venerdì 10 ottobre 2008

l’Unità 10.10.08
La scuola si ferma il 30. Oggi le piazze agli studenti
di Maristella Iervasi


Non piace a nessuno la controriforma Gelmini sulla scuola. Neppure alle Regioni, ad eccezione di Lombardia e Veneto. Il paese è in perenne mobilitazione contro i tagli all’istruzione e il maestro unico. I confederali uniti hanno finalmente deciso: sciopero generale il 30 ottobre con corteo a Roma. Oggi in oltre 80 città i cortei degli studenti (Uds e Rete degli studenti medi), mentre nelle scuole elementari crescono le assemblee pubbliche e i sit-in di genitori e insegnanti: come alla scuola «dei Cesaroni» alla Garbatella, nell’XI municipio della capitale. E il movimento spontaneo dei Genitori Uniti (Gds) scrive ai papà e alle mamme del centrodestra: «Riflettete sulle conseguenza della riforma». Eppure Gelmini maestra unica continua a stupirsi di tanto malcontento. «Non comprendo le ragioni di questo sciopero», ha detto riferendosi alla protesta unitaria di Flc-Cgil, Cisl e Uil-scuola, Snals-Confsal e Gilda, a cui si sono affiancati anche i dirigenti scolastici. «La scuola - ha precisato il ministro - ha bisogno di un grande sforzo innovatore e il coraggio di tutti per farla funzionare e non per certo per bloccarla».
Gli assessori regionali all’Istruzione non ci stanno. E puntano i piedi. Vogliono l’abrogazione dell’articolo 4 del decreto sul maestro unico. E in sede di conferenza unificata tra Stato, regioni e autonomie locali prevista per la prossima settimana, hanno intenzione di mantenere il punto. In gioco c’è l’offerta scolastica sui territori. Di conseguenza, con il maestro a 24 ore settimanali i costi dell’impoverimento dell’offerta scolastica per le famiglie ricadrebbero inevitabilmente sugli enti locali. E la maggioranza assoluta degli assessori, tranne il Nord di Formigoni e Bossi, non ci sta a fare da parafulmine. L’assessore regionale della Campania, Corrado Gabriele, ha già deciso di non partecipare al tavolo tecnico con la Gelmini. E non è escluso che altri assessori, soprattutto del Sud, non facciano lo stesso. Silvia Costa, assessore del Lazio e coordinatrice della IX Commissione per la Conferenza delle Regioni: «Sul decreto non si è verificato alcun confronto preventivo con il ministro, pur sollecitato subito dopo l’approvazione della manovra finanziaria».
Ma torniamo alle proteste. «Non è che l’inizio. Portiamo il nostro sconcerto in piazza, suoniamole alle Gelmini» sono gli slogan dei cortei cittadini di oggi. A Roma il corteo partirà alle 9.30 dalla Piramide per poi raggiungere Trastevere. Lo «sconcerto» del sindacato studentesco si manifesterà con tamburi, pentole, fischietti, cucchiai per «far sentire un’altra musica». Ci sarà al loro fianco anche la Rete degli studenti medi con le «Grembiuline». E lo stesso scenario si ripeterà in contemporanea a Torino, Firenze, Milano, Bologna, Palermo.
Di chiara connotazione anti-Gelmini è anche lo sciopero dei Cobas, appoggiato da Rifondazione Comunista e Pdci. Per Piero Bernocchi, della confederazione di base, «sarà quello del 17 ottobre il più grosso sciopero generale e la più grande manifestazione» e non quello dei Confederali. Invece è proprio il 30 ottobre che potrebbe esserci tutti: in serata l’Unicobas ha fatto sapere: «Noi ci siamo». Obiettivo: le dimissioni della Gelmini. m.ier.

l’Unità 10.10.08
Mimmo Pantaleo, Segretario della Flc-Cgil: il governo sta rompendo con una parte del paese. Brunetta si scusi con gli insegnanti
«Bloccheremo la privatizzazione del sistema-istruzione»
di ma.ier.


Con la Moratti non fu così. I confederali uniti non scesero in piazza per difendere la scuola. La Flc-Cgil fu il sindacato che per primo ha saputo capire il malcontento del paese. Mimmo Pantaleo, segretario generale: «Ecco il perchè della serrata nazionale».
La Gelmini si merita lo sciopero generale?
«Il ministro ha un metodo autoritario: nessun confronto con le organizzazioni sindacali, nessun dibattito parlamentare. Da questo governo c’è la conferma a non considerare la ricchezza di soggetti intermendi. Vogliono distruggere il sindacato, la Gelmini è l’esecutore materiale».
Non c’è nulla di buono nella controriforma Gelmini?
«Non c’è un disegno. Tutto è subordinato al risparmio: oltre 130 mila insegnanti in meno, meno classi e ore di lezione, aumento degli alunni per classe. Obiettivo: superare il sistema pubblico».
L’appello della Gelmini alle imprese: «Sponsorizzate scuole e università, non solo le squadre di calcio», va in questa direzione?
«La privatizzazione del sistema universitario produrrà un aumento delle tasse negli atenei. E anche le scuole verrebbero subordinate all’interesse delle imprese. Una logica che non ha paragoni in Europa».
Ma fare uno sciopero generale a fine mese non è tardivo? Il decreto sul maestro unico potrebbe già essere stato convertito in legge...
«La nostra battaglia va ben oltre la conversione del 137. Sono sul piatto il piano d’intervento sulle medie e le superiori, il progetto Aprea sulla scuola, il fedarilismo fiscale, l’applicazione della Finanziari... Verissimo che il governo ha dalla sua i numeri per imporre la conversione in legge del decreto. Ma noi non siamo stati con le mani in mano: abbiamo contribuito a far nascere uno straordinario movimento nel paese: sindacati, famiglie e studenti. Lo sciopero generale deve essere visto come un’ulteriore tappa: discussione sulla riforma della scuola».
Sono settimane ormai che davanti al ministero dell’Istruzione si manifesta e si protesta: precari, statali, ricercatori, insegnanti, genitori e studenti. Servirà a qualcosa lo sciopero generale?
«Possiamo fermare questo governo. Per ora incassiamo un risultato: la rottura tra il paese reale e il governo. Che deve ascoltare questo enorme movimento che è in piazza. Se non lo fa, la protesta si allargherà».
Brunetta attacca gli insegnanti: pagati troppo...
«Vorrei conoscere il reddito di Brunetta, anche come docente universitario. Il suo è un attacco sconclusionato: i salari dei docenti sono tra i più bassi d’Europa e tuttavia questo mestiere viene svolto con passione. Se ha coraggio, chieda scusa agli insegnanti».

l’Unità 10.10.08
Rivolta degli statali contro Brunetta
Tre scioperi regionali e poi lo stop nazionale. Il ministro: non capisco cosa vogliono
di Felicia Masocco


IL CALENDARIO La vertenza del pubblico impiego si inasprisce. Preso atto che settimane di mobilitazione non sono bastate per aprire un canale di dialogo con il ministro Brunetta, i sindacati passano allo sciopero. Tre giornate (una per il Nord, una per il Centro e una per il Sud), e se non dovessero bastare ci sarà lo sciopero nazionale.
Le proteste si terranno a cavallo tra ottobre e novembre, l’eventuale sciopero generale «accompagnerà» invece la discussione della legge Finanziaria. Il calendario integra lo sciopero della scuola, fissato per il 30 ottobre, e quello generale proclamato dai Cobas per il 17 ottobre.
Gli argomenti non mancano. Da mesi il pubblico impiego è sotto schiaffo, si è partiti con il battage contro i “fannulloni” e si è arrivati all’assumere provvedimenti che penalizzeranno chi fannullone non è. La lista dei «non va» stilata da Cgil, Cisl e uil funzione pubblica è corposa. Primeggiano i contratti per 2 milioni e mezzo di persone (uno in più se si calcola la scuola) che il governo vorrebbe rinnovare al ribasso. Le risorse stanziate - denunciano i sindacati - porterebbero 8 euro di aumento per quest’anno e circa 60 per l’anno prossimo. Fin qui la vertenza, seppur pesante, starebbe nell’ordinario. A renderla «speciale» è il taglio dei fondi per la contrattazione integrativa che si traduce in buste paga più leggere, e l’intenzione trasparente del ministro di cambiare le regole della contrattazione in modo unilaterale, cioè senza il confronto con i rappresentanti dei lavoratori. Si pensi agli «anticipi» degli aumenti salariali oppure alla volontà di superare il contratto nella sanità o nelle autonomie locali. Per non parlare dei precari che resteranno a spasso. Per tutto questo, Carlo Podda di Fp-Cgil, Rino Tarelli di Cisl-Fp, Carlo Fiordaliso di Uil-Fpl e Salvatore Bosco di Uil-Pa chiedono un tavolo a Palazzo Chigi con tutti i ministri interessati e gli enti locali. Chiedono un negoziato.
Il ministro però non da segnali concilianti. «Non capisco cosa vogliono», «non capisco questa attitudine conflittuale, a meno che non abbia voglia di uno sciopero psicologico», afferma. «I soldi ci sono, c’è una Finanziaria che stanzia 3 miliardi e quindi le risposte già ce l’hanno». Non sono pochi? «Dov’è la copertura con questi chiari di luna? Sta crollando un po’ di economia, di cosa stiamo parlando?».
Convinto di avere l’opinione pubblica dalla sua parte il ministro continua con la devastazione mediatica di tutto il lavoro pubblico, servendo il piatto forte della diminuzione dei dati sull’assenteismo a -45% a settembre. Poi, in nome della trasparenza ha messo online i verbali dell’incontro con i sindacati di martedì scorso sul rinnovo dei contratti per i ministeriali. «Comportamento scorretto, ai limiti della legalità», è l’accusa del leader di Fp-Cgil Carlo Podda. Non si tratta di verbali (normalmente concordati tra i presenti) ma di «resoconti di parte». «Ma poiché sulla trasparenza non prendiamo lezioni da nessuno - prosegue il leader sindacale - chiediamo al ministro di far attrezzare una sala a disposizione della stampa per la diretta della trattativa». In alternativa «riprenderemo il negoziato e lo metteremo sul nostro sito a disposizioni di tutti». Dopo aver chiesto una liberatoria ai presenti.

l’Unità 10.10.08
La Sinistra che non vede
Dalla coscienza di classe alla «coscienza di luogo»
di Aldo Bonomi


Un fantasma si aggira nella politica italiana, il fantasma della sinistra. Ma differentemente dallo spettro del comunismo marxiano questa volta porta con sé l’annuncio di un doloroso crepuscolo. Doloroso quanto prevedibile. Perché i segnali c’erano tutti: sia in campo sociale sia elettorale. Le stesse elezioni dell’aprile 2006 non solo avevano messo in luce il mancato sfondamento da parte del centro-sinistra, ma anche sul fronte della cosiddetta «sinistra radicale» avevano messo in luce come il buon risultato di allora lo si dovesse più alla crescita nelle regioni meridionali, mentre nelle cinture metropolitane del Nord e nelle tradizionali regioni rosse i voti già allora erano in calo. La «questione settentrionale» riemergeva puntualmente.Tuttavia, rimango convinto che le ragioni di una sconfitta epocale, come quella che ha espulso la sinistra dalla rappresentanza parlamentare, abbiano più a che fare con processi di lungo periodo che con i guasti dell’ultima esperienza governativa.
Il moderno. La rappresentanza sociale e politica della sinistra era espressione di una società dai fini certi. Il Sol dell?Avvenire, il Palazzo d?Inverno, l?idea di rappresentare l?avanguardia organizzata di un movimento storico incessantemente proiettato a costruire il futuro, incardinavano l?idea stessa di sinistra dentro quella di moderno. Oggi il campo su cui la sinistra, soprattutto quella radicale, si esercita è sul piano economico e sociale con l?opposizione di marca «luddista» a un moderno percepito come un campo totalmente occupato dall?impresa e dalle sue logiche. La sinistra si oppone alla mercificazione dei beni comuni ereditati dalla tradizione o dalla natura, ma non riesce a progettare nuovi beni comuni (infrastrutture, diritti ecc.) che parlino di un progetto di ordine economico e sociale alternativo. Rifugiandosi invece in una sfera dei diritti etici e civili giocata spesso come sostituto funzionale dell?incapacità di rimettere a tema la questione sociale (da qui un?infatuazione per lo «zapaterismo»). Una linea che però finisce per suscitare reazioni conservatrici proprio nella base popolare tradizionale della sinistra, in certo qual modo incrementando il circolo vizioso dello sradicamento. È questo, infatti, il secondo corno del dilemma. È venuto meno quell?elemento che garantiva la connessione con il paese profondo e la sua cultura, la capacità di esprimere e (re)inventare il , o nelle parole di Gramsci il nazional-popolare inteso come mastice tra nazione culturale e nazione politica, tra territorio e stato, tra comunità e rappresentanza. Questa capacità «popolare» era un?eredità storica peculiare della sinistra italiana. La cui identità politica profonda nasce prima nel territorio e quindi nella comunità e nel popolare.(...) La mia impressione è che questi due elementi, prima il moderno e poi il popolare, sono stati progressivamente scippati e reinventati dal ritorno della destra a partire dagli anni ottanta e dopo la grande rottura del Sessantotto. Prima con il binomio Thatcher/Reagan poi con il populismo postindustriale dei Le Pen e arrivando in Italia fino al duo Bossi-Berlusconi e all?ideologia «protettiva» di Tremonti, la destra ha occupato proprio quell?elemento territoriale da cui originariamente era partita la parabola della sinistra italiana e che, anche dopo la fine della grande fabbrica, aveva provvisoriamente garantito la sua tenuta politica. Come è potuto avvenire? Rimango convinto che per comprendere le ragioni della sconfitta e per tentare di rimettere insieme i cocci di una «nuova sinistra», l?operazione da compiere sia di rimettere la politica e la rappresentanza «sui suoi piedi», ovvero riconquistare un nuovo sapere sociale su cosa è oggi il capitalismo, e la questione materiale, senza il quale semplicemente non c?è sinistra. In questo modo e non inseguendo le chimere postideologiche, può essere possibile comprendere il rancore sociale montante che fa da base culturale all?egemonia della destra. È la discontinuità rappresentata dalla globalizzazione il punto di partenza di ogni riflessione. Che deve comprendere almeno tre passaggi chiave: il territorio, la rappresentanza dei nuovi soggetti e quella che possiamo definire come la questione neoborghese. Partiamo dal territorio. Da anni sono convinto che viviamo dentro un salto di paradigma. Oggi è necessario ragionare non più soltanto in termini di conflitto tra capitale e lavoro, con lo stato come soggetto di redistribuzione del prodotto sociale. Invece, ritengo che sia necessario riflettere su una nuova forma del conflitto tra flussi e luoghi, con il territorio come dimensione intermedia in cui situare la ricostruzione dei processi di rappresentanza. Parlare di globalizzazione significa parlare di una serie di flussi produttivi, finanziari, umani. Sono flussi le transnazionali, le internet company, i corridoi europei (la Tav), e quelli che Tremonti definisce i padroni della tecnofinanza. E sono flussi anche le migrazioni. (...) Tuttavia, è necessaria la consapevolezza che mentre nel Novecento la rappresentanza sindacale e politica cresceva in una società caratterizzata dai mezzi scarsi e fini certi oggi siamo passati a una società dai mezzi abbondantissimi ma con fini totalmente incerti. Utilizzando le categorie di Ernesto De Martino, tutto ciò ha prodotto una moderna apocalisse culturale. Che significa fondamentalmente non riconoscersi più in ciò che c?era abituale. C?era abituale il quartiere, c?era abituale la fabbrica, la comunità di uguali e il conflitto. Tutte strutture radicate nel Dna profondo della sinistra che si sono depotenziate. (...)È la metropolizzazione del territorio con le sue conseguenze in termini di figure sociali che va posta al centro. Di che cosa parliamo? Parliamo di uno spazio sociale e produttivo dove l?espansione della città si è fusa con un capitalismo molecolare di oltre cinquecentomila imprese con due milioni di addetti. Se si cerca la classe operaia si scopre che esiste ancora e vive e lavora proprio nei territori delle tante città infinite. E vota con il suo «padroncino» non solo per retaggio culturale, ma perché tende magari a condividerne ansie e speranze in rapporto a una dimensionecompetitiva ormai divenuta dimensione esistenziale diffusa. È una sorta di melting pot produttivo in cui si è prodotto un gigantesco processo di scomposizione e ricomposizione delle figure produttive.(...) Ritengo che le ideologie legate alla questione sociale siano ancora in piedi. Sul mercato delle culture politiche si possono distinguere almenoquattro ideologie o correnti di pensiero strutturate o invia di strutturazione. La prima ideologia è tutta interna al pensierodel mercato. Si presuppone che il capitalismo sia un sistema dotato della capacità di autoregolarsi. È una visione propria delle élite delle grandi transnazionali che sposta il potenziale conflitto tra (portatori di interesse) territoriali all?interno dell?impresa. Al centro vi è la figura dell?utente-cliente come del mercato, attore autonomo dall?impresa capace di vincolarne l?azione minacciando (o attuando) strategie di individuali non limitate alla valutazione della qualità dei prodotti, ma estese anche al rispetto da parte dell?impresa della sua sfera valoriale o degli interessi della società. È una visione che ha radici profonde soprattutto nelle società anglosassoni dove ha assunto anche una veste giuridica attraverso le cosiddette di consumatori che, in quanto tali, divengono titolari di diritti. Una seconda ideologia, all?esatto opposto, è quella esemplificata dalla teoria della decrescita di Serge Latouche. Anche questa è un?ideologia potentissima, perché dà riferimenti culturali ai movimenti di conflitto delle società locali contro i processi di modernizzazione promossi dai grandi attori del capitalismo globale. È un?ideologia con cui confrontarsi. E quanto il sindacato si deve confrontare? Le difficoltà del sindacato torinese rispetto alla Tav sono lì a testimoniarlo. Terza ideologia, è quella della moltitudine come nuovo soggetto della trasformazione sociale, sostituto funzionale in tempi di globalizzazione dell?operaio-massa. La figura dell?Impero ne è il corrispondente dal punto di vista dei processi costituenti della rappresentanza. Altra ideologia è la rappresentazione del conflitto tra flussi e luoghi a partire dall?emergere della coscienza di luogo come nuovo elemento identitario sul quale imperniare i processi di costruzione della rappresentanza. Più un luogo è in grado di sviluppare, oltre alla coscienza di classe per tutelare i soggetti, anche la coscienza di luogo, più esso è in grado di rapportarsi ai flussi e negoziare il proprio cambiamento. Il sindacato dovrebbe essere uno dei soggetti. È vero, per esempio, che il termine «coscienza di luogo» ovviamente sussume molti dei problemi anche della decrescita, della qualità della vita, dell?ambientalismo. Su questo fronte il discrimine politico corre tra una coscienza di luogo orientata alla chiusura e una coscienza di luogo centrata sulla relazione con la dimensione dei processi di modernizzazione. È dentro questa ideologia emergente, radicata nei processi materiali, che si è sviluppata la parabola leghista con la sua capacità di accoppiare l?elemento identitario di difesa a quello della modernizzazione delle grandi infrastrutture divenute simbolo politico (Malpensa, il disegno delle del Nord ecc.). Le ideologie dunque esistono. Esse sono diverse dalle grandi narrazioni novecentesche, ma ancora potenti e in via di strutturazione. Semmai esiste, ed esiste soprattutto a sinistra, un problema di posizionamento rispetto a queste ideologie emergenti. (...) In conclusione, credo che la scommessa sia produrre meccanismi anche di potere oltre che ideologici, che consentano un processo di riterritorializzazione delle élite economiche fondato sull?idea, per dirla con il filosofo francese Lévinas, che l?identità non stia nel soggetto (e nella sua difesa) ma nella relazione con l?altro. Quale può essere il ruolo della sinistra dentro questa nuova dinamica? Assumere i flussi come unica dimensione rilevante? Cavalcare le propensioni alla chiusura del locale, secondo il modello del «sindacalismo di territorio» leghista? Penso invece che esista una terza possibilità: mettersi in mezzo tra flussi e luoghi assumendo il territorio come nuovo spazio d?azione intermedio e accompagnare le società locali nel «metabolizzare» culturalmente i cambiamenti; per dirla con uno slogan, «mediare i flussi per accompagnare i luoghi». Il nodo è costruire una società locale capace di agganciarsi al globale e aprire l?enclave che è dentro di noi al mondo. La sfida per il tessuto della rappresentanza e per la sinistra è «fare società» accompagnando questo processo di apertura e trovando forme organizzative adatte. Questo mi pare un obiettivo di fondo su cui varrebbe la pena di ragionare.

l’Unità 10.10.08
Domani la sinistra radicale manifesterà a Roma, Di Pietro raccoglie firme
Ma oggi il segretario di Rc Ferrero farà il «processo» a Liberazione. Il partito metterà soldi per ripianare il debito. Potrebbe però chiedere la destituzione del direttore
di Simone Collini


Uniti contro il Lodo Alfano, divisi in piazza. Domani l’Italia dei valori sarà a piazza Navona per dare il via alla raccolta di firme per il referendum contro «una legge immorale e incostituzionale». Rifondazione comunista, Pdci, Verdi, Sd e diverse altre sigle e associazioni della sinistra sfileranno in corteo contro il governo e Confindustria da piazza Esedra fino alla Bocca della verità. Nei giorni scorsi, quando il leader dell’Idv Antonio Di Pietro e il segretario del Prc Paolo Ferrero (con anche altri esponenti dell’ex Arcobaleno) hanno presentato insieme a Montecitorio l’avvio della campagna referendaria, qualcuno ha ipotizzato un momento di incontro tra le due piazze. Ma non sarà così. L’ex pm si godrà la musica di Andrea Rivera, Enzo Avitabile, Simone Cristicchi e parlerà dal palco a metà pomeriggio.
Palco che sarà invece off limits per i leader politici, alla Bocca della verità: parleranno una dirigente scolastica, un extracomunitario di Castelvolturno, un esponente di No-Dal Molin, uno No-Tav, il fisico Gianni Mattioli, l’operaio della Thyssen Ciro Argentino. Si tratta di una decisione presa dagli organizzatori al termine di una serie di incontri al Rialto (un centro sociale che si trova nel centro storico di Roma) per evitare discussioni sulla scaletta tra e dentro i diversi partiti.
Il clima infatti non è dei migliori non solo tra Idv e sinistra, visto che Di Pietro sta respingendo al mittente l’offerta di Prc e compagni di allearsi alle regionali in Abruzzo. Agli esponenti di Rifondazione non è piaciuta la proposta del Pdci, lanciata per bocca di Emanuela Palermi, di prevedere domani «un gesto simbolico che unisca le due iniziative». E d’altro canto dentro lo stesso Prc non tutti condividono l’impegno nel referendum contro il Lodo Alfano. Paolo Ferrero l’ha deciso per non lasciare nelle sole mani di Di Pietro la bandiera antiberlusconiana, e sia all’inizio che alla fine del corteo ci saranno banchetti per la raccolta delle firme. Ma la sua proposta è passata all’ultima riunione della Direzione del partito con un voto contrario e diverse astensioni. Un segnale inviato al segretario dalla minoranza dei vendoliani.
Ma è niente in confronto a quello che succederà oggi, quando la Direzione tornerà a riunirsi. All’ordine del giorno c’è Liberazione. Ferrero punterà il dito sul buco di oltre quattro milioni (due dovuti ai previsti tagli della legge sull’editoria) che grava sulla testata del Prc, annuncerà che oltre ai previsti 900 mila euro il partito dirotterà sul giornale un altro milione di euro, ma dovrebbe anche dire che sarebbe bene che a gestire questa fase di rilancio non siano gli stessi che hanno operato fin qui. Il che equivarrebbe a una sfiducia nei confronti del direttore Piero Sansonetti, che giusto su Liberazione di ieri, rispondendo ad Alberto Burgio («l’autonomia ha sempre un limite», argomentava l’esponente della maggioranza contestando la «pratica di opposizione frontale» del giornale al partito), aveva sollecitato una parola chiara: «Credo che Burgio e altri farebbero bene a uscire allo scoperto e a porre formalmente la questione: “Vogliamo cambiare il direttore di Liberazione”. Altrimenti diventa una discussione finta e da paurosi». Oggi ci sarà il primo passo. Alla riunione del Cda, la prossima settimana, potrebbe esserci quello definitivo.

Corriere della Sera 10.10.08
Direttore in bilico
Sansonetti-Ferrero Resa dei conti a «Liberazione»
di Alessandro Trocino


ROMA — Il titolo del commento di Ritanna Armeni, pubblicato oggi in prima pagina da Liberazione, è piuttosto eloquente: «Il cupio dissolvi di un partito che non sopporta più il suo giornale». L'ha scritto Piero Sansonetti in persona, dopo aver ribattuto all'ennesima lettera di accuse di Alberto Burgio, corrente Grassi: «Bello il titolo, no?».
Serve per rispondere a un'offensiva che va avanti da giorni: «Se mi vogliono far giurare fedeltà al marxismo-leninismo — scherza ma non troppo — la vedo dura. Però se la questione è cambiare il direttore, è bene che si dica apertamente». Può darsi che l'accontentino già oggi, alla direzione del partito. Il segretario è cambiato, ora al timone di Rifondazione c'è Paolo Ferrero, che ha fatto capire chiaramente come Sansonetti (foto) non sia più in linea con il nuovo corso. Lui non ci gira troppo intorno: «È vero, non sono un ferreriano. Ma allora? Il partito non è in grado di sopportare un dissenso?
Se ha bisogno di un giornale che risponda direttamente alla segreteria, non conti su di me, che non sono mai stato neanche iscritto. I cervelli non sono sottoposti a voti».
Ferrero resta sul vago: «La direzione? Si parlerà della crisi del giornale». Ma più d'uno è pronto a scommettere che oggi lancerà un segnale di sfiducia al direttore.
Magari sperando nelle sue dimissioni. Proprio quello che non vorrebbe il cdr, la sostituzione del direttore: «Spero che non venga usato l'argomento economico per regolamenti di conti politici — spiega Anubi D'Avossa Lussurgiu —.
E poi è molto fastidiosa questa ignoranza delle norme: è ben strano che proprio da queste parti si ignori il contratto nazionale di lavoro».
Certo, non tutti i 35 giornalisti sono pronti a immolarsi per Sansonetti.
Anche perché la crisi c'è davvero e Ferrero parla di quattro milioni di buco. Eppure qualcosa non quadra.
Lussurgiu ha conti diversi: «I tagli all'editoria saranno inferiori alle aspettative. E lo sbilancio è aumentato del 50 per cento in due mesi: vorremmo capire perché».
Sansonetti aspetta: «Ho fatto un giornale sempre più a sinistra del partito. Ho litigato con il governo, anche quando Ferrero era ministro.
Ma certo Liberazione non si qualifica per la fedeltà alla dottrina comunista, vedi il casino su Cuba. Arrivato quasi a 60 anni non posso rassegnarmi ad accettare la legge del potere».

l’Unità 10.10.08
La Sinistra torna in piazza
di Piero Di Siena


Domani, 11 ottobre, tutta la sinistra italiana, vale a dire le forze che hanno dato vita alla sfortunata esperienza della Sinistra l’Arcobaleno, tornerà a manifestare insieme contro la politica di governo della destra italiana. Dopo mesi di divisioni anche aspre tra i partiti e dentro di essi, questo costituisce una inversione di tendenza. Le prospettive politiche restano diverse ma si è compreso che, comunque, la sinistra non poteva mancare all’appello nel momento in cui appare sempre più evidente l’urgenza di reagire a un attacco senza precedenti che da parte della destra viene condotto - su più terreni: dal lavoro alla scuola e all’università, dalla giustizia ai diritti civili e alla funzione delle autonomie locali - contro valori e conquiste che hanno segnato la vita dell’intera storia repubblicana.
Che la sinistra, fuori del Parlamento e ridotta al suo minimo storico, debba ricominciare da zero il suo cammino, riuscendo finalmente a interpretare le domande e i bisogni di un mondo totalmente cambiato, è fuori di discussione. Ma essa non farebbe alcun passo in avanti se venisse meno “qui” e “ora” al dovere di far sentire la propria voce contro la destra al governo.
Coloro che hanno promosso la manifestazione - circa duecento personalità della politica, della cultura e dei movimenti sociali della sinistra italiana -, ricevendo l’assenso di tutti i partiti, sono consapevoli di non essere i soli a condurre un’azione di contrasto contro la destra. Lo stesso Partito democratico sembra svegliarsi dall’incanto che l’ha travolto sin dalla campagna elettorale, preda come è stato dell’illusione che con Berlusconi e la sua coalizione si potesse costruire un’idea di Paese condivisa. E sarebbe augurabile che la manifestazione del 25 ottobre rappresentasse, almeno da questo punto di vista, una svolta. Di Pietro l’11 ottobre a piazza Navona inizia la raccolta di firme per il referendum sui temi della giustizia, che rimane questione cruciale. Il successo delle manifestazioni della Cgil del 27 settembre e l’esito insperato della vertenza Alitalia potrebbero rompere l’isolamento del movimento sindacale e rendere più difficili le manovre tendenti alla sua divisione, di cui si sono resi protagonisti in questi mesi congiuntamente governo e Confindustria.
E tuttavia i fatti di questi mesi hanno dimostrato che senza una sinistra in campo un’opposizione stenta a nascere. La pretesa autosufficienza del Partito democratico è stata solo causa di divisioni che non hanno risparmiato nemmeno i suoi rapporti interni. Di Pietro ha dimostrato di non riuscire a uscire fuori dal recinto giustizialista che da sempre caratterizza la sua azione politica. La manifestazione dell’11 ottobre ha, perciò, l’ambizione di mettere in campo forze la cui vocazione è invece quella di unire, a partire dai contenuti della piattaforma che sta alla base della mobilitazione. Non si tratta né di dialogare con le altre piazze né di contrapporsi ad esse, ma di parlare con spirito unitario al Paese, sperando che per questa via si realizzino le condizioni per ricostruire un’alternativa a Berlusconi e al suo governo.

l’Unità 10.10.08
I Beni Culturali e lo scippo Capitale
di Vittorio Emiliani


Con legge ordinaria, con un emendamento, il governo Berlusconi rivoluziona la strategia della tutela, chiaramente nazionale, dei beni culturali e paesaggistici togliendola allo Stato, quindi al ministero per i Beni culturali, ed assegnandola al Comune di Roma o al nuovo Ente Roma Capitale.
In tal modo, aperta una clamorosa breccia nell’articolo 9 della Costituzione, spiana la strada per l’attribuzione della tutela ai Comuni. Nemmeno alle Regioni, come da anni alcune di esse chiedevano (la Sicilia la esercita già, malissimo), ma addirittura ai Comuni. Un altro colpo di clava alla unità culturale e politica della Nazione. Una autentica follia anche dal punto di vista gestionale.
Il nostro sistema di tutela, che rimonta addirittura alla lettera-manifesto di Raffaello a papa Leone X, poi ad Antonio Canova gran consigliere di Pio VII, al ceto politico giolittiano che ne raccolse la forte trama legislativa, allo stesso Giuseppe Bottai che intelligente riutilizzatore di quelle norme nelle due leggi del 1939, alla Costituzione e alle normative più recenti (come la legge Galasso e il Codice Settis-Rutelli), era e rimane un modello invidiato e imitato all’estero. Malgrado i finanziamenti scarsi, malgrado i concorsi rinviati per anni, malgrado mille acciacchi operativi, l’idea-forza di far esercitare la tutela ad organismi tecnico-scientifici il più possibile autonomi dal potere politico (tanto più da quello locale) e dalle sue pressioni ha salvato il Paese da disastri molto maggiori rispetto a quelli, pur gravi, intervenuti. I nostri centri storici si presentano, sin qui, abbastanza preservati. La rete dei musei è nettamente migliorata, semmai bisogna crederci, investire di più in essa. Il paesaggio, certo, ha subito e subisce duri colpi dal cemento, specie dopo che ai Comuni è stato sciaguratamente consentito di usare per la spesa corrente i denari incassati con gli oneri di urbanizzazione. Ma, ripeto, il sistema è valido, i soprintendenti (nonostante stipendi da 1.500-2.000 euro) sono spesso autorevoli. Negli anni di Tangentopoli non uno di loro è stato inquisito e condannato.
Si può, si deve potenziare questa struttura voluta come Ministero da Giovanni Spadolini. Invece la si intacca e la si demolisce, facendo oggi del nuovo Ente Roma Capitale e domani degli 8.101 Comuni gli organismi che decideranno tutto sul patrimonio storico-artistico, sull’archeologia, sul paesaggio, ecc. I controllati diverranno anche i controllori diretti. Gli organismi tecnico-scientifici saranno alle dirette dipendenze dei politici municipali. Fate voi.
Certo, l’articolo 9 della Costituzione parla di tutela in capo alla Repubblica, cioè allo Stato (come hanno riaffermato le sentenze, ma quanto contano oggi?, della suprema Corte) in uno, armonicamente, con Regioni ed Enti locali. Ma l’autonomia dei presidii rappresentati dalle Soprintendenze non è mai stata messa in discussione. Mai. Oggi basta un emendamento ad una legge ordinaria. È vero, Roma ha anche una Soprintendenza Capitolina. Fu una sorta di omaggio di Corrado Ricci alla capitale d’Italia quando disegnava con altri la rete delle Soprintendenze. È stata retta da studiosi come Carlo Pietrangeli e, di recente, come Eugenio La Rocca. Non ho nulla contro Umberto Broccoli, archeologo, da poco nominato dopo lunghi anni di lavoro come intelligente divulgatore culturale in Rai. Ma la sua prima intervista televisiva mi ha lasciato di sasso: ritiene di poter fare soldi prestando in giro statue e altri reperti archeologici di magazzino. Non sembra il massimo dei programmi scientifici. Sembra anzi una porta aperta all’idea fissa di “sfruttare” commercialmente il patrimonio.
E il ministro Bondi, che fa? Ha assistito docile a tagli che - lo denuncia la Cisl - riducono le risorse da 625 a 73 milioni in quattro anni e ne fanno perciò una sorta di “commissario liquidatore” del Ministero e dei suoi beni. Nelle Soprintendenze, dopo la pubblicazione del testo per l’Ente Roma Capitale e sue prerogative c’è fermento, allarme, indignazione, come nelle maggiori associazioni per la tutela. «Una autentica rovina», commentano storici dell’arte, archeologi, architetti, paesaggisti, urbanisti, bibliotecari, musicologi. Ma anche una clamorosa fesseria dovuta a quelli che Raffaello profeticamente chiamava li profani e scelerati barbari», ma anche il suicidio di un Paese che vive sempre più di turismo e di turismo culturale. Bondi si occupa di tutt’altro: cliccate sul sito del ministero (www.mibac.it) e vedrete che il ministro-poeta occupa la prima pagina con ben tre rubriche: i suoi Appunti di viaggio (un must internazionale), la sua post@ coi cittadini e, udite udite, le sue recensioni librarie, la prima parla anche di Eros. Non di Thanatos, del suo moribondo ministero naturalmente. Ma si è accorto di fare la parte del necroforo per giunta sorridente?

Corriere della Sera 10.10.08
Germania Il fondatore della Raf accusato di incitamento all'odio razziale
Mahler, da terrorista rosso a ideologo dei neonazisti
Sotto processo per aver negato l'Olocausto
Intervistato sugli anni della Raf da un politico-giornalista ebreo, lo salutò con il braccio teso: «Heil Hitler»
di Danilo Taino


BERLINO — Una vita contro l'establishment, quella di Horst Mahler: agli estremi. Ai peggiori estremi. Nel 1970 tra i fondatori della Rote Armee Fraktion, il gruppo terrorista tedesco guidato da Andreas Baader e Ulrike Meinhof. In questi giorni, sotto processo per aver negato l'Olocausto. Una parabola tragica, quella dell'avvocato di 72 anni: ha attraversato la storia della Germania moderna per lasciare una scia di furore ideologico.
Le accuse che il tribunale di Potsdam, vicino a Berlino, gli muove sono di negazionismo e di Volksverhetzung, in sostanza incitamento all'odio razziale, in Germania ambedue punite dalla legge. Tra il 2000 e il 2004, ha sostenuto con scritti su Internet che Auschwitz è un'invenzione degli ebrei. Rischia cinque anni.
Bisogna però dire che la prigione, per lui, non è mai stata un deterrente. Anzi, forse lo esalta. Nato nel 1936, nel 1964 fonda a Berlino Ovest il suo studio di avvocato. Si avvicina ai movimenti extraparlamentari. Sono anni forti nella città da poco divisa in due dal Muro. Quando, nel 1968, il leader del movimento studentesco, Rudi Dutschke, subisce un tentativo di omicidio, Mahler è all'avanguardia della protesta violentissima contro il gruppo editoriale Springer, indicato dalla sinistra non parlamentare come mandante. Diventa amico di Baader e della sua compagna Gudrun Ensslin e, quando il primo è arrestato, nel 1970, lo aiuta a scappare di prigione. I tre, più la Meinhof, vanno in Giordania, alla scuola militare del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Fondano la Raf.
Mahler torna in Germania nell'ottobre '70, viene arrestato e, nel 1974, condannato a 14 anni. In carcere, dove intanto erano finiti anche i suoi tre compagni, scrive un manifesto, che però è criticato dai membri della Raf. Viene di fatto espulso. È solo. Nei pensieri e nelle decisioni. Nel 1975, il Movimento 2 giugno, altro gruppo terroristico di Berlino, rapisce Peter Lorenz, politico cristiano-democratico, e tra le altre cose chiede la liberazione di Mahler. Che però la rifiuta. In compenso, si procura un ottimo avvocato, certo Gerhard Schröder, socialdemocratico che farà carriera. Il futuro cancelliere riesce a farlo liberare in anticipo, nel 1980 (nel 1988 lo farà anche reintegrare nella professione).
Quelli successivi, sono anni di riflessione, probabilmente. Di sicuro, di cambiamento. Quando ritorna in pubblico, nel 1997, in occasione del 70˚ compleanno del filosofo Günter Rohrmoser, lo fa con un discorso in cui sostiene che la Germania «è occupata», che deve liberarsi dei suoi debiti morali, che deve ritrovare la sua identità nazionale. Un anno dopo, scrive un articolo in cui sostiene la fusione di populismo, spiritualismo e antisemitismo. Nel 2000 entra nell'Npd, il partito neonazista tedesco, lo difende con successo contro il governo Schröder che tenta di metterlo fuorilegge, e lo abbandona nel 2003. Intanto, manda le email negazioniste, sostiene che gli attacchi dell'11 settembre sono giustificati, fonda la Società per la riabilitazione dei perseguitati per avere confutato l'Olocausto.
Nel 2004 viene condannato per istigazione all'odio razziale, nel luglio scorso per avere fatto il saluto romano mentre entrava in carcere per il reato precedente. Nel 2006, gli viene revocato il passaporto per impedirgli di andare a Teheran alla Conferenza sulla revisione dell'Olocausto. Un anno dopo, intervistato sugli anni della Raf da un politico-giornalista ebreo, lo saluta con il braccio teso: «Heil Hitler, Herr Friedman ». Tristemente incontenibile.

Corriere della Sera 10.10.08
Un libro sull'eccidio compiuto nel 1893 contro i nostri connazionali che cercavano lavoro nelle saline francesi della Camargue
Quando erano italiani gli immigrati da linciare
La strage di Aigues-Mortes e il pregiudizio xenofobo
di Gian Antonio Stella


Precursori
Un sindaco «sceriffo» legittimò la ferocia dei suoi concittadini con parole aberranti Dalla rivista «L'Illustrazione Italiana»: qui accanto, la prima aggressione nelle saline; a sinistra, operai italiani feriti

«Acque-Morte ci addita l'orrenda / Ecatombe di vittime inulte!/ No, jamais, sì ferale tregenda / In Italia obliata sarà» tuona indignata la poesia Il grido d'Italia per le stragi di Aigues-Mortes, scritta di getto da Alessandro Pagliari, nel 1893, a ridosso del massacro. Invece è successo. L'Italia ha dimenticato quella feroce caccia all'italiano nelle saline della Camargue, alle foci del Rodano, che vide la morte di un numero ancora imprecisato di emigrati piemontesi, lombardi, liguri, toscani. Basti dire che, stando all'archivio del Corriere della Sera, le (rapide) citazioni della carneficina dal 1988 a oggi sui nostri principali quotidiani e settimanali sono state otto. Per non dire degli articoli dedicati espressamente al tema: due. Due articoli in venti anni. Contro i 57 riferimenti ad Adua, i 139 a El Alamein, i 172 a Cefalonia… Eppure, Dio sa quanto ci sarebbe bisogno, in Italia, di recuperare la memoria.
Che cosa fu, Maurice Terras, il primo cittadino del paese, se non un «sindaco-sceriffo» che cercò non di calmare gli animi ma di cavalcare le proteste xenofobe dei manovali francesi contro gli «intrusi» italiani? Rileggiamo il suo primo comunicato, affisso sui muri dopo avere ottenuto che i padroni delle saline, sotto il crescente rumoreggiare della folla, licenziassero gli immigrati: «Il sindaco della città di Aigues-Mortes ha l'onore di portare a conoscenza dei suoi amministrati che la Compagnia ha privato di lavoro le persone di nazionalità italiana e che da domani i vari cantieri saranno aperti agli operai che si presenteranno. Il sindaco invita la popolazione alla calma e al mantenimento dell'ordine. Ogni disordine deve infatti cessare, dopo la decisione della Compagnia».
Per non dire del secondo manifesto che, affisso dopo la strage, toglie il fiato: «Gli operai francesi hanno avuto piena soddisfazione. Il sindaco della città di Aigues-Mortes invita tutta la popolazione a ritrovare la calma e a riprendere il lavoro, tralasciati per un momento. (...) Raccogliamoci per curare le nostre ferite e, recandoci tranquillamente al lavoro, dimostriamo come il nostro scopo sia stato raggiunto e le nostre rivendicazioni accolte. Viva la Francia! Viva Aigues-Mortes!».
È vero, grazie al cielo da noi non sono mai divampati pogrom razzisti contro gli immigrati neppure lontanamente paragonabili a quelli scatenati contro i nostri nonni. Non solo ad Aigues-Mortes ma a Palestro, un paese fondato tra Algeri e Costantina da una cinquantina di famiglie trentine e spazzato via nel 1871 da una sanguinosa rivolta dei Cabili. A Kalgoorlie, nel deserto a 600 chilometri da Perth, dove gli australiani decisero di «festeggiare » l'Australian Day del 1934 scatenando tre giorni di incendi, devastazioni, assalti contro i nostri emigrati. (...) Ma soprattutto negli Stati Uniti dove, dal massacro di New Orleans a quello di Tallulah, siamo stati i più linciati dopo i negri. Al punto che un giornale democratico, ironizzando amaro sui ridicoli risarcimenti concessi ai parenti dei morti, arrivò a pubblicare una vignetta in cui il segretario di Stato americano porgeva una borsa all'ambasciatore d'Italia e commentava: «Costano tanto poco questi italiani che vale la pena di linciarli tutti».
È vero, da noi non sono mai state registrate esplosioni di violenza xenofoba così. È fuori discussione, però, che i germi dell'aggressività verbale che infettarono le teste e i cuori di quei francesi impazziti di odio nelle ore dell'eccidio somigliano maledettamente ai germi di aggressività verbale emersi in questi anni nel nostro Paese. Anzi, sembrano perfino più sobri.
Maurice Barrès scriveva nell'articolo Contre les étrangers su Le Figaro, che «il decremento della natalità e il processo di esaurimento della nostra energia (...) hanno portato all'invasione del nostro territorio da parte di elementi stranieri che s'adoprano per sottometterci ». Umberto Bossi è andato più in là, barrendo al congresso della Lega di qualche anno fa: «Nei prossimi dieci anni vogliono portare in Padania tredici o quindici milioni di immigrati, per tenere nella colonia romano-congolese questa maledetta razza padana, razza pura, razza eletta».
Le Mémorial d'Aix scriveva che gli italiani «presto ci tratteranno come un Paese conquistato » e «fanno concorrenza alla manodopera francese e si accaparrano i nostri soldi». Il sindaco di Treviso Giancarlo Gentilini ha tuonato che «gli immigrati annacquano la nostra civiltà e rovinano la razza Piave» e occorre «liberare l'Italia da queste orde selvagge che entrano da tutte le parti senza freni» per «rifare l'Italia, l'Italia sana, in modo che non ci sia più inquinamento». (...) Per non dire del problema della criminalità. Quella dei nostri emigranti accecava i francesi che sul Memorial d'Aix denunciavano come «la presenza degli stranieri in Francia costituisce un pericolo permanente, spesso questi operai sono delle spie; generalmente sono di dubbia moralità, il tasso di criminalità è elevato: del 20%, mentre nei nostri non è che del 5». Quella degli immigrati in Italia, per quanto sia reale, fonte di legittime preoccupazioni e giusta motivazione al varo di leggi più severe, acceca certi italiani. Fino a spingere il futuro capogruppo al Senato del Popolo della Libertà, Maurizio Gasparri, a sbraitare dopo il massacro di Erba parole allucinate: «Chi ha votato l'indulto ha contribuito a questo eccidio. Complimenti. Ha fruito di quel provvedimento anche il tunisino che ha massacrato il figlio di due anni, la moglie, la suocera e la vicina a Erba». L'europarlamentare Mario Borghezio riuscì a essere perfino più volgare: «La spaventosa mattanza cui ha dato luogo a Erba un delinquente spacciatore marocchino ci prospetta quello che sarà, molte altre volte, uno scenario a cui dobbiamo abituarci. Al di là dell'“effetto indulto”, che qui come in altri casi dà la libertà a chi certo non la merita, vi è e resta in tutta la sua spaventosa pericolosità una situazione determinata da modi di agire e di reagire spazialmente lontani dalla nostra cultura e dalla nostra civiltà». Chi fossero gli assassini si è poi scoperto: Rosa Bazzi e Olindo Romano, i vicini di casa xenofobi e razzisti. Del tutto inseriti, apparentemente, nella «nostra cultura e nella nostra civiltà».
Insistiamo: nessun paragone. Ma gelano il sangue certe parole usate in questi anni. Come un volantino nella bacheca di un'azienda di Pieve di Soligo: «Si comunica l'apertura della caccia per la seguente selvaggina migratoria: rumeni, albanesi, kosovari, zingari, talebani, afghani ed extracomunitari in genere. È consentito l'uso di fucili, carabine e pistole di grosso calibro. Si consiglia l'abbattimento di capi giovani per estinguere più rapidamente le razze». (...) Per irridere amaramente a certi toni tesi a cavalcare l'odio e la paura, l'attore Antonio Albanese ha creato insieme con Michele Serra un personaggio ironicamente spaventoso: «Io sono il ministro della paura e come ben sapete senza la paura non si vive. (…) Una società senza paura è come una casa senza fondamenta. Per questo io starò sempre qua, nel mio ufficio bianco, alla mia scrivania bianca, di fronte al mio poster bianco. Con tre pulsanti, i miei attrezzi da lavoro: pulsante giallo, pulsante arancione, pulsante rosso. Rispettivamente poca paura, abbastanza paura, paurissima». C'è da ridere, e si ride. Ma anche da spaventarsi. E ci si spaventa.
Ecco, in un contesto come questo, in cui perfino un presidente del Consiglio come Silvio Berlusconi arriva a sbuffare a Porta a Porta
sulla xenofobia imputata alla sua coalizione dicendo di non capire «perché questa parola dovrebbe avere un significato così negativo », il libro di Enzo Barnabà sul massacro dei nostri emigranti ad Aigues-Mortes è una boccata di ossigeno. Perché solo ricordando che siamo stati un popolo di emigranti vittime di odio razzista, come ha fatto il vescovo di Padova Antonio Mattiazzo denunciando «segni di paura e di insicurezza che talvolta rasentano il razzismo e la xenofobia, spesso cavalcati da correnti ideologiche e falsati da un'informazione che deforma la realtà», si può evitare che oggi, domani o dopodomani si ripetano altre cacce all'uomo. Mai più Aigues- Mortes. Mai più.

il Riformista 10.10.08
Sulla nostra proposta per migliorare il sistema
Separare le carriere ma anche riformare il diritto penale
di Giuliano Pisapia


Prosegue la discussione sulla riflessione di riforma del sistema giudiziario proposta da Radiocarcere. Riflessione il cui testo è stato aggiornato alla luce di quanto suggerito, sia via mail che dopo diversi incontri, da magistrati e avvocati. Il nuovo documento si può leggere sul sito www.radiocarcere.com.

Uno dei pregi della proposta di Radiocarcere è l'aver affrontato i temi della giustizia soffermandosi sia sugli indispensabili interventi organizzativi e sulle più urgenti riforme ordinarie, sia sulle pur necessarie riforme costituzionali, in un'ottica complessiva che ha come obiettivo quello di accelerare i tempi processuali e di garantire un processo equo.
Del tutto condivisibili sono le proposte tese a «eliminare gli inutili formalismi» e a porre fine agli eccessi (e abusi) delle intercettazioni e della carcerazione preventiva: strumenti di indagine e di tutela che, da "eccezionali" sono diventati usuali (oggi, in carcere vi sono più imputati che condannati). Per non parlare della barbarie dei processi mediatici e, più in generale, della macchina giudiziaria che necessita non solo di maggiori fondi ma anche di operatori in grado di ben utilizzare le risorse e di evitare gli sprechi.
Entrando nel merito dei temi più controversi, bisogna superare l'anomalia italiana della unicità della carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti. La separazione delle carriere rafforzerebbe la terzietà del giudice, senza minare l'autonomia e l'indipendenza dell'intera magistratura (che, però, deve rispettare l'autonomia degli altri poteri dello Stato), anche in quanto chi è favorevole alla separazione è anche fermamente contrario a qualsiasi dipendenza del pm dall'esecutivo. Solo un giudice equidistante tra accusa e difesa può avere la piena fiducia dei cittadini ed essere garante di un giudizio sereno e imparziale. E a chi, per ignoranza o mala fede, fa risalire tale proposta a Licio Gelli o alla P2, non si può non ricordare che la separazione delle carriere ha avuto autorevoli sostenitori nei lavori della Costituente ed è stata condivisa, in tempi non sospetti, da illustri giuristi che hanno illuminato il cammino della democrazia, non solo nel nostro Paese.
Per quanto concerne l'obbligatorietà dell'azione penale, è incontestabile che questa oggi sia solo formale e che, di fatto, vige una discrezionalità che non raramente rasenta l'arbitrio. Ma è anche innegabile che l'articolo 112 della Costituzione è uno dei cardini del principio di eguaglianza davanti alla legge: principio, e valore, non da sopprimere ma da rendere effettivo. Il che sarà possibile solo con quel «diritto penale minimo», di cui tanto si parla nei convegni e nei dibattiti, ma che viene continuamente tradito dal legislatore: basti pensare al reato di immigrazione clandestina o alla proposta di carcere per i writer (più efficacemente contrastabili con una immediata, e adeguata, sanzione amministrativa). Solo un «diritto penale minimo», affiancato da efficaci strumenti deflativi - irrilevanza del fatto, "messa in prova" anche per adulti, aumento dei reati perseguibili a querela, eccetera - renderebbe la giustizia più "equa", celere ed efficiente e porrebbe le basi per rendere effettiva l'obbligatorietà dell'azione penale.
Positiva è, invece, la proposta di modifica della prescrizione, anche perché, a differenza di quanto spesso si crede, la gran parte delle prescrizioni matura nella fase delle indagini preliminari e non nella fase processuale. Non mi convince per nulla, invece, l'esecutività della sentenza di primo grado «in caso di fatto certo»: non credo affatto che diminuirebbero i casi di carcerazione preventiva e aumenterebbero i riti alternativi; temo, invece, un allungamento dei tempi processuali e un aumento delle ingiuste detenzioni e degli errori giudiziari. Mi chiedo, infine, come si possano individuare, prima della sentenza definitiva, i casi di «prova evidente» e di «fatto certo».
Sarebbe in ogni caso auspicabile che qualche parlamentare, possibilmente di diverso schieramento politico, trasformasse in un disegno di legge le "riflessioni" di Radiocarcere, ponendo così a disposizione del Parlamento un importante contributo al confronto e alla ricerca di un punto di equilibrio tra posizioni differenti, ma non necessariamente inconciliabili. Nell'interesse non di una parte, ma della giustizia.

Corriere della Sera Milano 10.10.08
Appello di familiari, volontari e associazioni. «Da sei mesi nessuno ci convoca»
«Salute mentale, 35 mila firme. Ma la Regione non ci ascolta»


«Trentacinquemila firme, ma la Regione continua a ignorarci: chiediamo che si muova e che ci ascolti». Questo l'appello lanciato dagli oltre cento tra enti e associazioni aderenti alla Campagna per la salute mentale a tutela delle migliaia di famiglie lombarde alle prese col dramma della malattia psichica. L'appello viene rilanciato oggi in concomitanza con la Giornata mondiale della salute mentale e col sostegno del cardinale Dionigi Tettamanzi che invoca non solo la «sconfitta di pregiudizi e paure» ma soprattutto un impegno «della società civile, della comunità cristiana e dalle istituzioni pubbliche: sono infatti le buone leggi che governano la società — sottolinea l'arcivescovo — a poter favorire o meno l'inserimento in essa delle persone con disagio mentale, la presa in carico della loro situazione, il sostegno alle loro famiglie, la sensibilizzazione del contesto sociale».
Tra le associazioni che già in marzo avevano appunto raccolto 35 mila firme per una petizione consegnata all'assessorato regionale alla Sanità figura la Casa della Carità che si associa ora alla denuncia di questi «sei mesi di vuoto». le associazioni chiedono in particolare un «aumento delle risorse per la salute mentale portandole ad almeno il 5 per cento della spesa sanitaria regionale», un «piano per dare possibilità di lavoro alle persone con sofferenza psichiatrica», lo sviluppo di case di accoglienza per una «ospitalità leggera, che finora stenta a decollare», infine la «costituzione di un Comitato all'interno dell'assessorato con la partecipazione, a pieno titolo e con pari dignità, di rappresentanti dei famigliari e del privato sociale».

Repubblica Roma 10.10.08
Al Palazzo delle Esposizioni la grande mostra a cura di Mario Torelli e Anna Maria Moretti
Appuntamento martedì 21 ottobre con i capolavori da Veio, Cerveteri, Vulci e Tarquinia. Ricostruito il Tempio di Apollo
Le metropoli etrusche
di Carlo Alberto Bucci


Nell´ottagono di Piacentini che al palazzo delle Esposizioni evoca il Pantheon di Roma, sta prendendo forma il tempio di Portonaccio a Veio. Lo stanno realizzando gli scenografi in vista dell´apertura, il 21 ottobre, della grande mostra "Etruschi, le antiche metropoli del Lazio". Il tempio è di cartapesta. Ma non si tratta delle prove generali per il parco a tema sulla romanità (archeologia virtuale e d´intrattenimento nella città che trabocca di antichità vere). Bensì della ricostruzione filologica, uno a uno, di parte dell´edificio, del VI secolo a. C., che sintetizza al meglio la peculiarità artistica di Veio, la coroplastica. Furono infatti plasmate nell´argilla le figure di Apollo, di Eracle e di Latona, condivise dagli etruschi, dai greci e dai romani. E i tre capolavori in terracotta policroma del museo di Valle Giulia, forse realizzati dallo stesso maestro cui Tarquinio il Superbo commissionò la quadriga in cima al tempio di Giove Capitolino, saranno esposti all´ingresso della mostra. Ma per terra perché saranno le copie delle tre divinità a salire sul tetto del tempio tuscanico.
Neanche il Mediterraneo riuscì a tenere separati i popoli che vi s´affacciavano. Tantomeno il Tevere fu un limite al confronto, in pace come in guerra, tra gli Etruschi, i Latini, i Sabini e gli Umbri. Ed è un fiume ricco di contaminazioni - e carico di importanti di riflessioni intrecciate tra aspetti culturali e cultuali, economici ed estetici - il percorso espositivo ideato da Mario Torelli (autore del progetto scientifico) e da Anna Maria Moretti (fino al 6 gennaio, biglietto 12,50 euro, ma il martedì 9 per i cittadini del Lazio). Una mostra promossa dalla Regione Lazio per raccontare le grandi città dell´Etruria meridionale: Veio, Cerveteri, Vulci e Tarquinia, ma nel loro rapporto, di amore e odio, con la metropoli nascente, Roma. E sono questi gli elementi caratterizzanti l´esposizione romana rispetto a quella veneziana, altrettanto grande, del 2001 a Palazzo Grassi.
Se Veio fu la perla nell´arte della terracotta policroma, Cerveteri - scomparsa l´architettura civile - è grande per la sua città dei morti scavata nel tufo: e la mostra proporrà la ricostruzione «di una delle più singolari realizzazione di questa architettura funeraria», spiega il professor Torelli, la stanza che ha dato il nome alla tomba delle Cinque sedie. Legata a Cerveteri per l´esibizione del lusso e della cultura proveniente dalla Grecia (e lo sfarzo ellenistico è documentato in mostra da monili, gioielli, metalli preziosi per le cerimonie delle nozze e del simposio) è Vulci la cui peculiarità fu però la scultura monumentale (come la "Testa di leone ruggente" che arriva da Berlino) scavata nel duro tufo locale, il nefro.
Infine Tarquinia, il regno della pittura. Dall´area sacra di Gravisca arrivano decine di ex voto che narrano dei riti di morte e resurrezione di Adone, il giovane amato e straziato da Afrodite, poi venerato dalle prostitute. Spazio anche agli affreschi, con scene di banchetto, strappati all´inizio del �900 dalla tomba di Tarantola: sparirono dopo il disastro dell´alluvione di Firenze ed è la prima volta che vengono proposti in pubblico (né mai sono stati fotografati), per di più nella disposizione originaria. Opera fondamentale per raccontare la monarchia etrusca che regnò sui sette colli - tema finale della mostra - è la tomba François da Vulci. Gli organizzatori avevano chiesto ai proprietari il prestito del ciclo con le storie di Mastarna (così gli etruschi chiamavano Servio Tullio) e dei due Vibenna. Ma i Torlonia non hanno neanche risposto alla lettera. E così sarà la ricostruzione virtuale (schermi/pareti con immagini proiettate sul retro) a portare il pubblico tra le storie e i fasti della Roma etruschizzata.

l'Unità 10.10.08
Benedetto XVI vuol beatificare Papa Pacelli. In fretta
«Non tacque su Shoah e nazismo»: così Ratzinger l’ha ricordato alle celebrazioni per i 50 anni dopo la morte
di Roberto Monteforte


«PREGHIAMO perché prosegua felicemente la causa di beatificazione del servo di Dio papa Pio XII». Così ha concluso la sua omelia ieri Benedetto XVI. Se non è
stata la formale firma del decreto di beatificazione di papa Pacelli, ci si è andati molto vicino. È solo questione di tempo e di opportunità. Nella basilica di san Pietro, il Sinodo dei vescovi ha ricordato con una solenne celebrazione presieduta dal pontefice il 50° della morte di papa Pacelli. È stata l’occasione per riaffermare le «virtù» del pontefice romano, rispondendo a tutto campo ai dubbi, le accuse, le perplessità, l’ultima espressa dal rabbino capo di Haifa Cohen invitato al Sinodo, circolate attorno alla figura che ha guidato la Chiesa di Roma dal 1939 sino al 1958. Anni tragici, attraversati da conflitti sanguinosi e persecuzioni. Su Pio XII, soprattutto dagli anni ‘60, pesa un’accusa pesante e insidiosa: l’aver taciuto sulla Shoah, l’essere stato filotedesco e antisemita, più attento al pericolo del comunismo ateo che a quello del nazifascimo, uomo d’ordine anche all’interno della Chiesa. «Non ci fu nessun silenzio di Pio XII verso l’Olocausto e il nazismo» afferma Ratzinger. «Papa Pacelli agì spesso in modo segreto e silenzioso - puntualizza - proprio perchè, alla luce delle concrete situazioni di quel complesso momento storico, egli intuiva che solo in questo modo si poteva evitare il peggio e salvare il più gran numero possibile di ebrei». Sulla beatificazione di Pacelli sono di questi giorni le forti perplessità del mondo ebraico e di Israele. Ricorda le chiese e i conventi, le stesse porte del Vaticano aperti a migliaia di famiglie ebree e agli oppositori del regime nazifascista. E poi i «numerosi e unanimi attestati di gratitudine furono a lui rivolti alla fine della guerra, come pure al momento della morte», dalle più alte autorità del mondo ebraico. Cita le parole del Ministro degli Esteri d’Israele, Golda Meir: «Quando il martirio più spaventoso ha colpito il nostro popolo, durante i dieci anni del terrore nazista, la voce del Pontefice si è levata a favore delle vittime. Noi piangiamo la perdita di un grande servitore della pace». Troppe polemiche e un clima «non sempre sereno» hanno segnato il dibattito storico su questa figura, lamenta Benedetto XVI. Si sarebbe tralasciato di guardare a «tutti gli aspetti del suo poliedrico pontificato». È il papa tedesco a metterli in evidenza. Intanto Pio XII uomo di pace. Ricorda come Pacelli abbia collaborato con Benedetto XV al tentativo di fermare «l’inutile strage» della Grande Guerra, e «per aver colto fin dal suo sorgere il pericolo costituito dalla mostruosa ideologia nazionalsocialista con la sua perniciosa radice antisemita e anticattolica». Quindi ha citato anche i due radiomessaggi pacelliani, quello del 24 agosto del ’39 con cui tentò di scongiurare lo scoppio della guerra, e quello del Natale del ’42, come esempio di intervento contro le persecuzioni anche razziali. Un impegno che segnò la sua azione contro i «totalitarismi» «fascista», «nazista» e «comunista sovietico», Un «pastore» vicino al popolo romano colpito dai bombardamenti. Ma va oltre Ratzinger. Lo presenta come un precursore del Concilio Vaticano II: il pontefice che avvia l’internazionalizzazione della curia romana nominando vescovi africani e asiatici. Che promuove il ruolo dei laici e delle Chiese dei paesi sotto i domini coloniali. È una risposta a chi, anche nella storiografia cattolica, ha contrapposto la forza innovativa di Papa Giovanni XXIII al tradizionalista Pio XII, il Papa che nel 1950 affida l’umanità provata dal conflitto alla Vergine e proclama il dogma dell’Assunzione.

giovedì 9 ottobre 2008

Repubblica 9.10.08
Sinistra in cerca d’autore
Un dizionario politico-culturale
di Simonetta Fiori


Cinquanta intellettuali di ispirazione eterogenea e di varia competenza hanno accettato di misurarsi con i nodi cruciali di una realtà da tempo in crisi: scomparsi i vecchi valori, restano indefiniti i nuovi

Liberaldemocratici sono insieme a socialisti e cattolici
Si rimprovera al Pd la liquidazione di una grande storia
Il mito culturale del popolo è stato regalato alla destra

Ci sono libri più di altri capaci di intercettare lo spirito del tempo. Sinistra senza sinistra è uno di questi (Feltrinelli, pagg. 352, euro 14). Nasce da un´inquietudine diffusa, almeno in una zona non irrilevante del paese: ma è possibile che la sinistra sia davvero finita? Estinta in parte nella sua rappresentanza parlamentare - liquidazione che riguarda l´ala più radicale - soprattutto polverizzata nella battaglia delle idee, nella proposta legislativa su temi essenziali, nella capacità di leggere le trasformazioni del paese? Quel che ci appare oggi nell´agone politico è una sinistra spaesata, balbettante, litigiosa, talvolta incagliata in beghe meschine, sostanzialmente subalterna alla nuova egemonia politica e culturale della destra. Sinistra, appunto, senza sinistra.
Eppure sopravvive oggi una vasta collettività di persone per le quali essere di sinistra ha ancora un senso. Nei grandi richiami ideali ma anche nel comportamento quotidiano. Un popolo di esiliati in patria, paragonati una volta da Cesare Garboli a tanti agrimensori K che vivono ai margini del magico castello dove si decidono, o si dimenticano, i loro destini. Una collettività che include il fattivo mondo dell´associazionismo e del volontariato, che ogni giorno sfida l´inerzia di chi li rappresenta. È anche questa la "sinistra senza sinistra" alla quale si rivolge l´instant book, preparato in velocità dalla casa editrice Feltrinelli grazie all´appassionato contributo di oltre cinquanta intellettuali di ispirazione eterogenea e di varia competenza, tra costituzionalisti, sociologi, filosofi, storici, urbanisti, politologi, giuristi ed economisti, anche operatori sociali ed esponenti dei movimenti. Ne è scaturita un´agenda a più voci, non sempre omogenea nell´intonazione, ma attraversata da un comune sentimento di rabbia per quel che poteva essere e non è stato, e insieme da passione civile per quel che ancora si può fare. Un cahier de doléances, da un lato, che ripercorre le occasioni mancate della sinistra italiana; dall´altra, una sorta di manifesto sui grandi temi della contemporaneità, che richiedono oggi più che mai una voce limpida e ferma. «Un nuovo patto di civiltà», lo definiscono in casa editrice, «al quale dedicarsi con cura e dedizione». Un libro che - aggiungono in via Andegari - un marchio storico come la Feltrinelli non poteva non fare.
Da «Autonomia delle persone» a «Legalità», da «Città» a «Ideologia», da «Diritti umani» a «Famiglia», da «Coscienza di classe, coscienza di luogo» a «Immigrazione», sono oltre cinquanta i lemmi che compongono questo nuovo dizionario politico-culturale d´una sinistra declinata nelle diverse anime, liberaldemocratica, socialista e cattolica. Una sorta di alfabeto civile - composto tra gli altri da Chiara Saraceno, Stefano Rodotà, Giorgio Bocca, Rossana Rossanda, Giorgio Ruffolo, Guido Rossi, Chiara Valentini, Tomàs Maldonado, Ilvo Diamanti, Luciano Gallino, Gad Lerner, Tito Boeri, Adriano Sofri, Gianfranco Pasquino, Luciano Canfora - che pur incompleto può però servire da bussola in un´Italia segnata da degrado istituzionale e morale, disgregazione sociale, scarsa memoria storica. Amnesia che ha contagiato pericolosamente anche la gauche.
Nella discontinuità delle voci, c´è una trama comune che le attraversa. Quel che si rimprovera al Partito Democratico è il taglio reciso con i propri legami ideali, la liquidazione brusca d´una storia intellettuale che annovera a sinistra molti padri nobili, l´assenza d´una elaborazione culturale che ne definisca il percorso e la base sociale. Ne è scaturito un «indistinto, incolore, incolto», denuncia Pasquino, privo di una cultura politica precisa, nonostante la promessa d´una felice sintesi delle migliori culture riformiste del paese. Insieme all´ideologia come visione fideistica della storia, incalza Nadia Urbinati, è stata buttata via anche l´ideologia quale politica delle idee, necessaria in ogni democrazia. Quel corpus di valori - così sintetizza Marc Lazar - solo attraverso il quale passa l´identità, e la capacità di mobilitare.
In questa furia autolesionistica, sembra quasi fatale la subalternità agli slogan populisti della destra. Un cedimento denunciato dagli studiosi in terreni diversi, dalla sicurezza ai flussi migratori, dalla famiglia alla fecondazione artificiale, dalla teoria della città alla giustizia, fino all´uso pubblico della storia. Quel che la sinistra ha regalato in questi anni alla destra - scrive Aldo Bonomi - è il potentissimo mito culturale del popolo. «È venuto meno quell´elemento che garantiva la connessione con il paese profondo e la sua cultura, la capacità di esprimere e reinventare il popolare, o nelle parole di Gramsci il nazionalpopolare come mastice tra nazione culturale e nazione politica, tra territorio e Stato, tra comunità e rappresentanza». Per rimettere insieme i cocci della "nuova sinistra" occorrerà ripartire da qui, dalla conoscenza del territorio - "coscienza di luogo", la definisce il sociologo - legata alle travolgenti trasformazioni del capitalismo globale. Proposte, idee, tentativi di definire una sinistra moderna. Soprattutto, la volontà di riscrivere quella vignetta di Altan dove all´omino col basco che rivendica "Ma io sono di sinistra!" replica accigliato l´amico: "Piantala, che ci stanno guardando tutti".

l’Unità 9.10.08
Se i poveri vanno a destra
di Nicola Cacace


Robert Reich, che nel 2004 aveva previsto la sconfitta di Al Gore, oggi prevede la vittoria di Obama.

Nel mezzo di una crisi finanziaria mondiale, frutto di una deregulation portata avanti dalla destra che produce disastri simili a quelli del ’29, deregulation che oggi tutti condannano, ci si chiede «perché i poveri votano a destra». Infatti la destra è avanzata, in America come in Europa, in un ventennio segnato da concentrazione di ricchezza e aumento delle povertà, col risultato che oggi in quasi tutti i Paesi poco meno della metà della ricchezza nazionale è nelle mani dell’1% delle famiglie, mentre prima del 1980, prima cioè dell’avvento di Reagan e della Thatcher, la quota posseduta dall’1% delle famiglie era poco più di un terzo.
Allora è vero che i poveri votano a destra? È vero che tra i poveri, gli operai e i ceti medi produttivi colpiti da perdite del potere d’acquisto e di status, aumentano insicurezze e paura del futuro, indirizzate abilmente dalle destre populiste contro i “diversi”, immigrati, gay, studenti ribelli del ‘68 e contro le politiche di solidarietà e dei controlli? Se è così, questo avviene anche per carenze culturali della sinistra nel fare analisi e proporre cure che spesso si confondono con quelle della destra.
A sostegno di questa tesi citerò passi di un libro di R. Reich, ministro del Lavoro del primo governo Clinton, oggi docente alla Brandeis University dal titolo significativo: «Ragiona! Perché i liberal vinceranno la battaglia per l’America» (liberal sta per progressista). L’autore spinge i democratici a ragionare con analisi e programmi ispirati agli interessi del Paese, che oggi più che mai ha bisogno di politiche di solidarietà sociale e di controlli pubblici se vuole evitare grandi depressioni come nel ‘29 e crisi gravi come quella di oggi, dovute, oltre che dall’assenza di controlli, al calo dei consumi e della domanda interna da impoverimento di massa.
«Anziché sul rafforzamento della moralità pubblica - i finanzieri di Wall Street senza controlli e con paghe esorbitanti - i “radcon” (radicali conservatori) si concentrano sulla moralità sessuale. Essi preferiscono regolamentare le camere da letto piuttosto che le stanze dei consigli d’amministrazione. ... Elemento determinante del successo della destra sono le truppe d’assalto mediatiche, che puntano sulle insicurezze e le paure di chi non arriva a fine mese, convincendo i cittadini che tutti i loro guai vengono da malattie esterne portate dalla sinistra, immigrati, ambientalisti, studenti, gay, arabi e comunisti. Le vetrine mediadiche sono finanziate da un gruppo di magnati dei media come Murdoch e il reverendo Sun Myung Moon e sostenute da giornali come Wall Street Journal, Weekly Standard, Washington Times, New York Post, New York Sun... Dopo aver conquistato le radio - 600 stazioni con 20 milioni di ascoltatori raggiunti nel 2003 - i radcon conquistano la Tv. Fox News di Murdoch nel 2002 supera Cnn nella guerra degli ascolti tra i canali d’informazione via cavo. Il dominio dei radcon non è dovuto solo al denaro e ai media. Alcuni attribuiscono l’eclissi dei democratici al fatto che il partito non ha saputo tenere il passo con un elettorato diventato più conservatore. Sono proprio quelle persone più danneggiate dalle politiche conservatrici dei repubblicani che, presi da insicurezza e paura, sono spinti ad incolpare gli altri. I radcon sono stati bravi a orientare paure ed insicurezze sui liberal. Molti democratici sostengono di essersi dovuti spostare al centro per seguire l’elettorato. Non serve coraggio per spostarsi al centro come viene definito dai sondaggi. Se vuoi essere un politico leader con tue idee sei tu che stabilisci il centro, non lasciando ai sondaggi dirti dove andare. Al massimo i sondaggi ti dicono da che parte sta la gente ed è inutile portarla dove già si trova, devi portarla in direzione dei tuoi valori e dei suoi veri interessi... Molti democratici hanno smesso di votare. Alle presidenziali del 2000 votarono i tre quarti degli elettori con redditi superiore ai 75mila dollari, solo un terzo di quelli con redditi inferiori ai 10mila. Con un astensionismo più equilibrato Al Gore avrebbe stravinto».
In sostanza Reich è convinto che i democratici torneranno ai loro valori storici rooseveltiani di capitalismo sociale di mercato senza confondersi con la destra su temi come sanità, fiscalità, paradisi fiscali, controlli sulla finanza e senza inseguire più un centrismo che continua a spostarsi verso destra. Allora non ci sarà partita alle prossime elezioni, una volta convinta la maggioranza degli americani che i loro interessi sono meglio tutelati dalle politiche liberal che da quelle protocapitaliste asservite all’avidità dei Cheney, dei Bush e dei loro amici.

Repubblica 9.10.08
Senegalese ammanettato davanti alla scuola del figlio
Tensione a Milano: l´uomo aveva lasciato l´auto in divieto di sosta. Le proteste degli altri genitori
di Massimo Pisa


Il vicesindaco De Corato: "La tesi del movente razzista è infondata"
A Rovereto un diciottenne di colore picchiato da una decina di coetanei

MILANO - Steso a pancia in giù a terra, con le mani dietro la schiena e le manette ai polsi, circondato da sei vigili davanti a decine di genitori e bimbi, compreso il figlio di 6 anni. Così si è ritrovato ieri mattina Moussa Dita, senegalese, 43 anni, da sedici a Milano dove lavora come operaio, sposato con una donna italiana. Aveva parcheggiato sul marciapiede davanti alla scuola elementare di via Mantegna, tra la Rai di corso Sempione e Chinatown, ed è stato bloccato da due vigili del vicino comando di zona che gli contestavano il mancato uso delle cinture di sicurezza per il piccolo: «Volevano le chiavi della mia macchina - racconta - mi hanno detto che me l´avrebbero sequestrata. Ho risposto che dovevano chiamare il carro attrezzi, e che li avrei pure seguiti, ma prima dovevo portare il bimbo a scuola».
L´uomo è stato immobilizzato, mentre il figlio veniva accompagnato in classe dalla mamma di un compagno, identificato e denunciato per resistenza al vicino comando di zona. Qui è arrivata anche una dozzina di genitori, decisi a mettere a verbale le proprie proteste, raccolte più tardi in volantini affisso ai cancelli dell´elementare con l´emblematico titolo: "Milano sicura?". Per i vigili - due di loro sono stati medicati, escoriazioni guaribili in 7 e 5 giorni - si è trattata di una reazione a un tentativo di aggressione. «La tesi del movente razzista è infondata e offensiva», s´affretta a dichiarare il vicesindaco Riccardo De Corato, che aggiunge: «Aspetto una relazione scritta dal comandante emiliano Bezzon. Se la reazione dell´uomo non c´è stata è chiaro che ci troviamo davanti a un eccesso». Il Pd milanese chiede chiarimenti «per fugare ogni dubbio».
Ed è stato un messaggio su un blog internet a rivelare un episodio di razzismo accaduto nei giorni scorsi a Rovereto, dove un diciottenne di colore adottato da una famiglia locale è stato picchiato da una decina di coetanei che l´hanno affrontato in gruppo costringendolo a inginocchiarsi e a scusarsi «per l´appartenenza a una razza inferiore». La vittima ha scelto per quieto vivere di non presentare denuncia ma conferma nei dettagli quanto accaduto durante una festa e riportato su internet da uno studente che era presente sul posto: «Tutta colpa di un litigio per una ragazza», racconta il ragazzo di colore. «Hanno iniziato a chiamarmi "scimmia rasta", "negro di merda" e avanti di questo passo. Io ho lasciato perdere e mi sono allontanato, ma al termine della festa li ho incontrati nuovamente. Erano in dieci, mi hanno scaricato addosso una valanga di insulti razzisti, pretendevano che mi scusassi. Ero furioso ma loro erano troppi, mi sono scusato ma quando mi hanno ordinato di farlo in ginocchio ho protestato con una spinta e sono stato colpito con un pugno al volto e quindi spinto su una balaustra. Ero nervosissimo, ma me la sono fatta passare. Ora cerco solo di non pensarci».
Tutto questo mentre il ministro dell´Interno Roberto Maroni, nel corso del question time alla Camera, ha difeso l´attività delle forze dell´ordine nel caso di Amina, la 51enne somala che ha denunciato maltrattamenti all´aeroporto di Ciampino da parte della polizia: «Hanno agito correttamente - ha detto, annunciando la costituzione di parte civile del Governo all´eventuale processo - non tutti gli episodi denunciati sono riconducibili ad atti di razzismo».
(ha collaborato Andrea Selva)

Repubblica 9.10.08
Il Papa: accogliete immigrati e profughi e il cardinale chiede nuove moschee nella Ue
di Orazio La Rocca


CITTÀ DEL VATICANO - «Accogliere e farsi carico di immigrati, rifugiati, profughi, senza fissa dimora, perseguitati». E´ quanto torna a chiedere papa Ratzinger nel messaggio per la Giornata dei migranti che la Chiesa celebrerà il 18 gennaio 2009. Il testo è stato presentato ieri in Vaticano dal cardinale Renato Raffaele Martino (presidente dei Pontifici consigli dei Migranti e di Giustizia e Pace), il quale - per l´occasione - ha anche criticato quei governi che «seguono politiche di chiusura nei confronti degli immigrati», e sostenuto la necessità che «in Europa ai fedeli islamici siano assicurate nuove moschee e dignitosi luoghi di culto».
Il «modello» indicato da Benedetto XVI è S. Paolo, l´apostolo delle genti, a suo tempo - ha detto - «migrante per vocazione» per annunciare il Vangelo nel mondo allora conosciuto. Oggi, sull´esempio di Paolo, la Chiesa - esorta il Papa - è chiamata a guardare «con attenta sollecitudine pure al variegato universo dei migranti - studenti fuori sede, immigrati, rifugiati, profughi, sfollati - includendo le vittime delle schiavitù moderne, come ad esempio nella tratta degli esseri umani». I cristiani, avverte ancora Ratzinger, siano sempre «solidali con i nostri fratelli migranti» e «promuovano in ogni parte del mondo e con ogni mezzo la pacifica convivenza fra etnie, culture e religioni diverse».
D´accordo «col Papa e col cardinale Martino», Fabio Sturani, sindaco di Ancona e vice presidente Anci con delega all´immigrazione, il quale, oltre a precisare che «non serve la politica di chiusura delle frontiere», richiama la Lega Nord per aver proposto per gli immigrati «l´introduzione dei diritti a punteggio». Dal fronte parlamentare, plaude a Ratzinger Pierluigi Castagnetti (Pd) che invita il governo a fugare ogni «pericolo di razzismo e xenofobia» e «ad ascoltare i richiami della Chiesa». Richiami che, comunque, «non resteranno inascoltati, anche perché l´invito ad accogliere immigrati e profughi va nella direzione che il governo ha sempre percorso», assicura Maurizio Lupi, Pdl, vice presidente della Camera.

l’Unità 9.10.08
La Chiesa: la xenofobia spinge i migranti verso l’irregolarità
di Roberto Monteforte


Rifugiati, richiedenti asilo e migranti, sfollati e profughi vanno accolti. L’invito arriva direttamente da Benedetto XVI. «Il fenomeno non lo si affronta chiudendo le frontiere, ma accogliendo» spiega nel suo messaggio per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato che si terrà il prossimo 18 gennaio, presentato ieri alla stampa dal cardinale Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio consiglio per i Migranti e dei Rifugiati e dal segretario del dicastero, l’arcivescovo Agostino Marchetto. Accogliere è un dovere. Il Papa aggiunge: «con un giusto regolamento, equilibrato e solidale, dei flussi migratori da parte degli Stati». Scuote le coscienze Ratzinger e non solo quelle dei credenti. Si rivolge anche agli Stati, ai governi, alle istituzioni. Di fronte ad uno dei fenomeni più rilevanti e inarrestabili della globalizzazione che vede oltre duecento milioni di uomini, donne e bambini a migrare spinti dalla miseria, dalla fame, dalla violenza, dalla guerra, dalle rivalità etniche come pure dal desiderio di una vita migliore raggiungendo i paesi più ricchi. Il Papa invita ad accogliere queste «vittime delle schiavitù moderne», queste «vittime nella tratta degli esseri umani». Loro, i più deboli e i più indifesi, spesso i più esclusi dalla società, segnati da precarietà e da sicurezza, emarginati vanno accolti, di loro c’è bisogno. Eppure spesso sono vissuti come «invasori». È il diffondersi di xenofobia e razzismo che preoccupa la Chiesa. Come pure il clima di chiusura e ostilità che si respira. «Questo clima di chiusura rende ancora più triste e amara la vicenda umana di molti immigrati, spingendoli altresì a condizioni di irregolarità» spiega il cardinale Martino. «Bisogna facilitare - aggiunge - una graduale integrazione dei migranti, nel rispetto della loro identità culturale e anche di quella della popolazione locale». Ai governi europei il Vaticano chiede di guardare ai lavoratori stranieri non come «invasori», ma «come collaboratori, persone umane con tutti i diritti», compresi quelli religiosi. E, a questo proposito, l'esponente della Santa Sede si è detto favorevole anche all'apertura di nuove moschee in Europa. «La Chiesa - ha aggiunto il porporato - non può fare altro che auspicare che la dignità umana delle persone sia rispettata, perchè o residente, o rifugiato o immigrato tutti abbiamo gli stessi diritti, perchè tutti apparteniamo alla razza umana. I diritti - ha ammonito - non sono una concessione di nessuna autorità». È ancora più di merito è stato l’atto di accusa mosso da Marchetto. «Da anni i rifugiati vengono trattati senza considerazione delle ragioni che li forzano a fuggire». Invece «i singoli Stati sono invitati a difendere i diritti di quanti fuggono, a causa di persecuzione, dai loro Paesi e a proteggerli a norma del diritto internazionale». Oggi, invece, sono in atto «tentativi di impedire loro l’ingresso nei Paesi di arrivo con l’adozione di misure destinate a renderlo più difficoltoso». È la «tendenza al ribasso», l’«erosione degli standard umanitari» con «l’introduzione di norme restrittive, quali l’obbligo del visto di ingresso».
Brutto segno. Va sul concreto Marchetto. A chi gli chiede un commento sul «diritto d’asilo a punti» avanzato dalla Lega, risponde che «matrimoni, assistenza sanitaria e religiosa agli immigrati» sono aspetti su cui «la Chiesa cattolica ha particolare sensibilità» e sui quali «verificherà ed analizzerà». «È giusto il richiamo del Papa e del Vaticano in tema di immigrazione e sicurezza, con preoccupazione di segnali di razzismo e xenofobia» è il commento del direttore di Famiglia Cristiana, don Antonio Sciortino. «Il richiamo è pertinente - commenta - perchè c'è una cultura della non accoglienza e le stesse proposte di legge fatte in questi ultimi tempi non mirano all'integrazione, ma rendono difficile l'accoglienza-integrazione». Contro il permesso a punti si schierano anche Acli e Cgil. Il ministro degli Interni, Maroni, rigetta l’accusa: in Italia non esiste un allarme razzismo.

l’Unità 9.10.08
Laboratorio Puglia. Con Vendola e l’Udc
di Simone Collini


«Qui siamo riusciti a mettere d’accordo cattolici e ortodossi, figuriamoci se non ce la facciamo a costruire il Partito democratico». Michele Emiliano non è tipo da farsi scoraggiare da qualche difficoltà. La stazza di ex giocatore di basket fa la sua parte, e poi a completare il ritratto del personaggio c’è la sua storia. «Io mi siedo qui», dice mentre nel ristorante si sistema con le spalle al muro. «È una vecchia abitudine». Di quando era magistrato antimafia, nella vita precedente quella di sindaco di Bari e segretario del Partito democratico. «L’altra l’ho persa subito perché non si mangia comodi con la pistola qua sotto», sorride mentre si infila una mano sotto la coscia destra. Figurarsi se uno così si fa impressionare da chi gli contesta il doppio incarico, da chi sostiene che il Pd pugliese è ancora privo di fisionomia e struttura, lamenta la poca apertura alla società civile o il mancato avvio del tesseramento. «Questo è un posto che non si può occupare a lungo - dice del suo incarico di segretario regionale dei democratici - perché sennò il partito smette di essere un organismo vivo, come deve essere». Però ci tiene a ricordare un paio di dati: «Sono stato eletto sindaco con un vantaggio di 13 punti, mentre lo stesso giorno alle europee il centrosinistra è stato staccato di 11 punti». A fare la differenza è stata la «lista Emiliano», che alle comunali prese il 18%. C’è chi l’accusa di populismo e personalismo: «Figuriamoci, ho sofferto per il nome di quella lista. Ma la risorsa della società civile è troppo preziosa per sottovalutarla. L’apertura deve essere una nostra caratteristica».
E però qualcosa non torna se un altro esponente del Pd come Francesco Boccia dice che quel «patrimonio», che si è fatto notare sia alle urne nella cosiddetta «primavera pugliese» che alle primarie dell’anno scorso (ai gazebo sono andati il triplo di quelli che avevano votato la volta prima per Prodi), «è andato a farsi benedire». Colpa delle elezioni anticipate e della legge “porcellum”, sostiene lo sfidante - sconfitto - di Nichi Vendola alle primarie per la presidenza della Regione. «I mondi esterni ai Ds e alla Margherita non sono stati valorizzati, si è fatta fatica a inserirli negli organismi dirigenti», lamenta il deputato Pd, esponente di punta della componente lettiana, che da queste parti è piuttosto corposa (alle primarie Enrico Letta qui ha preso circa il 30% dei voti, il triplo rispetto alla media nazionale). «Il voto anticipato ha fatto riprendere il sopravvento alle nomenclature dei due partiti d’origine. La campagna di adesione ora deve far voltar pagina, altrimenti siamo cotti».
Il problema è che il tesseramento tante volte annunciato ancora non è partito. «Abbiamo istruito la pratica, cominciamo a giorni», assicura e rassicura Dario Ginefra. Il segretario del Pd barese ce la mette tutta per spiegare che non si tratta di un ritardo rispetto alla tabella di marcia ma della necessità di metabolizzare nei tempi giusti un’operazione del tutto nuova. Per dire, anche il fatto che ancora non sia stata aperta la sede del Pd cittadino viene spiegato col fatto che si preferisce non andare in quella della Margherita in Piazza Moro o in quella dei Ds di Corso De Gasperi. Intento nobile, però intanto le riunioni dei democratici baresi si svolgono nella sede del regionale, con alle pareti il manifesto «Vota Ds», quello per il settantesimo anniversario dalla morte di Antonio Gramsci e disegni a inchiostro di china piuttosto antichi dedicati tra l’altro a l’Unità. Nessuno sa chi sia l’autore, tra i ragazzi che discutono animatamente in una stanzetta delle primarie dei “young dem””: «Mi sembra chiaro che qui non si discute in termini di maggioranza e minoranza», ammonisce una brunetta con tono deciso senza che nessuno abbia il coraggio di contestarla.
Anche perché da queste parti si fatica a vedere maggioranze e minoranze consolidate. Piuttosto, il Pd qui assomiglia più che altro a un arcipelago in cui i ponti di collegamento compaiono e scompaiono qui e là a seconda delle maree, con dinamiche che solo in parte sono definibili con le categorie “classiche”. Per dire, «dalemiano di ferro», usata per far riferimento agli esponenti della componente più corposa, è una definizione che qui accomuna molti e che però viene assegnata a personalità che, da una provincia all’altra, da un’istituzione all’altra, non si risparmiano colpi. Poi c’è la componente dei lettiani, minoritaria ma tutt’altro che residuale, e quella che fa capo a Emiliano, che lavora per mantenere buoni rapporti coi vertici nazionali e locali senza tagliarsi ponti in nessuna direzione. Discorsi che il segretario di Bari Ginefra vuole lasciarsi alle spalle: «È ora che finisca la querelle avviata dopo le elezioni, con la campagna di adesione e poi con la conferenza programmatica dobbiamo accantonare tutti i personalismi».
«Il Pd è ancora un ibrido», nota Franco Cassano. Il sociologo ha contribuito ad aprire una polemica sul mancato avvio del tesseramento. «Se decidi di iscriverti te la porto personalmente», gli ha risposto a distanza Emiliano. Ma per il docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi la questione non è solo tecnica, ma strutturale e psicologica. «Il tesseramento è legato alla forma partito, che ancora non mi sembra sia stata chiaramente decisa. E poi tesserarsi vuol dire avere fiducia, mentre ho visto persone partite cariche di entusiasmo ora in preda alla depressione». E un «giudizio sospeso» viene dal presidente di Confindustria Bari Alessandro Laterza: «Molte premesse sono state poste, ma bisogna vedere gli effetti. I giudizi si esprimono sui risultati, non sulle intenzioni».
La necessità di procedere rapidamente alla costruzione del Pd è duplice, qui più che altrove. La tenuta della «primavera pugliese» - cioè la stagione che dopo anni di egemonia della destra ha portato all’elezione del comunista Nichi Vendola alla Regione, dell’imprenditore Vincenzo Divella alla provincia di Bari e dell’ex magistrato Emiliano al comune capoluogo - sarà messa a dura prova già dalle amministrative del prossimo anno: Emiliano dovrà vedersela con l’ex sindaco Simeone Di Cagno Abbrescia mentre Divella ha fatto sapere che potrebbe anche non ricandidarsi se si renderà conto di «dover correre al buio». Il Pd deve contrastare il vento cambiato rafforzandosi e lavorando sulle alleanze. Non a caso la formula che ora inizia a circolare da queste parti non è più quella che ha a che vedere con la bella stagione, ma un’altra, che ha più a che fare con gli esperimenti, il duro lavoro e l’incognita delle possibilità: «Laboratorio Puglia».
Si tratta di un’espressione utilizzata anche l’altra sera, per il faccia a faccia tra D’Alema e Vendola che ha chiuso la festa di Bari del Pd. «Essere a vocazione maggioritaria non significa avere l’autosufficienza», è la convinzione del presidente di Italianieuropei. «Dobbiamo guardare con attenzione a ciò che succede a sinistra e saper dialogare con i moderati che non si riconoscono in questo governo». Un doppio messaggio, lanciato sia in direzione di Vendola, che invece di tirarsi indietro ha definito «un errore» l’aver convocato due manifestazioni distinte contro il governo, che dei centristi dell’Udc. Quella di D’Alema, che le dinamiche politiche di queste parti le conosce piuttosto bene, non è una palla lanciata a caso. In Regione il dialogo tra il Pd e Vendola è già avviato. E a portarlo avanti sono tutt’altro che seconde file, visto che si tratta del vicepresidente della giunta regionale Sandro Frisullo e del capogruppo dei democratici Antonio Maniglio. Primi segnali già arrivano, come l’intesa per evitare il mantenimento dello sbarramento al 4%, come vorrebbe il centrodestra, o l’ipotesi che già alle amministrative della prossima primavera ci siano liste non riconducibili entro i confini della sola Rifondazione comunista. Ma l’operazione a cui pensano i democratici pugliesi è di più ampio respiro e punta ad avere effetti ben al di là dei confini pugliesi. «Il congresso della Bolognina qui ha creato una spaccatura profonda nei gruppi dirigenti», ricorda Ginefra citando percentuali diverse da quelle del resto del paese e i nomi di Vendola, Giordano e di tutti gli altri che non seguirono Occhetto nella svolta del Pds. «Lo scontro è stato duro e ci sono voluti diversi anni per superare quelle distanze. L’esperienza di governo di Vendola ci ha aiutato in questo senso». La sensazione che ha avuto Emiliano guardando alla platea che seguiva il dibattito tra D’Alema e Vendola è stata quella di essere in mezzo a «un popolo unico». Dice Ginefra: «Siamo all’inizio, all’embrione di un possibile progetto, ci vuole cautela e prudenza».
A spiegare di cosa si tratti ci pensa Paolo De Castro. Il presidente di Red, che sta lavorando all’organizzazione di un’iniziativa (il 20 a Bari) sul «Federalismo visto da Sud», usa parole di apprezzamento per il modo in cui Vendola sta governando la Regione. E parole di speranza sul lavoro che il governatore pugliese sta facendo con l’associazione Rifondazione per la sinistra: «Un esperimento che auspichiamo porti avanti fino in fondo». Il senatore del Pd non usa la parola «scissione», ma fa capire a cosa pensi quando dice che «Vendola interpreta in maniera eccezionale ciò che significa essere sinistra di governo» e che il mantenimento della sola «parte migliore» del Prc «renderebbe concreta la possibilità di un’alleanza con l’Udc». Fantascienza? Emiliano racconta la storia della disputa sul patrono di Bari, scoppiata dopo l’arrivo delle reliquie di San Nicola in una città fino allora protetta da San Sabino. Era il 1067. La querelle è stata risolta il secolo scorso, ma è stata risolta. E a proposito del fatto che governa una città che ospita una Chiesa Russa e venera un santo in comune con fedeli greci e russi, Emiliano racconta anche un’altra cosa: «Ho chiamato Veltroni e gliel’ho detto. Cambia esempio, lascia stare Putin».

l’Unità 9.10.08
Prof di religione, privilegiati di Dio
I prof di religione pagati meglio e sempre più numerosi
Per loro non ci sono tagli. E i precari nominati dal Vicariato prendono anche lo scatto biennale di anzianità
di Maristella Iervasi


«OGNI ANNO scolastico vengo assunto in settembre e licenziato in giugno. Non ne posso più. Il mio stipendio, pur avendo una cattedra a 18 ore come tutti gli insegnanti a tempo indeterminato non cresce di un euro. Resta fermo a 1200 al mese. È un’ingiustizia di parità lavorativa. Uno scandalo». Così l’estate scorsa, Pino La Satta, 35 anni, da 7 anni docente precario di diritto, economia e con una specializzazione anche in sostegno presso un istituto professionale a Campobasso, ha avviato un ricorso. Ha colto al balzo la vertenza sulla conciliazione lavorativa lanciata in tutta Italia dalla Flc-Cgil. E spera di poter procedere davanti al giudice del lavoro per costituire un precedente, in forza di una sentenza della Corte di Giustizia Europea pronunciata sul caso di una lavoratrice spagnola precaria di 12 anni che al momento dell’assunzione ha chiesto il riconoscimento dell’anzianità pregressa.
«Ho fatto i calcoli - sottolinea il professore precario - ho perso finora 4mila euro lordi. Mentre ci sono altri docenti che hanno gli scatti pur essendo precari come me. Sono intoccabili, perfino dai tagli della Gelmini». Il riferimento è agli insegnanti di religione, che vengono pagati dallo Stato e nominati dal Vicariato su organici regionali. Oltre 25mila prof di fede cattolica privilegiati da sempre: sia che siano supplenti precari che di ruolo. Uno caso che pone la questione della violazione del principio di uguaglianza e sul quale la Commissione Europea ha aperto un dossier. Bruxelles, dopo l’esposto del deputato radicale Maurizio Turco, pretende adesso spiegazioni dal governo Berlusconi. Ma come stanno le cosè?
La Gelmini per volontà di Tremonti ha deciso che la scuola deve dimagrire di 87.400 posti docenti, di cui 30mila solo nelle elementari. Ma la mannaia creativa - e l’ha dichiarato il ministro stesso a Porta a Porta - non riguarda gli insegnanti di religione. Che restano sempre dei privilegiati. I loro stipendi crescono del 2% circa ogni 2 anni sia da semplici supplenti che di ruolo. Mentre tutti agli altri insegnanti a cui si applica il contratto devono sottostare a tempi più lunghi per l’avanzamento di carriera: 6-7 anni, i cosidetti gradoni. Mentre i precari di matematica o italiano restano al palo.
Il tutto è frutto della revisione dei Patti Lateranensi sottoscritti nel 1984 dal presidente Bettino Craxi e dal cardinal Agostino Casaroli. A cui seguì una legge, la n.186 del 18 luglio 2003: «Norme sullo stato giuridico degli insegnanti di religione cattolica negli istituti e delle scuole di ogni ordine e grado». E l’accordo Miur-Cei del 23 ottobre 2003, tra l’allora ministro dell’Istruzione Letizia Moratti e il cardinal Camillo Ruini. Prima di allora gli insegnanti di religione erano sì scelti dalle Curie e pagati dallo Stato ma non potevano entrare di ruolo. Ogni anno dovevano essere riconfermati con il placet del vescovo ma rischiavano di restare precari a vita, fermi al primo livello stipendiale. Da qui la scelta di maggiori tutele rispetto agli altri insegnanti: dopo 4 anni consecutivi di lavoro a scuola, il diritto degli scatti biennali. Con la legge del 2003 si prospetta però la loro stabilizzazione. Ma quel privilegio non viene cancellato. Vige tutt’ora. Le prime assunzioni con Moratti, bel 2005-2006: 9.229 insegnanti su complessivi 24.412 precari. Le assunzioni successive, come d’intesa con la Chiesa, avvengono gradualmente di 3mila unità nel 2005-2006 e nel 2007-2008, coprendo fino 70%: 15mila posti docente in totale; il 30% è supplente.

l’Unità 9.10.08
Scuola, contro la Gelmini sarà sciopero generale
di Giuseppe Vittori


Approvato dall'aula, il decreto Gelmini «sul maestro unico» è invece bocciato dal mondo della scuola che si prepara a scendere in piazza rispondendo all'appello dei sindacati. Ieri sera Cgil, Cisl, Uil, Snals e Gilda hanno deciso lo sciopero generale. Per conoscere la data della mobilitazione bisognerà però aspettare l'esito del tentativo di conciliazione previsto oggi al Miur. Un appuntamento, quello messo in cantiere dai sindacati di categoria, al quale si arriva dopo una marcia di avvicinamento cominciata già da settimane e costellata da sit-in davanti al ministero, iniziative spontanee di protesta, occupazioni, «notti bianche», dal Nord al Sud della penisola.
Domani un assaggio del malcontento arriverà ancora dagli studenti che manifesteranno in decine di città. «L'approvazione del voto di fiducia alla Camera sul decreto Gelmini - spiega l'Unione degli studenti - rappresenta un ulteriore atto antidemocratico di un governo che elude le tante manifestazioni di dissenso e con violenza prova ad affermare il proprio autoritarismo. Per questo domani porteremo in piazza tutta un'altra musica, alle 70 manifestazioni da noi organizzate». «Ci mobilitiamo - spiega un'altra associazione studentesca, la Rete degli studenti - contro i tagli di 8 miliardi di euro alla scuola pubblica, che è la vera riforma messa in campo dal governo Gelmini-Tremonti-Berlusconi. Contro un governo che conta balle, per rivelare la verità all'opinione pubblica».
Dai ragazzi la contestazione passerà quindi nelle mani del sindacalismo di base: i Cobas guidati da Piero Bernocchi, tra i primi, hanno proclamato uno sciopero, in calendario per il 17 ottobre. Insomma, il fronte della protesta è ampio e non si ferma certo alla scuola. Anche le università sono in subbuglio per i tagli previsti in Finanziaria.
L'ateneo di Firenze è in prima linea: dopo l'occupazione delle aule del polo scientifico di Sesto Fiorentino e della facoltà di agraria, ieri si è passati al volantinaggio e agli striscioni srotolati dai ponti Santa Trinità e Carraia contro tagli e privatizzazione; e domani si farà lezione per strada. Anche a Pisa ieri assemblea in piazza: circa 3.000 persone fra ricercatori, impiegati amministrativi e tecnici precari, più studenti e professori, si sono ritrovati in piazza dei Cavalieri per discutere dei provvedimenti presi dal governo, a partire dal precariato. Proteste anche nella Capitale, dove, dopo una settimana di agitazione, sono scesi di nuovo in piazza i precari degli enti pubblici di ricerca, per protestare, sotto il ministero dell'Istruzione, contro l'emendamento che sopprime di fatto le stabilizzazioni.
Intanto, ieri la Camera si è dedicata all'esame dei 242 ordini del giorno, per la maggior parte presentati dall'opposizione, al decreto legge Gelmini. Oggi pomeriggio è previsto il voto finale sul provvedimento che dovrà, poi, passare al Senato.

Repubblica 9.10.08
In piazza contro la riforma del maestro unico voluta dalla Gelmini
Decisione unitaria dei sindacati. La data si conoscerà domani, forse il 30
Scuola, i sindacati hanno deciso
Anche l’Università in lotta. Firenze in prima linea
Brunetta ai prof: guadagnate troppo
"Sarà sciopero generale"
di Mario Reggio


ROMA - La scuola scende in piazza. Ieri sera i segretari di Cgil, Cisl, Uil, Snals e Gilda hanno raggiunto l´accordo. Sciopero nazionale e manifestazione a Roma. La data sarà ufficializzata oggi, dopo il tentativo di conciliazione al ministero della Pubblica Istruzione. Ma probabilmente sarà giovedì 30 ottobre. Oggi alla Camera il voto di fiducia sul decreto Gelmini. Poi il provvedimento passerà al Senato. Una vera corsa contro il tempo perché, per diventare legge, dovrà essere approvato entro e non oltre il 31 ottobre. Domani saranno gli studenti della "Rete" a scendere in piazza in settanta città, «contro i tagli di 8 milioni di euro, contro un governo che racconta balle, per rivelare la verità all´opinione pubblica».
In attesa delle manifestazioni e del voto di fiducia il ministro Renato Brunetta ha deciso di gettare benzina sul fuoco. «I nostri insegnanti lavorano poco, quasi mai sono aggiornati e in maggioranza non sono neppure entrati per concorso - afferma - ma grazie a sanatorie. E poi 1.300 euro sono comunque due milioni e mezzo di vecchie lire, oggi l´insegnamento è part-time e come tale è ben pagato». Piero Bernocchi, portavoce dei Cobas della scuola, risponde per le rime: «Senti chi parla, Brunetta da docente universitario prende quattro volte lo stipendio di un insegnante di scuola e ha un orario molto più ridotto. Parla delle ore di insegnamento ma si scorda quelle che il docente impegna per preparare le lezioni, aggiornarsi e valutare gli studenti. La sua uscita bizzarra contribuirà al successo del nostro sciopero e della manifestazione del 17 ottobre a Roma».
Maria Pia Garavaglia, ministro ombra dell´Istruzione del Pd, invita Brunetta «ad avere maggior rispetto per chi lavora nel mondo della scuola. Il governo la finisca con questa opera diffamatoria e metta a disposizione i fondi, invece di tagliarli». Secondo Giorgio Rembado, presidente dell´associazione nazionale presidi, «lavorano poco i docenti che lavorano male. Chi prepara le lezioni, si aggiorna e corregge i compiti facendolo con coscienza fa un lavoro a tempo pieno. Bisogna rivedere le modalità di reclutamento, legando l´assunzione a criteri meritocratici ed eliminando le graduatorie che prevedono che si faccia carriera per anzianità e non per le abilità conseguite». Ma il fronte di protesta non si ferma alla scuola. L´ateneo di Firenze è in prima linea: dopo l´occupazione delle aule del polo scientifico di Sesto Fiorentino e della facoltà di agraria, ieri si è passati al volantinaggio e agli striscioni srotolati dai ponti Santa Trinità e Carraia. Anche a Pisa oggi assemblea in piazza: circa 3.000 persone fra ricercatori, impiegati amministrativi e tecnici precari. Proteste anche nella capitale, dove, dopo una settimana di agitazione, sono scesi di nuovo in piazza i precari degli enti pubblici di ricerca, per protestare, sotto il ministero dell´Istruzione, contro l´emendamento che sopprime di fatto le stabilizzazioni.

Repubblica 9.10.08
Eluana, la Consulta dice no al Parlamento
Aborto terapeutico, il consiglio di Stato boccia la Lombardia e il limite a 22 settimane
di Piero Colaprico


Inammissibile il conflitto di competenza Anche i giudici ordinari danno ragione a papà Englaro

MILANO - Torto al Parlamento sulla vicenda di Eluana Englaro da parte della Corte costituzionale. Torto alla regione Lombardia sulle linee guida dell´aborto da parte del Consiglio di Stato. È un caso, ma questa doppia sconfitta, nello stesso giorno, della politica più prona alle richieste della Santa Sede ha un aspetto comune. Vittorio Angiolini, che è legale sia di papà Beppino sia dei medici della Cgil: «I giudici - dice il costituzionalista - bacchettano chi cerca di piegare le leggi oltre il limite. Comunque in un caso, quello dell´aborto, c´è la questione della difesa del rapporto tra medici e pazienti, tenendo i politici un po´ più lontani di quanto vogliono. Nell´altro, quello di Eluana, siamo all´opposto, e cioè bisogna stabilire che i medici, a un certo punto, devono fermarsi e rispettare il paziente».
Se il consiglio di Stato che respinge il ricorso della Regione Lombardia, già perdente davanti al Tar, era in qualche modo un evento annunciato, bisogna dire che il caso Englaro ha vissuto momenti clamorosi. Ci sono altri due fatti, oltre al no al Parlamento da parte della Corte costituzionale, da registrare: il sì all´udienza in tempi rapidi da parte della Corte di Cassazione; e l´accordo a Milano per eliminare dalla scena la «sospensiva» della sentenza.
«Le cose piano piano stanno andando per il verso giusto», dice papà Beppino ai giornalisti. «Il riconoscimento ci fa capire che le cose giuste vanno avanti. Abbiamo un ostacolo in meno, è il massimo», conclude. Vediamo dunque in dettaglio che cos´è successo.
Come si ricorderà lo scorso luglio, tra lo sconcerto trasversale degli esperti di diritto, alcuni politici, con Francesco Cossiga in testa, avevano sollevato il conflitto di attribuzione. Secca, senza sconti, priva di diplomazie, la risposta è in un aggettivo: «Inammissibili». I ricorsi per rivendicare a Camera e Senato la competenza di legiferare sulla «non-vita» di Eluana vanno bocciati, così hanno stabilito i giudici che regolano i rapporti tra le istituzioni del Paese.
Il centrodestra protesta e s´indigna, ma non ha il monopolio del mondo cattolico. In queste ore circola un appello dal titolo inequivocabile: «Lasciamo che Eluana riposi in pace». A firmarlo sono «ventidue cattolici, appartenenti all´area della Chiesa che si rifà con particolare convinzione al Concilio Vaticano II». Sono conosciuti per fede e impegno culturale. Ritengono che da parte delle gerarchie ecclesiastiche «ci si accanisca nei confronti di Eluana e che non si rispettino le sue precedenti accertate dichiarazioni di volontà prima dell´incidente».
Nel frastuono delle polemiche, la «tartarughesca» macchina della giustizia intanto è dirittura d´arrivo sul «fascicolo Englaro». L´11 novembre la Corte di cassazione si riunirà a Roma. Lo farà a sezioni unite (significa che i giudici vogliono sottolineare che il loro parere sarà definitivo). Ed esaminerà gli ultimissimi ricorsi e controricorsi. Un anno fa la stessa Corte affermò che il medico ha «il dovere giuridico di rispettare la volontà della paziente contraria alle cure»: non si può, cioè, essere «medicalizzati» a forza e senza fine. Può smentire se stessa? Staremo a vedere.
E sempre ieri, ma a Milano, in quaranta minuti, la Corte d´appello ha pronunciato alle 12.45 un «non luogo a provvedere». Non è una decisione neutra: avvocati e magistrati si sono infatti accordati su una linea di «dialogo». Ed è stata smentita l´ «urgenza» a dover bloccare la sentenza favorevole agli Englaro del luglio scorso. Papà Beppino, interpellato direttamente dai giudici Lapertosa, Secchi e Boiti ha assicurato - forse per la centesima volta - che il suo intento era ed è di «muoversi alla luce del sole». D´altra parte, che può fare? È stato ricordato in aula che la Regione Lombardia aveva comunque espresso il «no» a qualsiasi ricovero in uno dei suoi hospice. Questa imposizione dall´alto è stata affrontata e criticata dai legali: secondo loro, i funzionari regionali ne renderanno conto in un futuro processo.

Corriere della Sera 9.10.08
Consiglio di Stato Respinto il ricorso della Regione. La Cgil: splendida giornata
Aborto, stop alla Lombardia sulla regola delle 22 settimane
Formigoni: ma negli ospedali resterà tutto come prima
Otto medici si erano rivolti alla magistratura contro le linee guida. I legali: «Riconosciuta la libertà professionale»
di Rita Querzé


MILANO — Stop del Consiglio di Stato alle linee guida della Regione Lombardia in materia di legge 194. Il ricorso contro le norme regionali sull'aborto era stato avviato da otto medici milanesi supportati dalla Cgil. Nel maggio scorso il Tar ha dato ragione ai camici bianchi e al sindacato. La Regione non si è arresa e ha impugnato il provvedimento davanti al Consiglio di Stato. Speranze deluse: con l'ordinanza 5311 di martedì scorso il massimo organo della giustizia amministrativa ha respinto il ricorso.
Materia del contendere: la settimana entro la quale possono essere praticati gli aborti terapeutici. La legge 194 lascia al medico la possibilità di decidere. Comunque vieta l'aborto dal momento in cui il feto è in grado di sopravvivere in modo autonomo. Di fatto in molti ospedali l'aborto terapeutico è praticato fino alla ventiquattresima settimana. Nel gennaio scorso il cambio di rotta in Regione Lombardia: nuove linee guida hanno autorizzato l'aborto terapeutico solo fino alla ventiduesima settimana e tre giorni. Motivazione: «Nei nostri ospedali, grazie ai progressi scientifici e tecnologici, i feti possono vivere di vita autonoma già dalla ventiduesima settimana », spiegava la Regione.
Adesso il pronunciamento del Consiglio di Stato soddisfa la Cgil. Il segretario generale della confederazione in Lombardia, Nino Baseotto: «È una splendida giornata per le donne, i loro diritti, la loro libertà di scelta». E ancora: «Siamo di fronte a una sentenza destinata a fare giurisprudenza, ora mi auguro che la Regione voglia riaprire il confronto su questi temi».
Ma le prime dichiarazioni uscite ieri dal Pirellone non parlano di dialogo. Rappresentano piuttosto una Lombardia sempre in trincea sul tema «aborto». In sostanza, secondo la Regione, i medici degli ospedali lombardi hanno già deciso liberamente di fermare gli aborti alla ventiduesima settimana e tre giorni invece che alla ventiquattresima. Il tutto attraverso codici etici interni. E nel pieno rispetto della 194 che lascia, appunto, la decisione ai medici stessi. «L'ideologia si illude di aver vinto contro l'evidenza scientifica, che viene invocata solo quando fa comodo — si scalda il presidente della Lombardia, Roberto Formigoni —. Quella della Cgil è una vittoria di Pirro perché negli ospedali lombardi niente cambierà».
Dal canto suo la giustizia amministrativa non è mai entrata nel merito dei termini dell'aborto terapeutico. «Il Tar ha ritenuto che le linee guida regionali andassero sospese perché ledevano la libertà professionale del medico. È il medico, infatti, che in base alla 194 deve decidere sui termini in cui l'aborto terapeutico è accettabile», spiega Vittorio Angiolini, l'avvocato che (insieme con Ileana Alesso e Marilisa D'Amico) ha rappresentato le istanze degli otto medici che si sono rivolti al Tar. Per conoscere le motivazioni che hanno ispirato la decisione del Consiglio di Stato bisognerà aspettare ancora qualche ora. Il loro deposito è atteso entro oggi.

Corriere della Sera 9.10.08
Una narratrice americana racconta la storia del fondatore dell'Islam e della sua sposa bambina
La moglie del Profeta, sfida editoriale
Divide la scelta della Newton Compton: pubblicare in Italia il romanzo
di Paolo Conti


«L o ammetto. Per pubblicare un libro del genere, occorre un bel po' di coraggio. Con Aisha si sfiora un tema delicatissimo come la religione. Ma spero che appaia subito chiaro come non ci sia nulla contro l'Islam, né contro Aisha, la sposa bambina di Maometto né tanto meno contro Maometto». Raffaello Avanzini è il giovane direttore generale della Newton Compton che il 16 ottobre distribuirà in Italia, nella traduzione di Micol Arianna Beltramini, il romanzo Aisha, l'amata di Maometto di Sherry Jones, giornalista americana alla sua prima opera letteraria. L'autrice assicura di aver studiato storia dell'Islam e numerosi testi di cultura musulmana «inclusa una biografia di Maometto che risale al XIV secolo» prima di affrontare la storia romanzata della giovanissima compagna del Profeta, sposata a nove anni di età. Nel testo ci si imbatte in particolari espliciti, come l'iniziazione sessuale dopo le prime mestruazioni della ragazzina: «Il dolore per la consumazione del matrimonio se ne andò subito. Maometto era così gentile. Essere nelle sue braccia era la beatitudine che avevo atteso per tutta la vita». Oppure, quando Aisha viene sospettata di adulterio a 14 anni e lei risponde «"Io, con Safwan? È ridicolo", dissi. "Sono la moglie del sacro profeta di Allah. Perché dovrei desiderare una nullità come lui?". Mi sentii addosso gli occhi di Muhammad. Vampate di calore mi attraversavano la pelle. Aveva sentito la bugia dietro la mia risata?» Tanta chiarezza poetica offenderà i musulmani in Italia? O accadrà ciò che è avvenuto a Belgrado dove, il 17 agosto, la comunità islamica ha chiesto attraverso il suo leader Muamer Zurkolic il ritiro del volume in quanto «offensivo per i musulmani»? Una cosa è certa. Denise Spellberg, docente di storia islamica all'università del Texas, ha giudicato l'opera un «romanzo porno- soft».
Il coraggio di cui parla Raffaello Avanzini (suo padre Vittorio, ora presidente onorario, fondò la casa nel 1969) è insomma motivato. All'inizio di agosto la casa editrice statunitense Ballantyne Book del gruppo Random House, aveva annullato la pubblicazione di The Jewel of Medina (titolo originale) perché la compagnia era stata avvertita che la pubblicazione avrebbe potuto essere offensiva per i musulmani. Ma il 7 ottobre, il libro è finalmente uscito negli Usa ma per i tipi della Beaufort Books che ha anticipato di una settimana la distribuzione, prevista per il 15 ottobre. L'editore Eric Kampmann ha chiarito di non aver ricevuto minacce ma ha spiegato di aver voluto accelerare i tempi perché «finalmente si parli del valore del libro piuttosto che di terroristi o editori fifoni». Nulla si sa invece sulla pubblicazione in Gran Bretagna da Gibson Square: il 27 settembre una molotov è stata lanciata contro l'ingresso della casa dell'editore Martin Rynja, in Londsale Square. Tre uomini sono stati arrestati con l'accusa di terrorismo. Da qui a novembre il libro uscirà in Ungheria, Germania, Danimarca, Macedonia. Poi in Brasile, Spagna, Grecia, Polonia, Russia.
Dunque Avanzini e la Newton Compton conoscono le incertezze della scelta: «Lo abbiamo messo nel conto, il libro qualche fastidio lo darà. Ma la nostra cifra è l'indipendenza e abbiamo deciso di andare avanti lo stesso. Dopo la Fiera del Libro di Francoforte, Sherry Jones sarà nostra ospite in Italia e stiamo organizzando un suo tour per la prima parte di novembre. Affronteremo inevitabili misure di sicurezza. Qualche frangia estremista può sempre agire. Ma per noi l'opera è un bel romanzo storico che può mettere in contatto due culture diverse, l'occidentale e quella islamica. Non c'è alcun insulto a una figura considerata santa nell'Islam ». Cosa dicono gli altri editori italiani? Avrebbero pubblicato un romanzo così «scomodo»? La parola a Carmine Donzelli: «Non si può ragionare in astratto, dipende dalla qualità del libro. Per un capolavoro sarei disposto sicuramente a rischiare, anche se a lume di naso bisogna comunque stare attenti nel valutare se un libro possa davvero produrre effetti devastanti. Se invece si trattasse di un'opera che titillasse la semplice curiosità, non ne farei nulla. Qui sta, a mio avviso, l'etica della responsabilità di un editore». Avrebbe pubblicato I versetti satanici di Salman Rushdie, Donzelli? «Sicuramente, correndo tutti i rischi. Parliamo di un grande ». Analogo l'approccio di Elido Fazi, della Fazi editrice: «L'importante, rispetto al rischio, incluso quello religioso, è la qualità del prodotto. Dopo l'11 settembre ci prendemmo la responsabilità di pubblicare Fine della libertà, in cui Gore Vidal quasi giustificava le ragioni dell'attentato per l'arroganza degli Stati Uniti nell'ultimo mezzo secolo. Fernanda Pivano mi telefonò: "Voi siete pazzi, ma come vi viene in mente?". Invece ne valeva la pena. Questa è libertà, questa è responsabilità. E il discorso varrebbe anche per un libro di eventuale sfondo religioso».
Il profeta Maometto accoglie i fedeli dell'Islam in una miniatura proveniente dall'Asia centrale

Corriere della Sera 9.10.08
Un saggio di Armando Massarenti sul dibattito aperto dalla clonazione della pecora Dolly
Le guerre staminali: cellule della discordia tra etica e scienza
di Edoardo Boncinelli


Staminali e clonazione sono due termini che hanno preso sempre più piede e che hanno quasi monopolizzato da qualche anno il dibattito etico in biomedicina. Parzialmente correlate, le due parole hanno una storia pubblica comune: sono nate entrambe nel 1997 in seguito al clamore suscitato dall'annuncio della nascita della pecora Dolly, probabilmente l'animale più «chiacchierato » della storia.
Quello che avrebbe dovuto essere salutato come un grandissimo esperimento scientifico e interessare al più qualche decina di esperti, fu ripreso da tutti i media e gettato in pasto ai commentatori delle più diverse competenze e delle più sospette inclinazioni: un vero atto di pirateria mediatica, un capolavoro della triste saga dell'occultamento della verità. Chiunque sia sinceramente interessato a comprendere l'origine del Male, i semi del disprezzo e dell'odio e il motivo per il quale il progresso morale e spirituale dell'uomo è così lento — infinitamente più lento di quello materiale — dovrebbe riflettere su questa vicenda storica, non gravissima in sé, ma enormemente istruttiva.
Ma è acqua passata. Che cosa resta veramente di tutto questo? Resta una grande, grandissima promessa della medicina di domani e una serie di opportunità biologiche con pochi eguali. La promessa di cui stiamo parlando è appunto la possibilità di utilizzare le cosiddette cellule staminali per restaurare o, meglio, rimpiazzare organi e parti di organo del nostro corpo che risultino danneggiate, per usura, per un incidente o per una malattia. L'espressione cellule staminali ha una lunga, onorata storia nella biologia e nella clinica, ma da dieci anni ha acquisito appunto un significato particolare e ormai standard. Si tratta di cellule che rispondono a tre requisiti: sono in grado di riprodursi, meglio se non troppo lentamente; non sono ancora troppo caratterizzate o, come si dice in gergo, differenziate; e, più importante di tutti, sono in grado di farsi «rieducare», facendosi persuadere a differenziare in questo o quell'altro tipo di cellule mature, secondo la necessità.
Anche se tutto questo non ha dato ancora quei risultati che è legittimo aspettarsi, tutti siamo convinti che presto o tardi ciò accadrà, con grande soddisfazione di tutti. Tutto bene quindi? Purtroppo no. Perché è venuto alla ribalta il problema della reperibilità delle cellule staminali, ovviamente umane, problema che si è venuto a sovrapporre storicamente all'annosa questione della liceità dell'aborto, anche se questo è permesso in Italia e regolato da una legge dello Stato. Le cellule staminali, infatti, si possono prendere da un embrione più o meno precoce o direttamente da tessuti adulti: nel primo caso sono state chiamate cellule staminali embrionali, nel secondo caso cellule staminali adulte. L'uso delle cellule staminali embrionali pone appunto problemi che qualcuno chiama etici e che sono da porre in relazione alla convinzione che l'embrione precoce sia già un individuo umano o meno: nel primo caso esistono problemi per il loro uso, nel secondo evidentemente no. Grandi discussioni e grandi polemiche su tutta questa storia e contemporaneamente grande disinteresse per le più recenti conquiste della scienza. Nessuno sa infatti se con le staminali adulte si potrà produrre qualsiasi tipo di tessuto oppure no, mentre per definizione con quelle embrionali ciò sarà possibile. Così molti non sanno neppure se e come potrebbero essere proficuamente utilizzate le cellule staminali dell'uno o dell'altro tipo che venissero a rendersi disponibili.
Di tutto questo parla, con una certa ampiezza e l'utilizzazione di materiale giornalistico di non sempre facile reperibilità, Armando Massarenti nel libro Staminalia edito da Guanda. Vi si può trovare la storia dell'intera vicenda e una gran mole di informazioni sul dibattito che ha accompagnato in Italia e nel mondo il diffondersi della speranza nell'efficacia clinica di questo tipo di cellule. Particolarmente utile trovo la messa a punto sull'attuale effettiva utilità dei trapianti di cellule staminali adulte in pazienti con varie patologie che investano organi diversi, dal sistema nervoso all'apparato cardiocircolatorio.
C'è stata infatti un convergenza di interessi diversi per la reclamizzazione dell'efficacia dei trapianti di cellule staminali adulte. Da una parte, l'interesse più o meno confessato di chi vuole magnificare il potere delle cellule staminali adulte allo scopo di mettere in ombra l'utilità delle cellule staminali embrionali.
Dall'altra, il bieco interesse materiale di «guaritori miracolosi » di vario tipo, che in diverse parti del mondo si sono messi a fare prove in vivo con le cellule staminali adulte, alimentando una vera e propria industria di «viaggi della speranza» con le destinazioni più svariate e talvolta esotiche. Data la grande esigenza di mettere un certo numero di «puntini sulle i» a proposito dei vari aspetti della spinosa questione, non si può non salutare con favore l'uscita di un'opera chiarificatrice come quella di Massarenti.
Prima o poi le cose si chiariranno e le promesse verranno mantenute. Il progresso non si può fermare. Ed è anche quasi certo che in futuro rideremo di tutte queste polemiche e indecisioni. Ma per il momento siamo in ballo e dobbiamo ballare. Avvalendoci di tutti gli strumenti più adatti. Compresa la corretta informazione.
L'immagine stilizzata di una staminale in mezzo a normali cellule sanguigne

Corriere della Sera 9.10.08
Il pianista Pieranunzi critica la gerarchia culturale che continua a privilegiare «tutto ciò che è scritto»
Noi improvvisatori, trattati ancora come sciamani
di Enrico Pieranunzi


Romano, classe 1949, Enrico Pieranunzi (sotto) è uno dei più noti musicisti jazz europei. Pianista, oltre che compositore, suona il 17 ottobre

«L'improvvisazioneè lo stato germinale del canto, la musica nascente»; e ancora «la musica in generale è naturalmente improvvisatrice». Queste asserzioni non sono di un musicista o di un musicofilo ma di un filosofo, il franco-russo Vladimir Jankélevitch, che dedicò una parte non trascurabile della sua ricerca alla musica in generale e in particolare a quel «non-so che», a quel misteriosamente ineffabile che sembra caratterizzare l'arte dei suoni. Sul valore intrinseco ed estetico dell'improvvisazione Jankélevitch è comunque in buona compagnia. Arnold Schönberg afferma per esempio in «Stile e Idea» che «la composizione è improvvisazione al rallentatore ». Nella mia personale vicenda musicale l'improvvisazione ha giocato e gioca un ruolo decisivo. È grazie al saper improvvisare, infatti, che ho imparato a comporre e ad arrangiare, e ancora grazie alla dimestichezza con l'improvvisazione ho compreso com'è strutturata la musica di Beethoven, Mozart, Brahms, in cui la percentuale di soluzioni chiaramente improvvisative è molto più alta di quanto si pensa. Credo comunque, al di là della mia storia personale, che il link improvvisazione-composizione sia strettissimo e che l'improvvisazione, anche quella teatrale e pittorica, dovrebbe essere fin dai primi anni materia di studio e pratica in ogni scuola, perché può aprire ad orizzonti espressivi di grande ampiezza.
Rimane il quesito: perché un'attività che è sempre stata parte fondamentale del fare musica in tutti i Paesi e in tutte le epoche è ancora considerata, nel nostro tempo, una bizzarria, una sorta di «diversità » incomprensibile e affascinante, una temibile pratica da «sciamani dei suoni» che colloca il musicista capace di praticarla in una zona «altra» da guardare con sospetto? Una risposta non peregrina potrebbe trovarsi in quella sorta di tacita gerarchia culturale, creatasi soprattutto a partire dal XIX secolo, secondo la quale tutto ciò che è scritto è superiore a ciò che è orale. D'altra parte, cancellando come irrilevante la parte improvvisata e non scritta dell'attività di musicisti come Scarlatti, Bach, Mozart, su su fino a Liszt ecc., si finisce per non comprendere neanche la loro musica scritta. C'è da ritenere infatti che l'improvvisazione, per questi e per tanti altri musicisti dei secoli scorsi, non fosse un semplice gioco fine a se stesso, ma costituisse un vero e proprio «motore generativo » della musica che componevano. E proprio questo è l'aspetto che li rende in certo modo jazzisti ante litteram.
L'irruzione del jazz nel mondo musicale e dello spettacolo del secolo scorso ha in sostanza fatto riemergere qualcosa che c'era già e che s'era per un certo periodo smarrito. Il jazz ha riproposto la prassi improvvisativa scardinando il rassicurante rapporto del suonatore con lo «spartito». Ma ciò che di destabilizzante questa musica ha fin dall'inizio recato con sé non è stata solo l'improvvisazione, quanto piuttosto l'intensità della presenza fisica che essa stessa richiede, in una parola il suo lasciar parlare il corpo. Nel jazz in effetti l'improvvisazione è un elemento necessario, ma non sufficiente. Si può suonare jazz anche senza improvvisare, «interpretando » in un certo modo un brano. Il jazzista, in altri termini, usa l'improvvisazione come un mezzo, non come un fine. Fa del proprio strumento un'estensione del corpo per l'esigenza di creare un racconto in suoni, per disegnare forme sonore che vadano in tempo reale a rappresentare (consapevolmente o no) momenti di vita profonda, emozioni, pensieri, immagini, che nessuna parola potrebbe riuscire ad esprimere.

il Riformista 9.10.08
A Liberazione si sono bevuti il cervello
di Peppino Caldarola


A Liberazione si sono bevuti il cervello. Dopo aver letto due articoli dedicati ai nostri interventi sul film di Spike Lee e la strage di Sant'Anna di Stazzema, uso la stessa espressione che Piero Sansonetti ha dedicato al nostro Fabrizio d'Esposito. D'Esposito ieri ha raccontato una storia importante e inedita. Un'anziana signora di ottantuno anni, che ha voluto conservare l'anonimato, ha mostrato al nostro collega una copia di un volantino datato 29 luglio 1944 in cui il Comando delle Brigate d'assalto Garibaldi invitava la popolazione versiliese a non abbandonare il paese rifiutando il diktat imposto dai nazisti ai mille abitanti di Sant'Anna di Stazzema. I partigiani offrivano protezione e rappresaglia contro i tedeschi. Molti abitanti del paesino rimasero e furono trucidati dai nazisti.
La storia è questa e da questa storia si ricava, senza ombra di dubbio, che i carnefici furono i nazisti. Piero Sansonetti (un caro amico, ma evito ai lettori i convenevoli stucchevoli che nascono dall'affetto reciproco) fa un titolo a effetto e così racconta ai suoi lettori il Riformista e Fabrizio d'Esposito: «Perché difendete i nazisti sui giornali di sinistra?». Sullo stesso numero del giornale di Rifondazione, Leonardo Paggi, storico e studioso di Gramsci, confida il proprio scandalo per l'articolo del Riformista e, tanto per dare una compagnia a d'Esposito, dice che anch'io, associando Spike Lee a Giampaolo Pansa, mi sono reso responsabile di «strumentalizzazione». Con un paio di colpetti di penna, Sansonetti e Paggi ci hanno sistemati tutti e due.
Vale la pena ricordare che mentre a Paggi il film di Spike Lee è piaciuto, a Sansonetti è sembrato orrendo. Mentre Sansonetti lo considera infondato storicamente, Paggi lo apprezza anche se da storico di razza teme che le versioni cinematografiche dei grandi fatti storici ne modifichino la percezione. Qui Paggi fa l'esempio di Schindler's List che sarebbe incorso in tante inesattezze, dimenticando il trascurabile particolare che grazie a Spielberg milioni di persone al mondo, e milioni di giovani, hanno capito la tragedia della Shoa. Non voglio discutere le civetterie degli storici né difendere Hollywood. Vorrei solo ricordare che l'intervento del Riformista ha evitato a Spike Lee di finire triturato in una ridicola polemica sul revisionismo, visto che, dopo un articolo in cui la Castellina mi insultava, lo stesso «quotidiano comunista» pubblicava in prima pagina un elogio di Spike Lee non diverso da quello di Paggi.
Riassumendo. Il film di Spike Lee è forse bello, impreciso, secondo alcuni, ma non "revisionista". Sansonetti non nega che sulla Resistenza, i suoi errori, persino sull'esistenza di traditori, si possa parlare. Dove è il momento in cui qualcuno si sarebbe bevuto il cervello? E chi se l'è bevuto, noi o Liberazione? Non ci vuole molta fantasia a immaginare qual è la mia risposta che proverò ad argomentare.
Sansonetti ricorda che i "negazionisti" in molti paesi europei sono stati condannati al carcere, è successo a David Irving recentemente in Austria, e pur non chiedendo la galera per d'Esposito (grazie, troppo buono!) lo associa ai negazionisti, e associa tutti noi del Riformista alla stessa categoria, con quel titolo indecente: «Perché difendete i nazisti sui giornali di sinistra?». Ma chi ha difeso chi? Non c'è traccia nei testi pubblicati dal Riformista di un mutamento di giudizio storico. Abbiamo parlato di attenzione verso le ragioni dei vinti - come fecero Violante e Ciampi -, persino del dolore della vittoria, di fronte a spargimenti di sangue e a vendette che potevano essere evitate, abbiamo messo a confronto le posizioni di Spike Lee con le reazioni ai libri di Giampaolo Pansa. Ho difeso Pansa anche quando non sapevo che veniva a lavorare con noi (e vai!). E ho ricordato quanto ostracismo gli è toccato di subire per essersi inoltrato nel mondo degli sconfitti. Confermo, anche se tutto ciò scandalizza Castellina e Leonardo Paggi.
Veniamo al secondo punto della contesa, la pubblicazione del volantino. Sansonetti sa che quasi a ogni anniversario della strage di via Rasella abbiamo ospitato sulla nostra Unità polemiche, sempre chiuse dando la parola a Rosario Bentivegna (che con Carla Capponi diede vita all'azione partigiana), in cui si sollevava il problema dei prezzi che l'attività militare della Resistenza faceva pagare alla popolazione civile. Forse Sansonetti, Paggi, Castellina non si sono accorti che questa discussione è di estrema attualità e trova opinioni discordi e sensibilità che sono mutate nel tempo. Non c'entra niente il "revisionismo", che è una corrente storica degna di stima, tanto meno il "negazionismo", che è cosa orrenda, ma l'uomo d'oggi, anche quello di sinistra, è abituato a discutere anche sul prezzo che una buona causa paga o fa pagare. Se diventa connivenza con nazismo mettere tutti i fatti storici sul tavolo dell'antifascismo, allora è proprio vero che siete voi che vi siete bevuti il cervello.

il Riformista 9.10.08
Il 55% di sì nel sondaggio. I lettori: «Gli italiani sono razzisti»
di Francesco Nardi


«Gli italiani sono razzisti o no?». Questo è il tema del sondaggio settimanale lanciato durante la puntata di martedì scorso dal Maurizio Costanzo Show in collaborazione con il Riformista. Il risultato, per quanto non schiacciante, non lascia comunque spazio a fraintendimenti: oltre il 55% dei votanti ritiene che gli italiani siano razzisti. Oltre i voti espressi, molti sono stati anche i commenti lasciati sul nostro sito web; opinioni che differiscono tra loro non solo per il segno - italiani razzisti o non razzisti - quanto anche per l'idea stessa di razzismo: c'è chi lo identifica con la xenofobia, come chi estende la definizione di questo odioso fenomeno a ogni altro tipo di discriminazione, e chi invece tiene ad evidenziare le differenze che esistono tra le diverse manifestazioni di quello che, comunque si voglia definirlo, rimane un problema molto serio.
Al sondaggio hanno partecipato cittadini italiani ma anche moltissimi immigrati che, più o meno integrati, vivono e lavorano nel nostro Paese. Molti commenti ci sono stati inviati proprio da questi: espressioni spesso accorate, e non solo perché si sentono oggetto del problema, quanto perché in tanti, avendo accumulato esperienze diverse in altri paesi, avvertono tutte le differenze del caso. Come è ovvio, il dibattito risente dell'eco degli ultimi fatti di cronaca, ma non sono solo questi ultimi ad aver determinato l'esito del sondaggio. I casi sono tantissimi e difficili da riassumere per categorie: c'è chi lamenta episodi di discriminazione nelle scuole o negli ospedali, così come sul posto di lavoro. Un altro dato è quello delle differenze tra il nord ed il sud del nostro Paese: diversi, infatti, sono stati i commenti in cui si è detto che è molto più facile restare vittime del razzismo al settentrione rispetto al meridione. Per quanto riguarda le cause di discriminazione prevalgono abbondantemente quelle legate all'origine o al colore della pelle, in quantità minore ma comunque significative spiccano quelle di tipo religioso, anche queste riferite molto più al nord che al sud. Tuttavia, tra tanti casi che suggeriscono sconforto e pessimismo si fanno notare anche commenti di tono diverso. Ad esempio abbiamo scelto quello Guillerm Lopez, del quale qui di seguito pubblichiamo uno stralcio.

«Vengo dall'Ecuador e sono arrivato in Italia nel 2001, quando sono partito ho detto a mia moglie che sarei tornato presto e con un po' di soldi per comprare un taxi e magari aprire anche un piccolo negozio. Dopo un mese dal mio arrivo in Italia, mi ha poi raggiunto anche mia moglie; dormivamo nei giardini durante i fine settimana perché mia moglie lavorava come badante di una bellissima vecchietta ed io facevo lo stesso a 80 km di distanza da lei. In seguito sono arrivati in Italia anche i nostri tre figli grazie a delle persone per bene come poche esistono al mondo e che ci hanno sempre aiutato. Adesso lavoriamo in una grande ditta dove ho avuto l'opportunità di esprimere le mie capacità: sono stato assunto da subito, e quando la stessa azienda ha aperto sedi all'estero sono stato inviato in quelle sedi per formare gli addetti locali. A febbraio di quest'anno ho anche ricevuto un premio, fatto che per me è stato molto importante in quanto ha onorato la mia famiglia e dato orgoglio al mio paese. Questo premio era assegnato ai migliori lavoratori, ed io ho vinto quello di "miglior lavoratore extracomunitario della regione Marche". Quando sono tornato a lavorare, dopo la premiazione, i miei colleghi hanno cominciato a guardarmi male ed ho iniziato ad avere problemi, anche se mi rifiuto di credere che si tratti di vero e proprio razzismo. Quello che è importante e che voglio esprimere è che mi sento bene con me stesso e la mia famiglia, e che i miei figli mi considerano un eroe. Vorrei continuare a vivere in Italia come se fosse casa mia ma capisco ci vuole ancora tanto tempo perché questo possa diventare realtà. Penso, nonostante tutto, di poterci riuscire».