giovedì 9 ottobre 2008

Repubblica 9.10.08
Sinistra in cerca d’autore
Un dizionario politico-culturale
di Simonetta Fiori


Cinquanta intellettuali di ispirazione eterogenea e di varia competenza hanno accettato di misurarsi con i nodi cruciali di una realtà da tempo in crisi: scomparsi i vecchi valori, restano indefiniti i nuovi

Liberaldemocratici sono insieme a socialisti e cattolici
Si rimprovera al Pd la liquidazione di una grande storia
Il mito culturale del popolo è stato regalato alla destra

Ci sono libri più di altri capaci di intercettare lo spirito del tempo. Sinistra senza sinistra è uno di questi (Feltrinelli, pagg. 352, euro 14). Nasce da un´inquietudine diffusa, almeno in una zona non irrilevante del paese: ma è possibile che la sinistra sia davvero finita? Estinta in parte nella sua rappresentanza parlamentare - liquidazione che riguarda l´ala più radicale - soprattutto polverizzata nella battaglia delle idee, nella proposta legislativa su temi essenziali, nella capacità di leggere le trasformazioni del paese? Quel che ci appare oggi nell´agone politico è una sinistra spaesata, balbettante, litigiosa, talvolta incagliata in beghe meschine, sostanzialmente subalterna alla nuova egemonia politica e culturale della destra. Sinistra, appunto, senza sinistra.
Eppure sopravvive oggi una vasta collettività di persone per le quali essere di sinistra ha ancora un senso. Nei grandi richiami ideali ma anche nel comportamento quotidiano. Un popolo di esiliati in patria, paragonati una volta da Cesare Garboli a tanti agrimensori K che vivono ai margini del magico castello dove si decidono, o si dimenticano, i loro destini. Una collettività che include il fattivo mondo dell´associazionismo e del volontariato, che ogni giorno sfida l´inerzia di chi li rappresenta. È anche questa la "sinistra senza sinistra" alla quale si rivolge l´instant book, preparato in velocità dalla casa editrice Feltrinelli grazie all´appassionato contributo di oltre cinquanta intellettuali di ispirazione eterogenea e di varia competenza, tra costituzionalisti, sociologi, filosofi, storici, urbanisti, politologi, giuristi ed economisti, anche operatori sociali ed esponenti dei movimenti. Ne è scaturita un´agenda a più voci, non sempre omogenea nell´intonazione, ma attraversata da un comune sentimento di rabbia per quel che poteva essere e non è stato, e insieme da passione civile per quel che ancora si può fare. Un cahier de doléances, da un lato, che ripercorre le occasioni mancate della sinistra italiana; dall´altra, una sorta di manifesto sui grandi temi della contemporaneità, che richiedono oggi più che mai una voce limpida e ferma. «Un nuovo patto di civiltà», lo definiscono in casa editrice, «al quale dedicarsi con cura e dedizione». Un libro che - aggiungono in via Andegari - un marchio storico come la Feltrinelli non poteva non fare.
Da «Autonomia delle persone» a «Legalità», da «Città» a «Ideologia», da «Diritti umani» a «Famiglia», da «Coscienza di classe, coscienza di luogo» a «Immigrazione», sono oltre cinquanta i lemmi che compongono questo nuovo dizionario politico-culturale d´una sinistra declinata nelle diverse anime, liberaldemocratica, socialista e cattolica. Una sorta di alfabeto civile - composto tra gli altri da Chiara Saraceno, Stefano Rodotà, Giorgio Bocca, Rossana Rossanda, Giorgio Ruffolo, Guido Rossi, Chiara Valentini, Tomàs Maldonado, Ilvo Diamanti, Luciano Gallino, Gad Lerner, Tito Boeri, Adriano Sofri, Gianfranco Pasquino, Luciano Canfora - che pur incompleto può però servire da bussola in un´Italia segnata da degrado istituzionale e morale, disgregazione sociale, scarsa memoria storica. Amnesia che ha contagiato pericolosamente anche la gauche.
Nella discontinuità delle voci, c´è una trama comune che le attraversa. Quel che si rimprovera al Partito Democratico è il taglio reciso con i propri legami ideali, la liquidazione brusca d´una storia intellettuale che annovera a sinistra molti padri nobili, l´assenza d´una elaborazione culturale che ne definisca il percorso e la base sociale. Ne è scaturito un «indistinto, incolore, incolto», denuncia Pasquino, privo di una cultura politica precisa, nonostante la promessa d´una felice sintesi delle migliori culture riformiste del paese. Insieme all´ideologia come visione fideistica della storia, incalza Nadia Urbinati, è stata buttata via anche l´ideologia quale politica delle idee, necessaria in ogni democrazia. Quel corpus di valori - così sintetizza Marc Lazar - solo attraverso il quale passa l´identità, e la capacità di mobilitare.
In questa furia autolesionistica, sembra quasi fatale la subalternità agli slogan populisti della destra. Un cedimento denunciato dagli studiosi in terreni diversi, dalla sicurezza ai flussi migratori, dalla famiglia alla fecondazione artificiale, dalla teoria della città alla giustizia, fino all´uso pubblico della storia. Quel che la sinistra ha regalato in questi anni alla destra - scrive Aldo Bonomi - è il potentissimo mito culturale del popolo. «È venuto meno quell´elemento che garantiva la connessione con il paese profondo e la sua cultura, la capacità di esprimere e reinventare il popolare, o nelle parole di Gramsci il nazionalpopolare come mastice tra nazione culturale e nazione politica, tra territorio e Stato, tra comunità e rappresentanza». Per rimettere insieme i cocci della "nuova sinistra" occorrerà ripartire da qui, dalla conoscenza del territorio - "coscienza di luogo", la definisce il sociologo - legata alle travolgenti trasformazioni del capitalismo globale. Proposte, idee, tentativi di definire una sinistra moderna. Soprattutto, la volontà di riscrivere quella vignetta di Altan dove all´omino col basco che rivendica "Ma io sono di sinistra!" replica accigliato l´amico: "Piantala, che ci stanno guardando tutti".

l’Unità 9.10.08
Se i poveri vanno a destra
di Nicola Cacace


Robert Reich, che nel 2004 aveva previsto la sconfitta di Al Gore, oggi prevede la vittoria di Obama.

Nel mezzo di una crisi finanziaria mondiale, frutto di una deregulation portata avanti dalla destra che produce disastri simili a quelli del ’29, deregulation che oggi tutti condannano, ci si chiede «perché i poveri votano a destra». Infatti la destra è avanzata, in America come in Europa, in un ventennio segnato da concentrazione di ricchezza e aumento delle povertà, col risultato che oggi in quasi tutti i Paesi poco meno della metà della ricchezza nazionale è nelle mani dell’1% delle famiglie, mentre prima del 1980, prima cioè dell’avvento di Reagan e della Thatcher, la quota posseduta dall’1% delle famiglie era poco più di un terzo.
Allora è vero che i poveri votano a destra? È vero che tra i poveri, gli operai e i ceti medi produttivi colpiti da perdite del potere d’acquisto e di status, aumentano insicurezze e paura del futuro, indirizzate abilmente dalle destre populiste contro i “diversi”, immigrati, gay, studenti ribelli del ‘68 e contro le politiche di solidarietà e dei controlli? Se è così, questo avviene anche per carenze culturali della sinistra nel fare analisi e proporre cure che spesso si confondono con quelle della destra.
A sostegno di questa tesi citerò passi di un libro di R. Reich, ministro del Lavoro del primo governo Clinton, oggi docente alla Brandeis University dal titolo significativo: «Ragiona! Perché i liberal vinceranno la battaglia per l’America» (liberal sta per progressista). L’autore spinge i democratici a ragionare con analisi e programmi ispirati agli interessi del Paese, che oggi più che mai ha bisogno di politiche di solidarietà sociale e di controlli pubblici se vuole evitare grandi depressioni come nel ‘29 e crisi gravi come quella di oggi, dovute, oltre che dall’assenza di controlli, al calo dei consumi e della domanda interna da impoverimento di massa.
«Anziché sul rafforzamento della moralità pubblica - i finanzieri di Wall Street senza controlli e con paghe esorbitanti - i “radcon” (radicali conservatori) si concentrano sulla moralità sessuale. Essi preferiscono regolamentare le camere da letto piuttosto che le stanze dei consigli d’amministrazione. ... Elemento determinante del successo della destra sono le truppe d’assalto mediatiche, che puntano sulle insicurezze e le paure di chi non arriva a fine mese, convincendo i cittadini che tutti i loro guai vengono da malattie esterne portate dalla sinistra, immigrati, ambientalisti, studenti, gay, arabi e comunisti. Le vetrine mediadiche sono finanziate da un gruppo di magnati dei media come Murdoch e il reverendo Sun Myung Moon e sostenute da giornali come Wall Street Journal, Weekly Standard, Washington Times, New York Post, New York Sun... Dopo aver conquistato le radio - 600 stazioni con 20 milioni di ascoltatori raggiunti nel 2003 - i radcon conquistano la Tv. Fox News di Murdoch nel 2002 supera Cnn nella guerra degli ascolti tra i canali d’informazione via cavo. Il dominio dei radcon non è dovuto solo al denaro e ai media. Alcuni attribuiscono l’eclissi dei democratici al fatto che il partito non ha saputo tenere il passo con un elettorato diventato più conservatore. Sono proprio quelle persone più danneggiate dalle politiche conservatrici dei repubblicani che, presi da insicurezza e paura, sono spinti ad incolpare gli altri. I radcon sono stati bravi a orientare paure ed insicurezze sui liberal. Molti democratici sostengono di essersi dovuti spostare al centro per seguire l’elettorato. Non serve coraggio per spostarsi al centro come viene definito dai sondaggi. Se vuoi essere un politico leader con tue idee sei tu che stabilisci il centro, non lasciando ai sondaggi dirti dove andare. Al massimo i sondaggi ti dicono da che parte sta la gente ed è inutile portarla dove già si trova, devi portarla in direzione dei tuoi valori e dei suoi veri interessi... Molti democratici hanno smesso di votare. Alle presidenziali del 2000 votarono i tre quarti degli elettori con redditi superiore ai 75mila dollari, solo un terzo di quelli con redditi inferiori ai 10mila. Con un astensionismo più equilibrato Al Gore avrebbe stravinto».
In sostanza Reich è convinto che i democratici torneranno ai loro valori storici rooseveltiani di capitalismo sociale di mercato senza confondersi con la destra su temi come sanità, fiscalità, paradisi fiscali, controlli sulla finanza e senza inseguire più un centrismo che continua a spostarsi verso destra. Allora non ci sarà partita alle prossime elezioni, una volta convinta la maggioranza degli americani che i loro interessi sono meglio tutelati dalle politiche liberal che da quelle protocapitaliste asservite all’avidità dei Cheney, dei Bush e dei loro amici.

Repubblica 9.10.08
Senegalese ammanettato davanti alla scuola del figlio
Tensione a Milano: l´uomo aveva lasciato l´auto in divieto di sosta. Le proteste degli altri genitori
di Massimo Pisa


Il vicesindaco De Corato: "La tesi del movente razzista è infondata"
A Rovereto un diciottenne di colore picchiato da una decina di coetanei

MILANO - Steso a pancia in giù a terra, con le mani dietro la schiena e le manette ai polsi, circondato da sei vigili davanti a decine di genitori e bimbi, compreso il figlio di 6 anni. Così si è ritrovato ieri mattina Moussa Dita, senegalese, 43 anni, da sedici a Milano dove lavora come operaio, sposato con una donna italiana. Aveva parcheggiato sul marciapiede davanti alla scuola elementare di via Mantegna, tra la Rai di corso Sempione e Chinatown, ed è stato bloccato da due vigili del vicino comando di zona che gli contestavano il mancato uso delle cinture di sicurezza per il piccolo: «Volevano le chiavi della mia macchina - racconta - mi hanno detto che me l´avrebbero sequestrata. Ho risposto che dovevano chiamare il carro attrezzi, e che li avrei pure seguiti, ma prima dovevo portare il bimbo a scuola».
L´uomo è stato immobilizzato, mentre il figlio veniva accompagnato in classe dalla mamma di un compagno, identificato e denunciato per resistenza al vicino comando di zona. Qui è arrivata anche una dozzina di genitori, decisi a mettere a verbale le proprie proteste, raccolte più tardi in volantini affisso ai cancelli dell´elementare con l´emblematico titolo: "Milano sicura?". Per i vigili - due di loro sono stati medicati, escoriazioni guaribili in 7 e 5 giorni - si è trattata di una reazione a un tentativo di aggressione. «La tesi del movente razzista è infondata e offensiva», s´affretta a dichiarare il vicesindaco Riccardo De Corato, che aggiunge: «Aspetto una relazione scritta dal comandante emiliano Bezzon. Se la reazione dell´uomo non c´è stata è chiaro che ci troviamo davanti a un eccesso». Il Pd milanese chiede chiarimenti «per fugare ogni dubbio».
Ed è stato un messaggio su un blog internet a rivelare un episodio di razzismo accaduto nei giorni scorsi a Rovereto, dove un diciottenne di colore adottato da una famiglia locale è stato picchiato da una decina di coetanei che l´hanno affrontato in gruppo costringendolo a inginocchiarsi e a scusarsi «per l´appartenenza a una razza inferiore». La vittima ha scelto per quieto vivere di non presentare denuncia ma conferma nei dettagli quanto accaduto durante una festa e riportato su internet da uno studente che era presente sul posto: «Tutta colpa di un litigio per una ragazza», racconta il ragazzo di colore. «Hanno iniziato a chiamarmi "scimmia rasta", "negro di merda" e avanti di questo passo. Io ho lasciato perdere e mi sono allontanato, ma al termine della festa li ho incontrati nuovamente. Erano in dieci, mi hanno scaricato addosso una valanga di insulti razzisti, pretendevano che mi scusassi. Ero furioso ma loro erano troppi, mi sono scusato ma quando mi hanno ordinato di farlo in ginocchio ho protestato con una spinta e sono stato colpito con un pugno al volto e quindi spinto su una balaustra. Ero nervosissimo, ma me la sono fatta passare. Ora cerco solo di non pensarci».
Tutto questo mentre il ministro dell´Interno Roberto Maroni, nel corso del question time alla Camera, ha difeso l´attività delle forze dell´ordine nel caso di Amina, la 51enne somala che ha denunciato maltrattamenti all´aeroporto di Ciampino da parte della polizia: «Hanno agito correttamente - ha detto, annunciando la costituzione di parte civile del Governo all´eventuale processo - non tutti gli episodi denunciati sono riconducibili ad atti di razzismo».
(ha collaborato Andrea Selva)

Repubblica 9.10.08
Il Papa: accogliete immigrati e profughi e il cardinale chiede nuove moschee nella Ue
di Orazio La Rocca


CITTÀ DEL VATICANO - «Accogliere e farsi carico di immigrati, rifugiati, profughi, senza fissa dimora, perseguitati». E´ quanto torna a chiedere papa Ratzinger nel messaggio per la Giornata dei migranti che la Chiesa celebrerà il 18 gennaio 2009. Il testo è stato presentato ieri in Vaticano dal cardinale Renato Raffaele Martino (presidente dei Pontifici consigli dei Migranti e di Giustizia e Pace), il quale - per l´occasione - ha anche criticato quei governi che «seguono politiche di chiusura nei confronti degli immigrati», e sostenuto la necessità che «in Europa ai fedeli islamici siano assicurate nuove moschee e dignitosi luoghi di culto».
Il «modello» indicato da Benedetto XVI è S. Paolo, l´apostolo delle genti, a suo tempo - ha detto - «migrante per vocazione» per annunciare il Vangelo nel mondo allora conosciuto. Oggi, sull´esempio di Paolo, la Chiesa - esorta il Papa - è chiamata a guardare «con attenta sollecitudine pure al variegato universo dei migranti - studenti fuori sede, immigrati, rifugiati, profughi, sfollati - includendo le vittime delle schiavitù moderne, come ad esempio nella tratta degli esseri umani». I cristiani, avverte ancora Ratzinger, siano sempre «solidali con i nostri fratelli migranti» e «promuovano in ogni parte del mondo e con ogni mezzo la pacifica convivenza fra etnie, culture e religioni diverse».
D´accordo «col Papa e col cardinale Martino», Fabio Sturani, sindaco di Ancona e vice presidente Anci con delega all´immigrazione, il quale, oltre a precisare che «non serve la politica di chiusura delle frontiere», richiama la Lega Nord per aver proposto per gli immigrati «l´introduzione dei diritti a punteggio». Dal fronte parlamentare, plaude a Ratzinger Pierluigi Castagnetti (Pd) che invita il governo a fugare ogni «pericolo di razzismo e xenofobia» e «ad ascoltare i richiami della Chiesa». Richiami che, comunque, «non resteranno inascoltati, anche perché l´invito ad accogliere immigrati e profughi va nella direzione che il governo ha sempre percorso», assicura Maurizio Lupi, Pdl, vice presidente della Camera.

l’Unità 9.10.08
La Chiesa: la xenofobia spinge i migranti verso l’irregolarità
di Roberto Monteforte


Rifugiati, richiedenti asilo e migranti, sfollati e profughi vanno accolti. L’invito arriva direttamente da Benedetto XVI. «Il fenomeno non lo si affronta chiudendo le frontiere, ma accogliendo» spiega nel suo messaggio per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato che si terrà il prossimo 18 gennaio, presentato ieri alla stampa dal cardinale Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio consiglio per i Migranti e dei Rifugiati e dal segretario del dicastero, l’arcivescovo Agostino Marchetto. Accogliere è un dovere. Il Papa aggiunge: «con un giusto regolamento, equilibrato e solidale, dei flussi migratori da parte degli Stati». Scuote le coscienze Ratzinger e non solo quelle dei credenti. Si rivolge anche agli Stati, ai governi, alle istituzioni. Di fronte ad uno dei fenomeni più rilevanti e inarrestabili della globalizzazione che vede oltre duecento milioni di uomini, donne e bambini a migrare spinti dalla miseria, dalla fame, dalla violenza, dalla guerra, dalle rivalità etniche come pure dal desiderio di una vita migliore raggiungendo i paesi più ricchi. Il Papa invita ad accogliere queste «vittime delle schiavitù moderne», queste «vittime nella tratta degli esseri umani». Loro, i più deboli e i più indifesi, spesso i più esclusi dalla società, segnati da precarietà e da sicurezza, emarginati vanno accolti, di loro c’è bisogno. Eppure spesso sono vissuti come «invasori». È il diffondersi di xenofobia e razzismo che preoccupa la Chiesa. Come pure il clima di chiusura e ostilità che si respira. «Questo clima di chiusura rende ancora più triste e amara la vicenda umana di molti immigrati, spingendoli altresì a condizioni di irregolarità» spiega il cardinale Martino. «Bisogna facilitare - aggiunge - una graduale integrazione dei migranti, nel rispetto della loro identità culturale e anche di quella della popolazione locale». Ai governi europei il Vaticano chiede di guardare ai lavoratori stranieri non come «invasori», ma «come collaboratori, persone umane con tutti i diritti», compresi quelli religiosi. E, a questo proposito, l'esponente della Santa Sede si è detto favorevole anche all'apertura di nuove moschee in Europa. «La Chiesa - ha aggiunto il porporato - non può fare altro che auspicare che la dignità umana delle persone sia rispettata, perchè o residente, o rifugiato o immigrato tutti abbiamo gli stessi diritti, perchè tutti apparteniamo alla razza umana. I diritti - ha ammonito - non sono una concessione di nessuna autorità». È ancora più di merito è stato l’atto di accusa mosso da Marchetto. «Da anni i rifugiati vengono trattati senza considerazione delle ragioni che li forzano a fuggire». Invece «i singoli Stati sono invitati a difendere i diritti di quanti fuggono, a causa di persecuzione, dai loro Paesi e a proteggerli a norma del diritto internazionale». Oggi, invece, sono in atto «tentativi di impedire loro l’ingresso nei Paesi di arrivo con l’adozione di misure destinate a renderlo più difficoltoso». È la «tendenza al ribasso», l’«erosione degli standard umanitari» con «l’introduzione di norme restrittive, quali l’obbligo del visto di ingresso».
Brutto segno. Va sul concreto Marchetto. A chi gli chiede un commento sul «diritto d’asilo a punti» avanzato dalla Lega, risponde che «matrimoni, assistenza sanitaria e religiosa agli immigrati» sono aspetti su cui «la Chiesa cattolica ha particolare sensibilità» e sui quali «verificherà ed analizzerà». «È giusto il richiamo del Papa e del Vaticano in tema di immigrazione e sicurezza, con preoccupazione di segnali di razzismo e xenofobia» è il commento del direttore di Famiglia Cristiana, don Antonio Sciortino. «Il richiamo è pertinente - commenta - perchè c'è una cultura della non accoglienza e le stesse proposte di legge fatte in questi ultimi tempi non mirano all'integrazione, ma rendono difficile l'accoglienza-integrazione». Contro il permesso a punti si schierano anche Acli e Cgil. Il ministro degli Interni, Maroni, rigetta l’accusa: in Italia non esiste un allarme razzismo.

l’Unità 9.10.08
Laboratorio Puglia. Con Vendola e l’Udc
di Simone Collini


«Qui siamo riusciti a mettere d’accordo cattolici e ortodossi, figuriamoci se non ce la facciamo a costruire il Partito democratico». Michele Emiliano non è tipo da farsi scoraggiare da qualche difficoltà. La stazza di ex giocatore di basket fa la sua parte, e poi a completare il ritratto del personaggio c’è la sua storia. «Io mi siedo qui», dice mentre nel ristorante si sistema con le spalle al muro. «È una vecchia abitudine». Di quando era magistrato antimafia, nella vita precedente quella di sindaco di Bari e segretario del Partito democratico. «L’altra l’ho persa subito perché non si mangia comodi con la pistola qua sotto», sorride mentre si infila una mano sotto la coscia destra. Figurarsi se uno così si fa impressionare da chi gli contesta il doppio incarico, da chi sostiene che il Pd pugliese è ancora privo di fisionomia e struttura, lamenta la poca apertura alla società civile o il mancato avvio del tesseramento. «Questo è un posto che non si può occupare a lungo - dice del suo incarico di segretario regionale dei democratici - perché sennò il partito smette di essere un organismo vivo, come deve essere». Però ci tiene a ricordare un paio di dati: «Sono stato eletto sindaco con un vantaggio di 13 punti, mentre lo stesso giorno alle europee il centrosinistra è stato staccato di 11 punti». A fare la differenza è stata la «lista Emiliano», che alle comunali prese il 18%. C’è chi l’accusa di populismo e personalismo: «Figuriamoci, ho sofferto per il nome di quella lista. Ma la risorsa della società civile è troppo preziosa per sottovalutarla. L’apertura deve essere una nostra caratteristica».
E però qualcosa non torna se un altro esponente del Pd come Francesco Boccia dice che quel «patrimonio», che si è fatto notare sia alle urne nella cosiddetta «primavera pugliese» che alle primarie dell’anno scorso (ai gazebo sono andati il triplo di quelli che avevano votato la volta prima per Prodi), «è andato a farsi benedire». Colpa delle elezioni anticipate e della legge “porcellum”, sostiene lo sfidante - sconfitto - di Nichi Vendola alle primarie per la presidenza della Regione. «I mondi esterni ai Ds e alla Margherita non sono stati valorizzati, si è fatta fatica a inserirli negli organismi dirigenti», lamenta il deputato Pd, esponente di punta della componente lettiana, che da queste parti è piuttosto corposa (alle primarie Enrico Letta qui ha preso circa il 30% dei voti, il triplo rispetto alla media nazionale). «Il voto anticipato ha fatto riprendere il sopravvento alle nomenclature dei due partiti d’origine. La campagna di adesione ora deve far voltar pagina, altrimenti siamo cotti».
Il problema è che il tesseramento tante volte annunciato ancora non è partito. «Abbiamo istruito la pratica, cominciamo a giorni», assicura e rassicura Dario Ginefra. Il segretario del Pd barese ce la mette tutta per spiegare che non si tratta di un ritardo rispetto alla tabella di marcia ma della necessità di metabolizzare nei tempi giusti un’operazione del tutto nuova. Per dire, anche il fatto che ancora non sia stata aperta la sede del Pd cittadino viene spiegato col fatto che si preferisce non andare in quella della Margherita in Piazza Moro o in quella dei Ds di Corso De Gasperi. Intento nobile, però intanto le riunioni dei democratici baresi si svolgono nella sede del regionale, con alle pareti il manifesto «Vota Ds», quello per il settantesimo anniversario dalla morte di Antonio Gramsci e disegni a inchiostro di china piuttosto antichi dedicati tra l’altro a l’Unità. Nessuno sa chi sia l’autore, tra i ragazzi che discutono animatamente in una stanzetta delle primarie dei “young dem””: «Mi sembra chiaro che qui non si discute in termini di maggioranza e minoranza», ammonisce una brunetta con tono deciso senza che nessuno abbia il coraggio di contestarla.
Anche perché da queste parti si fatica a vedere maggioranze e minoranze consolidate. Piuttosto, il Pd qui assomiglia più che altro a un arcipelago in cui i ponti di collegamento compaiono e scompaiono qui e là a seconda delle maree, con dinamiche che solo in parte sono definibili con le categorie “classiche”. Per dire, «dalemiano di ferro», usata per far riferimento agli esponenti della componente più corposa, è una definizione che qui accomuna molti e che però viene assegnata a personalità che, da una provincia all’altra, da un’istituzione all’altra, non si risparmiano colpi. Poi c’è la componente dei lettiani, minoritaria ma tutt’altro che residuale, e quella che fa capo a Emiliano, che lavora per mantenere buoni rapporti coi vertici nazionali e locali senza tagliarsi ponti in nessuna direzione. Discorsi che il segretario di Bari Ginefra vuole lasciarsi alle spalle: «È ora che finisca la querelle avviata dopo le elezioni, con la campagna di adesione e poi con la conferenza programmatica dobbiamo accantonare tutti i personalismi».
«Il Pd è ancora un ibrido», nota Franco Cassano. Il sociologo ha contribuito ad aprire una polemica sul mancato avvio del tesseramento. «Se decidi di iscriverti te la porto personalmente», gli ha risposto a distanza Emiliano. Ma per il docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi la questione non è solo tecnica, ma strutturale e psicologica. «Il tesseramento è legato alla forma partito, che ancora non mi sembra sia stata chiaramente decisa. E poi tesserarsi vuol dire avere fiducia, mentre ho visto persone partite cariche di entusiasmo ora in preda alla depressione». E un «giudizio sospeso» viene dal presidente di Confindustria Bari Alessandro Laterza: «Molte premesse sono state poste, ma bisogna vedere gli effetti. I giudizi si esprimono sui risultati, non sulle intenzioni».
La necessità di procedere rapidamente alla costruzione del Pd è duplice, qui più che altrove. La tenuta della «primavera pugliese» - cioè la stagione che dopo anni di egemonia della destra ha portato all’elezione del comunista Nichi Vendola alla Regione, dell’imprenditore Vincenzo Divella alla provincia di Bari e dell’ex magistrato Emiliano al comune capoluogo - sarà messa a dura prova già dalle amministrative del prossimo anno: Emiliano dovrà vedersela con l’ex sindaco Simeone Di Cagno Abbrescia mentre Divella ha fatto sapere che potrebbe anche non ricandidarsi se si renderà conto di «dover correre al buio». Il Pd deve contrastare il vento cambiato rafforzandosi e lavorando sulle alleanze. Non a caso la formula che ora inizia a circolare da queste parti non è più quella che ha a che vedere con la bella stagione, ma un’altra, che ha più a che fare con gli esperimenti, il duro lavoro e l’incognita delle possibilità: «Laboratorio Puglia».
Si tratta di un’espressione utilizzata anche l’altra sera, per il faccia a faccia tra D’Alema e Vendola che ha chiuso la festa di Bari del Pd. «Essere a vocazione maggioritaria non significa avere l’autosufficienza», è la convinzione del presidente di Italianieuropei. «Dobbiamo guardare con attenzione a ciò che succede a sinistra e saper dialogare con i moderati che non si riconoscono in questo governo». Un doppio messaggio, lanciato sia in direzione di Vendola, che invece di tirarsi indietro ha definito «un errore» l’aver convocato due manifestazioni distinte contro il governo, che dei centristi dell’Udc. Quella di D’Alema, che le dinamiche politiche di queste parti le conosce piuttosto bene, non è una palla lanciata a caso. In Regione il dialogo tra il Pd e Vendola è già avviato. E a portarlo avanti sono tutt’altro che seconde file, visto che si tratta del vicepresidente della giunta regionale Sandro Frisullo e del capogruppo dei democratici Antonio Maniglio. Primi segnali già arrivano, come l’intesa per evitare il mantenimento dello sbarramento al 4%, come vorrebbe il centrodestra, o l’ipotesi che già alle amministrative della prossima primavera ci siano liste non riconducibili entro i confini della sola Rifondazione comunista. Ma l’operazione a cui pensano i democratici pugliesi è di più ampio respiro e punta ad avere effetti ben al di là dei confini pugliesi. «Il congresso della Bolognina qui ha creato una spaccatura profonda nei gruppi dirigenti», ricorda Ginefra citando percentuali diverse da quelle del resto del paese e i nomi di Vendola, Giordano e di tutti gli altri che non seguirono Occhetto nella svolta del Pds. «Lo scontro è stato duro e ci sono voluti diversi anni per superare quelle distanze. L’esperienza di governo di Vendola ci ha aiutato in questo senso». La sensazione che ha avuto Emiliano guardando alla platea che seguiva il dibattito tra D’Alema e Vendola è stata quella di essere in mezzo a «un popolo unico». Dice Ginefra: «Siamo all’inizio, all’embrione di un possibile progetto, ci vuole cautela e prudenza».
A spiegare di cosa si tratti ci pensa Paolo De Castro. Il presidente di Red, che sta lavorando all’organizzazione di un’iniziativa (il 20 a Bari) sul «Federalismo visto da Sud», usa parole di apprezzamento per il modo in cui Vendola sta governando la Regione. E parole di speranza sul lavoro che il governatore pugliese sta facendo con l’associazione Rifondazione per la sinistra: «Un esperimento che auspichiamo porti avanti fino in fondo». Il senatore del Pd non usa la parola «scissione», ma fa capire a cosa pensi quando dice che «Vendola interpreta in maniera eccezionale ciò che significa essere sinistra di governo» e che il mantenimento della sola «parte migliore» del Prc «renderebbe concreta la possibilità di un’alleanza con l’Udc». Fantascienza? Emiliano racconta la storia della disputa sul patrono di Bari, scoppiata dopo l’arrivo delle reliquie di San Nicola in una città fino allora protetta da San Sabino. Era il 1067. La querelle è stata risolta il secolo scorso, ma è stata risolta. E a proposito del fatto che governa una città che ospita una Chiesa Russa e venera un santo in comune con fedeli greci e russi, Emiliano racconta anche un’altra cosa: «Ho chiamato Veltroni e gliel’ho detto. Cambia esempio, lascia stare Putin».

l’Unità 9.10.08
Prof di religione, privilegiati di Dio
I prof di religione pagati meglio e sempre più numerosi
Per loro non ci sono tagli. E i precari nominati dal Vicariato prendono anche lo scatto biennale di anzianità
di Maristella Iervasi


«OGNI ANNO scolastico vengo assunto in settembre e licenziato in giugno. Non ne posso più. Il mio stipendio, pur avendo una cattedra a 18 ore come tutti gli insegnanti a tempo indeterminato non cresce di un euro. Resta fermo a 1200 al mese. È un’ingiustizia di parità lavorativa. Uno scandalo». Così l’estate scorsa, Pino La Satta, 35 anni, da 7 anni docente precario di diritto, economia e con una specializzazione anche in sostegno presso un istituto professionale a Campobasso, ha avviato un ricorso. Ha colto al balzo la vertenza sulla conciliazione lavorativa lanciata in tutta Italia dalla Flc-Cgil. E spera di poter procedere davanti al giudice del lavoro per costituire un precedente, in forza di una sentenza della Corte di Giustizia Europea pronunciata sul caso di una lavoratrice spagnola precaria di 12 anni che al momento dell’assunzione ha chiesto il riconoscimento dell’anzianità pregressa.
«Ho fatto i calcoli - sottolinea il professore precario - ho perso finora 4mila euro lordi. Mentre ci sono altri docenti che hanno gli scatti pur essendo precari come me. Sono intoccabili, perfino dai tagli della Gelmini». Il riferimento è agli insegnanti di religione, che vengono pagati dallo Stato e nominati dal Vicariato su organici regionali. Oltre 25mila prof di fede cattolica privilegiati da sempre: sia che siano supplenti precari che di ruolo. Uno caso che pone la questione della violazione del principio di uguaglianza e sul quale la Commissione Europea ha aperto un dossier. Bruxelles, dopo l’esposto del deputato radicale Maurizio Turco, pretende adesso spiegazioni dal governo Berlusconi. Ma come stanno le cosè?
La Gelmini per volontà di Tremonti ha deciso che la scuola deve dimagrire di 87.400 posti docenti, di cui 30mila solo nelle elementari. Ma la mannaia creativa - e l’ha dichiarato il ministro stesso a Porta a Porta - non riguarda gli insegnanti di religione. Che restano sempre dei privilegiati. I loro stipendi crescono del 2% circa ogni 2 anni sia da semplici supplenti che di ruolo. Mentre tutti agli altri insegnanti a cui si applica il contratto devono sottostare a tempi più lunghi per l’avanzamento di carriera: 6-7 anni, i cosidetti gradoni. Mentre i precari di matematica o italiano restano al palo.
Il tutto è frutto della revisione dei Patti Lateranensi sottoscritti nel 1984 dal presidente Bettino Craxi e dal cardinal Agostino Casaroli. A cui seguì una legge, la n.186 del 18 luglio 2003: «Norme sullo stato giuridico degli insegnanti di religione cattolica negli istituti e delle scuole di ogni ordine e grado». E l’accordo Miur-Cei del 23 ottobre 2003, tra l’allora ministro dell’Istruzione Letizia Moratti e il cardinal Camillo Ruini. Prima di allora gli insegnanti di religione erano sì scelti dalle Curie e pagati dallo Stato ma non potevano entrare di ruolo. Ogni anno dovevano essere riconfermati con il placet del vescovo ma rischiavano di restare precari a vita, fermi al primo livello stipendiale. Da qui la scelta di maggiori tutele rispetto agli altri insegnanti: dopo 4 anni consecutivi di lavoro a scuola, il diritto degli scatti biennali. Con la legge del 2003 si prospetta però la loro stabilizzazione. Ma quel privilegio non viene cancellato. Vige tutt’ora. Le prime assunzioni con Moratti, bel 2005-2006: 9.229 insegnanti su complessivi 24.412 precari. Le assunzioni successive, come d’intesa con la Chiesa, avvengono gradualmente di 3mila unità nel 2005-2006 e nel 2007-2008, coprendo fino 70%: 15mila posti docente in totale; il 30% è supplente.

l’Unità 9.10.08
Scuola, contro la Gelmini sarà sciopero generale
di Giuseppe Vittori


Approvato dall'aula, il decreto Gelmini «sul maestro unico» è invece bocciato dal mondo della scuola che si prepara a scendere in piazza rispondendo all'appello dei sindacati. Ieri sera Cgil, Cisl, Uil, Snals e Gilda hanno deciso lo sciopero generale. Per conoscere la data della mobilitazione bisognerà però aspettare l'esito del tentativo di conciliazione previsto oggi al Miur. Un appuntamento, quello messo in cantiere dai sindacati di categoria, al quale si arriva dopo una marcia di avvicinamento cominciata già da settimane e costellata da sit-in davanti al ministero, iniziative spontanee di protesta, occupazioni, «notti bianche», dal Nord al Sud della penisola.
Domani un assaggio del malcontento arriverà ancora dagli studenti che manifesteranno in decine di città. «L'approvazione del voto di fiducia alla Camera sul decreto Gelmini - spiega l'Unione degli studenti - rappresenta un ulteriore atto antidemocratico di un governo che elude le tante manifestazioni di dissenso e con violenza prova ad affermare il proprio autoritarismo. Per questo domani porteremo in piazza tutta un'altra musica, alle 70 manifestazioni da noi organizzate». «Ci mobilitiamo - spiega un'altra associazione studentesca, la Rete degli studenti - contro i tagli di 8 miliardi di euro alla scuola pubblica, che è la vera riforma messa in campo dal governo Gelmini-Tremonti-Berlusconi. Contro un governo che conta balle, per rivelare la verità all'opinione pubblica».
Dai ragazzi la contestazione passerà quindi nelle mani del sindacalismo di base: i Cobas guidati da Piero Bernocchi, tra i primi, hanno proclamato uno sciopero, in calendario per il 17 ottobre. Insomma, il fronte della protesta è ampio e non si ferma certo alla scuola. Anche le università sono in subbuglio per i tagli previsti in Finanziaria.
L'ateneo di Firenze è in prima linea: dopo l'occupazione delle aule del polo scientifico di Sesto Fiorentino e della facoltà di agraria, ieri si è passati al volantinaggio e agli striscioni srotolati dai ponti Santa Trinità e Carraia contro tagli e privatizzazione; e domani si farà lezione per strada. Anche a Pisa ieri assemblea in piazza: circa 3.000 persone fra ricercatori, impiegati amministrativi e tecnici precari, più studenti e professori, si sono ritrovati in piazza dei Cavalieri per discutere dei provvedimenti presi dal governo, a partire dal precariato. Proteste anche nella Capitale, dove, dopo una settimana di agitazione, sono scesi di nuovo in piazza i precari degli enti pubblici di ricerca, per protestare, sotto il ministero dell'Istruzione, contro l'emendamento che sopprime di fatto le stabilizzazioni.
Intanto, ieri la Camera si è dedicata all'esame dei 242 ordini del giorno, per la maggior parte presentati dall'opposizione, al decreto legge Gelmini. Oggi pomeriggio è previsto il voto finale sul provvedimento che dovrà, poi, passare al Senato.

Repubblica 9.10.08
In piazza contro la riforma del maestro unico voluta dalla Gelmini
Decisione unitaria dei sindacati. La data si conoscerà domani, forse il 30
Scuola, i sindacati hanno deciso
Anche l’Università in lotta. Firenze in prima linea
Brunetta ai prof: guadagnate troppo
"Sarà sciopero generale"
di Mario Reggio


ROMA - La scuola scende in piazza. Ieri sera i segretari di Cgil, Cisl, Uil, Snals e Gilda hanno raggiunto l´accordo. Sciopero nazionale e manifestazione a Roma. La data sarà ufficializzata oggi, dopo il tentativo di conciliazione al ministero della Pubblica Istruzione. Ma probabilmente sarà giovedì 30 ottobre. Oggi alla Camera il voto di fiducia sul decreto Gelmini. Poi il provvedimento passerà al Senato. Una vera corsa contro il tempo perché, per diventare legge, dovrà essere approvato entro e non oltre il 31 ottobre. Domani saranno gli studenti della "Rete" a scendere in piazza in settanta città, «contro i tagli di 8 milioni di euro, contro un governo che racconta balle, per rivelare la verità all´opinione pubblica».
In attesa delle manifestazioni e del voto di fiducia il ministro Renato Brunetta ha deciso di gettare benzina sul fuoco. «I nostri insegnanti lavorano poco, quasi mai sono aggiornati e in maggioranza non sono neppure entrati per concorso - afferma - ma grazie a sanatorie. E poi 1.300 euro sono comunque due milioni e mezzo di vecchie lire, oggi l´insegnamento è part-time e come tale è ben pagato». Piero Bernocchi, portavoce dei Cobas della scuola, risponde per le rime: «Senti chi parla, Brunetta da docente universitario prende quattro volte lo stipendio di un insegnante di scuola e ha un orario molto più ridotto. Parla delle ore di insegnamento ma si scorda quelle che il docente impegna per preparare le lezioni, aggiornarsi e valutare gli studenti. La sua uscita bizzarra contribuirà al successo del nostro sciopero e della manifestazione del 17 ottobre a Roma».
Maria Pia Garavaglia, ministro ombra dell´Istruzione del Pd, invita Brunetta «ad avere maggior rispetto per chi lavora nel mondo della scuola. Il governo la finisca con questa opera diffamatoria e metta a disposizione i fondi, invece di tagliarli». Secondo Giorgio Rembado, presidente dell´associazione nazionale presidi, «lavorano poco i docenti che lavorano male. Chi prepara le lezioni, si aggiorna e corregge i compiti facendolo con coscienza fa un lavoro a tempo pieno. Bisogna rivedere le modalità di reclutamento, legando l´assunzione a criteri meritocratici ed eliminando le graduatorie che prevedono che si faccia carriera per anzianità e non per le abilità conseguite». Ma il fronte di protesta non si ferma alla scuola. L´ateneo di Firenze è in prima linea: dopo l´occupazione delle aule del polo scientifico di Sesto Fiorentino e della facoltà di agraria, ieri si è passati al volantinaggio e agli striscioni srotolati dai ponti Santa Trinità e Carraia. Anche a Pisa oggi assemblea in piazza: circa 3.000 persone fra ricercatori, impiegati amministrativi e tecnici precari. Proteste anche nella capitale, dove, dopo una settimana di agitazione, sono scesi di nuovo in piazza i precari degli enti pubblici di ricerca, per protestare, sotto il ministero dell´Istruzione, contro l´emendamento che sopprime di fatto le stabilizzazioni.

Repubblica 9.10.08
Eluana, la Consulta dice no al Parlamento
Aborto terapeutico, il consiglio di Stato boccia la Lombardia e il limite a 22 settimane
di Piero Colaprico


Inammissibile il conflitto di competenza Anche i giudici ordinari danno ragione a papà Englaro

MILANO - Torto al Parlamento sulla vicenda di Eluana Englaro da parte della Corte costituzionale. Torto alla regione Lombardia sulle linee guida dell´aborto da parte del Consiglio di Stato. È un caso, ma questa doppia sconfitta, nello stesso giorno, della politica più prona alle richieste della Santa Sede ha un aspetto comune. Vittorio Angiolini, che è legale sia di papà Beppino sia dei medici della Cgil: «I giudici - dice il costituzionalista - bacchettano chi cerca di piegare le leggi oltre il limite. Comunque in un caso, quello dell´aborto, c´è la questione della difesa del rapporto tra medici e pazienti, tenendo i politici un po´ più lontani di quanto vogliono. Nell´altro, quello di Eluana, siamo all´opposto, e cioè bisogna stabilire che i medici, a un certo punto, devono fermarsi e rispettare il paziente».
Se il consiglio di Stato che respinge il ricorso della Regione Lombardia, già perdente davanti al Tar, era in qualche modo un evento annunciato, bisogna dire che il caso Englaro ha vissuto momenti clamorosi. Ci sono altri due fatti, oltre al no al Parlamento da parte della Corte costituzionale, da registrare: il sì all´udienza in tempi rapidi da parte della Corte di Cassazione; e l´accordo a Milano per eliminare dalla scena la «sospensiva» della sentenza.
«Le cose piano piano stanno andando per il verso giusto», dice papà Beppino ai giornalisti. «Il riconoscimento ci fa capire che le cose giuste vanno avanti. Abbiamo un ostacolo in meno, è il massimo», conclude. Vediamo dunque in dettaglio che cos´è successo.
Come si ricorderà lo scorso luglio, tra lo sconcerto trasversale degli esperti di diritto, alcuni politici, con Francesco Cossiga in testa, avevano sollevato il conflitto di attribuzione. Secca, senza sconti, priva di diplomazie, la risposta è in un aggettivo: «Inammissibili». I ricorsi per rivendicare a Camera e Senato la competenza di legiferare sulla «non-vita» di Eluana vanno bocciati, così hanno stabilito i giudici che regolano i rapporti tra le istituzioni del Paese.
Il centrodestra protesta e s´indigna, ma non ha il monopolio del mondo cattolico. In queste ore circola un appello dal titolo inequivocabile: «Lasciamo che Eluana riposi in pace». A firmarlo sono «ventidue cattolici, appartenenti all´area della Chiesa che si rifà con particolare convinzione al Concilio Vaticano II». Sono conosciuti per fede e impegno culturale. Ritengono che da parte delle gerarchie ecclesiastiche «ci si accanisca nei confronti di Eluana e che non si rispettino le sue precedenti accertate dichiarazioni di volontà prima dell´incidente».
Nel frastuono delle polemiche, la «tartarughesca» macchina della giustizia intanto è dirittura d´arrivo sul «fascicolo Englaro». L´11 novembre la Corte di cassazione si riunirà a Roma. Lo farà a sezioni unite (significa che i giudici vogliono sottolineare che il loro parere sarà definitivo). Ed esaminerà gli ultimissimi ricorsi e controricorsi. Un anno fa la stessa Corte affermò che il medico ha «il dovere giuridico di rispettare la volontà della paziente contraria alle cure»: non si può, cioè, essere «medicalizzati» a forza e senza fine. Può smentire se stessa? Staremo a vedere.
E sempre ieri, ma a Milano, in quaranta minuti, la Corte d´appello ha pronunciato alle 12.45 un «non luogo a provvedere». Non è una decisione neutra: avvocati e magistrati si sono infatti accordati su una linea di «dialogo». Ed è stata smentita l´ «urgenza» a dover bloccare la sentenza favorevole agli Englaro del luglio scorso. Papà Beppino, interpellato direttamente dai giudici Lapertosa, Secchi e Boiti ha assicurato - forse per la centesima volta - che il suo intento era ed è di «muoversi alla luce del sole». D´altra parte, che può fare? È stato ricordato in aula che la Regione Lombardia aveva comunque espresso il «no» a qualsiasi ricovero in uno dei suoi hospice. Questa imposizione dall´alto è stata affrontata e criticata dai legali: secondo loro, i funzionari regionali ne renderanno conto in un futuro processo.

Corriere della Sera 9.10.08
Consiglio di Stato Respinto il ricorso della Regione. La Cgil: splendida giornata
Aborto, stop alla Lombardia sulla regola delle 22 settimane
Formigoni: ma negli ospedali resterà tutto come prima
Otto medici si erano rivolti alla magistratura contro le linee guida. I legali: «Riconosciuta la libertà professionale»
di Rita Querzé


MILANO — Stop del Consiglio di Stato alle linee guida della Regione Lombardia in materia di legge 194. Il ricorso contro le norme regionali sull'aborto era stato avviato da otto medici milanesi supportati dalla Cgil. Nel maggio scorso il Tar ha dato ragione ai camici bianchi e al sindacato. La Regione non si è arresa e ha impugnato il provvedimento davanti al Consiglio di Stato. Speranze deluse: con l'ordinanza 5311 di martedì scorso il massimo organo della giustizia amministrativa ha respinto il ricorso.
Materia del contendere: la settimana entro la quale possono essere praticati gli aborti terapeutici. La legge 194 lascia al medico la possibilità di decidere. Comunque vieta l'aborto dal momento in cui il feto è in grado di sopravvivere in modo autonomo. Di fatto in molti ospedali l'aborto terapeutico è praticato fino alla ventiquattresima settimana. Nel gennaio scorso il cambio di rotta in Regione Lombardia: nuove linee guida hanno autorizzato l'aborto terapeutico solo fino alla ventiduesima settimana e tre giorni. Motivazione: «Nei nostri ospedali, grazie ai progressi scientifici e tecnologici, i feti possono vivere di vita autonoma già dalla ventiduesima settimana », spiegava la Regione.
Adesso il pronunciamento del Consiglio di Stato soddisfa la Cgil. Il segretario generale della confederazione in Lombardia, Nino Baseotto: «È una splendida giornata per le donne, i loro diritti, la loro libertà di scelta». E ancora: «Siamo di fronte a una sentenza destinata a fare giurisprudenza, ora mi auguro che la Regione voglia riaprire il confronto su questi temi».
Ma le prime dichiarazioni uscite ieri dal Pirellone non parlano di dialogo. Rappresentano piuttosto una Lombardia sempre in trincea sul tema «aborto». In sostanza, secondo la Regione, i medici degli ospedali lombardi hanno già deciso liberamente di fermare gli aborti alla ventiduesima settimana e tre giorni invece che alla ventiquattresima. Il tutto attraverso codici etici interni. E nel pieno rispetto della 194 che lascia, appunto, la decisione ai medici stessi. «L'ideologia si illude di aver vinto contro l'evidenza scientifica, che viene invocata solo quando fa comodo — si scalda il presidente della Lombardia, Roberto Formigoni —. Quella della Cgil è una vittoria di Pirro perché negli ospedali lombardi niente cambierà».
Dal canto suo la giustizia amministrativa non è mai entrata nel merito dei termini dell'aborto terapeutico. «Il Tar ha ritenuto che le linee guida regionali andassero sospese perché ledevano la libertà professionale del medico. È il medico, infatti, che in base alla 194 deve decidere sui termini in cui l'aborto terapeutico è accettabile», spiega Vittorio Angiolini, l'avvocato che (insieme con Ileana Alesso e Marilisa D'Amico) ha rappresentato le istanze degli otto medici che si sono rivolti al Tar. Per conoscere le motivazioni che hanno ispirato la decisione del Consiglio di Stato bisognerà aspettare ancora qualche ora. Il loro deposito è atteso entro oggi.

Corriere della Sera 9.10.08
Una narratrice americana racconta la storia del fondatore dell'Islam e della sua sposa bambina
La moglie del Profeta, sfida editoriale
Divide la scelta della Newton Compton: pubblicare in Italia il romanzo
di Paolo Conti


«L o ammetto. Per pubblicare un libro del genere, occorre un bel po' di coraggio. Con Aisha si sfiora un tema delicatissimo come la religione. Ma spero che appaia subito chiaro come non ci sia nulla contro l'Islam, né contro Aisha, la sposa bambina di Maometto né tanto meno contro Maometto». Raffaello Avanzini è il giovane direttore generale della Newton Compton che il 16 ottobre distribuirà in Italia, nella traduzione di Micol Arianna Beltramini, il romanzo Aisha, l'amata di Maometto di Sherry Jones, giornalista americana alla sua prima opera letteraria. L'autrice assicura di aver studiato storia dell'Islam e numerosi testi di cultura musulmana «inclusa una biografia di Maometto che risale al XIV secolo» prima di affrontare la storia romanzata della giovanissima compagna del Profeta, sposata a nove anni di età. Nel testo ci si imbatte in particolari espliciti, come l'iniziazione sessuale dopo le prime mestruazioni della ragazzina: «Il dolore per la consumazione del matrimonio se ne andò subito. Maometto era così gentile. Essere nelle sue braccia era la beatitudine che avevo atteso per tutta la vita». Oppure, quando Aisha viene sospettata di adulterio a 14 anni e lei risponde «"Io, con Safwan? È ridicolo", dissi. "Sono la moglie del sacro profeta di Allah. Perché dovrei desiderare una nullità come lui?". Mi sentii addosso gli occhi di Muhammad. Vampate di calore mi attraversavano la pelle. Aveva sentito la bugia dietro la mia risata?» Tanta chiarezza poetica offenderà i musulmani in Italia? O accadrà ciò che è avvenuto a Belgrado dove, il 17 agosto, la comunità islamica ha chiesto attraverso il suo leader Muamer Zurkolic il ritiro del volume in quanto «offensivo per i musulmani»? Una cosa è certa. Denise Spellberg, docente di storia islamica all'università del Texas, ha giudicato l'opera un «romanzo porno- soft».
Il coraggio di cui parla Raffaello Avanzini (suo padre Vittorio, ora presidente onorario, fondò la casa nel 1969) è insomma motivato. All'inizio di agosto la casa editrice statunitense Ballantyne Book del gruppo Random House, aveva annullato la pubblicazione di The Jewel of Medina (titolo originale) perché la compagnia era stata avvertita che la pubblicazione avrebbe potuto essere offensiva per i musulmani. Ma il 7 ottobre, il libro è finalmente uscito negli Usa ma per i tipi della Beaufort Books che ha anticipato di una settimana la distribuzione, prevista per il 15 ottobre. L'editore Eric Kampmann ha chiarito di non aver ricevuto minacce ma ha spiegato di aver voluto accelerare i tempi perché «finalmente si parli del valore del libro piuttosto che di terroristi o editori fifoni». Nulla si sa invece sulla pubblicazione in Gran Bretagna da Gibson Square: il 27 settembre una molotov è stata lanciata contro l'ingresso della casa dell'editore Martin Rynja, in Londsale Square. Tre uomini sono stati arrestati con l'accusa di terrorismo. Da qui a novembre il libro uscirà in Ungheria, Germania, Danimarca, Macedonia. Poi in Brasile, Spagna, Grecia, Polonia, Russia.
Dunque Avanzini e la Newton Compton conoscono le incertezze della scelta: «Lo abbiamo messo nel conto, il libro qualche fastidio lo darà. Ma la nostra cifra è l'indipendenza e abbiamo deciso di andare avanti lo stesso. Dopo la Fiera del Libro di Francoforte, Sherry Jones sarà nostra ospite in Italia e stiamo organizzando un suo tour per la prima parte di novembre. Affronteremo inevitabili misure di sicurezza. Qualche frangia estremista può sempre agire. Ma per noi l'opera è un bel romanzo storico che può mettere in contatto due culture diverse, l'occidentale e quella islamica. Non c'è alcun insulto a una figura considerata santa nell'Islam ». Cosa dicono gli altri editori italiani? Avrebbero pubblicato un romanzo così «scomodo»? La parola a Carmine Donzelli: «Non si può ragionare in astratto, dipende dalla qualità del libro. Per un capolavoro sarei disposto sicuramente a rischiare, anche se a lume di naso bisogna comunque stare attenti nel valutare se un libro possa davvero produrre effetti devastanti. Se invece si trattasse di un'opera che titillasse la semplice curiosità, non ne farei nulla. Qui sta, a mio avviso, l'etica della responsabilità di un editore». Avrebbe pubblicato I versetti satanici di Salman Rushdie, Donzelli? «Sicuramente, correndo tutti i rischi. Parliamo di un grande ». Analogo l'approccio di Elido Fazi, della Fazi editrice: «L'importante, rispetto al rischio, incluso quello religioso, è la qualità del prodotto. Dopo l'11 settembre ci prendemmo la responsabilità di pubblicare Fine della libertà, in cui Gore Vidal quasi giustificava le ragioni dell'attentato per l'arroganza degli Stati Uniti nell'ultimo mezzo secolo. Fernanda Pivano mi telefonò: "Voi siete pazzi, ma come vi viene in mente?". Invece ne valeva la pena. Questa è libertà, questa è responsabilità. E il discorso varrebbe anche per un libro di eventuale sfondo religioso».
Il profeta Maometto accoglie i fedeli dell'Islam in una miniatura proveniente dall'Asia centrale

Corriere della Sera 9.10.08
Un saggio di Armando Massarenti sul dibattito aperto dalla clonazione della pecora Dolly
Le guerre staminali: cellule della discordia tra etica e scienza
di Edoardo Boncinelli


Staminali e clonazione sono due termini che hanno preso sempre più piede e che hanno quasi monopolizzato da qualche anno il dibattito etico in biomedicina. Parzialmente correlate, le due parole hanno una storia pubblica comune: sono nate entrambe nel 1997 in seguito al clamore suscitato dall'annuncio della nascita della pecora Dolly, probabilmente l'animale più «chiacchierato » della storia.
Quello che avrebbe dovuto essere salutato come un grandissimo esperimento scientifico e interessare al più qualche decina di esperti, fu ripreso da tutti i media e gettato in pasto ai commentatori delle più diverse competenze e delle più sospette inclinazioni: un vero atto di pirateria mediatica, un capolavoro della triste saga dell'occultamento della verità. Chiunque sia sinceramente interessato a comprendere l'origine del Male, i semi del disprezzo e dell'odio e il motivo per il quale il progresso morale e spirituale dell'uomo è così lento — infinitamente più lento di quello materiale — dovrebbe riflettere su questa vicenda storica, non gravissima in sé, ma enormemente istruttiva.
Ma è acqua passata. Che cosa resta veramente di tutto questo? Resta una grande, grandissima promessa della medicina di domani e una serie di opportunità biologiche con pochi eguali. La promessa di cui stiamo parlando è appunto la possibilità di utilizzare le cosiddette cellule staminali per restaurare o, meglio, rimpiazzare organi e parti di organo del nostro corpo che risultino danneggiate, per usura, per un incidente o per una malattia. L'espressione cellule staminali ha una lunga, onorata storia nella biologia e nella clinica, ma da dieci anni ha acquisito appunto un significato particolare e ormai standard. Si tratta di cellule che rispondono a tre requisiti: sono in grado di riprodursi, meglio se non troppo lentamente; non sono ancora troppo caratterizzate o, come si dice in gergo, differenziate; e, più importante di tutti, sono in grado di farsi «rieducare», facendosi persuadere a differenziare in questo o quell'altro tipo di cellule mature, secondo la necessità.
Anche se tutto questo non ha dato ancora quei risultati che è legittimo aspettarsi, tutti siamo convinti che presto o tardi ciò accadrà, con grande soddisfazione di tutti. Tutto bene quindi? Purtroppo no. Perché è venuto alla ribalta il problema della reperibilità delle cellule staminali, ovviamente umane, problema che si è venuto a sovrapporre storicamente all'annosa questione della liceità dell'aborto, anche se questo è permesso in Italia e regolato da una legge dello Stato. Le cellule staminali, infatti, si possono prendere da un embrione più o meno precoce o direttamente da tessuti adulti: nel primo caso sono state chiamate cellule staminali embrionali, nel secondo caso cellule staminali adulte. L'uso delle cellule staminali embrionali pone appunto problemi che qualcuno chiama etici e che sono da porre in relazione alla convinzione che l'embrione precoce sia già un individuo umano o meno: nel primo caso esistono problemi per il loro uso, nel secondo evidentemente no. Grandi discussioni e grandi polemiche su tutta questa storia e contemporaneamente grande disinteresse per le più recenti conquiste della scienza. Nessuno sa infatti se con le staminali adulte si potrà produrre qualsiasi tipo di tessuto oppure no, mentre per definizione con quelle embrionali ciò sarà possibile. Così molti non sanno neppure se e come potrebbero essere proficuamente utilizzate le cellule staminali dell'uno o dell'altro tipo che venissero a rendersi disponibili.
Di tutto questo parla, con una certa ampiezza e l'utilizzazione di materiale giornalistico di non sempre facile reperibilità, Armando Massarenti nel libro Staminalia edito da Guanda. Vi si può trovare la storia dell'intera vicenda e una gran mole di informazioni sul dibattito che ha accompagnato in Italia e nel mondo il diffondersi della speranza nell'efficacia clinica di questo tipo di cellule. Particolarmente utile trovo la messa a punto sull'attuale effettiva utilità dei trapianti di cellule staminali adulte in pazienti con varie patologie che investano organi diversi, dal sistema nervoso all'apparato cardiocircolatorio.
C'è stata infatti un convergenza di interessi diversi per la reclamizzazione dell'efficacia dei trapianti di cellule staminali adulte. Da una parte, l'interesse più o meno confessato di chi vuole magnificare il potere delle cellule staminali adulte allo scopo di mettere in ombra l'utilità delle cellule staminali embrionali.
Dall'altra, il bieco interesse materiale di «guaritori miracolosi » di vario tipo, che in diverse parti del mondo si sono messi a fare prove in vivo con le cellule staminali adulte, alimentando una vera e propria industria di «viaggi della speranza» con le destinazioni più svariate e talvolta esotiche. Data la grande esigenza di mettere un certo numero di «puntini sulle i» a proposito dei vari aspetti della spinosa questione, non si può non salutare con favore l'uscita di un'opera chiarificatrice come quella di Massarenti.
Prima o poi le cose si chiariranno e le promesse verranno mantenute. Il progresso non si può fermare. Ed è anche quasi certo che in futuro rideremo di tutte queste polemiche e indecisioni. Ma per il momento siamo in ballo e dobbiamo ballare. Avvalendoci di tutti gli strumenti più adatti. Compresa la corretta informazione.
L'immagine stilizzata di una staminale in mezzo a normali cellule sanguigne

Corriere della Sera 9.10.08
Il pianista Pieranunzi critica la gerarchia culturale che continua a privilegiare «tutto ciò che è scritto»
Noi improvvisatori, trattati ancora come sciamani
di Enrico Pieranunzi


Romano, classe 1949, Enrico Pieranunzi (sotto) è uno dei più noti musicisti jazz europei. Pianista, oltre che compositore, suona il 17 ottobre

«L'improvvisazioneè lo stato germinale del canto, la musica nascente»; e ancora «la musica in generale è naturalmente improvvisatrice». Queste asserzioni non sono di un musicista o di un musicofilo ma di un filosofo, il franco-russo Vladimir Jankélevitch, che dedicò una parte non trascurabile della sua ricerca alla musica in generale e in particolare a quel «non-so che», a quel misteriosamente ineffabile che sembra caratterizzare l'arte dei suoni. Sul valore intrinseco ed estetico dell'improvvisazione Jankélevitch è comunque in buona compagnia. Arnold Schönberg afferma per esempio in «Stile e Idea» che «la composizione è improvvisazione al rallentatore ». Nella mia personale vicenda musicale l'improvvisazione ha giocato e gioca un ruolo decisivo. È grazie al saper improvvisare, infatti, che ho imparato a comporre e ad arrangiare, e ancora grazie alla dimestichezza con l'improvvisazione ho compreso com'è strutturata la musica di Beethoven, Mozart, Brahms, in cui la percentuale di soluzioni chiaramente improvvisative è molto più alta di quanto si pensa. Credo comunque, al di là della mia storia personale, che il link improvvisazione-composizione sia strettissimo e che l'improvvisazione, anche quella teatrale e pittorica, dovrebbe essere fin dai primi anni materia di studio e pratica in ogni scuola, perché può aprire ad orizzonti espressivi di grande ampiezza.
Rimane il quesito: perché un'attività che è sempre stata parte fondamentale del fare musica in tutti i Paesi e in tutte le epoche è ancora considerata, nel nostro tempo, una bizzarria, una sorta di «diversità » incomprensibile e affascinante, una temibile pratica da «sciamani dei suoni» che colloca il musicista capace di praticarla in una zona «altra» da guardare con sospetto? Una risposta non peregrina potrebbe trovarsi in quella sorta di tacita gerarchia culturale, creatasi soprattutto a partire dal XIX secolo, secondo la quale tutto ciò che è scritto è superiore a ciò che è orale. D'altra parte, cancellando come irrilevante la parte improvvisata e non scritta dell'attività di musicisti come Scarlatti, Bach, Mozart, su su fino a Liszt ecc., si finisce per non comprendere neanche la loro musica scritta. C'è da ritenere infatti che l'improvvisazione, per questi e per tanti altri musicisti dei secoli scorsi, non fosse un semplice gioco fine a se stesso, ma costituisse un vero e proprio «motore generativo » della musica che componevano. E proprio questo è l'aspetto che li rende in certo modo jazzisti ante litteram.
L'irruzione del jazz nel mondo musicale e dello spettacolo del secolo scorso ha in sostanza fatto riemergere qualcosa che c'era già e che s'era per un certo periodo smarrito. Il jazz ha riproposto la prassi improvvisativa scardinando il rassicurante rapporto del suonatore con lo «spartito». Ma ciò che di destabilizzante questa musica ha fin dall'inizio recato con sé non è stata solo l'improvvisazione, quanto piuttosto l'intensità della presenza fisica che essa stessa richiede, in una parola il suo lasciar parlare il corpo. Nel jazz in effetti l'improvvisazione è un elemento necessario, ma non sufficiente. Si può suonare jazz anche senza improvvisare, «interpretando » in un certo modo un brano. Il jazzista, in altri termini, usa l'improvvisazione come un mezzo, non come un fine. Fa del proprio strumento un'estensione del corpo per l'esigenza di creare un racconto in suoni, per disegnare forme sonore che vadano in tempo reale a rappresentare (consapevolmente o no) momenti di vita profonda, emozioni, pensieri, immagini, che nessuna parola potrebbe riuscire ad esprimere.

il Riformista 9.10.08
A Liberazione si sono bevuti il cervello
di Peppino Caldarola


A Liberazione si sono bevuti il cervello. Dopo aver letto due articoli dedicati ai nostri interventi sul film di Spike Lee e la strage di Sant'Anna di Stazzema, uso la stessa espressione che Piero Sansonetti ha dedicato al nostro Fabrizio d'Esposito. D'Esposito ieri ha raccontato una storia importante e inedita. Un'anziana signora di ottantuno anni, che ha voluto conservare l'anonimato, ha mostrato al nostro collega una copia di un volantino datato 29 luglio 1944 in cui il Comando delle Brigate d'assalto Garibaldi invitava la popolazione versiliese a non abbandonare il paese rifiutando il diktat imposto dai nazisti ai mille abitanti di Sant'Anna di Stazzema. I partigiani offrivano protezione e rappresaglia contro i tedeschi. Molti abitanti del paesino rimasero e furono trucidati dai nazisti.
La storia è questa e da questa storia si ricava, senza ombra di dubbio, che i carnefici furono i nazisti. Piero Sansonetti (un caro amico, ma evito ai lettori i convenevoli stucchevoli che nascono dall'affetto reciproco) fa un titolo a effetto e così racconta ai suoi lettori il Riformista e Fabrizio d'Esposito: «Perché difendete i nazisti sui giornali di sinistra?». Sullo stesso numero del giornale di Rifondazione, Leonardo Paggi, storico e studioso di Gramsci, confida il proprio scandalo per l'articolo del Riformista e, tanto per dare una compagnia a d'Esposito, dice che anch'io, associando Spike Lee a Giampaolo Pansa, mi sono reso responsabile di «strumentalizzazione». Con un paio di colpetti di penna, Sansonetti e Paggi ci hanno sistemati tutti e due.
Vale la pena ricordare che mentre a Paggi il film di Spike Lee è piaciuto, a Sansonetti è sembrato orrendo. Mentre Sansonetti lo considera infondato storicamente, Paggi lo apprezza anche se da storico di razza teme che le versioni cinematografiche dei grandi fatti storici ne modifichino la percezione. Qui Paggi fa l'esempio di Schindler's List che sarebbe incorso in tante inesattezze, dimenticando il trascurabile particolare che grazie a Spielberg milioni di persone al mondo, e milioni di giovani, hanno capito la tragedia della Shoa. Non voglio discutere le civetterie degli storici né difendere Hollywood. Vorrei solo ricordare che l'intervento del Riformista ha evitato a Spike Lee di finire triturato in una ridicola polemica sul revisionismo, visto che, dopo un articolo in cui la Castellina mi insultava, lo stesso «quotidiano comunista» pubblicava in prima pagina un elogio di Spike Lee non diverso da quello di Paggi.
Riassumendo. Il film di Spike Lee è forse bello, impreciso, secondo alcuni, ma non "revisionista". Sansonetti non nega che sulla Resistenza, i suoi errori, persino sull'esistenza di traditori, si possa parlare. Dove è il momento in cui qualcuno si sarebbe bevuto il cervello? E chi se l'è bevuto, noi o Liberazione? Non ci vuole molta fantasia a immaginare qual è la mia risposta che proverò ad argomentare.
Sansonetti ricorda che i "negazionisti" in molti paesi europei sono stati condannati al carcere, è successo a David Irving recentemente in Austria, e pur non chiedendo la galera per d'Esposito (grazie, troppo buono!) lo associa ai negazionisti, e associa tutti noi del Riformista alla stessa categoria, con quel titolo indecente: «Perché difendete i nazisti sui giornali di sinistra?». Ma chi ha difeso chi? Non c'è traccia nei testi pubblicati dal Riformista di un mutamento di giudizio storico. Abbiamo parlato di attenzione verso le ragioni dei vinti - come fecero Violante e Ciampi -, persino del dolore della vittoria, di fronte a spargimenti di sangue e a vendette che potevano essere evitate, abbiamo messo a confronto le posizioni di Spike Lee con le reazioni ai libri di Giampaolo Pansa. Ho difeso Pansa anche quando non sapevo che veniva a lavorare con noi (e vai!). E ho ricordato quanto ostracismo gli è toccato di subire per essersi inoltrato nel mondo degli sconfitti. Confermo, anche se tutto ciò scandalizza Castellina e Leonardo Paggi.
Veniamo al secondo punto della contesa, la pubblicazione del volantino. Sansonetti sa che quasi a ogni anniversario della strage di via Rasella abbiamo ospitato sulla nostra Unità polemiche, sempre chiuse dando la parola a Rosario Bentivegna (che con Carla Capponi diede vita all'azione partigiana), in cui si sollevava il problema dei prezzi che l'attività militare della Resistenza faceva pagare alla popolazione civile. Forse Sansonetti, Paggi, Castellina non si sono accorti che questa discussione è di estrema attualità e trova opinioni discordi e sensibilità che sono mutate nel tempo. Non c'entra niente il "revisionismo", che è una corrente storica degna di stima, tanto meno il "negazionismo", che è cosa orrenda, ma l'uomo d'oggi, anche quello di sinistra, è abituato a discutere anche sul prezzo che una buona causa paga o fa pagare. Se diventa connivenza con nazismo mettere tutti i fatti storici sul tavolo dell'antifascismo, allora è proprio vero che siete voi che vi siete bevuti il cervello.

il Riformista 9.10.08
Il 55% di sì nel sondaggio. I lettori: «Gli italiani sono razzisti»
di Francesco Nardi


«Gli italiani sono razzisti o no?». Questo è il tema del sondaggio settimanale lanciato durante la puntata di martedì scorso dal Maurizio Costanzo Show in collaborazione con il Riformista. Il risultato, per quanto non schiacciante, non lascia comunque spazio a fraintendimenti: oltre il 55% dei votanti ritiene che gli italiani siano razzisti. Oltre i voti espressi, molti sono stati anche i commenti lasciati sul nostro sito web; opinioni che differiscono tra loro non solo per il segno - italiani razzisti o non razzisti - quanto anche per l'idea stessa di razzismo: c'è chi lo identifica con la xenofobia, come chi estende la definizione di questo odioso fenomeno a ogni altro tipo di discriminazione, e chi invece tiene ad evidenziare le differenze che esistono tra le diverse manifestazioni di quello che, comunque si voglia definirlo, rimane un problema molto serio.
Al sondaggio hanno partecipato cittadini italiani ma anche moltissimi immigrati che, più o meno integrati, vivono e lavorano nel nostro Paese. Molti commenti ci sono stati inviati proprio da questi: espressioni spesso accorate, e non solo perché si sentono oggetto del problema, quanto perché in tanti, avendo accumulato esperienze diverse in altri paesi, avvertono tutte le differenze del caso. Come è ovvio, il dibattito risente dell'eco degli ultimi fatti di cronaca, ma non sono solo questi ultimi ad aver determinato l'esito del sondaggio. I casi sono tantissimi e difficili da riassumere per categorie: c'è chi lamenta episodi di discriminazione nelle scuole o negli ospedali, così come sul posto di lavoro. Un altro dato è quello delle differenze tra il nord ed il sud del nostro Paese: diversi, infatti, sono stati i commenti in cui si è detto che è molto più facile restare vittime del razzismo al settentrione rispetto al meridione. Per quanto riguarda le cause di discriminazione prevalgono abbondantemente quelle legate all'origine o al colore della pelle, in quantità minore ma comunque significative spiccano quelle di tipo religioso, anche queste riferite molto più al nord che al sud. Tuttavia, tra tanti casi che suggeriscono sconforto e pessimismo si fanno notare anche commenti di tono diverso. Ad esempio abbiamo scelto quello Guillerm Lopez, del quale qui di seguito pubblichiamo uno stralcio.

«Vengo dall'Ecuador e sono arrivato in Italia nel 2001, quando sono partito ho detto a mia moglie che sarei tornato presto e con un po' di soldi per comprare un taxi e magari aprire anche un piccolo negozio. Dopo un mese dal mio arrivo in Italia, mi ha poi raggiunto anche mia moglie; dormivamo nei giardini durante i fine settimana perché mia moglie lavorava come badante di una bellissima vecchietta ed io facevo lo stesso a 80 km di distanza da lei. In seguito sono arrivati in Italia anche i nostri tre figli grazie a delle persone per bene come poche esistono al mondo e che ci hanno sempre aiutato. Adesso lavoriamo in una grande ditta dove ho avuto l'opportunità di esprimere le mie capacità: sono stato assunto da subito, e quando la stessa azienda ha aperto sedi all'estero sono stato inviato in quelle sedi per formare gli addetti locali. A febbraio di quest'anno ho anche ricevuto un premio, fatto che per me è stato molto importante in quanto ha onorato la mia famiglia e dato orgoglio al mio paese. Questo premio era assegnato ai migliori lavoratori, ed io ho vinto quello di "miglior lavoratore extracomunitario della regione Marche". Quando sono tornato a lavorare, dopo la premiazione, i miei colleghi hanno cominciato a guardarmi male ed ho iniziato ad avere problemi, anche se mi rifiuto di credere che si tratti di vero e proprio razzismo. Quello che è importante e che voglio esprimere è che mi sento bene con me stesso e la mia famiglia, e che i miei figli mi considerano un eroe. Vorrei continuare a vivere in Italia come se fosse casa mia ma capisco ci vuole ancora tanto tempo perché questo possa diventare realtà. Penso, nonostante tutto, di poterci riuscire».

mercoledì 8 ottobre 2008

l’Unità 8.10.08
Torna centrale nel dibattito e nella polemica politica lo spettro di Carlo Marx: tutta colpa dei mutui e della crisi del capitalismo
Tremonti e Bersani, chi è il più comunista

Comunista non lo è mai stato. Giulio Tremonti lo ha tenuto a specificare. Recentemente ha rivalutato Marx, è vero, ma è stato solo per un momento. Non è mai stato neanche «un liberista selvaggio». Anche questo ha voluto specificare ieri. Semmai un innovatore, l’inventore delle cartolarizzazioni, che ha trasformato il mattone in titoli, della finanza creativa, dei condoni. Tutto ma non comunista o liberista. Lui no, ma Pier Luigi Bersani, anzi «Bersanov», sì. Comunista perché Bersani avrebbe usato, come ogni buon sovietico, carte false contro un avversario politico, e cioè lo stesso Tremonti, liberista perché soggiogato nella sua carriera politica «dalla City finanziaria», tanto da «trasferire i suoi denari da Mosca a Londra» e da «adottare lo stile di vita dei manager».
Che avrebbe fatto dunque “Bersanov” per meritare tanto livore? Ha ricordato, con il segretario del Pd Walter Veltroni, che nel 2003, solo cinque anni fa, l’allora ministro dell’Economia, e cioè Tremonti, aveva proposto nel Documento di programmazione economica e finanziaria, un piano per l’introduzione di «mutui ipotecari» anche in Italia. L’ipotesi era semplice. Gli stessi strumenti finanziari che sono alla base dell’attuale crisi mondiale potevano essere utilizzati dagli anziani per ipotecare la casa e avere soldi per far lievitare in questo modo i consumi. E non faceva nulla se poi erano creditori poco solvibili, a quello avrebbe pensato la finanza.
Quell’idea, ha contestato Tremonti, non venne tradotta in carta e quindi non esiste. «Un ministro risponde solo dei testi che firma». E in effetti ce ne sarebbero tanti per i quali il ministro potrebbe anche spendere una parola in più. Tralasciando le misure già ricordate, Tremonti potrebbe dire agli italiani a quanto ammontano, ad esempio, i contratti «swap» che il suo governo ha stipulato con la banca d’affari americana Lehman Brothers, recentemente finita a gambe all’aria.
Il difensore della massaia di Voghera, l’uomo che lancia in resta si è gettato contro i mercati finanziari e gli avidi manager che li hanno regolati fino a questo momento, ai quali il suo studio legale fa onostamente il 740, dopo aver infilzato banche e petrolieri potrebbe anche spiegare perché la scorsa settimana non si è presentato in Parlamento e non ha risposto alle domande dell’opposizione sui debiti finanziari «swappati» dal Tesoro. A noi, vecchi vetero comunisti sovietici, viene il dubbio, che questa assenza forzata derivi dal fatto che il ministro Tremonti, come ha spiegato anche il parlamentare ed economista del Pd Francesco Boccia, abbia dato vita a «un tentativo affannoso di coprire quelle perdite con altre operazioni di finanza derivata».
ro.ro.

l’Unità Lettere 8.10.08
La Bibbia, la maratona e le parole di Einstein


Cara Unità,
è un evento straordinario la maratona della Bibbia. Sei giorni e sei notti di interrotta lettura: 1250 lettori, dal papa a Benigni, da Andreotti alla Carfagna, da Ciampi all’uomo della strada. Farà conoscere il testo che pochi italiani, cattolici o non cattolici, hanno letto nonostante l’ora di religione. È bello pensare che questo grande originale progetto, a cui concorrono tanti uomini e donne e moderne tecnologie, promuova la conoscenza di un libro fondante dell’immaginario collettivo del mondo occidentale.
Ma vorremmo che fosse soprattutto un’operazione culturale e che, pertanto, a conclusione della lettura, ci fossero altrettanti giorni di discussione e di approfondimento che facciano conoscere la Bibbia per quello che è: un libro scritto dagli uomini e non da Dio. Altrimenti si farebbe un’operazione anticulturale e persino antireligiosa attribuendo a Dio ridicole fantasie, quali l’esistenza di giganti e di uomini tanto longevi da arrivare ad ottocento anni ed oltre, capaci di diventare padri a duecento anni, o che Sansone avesse la forza nei capelli, che uccise 1000 filistei armato di una micidiale mascella d’asino, che Giona sortì tutto intero dalla pancia di un pesce, che Dio fermò il sole per aiutare Giosuè e tante altre storie di questo tipo.
Sull’argomento una grande mente quale Albert Einstein aveva idee chiare. Nella lettera del 3 gennaio 1954 all’amico filosofo Eric Gutkind, sostiene che la Bibbia è: «una raccolta di leggende dignitose ma primitive» e altrove definisce la fede dogmatica una «infantile superstizione».

Repubblica 8.10.08
Discriminante far scegliere i professori dalla Chiesa
La Commissione di Bruxelles accoglie un esposto che ritiene violato il principio di uguaglianza
I dubbi della Ue sui docenti di religione "Assunti in base alla fede, l´Italia spieghi"
di Alberto D’Argenio


BRUXELLES - In Italia per diventare insegnante di religione, anche in una scuola pubblica, bisogna ottenere il via libera del vescovo. Una prassi in vigore dai Patti lateranensi del 1929 ma entrata in collisione con le regole europee che vietano qualsiasi forma di discriminazione in ragione del credo religioso di un lavoratore. E per vederci chiaro Bruxelles ha aperto un dossier e inviato una richiesta di informazioni al governo Berlusconi. Il caso nasce da una denuncia alla Commissione europea promossa dal deputato radicale Maurizio Turco, dall´avvocato Alessandro Nucara e dal fiscalista Carlo Pontesilli. Le accuse del pool radicale sono molto precise e si fondano sulle regole cardine dell´Unione europea. Afferma infatti la direttiva comunitaria del 2000 contro la discriminazione che un lavoratore non può essere discriminato per ragioni «fondate sulla religione". Ma c´è di più, visto che la parità di trattamento a prescindere dalla confessione è garantita anche dalla Dichiarazione universale dell´Onu, richiamata dal Trattato di Maastricht, e dalla Convenzione europea sui diritti dell´uomo. E, a quanto sembra, la regola in vigore da ottant´anni e confermata nel 1985 in seguito al rinnovo dei Patti firmato da Bettino Craxi va in un´altra direzione.
L´avallo vescovile, è la tesi radicale, rappresenta infatti una violazione delle regole comunitarie. A non andare è soprattutto la diversità di trattamento tra i professori di religione e quelli delle altre materie: chi vuole insegnare, infatti, deve svolgere un corso di abilitazione di un anno e poi sperare di diventare precario, prima tappa della sua incerta carriera. Chi insegna religione, sottolinea la denuncia recapitata a Bruxelles, invece deve solo ottenere la nomina vescovile (fatti salvi alcuni requisiti professionali) godendo dunque di un trattamento privilegiato vietato dalla Ue. E ovviamente va da sé che un ateo o un non cattolico non può diventare docente di religione, con palese discriminazione rispetto a chi è credente. Ma non finisce qui, visto che c´è anche una disparità di trattamento retributivo tra i circa 23 mila insegnanti di religione e gli altri, con i primi che prendono più soldi dei secondi. Prassi bocciata a luglio dalla giustizia italiana, che ha condannato il ministero dell´istruzione a parificare lo stipendio di un professore che ha fatto ricorso aprendo la strada a nuove singole denunce (in Italia non esiste il ricorso collettivo). Argomentazioni che hanno fatto breccia a Bruxelles, con la direzione generale Affari sociali e pari opportunità della Commissione europea che a cavallo dell´estate ha chiesto una serie di informazioni al governo riservandosi di decidere sul caso solo quando avrà letto la risposta, attesa a breve. Insomma, non si tratta ancora di una procedura formale contro l´Italia, ma l´invio di un questionario significa che la Ue nutre seri dubbi sulla legalità della nostra legge. Esattamente come avvenuto nel 2007, quando Bruxelles ha chiesto una serie di informazioni sui colossali sgravi fiscali accordati alla Chiesa. Un dossier, questo, ancora al vaglio della Commissione che, secondo diversi interlocutori, prende tempo viste le ingombranti pressioni politiche che spingono per un´archiviazione.

Repubblica 8.10.08
Il Latino, nuova lingua d´America
In dieci anni aumentato del 30% il numero di chi supera l´esame
Sorpresa, nei licei americani è di moda studiare latino
di Marina Cavallieri


Raggiunto il record degli ultimi trent´anni di ragazzi che traducono Orazio e Cicerone Il preside di una scuola di Brooklyn: "È lo studio che distingue le persone di successo"

ROMA. Sarà responsabile la crisi economica e dei valori o semplicemente colpa dei film dai grandi incassi, dal "Gladiatore" a "Troy" fino alle formule magiche di "Harry Potter", ma il paese più moderno e più avanzato del mondo torna all´antico e sui banchi di scuola sceglie di studiare il rigore, il passato ovvero il latino. Nelle scuole di New York ma anche in Nuovo Messico e Alaska, sempre più studenti si applicano alla lingua di Cicerone.
Si cimentano con i futuri e i participi, abituati ad un idioma sintetico e globale guardano indietro e scelgono di declinare rosa, rosae.
Un articolo del New York Times illustra una tendenza che forse è qualcosa di più di un episodio e qualcosa di diverso da una moda scolastica, è una ventata di classicismo che si diffonde nelle aule dove gli studenti navigano su Internet e comunicano con sms e chat. Crescono infatti i corsi di latino, fa proseliti la cultura dei "padri europei", un mondo non più noioso, obsoleto o snob, ma per i ragazzi semplicemente cool.
Le cifre sono sufficienti a far parlare di un fenomeno e a spingere ad indagare: negli ultimi due anni sono stati più di 134 mila gli studenti americani che si sono presentati all´Esame nazionale di latino, erano stati 124 mila del 2003 e i 101 mila del 1998. Gli studenti che superano l´Advanced Placement Test sono raddoppiati in dieci anni, più di 8 mila nel 2007. Non solo corsi di studio ma anche scuole come la Brooklyn latin school, sorta nel 2006, dove il preside Jason Griffiths spiega solennemente che il latino è «la lingua delle persone di successo». Non ci sono però solo i libri per studenti secchioni ma anche spettacoli per nuovi fans come quello che mette su il liceo di Scarsdale, nello stato di New York, che organizza ogni anno un banchetto per le Idi di marzo dove bisogna presentarsi vestiti con la toga. Gli studenti invece di inorridire sono aumentati del 14 per cento. È così che dopo il francese e lo spagnolo la lingua di Cicerone potrebbe raggiungere il tedesco nella classifica delle più studiate lasciando indietro il cinese, troppo lontano e oscuro anche se emergente.
«Non mi stupisce questo interesse, mi stupisce che arrivi adesso», dice in Italia Filippo Tarantino, preside e protagonista di una rete europea di scuole e insegnanti che promuove la cultura classica e i valori umanisti, si chiama Ewhum ed è attiva in nove paesi, dalla Spagna alla Romania. «Gian Battista Vico diceva che quando una nazione vuole nobilitarsi deve cercare le radici. Le nazioni più avanzate hanno capito che se vogliono radicarsi, devono andare al passato. Dal latino c´è molto da imparare, la sua logica è la cosa più istruttiva che ci sia, ma tutta la storia è ancora ricca d´insegnamenti: gli antichi romani sono riusciti a costruire un impero grandissimo e far parlare tanti popoli lo stesso linguaggio».
«Futuro latino» recitava un convegno recente che proponeva uno sguardo al passato per affrontare i rischi e le incognite della globalizzazione. «Credo che questo interesse si possa leggere anche come un antidoto alla modernità e ai suoi eccessi», spiega Michele Cortellazzo, docente di linguistica. «In Italia siamo ancora dentro ad un discorso di distacco e abbandono ma i paesi più avanzati possono volgersi al passato senza complessi». Il latino ha confini chiusi, «monolitici, è una lingua ancora governabile», nel mondo che cambia la lingua dei Cesari può essere anche rassicurante.

Repubblica 8.10.08
Il mondo drogato dalla vita a credito
di Zygmunt Bauman


Un quotidiano britannico ha pubblicato la storia di un cinquantunenne che ha accumulato un debito di 58.000 sterline su 14 carte di credito e finanziamenti vari. Con l´inpennata dei costi del carburante, dell´elettricità e del gas non riusciva più a pagare gli interessi.

Dall´industria dei prestiti è nata quella dei nuovi prestiti per pagare quelli vecchi
Il piano di Bush serve solo a rimettere in moto un meccanismo ormai inceppato

Deplorando, col senno di poi, la sconsideratezza che lo ha gettato in questa situazione spiacevole se la prendeva con chi gli aveva prestato il denaro: parte della colpa è anche loro, diceva, perché rendono terribilmente facile indebitarsi. In un altro articolo pubblicato lo stesso giorno, una coppia spiegava di aver dovuto drasticamente ridurre il bilancio familiare, ma esprimeva anche preoccupazione per la figlia, una ragazza giovane già pesantemente indebitata. Ogni volta che esaurisce il plafond della carta di credito subito le viene offerto in prestito altro denaro. A giudizio dei genitori le banche che incoraggiano i giovani a prendere prestiti per acquistare, e poi altri prestiti per pagare gli interessi, sono corresponsabili delle sventure della figlia.
C´era un vecchio aneddoto su due agenti di commercio che giravano l´Africa per conto dei rispettivi calzaturifici. Il primo inviò in ditta questo messaggio: inutile spedire scarpe , qui tutti vanno scalzi. Il secondo scrisse: richiedo spedizione immediata di due milioni di paia di scarpe, tutti qui vanno scalzi. La storiella mirava ad esaltare l´intuito imprenditoriale aggressivo, criticando la filosofia prevalente all´epoca secondo cui il commercio rispondeva ai bisogni esistenti e l´offerta seguiva l´andamento della domanda. Nel giro di qualche decennio la filosofia imprenditoriale si è completamente capovolta. Gli agenti di commercio che la pensano come il primo rappresentante sono rarissimi, se ancora esistono. La filosofia imprenditoriale vigente ribadisce che il commercio ha l´obiettivo di impedire che si soddisfino i bisogni, deve creare altri bisogni che esigano di essere soddisfatti e identifica il compito dell´offerta col creare domanda. Questa tesi si applica a qualsiasi prodotto, venga esso dalle fabbriche o dalle società finanziarie. La suddetta filosofia imprenditoriale si applica anche ai prestiti: l´offerta di un prestito deve creare e ingigantire il bisogno di indebitarsi.
L´introduzione delle carte di credito è stata un segno premonitore. Le carte di credito erano state lanciate sul mercato con uno slogan rivelatore e straordinariamente seducente: «Perché aspettare per avere quello che vuoi?». Desideri una cosa ma non hai guadagnato abbastanza per pagarla? Beh, ai vecchi tempi, ora fortunatamente andati, si doveva procrastinare l´appagamento dei propri desideri: stringere la cinghia, negarsi altri diletti, essere prudenti e parchi nelle spese e depositare il denaro così racimolato su un libretto di risparmio nella speranza di riuscire, con la cura e la pazienza necessarie, ad accumularne abbastanza per poter realizzare i propri sogni. Grazie a Dio e al buon cuore delle banche non è più così! Con la carta di credito si può invertire l´ordine: prendi subito, paghi dopo. La carta di credito rende liberi di appagare i desideri a propria discrezione: avere le cose nel momento in cui le vuoi, non quando te le sei guadagnate e te le puoi permettere.
Questa era la promessa, ma sotto c´era anche una nota in caratteri minuscoli, difficile da decifrare anche se facile da intuire in un momento di riflessione: quel perenne "dopo" ad un certo punto si trasformerà in "subito" e bisognerà ripagare il prestito. Il pagamento dei prestiti contratti per non aspettare e soddisfare subito i vecchi desideri, renderà difficilissimo soddisfarne di nuovi? Non pensare al "dopo", significò , come sempre, guai in vista. Si può smettere di pensare al futuro solo a proprio rischio e pericolo. Sicuramente il conto sarà salato. Più presto che tardi arriva la consapevolezza che allo sgradevole differimento dell´appagamento si è sostituito un breve differimento della vera terribile punizione per l´essere stati precipitosi. Ci si può togliere uno sfizio quando si vuole, ma anticipare il diletto non lo renderà più abbordabile? In ultima analisi, sarà differita solo la presa di coscienza della triste realtà.
Per quanto nociva e dolorosa, questa non è l´unica nota in caratteri minuscoli sotto la promessa del «prendi subito, paga dopo». Per evitare di limitare ad un solo prestatore il profitto derivante dalle carte di credito e dai prestiti facili, il debito contratto doveva essere (e così è stato) trasformato in un bene che procuri profitto permanente. Non riesci a ripagare il tuo debito? Non preoccuparti: a differenza degli avidi prestatori di denaro vecchio stile, ansiosi di veder ripagate le somme prestate entro termini ben precisi e non differibili, noi prestatori di denaro moderni e disponibili non ti chiediamo indietro i nostri soldi, bensì ci offriamo di prestartene altri per pagare il vecchio debito e avere un po´ di disponibilità (cioè di debito) in più per toglierti nuovi sfizi. Siamo le banche che dicono "sì", le banche disponibili, le banche col sorriso, come diceva una delle pubblicità più geniali.
Quello che nessuno spot diceva apertamente, lasciando la verità ai cupi presagi del debitore, era che le banche prestatrici in realtà non volevano che i debitori pagassero i debiti. Se lo avessero fatto entro i termini non sarebbero stati più in debito, ma sono proprio i loro debiti (il relativo interesse mensile) che i moderni, disponibili (e geniali) prestatori di denaro hanno deciso, con successo, di riciclare come fonte prima del loro profitto costante, assicurato (e si spera garantito). I clienti che restituiscono puntualmente il denaro preso in prestito sono l´incubo dei prestatori. Le persone che si rifiutano di spendere denaro che non abbiano già guadagnato e si astengono dal prenderlo in prestito, non sono di alcuna utilità ai prestatori ? perché sono quelli che (spinti dalla prudenza o da un senso antiquato dell´onore) si affrettano a ripagare i propri debiti alle scadenze. Una delle maggiori società di carte di credito presenti in Gran Bretagna ha suscitato pubbliche proteste (che certo avranno vita breve) nel momento in cui ha scoperto il suo gioco rifiutando il rinnovo delle carte ai clienti che pagavano ogni mese il loro intero debito, senza quindi incorrere in sanzioni finanziarie.
L´odierna stretta creditizia non è risultato del fallimento delle banche. Al contrario, è il frutto del tutto prevedibile, anche se nel complesso inatteso, del loro straordinario successo: successo nel trasformare una enorme maggioranza di uomini e donne, vecchi e giovani, in una genìa di debitori. Perenni debitori, perché si è fatto sì che lo status di debitore si auto-perpetui e si continuino a offrire nuovi debiti come unico modo realistico per salvarsi da quelli già contratti. Entrare in questa condizione, ultimamente, è diventato facile quanto mai prima nella storia dell´uomo: uscirne non è mai stato così difficile. Tutti coloro che erano nelle condizioni di ricevere un prestito, e milioni di altri che non potevano e non dovevano essere allettati a chiederlo, sono già stati ammaliati e sedotti a indebitarsi. E proprio come la scomparsa di chi va a piedi nudi è un guaio per l´industria calzaturiera, così la scomparsa delle persone senza debiti è un disastro per l´industria dei prestiti. Quanto predetto da Rosa Luxemburg si è nuovamente avverato: comportandosi come un serpente che si mangia la coda il capitalismo è nuovamente arrivato pericolosamente vicino al suicidio involontario, riuscendo ad esaurire la scorta di nuove terre vergini da sfruttare?
Negli Usa il debito medio delle famiglie è cresciuto negli ultimi otto anni ? anni di apparente prosperità senza precedenti- del 22 per cento. L´ammontare totale dei prestiti su carta di credito non pagati è cresciuto del 15%. E , cosa forse più minacciosa, il debito complessivo degli studenti universitari, la futura élite politica, economica e spirituale della nazione, è raddoppiato. L´insegnamento dell´arte di "vivere indebitati", per sempre, è ormai inserito nei programmi scolastici nazionali? Si è arrivati a una situazione molto simile in Gran Bretagna. Il resto dei Paesi europei segue a non grande distacco. Il pianeta bancario è a corto di terre vergini avendo già sconsideratamente dedicato allo sfruttamento vaste estensioni di terreno sterile.
La reazione finora, per quanto possa apparire imponente e addirittura rivoluzionaria per come emerge dai titoli dei media e dalle dichiarazioni dei politici, è stata la solita : il tentativo di ricapitalizzare i prestatori di denaro e di rendere i loro debitori nuovamente in grado di ricevere credito, così il business di prestare e prendere in prestito, dell´indebitarsi e mantenersi indebitato, potrebbe tornare alla "normalità". Il welfare state per i ricchi (che a differenza del suo omonimo per i poveri non è mai stato messo fuori servizio) è stato riportato in vetrina dopo essere stato temporaneamente relegato nel retrobottega per evitare invidiosi paragoni. Lo Stato ha nuovamente flesso in pubblico muscoli a lungo rimasti inattivi, stavolta al fine di proseguire il gioco che rende questo esercizio ingrato ma, abominevole a dirsi, inevitabile; un gioco che stranamente non sopporta che lo Stato fletta i muscoli, ma non può sopravvivere senza.
Quello che si dimentica allegramente (e stoltamente) in quest´occasione è che l´uomo soffre a seconda di come vive. Le radici del dolore oggi lamentato, al pari delle radici di ogni male sociale, sono profondamente insite nel nostro modo di vivere: dipendono dalla nostra abitudine accuratamente coltivata e ormai profondamente radicata di ricorrere al credito al consumo ogni volta che si affronta un problema o si deve superare una difficoltà. Vivere a credito dà dipendenza come poche altre droghe, e decenni di abbondante disponibilità di una droga non possono che portare a uno shock e a un trauma quando la disponibilità cessa. Oggi ci viene proposta una via d´uscita apparentemente semplice dallo shock che affligge sia i tossicodipendenti che gli spacciatori: riprendere (con auspicabile regolarità) la fornitura di droga.
Andare alle radici del problema non significa risolverlo all´istante. È però l´unica soluzione che possa rivelarsi adeguata all´enormità del problema e a sopravvivere alle intense, seppur relativamente brevi , sofferenze delle crisi di astinenza.
(Traduzione di Emilia Benghi)

Repubblica 8.10.08
Lodo Alfano
Referendum, la Sinistra insieme a Di Pietro


ROMA - Sabato prossimo comincerà ufficialmente la raccolta delle firme contro il Lodo Alfano. Ad annunciarlo è stato ieri il leader dell´Idv Antonio Di Pietro insieme a Arturo Parisi del Pd («ma non sono qui a nome del mio partito»), al segretario del Prc Paolo Ferrero, a Carlo Leoni della Sinistra Democratica e a Manuela Palermi del Pdci. «Questo referendum lo vinceremo» avverte Parisi, ma il risultato comunque importa poco perché la battaglia «è così importante che va combattuta comunque». È una battaglia in «difesa della democrazia» ha aggiunto Di Pietro.

Corriere della Sera 8.10.08
L'iniziativa L'ex pm sabato torna in piazza Navona: Guzzanti e Grillo? Li abbiamo invitati
«Referendum sul lodo Alfano» Alleanza Di Pietro-sinistra
Via alla raccolta di firme. Parisi tra i promotori
Manifestazioni separate per i due fronti anti-governo. L'ex ministro della Difesa: momento tragico


ROMA — Guzzanti e Grillo ci saranno? «E perché no? Noi li abbiamo invitati». Nessuna paura di una «piazza Navona 2», con insulti e isterismi, scomuniche e pentimenti? «E che, dobbiamo metterci il bavaglio? Figuriamoci, ci saremo tutti». Antonio Di Pietro lancia la carica, tutti in piazza sabato a Roma (e in altre 650 città) contro il lodo Alfano e per firmare il referendum. Iniziativa condivisa da Prc, Pdci e Sinistra democratica. Che però sfileranno in un loro corteo, più radicale, contro il governo, da piazza Esedra alla Bocca della Verità. Con possibile tappa congiunta a piazza Navona. Il Pd se ne starà prudentemente alla larga. Tranne Arturo Parisi, presente «non in nome del Pd» ma dei Democratici per la Democrazia. Veltroni, a Ballarò,
ribadisce le sue perplessità: «Se Di Pietro mi critica non mi fa nessuna impressione: oggi dice una cosa, domani il contrario».
Sabato, dunque, tutti (o quasi) in piazza. E poco importa se presto ci sarà una sentenza della Consulta: «E allora? Il Lodo è illegittimo ma anche immorale ». Si associa Paolo Ferrero, Prc, che denuncia «una legge Aradam Via
castale». E annuncia la riscossa: «Sabato finisce la ritirata». A Manuela Palermi, Pdci, il referendum pare «giusto, morale e di sinistra». Carlo Leoni, Sd, critica il Pd: «Non capisco, si lancia l'allarme di deriva democratica e poi non si fa nulla».
Parisi usa toni forti: «C'è il rischio che salti la democrazia, è il momento di serrare le fila. Il lodo Alfano ha aperto una stagione tragica: è un clamoroso abuso e un oltraggio alla democrazia ». Il referendum «si vince »: ma, comunque vada, «sarà un modo per lasciare a verbale la nostra indignazione».
A proposito di indignazione, a piazza Navona ce n'erano dosi da cavallo, vedi Guzzanti e Grillo. Quest'ultimo ne ha ancora da vendere: «Siamo in un socialcapitalismo da rapina, Veltroni è Topo scemo, se crolla il mercato piazzale Loreto non basta più per contenere la banda». In Borsa Grillo non ha azioni: «Ma dalla crisi non mi salvo neanche io. Ci salveranno i musulmani, con la loro sharia: lì se fai un derivato ti tagliano i coglioni ». Sarà in piazza? «Non ho deciso. Ma sabato firmo per il referendum, a Udine». Di Pietro? «È l'unico oppositore credibile nel Paese. Ma io sono un solitario. E poi i giornali mi hanno cancellato: se vado finisce che lo danneggio ».
Tirerà un sospiro di sollievo Arturo Parisi, che grillismi e guzzantismi non li apprezza granché. In cartellone a piazza Navona per ora ci sono Andrea Rivera, Enzo Avitabile e Simone Cristicchi. Ed è in arrivo un appello di intellettuali.
A Montecitorio Di Pietro, Ferrero, Parisi, Leoni e Palermi
Alessandro Trocino

Repubblica 8.10.08
Se i governi alimentano le paure dei cittadini
di Nadia Urbinati


Le società occidentali vivono in una paradossale situazione che ripropone in tutta la sua gravità la lungimiranza del paradigma di Thomas Hobbes secondo il quale, proprio perché difficilmente razionalizzabile, la paura indistinta e generica è la condizione peggiore per l´affermazione della pace sociale. Al tempo di Hobbes erano i profeti religiosi e i fanatici ad alimentare quella paura con l´arma della retorica e del linguaggio apocalittico delle sacre scritture. Oggi è la stessa società liberale che sembra trovare economicamente e politicamente conveniente alimentare una paura indistinta e anonima per nemici che possono essere dovunque e che sono totali. In ogni epoca, la pace civile è stata minacciata da tiranni, dittatori o demagoghi. Si trattava di minacce visibili e identificabili.
Oggi è il sistema sociale stesso che genera panico e minaccia la pace. Scrive Jaume Curbet in un libro sulla insicurezza in uscita presso Donzelli che espressioni generiche come "insicurezza urbana", "criminalità organizzata", "disastro ecologico", infine "terrorismo" creano un tipo di paura che molto più di quella per i tiranni del passato tocca le corde più ancestrali ed è quindi più estrema e meno risolvibile. Questo rende il bisogno di sicurezza un bisogno mai appagato tanto che neppure lo Stato riesce a trasmettere sicurezza attraverso la paura della legge. L´indistinta paura si traduce in soluzioni che sono altrettanto indistinte - che mirano più a colpire l´immaginazione dei cittadini che a risolvere la loro insicurezza. In effetti, una volta che la paura è associata a un oggetto indistinto, è al contingente che si presta più attenzione. Questo spiega la richiesta da parte dei cittadini di interventi immediati o del "qui e ora"; richiesta di provvedimenti di emergenza e di decisioni esemplari; soluzioni effimere (e poco in sintonia con le procedure e la deliberazione democratiche) che servono essenzialmente a tenere sotto controllo i sintomi dell´insicurezza. La politica della sicurezza nell´era dell´insicurezza indeterminata e globale, dove tutti subiscono l´influenza di tutti, ha una funzione essenzialmente sedativa.
Chiamiamo sicurezza lo stato psicologico che ci viene dal credere di vivere in un ambiente immutato, uguale a se stesso. Quindi ogni turbamento dell´ordinario status quo è visto come fonte di sicurezza. Questo spiega il paradosso descritto da Zygmunt Bauman: sebbene le nostre siano tra le società più sicure, ciò nonostante, molti di noi si sentono più minacciati, insicuri e spaventati, e sono quindi più propensi a cadere in preda al panico e ad entusiasmarsi di tutto ciò che è relativo alla protezione e alla sicurezza. In un mondo nel quale il rischio prende i contorni dell´imprevedibile e dell´indefinito, ai cittadini non importa sapere che le cause del pericolo sono complesse e non riducibili a una; desiderano soltanto che i rimedi siano semplici, immediati e soprattutto vicini nel tempo e nello spazio; esperimentabili nella quotidianità. Per esempio, la globalizzazione dei mercati e delle speranze di benessere porta milioni di immigrati a cercare una vita migliore nel nostro continente e nel nostro Paese. La trasformazione multietnica di molti quartieri delle nostre città basta da sola a mobilitare la paura, una paura senza una causa specifica; la prima condizione per domarla è che gli immigrati siano pochi o che siano e restino invisibili; che infine, o soprattutto, contro di loro si mobiliti lo Stato (e i privati cittadini se necessario) con tutti i mezzi disponibili, anche se arbitrari e anche se incostituzionali. Purché se ne vedano alcuni esiti immediati, anche se minimi.
Ma un aspetto nuovo di questa "ossessione per la sicurezza" consiste nel fatto che essa è anche un business sotto molti punti di vista. Esiste un mercato della insicurezza il quale, come ogni altro mercato, deve per poter prosperare e quindi alimentare il bisogno di sicurezza. Ecco il circolo vizioso del quale sono vittima le società democratiche mature: la paura generica alimenta il bisogno di sicurezza ed è a sua volta alimentata da questo bisogno. In cima a questa catena vi è la sicurezza come affare (politico prima di tutto, ma non solo, perché le "aziende" che offrono sicurezza sono sempre di più). Alimentare la paura artificialmente, dunque: questa è l´arte delle agenzie che si occupano della sicurezza. Ma come produrre insicurezza artificialmente? Se è vero che la paura anonima e indistinta è all´origine del panico dell´insicurezza, non c´è modo migliore per tenerla viva che creare capri espiatori. La storia è prodiga di esempi: la caccia alle streghe, la caccia agli ebrei, la caccia ai sovversivi. L´odierna insicurezza urbana è alimentata artificialmente dalla retorica dalla paura del diverso: zingaro, nero, extra-comunitario, musulmano. È certo che l´origine della nostra criminalità (causa tangibile e documentata di giustificata paura) non sta per nulla qui: l´Italia ha una criminalità organizzata e spietata che strangola metà o forse più del suo territorio nazionale, eppure giornali e televisioni ci parlano quasi soltanto degli episodi di violenza che coinvolgono gli "altri".
La politica dell´insicurezza trova un naturale alimento nelle politiche neoliberali, quelle che oggi godono di maggiore stima presso i nostri governi, politiche orientate principalmente a rispondere alle richieste di sicurezza di una popolazione spaventata più che a risolvere i problemi e i diversi conflitti che stanno all´origine delle varie manifestazioni di delinquenza. Le politiche della sicurezza hanno preso il posto delle politiche sociali. La filosofia dei governi di destra, come quello italiano, è che se disagio si dà questo non è un segno di ingiustizia sociale, ma invece di cattiva sorte e disgrazia, oppure di incapacità personale o mancanza di merito. In ogni caso, la carità umanitaria e religiosa può meglio dello stato sociale curare queste piaghe. Spetta quindi alle associazioni civili, alla famiglia (alle donne in primo luogo, potente surrogato dello stato sociale in ritirata) e alle parrocchie occuparsi della povertà. Lo Stato dovrà al massimo dispensare tessera di povertà ai bisognosi e sostegno economico a chi li soccorre. Ma il suo compito è un altro: quello di occuparsi dell´insicurezza generata dalla paura. Il neoliberalismo libera lo Stato dall´impegno di promuovere politiche sociali (questo è il significato della sussidiarietà) per occuparlo intensamente nel compito repressivo. Dissociando il disagio sociale dalla sicurezza viene messa in atto un´interessante divisione del lavoro tra società civile e Stato: la prima si occupa del disagio, il secondo della sicurezza.
Il paradosso è che, vivendo della insicurezza lo Stato sarà naturalmente portato a alimentare la percezione della insicurezza. Esso ha bisogno di cittadini impauriti per essere legittimato nel proprio ruolo. Lo fa moltiplicando esponenzialmente le sue polizie perché, come si è detto, è l´azione esemplare che colpisce l´immaginazione; quindi il territorio più vicino deve essere soprattutto curato e pattugliato - i quartieri, le città (questo spiega il favore che incontra la retorica federalista). Insieme alle polizie di Stato nascono e si moltiplicano piccole polizie private, in un crescendo di offerte di sicurezza, la quale è, come ha scritto Ulrich Beck, «come l´acqua o l´elettricità, un bene di consumo, amministrato sia pubblicamente che privatamente per ottenere benefici». In ogni caso, le frontiere apparentemente forti tra sicurezza pubblica e sicurezza privata sembrano svanire e quella che è una paura indistinta per il non consueto e il diverso diventa una formidabile merce: venduta dai governi per tenere alta la tensione e quindi incrementare consensi, amplificata dai media che sono comunque un prodotto di mercato, recepita dai cittadini nella solitudine dei loro quartieri che una paura generica alimentata ad arte sta desertificando.

Repubblica 8.10.08
Su "Lettera internazionale" un saggio di Starobinski
Dall´epica di Virgilio al dio di Dante
La memoria e il futuro
di Jean Starobinski


Il potere e la forza della poesia e delle immagini Nell´Eneide e nella Commedia due diversi modi di raccontare il passaggio da una catastrofe a una redenzione
Nel poema latino il ricordo di Enea inizia con la distruzione di Troia
Il percorso delle tre cantiche dantesche somiglia a quello virgiliano

La memoria che Virgilio attribuisce al suo eroe assume la distruzione come suo inizio. È una storia di fragore e di furore. E il celebre racconto si annuncia come il ritorno di un dolore che le parole non possono tradurre.
Infandum regina jubes renovare dolorem. «Mi chiedi, o regina, di rinnovare un dolore indicibile» (Eneide, II, v. 1). La rammemorazione stessa è oggetto di orrore (animus meminisse horret, II, v. 12). La parola si dichiara in difetto, inadatta a rievocare le sventure subìte. Questa precauzione oratoria invita i destinatari fittizi, la regina e il suo seguito, e i lettori reali, che siamo noi, ad ascoltare tutto ciò che sarà narrato loro superandolo con l´immaginazione. La realtà fu peggiore del quadro che può esserne dipinto. Non resta nulla della città così a lungo difesa, e anche alla parola manca il terreno su cui poggiare. Perché, allora, non accordare fiducia a un racconto che confessa subito l´insufficienza delle sue risorse?
Nella notte del disastro, si dispone ancora di un aiuto. Apparizioni, voci divine guidano l´avanzare delle navi, promettendo una terra di Ponente per la città nuova che i discendenti dei vinti fonderanno. La notte fatale sarà così il punto zero, senza ritorno né ritirata possibili, da cui prenderà le mosse tutta l´azione successiva. L´incendio, i suoi bagliori, le sue ceneri sono preliminari che imprimono un carattere di necessità alla navigazione avventurosa e ai discorsi narrativi che seguiranno.
Nel terribile notturno virgiliano, ogni forma, fattasi precaria, è travolta dal crollo generale. Voci, clamori, fracasso assumono un´importanza eccezionale nello spazio sensoriale. Il racconto di Enea sviluppa così un registro uditivo di notevole ampiezza. Dall´elevato linguaggio divino al fragore inarticolato della catastrofe, l´orecchio del lettore di Virgilio è tenuto in uno stato di costante allerta. Per convincersene basterà scorrere rapidamente il testo.
Enea è inizialmente un testimone tra gli altri. Racconta quello che, come i suoi compagni, ha visto e sentito: le menzogne del falso transfuga Sinone, la morte di Laocoonte e dei suoi figli, strangolati da due serpenti usciti con gran frastuono dai flutti: il sacerdote muore lanciando orribili clamori verso le stelle (clamores horrendos). Queste grida mostruose segnano l´inizio della rovina.
Nella notte che avanza, le parole e i rumori assumeranno un´importanza sempre maggiore. Appena scivolato nel primo sonno, Enea è messo in guardia dall´ombra di Ettore che gli ingiunge di fuggire: il suo compito è ormai quello di raccogliere intorno a sé i suoi compagni e di cercare con essi, altrove, quelle «grandi mura, che infine fonderai, percorso il mare». A quattro versi di distanza, la stessa parola moenia (le mura) designa i bastioni di Troia che stanno per crollare e quelli della città che bisognerà costruire. Ma la devastazione è già cominciata e il sogno si interrompe perché i suoni diventano sempre più violenti: Frattanto da tutte le parti un terribile pianto / Sconvolge le mura, e sempre di più, sebbene remota dalle altre / e protetta da alberi la casa del padre Anchise si apparti, / i suoni si fanno chiari e incombe il fragore delle armi. / Mi riscuoto dal sonno e salendo giungo sul colmo / del tetto e mi fermo con gli orecchi tesi: come / quando all´infuriare degli austri cade una fiamma / tra le messi, o un rapace torrente con fiotto montano / spiana i campi e i floridi seminati e le opere dei buoi, / e trascina a precipizio le selve: il pastore stupisce / ignaro ascoltando il rombo da un´alta rupe (II, v. 298 e segg.).
Il disastro è attraversato dalle grida di lutto (luctus), dai gemiti (gemitus), dal fragore della bufera (sonitus), dallo strepito degli esseri umani (clamor), dagli squilli delle trombe (clangor). Nelle parole di Enea (II, vv. 361-362), Virgilio dichiara l´impotenza della parola e delle lacrime a dire la distruzione e la vana lotta contro la morte (clades, funera, labores). «L´interno del palazzo risuona di gemiti / e d´un misero tumulto; le ampie stanze remote / ululano di pianti femminili; il clamore ferisce le auree stelle» (II, vv.486-488). Il rumore fa pensare al fracasso dell´albero che si abbatte sotto l´infuriare della tempesta. Nella notte che si fa sempre più buia, Enea incontra sua madre Venere, apparizione luminosa che gli mostra brevemente ciò che i mortali non vedono: gli dèi accaniti contro Troia che collaborano attivamente alla sua distruzione. E l´ordine di fuggire viene ripetuto. Il baccano, il crepitio del fuoco, il terrore si moltiplicano. Infine, nell´incendio e nel silenzio terrificante che si stabilisce quando cessa ogni resistenza (simul ipsa silentia terrent, II, v. 755), Enea vede apparire l´ombra di Creusa, sua moglie, che gli rivolge le ultime parole premonitrici e gli annuncia che la sua destinazione è l´Esperia, la terra del tramonto, là dove scorre il Tevere. Nel corso del racconto, il registro dei suoni avrà dunque mostrato tutta la sua complessità e la sua varietà, tra il silenzio della notte e il clamore assordante della distruzione e del massacro - tra le grida inumane e il linguaggio elevato della profezia che spinge all´azione.
L´epopea di Virgilio ha offerto alla letteratura europea un grande modello, in cui coesistono un passato rammemorato e un futuro in cui avrà luogo l´azione. Questa doppia prospettiva diventa più evidente quando Enea, disceso agli Inferi, nel VI libro, incontra alcune figure del passato - il padre Anchise, Didone morta suicida - e le anime che si apprestano a fare il loro ingresso nella vita, futuri viventi, eroi che si sacrificheranno per la patria. Sente pianti e musiche, i vagiti dei bambini morti e i canti religiosi dei beati. Voci premonitrici mostrano l´impero che verrà. Con la discesa agli Inferi, l´eroe virgiliano si inoltra nell´intrico dei tempi. Durante le tappe successive del suo viaggio sotterraneo impara a quali castighi sono condannati coloro che sono stati giudicati e scorge il nugolo delle anime il cui destino è annunciato senza essersi ancora compiuto. Gli antenati troiani e i discendenti romani abitano negli stessi boschi. Virgilio si afferma così come il poeta che sa in che modo passato e futuro si compenetrano.
E quando appare Virgilio, nel I canto della Commedia, Dante lo designa facendogli dichiarare: «Poeta fui, e cantai di quel giusto / figliuol d´Anchise che venne da Troia / poi che il superbo Ilion fu combusto». Si trova così giustificato il suo compito di guida iniziale nel grande viaggio cosmoteologico, in un ruolo che ricorda quello che l´Eneide attribuisce alla Sibilla nel VI libro. Con il suo percorso, che somiglia volutamente a quello della discesa agli inferi dell´epopea latina, la Divina Commedia si muove tra passato e futuro, a partire dal «mezzo del cammin».
Lo scopo non è quello di fondare un impero, ma di accogliere la rivelazione della giustizia di Dio e di accedere alla conoscenza amorosa, alla visione beatifica. Virgilio, il poeta pagano, accompagna Dante solo fino alla soglia del Paradiso terrestre (Purgatorio, XXX), quando con Beatrice si manifesta la chiarezza divina. Durante tutto il tragitto e fino al suo termine contemplativo, il registro dei suoni svolge un ruolo fondamentale, in cui Dante mostra di essere un discepolo perfetto.
L´ambito sonoro si estende dalle urla dei dannati ai canti degli angeli, dalle dissonanze infernali alle armonie celesti. Il viaggio di Dante avrà come punto di arrivo non le mura di una capitale temporale, ma la contemplazione della «luce sovrana». Sono due citazioni latine nel XXX canto del Purgatorio a suggellare il nesso: per i lettori che hanno memoria dei contesti, uno stretto legame si stabilisce tra i versi dell´Eneide, dove Anchise, che ha assistito all´incendio di Troia, annuncia l´avvenire di Roma fino ai funerali di Marcello, e le parole del Vangelo di Matteo che fanno parte del rituale della messa. I «messagger di vita eterna» salutano l´arrivo di Beatrice cantando successivamente «Benedictus qui venit» (Mt., XXI, 9) e «Manibus, oh, date lilia plenis» (Eneide, VI, 883).
Il potere della poesia fa sì che una memoria storica fittizia si aggiunga alle immagini inventate e sostenute da una fede reale. Ma al contrario del racconto di Enea che cominciava con il dichiarare inadeguato il linguaggio quando si tratta di dire tutta la sofferenza patita, Dante si vede invece costretto a rinunciare a esprimere la gioia più alta: «Oh quanto è corto il dire e come fioco / al mio concetto! e questo, a quel ch´io vidi, / è tanto che non basta a dicer poco» (Paradiso, XXXIII, vv. 121-123).

Corriere della Sera 8.10.08
Mercati e teorie
La psicologia di Soros e il circuito della paura
di Massimo Gaggi


NEW YORK — «Adesso a impedire una ripresa non sono solo i fattori economici e la psicologia dei mercati entrata in una spirale negativa, ma anche lo stress prolungato di chi vede accavallarsi brutte notizie da oltre un anno» dice il neuropsichiatra Richard Peterson, più noto come gestore di un «hedge fund» basato sull'«emotional arbitrage». «L'ormone dello stress condiziona la nostra mente, ci spinge a fare ragionamenti di breve periodo, a essere impulsivi».
Condivide John Schott, un altro psichiatra che si è dato agli affari (è «portfolio manager» di Steinberg Asset Management e autore di "Mind Over Money", un saggio sulla psicologia del risparmiatore): «In momenti come questi si instaura un circuito della paura inconscio e incontrollabile. E' un fenomeno che possiamo addirittura vedere fisicamente con una risonanza magnetica cerebrale, ma che non possiamo controllare. Emotività che prevale sulla nostra razionalità, che ci spinge a tirarci indietro: è come una "slot machine" che funziona al contrario: respinge invece di attirare».
Wall Street ha vissuto un'altra giornata nera nonostante i nuovi, massicci interventi della Federal Reserve a sostegno dell'economia americana e tutti si chiedono che cosa deve ancora succedere perché si spezzi questa spirale che paralizza il credito e deprime il sistema produttivo del Paese. Costringendo le autorità monetarie a ipotizzare addirittura l'«elettrochoc» di un calo dei tassi d'interesse concertato a livello mondiale.
Non saranno certo le analisi degli psichiatri trasformatisi in trader a indicare la via d'uscita da questa crisi. Ma è evidente che negli ultimi anni, nel valutare il comportamento dei mercati, i fattori psicologici, i comportamenti emotivi dell'«homo oeconomicus», sono stati molto sottovalutati. E ciò, nonostante che i cosiddetti «economisti comportamentali» avessero sfidato da tempo gli assunti dell'economia neoclassica sul comportamento razionale dei mercati. E avessero anche vinto qualche premio Nobel (ad esempio quello di Daniel Kahneman) dimostrando che il comportamento dei soggetti del mercato non è «modellizzabile» perché è influenzato dalle reazioni soggettive e dalla variabile dei comportamenti collettivi. Certo, oggi fa impressione vedere Wall Street continuare a flettere nonostante il governo leader del mondo abbia messo in piedi interventi a sostegno del mercato dei capitali di dimensioni mai viste nella storia dell'umanità. Ma bisogna chiedersi se l'assenza di reazione agli stimoli mostrata in questi giorni dai mercati sia il frutto di un'anomalia emotiva inferiore o superiore a quella, di segno opposto, prodotta dalla lunga stagione dell'«esuberanza irrazionale». Perché anche nel galoppante ciclo della crescita e della moltiplicazione del debito degli anni scorsi, i fattori emotivi, la propensione a rischiare al di là del ragionevole, il sovrappiù di testosterone misurato in una ricerca dell'università di Cambridge basata sul comportamento di un gruppo di trader della City di Londra hanno avuto il loro peso.
Se ne erano accorti in molti. Non solo studiosi della psiche ed economisti, ma anche grandi investitori come George Soros che anche nel suo ultimo saggio («Il nuovo paradigma dei mercati finanziari») sostiene che l'idea che i mercati sappiano autoregolamentarsi e tendano naturalmente all'equilibrio è sbagliata. Un'illusione che solo il fondamentalismo mercatista ha potuto continuare ad alimentare anche davanti all'evidenza delle bolle speculative — soprattutto quella immobiliare — che continuavano a gonfiarsi sull'onda dell'eccessivo indebitamento: un fenomeno che dava agli operatori una sensazione di grande sicurezza che li spingeva a rischiare ancora di più in una spirale perversa che, ora, si è improvvisamente capovolta.
L'epitaffio di un'era di fiducia cieca nell'ottimismo emotivo degli investitori l'ha scritto, nel luglio del 2007, l'allora capo di Citigroup, Chuck Prince, che, con la banca già in grosse difficoltà, disse al «Financial Times»: «Quando la musica si fermerà, la situazione sarà complicata, in termini di liquidità. Ma finché l'orchestra suona, noi continuiamo a ballare». Pochi giorni dopo la crisi cominciò ad avvitarsi, Citigroup si ritrovò con le spalle al muro e Prince fu messo alla porta. Ritrovare uno per uno gli orchestrali e rimetterli insieme non sarà facile, anche perché dopo gli anni della moltiplicazione «selvaggia » del debito e dell'esposizione delle banche, ora assistiamo a un «deleveraging» altrettanto selvaggio che deprime l'economia. Dopo i salvataggi bancari e le immissioni massicce di liquidità, ora, forse, si prova coi tassi.

Corriere della Sera 8.10.08
Le finanze della santa sede e la grande crisi del ‘29
Risponde Sergio Romano


Da racconti dell'epoca, mi risulta che il Vaticano uscì indenne dalla crisi del 1929, anzi ne trasse vantaggi.
Anche nell'odierna bufera che investe i mercati, a detta di un quotidiano inglese, i banchieri di Dio si sono messi anticipatamente in salvo investendo in beni rifugio. Invece di leggere le cronache finanziarie, sarebbe stato probabilmente più utile aver sottoscritto un abbonamento all'Osservatore
Romano.
Adriano Ponti

Temo che i «racconti dell'epoca » abbiano diffuso una idea alquanto sbagliata del modo in cui le finanze della Santa Sede uscirono dalla grande crisi finanziaria del 1929. Per capire ciò che accadde occorre fare un piccolo passo indietro al febbraio del 1929, quando Mussolini e il cardinale Gasparri firmarono i Patti lateranensi. L'Italia liquidò il debito assunto con la Legge delle guarentigie e versò allo Stato pontificio un miliardo e 750 milioni, di cui un miliardo in consolidato 5% al portatore e 750 milioni in contanti. La Chiesa non poteva vendere immediatamente il consolidato (se lo avesse fatto l'Italia avrebbe corso il rischio di una crisi finanziaria), ma disponeva di una somma che, tradotta in euro, ammonterebbe oggi a 534 milioni. Per investirla e trarne frutto, Pio XI creò una Amministrazione speciale e chiamò a dirigerla uno dei più abili e intelligenti finanzieri di quegli anni. Si chiamava Bernardino Nogara, era stato dirigente della Banca Commerciale Italiana, aveva rappresentato l'Italia in alcuni dei maggiori negoziati economico- finanziari degli anni precedenti ed era per più (aspetto molto importante agli occhi di papa Ratti) un cattolico lombardo, membro di quelle famiglie della buona borghesia milanese che Paolo XI aveva conosciuto e apprezzato negli anni in cui era stato Prefetto dell'Ambrosiana e arcivescovo della «capitale morale». Per bene amministrare questo nuovo patrimonio vaticano, Nogara si servì dei suoi contatti internazionali e distribuì la somma prudentemente fra diversi investimenti: oro, valuta, azioni di società ferroviarie e titoli pubblici dei Paesi più affidabili, con una preferenza per Svizzera, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Secondo lo storico inglese John Pollard, autore di un libro sulle finanze vaticane apparso anche in Italia presso Corbaccio («L'obolo di Pietro. Le finanze del Papato moderno 1850-1950»), il portafoglio avrebbe dovuto fruttare ogni anno più di 87 milioni di lire. Rassicurato da queste previsioni e dai buoni risultati della fase iniziale, Pio XI si lanciò in un ambizioso programma edilizio per rinnovare la Città del Vaticano, restaurare Castel Gandolfo, promuovere la costruzione di nuove chiese e realizzare le opere pubbliche (fra cui una stazione ferroviaria) necessarie alle esigenze del nuovo Stato.
Le opere vennero in parte realizzate, ma la fonte dei redditi, nel 1931, cominciò a inaridirsi.
Nogara dovette spiegare al Papa che il crollo della sterlina, l'insolvenza delle banche e il fallimento di alcune grandi imprese avevano duramente colpito le finanze vaticane. Per uscire dalla crisi dovette in primo luogo convincere Pio XI a ridurre le dimensioni del suo programma edilizio e decise in secondo luogo di puntare soprattutto su due investimenti: l'oro e il mercato immobiliare. Riuscì a salvare in tal modo una parte consistente del patrimonio, ma il reddito del capitale fu considerevolmente ridotto. Sembra che il Papa, poco esperto di cose economiche, abbia capito con un certo ritardo la gravità della crisi. Quando ne fu consapevole disse che era «la più grande calamità umana dopo il Diluvio».

Corriere della Sera 8.10.08
Uno scritto polemico
Schopenhauer nichilista: quant'è dannoso leggere
di Giorgio De Rienzo


Con una incisiva nota introduttiva di Andrea Felis leggiamo, nella traduzione di Valerio Consonni (con testo tedesco a fronte), il XXIV capitolo dei Parerga und Paralipomena di Arthur Schopenhauer, dedicato alla lettura e ai libri. La tesi che il filosofo sostiene va inquadrata nella polemica tardo-settecentesca contro i libri di intrattenimento culturale che riescono a creare un «falso movimento» di conoscenza, perché «quando leggiamo, un altro pensa al posto nostro » e il lettore ripete semplicemente (e inutilmente) «il suo processo mentale». Può essere attuale (e istruttivo), pur nella sua esasperazione nichilista, il ragionamento di Schopenhauer. «Veramente la nostra testa», scrive, «durante la lettura, altro non è che il teatro di pensieri estranei. Quando questi infine si dileguano, cosa resta? Di qui deriva che chi legge proprio molto e durante quasi l'intero giorno, si rilassa frattanto col passatempo dell'assenza del pensiero, e lentamente smarrisce la facoltà del pensare da sé. Proprio questo è il caso di parecchi dotti: si sono rimbecilliti col leggere». Da qui la terapia drastica di imparare a non leggere, di liberarsi, come interpreta Felis, dalle «letture nocive e velenose che distruggono lo spirito». Da qui il dettato addirittura di un'«arte del non leggere», perché i libri (anche quelli buoni) producono non solo un inutile esercizio delle facoltà cognitive, ma offrono al lettore un pericoloso «spettacolo dell'universalità», che è solo illusorio.
ARTHUR SCHOPENHAUER Sulla lettura e sui libri LA VITA FELICE PP. 61, e 6,50

Corriere della Sera 8.10.08
La donna che doma il Centauro sarebbe in realtà la vergine Camilla
Botticelli e la «vera identità» di Pallade
di Wanda Lattes


La notizia sorprenderà gli studiosi del Rinascimento e i milioni di pellegrini che vengono agli Uffizi per Botticelli: la donna biancovestita che doma il Centauro nella grande tela (due metri per un metro e 47, nella foto) dipinta da Sandro per la famiglia Medici, non è la dea Minerva ma Camilla, un'eroina celebrata da Virgilio nell'Eneide e ben conosciuta nella Firenze del Quattrocento.
Il quadro, esposto non lontano dalla «Venere » e dalla «Primavera», dovrebbe dunque cambiare il proprio titolo («Pallade e il Centauro »). L'ipotesi, già formulata in ambito accademico, trova ora ulteriori conferme che saranno illustrate venerdì prossimo a Firenze da Barbara Deimling, durante la prima giornata del convegno internazionale dedicato a Botticelli e a Herbert Horne, suo massimo studioso, dalla Harvard University, dalla Syracuse University e dalla stessa Fondazione Horne (l'occasione è il centenario della pubblicazione della fondamentale monografia sul Botticelli firmata da Horne).
Molti i temi che saranno affrontati durante il convegno (www.museohorne.it). Ma la relazione di Barbara Deimling, storica dell'arte e direttrice della Syracuse, sembra destinata a provocare vera emozione. Riassumendo i fatti bisogna ricordare come il titolo di «Pallade e il Centauro» sia stato attribuito soltanto nel 1895 da William Spencer, un amatore inglese, dopo che la tela, abbandonata a lungo in un corridoio di Palazzo Pitti, era stata riportata ai dovuti onori. La storia, narrata da Horne, ricorda come il riconoscimento di Pallade nella donna fino ad allora chiamata «Allegoria» fosse legata a un arazzo nel quale Botticelli riprendeva la leggenda di Minerva vittoriosa.
Ma la Deimling adesso porta elementi probanti. Camilla, il personaggio dell'«Eneide», la vergine combattente dei Volsci, è raffigurata con veste, acconciatura, armi, ornamenti, piante simboliche simili a quelle dipinte da Botticelli, in decine di cassoni, affreschi, ceramiche dell'epoca. E il suo gesto di dominio sul Centauro corrisponde alla leggenda di una donna che vince gli istinti bestiali.