denti guasti dell'invidia e della rabbia.
Ne cercai di donne, anch'io avevo bisogno di quella sana che curasse la mia sifilide, il mio desiderio cieco, la negazione della realtà psichica umana.
Ebbene, Luciano, tutte erano sifilitiche come me, più di me, e quando lo erano meno di me succhiavo avidamente fino ad ubriacarmi.
Non lo seppi subito. Passarono anni in cui provavo sensazioni strane; camminavo a piedi nudi sul marmo freddo del pavimento della camera dopo aver fatto l'amore e mi pareva di camminare sul velluto, mi bruciavo la pelle delle dita cercando di spegnere al buio mozziconi di sigaretta e sentivo solo una leggera puntura di spillo. Attribuivo sulle prime questi sintomi alla grandezza straordinaria del mio amore.
Era pulsione di annullamento e di negazione dell’inconscio mare calmo: quella latente, quella invisibile come le spirochete ma terribile, mortale.
La luce gialla dei lampioni metteva in evidenza silhouettes di donne, vicino al duomo, sottomesse al duomo, accecate dal duomo, quando, tante volte, ormai stavo per rinunciare mi accingevo ad uscire dal labirinto per una stradina laterale che tutti conosciamo molto bene: l’indifferenza. Tante volte l’avrei ammazzate quelle donne. Tornavo in me furibondo. Ma poi le loro labbra di velluto succhiavano la mia rabbia; i loro occhi mi ritrascinavano di colpo nel mare in tempesta della nostra relazione amorosa.
Mi curai per sei anni in maniera intensiva con la mia ricerca, per resistere, non soccombere, non impazzire. Poi ancora per altri venti anni. Studiai. Avevo scoperto che non c’era nessun medico che potesse dire che non era amore, era negazione. Non c’era nessun medico che avesse la penicillina.
Ovviamente. Dovevo dire che gli esseri umani sono bellissimi. Ce l’avevo dentro da tanti anni. Ogni volta che mi avvicinavo ognuno mi succhiava le parole dal cuore con dei baci che, caro Luciano, ti auguro di non provare mai. Se fossi un poeta invece che uno psichiatra forse potrei tentare di descrivere i liquidi infuocati che mi scendevano e salivano per il corpo mescolandosi alle labbra incollate a quelle degli altri, ad un fresco sapore di mentuccia prealpina che fluisce dal respiro degli altri.
Quell’incontro ha segnato in maniera indelebile la mia vita. Sono passati tantissimi anni ed ora tu mi chiedi una risposta. Perché sono diventato medico, scienziato, terapeuta, ricercatore, critico duro, caustico, ma costruttivo.
Perché ogni volta, sempre, quando baciavo come te, le labbra delle donne, sentivo sempre la domanda continua, neppure sussurrata, senza suoni materiali: “toglimi la follia, che è dentro di me, ripulisci la mia mente dal mio Io infetto e restituiscimi la dolcezza dell’inconscio mare calmo con cui sono nata. Fammi rinascere in maniera diecimila volte più bella perché questa volta, tu ed io, siamo gestante e feto ad un tempo. Ma tu devi essere anche levatrice. Fammi rinascere con la coscienza di nascere. E di nascere sana".
Ed io, te lo confesso, qualche volta, tante volte forse, ho tentato di non ascoltare. Ma non ci sono riuscito. Non sono riuscito ad accecarmi per non vedere quello che c’era al di là delle labbra bellissime, al di là della rabbia dei denti guasti.
La domanda degli occhi. Tu l’avrai notato che, talvolta, gli occhi, nel bacio rimangono aperti e hanno un non so che di vuoto. E dietro al vuoto ancora c’è la domanda appassionata, invisibile; c’è l’ordine, il comando, il Potere giusto al quale bisogna sottomettersi. “Se tu puoi devi guarirmi della follia che è dentro di me”.
Allora ti succhiano le parole dal cuore, in un bacio continuo che, caro Luciano, non ti auguro di provare. Perché ti danno tutto quello che hanno, ma ti chiedono tanto, tutto quello che hai, e tutto quello che puoi fare nella vita. Ti chiedono anche di essere duro, sempre critico, caustico, di pretendere sempre di più e di meglio. Allora devi rinunciare a far l’amore; perché mentre ti dicono ti amo, ti dicono “non fare l’amore con me, non ingannarti, perché io sono sifilitica. Non permettere che la mia malattia uccida entrambi”.
Perché la gente vuole vivere, anche se è malata. E ciascuno di noi chiede all’altro, sempre, un po’ di vita.
Oggi sono contento di non aver chiesto mai a nessuno se era malato; sono contento di aver avuto con gli altri l’unico rapporto dialettico possibile: non essere scappato. Stiamo ancora bene insieme, con gli altri, più di quando non c’era la penicillina.
Non ti dico cosa manca a te: non lo so. Hai scritto una bellissima lettera, te l’ho quasi interamente copiata. Per immergermi nel rapporto anche se non tutto è uguale. E’ così: “…liquidi infuocati in ogni rapporto interumano che scendono e salgono per il corpo, mescolandosi nelle labbra incollate dell’uno e dell’altro ad un fresco sapore di mentuccia che fluisce dal respiro di ognuno”.
Ma, poi, ecco il medico-scienziato e, se vuoi, il politico. Necessario per non morire. Non con tutti. C’è gente per “razza”, più sensibile, più vera artista, più grande genio, amanti più abili, battoni più puri, sensibilità maggiore, anima più bella. Una “razza” ariana di cui tu, dal momento che dici di non essere più tanto giovane, dovresti ricordarti, e ricordandoti, accorgerti che è accanto a te, nella stessa pagina.
Vedi, quando si vuole fare scienza le distrazioni sono mortali. Ecco, forse ti manca questo per essere scienziato: l’attenzione per il latente. O forse un po’ di metodo politico. Il latente uccide e la gente non vuole morire, non vuole che tu muoia perché ognuno di noi serve agli altri per vivere. Il democraticismo volgare non serve; fa morire quanto la repressione del potere.
Tu hai amato una donna, io più di una. Forse occorre questo per essere scienziato: prendere la sifilide da più di una donna, lasciarsi andare ogni volta senza fare lo scienziato. Poi ti costringono ad esserlo. Perché sono tutte diverse, bellissime, ti danno la vita e la gioia di vivere ma sono tutte uguali nella sofferenza, nell’angoscia, nel vuoto della mente.
Spero di ascoltare sempre più frequentemente gente come te, gente che ha affrontato in proprio, sulla propria pelle il rapporto con gli altri e si è curata. Ora sei sano ma… se non ci fosse stato Fleming? Te lo devo ricordare io il disfacimento luetico, la pazzia luetica, i figli scemi luetici? Nessuna gratitudine ma… una rosa gliela vuoi mandare a Fleming?
Massimo Fagioli

Corriere della Sera 26.9.08
E i lingotti salvano il Vaticano dal «rosso»


Il Vaticano sembra potersi permettere, in questi tempi inquieti, di guardare con una certa serenità e distacco alla crisi dei mutui e alle tempeste finanziarie che stanno scuotendo il resto del mondo: sta infatti seduto - rivela il settimanale britannico Tablet - su una «roccia d’oro» perché già nel 2007, e su consiglio di abili consulenti finanziari, aveva trasformato i suoi investimenti azionari in lingotti, oltre che obbligazioni e contanti.
La rivista del Regno Unito ha fatto esaminare a un analista economico i dati contenuti nel rapporto annuale sulla gestione delle finanze vaticane relativa allo scorso anno, preparato dalla Prefettura degli Affari economici della Santa sede e reso pubblico già nel luglio 2008. Non si tratta di cifre nuove, ma dalla lettura degli esperti emerge ora che la Santa sede, sapientemente consigliata, aveva fiutato in anticipo i venti avversi del mercato e convertito i propri investimenti azionari, come un novello «re Mida», in tanto metallo prezioso. La Santa sede possiede attualmente una tonnellata di oro che può valere circa 19 milioni di euro. Il Tablet ironizza: «La roccia di Pietro, su cui è stata fondata la Chiesa, si è trasformata in una roccia d’oro». E da quale posto migliore osservare quanto sta accadendo in queste ore nelle tumultuose acque dell’economia mondiale?
Il settimanale riporta l’opinione di un esperto finanziario, di cui non fa il nome, secondo il quale la Santa sede «appare finanziariamente ben posizionata per raccogliere profitti, anche nell’attuale tempesta finanziaria». «Complessivamente - aggiunge - la Santa sede è stata ben consigliata e non ha probabilmente perso molto nella crisi. Hanno abbandonato man mano le azioni e nel tempo si sono concentrati su investimenti obbligazionari e monetari».
Secondo i dati contenuti nel rapporto finanziario del 2007, il Vaticano disporrebbe di 340 milioni di euro in valuta, di 520 milioni in obbligazioni e in poche azioni, insieme ai 19 milioni in oro più molti altri in preziosi. Una quota più che ragguardevole per un piccolo stato come quello pontificio. La roccia tuttavia è più traballante di quello che appare. «I risultati del primo periodo del 2008 sono preoccupanti e non inducono all’ottimismo», dice il vescovo Vincenzo Di Mauro, segretario della Prefettura degli Affari economici. «Si rende sempre più necessario - aggiunge - il richiamo alle Amministrazioni della Santa sede a operare con prudenza e con la massima oculatezza nella gestione operativa delle spese e nell’assunzione di nuovo personale».
In ogni caso, questo è certo, il Vaticano si avvale dei migliori consulenti disponibili sul mercato, che finora non lo hanno tradito. Solo una decina di anni fa avvenne un curioso incidente, mai reso noto. Il «portafoglio» personale del Papa era affidato a una grande banca internazionale e se ne occupava un funzionario che aveva il compito di investire nel modo migliore il denaro raccolto nell’Obolo di San Pietro e di essere pronto a smobilizzarlo a ogni occorrenza per le opere di carità. Era però in vacanza mentre Papa Wojtyla, in Brasile nel 1997, staccava un assegno per la costruzione di un orfanotrofio a Rio de Janeiro. Assegno risultato «scoperto»: un errore tenuto nascosto a cui però fu poi dato rapido rimedio.

L’Unione Sarda.it, 26.9.08
Il Vaticano al riparo dalla crisi ha investito in lingotti d'oro


Il Vaticano sembra potersi permettere, in questi tempi inquieti, di guardare con una certa serenità e distacco alla crisi dei mutui e alle tempeste finanziarie che stanno scuotendo il resto del mondo: sta infatti seduto - rivela il settimanale britannico "Tablet" - su una "roccia d'oro" perché già nel 2007, e su consiglio di abili consulenti finanziari, aveva trasformato i suoi investimenti azionari in lingotti, oltre che obbligazioni e contanti.
La rivista del Regno Unito ha fatto esaminare ad un analista economico i dati contenuti nel rapporto annuale sulla gestione delle finanze vaticane relativa allo scorso anno, preparato dalla Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede e reso pubblico già nel luglio 2008. Non si tratta di cifre nuove, ma dalla lettura degli esperti emerge ora che la Santa Sede, sapientemente consigliata, aveva fiutato in anticipo i venti avversi del mercato e convertito i propri investimenti azionari, come un novello "re Mida", in tanto metallo prezioso. La Santa Sede possiede attualmente una tonnellata di oro che può valere circa 19 milioni di euro. Il Tablet ironizza: "la roccia di Pietro, su cui è stata fondata la Chiesa, si è trasformata in una roccia d'oro". E da quale posto migliore osservare quanto sta accadendo in queste ore nelle tumultuose acque dell'economia mondiale? Il settimanale riporta l'opinione di un esperto finanziario, di cui non fa il nome, secondo il quale la Santa Sede "appare finanziariamente ben posizionata per raccogliere profitti, anche nell'attuale tempesta finanziaria". "Complessivamente - aggiunge - la Santa Sede è stata ben consigliata e non ha probabilmente perso molto nella crisi. Hanno abbandonato man mano le azioni e nel tempo si sono concentrati su investimenti obbligazionari e monetari". Secondo i dati contenuti nel rapporto finanziario del 2007, il Vaticano disporrebbe di 340 milioni di euro in valuta, di 520 milioni in obbligazioni e in poche azioni, insieme ai 19 milioni in oro più molti altri in preziosi. Una quota più che ragguardevole per un piccolo stato come quello pontificio. La roccia tuttavia è più traballante di quello che appare, secondo un responsabile della Santa Sede, citato sempre dal Tablet. "I risultati del primo periodo del 2008 sono preoccupanti e non inducono all'ottimismo", dice monsignor Vincenzo Di Mauro, segretario della Prefettura vaticana degli Affari Economici. "Si rende sempre più necessario - aggiunge - il richiamo alle Amministrazioni della Santa Sede ad operare con prudenza e con la massima oculatezza nella gestione operativa delle spese e nell'assunzione di nuovo personale". In ogni caso, questo è certo, il Vaticano si avvale dei migliori consulenti disponibili sul mercato, che finora non lo hanno tradito. Solo una decina di anni fa avvenne un curioso incidente, mai reso noto, durante una visita di Giovanni Paolo II in Brasile. Il "portafoglio" personale del Papa era affidato ad una grande banca internazionale e se ne occupava un funzionario di base nel New Jersey che aveva il compito di investire nel modo migliore il denaro raccolto nell'Obolo di San Pietro e di essere pronto a smobilizzarlo ad ogni occorrenza per le opere di carità. Era però in vacanza mentre Wojtyla, in Brasile nel 1997, staccava un assegno per la costruzione di un orfanotrofio a Rio De Janeiro. Assegno risultato "scoperto": un errore tenuto nascosto a cui però fu poi dato rapido rimedio

Liberazione 31.7.08
Marco Revelli: «Fuori c'è un incendio sociale, nel Prc ci si divide il guscio vuoto».»
intervista di Davide Varì


Marco Revelli è riluttante, proprio non ha voglia di parlare dell'epilogo del congresso di Chianciano. «Conosco e stimo molti dirigenti di Rifondazione - spiega - ma ho un'idea davvero negativa di quel che ho visto in questi ultimi due mesi».
Alla fine Revelli cede e accetta di essere intervistato. Lui, intellettuale storico della sinistra, sa forse che non può sottrarsi in un momento così delicato. E' un atto di responsabilità il suo, «quella stessa responsabilità che è invece mancata ai protagonisti di Chianciano». «E dire - spiega sorridendo - che sono tra i pochi folli che ha votato per la Sinistra Arcobaleno. Mi viene il dubbio di non aver capito nulla, di non aver colto l'animo profondo di questo partito. Parlo dell'animo degenerato che si è manifestato in quel congresso».
Ha i toni pacati della rassegnazione Revelli, ma non risparmia critiche, anzi, vere e proprie bordate a nessuno. «Nessuno dei contendenti di Chianciano - spiega infatti sereno - è riuscito a sollevare la testa dalle proprie miserie».
Un'analisi impietosa quella di Marco Revelli, un'analisi che parla di «distanza dalla vita dei cittadini» e di totale incomprensione del momento storico e sociale che stiamo vivendo: «Fuori da quelle stanze - dalle chiuse stanze di Rifondazione, s'intende - c'è una società in frantumi, c'è un incendio sociale che divampa e che si estende. E in tutto questo i dirigenti del partito pensano solo a tirarsi addosso le macerie di quel palazzo in frantumi».
E in questo scenario apocalittico, ci sono due grandi questioni che secondo Revelli la "sinistra" non riesce proprio a cogliere: i limiti della forma partito, «quella stessa forma che forse ha generato i demoni di Chianciano», ed i limiti di questo sviluppo. Anzi, il vero e proprio esaurirsi dello sviluppo economico e sociale per come lo abbiamo conosciuto in questi ultimi due secoli. «Ecco - spiega Revelli - finché la sinistra non si doterà degli strumenti necessari a comprendere il mondo che ci troviamo a vivere e finché non avrà la forza di spiegare che questo modello di vita andrà sempre più esaurendosi, non nascerà alcun progetto politico credibile».
Impietoso, si diceva, il giudizio di Revelli sugli attuali ed i vecchi dirigenti di Rifondazione: «Conosco e stimo molti di quelli che si sono affrontati a Chianciano. Conosco Nichi Vendola e conosco Paolo Ferrero. Nessuno di loro è riuscito però ad affrontare il congresso per come doveva essere affrontato. E' incredibile che dopo una sconfitta elettorale così pesante, l'unico obiettivo e l'unica preoccupazione fosse il controllo del partito».
Ed ora? Quale futuro per questa sinistra? O meglio, c'è un futuro per questa sinistra? «L'unica strada - conclude Revelli - è quella di iniziare a guardarsi intorno. Ma le "riterritorializzazione" di cui molti parlano non nasce per decreto, non vorrei che qualcuno pensasse che sia sufficiente mandare i funzionari di partito in giro per i territori».

La prima domanda è d'obbligo: cosa pensi dell'epilogo del congresso di Chianciano?
Sono amico e rimarrò amico di molti dei protagonisti del congresso. Sono amico di Paolo Ferrero e di Nichi Vendola. Li conosco da molti anni eppure, in questa battaglia politica non sono proprio riuscito a riconoscerli.

E questa è la premessa, manca il giudizio su quanto accaduto...
E' come se ognuno di loro fosse preso dai propri demoni. Non riesco ancora a credere che, dopo una sconfitta politica tanto severa e netta, nessuno di loro sia riuscito a guardare le cose per quelle che sono nella realtà. Nessuno di loro ha capito, né si è sforzato di farlo, la società italiana e i profondi cambiamenti che la stanno attraversando. Ognuno di loro si è rinchiuso nella sede di partito per prepararsi alla resa dei conti finale. Una resa dei conti, vorrei dir loro, che ai più è apparsa del tutto incomprensibile e distante. I dirigenti di questo partito hanno pensato bene di tirarsi addosso le macerie di una casa in frantumi. Macerie che sono franate su di noi che stavamo in basso, ignari di quanto stava accadendo.

Eppure c'erano 5 mozioni diverse che, almeno in teoria, avrebbero dovuto rappresentare almeno 5 letture diverse della realtà italiana...
Nessuna lettura, nessuna comprensione del Paese. E' come se nel corso della vicenda congressuale tutte le componenti di Rifondazione fossero impegnate a legittimare le ragioni della sconfitta elettorale. Una sconfitta che, a questo punto, era forse giusta. Quello che voglio dire è che a Chianciano Rifondazione si è presentata come un'accozzaglia di schegge autoreferenziali. Io sono tra quelli che hanno votato per la Sinistra Arcobaleno ma, a questo punto, mi viene il dubbio di non aver capito la degenerazione di quel partito. Forse chi non l'ha votato l'ha capito prima di me.

E' un giudizio molto duro. Davvero non vedi tracce di "redenzione"?
Nessuna. L'unico problema era il controllo del partito. Ma un dubbio mi è venuto. Visto che conosco e stimo molte di quelle persone che si sono affrontate a Chianciano, allora, forse, il problema è nello strumento.

Intendi dire che la forma partito è il vero ostacolo?
Certo. Se il problema non sono le persone, allora il vizio sta nello strumento. Una prova evidente di quanto dico sta nel fatto che c'è stata una enorme divaricazione tra i contenuti espressi ed i mezzi utilizzati per ottenere il controllo del partito. Io ho notato una plateale schizofrenia tra i contenuti delle proposte politiche - ognuna delle quali apprezzabile per la propria onestà - che venivano però contraddetti dallo stile e dal metodo con cui venivano affermati. La mozione Ferrero che teorizzava l'iniziativa dal basso veniva affermata con una pratica che più di vertice non potrebbe essere, senza che nessuno all'esterno se ne sentisse coinvolto; d'altra parte la proposta di Vendola di partito aperto avveniva nel chiuso di un ristretto cerchio di partito. Di qui l'idea che sia proprio la forma partito ad alimentare i demoni. Tanto più che non stiamo parlando del controllo di un grande partito comunista. Nella realtà questo congresso ha mobilitato poche decine di migliaia di persone. Ma io dico: almeno tenetevi segreti questi dati, questi numeri ridicoli. Non siamo mica all'XI congresso del Pci che ha mobilitato milioni di iscritti. Capisco la passione, ma dividersi un guscio vuoto con uno scontro cosi feroce è davvero difficile da comprendere.

In molti hanno criticato l'incapacità di guardare fuori dalle stanze di partito...
Certo, senza considerare che ciò che accade fuori non è certo ordinaria amministrazione. Fuori da quelle stanze c'è infatti un Paese in fiamme, una società incandescente che accusa processi di degenerazione davvero allarmanti. Fuori c'è un incendio. Non c'è solo una maggioranza politica oscena, c'è una situazione sociale e culturale in caduta libera e l'emergere di un modello politico e culturale feroce. Io vedo tutti i segni di un'apocalisse culturale.

Bene, allora proviamo a metterlo noi il naso fuori dalle "stanze" di partito. Quali sono le questioni più urgenti?
Innanzi tutto c'è da dire che siamo di fronte ad una trasformazione genetica dei soggetti e della stessa classe operaia. Il tutto dentro un quadro internazionale molto preoccupante che lascia intravvedere cedimenti strutturali della democrazia. Insomma, una vera e propria mutazione antropologica. Ecco, io dentro quel dibattito non ho visto quasi nulla di tutto ciò. Di fronte a questo quadro ci si aspetterebbe un livello altissimo di responsabilità prima di rompere alcunchè, prima di darsi battaglia senza esclusioni di colpi. Io vedo una mancanza assoluta di consapevolezza di tutto questo. Ecco l'assenza di questa consapevolezza è la questione delle questioni. Un'assenza che spiega la mancanza di una reale opposizione. Al di là delle colpe soggettive di Veltroni ,del Pd e di Rifondazione, oltre a tutto questo, il vuoto di opposizione deriva da questo vuoto di consapevolezza. Poi c'è una altra questione fondamentale: la fine dello sviluppo.

Parli del nostro modello di sviluppo economico?
Certo, questo è il nodo intorno al quale dipanare la matassa dei progetti politici. Noi siamo di fronte alla fine di una lunga epoca, la fine di un lungo ciclo dominato dalla logica dello sviluppo. Per decenni la rappresentazione complessiva del mondo si basava sull'assunto che le risorse andavano crescendo. Ecco, quel mondo non ci sarà più ma nessuno ha il coraggio di dirlo e di spiegarlo.

A dirla tutta, una parte della destra, pensiamo a Giulio Tremonti, lo dice molto più che la sinistra...
E' vero, ma la destra lo spiega a modo suo. Parla di crisi e di fine delle risorse per gestire l'allarme da essa procurato e si candida a governare l'esclusione e l'inclusione dal nostro mondo. Taglia a fette la società e decide chi sta dentro e chi sta fuori. Il compito della sinistra è quello di spiegare che ci sono limiti insuperabili. Deve trovare la forza di dire che alla decrescita non c'è alternativa e che l'unica alternativa è data dal fatto che questa decrescita si può subire oppure governare. La crisi energetica e quella alimentare rappresentano l'orizzonte dei prossimi decenni. Ma questa cosa qui, a quanto pare è indicibile. Non lo dice e non lo spiega Veltroni ma neanche il tardo-marxismo di Rifondazione che continua a predicare stancamente la redistribuzione. Siamo fermi al Keynes degli anni '30. Finchè non si dichiara questa cosa qui non potrà nascere nessun progetto politico. Per questo le logiche identitarie diventano formalistiche; e le pseudo aperture appaiono virtuali e meramente mediatiche visto che non hanno alcuna sostanza storica. Quando non c'è più rapporto con la storia ci si affida alla retorica.

Dunque è questo l'orizzonte della sinistra?
Bisogna liberarsi degli occhiali dell'illusione sviluppista e mettere le mani in questo sporco contesto sociale che è la materialità dell'ultimo secolo. Un'operazione nella quale non ci aiutano nè Lenin nè Trotsky. Bisogna fare da noi.