l’Unità 8.10.08
Torna centrale nel dibattito e nella polemica politica lo spettro di Carlo Marx: tutta colpa dei mutui e della crisi del capitalismo
Tremonti e Bersani, chi è il più comunista
Comunista non lo è mai stato. Giulio Tremonti lo ha tenuto a specificare. Recentemente ha rivalutato Marx, è vero, ma è stato solo per un momento. Non è mai stato neanche «un liberista selvaggio». Anche questo ha voluto specificare ieri. Semmai un innovatore, l’inventore delle cartolarizzazioni, che ha trasformato il mattone in titoli, della finanza creativa, dei condoni. Tutto ma non comunista o liberista. Lui no, ma Pier Luigi Bersani, anzi «Bersanov», sì. Comunista perché Bersani avrebbe usato, come ogni buon sovietico, carte false contro un avversario politico, e cioè lo stesso Tremonti, liberista perché soggiogato nella sua carriera politica «dalla City finanziaria», tanto da «trasferire i suoi denari da Mosca a Londra» e da «adottare lo stile di vita dei manager».
Che avrebbe fatto dunque “Bersanov” per meritare tanto livore? Ha ricordato, con il segretario del Pd Walter Veltroni, che nel 2003, solo cinque anni fa, l’allora ministro dell’Economia, e cioè Tremonti, aveva proposto nel Documento di programmazione economica e finanziaria, un piano per l’introduzione di «mutui ipotecari» anche in Italia. L’ipotesi era semplice. Gli stessi strumenti finanziari che sono alla base dell’attuale crisi mondiale potevano essere utilizzati dagli anziani per ipotecare la casa e avere soldi per far lievitare in questo modo i consumi. E non faceva nulla se poi erano creditori poco solvibili, a quello avrebbe pensato la finanza.
Quell’idea, ha contestato Tremonti, non venne tradotta in carta e quindi non esiste. «Un ministro risponde solo dei testi che firma». E in effetti ce ne sarebbero tanti per i quali il ministro potrebbe anche spendere una parola in più. Tralasciando le misure già ricordate, Tremonti potrebbe dire agli italiani a quanto ammontano, ad esempio, i contratti «swap» che il suo governo ha stipulato con la banca d’affari americana Lehman Brothers, recentemente finita a gambe all’aria.
Il difensore della massaia di Voghera, l’uomo che lancia in resta si è gettato contro i mercati finanziari e gli avidi manager che li hanno regolati fino a questo momento, ai quali il suo studio legale fa onostamente il 740, dopo aver infilzato banche e petrolieri potrebbe anche spiegare perché la scorsa settimana non si è presentato in Parlamento e non ha risposto alle domande dell’opposizione sui debiti finanziari «swappati» dal Tesoro. A noi, vecchi vetero comunisti sovietici, viene il dubbio, che questa assenza forzata derivi dal fatto che il ministro Tremonti, come ha spiegato anche il parlamentare ed economista del Pd Francesco Boccia, abbia dato vita a «un tentativo affannoso di coprire quelle perdite con altre operazioni di finanza derivata».
ro.ro.
l’Unità Lettere 8.10.08
La Bibbia, la maratona e le parole di Einstein
Cara Unità,
è un evento straordinario la maratona della Bibbia. Sei giorni e sei notti di interrotta lettura: 1250 lettori, dal papa a Benigni, da Andreotti alla Carfagna, da Ciampi all’uomo della strada. Farà conoscere il testo che pochi italiani, cattolici o non cattolici, hanno letto nonostante l’ora di religione. È bello pensare che questo grande originale progetto, a cui concorrono tanti uomini e donne e moderne tecnologie, promuova la conoscenza di un libro fondante dell’immaginario collettivo del mondo occidentale.
Ma vorremmo che fosse soprattutto un’operazione culturale e che, pertanto, a conclusione della lettura, ci fossero altrettanti giorni di discussione e di approfondimento che facciano conoscere la Bibbia per quello che è: un libro scritto dagli uomini e non da Dio. Altrimenti si farebbe un’operazione anticulturale e persino antireligiosa attribuendo a Dio ridicole fantasie, quali l’esistenza di giganti e di uomini tanto longevi da arrivare ad ottocento anni ed oltre, capaci di diventare padri a duecento anni, o che Sansone avesse la forza nei capelli, che uccise 1000 filistei armato di una micidiale mascella d’asino, che Giona sortì tutto intero dalla pancia di un pesce, che Dio fermò il sole per aiutare Giosuè e tante altre storie di questo tipo.
Sull’argomento una grande mente quale Albert Einstein aveva idee chiare. Nella lettera del 3 gennaio 1954 all’amico filosofo Eric Gutkind, sostiene che la Bibbia è: «una raccolta di leggende dignitose ma primitive» e altrove definisce la fede dogmatica una «infantile superstizione».
Repubblica 8.10.08
Discriminante far scegliere i professori dalla Chiesa
La Commissione di Bruxelles accoglie un esposto che ritiene violato il principio di uguaglianza
I dubbi della Ue sui docenti di religione "Assunti in base alla fede, l´Italia spieghi"
di Alberto D’Argenio
BRUXELLES - In Italia per diventare insegnante di religione, anche in una scuola pubblica, bisogna ottenere il via libera del vescovo. Una prassi in vigore dai Patti lateranensi del 1929 ma entrata in collisione con le regole europee che vietano qualsiasi forma di discriminazione in ragione del credo religioso di un lavoratore. E per vederci chiaro Bruxelles ha aperto un dossier e inviato una richiesta di informazioni al governo Berlusconi. Il caso nasce da una denuncia alla Commissione europea promossa dal deputato radicale Maurizio Turco, dall´avvocato Alessandro Nucara e dal fiscalista Carlo Pontesilli. Le accuse del pool radicale sono molto precise e si fondano sulle regole cardine dell´Unione europea. Afferma infatti la direttiva comunitaria del 2000 contro la discriminazione che un lavoratore non può essere discriminato per ragioni «fondate sulla religione". Ma c´è di più, visto che la parità di trattamento a prescindere dalla confessione è garantita anche dalla Dichiarazione universale dell´Onu, richiamata dal Trattato di Maastricht, e dalla Convenzione europea sui diritti dell´uomo. E, a quanto sembra, la regola in vigore da ottant´anni e confermata nel 1985 in seguito al rinnovo dei Patti firmato da Bettino Craxi va in un´altra direzione.
L´avallo vescovile, è la tesi radicale, rappresenta infatti una violazione delle regole comunitarie. A non andare è soprattutto la diversità di trattamento tra i professori di religione e quelli delle altre materie: chi vuole insegnare, infatti, deve svolgere un corso di abilitazione di un anno e poi sperare di diventare precario, prima tappa della sua incerta carriera. Chi insegna religione, sottolinea la denuncia recapitata a Bruxelles, invece deve solo ottenere la nomina vescovile (fatti salvi alcuni requisiti professionali) godendo dunque di un trattamento privilegiato vietato dalla Ue. E ovviamente va da sé che un ateo o un non cattolico non può diventare docente di religione, con palese discriminazione rispetto a chi è credente. Ma non finisce qui, visto che c´è anche una disparità di trattamento retributivo tra i circa 23 mila insegnanti di religione e gli altri, con i primi che prendono più soldi dei secondi. Prassi bocciata a luglio dalla giustizia italiana, che ha condannato il ministero dell´istruzione a parificare lo stipendio di un professore che ha fatto ricorso aprendo la strada a nuove singole denunce (in Italia non esiste il ricorso collettivo). Argomentazioni che hanno fatto breccia a Bruxelles, con la direzione generale Affari sociali e pari opportunità della Commissione europea che a cavallo dell´estate ha chiesto una serie di informazioni al governo riservandosi di decidere sul caso solo quando avrà letto la risposta, attesa a breve. Insomma, non si tratta ancora di una procedura formale contro l´Italia, ma l´invio di un questionario significa che la Ue nutre seri dubbi sulla legalità della nostra legge. Esattamente come avvenuto nel 2007, quando Bruxelles ha chiesto una serie di informazioni sui colossali sgravi fiscali accordati alla Chiesa. Un dossier, questo, ancora al vaglio della Commissione che, secondo diversi interlocutori, prende tempo viste le ingombranti pressioni politiche che spingono per un´archiviazione.
Repubblica 8.10.08
Il Latino, nuova lingua d´America
In dieci anni aumentato del 30% il numero di chi supera l´esame
Sorpresa, nei licei americani è di moda studiare latino
di Marina Cavallieri
Raggiunto il record degli ultimi trent´anni di ragazzi che traducono Orazio e Cicerone Il preside di una scuola di Brooklyn: "È lo studio che distingue le persone di successo"
ROMA. Sarà responsabile la crisi economica e dei valori o semplicemente colpa dei film dai grandi incassi, dal "Gladiatore" a "Troy" fino alle formule magiche di "Harry Potter", ma il paese più moderno e più avanzato del mondo torna all´antico e sui banchi di scuola sceglie di studiare il rigore, il passato ovvero il latino. Nelle scuole di New York ma anche in Nuovo Messico e Alaska, sempre più studenti si applicano alla lingua di Cicerone.
Si cimentano con i futuri e i participi, abituati ad un idioma sintetico e globale guardano indietro e scelgono di declinare rosa, rosae.
Un articolo del New York Times illustra una tendenza che forse è qualcosa di più di un episodio e qualcosa di diverso da una moda scolastica, è una ventata di classicismo che si diffonde nelle aule dove gli studenti navigano su Internet e comunicano con sms e chat. Crescono infatti i corsi di latino, fa proseliti la cultura dei "padri europei", un mondo non più noioso, obsoleto o snob, ma per i ragazzi semplicemente cool.
Le cifre sono sufficienti a far parlare di un fenomeno e a spingere ad indagare: negli ultimi due anni sono stati più di 134 mila gli studenti americani che si sono presentati all´Esame nazionale di latino, erano stati 124 mila del 2003 e i 101 mila del 1998. Gli studenti che superano l´Advanced Placement Test sono raddoppiati in dieci anni, più di 8 mila nel 2007. Non solo corsi di studio ma anche scuole come la Brooklyn latin school, sorta nel 2006, dove il preside Jason Griffiths spiega solennemente che il latino è «la lingua delle persone di successo». Non ci sono però solo i libri per studenti secchioni ma anche spettacoli per nuovi fans come quello che mette su il liceo di Scarsdale, nello stato di New York, che organizza ogni anno un banchetto per le Idi di marzo dove bisogna presentarsi vestiti con la toga. Gli studenti invece di inorridire sono aumentati del 14 per cento. È così che dopo il francese e lo spagnolo la lingua di Cicerone potrebbe raggiungere il tedesco nella classifica delle più studiate lasciando indietro il cinese, troppo lontano e oscuro anche se emergente.
«Non mi stupisce questo interesse, mi stupisce che arrivi adesso», dice in Italia Filippo Tarantino, preside e protagonista di una rete europea di scuole e insegnanti che promuove la cultura classica e i valori umanisti, si chiama Ewhum ed è attiva in nove paesi, dalla Spagna alla Romania. «Gian Battista Vico diceva che quando una nazione vuole nobilitarsi deve cercare le radici. Le nazioni più avanzate hanno capito che se vogliono radicarsi, devono andare al passato. Dal latino c´è molto da imparare, la sua logica è la cosa più istruttiva che ci sia, ma tutta la storia è ancora ricca d´insegnamenti: gli antichi romani sono riusciti a costruire un impero grandissimo e far parlare tanti popoli lo stesso linguaggio».
«Futuro latino» recitava un convegno recente che proponeva uno sguardo al passato per affrontare i rischi e le incognite della globalizzazione. «Credo che questo interesse si possa leggere anche come un antidoto alla modernità e ai suoi eccessi», spiega Michele Cortellazzo, docente di linguistica. «In Italia siamo ancora dentro ad un discorso di distacco e abbandono ma i paesi più avanzati possono volgersi al passato senza complessi». Il latino ha confini chiusi, «monolitici, è una lingua ancora governabile», nel mondo che cambia la lingua dei Cesari può essere anche rassicurante.
Repubblica 8.10.08
Il mondo drogato dalla vita a credito
di Zygmunt Bauman
Un quotidiano britannico ha pubblicato la storia di un cinquantunenne che ha accumulato un debito di 58.000 sterline su 14 carte di credito e finanziamenti vari. Con l´inpennata dei costi del carburante, dell´elettricità e del gas non riusciva più a pagare gli interessi.
Dall´industria dei prestiti è nata quella dei nuovi prestiti per pagare quelli vecchi
Il piano di Bush serve solo a rimettere in moto un meccanismo ormai inceppato
Deplorando, col senno di poi, la sconsideratezza che lo ha gettato in questa situazione spiacevole se la prendeva con chi gli aveva prestato il denaro: parte della colpa è anche loro, diceva, perché rendono terribilmente facile indebitarsi. In un altro articolo pubblicato lo stesso giorno, una coppia spiegava di aver dovuto drasticamente ridurre il bilancio familiare, ma esprimeva anche preoccupazione per la figlia, una ragazza giovane già pesantemente indebitata. Ogni volta che esaurisce il plafond della carta di credito subito le viene offerto in prestito altro denaro. A giudizio dei genitori le banche che incoraggiano i giovani a prendere prestiti per acquistare, e poi altri prestiti per pagare gli interessi, sono corresponsabili delle sventure della figlia.
C´era un vecchio aneddoto su due agenti di commercio che giravano l´Africa per conto dei rispettivi calzaturifici. Il primo inviò in ditta questo messaggio: inutile spedire scarpe , qui tutti vanno scalzi. Il secondo scrisse: richiedo spedizione immediata di due milioni di paia di scarpe, tutti qui vanno scalzi. La storiella mirava ad esaltare l´intuito imprenditoriale aggressivo, criticando la filosofia prevalente all´epoca secondo cui il commercio rispondeva ai bisogni esistenti e l´offerta seguiva l´andamento della domanda. Nel giro di qualche decennio la filosofia imprenditoriale si è completamente capovolta. Gli agenti di commercio che la pensano come il primo rappresentante sono rarissimi, se ancora esistono. La filosofia imprenditoriale vigente ribadisce che il commercio ha l´obiettivo di impedire che si soddisfino i bisogni, deve creare altri bisogni che esigano di essere soddisfatti e identifica il compito dell´offerta col creare domanda. Questa tesi si applica a qualsiasi prodotto, venga esso dalle fabbriche o dalle società finanziarie. La suddetta filosofia imprenditoriale si applica anche ai prestiti: l´offerta di un prestito deve creare e ingigantire il bisogno di indebitarsi.
L´introduzione delle carte di credito è stata un segno premonitore. Le carte di credito erano state lanciate sul mercato con uno slogan rivelatore e straordinariamente seducente: «Perché aspettare per avere quello che vuoi?». Desideri una cosa ma non hai guadagnato abbastanza per pagarla? Beh, ai vecchi tempi, ora fortunatamente andati, si doveva procrastinare l´appagamento dei propri desideri: stringere la cinghia, negarsi altri diletti, essere prudenti e parchi nelle spese e depositare il denaro così racimolato su un libretto di risparmio nella speranza di riuscire, con la cura e la pazienza necessarie, ad accumularne abbastanza per poter realizzare i propri sogni. Grazie a Dio e al buon cuore delle banche non è più così! Con la carta di credito si può invertire l´ordine: prendi subito, paghi dopo. La carta di credito rende liberi di appagare i desideri a propria discrezione: avere le cose nel momento in cui le vuoi, non quando te le sei guadagnate e te le puoi permettere.
Questa era la promessa, ma sotto c´era anche una nota in caratteri minuscoli, difficile da decifrare anche se facile da intuire in un momento di riflessione: quel perenne "dopo" ad un certo punto si trasformerà in "subito" e bisognerà ripagare il prestito. Il pagamento dei prestiti contratti per non aspettare e soddisfare subito i vecchi desideri, renderà difficilissimo soddisfarne di nuovi? Non pensare al "dopo", significò , come sempre, guai in vista. Si può smettere di pensare al futuro solo a proprio rischio e pericolo. Sicuramente il conto sarà salato. Più presto che tardi arriva la consapevolezza che allo sgradevole differimento dell´appagamento si è sostituito un breve differimento della vera terribile punizione per l´essere stati precipitosi. Ci si può togliere uno sfizio quando si vuole, ma anticipare il diletto non lo renderà più abbordabile? In ultima analisi, sarà differita solo la presa di coscienza della triste realtà.
Per quanto nociva e dolorosa, questa non è l´unica nota in caratteri minuscoli sotto la promessa del «prendi subito, paga dopo». Per evitare di limitare ad un solo prestatore il profitto derivante dalle carte di credito e dai prestiti facili, il debito contratto doveva essere (e così è stato) trasformato in un bene che procuri profitto permanente. Non riesci a ripagare il tuo debito? Non preoccuparti: a differenza degli avidi prestatori di denaro vecchio stile, ansiosi di veder ripagate le somme prestate entro termini ben precisi e non differibili, noi prestatori di denaro moderni e disponibili non ti chiediamo indietro i nostri soldi, bensì ci offriamo di prestartene altri per pagare il vecchio debito e avere un po´ di disponibilità (cioè di debito) in più per toglierti nuovi sfizi. Siamo le banche che dicono "sì", le banche disponibili, le banche col sorriso, come diceva una delle pubblicità più geniali.
Quello che nessuno spot diceva apertamente, lasciando la verità ai cupi presagi del debitore, era che le banche prestatrici in realtà non volevano che i debitori pagassero i debiti. Se lo avessero fatto entro i termini non sarebbero stati più in debito, ma sono proprio i loro debiti (il relativo interesse mensile) che i moderni, disponibili (e geniali) prestatori di denaro hanno deciso, con successo, di riciclare come fonte prima del loro profitto costante, assicurato (e si spera garantito). I clienti che restituiscono puntualmente il denaro preso in prestito sono l´incubo dei prestatori. Le persone che si rifiutano di spendere denaro che non abbiano già guadagnato e si astengono dal prenderlo in prestito, non sono di alcuna utilità ai prestatori ? perché sono quelli che (spinti dalla prudenza o da un senso antiquato dell´onore) si affrettano a ripagare i propri debiti alle scadenze. Una delle maggiori società di carte di credito presenti in Gran Bretagna ha suscitato pubbliche proteste (che certo avranno vita breve) nel momento in cui ha scoperto il suo gioco rifiutando il rinnovo delle carte ai clienti che pagavano ogni mese il loro intero debito, senza quindi incorrere in sanzioni finanziarie.
L´odierna stretta creditizia non è risultato del fallimento delle banche. Al contrario, è il frutto del tutto prevedibile, anche se nel complesso inatteso, del loro straordinario successo: successo nel trasformare una enorme maggioranza di uomini e donne, vecchi e giovani, in una genìa di debitori. Perenni debitori, perché si è fatto sì che lo status di debitore si auto-perpetui e si continuino a offrire nuovi debiti come unico modo realistico per salvarsi da quelli già contratti. Entrare in questa condizione, ultimamente, è diventato facile quanto mai prima nella storia dell´uomo: uscirne non è mai stato così difficile. Tutti coloro che erano nelle condizioni di ricevere un prestito, e milioni di altri che non potevano e non dovevano essere allettati a chiederlo, sono già stati ammaliati e sedotti a indebitarsi. E proprio come la scomparsa di chi va a piedi nudi è un guaio per l´industria calzaturiera, così la scomparsa delle persone senza debiti è un disastro per l´industria dei prestiti. Quanto predetto da Rosa Luxemburg si è nuovamente avverato: comportandosi come un serpente che si mangia la coda il capitalismo è nuovamente arrivato pericolosamente vicino al suicidio involontario, riuscendo ad esaurire la scorta di nuove terre vergini da sfruttare?
Negli Usa il debito medio delle famiglie è cresciuto negli ultimi otto anni ? anni di apparente prosperità senza precedenti- del 22 per cento. L´ammontare totale dei prestiti su carta di credito non pagati è cresciuto del 15%. E , cosa forse più minacciosa, il debito complessivo degli studenti universitari, la futura élite politica, economica e spirituale della nazione, è raddoppiato. L´insegnamento dell´arte di "vivere indebitati", per sempre, è ormai inserito nei programmi scolastici nazionali? Si è arrivati a una situazione molto simile in Gran Bretagna. Il resto dei Paesi europei segue a non grande distacco. Il pianeta bancario è a corto di terre vergini avendo già sconsideratamente dedicato allo sfruttamento vaste estensioni di terreno sterile.
La reazione finora, per quanto possa apparire imponente e addirittura rivoluzionaria per come emerge dai titoli dei media e dalle dichiarazioni dei politici, è stata la solita : il tentativo di ricapitalizzare i prestatori di denaro e di rendere i loro debitori nuovamente in grado di ricevere credito, così il business di prestare e prendere in prestito, dell´indebitarsi e mantenersi indebitato, potrebbe tornare alla "normalità". Il welfare state per i ricchi (che a differenza del suo omonimo per i poveri non è mai stato messo fuori servizio) è stato riportato in vetrina dopo essere stato temporaneamente relegato nel retrobottega per evitare invidiosi paragoni. Lo Stato ha nuovamente flesso in pubblico muscoli a lungo rimasti inattivi, stavolta al fine di proseguire il gioco che rende questo esercizio ingrato ma, abominevole a dirsi, inevitabile; un gioco che stranamente non sopporta che lo Stato fletta i muscoli, ma non può sopravvivere senza.
Quello che si dimentica allegramente (e stoltamente) in quest´occasione è che l´uomo soffre a seconda di come vive. Le radici del dolore oggi lamentato, al pari delle radici di ogni male sociale, sono profondamente insite nel nostro modo di vivere: dipendono dalla nostra abitudine accuratamente coltivata e ormai profondamente radicata di ricorrere al credito al consumo ogni volta che si affronta un problema o si deve superare una difficoltà. Vivere a credito dà dipendenza come poche altre droghe, e decenni di abbondante disponibilità di una droga non possono che portare a uno shock e a un trauma quando la disponibilità cessa. Oggi ci viene proposta una via d´uscita apparentemente semplice dallo shock che affligge sia i tossicodipendenti che gli spacciatori: riprendere (con auspicabile regolarità) la fornitura di droga.
Andare alle radici del problema non significa risolverlo all´istante. È però l´unica soluzione che possa rivelarsi adeguata all´enormità del problema e a sopravvivere alle intense, seppur relativamente brevi , sofferenze delle crisi di astinenza.
(Traduzione di Emilia Benghi)
Repubblica 8.10.08
Lodo Alfano
Referendum, la Sinistra insieme a Di Pietro
ROMA - Sabato prossimo comincerà ufficialmente la raccolta delle firme contro il Lodo Alfano. Ad annunciarlo è stato ieri il leader dell´Idv Antonio Di Pietro insieme a Arturo Parisi del Pd («ma non sono qui a nome del mio partito»), al segretario del Prc Paolo Ferrero, a Carlo Leoni della Sinistra Democratica e a Manuela Palermi del Pdci. «Questo referendum lo vinceremo» avverte Parisi, ma il risultato comunque importa poco perché la battaglia «è così importante che va combattuta comunque». È una battaglia in «difesa della democrazia» ha aggiunto Di Pietro.
Corriere della Sera 8.10.08
L'iniziativa L'ex pm sabato torna in piazza Navona: Guzzanti e Grillo? Li abbiamo invitati
«Referendum sul lodo Alfano» Alleanza Di Pietro-sinistra
Via alla raccolta di firme. Parisi tra i promotori
Manifestazioni separate per i due fronti anti-governo. L'ex ministro della Difesa: momento tragico
ROMA — Guzzanti e Grillo ci saranno? «E perché no? Noi li abbiamo invitati». Nessuna paura di una «piazza Navona 2», con insulti e isterismi, scomuniche e pentimenti? «E che, dobbiamo metterci il bavaglio? Figuriamoci, ci saremo tutti». Antonio Di Pietro lancia la carica, tutti in piazza sabato a Roma (e in altre 650 città) contro il lodo Alfano e per firmare il referendum. Iniziativa condivisa da Prc, Pdci e Sinistra democratica. Che però sfileranno in un loro corteo, più radicale, contro il governo, da piazza Esedra alla Bocca della Verità. Con possibile tappa congiunta a piazza Navona. Il Pd se ne starà prudentemente alla larga. Tranne Arturo Parisi, presente «non in nome del Pd» ma dei Democratici per la Democrazia. Veltroni, a Ballarò,
ribadisce le sue perplessità: «Se Di Pietro mi critica non mi fa nessuna impressione: oggi dice una cosa, domani il contrario».
Sabato, dunque, tutti (o quasi) in piazza. E poco importa se presto ci sarà una sentenza della Consulta: «E allora? Il Lodo è illegittimo ma anche immorale ». Si associa Paolo Ferrero, Prc, che denuncia «una legge Aradam Via
castale». E annuncia la riscossa: «Sabato finisce la ritirata». A Manuela Palermi, Pdci, il referendum pare «giusto, morale e di sinistra». Carlo Leoni, Sd, critica il Pd: «Non capisco, si lancia l'allarme di deriva democratica e poi non si fa nulla».
Parisi usa toni forti: «C'è il rischio che salti la democrazia, è il momento di serrare le fila. Il lodo Alfano ha aperto una stagione tragica: è un clamoroso abuso e un oltraggio alla democrazia ». Il referendum «si vince »: ma, comunque vada, «sarà un modo per lasciare a verbale la nostra indignazione».
A proposito di indignazione, a piazza Navona ce n'erano dosi da cavallo, vedi Guzzanti e Grillo. Quest'ultimo ne ha ancora da vendere: «Siamo in un socialcapitalismo da rapina, Veltroni è Topo scemo, se crolla il mercato piazzale Loreto non basta più per contenere la banda». In Borsa Grillo non ha azioni: «Ma dalla crisi non mi salvo neanche io. Ci salveranno i musulmani, con la loro sharia: lì se fai un derivato ti tagliano i coglioni ». Sarà in piazza? «Non ho deciso. Ma sabato firmo per il referendum, a Udine». Di Pietro? «È l'unico oppositore credibile nel Paese. Ma io sono un solitario. E poi i giornali mi hanno cancellato: se vado finisce che lo danneggio ».
Tirerà un sospiro di sollievo Arturo Parisi, che grillismi e guzzantismi non li apprezza granché. In cartellone a piazza Navona per ora ci sono Andrea Rivera, Enzo Avitabile e Simone Cristicchi. Ed è in arrivo un appello di intellettuali.
A Montecitorio Di Pietro, Ferrero, Parisi, Leoni e Palermi
Alessandro Trocino
Repubblica 8.10.08
Se i governi alimentano le paure dei cittadini
di Nadia Urbinati
Le società occidentali vivono in una paradossale situazione che ripropone in tutta la sua gravità la lungimiranza del paradigma di Thomas Hobbes secondo il quale, proprio perché difficilmente razionalizzabile, la paura indistinta e generica è la condizione peggiore per l´affermazione della pace sociale. Al tempo di Hobbes erano i profeti religiosi e i fanatici ad alimentare quella paura con l´arma della retorica e del linguaggio apocalittico delle sacre scritture. Oggi è la stessa società liberale che sembra trovare economicamente e politicamente conveniente alimentare una paura indistinta e anonima per nemici che possono essere dovunque e che sono totali. In ogni epoca, la pace civile è stata minacciata da tiranni, dittatori o demagoghi. Si trattava di minacce visibili e identificabili.
Oggi è il sistema sociale stesso che genera panico e minaccia la pace. Scrive Jaume Curbet in un libro sulla insicurezza in uscita presso Donzelli che espressioni generiche come "insicurezza urbana", "criminalità organizzata", "disastro ecologico", infine "terrorismo" creano un tipo di paura che molto più di quella per i tiranni del passato tocca le corde più ancestrali ed è quindi più estrema e meno risolvibile. Questo rende il bisogno di sicurezza un bisogno mai appagato tanto che neppure lo Stato riesce a trasmettere sicurezza attraverso la paura della legge. L´indistinta paura si traduce in soluzioni che sono altrettanto indistinte - che mirano più a colpire l´immaginazione dei cittadini che a risolvere la loro insicurezza. In effetti, una volta che la paura è associata a un oggetto indistinto, è al contingente che si presta più attenzione. Questo spiega la richiesta da parte dei cittadini di interventi immediati o del "qui e ora"; richiesta di provvedimenti di emergenza e di decisioni esemplari; soluzioni effimere (e poco in sintonia con le procedure e la deliberazione democratiche) che servono essenzialmente a tenere sotto controllo i sintomi dell´insicurezza. La politica della sicurezza nell´era dell´insicurezza indeterminata e globale, dove tutti subiscono l´influenza di tutti, ha una funzione essenzialmente sedativa.
Chiamiamo sicurezza lo stato psicologico che ci viene dal credere di vivere in un ambiente immutato, uguale a se stesso. Quindi ogni turbamento dell´ordinario status quo è visto come fonte di sicurezza. Questo spiega il paradosso descritto da Zygmunt Bauman: sebbene le nostre siano tra le società più sicure, ciò nonostante, molti di noi si sentono più minacciati, insicuri e spaventati, e sono quindi più propensi a cadere in preda al panico e ad entusiasmarsi di tutto ciò che è relativo alla protezione e alla sicurezza. In un mondo nel quale il rischio prende i contorni dell´imprevedibile e dell´indefinito, ai cittadini non importa sapere che le cause del pericolo sono complesse e non riducibili a una; desiderano soltanto che i rimedi siano semplici, immediati e soprattutto vicini nel tempo e nello spazio; esperimentabili nella quotidianità. Per esempio, la globalizzazione dei mercati e delle speranze di benessere porta milioni di immigrati a cercare una vita migliore nel nostro continente e nel nostro Paese. La trasformazione multietnica di molti quartieri delle nostre città basta da sola a mobilitare la paura, una paura senza una causa specifica; la prima condizione per domarla è che gli immigrati siano pochi o che siano e restino invisibili; che infine, o soprattutto, contro di loro si mobiliti lo Stato (e i privati cittadini se necessario) con tutti i mezzi disponibili, anche se arbitrari e anche se incostituzionali. Purché se ne vedano alcuni esiti immediati, anche se minimi.
Ma un aspetto nuovo di questa "ossessione per la sicurezza" consiste nel fatto che essa è anche un business sotto molti punti di vista. Esiste un mercato della insicurezza il quale, come ogni altro mercato, deve per poter prosperare e quindi alimentare il bisogno di sicurezza. Ecco il circolo vizioso del quale sono vittima le società democratiche mature: la paura generica alimenta il bisogno di sicurezza ed è a sua volta alimentata da questo bisogno. In cima a questa catena vi è la sicurezza come affare (politico prima di tutto, ma non solo, perché le "aziende" che offrono sicurezza sono sempre di più). Alimentare la paura artificialmente, dunque: questa è l´arte delle agenzie che si occupano della sicurezza. Ma come produrre insicurezza artificialmente? Se è vero che la paura anonima e indistinta è all´origine del panico dell´insicurezza, non c´è modo migliore per tenerla viva che creare capri espiatori. La storia è prodiga di esempi: la caccia alle streghe, la caccia agli ebrei, la caccia ai sovversivi. L´odierna insicurezza urbana è alimentata artificialmente dalla retorica dalla paura del diverso: zingaro, nero, extra-comunitario, musulmano. È certo che l´origine della nostra criminalità (causa tangibile e documentata di giustificata paura) non sta per nulla qui: l´Italia ha una criminalità organizzata e spietata che strangola metà o forse più del suo territorio nazionale, eppure giornali e televisioni ci parlano quasi soltanto degli episodi di violenza che coinvolgono gli "altri".
La politica dell´insicurezza trova un naturale alimento nelle politiche neoliberali, quelle che oggi godono di maggiore stima presso i nostri governi, politiche orientate principalmente a rispondere alle richieste di sicurezza di una popolazione spaventata più che a risolvere i problemi e i diversi conflitti che stanno all´origine delle varie manifestazioni di delinquenza. Le politiche della sicurezza hanno preso il posto delle politiche sociali. La filosofia dei governi di destra, come quello italiano, è che se disagio si dà questo non è un segno di ingiustizia sociale, ma invece di cattiva sorte e disgrazia, oppure di incapacità personale o mancanza di merito. In ogni caso, la carità umanitaria e religiosa può meglio dello stato sociale curare queste piaghe. Spetta quindi alle associazioni civili, alla famiglia (alle donne in primo luogo, potente surrogato dello stato sociale in ritirata) e alle parrocchie occuparsi della povertà. Lo Stato dovrà al massimo dispensare tessera di povertà ai bisognosi e sostegno economico a chi li soccorre. Ma il suo compito è un altro: quello di occuparsi dell´insicurezza generata dalla paura. Il neoliberalismo libera lo Stato dall´impegno di promuovere politiche sociali (questo è il significato della sussidiarietà) per occuparlo intensamente nel compito repressivo. Dissociando il disagio sociale dalla sicurezza viene messa in atto un´interessante divisione del lavoro tra società civile e Stato: la prima si occupa del disagio, il secondo della sicurezza.
Il paradosso è che, vivendo della insicurezza lo Stato sarà naturalmente portato a alimentare la percezione della insicurezza. Esso ha bisogno di cittadini impauriti per essere legittimato nel proprio ruolo. Lo fa moltiplicando esponenzialmente le sue polizie perché, come si è detto, è l´azione esemplare che colpisce l´immaginazione; quindi il territorio più vicino deve essere soprattutto curato e pattugliato - i quartieri, le città (questo spiega il favore che incontra la retorica federalista). Insieme alle polizie di Stato nascono e si moltiplicano piccole polizie private, in un crescendo di offerte di sicurezza, la quale è, come ha scritto Ulrich Beck, «come l´acqua o l´elettricità, un bene di consumo, amministrato sia pubblicamente che privatamente per ottenere benefici». In ogni caso, le frontiere apparentemente forti tra sicurezza pubblica e sicurezza privata sembrano svanire e quella che è una paura indistinta per il non consueto e il diverso diventa una formidabile merce: venduta dai governi per tenere alta la tensione e quindi incrementare consensi, amplificata dai media che sono comunque un prodotto di mercato, recepita dai cittadini nella solitudine dei loro quartieri che una paura generica alimentata ad arte sta desertificando.
Repubblica 8.10.08
Su "Lettera internazionale" un saggio di Starobinski
Dall´epica di Virgilio al dio di Dante
La memoria e il futuro
di Jean Starobinski
Il potere e la forza della poesia e delle immagini Nell´Eneide e nella Commedia due diversi modi di raccontare il passaggio da una catastrofe a una redenzione
Nel poema latino il ricordo di Enea inizia con la distruzione di Troia
Il percorso delle tre cantiche dantesche somiglia a quello virgiliano
La memoria che Virgilio attribuisce al suo eroe assume la distruzione come suo inizio. È una storia di fragore e di furore. E il celebre racconto si annuncia come il ritorno di un dolore che le parole non possono tradurre.
Infandum regina jubes renovare dolorem. «Mi chiedi, o regina, di rinnovare un dolore indicibile» (Eneide, II, v. 1). La rammemorazione stessa è oggetto di orrore (animus meminisse horret, II, v. 12). La parola si dichiara in difetto, inadatta a rievocare le sventure subìte. Questa precauzione oratoria invita i destinatari fittizi, la regina e il suo seguito, e i lettori reali, che siamo noi, ad ascoltare tutto ciò che sarà narrato loro superandolo con l´immaginazione. La realtà fu peggiore del quadro che può esserne dipinto. Non resta nulla della città così a lungo difesa, e anche alla parola manca il terreno su cui poggiare. Perché, allora, non accordare fiducia a un racconto che confessa subito l´insufficienza delle sue risorse?
Nella notte del disastro, si dispone ancora di un aiuto. Apparizioni, voci divine guidano l´avanzare delle navi, promettendo una terra di Ponente per la città nuova che i discendenti dei vinti fonderanno. La notte fatale sarà così il punto zero, senza ritorno né ritirata possibili, da cui prenderà le mosse tutta l´azione successiva. L´incendio, i suoi bagliori, le sue ceneri sono preliminari che imprimono un carattere di necessità alla navigazione avventurosa e ai discorsi narrativi che seguiranno.
Nel terribile notturno virgiliano, ogni forma, fattasi precaria, è travolta dal crollo generale. Voci, clamori, fracasso assumono un´importanza eccezionale nello spazio sensoriale. Il racconto di Enea sviluppa così un registro uditivo di notevole ampiezza. Dall´elevato linguaggio divino al fragore inarticolato della catastrofe, l´orecchio del lettore di Virgilio è tenuto in uno stato di costante allerta. Per convincersene basterà scorrere rapidamente il testo.
Enea è inizialmente un testimone tra gli altri. Racconta quello che, come i suoi compagni, ha visto e sentito: le menzogne del falso transfuga Sinone, la morte di Laocoonte e dei suoi figli, strangolati da due serpenti usciti con gran frastuono dai flutti: il sacerdote muore lanciando orribili clamori verso le stelle (clamores horrendos). Queste grida mostruose segnano l´inizio della rovina.
Nella notte che avanza, le parole e i rumori assumeranno un´importanza sempre maggiore. Appena scivolato nel primo sonno, Enea è messo in guardia dall´ombra di Ettore che gli ingiunge di fuggire: il suo compito è ormai quello di raccogliere intorno a sé i suoi compagni e di cercare con essi, altrove, quelle «grandi mura, che infine fonderai, percorso il mare». A quattro versi di distanza, la stessa parola moenia (le mura) designa i bastioni di Troia che stanno per crollare e quelli della città che bisognerà costruire. Ma la devastazione è già cominciata e il sogno si interrompe perché i suoni diventano sempre più violenti: Frattanto da tutte le parti un terribile pianto / Sconvolge le mura, e sempre di più, sebbene remota dalle altre / e protetta da alberi la casa del padre Anchise si apparti, / i suoni si fanno chiari e incombe il fragore delle armi. / Mi riscuoto dal sonno e salendo giungo sul colmo / del tetto e mi fermo con gli orecchi tesi: come / quando all´infuriare degli austri cade una fiamma / tra le messi, o un rapace torrente con fiotto montano / spiana i campi e i floridi seminati e le opere dei buoi, / e trascina a precipizio le selve: il pastore stupisce / ignaro ascoltando il rombo da un´alta rupe (II, v. 298 e segg.).
Il disastro è attraversato dalle grida di lutto (luctus), dai gemiti (gemitus), dal fragore della bufera (sonitus), dallo strepito degli esseri umani (clamor), dagli squilli delle trombe (clangor). Nelle parole di Enea (II, vv. 361-362), Virgilio dichiara l´impotenza della parola e delle lacrime a dire la distruzione e la vana lotta contro la morte (clades, funera, labores). «L´interno del palazzo risuona di gemiti / e d´un misero tumulto; le ampie stanze remote / ululano di pianti femminili; il clamore ferisce le auree stelle» (II, vv.486-488). Il rumore fa pensare al fracasso dell´albero che si abbatte sotto l´infuriare della tempesta. Nella notte che si fa sempre più buia, Enea incontra sua madre Venere, apparizione luminosa che gli mostra brevemente ciò che i mortali non vedono: gli dèi accaniti contro Troia che collaborano attivamente alla sua distruzione. E l´ordine di fuggire viene ripetuto. Il baccano, il crepitio del fuoco, il terrore si moltiplicano. Infine, nell´incendio e nel silenzio terrificante che si stabilisce quando cessa ogni resistenza (simul ipsa silentia terrent, II, v. 755), Enea vede apparire l´ombra di Creusa, sua moglie, che gli rivolge le ultime parole premonitrici e gli annuncia che la sua destinazione è l´Esperia, la terra del tramonto, là dove scorre il Tevere. Nel corso del racconto, il registro dei suoni avrà dunque mostrato tutta la sua complessità e la sua varietà, tra il silenzio della notte e il clamore assordante della distruzione e del massacro - tra le grida inumane e il linguaggio elevato della profezia che spinge all´azione.
L´epopea di Virgilio ha offerto alla letteratura europea un grande modello, in cui coesistono un passato rammemorato e un futuro in cui avrà luogo l´azione. Questa doppia prospettiva diventa più evidente quando Enea, disceso agli Inferi, nel VI libro, incontra alcune figure del passato - il padre Anchise, Didone morta suicida - e le anime che si apprestano a fare il loro ingresso nella vita, futuri viventi, eroi che si sacrificheranno per la patria. Sente pianti e musiche, i vagiti dei bambini morti e i canti religiosi dei beati. Voci premonitrici mostrano l´impero che verrà. Con la discesa agli Inferi, l´eroe virgiliano si inoltra nell´intrico dei tempi. Durante le tappe successive del suo viaggio sotterraneo impara a quali castighi sono condannati coloro che sono stati giudicati e scorge il nugolo delle anime il cui destino è annunciato senza essersi ancora compiuto. Gli antenati troiani e i discendenti romani abitano negli stessi boschi. Virgilio si afferma così come il poeta che sa in che modo passato e futuro si compenetrano.
E quando appare Virgilio, nel I canto della Commedia, Dante lo designa facendogli dichiarare: «Poeta fui, e cantai di quel giusto / figliuol d´Anchise che venne da Troia / poi che il superbo Ilion fu combusto». Si trova così giustificato il suo compito di guida iniziale nel grande viaggio cosmoteologico, in un ruolo che ricorda quello che l´Eneide attribuisce alla Sibilla nel VI libro. Con il suo percorso, che somiglia volutamente a quello della discesa agli inferi dell´epopea latina, la Divina Commedia si muove tra passato e futuro, a partire dal «mezzo del cammin».
Lo scopo non è quello di fondare un impero, ma di accogliere la rivelazione della giustizia di Dio e di accedere alla conoscenza amorosa, alla visione beatifica. Virgilio, il poeta pagano, accompagna Dante solo fino alla soglia del Paradiso terrestre (Purgatorio, XXX), quando con Beatrice si manifesta la chiarezza divina. Durante tutto il tragitto e fino al suo termine contemplativo, il registro dei suoni svolge un ruolo fondamentale, in cui Dante mostra di essere un discepolo perfetto.
L´ambito sonoro si estende dalle urla dei dannati ai canti degli angeli, dalle dissonanze infernali alle armonie celesti. Il viaggio di Dante avrà come punto di arrivo non le mura di una capitale temporale, ma la contemplazione della «luce sovrana». Sono due citazioni latine nel XXX canto del Purgatorio a suggellare il nesso: per i lettori che hanno memoria dei contesti, uno stretto legame si stabilisce tra i versi dell´Eneide, dove Anchise, che ha assistito all´incendio di Troia, annuncia l´avvenire di Roma fino ai funerali di Marcello, e le parole del Vangelo di Matteo che fanno parte del rituale della messa. I «messagger di vita eterna» salutano l´arrivo di Beatrice cantando successivamente «Benedictus qui venit» (Mt., XXI, 9) e «Manibus, oh, date lilia plenis» (Eneide, VI, 883).
Il potere della poesia fa sì che una memoria storica fittizia si aggiunga alle immagini inventate e sostenute da una fede reale. Ma al contrario del racconto di Enea che cominciava con il dichiarare inadeguato il linguaggio quando si tratta di dire tutta la sofferenza patita, Dante si vede invece costretto a rinunciare a esprimere la gioia più alta: «Oh quanto è corto il dire e come fioco / al mio concetto! e questo, a quel ch´io vidi, / è tanto che non basta a dicer poco» (Paradiso, XXXIII, vv. 121-123).
Corriere della Sera 8.10.08
Mercati e teorie
La psicologia di Soros e il circuito della paura
di Massimo Gaggi
NEW YORK — «Adesso a impedire una ripresa non sono solo i fattori economici e la psicologia dei mercati entrata in una spirale negativa, ma anche lo stress prolungato di chi vede accavallarsi brutte notizie da oltre un anno» dice il neuropsichiatra Richard Peterson, più noto come gestore di un «hedge fund» basato sull'«emotional arbitrage». «L'ormone dello stress condiziona la nostra mente, ci spinge a fare ragionamenti di breve periodo, a essere impulsivi».
Condivide John Schott, un altro psichiatra che si è dato agli affari (è «portfolio manager» di Steinberg Asset Management e autore di "Mind Over Money", un saggio sulla psicologia del risparmiatore): «In momenti come questi si instaura un circuito della paura inconscio e incontrollabile. E' un fenomeno che possiamo addirittura vedere fisicamente con una risonanza magnetica cerebrale, ma che non possiamo controllare. Emotività che prevale sulla nostra razionalità, che ci spinge a tirarci indietro: è come una "slot machine" che funziona al contrario: respinge invece di attirare».
Wall Street ha vissuto un'altra giornata nera nonostante i nuovi, massicci interventi della Federal Reserve a sostegno dell'economia americana e tutti si chiedono che cosa deve ancora succedere perché si spezzi questa spirale che paralizza il credito e deprime il sistema produttivo del Paese. Costringendo le autorità monetarie a ipotizzare addirittura l'«elettrochoc» di un calo dei tassi d'interesse concertato a livello mondiale.
Non saranno certo le analisi degli psichiatri trasformatisi in trader a indicare la via d'uscita da questa crisi. Ma è evidente che negli ultimi anni, nel valutare il comportamento dei mercati, i fattori psicologici, i comportamenti emotivi dell'«homo oeconomicus», sono stati molto sottovalutati. E ciò, nonostante che i cosiddetti «economisti comportamentali» avessero sfidato da tempo gli assunti dell'economia neoclassica sul comportamento razionale dei mercati. E avessero anche vinto qualche premio Nobel (ad esempio quello di Daniel Kahneman) dimostrando che il comportamento dei soggetti del mercato non è «modellizzabile» perché è influenzato dalle reazioni soggettive e dalla variabile dei comportamenti collettivi. Certo, oggi fa impressione vedere Wall Street continuare a flettere nonostante il governo leader del mondo abbia messo in piedi interventi a sostegno del mercato dei capitali di dimensioni mai viste nella storia dell'umanità. Ma bisogna chiedersi se l'assenza di reazione agli stimoli mostrata in questi giorni dai mercati sia il frutto di un'anomalia emotiva inferiore o superiore a quella, di segno opposto, prodotta dalla lunga stagione dell'«esuberanza irrazionale». Perché anche nel galoppante ciclo della crescita e della moltiplicazione del debito degli anni scorsi, i fattori emotivi, la propensione a rischiare al di là del ragionevole, il sovrappiù di testosterone misurato in una ricerca dell'università di Cambridge basata sul comportamento di un gruppo di trader della City di Londra hanno avuto il loro peso.
Se ne erano accorti in molti. Non solo studiosi della psiche ed economisti, ma anche grandi investitori come George Soros che anche nel suo ultimo saggio («Il nuovo paradigma dei mercati finanziari») sostiene che l'idea che i mercati sappiano autoregolamentarsi e tendano naturalmente all'equilibrio è sbagliata. Un'illusione che solo il fondamentalismo mercatista ha potuto continuare ad alimentare anche davanti all'evidenza delle bolle speculative — soprattutto quella immobiliare — che continuavano a gonfiarsi sull'onda dell'eccessivo indebitamento: un fenomeno che dava agli operatori una sensazione di grande sicurezza che li spingeva a rischiare ancora di più in una spirale perversa che, ora, si è improvvisamente capovolta.
L'epitaffio di un'era di fiducia cieca nell'ottimismo emotivo degli investitori l'ha scritto, nel luglio del 2007, l'allora capo di Citigroup, Chuck Prince, che, con la banca già in grosse difficoltà, disse al «Financial Times»: «Quando la musica si fermerà, la situazione sarà complicata, in termini di liquidità. Ma finché l'orchestra suona, noi continuiamo a ballare». Pochi giorni dopo la crisi cominciò ad avvitarsi, Citigroup si ritrovò con le spalle al muro e Prince fu messo alla porta. Ritrovare uno per uno gli orchestrali e rimetterli insieme non sarà facile, anche perché dopo gli anni della moltiplicazione «selvaggia » del debito e dell'esposizione delle banche, ora assistiamo a un «deleveraging» altrettanto selvaggio che deprime l'economia. Dopo i salvataggi bancari e le immissioni massicce di liquidità, ora, forse, si prova coi tassi.
Corriere della Sera 8.10.08
Le finanze della santa sede e la grande crisi del ‘29
Risponde Sergio Romano
Da racconti dell'epoca, mi risulta che il Vaticano uscì indenne dalla crisi del 1929, anzi ne trasse vantaggi.
Anche nell'odierna bufera che investe i mercati, a detta di un quotidiano inglese, i banchieri di Dio si sono messi anticipatamente in salvo investendo in beni rifugio. Invece di leggere le cronache finanziarie, sarebbe stato probabilmente più utile aver sottoscritto un abbonamento all'Osservatore
Romano.
Adriano Ponti
Temo che i «racconti dell'epoca » abbiano diffuso una idea alquanto sbagliata del modo in cui le finanze della Santa Sede uscirono dalla grande crisi finanziaria del 1929. Per capire ciò che accadde occorre fare un piccolo passo indietro al febbraio del 1929, quando Mussolini e il cardinale Gasparri firmarono i Patti lateranensi. L'Italia liquidò il debito assunto con la Legge delle guarentigie e versò allo Stato pontificio un miliardo e 750 milioni, di cui un miliardo in consolidato 5% al portatore e 750 milioni in contanti. La Chiesa non poteva vendere immediatamente il consolidato (se lo avesse fatto l'Italia avrebbe corso il rischio di una crisi finanziaria), ma disponeva di una somma che, tradotta in euro, ammonterebbe oggi a 534 milioni. Per investirla e trarne frutto, Pio XI creò una Amministrazione speciale e chiamò a dirigerla uno dei più abili e intelligenti finanzieri di quegli anni. Si chiamava Bernardino Nogara, era stato dirigente della Banca Commerciale Italiana, aveva rappresentato l'Italia in alcuni dei maggiori negoziati economico- finanziari degli anni precedenti ed era per più (aspetto molto importante agli occhi di papa Ratti) un cattolico lombardo, membro di quelle famiglie della buona borghesia milanese che Paolo XI aveva conosciuto e apprezzato negli anni in cui era stato Prefetto dell'Ambrosiana e arcivescovo della «capitale morale». Per bene amministrare questo nuovo patrimonio vaticano, Nogara si servì dei suoi contatti internazionali e distribuì la somma prudentemente fra diversi investimenti: oro, valuta, azioni di società ferroviarie e titoli pubblici dei Paesi più affidabili, con una preferenza per Svizzera, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Secondo lo storico inglese John Pollard, autore di un libro sulle finanze vaticane apparso anche in Italia presso Corbaccio («L'obolo di Pietro. Le finanze del Papato moderno 1850-1950»), il portafoglio avrebbe dovuto fruttare ogni anno più di 87 milioni di lire. Rassicurato da queste previsioni e dai buoni risultati della fase iniziale, Pio XI si lanciò in un ambizioso programma edilizio per rinnovare la Città del Vaticano, restaurare Castel Gandolfo, promuovere la costruzione di nuove chiese e realizzare le opere pubbliche (fra cui una stazione ferroviaria) necessarie alle esigenze del nuovo Stato.
Le opere vennero in parte realizzate, ma la fonte dei redditi, nel 1931, cominciò a inaridirsi.
Nogara dovette spiegare al Papa che il crollo della sterlina, l'insolvenza delle banche e il fallimento di alcune grandi imprese avevano duramente colpito le finanze vaticane. Per uscire dalla crisi dovette in primo luogo convincere Pio XI a ridurre le dimensioni del suo programma edilizio e decise in secondo luogo di puntare soprattutto su due investimenti: l'oro e il mercato immobiliare. Riuscì a salvare in tal modo una parte consistente del patrimonio, ma il reddito del capitale fu considerevolmente ridotto. Sembra che il Papa, poco esperto di cose economiche, abbia capito con un certo ritardo la gravità della crisi. Quando ne fu consapevole disse che era «la più grande calamità umana dopo il Diluvio».
Corriere della Sera 8.10.08
Uno scritto polemico
Schopenhauer nichilista: quant'è dannoso leggere
di Giorgio De Rienzo
Con una incisiva nota introduttiva di Andrea Felis leggiamo, nella traduzione di Valerio Consonni (con testo tedesco a fronte), il XXIV capitolo dei Parerga und Paralipomena di Arthur Schopenhauer, dedicato alla lettura e ai libri. La tesi che il filosofo sostiene va inquadrata nella polemica tardo-settecentesca contro i libri di intrattenimento culturale che riescono a creare un «falso movimento» di conoscenza, perché «quando leggiamo, un altro pensa al posto nostro » e il lettore ripete semplicemente (e inutilmente) «il suo processo mentale». Può essere attuale (e istruttivo), pur nella sua esasperazione nichilista, il ragionamento di Schopenhauer. «Veramente la nostra testa», scrive, «durante la lettura, altro non è che il teatro di pensieri estranei. Quando questi infine si dileguano, cosa resta? Di qui deriva che chi legge proprio molto e durante quasi l'intero giorno, si rilassa frattanto col passatempo dell'assenza del pensiero, e lentamente smarrisce la facoltà del pensare da sé. Proprio questo è il caso di parecchi dotti: si sono rimbecilliti col leggere». Da qui la terapia drastica di imparare a non leggere, di liberarsi, come interpreta Felis, dalle «letture nocive e velenose che distruggono lo spirito». Da qui il dettato addirittura di un'«arte del non leggere», perché i libri (anche quelli buoni) producono non solo un inutile esercizio delle facoltà cognitive, ma offrono al lettore un pericoloso «spettacolo dell'universalità», che è solo illusorio.
ARTHUR SCHOPENHAUER Sulla lettura e sui libri LA VITA FELICE PP. 61, e 6,50
Corriere della Sera 8.10.08
La donna che doma il Centauro sarebbe in realtà la vergine Camilla
Botticelli e la «vera identità» di Pallade
di Wanda Lattes
La notizia sorprenderà gli studiosi del Rinascimento e i milioni di pellegrini che vengono agli Uffizi per Botticelli: la donna biancovestita che doma il Centauro nella grande tela (due metri per un metro e 47, nella foto) dipinta da Sandro per la famiglia Medici, non è la dea Minerva ma Camilla, un'eroina celebrata da Virgilio nell'Eneide e ben conosciuta nella Firenze del Quattrocento.
Il quadro, esposto non lontano dalla «Venere » e dalla «Primavera», dovrebbe dunque cambiare il proprio titolo («Pallade e il Centauro »). L'ipotesi, già formulata in ambito accademico, trova ora ulteriori conferme che saranno illustrate venerdì prossimo a Firenze da Barbara Deimling, durante la prima giornata del convegno internazionale dedicato a Botticelli e a Herbert Horne, suo massimo studioso, dalla Harvard University, dalla Syracuse University e dalla stessa Fondazione Horne (l'occasione è il centenario della pubblicazione della fondamentale monografia sul Botticelli firmata da Horne).
Molti i temi che saranno affrontati durante il convegno (www.museohorne.it). Ma la relazione di Barbara Deimling, storica dell'arte e direttrice della Syracuse, sembra destinata a provocare vera emozione. Riassumendo i fatti bisogna ricordare come il titolo di «Pallade e il Centauro» sia stato attribuito soltanto nel 1895 da William Spencer, un amatore inglese, dopo che la tela, abbandonata a lungo in un corridoio di Palazzo Pitti, era stata riportata ai dovuti onori. La storia, narrata da Horne, ricorda come il riconoscimento di Pallade nella donna fino ad allora chiamata «Allegoria» fosse legata a un arazzo nel quale Botticelli riprendeva la leggenda di Minerva vittoriosa.
Ma la Deimling adesso porta elementi probanti. Camilla, il personaggio dell'«Eneide», la vergine combattente dei Volsci, è raffigurata con veste, acconciatura, armi, ornamenti, piante simboliche simili a quelle dipinte da Botticelli, in decine di cassoni, affreschi, ceramiche dell'epoca. E il suo gesto di dominio sul Centauro corrisponde alla leggenda di una donna che vince gli istinti bestiali.
Torna centrale nel dibattito e nella polemica politica lo spettro di Carlo Marx: tutta colpa dei mutui e della crisi del capitalismo
Tremonti e Bersani, chi è il più comunista
Comunista non lo è mai stato. Giulio Tremonti lo ha tenuto a specificare. Recentemente ha rivalutato Marx, è vero, ma è stato solo per un momento. Non è mai stato neanche «un liberista selvaggio». Anche questo ha voluto specificare ieri. Semmai un innovatore, l’inventore delle cartolarizzazioni, che ha trasformato il mattone in titoli, della finanza creativa, dei condoni. Tutto ma non comunista o liberista. Lui no, ma Pier Luigi Bersani, anzi «Bersanov», sì. Comunista perché Bersani avrebbe usato, come ogni buon sovietico, carte false contro un avversario politico, e cioè lo stesso Tremonti, liberista perché soggiogato nella sua carriera politica «dalla City finanziaria», tanto da «trasferire i suoi denari da Mosca a Londra» e da «adottare lo stile di vita dei manager».
Che avrebbe fatto dunque “Bersanov” per meritare tanto livore? Ha ricordato, con il segretario del Pd Walter Veltroni, che nel 2003, solo cinque anni fa, l’allora ministro dell’Economia, e cioè Tremonti, aveva proposto nel Documento di programmazione economica e finanziaria, un piano per l’introduzione di «mutui ipotecari» anche in Italia. L’ipotesi era semplice. Gli stessi strumenti finanziari che sono alla base dell’attuale crisi mondiale potevano essere utilizzati dagli anziani per ipotecare la casa e avere soldi per far lievitare in questo modo i consumi. E non faceva nulla se poi erano creditori poco solvibili, a quello avrebbe pensato la finanza.
Quell’idea, ha contestato Tremonti, non venne tradotta in carta e quindi non esiste. «Un ministro risponde solo dei testi che firma». E in effetti ce ne sarebbero tanti per i quali il ministro potrebbe anche spendere una parola in più. Tralasciando le misure già ricordate, Tremonti potrebbe dire agli italiani a quanto ammontano, ad esempio, i contratti «swap» che il suo governo ha stipulato con la banca d’affari americana Lehman Brothers, recentemente finita a gambe all’aria.
Il difensore della massaia di Voghera, l’uomo che lancia in resta si è gettato contro i mercati finanziari e gli avidi manager che li hanno regolati fino a questo momento, ai quali il suo studio legale fa onostamente il 740, dopo aver infilzato banche e petrolieri potrebbe anche spiegare perché la scorsa settimana non si è presentato in Parlamento e non ha risposto alle domande dell’opposizione sui debiti finanziari «swappati» dal Tesoro. A noi, vecchi vetero comunisti sovietici, viene il dubbio, che questa assenza forzata derivi dal fatto che il ministro Tremonti, come ha spiegato anche il parlamentare ed economista del Pd Francesco Boccia, abbia dato vita a «un tentativo affannoso di coprire quelle perdite con altre operazioni di finanza derivata».
ro.ro.
l’Unità Lettere 8.10.08
La Bibbia, la maratona e le parole di Einstein
Cara Unità,
è un evento straordinario la maratona della Bibbia. Sei giorni e sei notti di interrotta lettura: 1250 lettori, dal papa a Benigni, da Andreotti alla Carfagna, da Ciampi all’uomo della strada. Farà conoscere il testo che pochi italiani, cattolici o non cattolici, hanno letto nonostante l’ora di religione. È bello pensare che questo grande originale progetto, a cui concorrono tanti uomini e donne e moderne tecnologie, promuova la conoscenza di un libro fondante dell’immaginario collettivo del mondo occidentale.
Ma vorremmo che fosse soprattutto un’operazione culturale e che, pertanto, a conclusione della lettura, ci fossero altrettanti giorni di discussione e di approfondimento che facciano conoscere la Bibbia per quello che è: un libro scritto dagli uomini e non da Dio. Altrimenti si farebbe un’operazione anticulturale e persino antireligiosa attribuendo a Dio ridicole fantasie, quali l’esistenza di giganti e di uomini tanto longevi da arrivare ad ottocento anni ed oltre, capaci di diventare padri a duecento anni, o che Sansone avesse la forza nei capelli, che uccise 1000 filistei armato di una micidiale mascella d’asino, che Giona sortì tutto intero dalla pancia di un pesce, che Dio fermò il sole per aiutare Giosuè e tante altre storie di questo tipo.
Sull’argomento una grande mente quale Albert Einstein aveva idee chiare. Nella lettera del 3 gennaio 1954 all’amico filosofo Eric Gutkind, sostiene che la Bibbia è: «una raccolta di leggende dignitose ma primitive» e altrove definisce la fede dogmatica una «infantile superstizione».
Repubblica 8.10.08
Discriminante far scegliere i professori dalla Chiesa
La Commissione di Bruxelles accoglie un esposto che ritiene violato il principio di uguaglianza
I dubbi della Ue sui docenti di religione "Assunti in base alla fede, l´Italia spieghi"
di Alberto D’Argenio
BRUXELLES - In Italia per diventare insegnante di religione, anche in una scuola pubblica, bisogna ottenere il via libera del vescovo. Una prassi in vigore dai Patti lateranensi del 1929 ma entrata in collisione con le regole europee che vietano qualsiasi forma di discriminazione in ragione del credo religioso di un lavoratore. E per vederci chiaro Bruxelles ha aperto un dossier e inviato una richiesta di informazioni al governo Berlusconi. Il caso nasce da una denuncia alla Commissione europea promossa dal deputato radicale Maurizio Turco, dall´avvocato Alessandro Nucara e dal fiscalista Carlo Pontesilli. Le accuse del pool radicale sono molto precise e si fondano sulle regole cardine dell´Unione europea. Afferma infatti la direttiva comunitaria del 2000 contro la discriminazione che un lavoratore non può essere discriminato per ragioni «fondate sulla religione". Ma c´è di più, visto che la parità di trattamento a prescindere dalla confessione è garantita anche dalla Dichiarazione universale dell´Onu, richiamata dal Trattato di Maastricht, e dalla Convenzione europea sui diritti dell´uomo. E, a quanto sembra, la regola in vigore da ottant´anni e confermata nel 1985 in seguito al rinnovo dei Patti firmato da Bettino Craxi va in un´altra direzione.
L´avallo vescovile, è la tesi radicale, rappresenta infatti una violazione delle regole comunitarie. A non andare è soprattutto la diversità di trattamento tra i professori di religione e quelli delle altre materie: chi vuole insegnare, infatti, deve svolgere un corso di abilitazione di un anno e poi sperare di diventare precario, prima tappa della sua incerta carriera. Chi insegna religione, sottolinea la denuncia recapitata a Bruxelles, invece deve solo ottenere la nomina vescovile (fatti salvi alcuni requisiti professionali) godendo dunque di un trattamento privilegiato vietato dalla Ue. E ovviamente va da sé che un ateo o un non cattolico non può diventare docente di religione, con palese discriminazione rispetto a chi è credente. Ma non finisce qui, visto che c´è anche una disparità di trattamento retributivo tra i circa 23 mila insegnanti di religione e gli altri, con i primi che prendono più soldi dei secondi. Prassi bocciata a luglio dalla giustizia italiana, che ha condannato il ministero dell´istruzione a parificare lo stipendio di un professore che ha fatto ricorso aprendo la strada a nuove singole denunce (in Italia non esiste il ricorso collettivo). Argomentazioni che hanno fatto breccia a Bruxelles, con la direzione generale Affari sociali e pari opportunità della Commissione europea che a cavallo dell´estate ha chiesto una serie di informazioni al governo riservandosi di decidere sul caso solo quando avrà letto la risposta, attesa a breve. Insomma, non si tratta ancora di una procedura formale contro l´Italia, ma l´invio di un questionario significa che la Ue nutre seri dubbi sulla legalità della nostra legge. Esattamente come avvenuto nel 2007, quando Bruxelles ha chiesto una serie di informazioni sui colossali sgravi fiscali accordati alla Chiesa. Un dossier, questo, ancora al vaglio della Commissione che, secondo diversi interlocutori, prende tempo viste le ingombranti pressioni politiche che spingono per un´archiviazione.
Repubblica 8.10.08
Il Latino, nuova lingua d´America
In dieci anni aumentato del 30% il numero di chi supera l´esame
Sorpresa, nei licei americani è di moda studiare latino
di Marina Cavallieri
Raggiunto il record degli ultimi trent´anni di ragazzi che traducono Orazio e Cicerone Il preside di una scuola di Brooklyn: "È lo studio che distingue le persone di successo"
ROMA. Sarà responsabile la crisi economica e dei valori o semplicemente colpa dei film dai grandi incassi, dal "Gladiatore" a "Troy" fino alle formule magiche di "Harry Potter", ma il paese più moderno e più avanzato del mondo torna all´antico e sui banchi di scuola sceglie di studiare il rigore, il passato ovvero il latino. Nelle scuole di New York ma anche in Nuovo Messico e Alaska, sempre più studenti si applicano alla lingua di Cicerone.
Si cimentano con i futuri e i participi, abituati ad un idioma sintetico e globale guardano indietro e scelgono di declinare rosa, rosae.
Un articolo del New York Times illustra una tendenza che forse è qualcosa di più di un episodio e qualcosa di diverso da una moda scolastica, è una ventata di classicismo che si diffonde nelle aule dove gli studenti navigano su Internet e comunicano con sms e chat. Crescono infatti i corsi di latino, fa proseliti la cultura dei "padri europei", un mondo non più noioso, obsoleto o snob, ma per i ragazzi semplicemente cool.
Le cifre sono sufficienti a far parlare di un fenomeno e a spingere ad indagare: negli ultimi due anni sono stati più di 134 mila gli studenti americani che si sono presentati all´Esame nazionale di latino, erano stati 124 mila del 2003 e i 101 mila del 1998. Gli studenti che superano l´Advanced Placement Test sono raddoppiati in dieci anni, più di 8 mila nel 2007. Non solo corsi di studio ma anche scuole come la Brooklyn latin school, sorta nel 2006, dove il preside Jason Griffiths spiega solennemente che il latino è «la lingua delle persone di successo». Non ci sono però solo i libri per studenti secchioni ma anche spettacoli per nuovi fans come quello che mette su il liceo di Scarsdale, nello stato di New York, che organizza ogni anno un banchetto per le Idi di marzo dove bisogna presentarsi vestiti con la toga. Gli studenti invece di inorridire sono aumentati del 14 per cento. È così che dopo il francese e lo spagnolo la lingua di Cicerone potrebbe raggiungere il tedesco nella classifica delle più studiate lasciando indietro il cinese, troppo lontano e oscuro anche se emergente.
«Non mi stupisce questo interesse, mi stupisce che arrivi adesso», dice in Italia Filippo Tarantino, preside e protagonista di una rete europea di scuole e insegnanti che promuove la cultura classica e i valori umanisti, si chiama Ewhum ed è attiva in nove paesi, dalla Spagna alla Romania. «Gian Battista Vico diceva che quando una nazione vuole nobilitarsi deve cercare le radici. Le nazioni più avanzate hanno capito che se vogliono radicarsi, devono andare al passato. Dal latino c´è molto da imparare, la sua logica è la cosa più istruttiva che ci sia, ma tutta la storia è ancora ricca d´insegnamenti: gli antichi romani sono riusciti a costruire un impero grandissimo e far parlare tanti popoli lo stesso linguaggio».
«Futuro latino» recitava un convegno recente che proponeva uno sguardo al passato per affrontare i rischi e le incognite della globalizzazione. «Credo che questo interesse si possa leggere anche come un antidoto alla modernità e ai suoi eccessi», spiega Michele Cortellazzo, docente di linguistica. «In Italia siamo ancora dentro ad un discorso di distacco e abbandono ma i paesi più avanzati possono volgersi al passato senza complessi». Il latino ha confini chiusi, «monolitici, è una lingua ancora governabile», nel mondo che cambia la lingua dei Cesari può essere anche rassicurante.
Repubblica 8.10.08
Il mondo drogato dalla vita a credito
di Zygmunt Bauman
Un quotidiano britannico ha pubblicato la storia di un cinquantunenne che ha accumulato un debito di 58.000 sterline su 14 carte di credito e finanziamenti vari. Con l´inpennata dei costi del carburante, dell´elettricità e del gas non riusciva più a pagare gli interessi.
Dall´industria dei prestiti è nata quella dei nuovi prestiti per pagare quelli vecchi
Il piano di Bush serve solo a rimettere in moto un meccanismo ormai inceppato
Deplorando, col senno di poi, la sconsideratezza che lo ha gettato in questa situazione spiacevole se la prendeva con chi gli aveva prestato il denaro: parte della colpa è anche loro, diceva, perché rendono terribilmente facile indebitarsi. In un altro articolo pubblicato lo stesso giorno, una coppia spiegava di aver dovuto drasticamente ridurre il bilancio familiare, ma esprimeva anche preoccupazione per la figlia, una ragazza giovane già pesantemente indebitata. Ogni volta che esaurisce il plafond della carta di credito subito le viene offerto in prestito altro denaro. A giudizio dei genitori le banche che incoraggiano i giovani a prendere prestiti per acquistare, e poi altri prestiti per pagare gli interessi, sono corresponsabili delle sventure della figlia.
C´era un vecchio aneddoto su due agenti di commercio che giravano l´Africa per conto dei rispettivi calzaturifici. Il primo inviò in ditta questo messaggio: inutile spedire scarpe , qui tutti vanno scalzi. Il secondo scrisse: richiedo spedizione immediata di due milioni di paia di scarpe, tutti qui vanno scalzi. La storiella mirava ad esaltare l´intuito imprenditoriale aggressivo, criticando la filosofia prevalente all´epoca secondo cui il commercio rispondeva ai bisogni esistenti e l´offerta seguiva l´andamento della domanda. Nel giro di qualche decennio la filosofia imprenditoriale si è completamente capovolta. Gli agenti di commercio che la pensano come il primo rappresentante sono rarissimi, se ancora esistono. La filosofia imprenditoriale vigente ribadisce che il commercio ha l´obiettivo di impedire che si soddisfino i bisogni, deve creare altri bisogni che esigano di essere soddisfatti e identifica il compito dell´offerta col creare domanda. Questa tesi si applica a qualsiasi prodotto, venga esso dalle fabbriche o dalle società finanziarie. La suddetta filosofia imprenditoriale si applica anche ai prestiti: l´offerta di un prestito deve creare e ingigantire il bisogno di indebitarsi.
L´introduzione delle carte di credito è stata un segno premonitore. Le carte di credito erano state lanciate sul mercato con uno slogan rivelatore e straordinariamente seducente: «Perché aspettare per avere quello che vuoi?». Desideri una cosa ma non hai guadagnato abbastanza per pagarla? Beh, ai vecchi tempi, ora fortunatamente andati, si doveva procrastinare l´appagamento dei propri desideri: stringere la cinghia, negarsi altri diletti, essere prudenti e parchi nelle spese e depositare il denaro così racimolato su un libretto di risparmio nella speranza di riuscire, con la cura e la pazienza necessarie, ad accumularne abbastanza per poter realizzare i propri sogni. Grazie a Dio e al buon cuore delle banche non è più così! Con la carta di credito si può invertire l´ordine: prendi subito, paghi dopo. La carta di credito rende liberi di appagare i desideri a propria discrezione: avere le cose nel momento in cui le vuoi, non quando te le sei guadagnate e te le puoi permettere.
Questa era la promessa, ma sotto c´era anche una nota in caratteri minuscoli, difficile da decifrare anche se facile da intuire in un momento di riflessione: quel perenne "dopo" ad un certo punto si trasformerà in "subito" e bisognerà ripagare il prestito. Il pagamento dei prestiti contratti per non aspettare e soddisfare subito i vecchi desideri, renderà difficilissimo soddisfarne di nuovi? Non pensare al "dopo", significò , come sempre, guai in vista. Si può smettere di pensare al futuro solo a proprio rischio e pericolo. Sicuramente il conto sarà salato. Più presto che tardi arriva la consapevolezza che allo sgradevole differimento dell´appagamento si è sostituito un breve differimento della vera terribile punizione per l´essere stati precipitosi. Ci si può togliere uno sfizio quando si vuole, ma anticipare il diletto non lo renderà più abbordabile? In ultima analisi, sarà differita solo la presa di coscienza della triste realtà.
Per quanto nociva e dolorosa, questa non è l´unica nota in caratteri minuscoli sotto la promessa del «prendi subito, paga dopo». Per evitare di limitare ad un solo prestatore il profitto derivante dalle carte di credito e dai prestiti facili, il debito contratto doveva essere (e così è stato) trasformato in un bene che procuri profitto permanente. Non riesci a ripagare il tuo debito? Non preoccuparti: a differenza degli avidi prestatori di denaro vecchio stile, ansiosi di veder ripagate le somme prestate entro termini ben precisi e non differibili, noi prestatori di denaro moderni e disponibili non ti chiediamo indietro i nostri soldi, bensì ci offriamo di prestartene altri per pagare il vecchio debito e avere un po´ di disponibilità (cioè di debito) in più per toglierti nuovi sfizi. Siamo le banche che dicono "sì", le banche disponibili, le banche col sorriso, come diceva una delle pubblicità più geniali.
Quello che nessuno spot diceva apertamente, lasciando la verità ai cupi presagi del debitore, era che le banche prestatrici in realtà non volevano che i debitori pagassero i debiti. Se lo avessero fatto entro i termini non sarebbero stati più in debito, ma sono proprio i loro debiti (il relativo interesse mensile) che i moderni, disponibili (e geniali) prestatori di denaro hanno deciso, con successo, di riciclare come fonte prima del loro profitto costante, assicurato (e si spera garantito). I clienti che restituiscono puntualmente il denaro preso in prestito sono l´incubo dei prestatori. Le persone che si rifiutano di spendere denaro che non abbiano già guadagnato e si astengono dal prenderlo in prestito, non sono di alcuna utilità ai prestatori ? perché sono quelli che (spinti dalla prudenza o da un senso antiquato dell´onore) si affrettano a ripagare i propri debiti alle scadenze. Una delle maggiori società di carte di credito presenti in Gran Bretagna ha suscitato pubbliche proteste (che certo avranno vita breve) nel momento in cui ha scoperto il suo gioco rifiutando il rinnovo delle carte ai clienti che pagavano ogni mese il loro intero debito, senza quindi incorrere in sanzioni finanziarie.
L´odierna stretta creditizia non è risultato del fallimento delle banche. Al contrario, è il frutto del tutto prevedibile, anche se nel complesso inatteso, del loro straordinario successo: successo nel trasformare una enorme maggioranza di uomini e donne, vecchi e giovani, in una genìa di debitori. Perenni debitori, perché si è fatto sì che lo status di debitore si auto-perpetui e si continuino a offrire nuovi debiti come unico modo realistico per salvarsi da quelli già contratti. Entrare in questa condizione, ultimamente, è diventato facile quanto mai prima nella storia dell´uomo: uscirne non è mai stato così difficile. Tutti coloro che erano nelle condizioni di ricevere un prestito, e milioni di altri che non potevano e non dovevano essere allettati a chiederlo, sono già stati ammaliati e sedotti a indebitarsi. E proprio come la scomparsa di chi va a piedi nudi è un guaio per l´industria calzaturiera, così la scomparsa delle persone senza debiti è un disastro per l´industria dei prestiti. Quanto predetto da Rosa Luxemburg si è nuovamente avverato: comportandosi come un serpente che si mangia la coda il capitalismo è nuovamente arrivato pericolosamente vicino al suicidio involontario, riuscendo ad esaurire la scorta di nuove terre vergini da sfruttare?
Negli Usa il debito medio delle famiglie è cresciuto negli ultimi otto anni ? anni di apparente prosperità senza precedenti- del 22 per cento. L´ammontare totale dei prestiti su carta di credito non pagati è cresciuto del 15%. E , cosa forse più minacciosa, il debito complessivo degli studenti universitari, la futura élite politica, economica e spirituale della nazione, è raddoppiato. L´insegnamento dell´arte di "vivere indebitati", per sempre, è ormai inserito nei programmi scolastici nazionali? Si è arrivati a una situazione molto simile in Gran Bretagna. Il resto dei Paesi europei segue a non grande distacco. Il pianeta bancario è a corto di terre vergini avendo già sconsideratamente dedicato allo sfruttamento vaste estensioni di terreno sterile.
La reazione finora, per quanto possa apparire imponente e addirittura rivoluzionaria per come emerge dai titoli dei media e dalle dichiarazioni dei politici, è stata la solita : il tentativo di ricapitalizzare i prestatori di denaro e di rendere i loro debitori nuovamente in grado di ricevere credito, così il business di prestare e prendere in prestito, dell´indebitarsi e mantenersi indebitato, potrebbe tornare alla "normalità". Il welfare state per i ricchi (che a differenza del suo omonimo per i poveri non è mai stato messo fuori servizio) è stato riportato in vetrina dopo essere stato temporaneamente relegato nel retrobottega per evitare invidiosi paragoni. Lo Stato ha nuovamente flesso in pubblico muscoli a lungo rimasti inattivi, stavolta al fine di proseguire il gioco che rende questo esercizio ingrato ma, abominevole a dirsi, inevitabile; un gioco che stranamente non sopporta che lo Stato fletta i muscoli, ma non può sopravvivere senza.
Quello che si dimentica allegramente (e stoltamente) in quest´occasione è che l´uomo soffre a seconda di come vive. Le radici del dolore oggi lamentato, al pari delle radici di ogni male sociale, sono profondamente insite nel nostro modo di vivere: dipendono dalla nostra abitudine accuratamente coltivata e ormai profondamente radicata di ricorrere al credito al consumo ogni volta che si affronta un problema o si deve superare una difficoltà. Vivere a credito dà dipendenza come poche altre droghe, e decenni di abbondante disponibilità di una droga non possono che portare a uno shock e a un trauma quando la disponibilità cessa. Oggi ci viene proposta una via d´uscita apparentemente semplice dallo shock che affligge sia i tossicodipendenti che gli spacciatori: riprendere (con auspicabile regolarità) la fornitura di droga.
Andare alle radici del problema non significa risolverlo all´istante. È però l´unica soluzione che possa rivelarsi adeguata all´enormità del problema e a sopravvivere alle intense, seppur relativamente brevi , sofferenze delle crisi di astinenza.
(Traduzione di Emilia Benghi)
Repubblica 8.10.08
Lodo Alfano
Referendum, la Sinistra insieme a Di Pietro
ROMA - Sabato prossimo comincerà ufficialmente la raccolta delle firme contro il Lodo Alfano. Ad annunciarlo è stato ieri il leader dell´Idv Antonio Di Pietro insieme a Arturo Parisi del Pd («ma non sono qui a nome del mio partito»), al segretario del Prc Paolo Ferrero, a Carlo Leoni della Sinistra Democratica e a Manuela Palermi del Pdci. «Questo referendum lo vinceremo» avverte Parisi, ma il risultato comunque importa poco perché la battaglia «è così importante che va combattuta comunque». È una battaglia in «difesa della democrazia» ha aggiunto Di Pietro.
Corriere della Sera 8.10.08
L'iniziativa L'ex pm sabato torna in piazza Navona: Guzzanti e Grillo? Li abbiamo invitati
«Referendum sul lodo Alfano» Alleanza Di Pietro-sinistra
Via alla raccolta di firme. Parisi tra i promotori
Manifestazioni separate per i due fronti anti-governo. L'ex ministro della Difesa: momento tragico
ROMA — Guzzanti e Grillo ci saranno? «E perché no? Noi li abbiamo invitati». Nessuna paura di una «piazza Navona 2», con insulti e isterismi, scomuniche e pentimenti? «E che, dobbiamo metterci il bavaglio? Figuriamoci, ci saremo tutti». Antonio Di Pietro lancia la carica, tutti in piazza sabato a Roma (e in altre 650 città) contro il lodo Alfano e per firmare il referendum. Iniziativa condivisa da Prc, Pdci e Sinistra democratica. Che però sfileranno in un loro corteo, più radicale, contro il governo, da piazza Esedra alla Bocca della Verità. Con possibile tappa congiunta a piazza Navona. Il Pd se ne starà prudentemente alla larga. Tranne Arturo Parisi, presente «non in nome del Pd» ma dei Democratici per la Democrazia. Veltroni, a Ballarò,
ribadisce le sue perplessità: «Se Di Pietro mi critica non mi fa nessuna impressione: oggi dice una cosa, domani il contrario».
Sabato, dunque, tutti (o quasi) in piazza. E poco importa se presto ci sarà una sentenza della Consulta: «E allora? Il Lodo è illegittimo ma anche immorale ». Si associa Paolo Ferrero, Prc, che denuncia «una legge Aradam Via
castale». E annuncia la riscossa: «Sabato finisce la ritirata». A Manuela Palermi, Pdci, il referendum pare «giusto, morale e di sinistra». Carlo Leoni, Sd, critica il Pd: «Non capisco, si lancia l'allarme di deriva democratica e poi non si fa nulla».
Parisi usa toni forti: «C'è il rischio che salti la democrazia, è il momento di serrare le fila. Il lodo Alfano ha aperto una stagione tragica: è un clamoroso abuso e un oltraggio alla democrazia ». Il referendum «si vince »: ma, comunque vada, «sarà un modo per lasciare a verbale la nostra indignazione».
A proposito di indignazione, a piazza Navona ce n'erano dosi da cavallo, vedi Guzzanti e Grillo. Quest'ultimo ne ha ancora da vendere: «Siamo in un socialcapitalismo da rapina, Veltroni è Topo scemo, se crolla il mercato piazzale Loreto non basta più per contenere la banda». In Borsa Grillo non ha azioni: «Ma dalla crisi non mi salvo neanche io. Ci salveranno i musulmani, con la loro sharia: lì se fai un derivato ti tagliano i coglioni ». Sarà in piazza? «Non ho deciso. Ma sabato firmo per il referendum, a Udine». Di Pietro? «È l'unico oppositore credibile nel Paese. Ma io sono un solitario. E poi i giornali mi hanno cancellato: se vado finisce che lo danneggio ».
Tirerà un sospiro di sollievo Arturo Parisi, che grillismi e guzzantismi non li apprezza granché. In cartellone a piazza Navona per ora ci sono Andrea Rivera, Enzo Avitabile e Simone Cristicchi. Ed è in arrivo un appello di intellettuali.
A Montecitorio Di Pietro, Ferrero, Parisi, Leoni e Palermi
Alessandro Trocino
Repubblica 8.10.08
Se i governi alimentano le paure dei cittadini
di Nadia Urbinati
Le società occidentali vivono in una paradossale situazione che ripropone in tutta la sua gravità la lungimiranza del paradigma di Thomas Hobbes secondo il quale, proprio perché difficilmente razionalizzabile, la paura indistinta e generica è la condizione peggiore per l´affermazione della pace sociale. Al tempo di Hobbes erano i profeti religiosi e i fanatici ad alimentare quella paura con l´arma della retorica e del linguaggio apocalittico delle sacre scritture. Oggi è la stessa società liberale che sembra trovare economicamente e politicamente conveniente alimentare una paura indistinta e anonima per nemici che possono essere dovunque e che sono totali. In ogni epoca, la pace civile è stata minacciata da tiranni, dittatori o demagoghi. Si trattava di minacce visibili e identificabili.
Oggi è il sistema sociale stesso che genera panico e minaccia la pace. Scrive Jaume Curbet in un libro sulla insicurezza in uscita presso Donzelli che espressioni generiche come "insicurezza urbana", "criminalità organizzata", "disastro ecologico", infine "terrorismo" creano un tipo di paura che molto più di quella per i tiranni del passato tocca le corde più ancestrali ed è quindi più estrema e meno risolvibile. Questo rende il bisogno di sicurezza un bisogno mai appagato tanto che neppure lo Stato riesce a trasmettere sicurezza attraverso la paura della legge. L´indistinta paura si traduce in soluzioni che sono altrettanto indistinte - che mirano più a colpire l´immaginazione dei cittadini che a risolvere la loro insicurezza. In effetti, una volta che la paura è associata a un oggetto indistinto, è al contingente che si presta più attenzione. Questo spiega la richiesta da parte dei cittadini di interventi immediati o del "qui e ora"; richiesta di provvedimenti di emergenza e di decisioni esemplari; soluzioni effimere (e poco in sintonia con le procedure e la deliberazione democratiche) che servono essenzialmente a tenere sotto controllo i sintomi dell´insicurezza. La politica della sicurezza nell´era dell´insicurezza indeterminata e globale, dove tutti subiscono l´influenza di tutti, ha una funzione essenzialmente sedativa.
Chiamiamo sicurezza lo stato psicologico che ci viene dal credere di vivere in un ambiente immutato, uguale a se stesso. Quindi ogni turbamento dell´ordinario status quo è visto come fonte di sicurezza. Questo spiega il paradosso descritto da Zygmunt Bauman: sebbene le nostre siano tra le società più sicure, ciò nonostante, molti di noi si sentono più minacciati, insicuri e spaventati, e sono quindi più propensi a cadere in preda al panico e ad entusiasmarsi di tutto ciò che è relativo alla protezione e alla sicurezza. In un mondo nel quale il rischio prende i contorni dell´imprevedibile e dell´indefinito, ai cittadini non importa sapere che le cause del pericolo sono complesse e non riducibili a una; desiderano soltanto che i rimedi siano semplici, immediati e soprattutto vicini nel tempo e nello spazio; esperimentabili nella quotidianità. Per esempio, la globalizzazione dei mercati e delle speranze di benessere porta milioni di immigrati a cercare una vita migliore nel nostro continente e nel nostro Paese. La trasformazione multietnica di molti quartieri delle nostre città basta da sola a mobilitare la paura, una paura senza una causa specifica; la prima condizione per domarla è che gli immigrati siano pochi o che siano e restino invisibili; che infine, o soprattutto, contro di loro si mobiliti lo Stato (e i privati cittadini se necessario) con tutti i mezzi disponibili, anche se arbitrari e anche se incostituzionali. Purché se ne vedano alcuni esiti immediati, anche se minimi.
Ma un aspetto nuovo di questa "ossessione per la sicurezza" consiste nel fatto che essa è anche un business sotto molti punti di vista. Esiste un mercato della insicurezza il quale, come ogni altro mercato, deve per poter prosperare e quindi alimentare il bisogno di sicurezza. Ecco il circolo vizioso del quale sono vittima le società democratiche mature: la paura generica alimenta il bisogno di sicurezza ed è a sua volta alimentata da questo bisogno. In cima a questa catena vi è la sicurezza come affare (politico prima di tutto, ma non solo, perché le "aziende" che offrono sicurezza sono sempre di più). Alimentare la paura artificialmente, dunque: questa è l´arte delle agenzie che si occupano della sicurezza. Ma come produrre insicurezza artificialmente? Se è vero che la paura anonima e indistinta è all´origine del panico dell´insicurezza, non c´è modo migliore per tenerla viva che creare capri espiatori. La storia è prodiga di esempi: la caccia alle streghe, la caccia agli ebrei, la caccia ai sovversivi. L´odierna insicurezza urbana è alimentata artificialmente dalla retorica dalla paura del diverso: zingaro, nero, extra-comunitario, musulmano. È certo che l´origine della nostra criminalità (causa tangibile e documentata di giustificata paura) non sta per nulla qui: l´Italia ha una criminalità organizzata e spietata che strangola metà o forse più del suo territorio nazionale, eppure giornali e televisioni ci parlano quasi soltanto degli episodi di violenza che coinvolgono gli "altri".
La politica dell´insicurezza trova un naturale alimento nelle politiche neoliberali, quelle che oggi godono di maggiore stima presso i nostri governi, politiche orientate principalmente a rispondere alle richieste di sicurezza di una popolazione spaventata più che a risolvere i problemi e i diversi conflitti che stanno all´origine delle varie manifestazioni di delinquenza. Le politiche della sicurezza hanno preso il posto delle politiche sociali. La filosofia dei governi di destra, come quello italiano, è che se disagio si dà questo non è un segno di ingiustizia sociale, ma invece di cattiva sorte e disgrazia, oppure di incapacità personale o mancanza di merito. In ogni caso, la carità umanitaria e religiosa può meglio dello stato sociale curare queste piaghe. Spetta quindi alle associazioni civili, alla famiglia (alle donne in primo luogo, potente surrogato dello stato sociale in ritirata) e alle parrocchie occuparsi della povertà. Lo Stato dovrà al massimo dispensare tessera di povertà ai bisognosi e sostegno economico a chi li soccorre. Ma il suo compito è un altro: quello di occuparsi dell´insicurezza generata dalla paura. Il neoliberalismo libera lo Stato dall´impegno di promuovere politiche sociali (questo è il significato della sussidiarietà) per occuparlo intensamente nel compito repressivo. Dissociando il disagio sociale dalla sicurezza viene messa in atto un´interessante divisione del lavoro tra società civile e Stato: la prima si occupa del disagio, il secondo della sicurezza.
Il paradosso è che, vivendo della insicurezza lo Stato sarà naturalmente portato a alimentare la percezione della insicurezza. Esso ha bisogno di cittadini impauriti per essere legittimato nel proprio ruolo. Lo fa moltiplicando esponenzialmente le sue polizie perché, come si è detto, è l´azione esemplare che colpisce l´immaginazione; quindi il territorio più vicino deve essere soprattutto curato e pattugliato - i quartieri, le città (questo spiega il favore che incontra la retorica federalista). Insieme alle polizie di Stato nascono e si moltiplicano piccole polizie private, in un crescendo di offerte di sicurezza, la quale è, come ha scritto Ulrich Beck, «come l´acqua o l´elettricità, un bene di consumo, amministrato sia pubblicamente che privatamente per ottenere benefici». In ogni caso, le frontiere apparentemente forti tra sicurezza pubblica e sicurezza privata sembrano svanire e quella che è una paura indistinta per il non consueto e il diverso diventa una formidabile merce: venduta dai governi per tenere alta la tensione e quindi incrementare consensi, amplificata dai media che sono comunque un prodotto di mercato, recepita dai cittadini nella solitudine dei loro quartieri che una paura generica alimentata ad arte sta desertificando.
Repubblica 8.10.08
Su "Lettera internazionale" un saggio di Starobinski
Dall´epica di Virgilio al dio di Dante
La memoria e il futuro
di Jean Starobinski
Il potere e la forza della poesia e delle immagini Nell´Eneide e nella Commedia due diversi modi di raccontare il passaggio da una catastrofe a una redenzione
Nel poema latino il ricordo di Enea inizia con la distruzione di Troia
Il percorso delle tre cantiche dantesche somiglia a quello virgiliano
La memoria che Virgilio attribuisce al suo eroe assume la distruzione come suo inizio. È una storia di fragore e di furore. E il celebre racconto si annuncia come il ritorno di un dolore che le parole non possono tradurre.
Infandum regina jubes renovare dolorem. «Mi chiedi, o regina, di rinnovare un dolore indicibile» (Eneide, II, v. 1). La rammemorazione stessa è oggetto di orrore (animus meminisse horret, II, v. 12). La parola si dichiara in difetto, inadatta a rievocare le sventure subìte. Questa precauzione oratoria invita i destinatari fittizi, la regina e il suo seguito, e i lettori reali, che siamo noi, ad ascoltare tutto ciò che sarà narrato loro superandolo con l´immaginazione. La realtà fu peggiore del quadro che può esserne dipinto. Non resta nulla della città così a lungo difesa, e anche alla parola manca il terreno su cui poggiare. Perché, allora, non accordare fiducia a un racconto che confessa subito l´insufficienza delle sue risorse?
Nella notte del disastro, si dispone ancora di un aiuto. Apparizioni, voci divine guidano l´avanzare delle navi, promettendo una terra di Ponente per la città nuova che i discendenti dei vinti fonderanno. La notte fatale sarà così il punto zero, senza ritorno né ritirata possibili, da cui prenderà le mosse tutta l´azione successiva. L´incendio, i suoi bagliori, le sue ceneri sono preliminari che imprimono un carattere di necessità alla navigazione avventurosa e ai discorsi narrativi che seguiranno.
Nel terribile notturno virgiliano, ogni forma, fattasi precaria, è travolta dal crollo generale. Voci, clamori, fracasso assumono un´importanza eccezionale nello spazio sensoriale. Il racconto di Enea sviluppa così un registro uditivo di notevole ampiezza. Dall´elevato linguaggio divino al fragore inarticolato della catastrofe, l´orecchio del lettore di Virgilio è tenuto in uno stato di costante allerta. Per convincersene basterà scorrere rapidamente il testo.
Enea è inizialmente un testimone tra gli altri. Racconta quello che, come i suoi compagni, ha visto e sentito: le menzogne del falso transfuga Sinone, la morte di Laocoonte e dei suoi figli, strangolati da due serpenti usciti con gran frastuono dai flutti: il sacerdote muore lanciando orribili clamori verso le stelle (clamores horrendos). Queste grida mostruose segnano l´inizio della rovina.
Nella notte che avanza, le parole e i rumori assumeranno un´importanza sempre maggiore. Appena scivolato nel primo sonno, Enea è messo in guardia dall´ombra di Ettore che gli ingiunge di fuggire: il suo compito è ormai quello di raccogliere intorno a sé i suoi compagni e di cercare con essi, altrove, quelle «grandi mura, che infine fonderai, percorso il mare». A quattro versi di distanza, la stessa parola moenia (le mura) designa i bastioni di Troia che stanno per crollare e quelli della città che bisognerà costruire. Ma la devastazione è già cominciata e il sogno si interrompe perché i suoni diventano sempre più violenti: Frattanto da tutte le parti un terribile pianto / Sconvolge le mura, e sempre di più, sebbene remota dalle altre / e protetta da alberi la casa del padre Anchise si apparti, / i suoni si fanno chiari e incombe il fragore delle armi. / Mi riscuoto dal sonno e salendo giungo sul colmo / del tetto e mi fermo con gli orecchi tesi: come / quando all´infuriare degli austri cade una fiamma / tra le messi, o un rapace torrente con fiotto montano / spiana i campi e i floridi seminati e le opere dei buoi, / e trascina a precipizio le selve: il pastore stupisce / ignaro ascoltando il rombo da un´alta rupe (II, v. 298 e segg.).
Il disastro è attraversato dalle grida di lutto (luctus), dai gemiti (gemitus), dal fragore della bufera (sonitus), dallo strepito degli esseri umani (clamor), dagli squilli delle trombe (clangor). Nelle parole di Enea (II, vv. 361-362), Virgilio dichiara l´impotenza della parola e delle lacrime a dire la distruzione e la vana lotta contro la morte (clades, funera, labores). «L´interno del palazzo risuona di gemiti / e d´un misero tumulto; le ampie stanze remote / ululano di pianti femminili; il clamore ferisce le auree stelle» (II, vv.486-488). Il rumore fa pensare al fracasso dell´albero che si abbatte sotto l´infuriare della tempesta. Nella notte che si fa sempre più buia, Enea incontra sua madre Venere, apparizione luminosa che gli mostra brevemente ciò che i mortali non vedono: gli dèi accaniti contro Troia che collaborano attivamente alla sua distruzione. E l´ordine di fuggire viene ripetuto. Il baccano, il crepitio del fuoco, il terrore si moltiplicano. Infine, nell´incendio e nel silenzio terrificante che si stabilisce quando cessa ogni resistenza (simul ipsa silentia terrent, II, v. 755), Enea vede apparire l´ombra di Creusa, sua moglie, che gli rivolge le ultime parole premonitrici e gli annuncia che la sua destinazione è l´Esperia, la terra del tramonto, là dove scorre il Tevere. Nel corso del racconto, il registro dei suoni avrà dunque mostrato tutta la sua complessità e la sua varietà, tra il silenzio della notte e il clamore assordante della distruzione e del massacro - tra le grida inumane e il linguaggio elevato della profezia che spinge all´azione.
L´epopea di Virgilio ha offerto alla letteratura europea un grande modello, in cui coesistono un passato rammemorato e un futuro in cui avrà luogo l´azione. Questa doppia prospettiva diventa più evidente quando Enea, disceso agli Inferi, nel VI libro, incontra alcune figure del passato - il padre Anchise, Didone morta suicida - e le anime che si apprestano a fare il loro ingresso nella vita, futuri viventi, eroi che si sacrificheranno per la patria. Sente pianti e musiche, i vagiti dei bambini morti e i canti religiosi dei beati. Voci premonitrici mostrano l´impero che verrà. Con la discesa agli Inferi, l´eroe virgiliano si inoltra nell´intrico dei tempi. Durante le tappe successive del suo viaggio sotterraneo impara a quali castighi sono condannati coloro che sono stati giudicati e scorge il nugolo delle anime il cui destino è annunciato senza essersi ancora compiuto. Gli antenati troiani e i discendenti romani abitano negli stessi boschi. Virgilio si afferma così come il poeta che sa in che modo passato e futuro si compenetrano.
E quando appare Virgilio, nel I canto della Commedia, Dante lo designa facendogli dichiarare: «Poeta fui, e cantai di quel giusto / figliuol d´Anchise che venne da Troia / poi che il superbo Ilion fu combusto». Si trova così giustificato il suo compito di guida iniziale nel grande viaggio cosmoteologico, in un ruolo che ricorda quello che l´Eneide attribuisce alla Sibilla nel VI libro. Con il suo percorso, che somiglia volutamente a quello della discesa agli inferi dell´epopea latina, la Divina Commedia si muove tra passato e futuro, a partire dal «mezzo del cammin».
Lo scopo non è quello di fondare un impero, ma di accogliere la rivelazione della giustizia di Dio e di accedere alla conoscenza amorosa, alla visione beatifica. Virgilio, il poeta pagano, accompagna Dante solo fino alla soglia del Paradiso terrestre (Purgatorio, XXX), quando con Beatrice si manifesta la chiarezza divina. Durante tutto il tragitto e fino al suo termine contemplativo, il registro dei suoni svolge un ruolo fondamentale, in cui Dante mostra di essere un discepolo perfetto.
L´ambito sonoro si estende dalle urla dei dannati ai canti degli angeli, dalle dissonanze infernali alle armonie celesti. Il viaggio di Dante avrà come punto di arrivo non le mura di una capitale temporale, ma la contemplazione della «luce sovrana». Sono due citazioni latine nel XXX canto del Purgatorio a suggellare il nesso: per i lettori che hanno memoria dei contesti, uno stretto legame si stabilisce tra i versi dell´Eneide, dove Anchise, che ha assistito all´incendio di Troia, annuncia l´avvenire di Roma fino ai funerali di Marcello, e le parole del Vangelo di Matteo che fanno parte del rituale della messa. I «messagger di vita eterna» salutano l´arrivo di Beatrice cantando successivamente «Benedictus qui venit» (Mt., XXI, 9) e «Manibus, oh, date lilia plenis» (Eneide, VI, 883).
Il potere della poesia fa sì che una memoria storica fittizia si aggiunga alle immagini inventate e sostenute da una fede reale. Ma al contrario del racconto di Enea che cominciava con il dichiarare inadeguato il linguaggio quando si tratta di dire tutta la sofferenza patita, Dante si vede invece costretto a rinunciare a esprimere la gioia più alta: «Oh quanto è corto il dire e come fioco / al mio concetto! e questo, a quel ch´io vidi, / è tanto che non basta a dicer poco» (Paradiso, XXXIII, vv. 121-123).
Corriere della Sera 8.10.08
Mercati e teorie
La psicologia di Soros e il circuito della paura
di Massimo Gaggi
NEW YORK — «Adesso a impedire una ripresa non sono solo i fattori economici e la psicologia dei mercati entrata in una spirale negativa, ma anche lo stress prolungato di chi vede accavallarsi brutte notizie da oltre un anno» dice il neuropsichiatra Richard Peterson, più noto come gestore di un «hedge fund» basato sull'«emotional arbitrage». «L'ormone dello stress condiziona la nostra mente, ci spinge a fare ragionamenti di breve periodo, a essere impulsivi».
Condivide John Schott, un altro psichiatra che si è dato agli affari (è «portfolio manager» di Steinberg Asset Management e autore di "Mind Over Money", un saggio sulla psicologia del risparmiatore): «In momenti come questi si instaura un circuito della paura inconscio e incontrollabile. E' un fenomeno che possiamo addirittura vedere fisicamente con una risonanza magnetica cerebrale, ma che non possiamo controllare. Emotività che prevale sulla nostra razionalità, che ci spinge a tirarci indietro: è come una "slot machine" che funziona al contrario: respinge invece di attirare».
Wall Street ha vissuto un'altra giornata nera nonostante i nuovi, massicci interventi della Federal Reserve a sostegno dell'economia americana e tutti si chiedono che cosa deve ancora succedere perché si spezzi questa spirale che paralizza il credito e deprime il sistema produttivo del Paese. Costringendo le autorità monetarie a ipotizzare addirittura l'«elettrochoc» di un calo dei tassi d'interesse concertato a livello mondiale.
Non saranno certo le analisi degli psichiatri trasformatisi in trader a indicare la via d'uscita da questa crisi. Ma è evidente che negli ultimi anni, nel valutare il comportamento dei mercati, i fattori psicologici, i comportamenti emotivi dell'«homo oeconomicus», sono stati molto sottovalutati. E ciò, nonostante che i cosiddetti «economisti comportamentali» avessero sfidato da tempo gli assunti dell'economia neoclassica sul comportamento razionale dei mercati. E avessero anche vinto qualche premio Nobel (ad esempio quello di Daniel Kahneman) dimostrando che il comportamento dei soggetti del mercato non è «modellizzabile» perché è influenzato dalle reazioni soggettive e dalla variabile dei comportamenti collettivi. Certo, oggi fa impressione vedere Wall Street continuare a flettere nonostante il governo leader del mondo abbia messo in piedi interventi a sostegno del mercato dei capitali di dimensioni mai viste nella storia dell'umanità. Ma bisogna chiedersi se l'assenza di reazione agli stimoli mostrata in questi giorni dai mercati sia il frutto di un'anomalia emotiva inferiore o superiore a quella, di segno opposto, prodotta dalla lunga stagione dell'«esuberanza irrazionale». Perché anche nel galoppante ciclo della crescita e della moltiplicazione del debito degli anni scorsi, i fattori emotivi, la propensione a rischiare al di là del ragionevole, il sovrappiù di testosterone misurato in una ricerca dell'università di Cambridge basata sul comportamento di un gruppo di trader della City di Londra hanno avuto il loro peso.
Se ne erano accorti in molti. Non solo studiosi della psiche ed economisti, ma anche grandi investitori come George Soros che anche nel suo ultimo saggio («Il nuovo paradigma dei mercati finanziari») sostiene che l'idea che i mercati sappiano autoregolamentarsi e tendano naturalmente all'equilibrio è sbagliata. Un'illusione che solo il fondamentalismo mercatista ha potuto continuare ad alimentare anche davanti all'evidenza delle bolle speculative — soprattutto quella immobiliare — che continuavano a gonfiarsi sull'onda dell'eccessivo indebitamento: un fenomeno che dava agli operatori una sensazione di grande sicurezza che li spingeva a rischiare ancora di più in una spirale perversa che, ora, si è improvvisamente capovolta.
L'epitaffio di un'era di fiducia cieca nell'ottimismo emotivo degli investitori l'ha scritto, nel luglio del 2007, l'allora capo di Citigroup, Chuck Prince, che, con la banca già in grosse difficoltà, disse al «Financial Times»: «Quando la musica si fermerà, la situazione sarà complicata, in termini di liquidità. Ma finché l'orchestra suona, noi continuiamo a ballare». Pochi giorni dopo la crisi cominciò ad avvitarsi, Citigroup si ritrovò con le spalle al muro e Prince fu messo alla porta. Ritrovare uno per uno gli orchestrali e rimetterli insieme non sarà facile, anche perché dopo gli anni della moltiplicazione «selvaggia » del debito e dell'esposizione delle banche, ora assistiamo a un «deleveraging» altrettanto selvaggio che deprime l'economia. Dopo i salvataggi bancari e le immissioni massicce di liquidità, ora, forse, si prova coi tassi.
Corriere della Sera 8.10.08
Le finanze della santa sede e la grande crisi del ‘29
Risponde Sergio Romano
Da racconti dell'epoca, mi risulta che il Vaticano uscì indenne dalla crisi del 1929, anzi ne trasse vantaggi.
Anche nell'odierna bufera che investe i mercati, a detta di un quotidiano inglese, i banchieri di Dio si sono messi anticipatamente in salvo investendo in beni rifugio. Invece di leggere le cronache finanziarie, sarebbe stato probabilmente più utile aver sottoscritto un abbonamento all'Osservatore
Romano.
Adriano Ponti
Temo che i «racconti dell'epoca » abbiano diffuso una idea alquanto sbagliata del modo in cui le finanze della Santa Sede uscirono dalla grande crisi finanziaria del 1929. Per capire ciò che accadde occorre fare un piccolo passo indietro al febbraio del 1929, quando Mussolini e il cardinale Gasparri firmarono i Patti lateranensi. L'Italia liquidò il debito assunto con la Legge delle guarentigie e versò allo Stato pontificio un miliardo e 750 milioni, di cui un miliardo in consolidato 5% al portatore e 750 milioni in contanti. La Chiesa non poteva vendere immediatamente il consolidato (se lo avesse fatto l'Italia avrebbe corso il rischio di una crisi finanziaria), ma disponeva di una somma che, tradotta in euro, ammonterebbe oggi a 534 milioni. Per investirla e trarne frutto, Pio XI creò una Amministrazione speciale e chiamò a dirigerla uno dei più abili e intelligenti finanzieri di quegli anni. Si chiamava Bernardino Nogara, era stato dirigente della Banca Commerciale Italiana, aveva rappresentato l'Italia in alcuni dei maggiori negoziati economico- finanziari degli anni precedenti ed era per più (aspetto molto importante agli occhi di papa Ratti) un cattolico lombardo, membro di quelle famiglie della buona borghesia milanese che Paolo XI aveva conosciuto e apprezzato negli anni in cui era stato Prefetto dell'Ambrosiana e arcivescovo della «capitale morale». Per bene amministrare questo nuovo patrimonio vaticano, Nogara si servì dei suoi contatti internazionali e distribuì la somma prudentemente fra diversi investimenti: oro, valuta, azioni di società ferroviarie e titoli pubblici dei Paesi più affidabili, con una preferenza per Svizzera, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Secondo lo storico inglese John Pollard, autore di un libro sulle finanze vaticane apparso anche in Italia presso Corbaccio («L'obolo di Pietro. Le finanze del Papato moderno 1850-1950»), il portafoglio avrebbe dovuto fruttare ogni anno più di 87 milioni di lire. Rassicurato da queste previsioni e dai buoni risultati della fase iniziale, Pio XI si lanciò in un ambizioso programma edilizio per rinnovare la Città del Vaticano, restaurare Castel Gandolfo, promuovere la costruzione di nuove chiese e realizzare le opere pubbliche (fra cui una stazione ferroviaria) necessarie alle esigenze del nuovo Stato.
Le opere vennero in parte realizzate, ma la fonte dei redditi, nel 1931, cominciò a inaridirsi.
Nogara dovette spiegare al Papa che il crollo della sterlina, l'insolvenza delle banche e il fallimento di alcune grandi imprese avevano duramente colpito le finanze vaticane. Per uscire dalla crisi dovette in primo luogo convincere Pio XI a ridurre le dimensioni del suo programma edilizio e decise in secondo luogo di puntare soprattutto su due investimenti: l'oro e il mercato immobiliare. Riuscì a salvare in tal modo una parte consistente del patrimonio, ma il reddito del capitale fu considerevolmente ridotto. Sembra che il Papa, poco esperto di cose economiche, abbia capito con un certo ritardo la gravità della crisi. Quando ne fu consapevole disse che era «la più grande calamità umana dopo il Diluvio».
Corriere della Sera 8.10.08
Uno scritto polemico
Schopenhauer nichilista: quant'è dannoso leggere
di Giorgio De Rienzo
Con una incisiva nota introduttiva di Andrea Felis leggiamo, nella traduzione di Valerio Consonni (con testo tedesco a fronte), il XXIV capitolo dei Parerga und Paralipomena di Arthur Schopenhauer, dedicato alla lettura e ai libri. La tesi che il filosofo sostiene va inquadrata nella polemica tardo-settecentesca contro i libri di intrattenimento culturale che riescono a creare un «falso movimento» di conoscenza, perché «quando leggiamo, un altro pensa al posto nostro » e il lettore ripete semplicemente (e inutilmente) «il suo processo mentale». Può essere attuale (e istruttivo), pur nella sua esasperazione nichilista, il ragionamento di Schopenhauer. «Veramente la nostra testa», scrive, «durante la lettura, altro non è che il teatro di pensieri estranei. Quando questi infine si dileguano, cosa resta? Di qui deriva che chi legge proprio molto e durante quasi l'intero giorno, si rilassa frattanto col passatempo dell'assenza del pensiero, e lentamente smarrisce la facoltà del pensare da sé. Proprio questo è il caso di parecchi dotti: si sono rimbecilliti col leggere». Da qui la terapia drastica di imparare a non leggere, di liberarsi, come interpreta Felis, dalle «letture nocive e velenose che distruggono lo spirito». Da qui il dettato addirittura di un'«arte del non leggere», perché i libri (anche quelli buoni) producono non solo un inutile esercizio delle facoltà cognitive, ma offrono al lettore un pericoloso «spettacolo dell'universalità», che è solo illusorio.
ARTHUR SCHOPENHAUER Sulla lettura e sui libri LA VITA FELICE PP. 61, e 6,50
Corriere della Sera 8.10.08
La donna che doma il Centauro sarebbe in realtà la vergine Camilla
Botticelli e la «vera identità» di Pallade
di Wanda Lattes
La notizia sorprenderà gli studiosi del Rinascimento e i milioni di pellegrini che vengono agli Uffizi per Botticelli: la donna biancovestita che doma il Centauro nella grande tela (due metri per un metro e 47, nella foto) dipinta da Sandro per la famiglia Medici, non è la dea Minerva ma Camilla, un'eroina celebrata da Virgilio nell'Eneide e ben conosciuta nella Firenze del Quattrocento.
Il quadro, esposto non lontano dalla «Venere » e dalla «Primavera», dovrebbe dunque cambiare il proprio titolo («Pallade e il Centauro »). L'ipotesi, già formulata in ambito accademico, trova ora ulteriori conferme che saranno illustrate venerdì prossimo a Firenze da Barbara Deimling, durante la prima giornata del convegno internazionale dedicato a Botticelli e a Herbert Horne, suo massimo studioso, dalla Harvard University, dalla Syracuse University e dalla stessa Fondazione Horne (l'occasione è il centenario della pubblicazione della fondamentale monografia sul Botticelli firmata da Horne).
Molti i temi che saranno affrontati durante il convegno (www.museohorne.it). Ma la relazione di Barbara Deimling, storica dell'arte e direttrice della Syracuse, sembra destinata a provocare vera emozione. Riassumendo i fatti bisogna ricordare come il titolo di «Pallade e il Centauro» sia stato attribuito soltanto nel 1895 da William Spencer, un amatore inglese, dopo che la tela, abbandonata a lungo in un corridoio di Palazzo Pitti, era stata riportata ai dovuti onori. La storia, narrata da Horne, ricorda come il riconoscimento di Pallade nella donna fino ad allora chiamata «Allegoria» fosse legata a un arazzo nel quale Botticelli riprendeva la leggenda di Minerva vittoriosa.
Ma la Deimling adesso porta elementi probanti. Camilla, il personaggio dell'«Eneide», la vergine combattente dei Volsci, è raffigurata con veste, acconciatura, armi, ornamenti, piante simboliche simili a quelle dipinte da Botticelli, in decine di cassoni, affreschi, ceramiche dell'epoca. E il suo gesto di dominio sul Centauro corrisponde alla leggenda di una donna che vince gli istinti bestiali.