lunedì 13 ottobre 2008

Repubblica 13.10.08
"Tagli alle scuole, ricorso alla Consulta"
Regioni sul piede di guerra. Sciopero, Bonanni ci ripensa: revoca se governo ci convoca
di Marco Reggio


Errani, presidente della conferenza dei governatori: respingeremo il diktat

ROMA - «Siamo alle prese con un conflitto istituzionale scatenato in modo unilaterale dal governo. Rispetto al dimensionamento degli istituti scolastici, deciso in maniera unilaterale, malgrado sia competenza specifica degli enti locali, le Regioni non staranno a guardare e potranno arrivare anche alla Corte Costituzionale. Spero che il governo faccia un immediato e chiaro passo indietro».
Vasco Errani, presidente della Conferenza dei governatori, non ha dubbi: giovedì prossimo l´assemblea affronterà a muso duro il diktat di palazzo Chigi che decide la chiusura di 4 mila scuole, una decisione inserita furbescamente nel decreto del 7 ottobre che parla di «contenimento della spesa sanitaria». Del ridimensionamento delle scuole se ne parla da tempo, e Repubblica aveva anticipato il piano il 30 agosto del 2008. Ma da quel momento il ministro Mariastella Gelmini aveva tentato di rassicurare l´opinione pubblica: non si toccheranno le scuole di montagna, quelle delle piccole isole, gli istituti con meno di 300 studenti. "Don´t worry" è stata la parola d´ordine. Invece non è così. L´articolo 3 del decreto 154, quello sulla sanità, parla chiaro: le Regioni che entro il 30 novembre del 2008 non avranno messo in pratica il piano avranno 15 giorni di tempo per adeguarsi, poi arriverà un commissario nominato dal ministro della Pubblica Istruzione a mettere a posto le cose.
E mentre Regioni e Comuni affilano le armi sembra incrinarsi il fronte sindacale che ha proclamato lo sciopero nazionale e la manifestazione a Roma per il prossimo 30 ottobre. Raffaele Bonanni, leader della Cisl, ha lanciato una ciambella di salvataggio al governo: «Potremmo rinunciare volentieri allo sciopero se palazzo Chigi ci convocasse assieme agli enti locali per discutere come riorganizzare la scuola, perché ci sono altri gravi problemi su tappeto». Un invito che prevede una scelta difficile da parte del governo: sospendere l´iter parlamentare del decreto Gelmini che nella prossima settimana approderà al Senato. Un regalo ai Cobas, che da oggi presiederanno Palazzo Madama. «Mentre il governo stanzia miliardi per salvare le banche sbatte per strada decine di migliaia di studenti dei piccoli comuni - commenta il portavoce Piero Bernocchi - un´uscita improvvida di Bonanni che ci fa ben sperare per la nostra manifestazione del 17 ottobre a Roma». La Cgil non condivide la decisione di Bonanni: «Lo sciopero è stato deciso e concordato con Cisl, Uil, Snals e Gilda - afferma il segretario nazionale Mimmo Pantaleo - e non torniamo indietro. Il piano di ridimensionamento delle scuole è la conferma del tentativo di demolizione di quella pubblica». Il segretario della Cisl scuola Francesco Scrima attenua i toni del suo leader: «La premessa è che noi contestiamo l´obiettivo del governo perché tagliare 8 miliardi vuol dire mettere in ginocchio la scuola pubblica».

Repubblica 13.10.08
Mario Riccio: "Per molti giusto non fare trasfusioni ma illegale interrompere l´alimentazione. Ma sono entrambi trattamenti sanitari"
Il medico di Welby: troppa confusione sul no alle cure
di Enrico Bonerandi


MILANO - Mario Riccio, medico anestesista cremonese, indagato e poi prosciolto dalla Procura di Roma per aver interrotto la ventilazione meccanica che teneva in vita Piergiorgio Welby, a ogni nuovo caso che ripropone i temi del testamento biologico e del diritto al rifiuto delle terapie protesta contro la «confusione». «È come se ogni volta si ricominci da capo», dice. In questi giorni è in uscita in libreria per Sironi editore un suo libro, Diario di una morte opportuna, in cui ripercorre le tappe del caso Welby.
Riccio, dov´è la confusione stavolta, nella vicenda Englaro?
«Qualcuno dice: è giusto non effettuare trasfusioni, mentre sarebbe illegale non praticare l´alimentazione artificiale. Mentre si tratta esattamente della stessa cosa: sono entrambi trattamenti sanitari. E anche il cardinale Tettamanzi sbaglia».
In che senso?
«Afferma che la decisione di praticare o no la trasfusione di sangue compete alla coscienza del medico, mentre la figura di riferimento è il tutore di Eluana, il fiduciario. Ma è la distinzione tra alimentazione e trasfusione che è perniciosa. Nemmeno nell´America di Bush, per il caso di Terry Schiavo, furono sollevati dubbi sul fatto che l´alimentazione artificiale fosse una terapia come le altre».
A che punto siamo nella discussione sul testamento biologico?
«La legge si farà e presto, ma il fronte degli oppositori sa di avere i numeri per svuotarne l´applicazione. La loro idea è di renderla burocratica e complicata, limitando nei fatti la figura centrale del fiduciario. Cercheranno di impedire la sospensione dell´alimentazione artificiale. E poi, ed è la loro arma più efficace, spalancheranno le porte all´obiezione di coscienza. Si è visto cosa è accaduto in Lombardia, con Formigoni».
Insomma, si tornerà indietro come se il caso Welby non fosse mai avvenuto?
«No, questo no. Il prossimo 11 novembre la Cassazione si pronuncerà su Eluana e farà giurisprudenza. Spero riconosca al paziente il diritto a esprimere il rifiuto delle terapie, chiarendo che esso non decade nel momento in cui perde coscienza».

Repubblica 13.10.08
Sindacati contro la cura Brunetta "Così muore la ricerca italiana"
di Luisa Grion


ROMA - Così si uccide la ricerca pubblica: sindacati e opposizione bocciano la soluzione Brunetta al caso precari. Il ministro della Funzione Pubblica, ieri su Repubblica a fornito le cifre del lavoro a tempo determinato nella ricerca, precisando che solo il 40 per cento degli atipici potrà sperare in un posto fisso. Cgil e Pd contestano numeri e metodo. «Il ministro vuol buttare via la ricerca pubblica - dice Michele Gentile, coordinatore della Funzione Pubblica per la Cgil - e confonde le acque: il governo precedente, pur sbagliando politica conteneva i danni e, attraverso le proroghe, consentiva ai ricercatori che avevano i requisiti per la stabilizzazione di continuare a lavorare fino al momento in cui si sarebbe creato lo spazio per assumerli. La ricerca pubblica, quindi, andava avanti, il patrimonio umano non veniva disperso o consegnato ad altri. Brunetta ora fa il contrario: o è un irresponsabile o vuole che l´intero settore passi ai privati». Il sindacato contesta anche le cifre: «il ministro - dice Gentile - non tiene conto dei diecimila co.co.pro che lavorano su progetti di lungo periodo». E critica il metodo: secondo la Cgil, infatti nel trasferire anche nel pubblico le norme del Protocollo sul Welfare il governo non ha voluto tener conto del fatto che mentre nel privato il lavoratore può sempre ricorrere al giudice per farsi assumere, nel settore pubblico questo non è possibile. La mobilitazione contro il decreto, dunque continuerà.
A contestare le cifre c´è anche l´opposizione. «Quando si parla di precari nella pubblica amministrazione è bene ricordare che non ci sono solo quelli del settore della ricerca, bensì tutti coloro che lavorano nella stessa p.a. Nel caso di una mancata conferma di questi precari una stima attendibile parla di un impatto occupazionale negativo di circa 60mila persone» commenta Cesare Damiano vice-ministro del Lavoro nel governo ombra. «Per questo - aggiunge - è necessario mantenere la vecchia normativa per consentire un assorbimento graduale di questi lavoratori, indispensabili per il funzionamento dei servizi. Le norme che invece il governo introduce peggiorano la situazione precedente, il suo emendamento deve essere ritirato».

Repubblica 13.10.08
Il Comitato centrale del Partito comunista approva una radicale riforma agraria I campi rimarranno solo formalmente dello Stato: i privati potranno cederne l´utilizzo
Cina, la terra in mano ai contadini
di Edward Wong


Il governo di Pechino insiste per conservare l´autosufficienza alimentare e non accetterà il cambio di destinazione dei terreni

PECHINO. I leader cinesi consentiranno ai contadini di comprare e vendere i diritti di sfruttamento agricolo dei terreni: è una misura che dovrebbe integrare centinaia di milioni di contadini all´economia di mercato, al momento incentrata sulle aree urbane. La nuova linea, che i vertici del Partito comunista hanno discusso in questo fine settimana, è la più grande riforma economica introdotta in Cina da diversi anni e rappresenta un´altra importante rottura con il sistema di proprietà collettiva e controllo pubblico messo in piedi dalle autorità comuniste dopo la rivoluzione del 1949.
Il cambiamento più importante è quello che consentirà ai contadini cinesi, circa 800 milioni di persone, di vendere i contratti di sfruttamento agricolo dei terreni ad altri contadini o a società. Secondo alcuni economisti, questa trasformazione porterà a un utilizzo più efficiente dei terreni e consentirà di creare aziende agricole molto più grandi.
La leadership cinese insiste da tempo che il Paese deve restare autosufficiente nella produzione delle derrate fondamentali, ed è improbabile che venga consentito ai contadini di vendere i diritti sui terreni per usi diversi da quello agricolo. Ma se si creerà un mercato per lo scambio di terreni agricoli, i contadini otterranno una nuova fonte di reddito che potrà contribuire a rivitalizzare l´economia rurale.
«Una misura che libererebbe capitali che giacciono inutilizzati e consentirebbe a questa ricchezza di materializzarsi», dice Keliang Zhu, avvocato del Rural Development Institute, un´organizzazione di Seattle che si batte per i diritti fondiari ai contadini poveri. Zhu aggiunge che questo cambiamento darebbe alla Cina «una spinta straordinaria dal punto di vista dello sviluppo agricolo».
I leader cinesi sono allarmati dalla prospettiva di una grave recessione nei principali mercati di esportazione in un momento in cui la loro economia, dopo un lungo periodo di crescita a due cifre, sta rallentando. Il governo si sforza di stimolare i consumi interni, e una fonte di domanda potenzialmente gigantesca, ma ancora poco sfruttata, è la popolazione contadina, in gran parte esclusa dalla crescita delle città. Il reddito medio nelle aree rurali ha perso molto terreno rispetto alle aree urbane, dando alla Cina un differenziale di reddito tra i più marcati al mondo, secondo le stime del governo.
Molti contadini lavorano in minuscoli appezzamenti di terreno assegnati dallo Stato per una piccola parte dell´anno, investendo poco nell´attività agricola. Hanno contratti che garantiscono loro lo sfruttamento dei terreni per 30 anni, ma lo Stato conserva la proprietà delle terre agricole e i funzionari locali spesso le confiscano o le riassegnano in funzione delle loro priorità di sviluppo.
Le dispute sulle terre agricole rappresentano forse la principale fonte di disordini sociali in Cina. Le proteste e le rivolte nelle aree rurali ogni anno si contano a migliaia, secondo le stime della polizia nazionale, scatenate spesso da casi di corruzione e confische illegali dei terreni.
Molti contadini lasciano i campi per cercare lavoro in città, ma in base alle politiche nazionali di controllo della popolazione continuano a essere classificati come contadini e di solito lavorano malpagati nelle fabbriche o lavorano come manovali nell´edilizia su base stagionale.
I fautori della riforma agraria sostengono che i cambiamenti proposti accrescerebbero il patrimonio delle famiglie contadine e garantirebbero una maggiore sicurezza della proprietà fondiaria, incoraggiando i contadini a investire nell´attività agricola e incrementare la produttività.
Una legge approvata nel 2002, dice Keliang Zhu, consente un limitato commercio dei diritti di sfruttamento dei terreni tra singoli contadini, ma impone vincoli allo scambio di questi diritti tra contadini e aziende agricole, alla vendita diretta dei diritti di sfruttamento o alla possibilità di usare i terreni come garanzia collaterale per ottenere un prestito.
La proprietà privata della terra non è consentita dalla Costituzione e i terreni agricoli rimangono sotto il controllo dei leader degli enti locali e dei villaggi. Secondo i funzionari, i cambiamenti consentiranno ai contadini di noleggiare o vendere i propri contratti di sfruttamento agricolo trentennali a singoli individui o aziende.
(Copyright New York Times - la Repubblica - Traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 13.10.08
Dieci anni dopo il suo primo libro cult, un altro atto d´accusa di Paolo Cornaglia Ferraris Dal business dei ricoveri alla corruzione dell´industria del farmaco fino alle parentopoli
La casta bianca che fa male alla sanità
di Maria Novella De Luca


Viaggio tra i dissesti del Sistema sanitario nazionale, un bene prezioso, un tempo tra i migliori d´Europa, oggi ammalato di una «lottizzazione politica che ha le caratteristiche di un cancro», che si diffonde e avanza con la complicità di una «casta bianca», fatta di medici, amministratori, case farmaceutiche, partiti e Regioni. Dieci anni dopo «Camici e pigiami», Paolo Cornaglia Ferraris, pediatra genovese che con quel libro-scandalo mise a nudo il «sistema» che stava corrompendo (con la complicità dei medici) la sanità italiana, torna a denunciare quanto accade tra le corsie degli ospedali e negli ambulatori delle Asl, ma anche nelle segreterie dei partiti e nelle anticamere dei ministeri.
Qui regna appunto «La casta bianca», (edito da Mondadori, dal 14 ottobre in libreria), e l´inchiesta parte dalle truffe sui ricoveri (la cui durata non sarebbe decisa in base alle esigenze del malato, ma sulla base dei rimborsi delle Regioni), svela i meccanismi di corruzione dell´industria del farmaco, per arrivare all´inestricabile parentopoli che governa le facoltà di Medicina e i Policlinici universitari.
Un vero attacco a quel sistema Sistema Sanitario Nazionale che sarebbe ancora «una grande risorsa per l´Italia - dice Cornaglia Ferraris - con 13mila ricoveri in ospedale ogni anno, oltre 79 milioni di giornate di degenza, 4 milioni e 700mila interventi chirurgici, 1337 strutture ospedaliere pubbliche e private». «Ma questa straordinaria rete, che dal dopoguerra ad oggi ha portato la salute a milioni di persone, ha ridotto ai minimi storici la mortalità infantile, ha conquistato impensabili vittorie contro il cancro, è ormai divorata da un gruppo di potere - aggiunge Cornaglia Ferraris, oggi medico dei bimbi figli degli immigrati clandestini - che in nome di due «principi», denaro e carriera, sta sfasciando tutto».
Ed è al sofisticato meccanismo del fare denaro rubando soldi pubblici che Cornaglia Ferraris dedica uno dei capitoli più interessanti di questo viaggio (allucinante) nei mali della Sanità italiana. Tutto ruota attorno ai rimborsi dei ricoveri e delle prestazioni che gli ospedali o le strutture convenzionate ottengono dalle Asl. Basta falsificarne il numero o moltiplicarne la quantità, al di là delle reali esigenze del paziente, per ottenere flussi di denaro a volte incredibili, come nel recente scandalo della clinica «Villa Pini» di Chieti. Le truffe sono note, eppure reiterate. Spiega Cornaglia Ferraris: «Le tariffe sono diverse a seconda del tipo di ricovero. Quelli con dimissione in giornata o con una sola notte valgono poco. Quelli con due o più notti valgono di più. Dopo un certo numero di giorni, che si chiama valore soglia, scatta un aumento giornaliero che non conviene quasi mai. Ecco svelate le ragioni per cui spesso, dopo dieci giorni, vi buttano fuori, oppure vi dimettono, e vi ricoverano il giorno dopo, un´altra volta».
Il tutto navigando in quella zona grigia di leggi e norme dove l´abuso può essere mascherato da prestazione regolare.
Cornaglia passa poi ad analizzare un altro grande "malaffare" consumato sulla pelle dei pazienti: le prescrizioni (drogate) di farmaci, che il medico somministra seguendo proprie logiche di mercato (regali, premi, tangenti) piuttosto che il reale bisogno dei malati. «Il 60% degli antibiotici viene assunto senza che ce ne sia reale bisogno». Sistema diffuso e corrotto, di cui Big Pharma (il cartello delle multinazionali della farmaceutica) è l´esempio eclatante. «L´investimento maggiore di Big Pharma - scrive Cornaglia - non va in ricerca e sviluppo, bensì in marketing e amministrazione». E citando uno studio americano che mette in luce i rapporti con l´industria aggiunge: «L´83% dei medici riceve pasti gratuiti, il 78% campioni di farmaci, il 35% riceve rimborsi per le spese di partecipazioni a convegni, il 28% percepisce onorari per conferenze o per l´arruolamento dei pazienti nei trial», ossia nei gruppi di sperimentazione dei farmaci.
La situazione italiana sarebbe di poco dissimile, e Cornaglia cita una seconda ricerca (made in Italy) in cui "sono state valutate le prescrizioni di alcuni farmaci prima e dopo che un certo numero di medici era stato invitato a convegni in lussuosi alberghi". Senza parlare della pubblicità che porta all´assunzione di farmaci inutili, la ricerca sponsorizzata, e il lucrosissimo mercato dei brevetti.
Un business enorme, una piaga che si allarga. Perché a tutto questo, presente anche in altri paesi, in Italia si aggiunge la lottizzazione dei partiti, della Chiesa e, addirittura, della Massoneria. I soldi della Sanità vogliono dire infatti appalti, posti di lavoro, carriere nelle aziende ospedaliere, cattedre all´università. E dall´analisi dei "poteri in campo", agli alberi genealogici delle famiglie che di padre in figlio, di parente in parente si tramandano i posti nei policlinici e nelle facoltà di Medicina, attraverso concorsi truccati e dottorati ad personam, ci si sente alla fine di questo viaggio intrappolati in una ragnatela in cui il paziente conta poco o niente.
«Questo non vuol dire che in Italia non ci siano aree sane, professionisti eccellenti - conclude Cornaglia Ferraris, che dopo l´uscita del libro "Camici e pigiami" venne licenziato dall´ospedale Gaslini di Genova - eppure noi oggi rischiamo di perdere un sistema sanitario pubblico buono come quello che ci siamo conquistati negli ultimi 40 anni. L´allarme è forte, bisogna che la gente se ne renda conto. Per questo ho creduto fosse giusto raccontare la parte malata del sistema e non quella sana».

Repubblica 13.10.08
Pablo Picasso. Classico, cubista, astratto, surrealista
L´esposizione al Vittoriano di Roma


Centottanta opere documentano la produzione onnivora del pittore spagnolo, il suo eclettismo, il nomadismo culturale
Anticipò il new dada, la pop art, il nouveau réalisme, l´arte povera, la transavanguardia
L´Arlecchino è rappresentato in quattro interpretazioni diverse
Il viaggio a Roma nel ´17 lo porta a realizzare "L´Italienne" qui esposta
Dai lavori precoci e mozartiani alla febbrile creatività tizianesca degli ultimi anni

«Picasso e Cocteau sono partiti ieri per Roma». Così scrive Eric Satie a Valentine Gross il 18 febbraio. Nientemeno che nel 1917. Qui resterà «il gran cannibale dell´arte» fino al 2 maggio, per preparare scene e costumi per Parade (musica di Satie, testo di Cocteau, libretto di sala di Apollinaire) e realizzare en passant due capolavori come l´Arlecchino e L´Italienne, che torna dopo novant´anni in esposizione in Italia per la splendida mostra Picasso 1917-1937, L´Arlecchino dell´arte, a cura di Yve-Alain Bois (Complesso del Vittoriano, fino all´8 febbraio 2009, edizioni Skira, per Comunicare Organizzando).
Da sorprendente anticamera fanno la sezione sulla Roma di Picasso, a cura di Alessandro Nicosia, ed il catalogo costruito con Lea Mattarella. La mostra presenta 180 opere che ben documentano la produzione onnivora del pittore spagnolo: cubismo, postcubismo, surrealismo, neoclassicismo, astrattismo. Il titolo dell´esposizione segnala felicemente l´eclettismo stilistico e il nomadismo culturale di Picasso, genio mediterraneo e controriformista che dalla precoce e mozartiana produzione adolescenziale arriva fino alla febbrile creatività tizianesca degli ultimi anni, divorando nella sua insopportabile grandezza, masticando, digerendo ed anticipando frammenti e resti della storia dell´arte fino ai nostri giorni.
Il viaggio a Roma, dopo aver smaltito tutte le fasi del cubismo, serve all´artista per confrontarsi con la grande tradizione classica dell´arte che, non a caso, lo porterà in quei mesi febbrili a realizzare L´Italienne, che non ha mai viaggiato prima d´ora fuori dalla collezione E. G. Buhrle di Zurigo. Nell´opera tutto tiene, la dinamica scomposizione cubista di una fanciulla naturalmente tutta italiana con il profilo della cupola per eccellenza a Roma, la chiesa di San Pietro.
Picasso torna spesso sui propri temi, così l´Arlecchino è qui documentato in quattro interpretazioni diverse: il classico Arlecchino (ritratto di Léonice Massine), 1917; il cubista Arlecchino suonatore del 1924; l´astrattista Arlecchino del 1927; la surrealista Testa di Arlecchino del 1927.
A metà degli anni Venti Picasso deraglia felicemente dal binario cubista e neoclassicista, per accostarsi prima al surrealismo e poi all´astrattismo, come si desume dal Due donne davanti alla finestra del 1927.
Negli anni Trenta Picasso dialoga a distanza con quello che lui considera il grande rappresentante della tradizione, Matisse, e ancora con quella neoclassica, vedi le cento incisioni di Suite Vollard presenti nella mostra. Poi la storia precipita, arrivano gli anni bui della guerra spagnola che porteranno a Guernica, l´opera che conferma e definisce la sua arte «puntata sul mondo».
Naturalmente tale quadro trova i propri antenati prossimi in opere, qui presenti, che raffigurano scene violente, sanguinose corride e donne in lacrime. Da tutto questo si desume il felice opportunismo di un genio che usa con estrema flessibilità la propria vena creativa e la adegua allo spirito del tempo. Prima ha trovato sulla sua strada i propri coetanei, altri artisti delle avanguardie storiche che lavoravano per rinnovare il linguaggio secondo attitudini specializzate: Matisse, Braque, Boccioni, Balla, Duchamp, Dali, Mirò, Mondrian, Ernst, Léger e altri. Questi, con etico spirito di rinnovamento, si adopravano ad erigere la piramide dell´arte contemporanea, febbrili portatori di una manodopera inevitabilmente specializzata: espressionismo, futurismo, dadaismo, astrattismo, costruttivismo ecc. Ognuno di loro partecipava puntando sull´ossessione di un processo creativo in cui stile e comportamento trovavano conferma attraverso la ripetizione. Si sentivano moderni e riconoscibili proprio per questo. Come per ogni prodotto che circola nella società moderna la ripetizione stilistica ne conferma la bontà esecutiva e la riconoscibilità del suo artefice.
Picasso no. Egli per eccesso di salute fisica ed artistica, affida la riconoscibilità dell´opera all´antipatia del proprio genio personale. Un genio eclettico e volubile che non si consegna allo stilema alla mutazione delle forme. Contraddizione al trend collettivistico del XX secolo, in quanto individuabile come genio.
Antipatico per necessità, non sincronico cioè al pathos ripetitivo della produzione contemporanea. La febbre da cercatori d´oro delle avanguardie storiche senza dubbio è parallela allo spirito del capitalismo che sperimenta nuove condizioni produttive nel XX secolo. Essere moderni perciò significava per gli artisti accettare lo spirito puritano di ricerca nel grande sistema industriale internazionale.
Eppure Picasso resta un artista contemporaneo che riesce anche a confrontarsi con le tragedie della nostra storia, per esempio Guernica e il totalitarismo comunista. Da una parte con diretta cubista, Picasso anticipa la televisione e rappresenta il massacro del piccolo pueblo spagnolo da parte degli Stukas nazisti. Adopera una intenzionale riduzione della scomposizione cubista verso l´astrazione, una maggiore tenuta verso l´uso del codice figurativo. Un´opera prevalentemente in bianco e nero, pronta ad essere riprodotta e moltiplicata attraverso la tipografia del manifesto. Dall´altra con voluta banalità disegna la «colomba della pace» come un gadget ideologico.
Inoltre, con una sorta di sensibilità telematica ha compreso la realtà virtuale della storia dell´arte scardinando presente, passato e futuro. Infatti egli paradossalmente ne ha divorato anche il futuro di quella che si è svolta dalla sua morte fino ai giorni nostri. Egli ha divorato con l´impiego dell´oggetto quotidiano, il d´après e la citazione pittorica degli stili, anticipando new dada e pop art, nouveau réalisme, arte povera, transavanguardia. Dimostrando valida la diagnosi o la condanna di Paul Valéry: «In Picasso il circolo è chiuso». In fondo il Gran cannibale ha piegato con la sua arte a venire il mondo presente al suo consenso: Museo e Denaro.

Repubblica 13.10.08
Madrid. Rembrandt pittore di storie
Museo del Prado. Dal 15 ottobre


Tra i grandi maestri della pittura europea, Rembrandt è uno dei meno rappresentati nel museo madrileno che possiede soltanto l' Artemisia del 1634. A questa lacuna pone ora rimedio un'importante esposizione che documenta la sua attività creativa attraverso trentacinque dipinti e cinque stampe, provenienti da musei di tutto il mondo, tra cui figurano due Autoritratti , uno eseguito a venticinque anni e l'altro pochi anni prima della morte. La mostra si concentra sull'opera di Rembrandt come narratore di storie, per esempio quella di Sansone e Dalila , rappresentata nella monumentale tela di Francoforte. Artista tra i maggiori di ogni tempo, Rembrandt visse nel momento più splendido dell'arte olandese, senza specializzarsi in un particolare genere come la maggior parte dei suoi contemporanei, ma affermando in tutti una prepotente personalità, sorretta da prodigiose capacità tecniche e da una vastissima cultura figurativa che si estendeva dai maestri olandesi, fiamminghi e tedeschi suoi contemporanei a quelli del XVI secolo e alla pittura del Rinascimento italiano. A questo proposito, il percorso mette a confronto la sua opera con quella degli artisti che furono le sue principali fonti d'ispirazione, Tiziano e Rubens.

Repubblica 13.10.08
Roma. Etruschi. Le antiche metropoli del Lazio
Palazzo delle Esposizioni. Dal 21 ottobre


L'esposizione racconta l'eccellenza della civiltà etrusca attraverso lo sviluppo dei suoi principali centri urbani: Veio, specializzata nella produzione in terracotta di decorazioni architettoniche e di ex voto, Cerveteri, celebre per la sua straordinaria necropoli, Vulci, rappresentata dalla scultura monumentale in pietra locale, e Tarquinia, famosa per le sue cento tombe affrescate tra l'età arcaica ed ellenistica. Una sezione della mostra è dedicata alla documentazione dei rapporti di queste antiche metropoli e Roma, con l'obiettivo di sottolineare l'influenza esercitata dalla civiltà etrusca, in particolare per quanto riguarda le pratiche religiose e le simbologie del potere. Tra i momenti forti della rassegna, da segnalare la ricostruzione di una parte del Tempio di Apollo caratterizzato dalla sapiente commistione di architettura e scultura, con le statue di Apollo, Latona ed Eracle svettanti alla sommità del tetto.

Corriere della Sera 13.10.08
Scuola, sindacati e Pd, i riformisti del no
di Ernesto Galli della Loggia


Che cosa realmente sanno della scuola, della causa per cui protestavano, gli studenti che l'altro giorno hanno affollato le vie e le piazze d'Italia? Probabilmente solo che il potere, cattivo per definizione (figuriamoci poi se è di destra!), vuole fare dei «tagli», termine altrettanto sgradevole per definizione, e imporre regole limitatrici della precedente libertà (grembiule, valore del voto di condotta), dunque sgradevoli anch'esse. Sapevano, sanno solo questo, non per colpa loro ma perché ormai da tempo in Italia, nel dibattito tra maggioranza e minoranza, e di conseguenza nel discorso pubblico, la realtà, i dati, non riescono ad avere alcun peso, dal momento che su di essi sembra lecito dire tutto e il contrario di tutto. Nulla è vero e nulla è falso, contano solo le opinioni e i fatti meno di zero.
Esemplare di questo disprezzo per la realtà continua a essere il dibattito sulla scuola. C'è un ministro, Mariastella Gelmini, che dice che la scuola italiana non funziona. Porta delle cifre: sul numero eccessivo d'insegnanti, sull'eccessiva percentuale assorbita dagli stipendi rispetto al bilancio complessivo, sui risultati modesti degli studenti, sulla discutibile organizzazione della scuola nel Mezzogiorno; evoca poi fenomeni sotto gli occhi di tutti: l'allentamento della disciplina, gli episodi di vero e proprio teppismo nelle aule scolastiche. E alla fine fa delle proposte. Discutibilissime naturalmente, ma la caratteristica singolare dell'Italia è che nessuno, e men che meno l'opposizione, men che meno il sindacato della scuola che pure si prepara a uno sciopero generale di protesta, sembra interessato a discutere di niente. Né dell'analisi né di possibili rimedi alternativi a quelli proposti.
Cosa pensa ad esempio dei dati presentati dal ministro Gelmini il ministro ombra dell'istruzione del Pd, la senatrice Garavaglia? Sono veri? Sono falsi? E cosa indicano a suo giudizio? Che la scuola italiana funziona bene o che funziona male? E se è così, lei e il suo partito che cosa propongono? Non lo sappiamo, e bisogna ammettere che per delle forze politiche e sindacali che si richiamano con forza al riformismo si tratta di un atteggiamento non poco contraddittorio. Riformismo, infatti, dovrebbe significare prima di tutto la consapevolezza di che cosa va cambiato, e poi, di conseguenza, la capacità di indicare i cambiamenti del caso: le riforme appunto. Non significa dire solo no alle riforme altrui, e basta.
Infatti, alla fine, dato il silenzio circa qualsiasi misura nel merito, l'unica proposta che rimane sul tappeto da parte del Partito democratico e del sindacato appare essere virtualmente solo quella di lasciare le cose come stanno. Naturalmente nessuno si prende la responsabilità di dirlo esplicitamente, ma ancor meno nessuno osa esprimere il minimo suggerimento concreto.In realtà, a proposito della scuola una proposta precisa è stata ed è avanzata di continuo dall'opposizione politico-sindacale. Alla scuola — ci viene detto — servono più soldi (nel discorso pubblico italiano, di qualsiasi cosa si tratti, servono sempre o «ben altro» o «più soldi»). Insomma, la colpa del malfunzionamento della scuola starebbe nelle poche risorse di cui essa dispone: ciò che almeno serve politicamente a rendere ancor più deplorevole la recente decisione del ministro del Tesoro di togliergliene delle altre. Peccato però che pure in questo caso, per dirla con le parole di uno studioso che non milita certo nel campo della destra, Carlo Trigilia, sul
Sole-24 ore di martedì scorso, dall'opposizione «non è stata elaborata alcuna proposta di manovra finanziaria che spiegasse se e come era possibile coniugare rigore finanziario e scelte concrete diverse da quelle del governo». Dunque neppure sul come e dove trovare quei benedetti soldi l'opinione pubblica ha la minima indicazione su cui discutere, su cui fare confronti e alla fine farsi un'idea.
Questo non tenere conto dei fatti, dei dati concreti, questo continuo scansare la realtà, finiscono così per diventare uno dei principali alimenti della diffusa ineducazione politica degli italiani. Nel caso della scuola contribuiscono a far credere a tanti, a tanti insegnanti, a tanti studenti, di vivere in un Paese governato da ministri sadici, nemici dell'istruzione, che chissà perché rifiutano di distribuire risorse che invece ci sono; contribuisce a far credere a tante scuole, a tante Università, che i problemi possono risolversi con la messa in scena spettrale — più o meno per il quarantesimo anno consecutivo! — dell'ennesimo corteo, dell'ennesima «okkupazione».

Corriere della Sera 13.10.08
Praga. La storia negli archivi sul regime comunista. Lo scrittore aveva 21 anni, l'accusato finì in miniera
«Kundera aiutò la polizia segreta»
Giornale ceco: nel 1950 denunciò un ragazzo «spia degli Usa»
di Stefano Montefiori


Secondo il settimanale ceco Respekt lo scrittore Milan Kundera nel 1950 «ha denunciato alla polizia segreta comunista un ex pilota che lavorava per gli occidentali, e che venne per questo condannato a 22 anni di prigione». Nei giorni scorsi l'autore dell'Insostenibile
leggerezza dell'essere
è stato contattato da Respekt
ma ha rifiutato di rispondere alle domande del giornalista Adam Hradilek, autore dell'inchiesta. La rivista pubblica anche il rapporto della polizia in cui è riportata la denuncia dello scrittore, allora poco più che ventenne.
Il sospettato lavorava effettivamente per gli occidentali. Lo scrittore ne rivelò l'incontro con un'amica comune
L'autore dell'Insostenibile leggerezza dell'essere considera la sua vita privata «come un segreto che riguarda solo me», dal 1985 non concede più interviste se non per iscritto e la sua biografia ufficiale nelle edizioni francesi consta di due frasi: «Milan Kundera è nato in Cecoslovacchia. Nel 1975 si è trasferito in Francia ». Oggi però il settimanale ceco
Respekt pubblica una notizia che rompe nel modo più fragoroso possibile il muro di riservatezza del 79enne scrittore: «Nel 1950 Kundera ha denunciato alla polizia segreta comunista "StB" un ex pilota che lavorava per gli occidentali, e che venne per questo condannato a 22 anni di prigione ».
Nei giorni scorsi Kundera è stato contattato da Respekt ma ha rifiutato di rispondere alle domande di Adam Hradilek, autore dell'inchiesta. La rivista investigativa — nota e rispettata nella Repubblica Ceca, all'origine delle dimissioni del premier Stanislav Gross nel 2005 — pubblica il rapporto di polizia n˚ 624/1950 rintracciato negli archivi del ministero dell'Interno. «Oggi verso le ore 16 uno studente, Milan Kundera, nato il primo aprile 1929 a Brno (...) si è presentato in questo ufficio per riportare che in serata una studentessa incontrerà un certo Miroslav Dvorácek. Questi ha apparentemente disertato dal servizio militare e nella primavera dell'anno scorso è entrato illegalmente in Germania». La sera stessa Dvorácek venne arrestato nel luogo dell'incontro; sfuggì alla pena capitale ma venne condannato a 22 anni di prigione; ne scontò circa 13, in parte ai lavori forzati nelle miniere di uranio, secondo la sorte riservata ai prigionieri politici. Milan Kundera, dai primi anni Sessanta una delle voci dissidenti poi protagoniste della Primavera di Praga, all'epoca della denuncia aveva 21 anni ed era iscritto al Partito comunista. Come lo scrittore esule in Francia, anche la sua vittima Miroslav Dvorácek ha lasciato il Paese natìo e uscito di galera si trasferì in Svezia, dove vive tuttora. Adam Hradilek è capitato sul nome di Kundera per caso, in qualità di responsabile della gestione degli archivi comunisti all'«Istituto di studio sui regimi totalitari»: la studentessa che doveva incontrare Dvorácek quella sera, dopo oltre 50 anni di sensi di colpa, ha chiesto notizie al giornalista e storico Hradilek perché temeva di avere involontariamente tradito l'amico. Ha scoperto invece che all'origine dell'arresto ci fu Milan Kundera, che né prima né dopo l'abiura del comunismo ha mai parlato dell'episodio.

Corriere della Sera 13.10.08
La ricerca I risultati dell'indagine della Fondazione «Farefuturo» che dimostra l'impegno femminile
I numeri L'80 per cento di chi ha un lavoro regolare nel nostro Paese non si sente discriminato
L'integrazione in Italia: il ruolo delle immigrate
Il 70% ha casa e reddito sufficiente
di M. Antonietta Calabrò


È la donna il vero motore dell'integrazione, il punto di forza su cui fare leva per il successo di politiche che superino disagi, difficoltà, paure e rischio di reazioni razziste. Le donne immigrate sono infatti il principale «agente» di inserimento dei loro gruppi etnici nel nostro Paese, «poiché svolgono una funzione di confronto e di stimolo sia nei confronti della propria comunità che della nostra, quella ospitante».
Il fenomeno riguarda indistintamente tutte le nazionalità, sia quelle che provengono dal Mediterraneo meridionale sia quelle che provengono dal Mediterraneo orientale e qualunque sia la religione professata (mussulmana, cattolica o altra confessione cristiana, come quella ortodossa). Insomma, la differenza di genere (maschio/femmina) — ossia la distinzione tra le posizioni di uomini e di donne rispetto agli stessi problemi — sembra una variabile così importante ai fini della riuscita dell'integrazione, da superare tutte le altre.
È questo il risultato sorprendente di una ricerca commissionata (e questa è un'altra sorpresa) dalla Fondazione «Farefuturo », una fondazione di centrodestra, presieduta da Gianfranco Fini e diretta da Adolfo Urso. Lo studio è stato curato dall'istituto di ricerca di Nicola Piepoli e verrà presentato oggi a Roma.
In particolare, il sondaggio evidenzia che la comunità mussulmana non può essere considerata un monolite, perché al suo interno le posizioni di uomini e donne molto spesso divergono e, tra tutte le immigrate, «sono in particolare le donne mussulmane quelle che riconoscono che la presenza in Italia fornisce maggiori opportunità per i figli e un incremento delle conoscenze della famiglia».
Lo studio si basa su un campione rappresentativo degli immigrati «regolari» e residenti nel nostro Paese in media da circa sette anni: il 70% ha un lavoro e vive in affitto, ha un reddito giudicato complessivamente «sufficiente». Per metà è di religione mussulmana (30% sono i cattolici e lo stesso dato è espresso dalla componente che si autodefinisce «non credente»).
Ebbene, le maggiori difficoltà evidenziate per gli uomini sono quelle relative alla casa o all'abitazione, mentre le donne tendono più a rilevare anche gli aspetti psicologici relativi ad ostilità incontrate o a problemi di adattamento, soprattutto se casalinghe. In generale, tuttavia, le donne più degli uomini ritengono di «non riscontrare nessuna difficoltà particolare ». Per cui, nel complesso, ben l'80% degli immigrati si sente «molto» o «abbastanza integrato» in Italia, con percentuali sensibilmente maggiori per quelli provenienti dall'Est Mediterraneo.
Oltre il 50 per cento del campione, inoltre, con priorità per le donne lavoratrici (16% in più delle casalinghe), ritiene «facili le relazioni con gli italiani». Nel complesso si tratta soprattutto di over trentacinquenni e di persone di livello di istruzione superiore. Tale percezione è però più diffusa nei soggetti in coppia o in famiglia (10 per cento in più rispetto a quelli senza partner).
Il 30 per cento di coloro che valutano difficili i rapporti è invece composto prevalentemente da giovani uomini con una leggera prevalenza della classe d'età 1834 anni, e coinvolge principalmente maschi con i livelli di istruzione più bassi e i soggetti non in coppia. E' un dato quest'ultimo che fornisce, se ce ne fosse stato bisogno, una specie di controprova dell'importanza del ruolo femminile nell'integrazione.
Allo stesso modo, se la principale causa di difficoltà nei rapporti con gli italiani è imputata alla reciproca diffidenza — seguita dalla percezione di ostilità e dalla costatazione di avere poco in comune — le motivazioni più pesantemente negative («diffidenza» e «ostilità ») sono addotte principalmente dagli uomini, mentre le donne sottolineano molto di più la componente di «disinteresse» degli italiani. L'appartenenza religiosa non determina invece differenze particolari.
Al campione è stato anche chiesto di individuare, in una scala di valori, il livello di compatibilità tra le proprie caratteristiche di nazionalità, cultura e religione e quelle italiane. Circa la metà sostiene di avere un livello di compatibilità intermedio («abbastanza»). Nel complesso, tuttavia, la valutazione è molto positiva perché a questo dato va aggiunto quello del 13 per cento degli intervistati che afferma di avere una compatibilità «elevata ». «Anche sotto questo profilo — afferma la ricerca — la valutazione positiva delle donne è maggiore di quella degli uomini».
Più della metà delle donne intervistate, inoltre, non ritiene di rappresentare un modello che si contrappone a quello della donna italiana. Una percentuale che sale al 60 per cento tra le lavoratrici, che affermano che la diversità si attesta sul livello «del poco» o «per nulla». Sono in prevalenza le donne, inoltre (quasi il 60 per cento del campione), a ritenere la poligamia una pratica offensiva. Gli uomini non prendono una posizione così netta. Al 37% che ne condivide il carattere offensivo segue un 27% che la ritiene «normale », e un 11% che la ritiene addirittura «vantaggiosa» per le donne. Nello specifico del campione dei fedeli mussulmani si evidenzia ancora di più la polarizzazione tra una percezione di «offensività» che è molto maggiore per le donne e una percezione di «normalità » che invece attiene prevalentemente agli uomini.
Sul divieto di indossare il velo a scuola per le bambine il campione si divide quasi equamente tra i favorevoli e i contrari e le risposte sono influenzate da livello di istruzione, area geografica di provenienza e religione, e meno dal sesso. Ma il 66 per cento ritiene che la legge italiana non debba stabilire eccezione per le donne adulte con il velo. In questo caso, però, a richiedere l'eccezione sono maggiormente gli uomini, prevalentemente mussulmani, mentre a ritenerlo non necessario sono le donne, senza differenza di condizione lavorativa. Anche la maggioranza delle donne mussulmane è contro un riconoscimento specifico. La scuola, infine: l'80 per cento è favorevole ad una educazione mista, italiani/ stranieri.
L'immagine del nostro Paese presso gli immigrati (che pure già partiva da un 92 per cento di positività) è progressivamente migliorata negli anni. Ma — in base alla ricerca commissionata da «Farefuturo» — sono ancora una volta le donne, soprattutto le lavoratrici, a rappresentare la parte più convinta che il nostro sia ancora il Bel Paese.

Corriere della Sera 13.10.08
Il sociologo Marzio Barbagli: il più alto tasso di episodi criminali si manifesta all'interno di gruppi etnici omogenei
«Ma sono ancora le prime vittime della violenza»
Nel '92 la presenza femminile era di 66 donne ogni 100 uomini, oggi sono 102
di M.A.C.


Le statistiche dimostrano che per un'immigrata il rischio di essere uccisa è più elevato che per un'italiana
Un quarto delle donne assassinate in Italia sono straniere e in un quinto degli omicidi è straniero l'uomo ucciso

«In quindici anni — spiega il sociologo bolognese Marzio Barbagli — si è sviluppata una tendenza molto forte: le donne immigrate hanno sorpassato gli uomini. Nel '92 venivano in Italia 66 donne ogni cento uomini, l'anno scorso, 2007, erano 102 donne per ogni 100 uomini». Questa femminilizzazione dell'immigrazione nel nostro Paese dovrebbe spingere a cambiare l'approccio alle politiche di inserimento nel nostro Paese, ma anche quelle di contrasto alla criminalità. «Perché — aggiunge Barbagli — c'è un dato incontestabile: chi subisce i reati commessi da immigrati sono prevalentemente altri immigrati, e tra loro in particolare le donne». Parliamo soprattutto dei reati più gravi, i reati violenti e di sangue, gli omicidi e gli stupri. Questa è l'altra faccia della luna: la donna non solo è il più forte «agente» di integrazione, ma ne è spesso la vittima.
«Le violenze sessuali sono un reato molto praticato dagli immigrati », spiega Barbagli che ha appena scritto un libro su Immigrazione e sicurezza in Italia in cui analizza le serie storiche dei reati per cui sono stati denunciati gli immigrati. «La percentuale di tutti gli stupri commessi da immigrati è veramente molto alta e in quindici anni si è quadruplicata: è arrivata al 40 per cento di tutte le violenze sessuali commesse nel 2007, mentre nel 1988 era del 9 per cento ». Ebbene, in base alle analisi svolte da Barbagli, mentre le violenze di marocchini, tunisini o in genere nordafricani «riguardano una su due un'italiana, i romeni per un terzo violentano un'italiana, ma per il 47 per cento stuprano una loro connazionale». Sono dati molto significativi che spesso nascondono una realtà ancora peggiore: è infatti facile presumere che un'italiana sporga più facilmente denuncia rispetto a una straniera che non è in regola. «Si tratta quindi di cifre sottostimate » dice il professore.
L'andamento dei grafici che illustrano che nell'arco di quattordici anni la percentuale di stranieri sul totale degli assassinati in Italia secondo il sesso è addirittura impressionante. E se è vero che «in Italia gli immigrati corrono più rischi di essere uccisi rispetto agli italiani, questa differenza è ancora più grande nella popolazione femminile, in particolare in quella che vive al Centro-Nord». Per mano di altri immigrati.
Nel '92 gli immigrati maschi uccisi per mano di altri immigrati («Quasi sempre connazionali o appartenenti a gruppi etnici limitrofi, tunisini e marocchini magari si uccidono tra loro, mentre difficilmente colpiscono i provenienti dalla penisola balcanica») erano il 7,1% e le donne il 9,5%. Nel 2005 queste percentuali sono diventate rispettivamente del 16,1% (uomini) e del 26,5% per cento (donne). «Sono delle cifre enormi, se rapportate al totale della popolazione immigrata e della popolazione italiana: in sostanza — afferma Barbagli — un quarto delle donne uccise in Italia sono straniere e in un quinto degli omicidi, è straniero l'uomo assassinato».
E se quasi la metà delle italiane vittima di omicidio è uccisa nell'ambito Marzio Barbagli, sociologo, è autore di un recente saggio su «Immigrazione e sicurezza in Italia» in cui analizza le serie storiche dei reati per cui sono stati denunciati gli immigrati. Dal '92 ad oggi si registra un costante aumento dei crimini di cui sono vittime le donne
domestico (fidanzato, marito, amante, per conflitti di vario tipo), quasi un terzo delle straniere muore per gli stessi motivi. Chi non ricorda il caso di Hina, la giovane pachistana uccisa a coltellate dal padre? Ma il 39 per cento delle albanesi e il 13 per cento delle ex jugoslave sono state uccise nello svolgimento di attività legate alla prostituzione.
Non manca anche il dato in controtendenza: donne non solo vittime ma pure autori di reati e cioè la forte presenza delle donne balcaniche tra gli autori di reati quali il borseggio, il furto in appartamento e le rapine sulla pubblica via. Le bosniache, in particolare, sono ben il 41 per cento di tutti i denunciati per quest'ultimo tipo di reato. La quota di donne sul totale dei denunciati per furto nel 2001 era del 20 per cento per le romene, del 46 per cento per le ex jugoslave e addirittura del 56 per cento per le croate. Nel triennio 2004-06 queste cifre sono cresciute rispettivamente al 25 per cento per le rumene e al 72 per cento per le croate.

Corriere della Sera 13.10.08
Le peripezie di Bombacci dal bolscevismo a Salò
di Sergio Romano


Vorrei conoscere la sua opinione su Nicola Bombacci, politico romagnolo di spessore che è stato lungamente ignorato dai mass media e dagli storici in quanto figura controversa (da alcuni definito fanatico, esaltato, istrione e addirittura patetico) del panorama istituzionale italiano del periodo 1910-1945.
Roberta Tirapani
robertatirapani@ibero.it
Cara signora,
Forse la parola «spessore » è quella che meno si adatta alla personalità di Nicola Bombacci. Fu certamente un uomo coraggioso e capace di generosi entusiasmi, ma anche volubile e contraddittorio. Le contraddizioni sono evidenti sin dall'inizio della sua vita. Nacque a Civitella di Romagna in provincia di Forlì nel 1879 (quattro anni prima di Mussolini) da un coltivatore diretto che era stato soldato pontificio prima del 1860, quando l'Emilia e la Romagna appartenevano agli Stati della Chiesa. A diciassette anni, nel 1896, era seminarista, ma tre anni dopo lasciò il seminario, forse per ragioni di salute, forse per motivi disciplinari. Divenne maestro, come Mussolini, insegnò in alcune scuole elementari del Regno e si iscrisse al partito socialista nel 1903. Il suo matrimonio fu celebrato in chiesa, ma non volle che il figlio Raoul fosse battezzato. Negli primi anni della sua militanza politica fu riformista e strenuo avversario dei sindacalisti rivoluzionari, ma nel 1909, quando divenne segretario della Camera del lavoro di Crema, cominciò a criticare il partito da posizioni massimaliste. Troverà queste e altre informazioni, cara signora, in un libro di Guglielmo Salotti («Nicola Bombacci da Mosca a Salò») pubblicato dall'editore Bonacci nel 1986 in una collana diretta da Renzo De Felice.
Negli anni che precedettero la Grande guerra, quindi, Bombacci parve a molti una sorta di fratello maggiore di Benito Mussolini. Romagnoli, maestri elementari, anticlericali, buoni oratori, scrittori di infiammati articoli anticlericali e allevati nei circoli socialisti di una regione dove la politica veniva praticata con entusiasmo, rabbia e una forte dose di retorica, i due sembravano destinati a fare carriere parallele nello stesso partito. La rottura ebbe luogo nel 1914 quando Mussolini divenne interventista, mentre Bombacci rimase attestato sulla linea più radicale del partito socialista. E sembrò diventare insanabile quando Bombacci sposò entusiasticamente la causa della Rivoluzione d'Ottobre, fece un lungo viaggio a Mosca e partecipò alla fondazione del Partito comunista d'Italia. Ho scritto «sembrò» perché negli anni seguenti i suoi rapporti con il partito divennero spesso difficili. Qualcuno (Angelica Balabanoff per esempio) lo giudicava troppo ambizioso, vanitoso, esibizionista. Altri diffidavano del suo «avventurismo » rivoluzionario. Altri invece, come Mario Missiroli, sostenevano che «predicava alle folle, stanche e inquiete, la necessità della rivoluzione avvertendo però che i tempi non erano maturi».
Dopo l'avvento del fascismo, fu chiaro che a Bombacci, ormai deputato in Parlamento, stava a cuore soprattutto lo stabilimento dei rapporti con la Russia rivoluzionaria e lo sviluppo delle relazioni economiche fra i due Paesi. Quando il governo Mussolini cominciò a muoversi in questa direzione, fece a Montecitorio un discorso filogovernativo che suscitò le ire del partito. Espulso, riammesso e definitivamente cacciato nel 1927, Bombacci finì in una sorta di limbo. Non era più comunista, ma aveva ancora buoni contatti nella Russia sovietica. Fu questa, forse, la ragione per cui Mussolini non volle che finisse nelle liste di proscrizione e venisse trattato alla stregua di un nemico politico. Quando il suo nome apparve fra quelli contro i quali la polizia politica suggeriva qualche provvedimento, il capo del governo lo depennò e disse bruscamente: «Di questo mi occupo io». Ebbe un incarico all'Istituto del commercio estero che gli permise di mantenere la famiglia e ne fu grato a Mussolini. Ma la scelta di seguirlo a Salò non fu semplice riconoscenza. Nella svolta a sinistra del fascismo morente Bombacci vide la possibilità di realizzare la «socializzazione », un'idea che gli ricordava gli anni dei suoi entusiasmi rivoluzionari. Sul lungolago di Dongo, dove fu fucilato con molti gerarchi fascisti, morì gridando «Viva il socialismo!».

il Riformista 13.10.08
Nessi. Se tramonta l'egemonia degli Usa, rinasce l'uovo del serpente La crisi americana e i fascistelli italiani
di Antonio Polito


C'è un nesso tra gli editoriali dei giornali che annunciano la fine del secolo americano, dell'egemonia americana, della leadership americana, e la masnada di fascistelli italiani che salutano romanamente allo stadio di Sofia? Ovviamente no. Ma potrebbe esserci presto. Questo mondo «multipolare» che dovrebbe nascere dal grande disordine mondiale, di cui tutti ci annunciano gongolanti l'avvento, c'è già stato, prima della Grande Guerra e tra le due guerre, e ha prodotto in Europa i peggiori rigurgiti nazionalisti, populisti, razzisti, xenofobi, e infine fascisti e nazisti. Anni in cui non c'era egemonia americana. Anni in cui la crisi economica ha liberato le forze più oscure che si agitano nel petto degli uomini. Se vogliamo cercare le radici di questo nuovo fascismo pop, più moda che ideologia, più comportamentale che politico, talvolta violento e talvolta solamente esibizionista, dobbiamo dunque cercare nel mainstream della cultura nazionale, e non nei campi hobbit e nemmeno nelle convulsioni finali del partito che una volta lo rappresentava, e che è scioccato anche più di noi dal risorgere di un fenomeno da cui i Fini, i La Russa, gli Alemanno credevano di essersi finalmente liberati.
Primo: io non credo alla fine del secolo americano. Anzi, mi sembra che la crisi stia clamorosamente confermando la permanente centralità dell'America. Nessuno di voi va a guardare al mattino come ha aperto la Borsa di Shangai, ma alla sera sappiamo tutti come ha chiuso Wall Street. E' vero che l'America è l'epicentro del terremoto, ma di conseguenza è anche il luogo dove sta nascendo ciò che verrà dopo. Se ogni crisi è trasformazione e opportunità, si può star certi che la trasformazione avverrà prima lì e l'opportunità, se mai ce ne sarà una, scaturirà da lì. Quali sarebbero questi nuovi poli che possono sostituire l'America nell'arco della nostra vita? La Cina, il cui socialismo di mercato fondato sulla burocrazia del partito unico distribuisce latte al veleno a decine di migliaia di bambini? La Russia, la cui Borsa va più a rotoli di Wall Street mentre i soldati marciano in Georgia? L'Europa, la cui ambizione culturale e politica è naufragata di fronte all'emergenza finanziaria, sollevando il velo su 27 paesi in ordine sparso, i cui leader fanno un vertice a settimana, si trovano d'accordo sul loro disaccordo, e poi tornano a casa e ognuno fa a modo suo con i suoi soldi e le sue banche e i suoi elettori? L'America ha commesso grandi errori in questi ultimi anni. Errori di arroganza e di «greed», di avidità. Greenspan ha largheggiato col credito e Bush con le armi intelligenti. Però se alla fine di questa storia se ne uscirà con il capitalismo - un capitalismo magari diverso e con meno derivati - c'è solo un paese che può esserne il traino, e quello è l'America. Soprattutto perché, tra venticinque giorni, avrà di nuovo un leader.
Oppure non è così, io sono un inguaribile filo-americano e il mondo che verrà non avrà mutui a tassi bassi, carte di credito per tutti, accesso facile a Internet e tv satellitare. E allora, se così sarà, potete star sicuri che ci saranno molti più fascisti. Consapevoli e inconsapevoli. Del resto il nostro dibattito politico già trabocca di pensiero autoritario. Il premier preferisce ormai apertamente il Cremlino alla Casa Bianca. Il ministro del Tesoro ci ha avvisato che il suo motto è «Dio, patria e famiglia». I fantasmi di Maurras e di De Maistre già si aggirano nell'arena pubblica. I pestaggi ai neri non nascono di lì, ovviamente; ma sono l'equivalente di tanti piccoli casi Dreyfus, il solidificarsi di un sentimento popolare che individua nelle demo-plutocrazie la colpa dei mali, nella concorrenza dello straniero la causa dell'impoverimento, nell'establishment dei banchieri e degli uomini d'affari quel demonio che l'arte di Weimar dipingeva con tanta grottesca efficacia mentre covava l'uovo del serpente nazista, e che oggi è raffigurato nelle fiction di Annozero. Non dico che da questa crisi si uscirà nel modo vergognoso in cui l'Europa uscì da quella del '29, a loro Roosevelt e a noi Hitler e Stalin e Franco e Salazar. Ma prego Iddio che l'America conservi la sua leadership e che il secolo che è appena cominciato resti almeno per un po' americano. Perché se così sarà, allora possiamo star tranquilli che per la terza volta nella storia saprà svuotare di senso i nostri fascistelli allo stadio, i nostri teppistelli di Tor Bella Monaca, i nostri razzistelli mafiosi di Castelvolturno, con la forza del benessere, di Hollywood, delle Visa e di Google, diffondendo i valori democratici dell'everyman, dell'uomo attivo e laborioso che prova a vincere la sua lotta per l'esistenza nel tanto vituperato mercato, invece che nella guerra dell'odio col vicino di casa. E allora forse, ma solo allora, si riaprirà una prospettiva per questa vecchia sinistra europea, che ha già perso tutto, ma che se si lascia incantare dalle sirene del populismo post-americano perderà presto anche l'onore.

il Riformista 13.10.08
Quanto influisce il colore della pelle
Le razze esistono, checché ne dica la genetica
E Obama rischia di capirlo il 4 novembre
di Anna Meldolesi


Negli ultimi decenni la genetica ci ha abituato a dire che le razze non esistono. Ma per la psicologia le cose stanno ben diversamente: se c'è una cosa di cui ci accorgiamo subito e facilmente quando vediamo qualcuno sono le caratteristiche di fisionomia e pigmentazione legate alle categorie razziali. Saranno anche geneticamente ininfluenti, anzi ingannevoli, perché sotto decorazioni diverse possono nascondersi torte con lo stesso ripieno. Ma per la nostra corteccia cerebrale questi tratti somatici sono dannatamente vistosi. In media impieghiamo meno di 100 millisecondi per registrare la razza di una persona osservando la sua faccia. Dall'età di 10 anni iniziamo a interiorizzare i tabù sociali e a glissare sull'argomento nelle conversazioni , magari ricorrendo a complicati giri di parole per evitare riferimenti diretti alle origini etnico-geografiche delle persone. Insomma sembriamo programmati per notare le differenze razziali ma la maggior parte di noi si vergogna ad ammetterlo. E ora sono in tanti a chiedersi come influirà questo intreccio di istinti e imbarazzi sulle elezioni americane, compresa la rivista scientifica Science. Quanti elettori che dichiarano di essere pronti a votare il candidato democratico lo faranno davvero? E' possibile che le persone più imbarazzate dalla questione razziale si stiano tenendo alla larga dai sondaggi?
Molti lo chiamano "effetto Bradley", in riferimento all'afroamericano che nel 1982 ha perso la poltrona di governatore della California pur risultando vincente nei poll. Ed è tornato a manifestarsi nel 1989, quando l'afroamericano Douglas Wilder ce l'ha fatta per un pelo a diventare governatore della Virginia, pur avendo un vantaggio teorico del 15%. Qualcuno ha creduto di riconoscere l'effetto Bradley anche nella rimonta della Clinton durante le primarie del New Hampshire. Ma nessuno sa cosa aspettarsi per il 4 novembre. Daniel Hopkins di Harvard ha esaminato tutte le elezioni che hanno visto impegnato un aspirante governatore o senatore afroamericano, trovando indizi favorevoli a Obama. Prima del 1996 i candidati neri, una volta arrivati alle urne, vedevano scomparire il 2-3% dei consensi previsti dai sondaggi. Ma dopo questa data l'effetto Bradley è difficile da rintracciare. L'America dunque è pronta per il primo presidente di colore? Non c'è da scommetterci, secondo il modello pubblicato questo mese sulla rivista PS: Political Science and Politics. Lo ha sviluppato Michael Lewis-Beck della University of Iowa combinando poll, dati economici e percezione pubblica della Casa bianca. La sua previsione? Obama si aggiudicherà il 50,1% dei voti popolari, un risultato ben al di sotto delle aspettative di questi giorni. Se si fa correre il modello senza tenere conto della razza il democratico balza al 56%, ma se si inserisce anche questo fattore il consenso crolla di 6 punti.
Nel 2007 quando Brian McCabe e Jennifer Heerwig della New York University hanno chiesto al loro campione chi fosse pronto a votare un afroamericano come presidente, l'84% ha risposto positivamente, ma l'analisi statistica ha consentito di smascherare un 14% di "bugiardi" in buona parte democratici. Le virgolette sono d'obbligo, perché secondo le ultime conoscenze acquisite nel campo della psicologia gran parte delle nostre attività mentali avvengono a nostra insaputa. Molti di quelli che si dicono indecisi, credono di esserlo ma non lo sono affatto. E quando i sondaggisti ci chiedono perché preferiamo un candidato anziché l'altro tendiamo a inventare delle risposte logiche per giustificare una scelta che in realtà si è consumata sul piano dell'istinto. Il che dovrebbe renderci particolarmente cauti anche nelle analisi successive al 4 novembre, quando cercheremo di spiegare perché dopo tutto ce l'ha fatta McCain o in che modo Obama è riuscito a sconfiggere pregiudizi che rappresentano una delle parti meno nobili del nostro bagaglio evolutivo.

domenica 12 ottobre 2008

Repubblica 12.10.08
Trecentomila per gli organizzatori, Bertinotti protagonista tra strette di mano e fischi
Sinistre in corteo dopo la sconfitta "Qui finisce la stagione del ritiro"
Il popolo rosso chiede unità, ma i dirigenti sfilano divisi
di Carmelo Lopapa

ROMA - Bella ciao e Avanti popolo e le falci e i martelli e migliaia di bandiere rosse e il "Che" e i bimbi sulle carrozzine e quanta musica, i ragazzi ballano. Un serpentone rosso si snoda per le vie di Roma. Rimasta fuori dal Parlamento, rieccola qui, la sinistra, riappare nei giorni della crisi nera del capitalismo. Più allegra, colorata e soprattutto numerosa di quanto se l´aspettassero i suoi leader. I dirigenti rinnovati dell´ex Arcobaleno hanno organizzato la piazza contro governo e Confindustria ma già litigano sul futuro.
Per Bertinotti, maglioncino in cotone blu, è un piccolo bagno di folla tra strette di mano e foto. Per i militanti, vecchi e giovani, sebbene reduce dalla doppia sconfitta elettorale e congressuale, resta il «subcomandante Fausto». Lui, abbraccia il segretario-avversario Ferrero a beneficio delle telecamere, ma poi sfila una ventina di metri dietro. Qualcuno lo contesta per quella frase sulla parola comunismo «indicibile». Altri indossano una t-shirt polemica: «Indicibile. Ma io sono comunista». L´ex presidente della Camera comunque contento, «la manifestazione ridà voce alla sinistra e dimostra che ci sei in questo deserto dei tempi». Se questo 11 ottobre - coincidenza con i dieci anni esatti dalla scissione del Prc - segnerà davvero l´inizio della riscossa che sogna Pietro Ingrao, si vedrà. Certo è un bel certificato di esistenza in vita il corteo contro il governo Berlusconi e la Confindustria che da Piazza Esedra raggiunge la striminzita piazza della Bocca della verità. Trecentomila secondo i promotori, 20 mila secondo la Questura, per quella che Diliberto ha subito battezzato la giornata dell´«orgoglio comunista» e Ferrero la «fine del ritiro». Al banchetto in piazza si raccolgono le firme contro il Lodo Alfano.
Sono le migliaia di militanti a tenere uniti questi dirigenti sempre rissosi di Rifondazione, Pdci, Verdi e Sdi, perché di cortei, ieri - a dire il vero - ne sono sfilati almeno tre. Dietro lo striscione di testa, il segretario del Prc Paolo Ferrero che propone un «coordinamento delle sinistre» e boccia l´idea della «costituente», con lui la nuova leader verde Grazia Francescato. Ma già Oliviero Diliberto del Pdci, che di riedizione dell´Arcobaleno non vuole sentir parlare, si è tenuto lontano, preferendo marciare coi suoi: «Bisogna ricreare un unico partito comunista». Lavorano da ieri a ben altro il governatore Nichi Vendola, l´ex segretario Prc Franco Giordano e il leader Sdi Claudio Fava. Loro (e c´è anche Achille Occhetto e Gennaro Migliore) hanno optato invece per la coda del corteo, a una distanza siderale da Ferrero e dietro lo striscione «Per la sinistra». Sarà intanto un´associazione politico culturale, anticipa il governatore pugliese già proiettato verso una leadership di sinistra più ampia. Fava passeggia con santino al petto della Gelmini con aureola e la scritta "Beata ignoranza". «Oggi comincia un percorso che dovrà portarci entro fine anno a un´assemblea costituente della sinistra - è la sua ricetta - Questa gente ci chiede di andare avanti, oltre il sinedrio delle segreterie». Ferrero e Diliberto sono avvertiti. In effetti, i militanti che si imbattono nei leader chiedono unità. I giornalisti del "Manifesto" sfilano col bavaglio, contro i tagli all´editoria. Marco Ferrando è alla guida dei militanti del Partito comunista dei lavoratori. Gli slogan contro il governo si sprecano, la Gelmini in testa alle preferenze di cartelli e striscioni (e cori). Ma su qualche cartello anche il Pd di Veltroni diventa «Pinocchio» e «Traditore». «Walter, esci dal letargo» cantano alcuni ragazzi. Per un momento compaiono i democratici Livia Turco e Vincenzo Vita, salutano e vanno via. Dietro il camion degli immigrati un popolo di colore e rom sfila e balla. Ambra, 30 giorni di vita in braccio alla mamma Maurizia ricercatrice precaria all´Università di Roma 3, è la più piccola del corteo e si guarda intorno.

Corriere della Sera 12.10.08
Doppia iniziativa Ferrero sfila con Bertinotti. Urla contro l'ex leader: il comunismo è il futuro
La sinistra si riprende la piazza «L'opposizione siamo noi»
In 300 mila per gli organizzatori, in 20 mila secondo la questura
Di Pietro, sit-in anti immunità. Alfano: manifesterò per difenderla
di Alessandro Capponi

Il segretario prc: siamo 300 mila Di Pietro cita Borrelli: «Resistere resistere resistere alla dittatura dolce. Siamo già a 250 mila firme anti lodo»

ROMA — La biondina calza Hogan e veste Gucci, è lì per caso, e attraversa via Cavour e tutte quelle bandiere rosse senza guardarsi intorno, senza mai sollevare lo sguardo da terra: dieci anni esatti dopo la scissione di Prc, ecco tornare i comunisti, uno accanto all'altro; non solo comunisti, in verità: Prc e Pdci, Verdi e Sinistra democratica, qua e là le bandiere della pace e quelle della Fiom, c'è anche Sinistra critica che raccoglie firme per il salario minimo e i No Dal Molin accanto ai No Tav accanto ai No war. Un arcobaleno, volendo.
«Cinquecentomila extraparlamentari » per Caruso, 300 mila secondo Ferrero e i suoi, ventimila per la questura. Dove andranno, politicamente, non è chiaro. Le opzioni sono tante e ovviamente anche qui, anche nel corteo di oggi, Vendola è dove non è Ferrero, e Diliberto non fa in tempo a dire che «siamo pronti a fare una lista con Rifondazione» che Gennaro Migliore risponde subito di «no», prima che Ferrero chiuda il discorso: «La sinistra ha passato troppo tempo a discutere di come andare alle elezioni. Questo è il tempo di ricostruire l'opposizione per ricostruire il rapporto con la nostra gente». Non dev'essere semplice, se anche Fausto Bertinotti viene contestato per aver detto, giorni fa, che «il comunismo è una parola indicibile»: qua e là, gli urlano che «il comunismo è la parola del futuro». Del resto, è per questo che manifestano. Contro il governo Berlusconi, principalmente, contro il ministro Gelmini — un gruppo di ragazzini delle elementari le dà un voto tondo, zero — e contro Confindustria, criticata con una formula vecchia ma efficace, «i padroni». Non si vede Ingrao che pure aveva annunciato la presenza, ma in ogni caso questa, per Diliberto, «è la giornata dell'orgoglio comunista ». C'è un altro aspetto della manifestazione: «L'opposizione è nelle nostre mani», dice lo striscione d'apertura. E il Pd? «Pinocchio» e «Traditore», a leggere un paio di cartelli. O ad ascoltare Diliberto, «il Pd non fa opposizione», e Ferrero, «per noi non ha senso partecipare al corteo del 25». Claudio Fava, Sd, svela che «avevamo chiesto a Veltroni di manifestare assieme, ci ha detto di no». Vincenzo Vita e Livia Turco del Pd, fermi su via Cavour, guardano sfilare il corteo.
Poco distante, in piazza Navona, Antonio Di Pietro raccoglie firme contro il lodo Alfano: «Con 3.600 banchetti in tutta Italia siamo già a 250 mila firme». Il ministro della Giustizia, a Palermo, difende il Lodo che porta il suo nome: «Lo difenderemo in piazza, abbiamo fatto una legge nell'interesse del Paese». «È un'idea criminale», per Di Pietro, applaudito da tremila persone. Firmeranno il referendum anche gli ulivisti pd, annuncia Monaco. Di Pietro ricambia: «Noi al corteo del 25». Perché «ci stiamo avvicinando a una dittatura dolce, è ora di fare fronte comune, la dittatura è alle porte ». Dal Pdl Bonaiuti parla di «barzellette» e Cicchitto di «delirio politico». Ma per Di Pietro «se non ci fossero certe leggi tanti parlamentari sarebbero latitanti ». Berlusconi sbaglia anche in questo tempo di crisi: «Fa insider trading». Di Pietro conclude citando Borrelli: «Resistere, resistere, resistere. Questa Piazza Navona è sempre più Piazza Legalità».

Corriere della Sera 12.10.08
Decreto anti crisi, sì del Pd «Ma il 25 manifesteremo»
Marini: italiani preoccupati, giusto il voto a favore
Veltroni: in Italia non c'è un regime. Finocchiaro: le misure adottate dal governo sono rassicuranti e vanno bene

ROMA — Avanti, ma con moderazione. I vertici del Pd confermano la manifestazione del 25 ottobre, ma sfumano le parole d'ordine contro la politica del governo. E l'effetto della crisi economica, di fronte alla quale occorre per forza di cose fare fronte comune, fa sentire il suo peso. Non a caso Walter Veltroni, da Comiso, sottolinea che «in Italia, per fortuna, non siamo in un regime». E Franco Marini — che da Assisi, dove si svolge il convegno degli ex popolari, sprona il segretario a fare un partito meno di «immagine» — invita il Pd a votare a favore del decreto legge, pensato dal governo per affrontare la situazione: «Gli italiani sono preoccupati: su questi argomenti non si scherza. Su questo tema si vota a favore: sarebbe davvero fuori luogo l'astensione». Gli dà ragione, a distanza, anche Anna Finocchiaro: «Le misure adottate dal governo sono di rassicurazione e vanno bene».
Ma l'ex presidente del Senato non dice che per questo bisogna annullare la manifestazione: «Nonostante l'appoggio a quel decreto, restano tutte le ragioni del 25 ottobre, perché c'è un dissenso forte con la politica economica del governo. Servono ad esempio, subito, sei-sette miliardi per i salari più bassi e le pensioni». E conclude con un monito al partito: «Dobbiamo saper distinguere tra il "sì" al salvataggio delle banche e le nostre proposte economiche».
Un «sì» moderato al corteo viene anche dal dalemiano Nicola Latorre. Non a caso ripete: «L'antiberlusconismo è meglio lasciarlo ad altri, come Di Pietro: non dobbiamo fare regali di questo tipo al centrodestra». Poi spiega come deve essere il tenore della manifestazione: «L'importante è che sia propositiva. Perché è vero che il decreto del governo ha un senso, dato che interviene sul versante emergenziale. Ma poi ci sono tutti i nostri temi da proporre con forza, cioè il sostegno ai salari, alle pensioni e allo sviluppo, tutti argomenti per i quali il governo non ha fatto finora nulla di concreto». Simile la posizione di Enrico Letta: «Tengo a sottolineare che si tratta di una piazza "per"». Quindi non di una piazza contro.
Il veltroniano Giorgio Tonini assicura che la manifestazione del 25 ottobre «dimostrerà che il Partito democratico, più di altri, ha a cuore l'interesse degli italiani, tanto più in un momento difficile come questo: a differenza dei cortei della destra di appena due anni fa, non parleremo di regime e non insulteremo i nostri avversari politici». Ma il prodiano Franco Monaco, fautore di una linea più dura contro il governo, continua ad essere critico nei confronti dei vertici del partito: «Lo zigzag sul se, sul quando e sul come della manifestazione ci conferma nella doppia urgenza che denunciamo da sempre: quella di un Pd dotato di una bussola, quale che sia, e quella di un'opposizione vera, energica e unitaria. Anche questa è un'emergenSinistra in corteo

Corriere della Sera 12.10.08
Contrari Anche la Binetti critica: in piazza rischio disordini, io farò un bel seminario
Rossi-Calearo, cresce il fronte «no corteo»
di Roberto Zuccolini

ROMA — Nicola Rossi non ha dubbi: «Data la situazione sarebbe saggio evitare di scendere in piazza ». L'economista del Pd, già in passato critico sulla linea del centrosinistra, si aggiunge al gruppo dei contrari. Spiega perché: «Non solo il momento è delicato, ma quello che sta accadendo ai mercati è di tale portata che sarebbe davvero difficile per i cittadini vedere la gente che manifesta ». Ciò, precisa, «nulla toglie alla legittimità delle proposte che l'opposizione fa e deve fare per affrontare le attuali difficoltà». Tanto che tiene a ricordare che è stato lui stesso a parlarne al Senato.
Il corteo però «è meglio» non farlo. E i toni sempre più moderati che pure stanno assumendo anche i favorevoli alla manifestazione? «Le soluzioni intermedie sono quelle più incomprensibili, di più difficile leggibilità per il grande pubblico». Decisamente d'accordo anche con ciò che ha ribadito, sempre ieri, Franco Marini e cioè che si deve votare il decreto del governo sulla crisi: «Io veramente lo davo per scontato. Anzi, avrei sperato in qualcosa di più: che maggioranza e opposizione scrivessero insieme quel testo prima di presentarlo alle Camere».
Ma Nicola Rossi, dopo Marco Follini, Massimo Cacciari ed altri, non è l'ultimo a convincersi che sia meglio restare a casa il 25 ottobre. O, magari, fare altro. L'ex teodem Paola Binetti, ora legata all'associazione rutelliana «Per», che di manifestazioni non ne ha mai fatte in vita sua, precisa anche che cosa potrebbe essere questo «altro» da fare: «Per esempio un bel seminario in cui si espongono le nostre proposte economiche. Che sono senza dubbio diverse da quelle della maggioranza. E comunque, a mio giudizio la migliore piazza è il Parlamento». Confessa inoltre di non avere ancora dato i 1.500 euro richiesti dal partito per l'organizzazione del 25 ottobre e che medita di «darli a favore di qualche iniziativa» per i poveri: «Voglio essere coerente: se in Parlamento mi sono battuta per la mozione sulla povertà, insieme a Livia Turco, è opportuno che faccia anche qualcosa di concreto». E alla fine, su quella manifestazione che comunque non vedrà la sua partecipazione, lancia un allarme di altro tipo: «In un contesto sociale così esarcerbato dalla crisi non vorrei che la piazza sia a rischio di disordini».
Contrario al corteo anche l'imprenditore vicentino Massimo Calearo, eletto con il Pd alle ultime politiche. Fa una premessa che gli sta a cuore: «Credo che da un punto di vista economico e industriale la situazione del nostro Paese sia molto difficile. E il peggio deve ancora venire soprattutto per le piccole e medie imprese, che sono strutturalmente sottocapitalizzate». Quindi: «Di fronte all'emergenza nazionale e internazionale dovremmo rimboccarci le maniche e proporre, più che protestare e manifestare. E forse sarà così». Perché, crede che la manifestazione verrà annullata? «Mancano ancora due settimane al 25 ottobre e, di fronte a cambiamenti di scenario a ritmo ormai quotidiano, Veltroni potrebbe anche ripensarci ».

Repubblica 12.10.08
E Brunetta avverte i ricercatori: "Assumerò solo 1.886 precari su 4.523"
Gli altri 2.600 troveranno qualcosa. Chi fa questo mestiere è un capitano di ventura, stabilizzarlo è un po´ farlo morire
di Luisa Grion

ROMA - Premette che sta dalla parte dei precari, perché anche lui è stato un precario. Assicura che chi ha i requisiti per essere assunto - se tutte le condizioni saranno rispettate - sarà assunto. Ma dice anche che stabilizzare un ricercatore è un po´ come farlo morire. Renato Brunetta, ministro della Funzione Pubblica, mercoledì scorso ha convocato i 33 presidenti degli enti di ricerca per fare chiarezza su dati (quelli della tabella a fianco) e obiettivi. «E si è subito visto che sul caso c´è tanta demagogia» commenta.
Ministro, partiamo dai dati: i precari della ricerca sono 4.523, quelli che hanno i requisiti per essere assunti 1.886. Che fine faranno gli altri 2.637? Se ne andranno a casa ?
«Se ne andranno a fare altre esperienze, com´è giusto che sia. Mettiamo in chiaro una cosa: io sto dalla parte dei precari, lo sono stato anch´io, per 8 anni, prima di diventare professore. Ne conosco vita e angosce e sono il primo a dire che hanno diritto alla correttezza, a compensi adeguati e a serie aspettative di carriera. Però basta strumentalizzazioni e finte illusioni. Si è detto che i precari della ricerca sono 60 mila: ecco io dimostro che sono 4.523 e che solo una parte di questi - in base a norme emanate dal governo precedente, non da me - ha serie possibilità di essere assunto».
Non la certezza?
«Non la certezza. Ma bisogna spiegare le cose dall´inizio. Tutto è nato dal Protocollo del Welfare dell´allora ministro Damiano che stabilì come, dopo i 3 anni, i contratti a termine non potevano essere ulteriormente rinnovati, ma stabilizzati. Io con il decreto 112 ho esteso quel principio, valido solo nel privato, anche al pubblico. La stabilizzazione, voluta dal governo precedente, premetteva che avevano diritto al posto fisso solo i precari incaricati di mansioni ordinarie per tempo permanente: quindi - applicando il principio alla ricerca - "sì" a chi controlla tutti i giorni l´attività dei vulcani, "no" ai contratti su progetto. Lo diceva Prodi, non io. L´allora ministro Nicolais con la circolare 5/2008 ha poi precisato che per arrivare alla stabilizzazione le amministrazioni avrebbero dovuto indire i concorsi, dimostrare di avere posti liberi in organico, calcolare i vincitori di concorso in attesa di assunzione e rispettare i vincoli finanziari, ovvero avere i soldi necessari in bilancio. Rispetto a queste norme, in Finanziaria, abbiamo solo introdotto un taglio del 10 % sulle piante organiche. In più io ho richiesto il censimento del precariato per capire quanti e quali sono gli atipici. Non voglio "todos caballeros", ritengo ci siano molte cose da chiarire, a partire dai contratti a chiamata diretta che so essere tanti e che mi puzzano un po´. Per il resto chi ha quei requisiti, se i paletti di Nicolais saranno rispettati, potrà entrare. Così nella ricerca, come negli enti locali e sanità, settori sui quali procederò entro giugno».
Gli enti di ricerca per assumere dovranno dunque avere le risorse. Peccato che le Finanziarie vadano a tagliare sempre là.
«Questo attiene al problema della ricerca in Italia, ma va anche detto che nessun istituto, in nessuna parte del mondo - a meno che non compia funzioni istituzionali - vive di soli contributi statali. Va a cercarsi risorse sul mercato, attinge a fondi internazionali. Guai se così non fosse».
Restano sempre i 2.636 ricercatori presto a spasso.
«Non saranno a spasso, si cercheranno qualcos´altro da fare. Altri progetti, altre esperienze, magari in giro per il mondo. Siamo chiari: la ricerca è questa. I ricercatori sono un po´ capitani di ventura, stabilizzarli è un farli morire. Lo sa anche il professor Marino, che tanto mi critica. Senza tutti i progetti cui ha partecipato, gli istituti in cui ha lavorato, lui non sarebbe il professor Marino e io non sarei il professor Brunetta».

Repubblica 12.10.08
Il governo chiude quattromila scuole
Tagli alle scuole, l'ultima beffa via gli istituti con meno di 50 alunni
Lo prevede il decreto sanità. Chiusura per 4.000, rivolta delle regioni
Il 7 ottobre il diktat alle Regioni Scatta la protesta Il ministro: la sinistra mente
di Salvo Intravaia

ROMA - Il governo impone alle Regioni di tagliare istituti e plessi scolastici. Due le direttive da seguire: accorpare gli istituti sottodimensionati e chiudere i plessi con meno di 50 alunni. Così, già dal 2009, oltre 800 comuni di località montane e piccole isole potrebbero rimanere senza scuola, costringendo gli alunni a faticosi spostamenti per seguire le lezioni. Con un colpo a sorpresa, il 7 ottobre, l´esecutivo ha inserito in un decreto dal titolo "Disposizioni urgenti per il contenimento della spesa sanitaria e in materia di regolazioni contabili con le autonomie locali" un intero articolo riguardante la scuola. L´articolo 3 del decreto-legge 154 lancia un diktat alle Regioni sul "Dimensionamento della rete scolastica". Le Regioni che entro il 30 novembre risulteranno inadempienti verranno dapprima "diffidate" e dopo 15 giorni si vedranno arrivare un commissario ad acta. Il tutto in linea con il Piano programmatico della Gelmini che detta le regole per tagliare in un triennio 132 mila posti nella scuola e risparmiare 8 miliardi di euro.
La disposizione contenuta nel decreto-legge è quanto mai perentoria e le reazioni degli amministratori locali non si sono fatte attendere. Il presidente della Regione Piemonte, Mercedes Bresso, parla di «provvedimento insensato» che produrrà «grandi difficoltà di accesso e trasporti, soprattutto d´inverno». E l´assessore all´Istruzione della Regione Toscana, Gianfranco Simoncini, minaccia il ricorso alla Corte Costituzionale. Per Simoncini quello del governo è «un atto arrogante, irresponsabile, irrispettoso e illegittimo». Mentre la collega della regione Umbria, Maria Prodi, si dice preoccupata per una scuola «agonizzante, penalizzata da tagli imposti senza alcuna ragionevolezza». In Italia, sono 10.760 le istituzioni scolastiche autonome che si articolano in 41.862 scuole: plessi, sedi centrali, sezioni staccate e succursali. Le istituzioni scolastiche sottodimensionate (con meno di 500 alunni) sono 2.530 (il 24 per cento) con record in Campania. L´accorpamento fra due istituti consente di risparmiare uno stipendio di dirigente scolastico e uno di direttore dei servizi amministrativi (quello che una volta era il segretario).
Ma non solo: stando al Piano-Gelmini la "polverizzazione sul territorio di piccole scuole non è funzionale agli obiettivi didattico-pedagogici", dunque serve "il progressivo superamento delle attuali situazioni relative a plessi e sezioni staccate con meno di 50 alunni". Circostanza che, secondo la Bresso, imporrà in Piemonte la chiusura di 816 plessi scolastici di piccoli comuni. Secondo le stime dei tecnici ministeriali i plessi con meno di 50 alunni sono 4.200. E in base a una inchiesta condotta dal quotidiano della Cisl, "Conquiste del lavoro", i piccoli comuni con meno di 50 alunni che rischiano di rimanere a secco di scuole sono 824, circa il 10 per cento dei 8.101 comuni italiani, con record in Piemonte. «E´ incredibile � commenta Francesco Scrima, segretario generale della Cisl scuola � come il governo stia cercando di scippare alle Regioni una competenza che hanno da sempre». L´opposizione parla attraverso l´ex ministro della Pubblica istruzione, Giuseppe Fioroni, e per bocca dell´attuale ministro ombra per gli Affari regionali, Mariangela Bastico. «Hanno cominciato con le scuole sotto i 500 alunni � dichiara Fioroni �, domani toccherà a quelle con meno di 300 finora coperte da deroga, per arrivare poi al taglio degli insegnanti di sostegno. Queste sono le bugie della Gelmini». La Bastico parla di «federalismo predicato e sbandierato ma non praticato». Ma il ministro Gelmini nega tutto: «Le dichiarazioni di Fioroni e Garavaglia sono incomprensibili ed arbitrarie. Non ci saranno la paventata chiusura di 4 mila istituti, né il taglio degli insegnanti di sostegno, né l´attacco all´autonomia degli enti locali. Come solito la sinistra tenta di fare disinformazione».
E intanto i promotori della recente manifestazione a Roma inviano sms perché si solleciti via email il Quirinale a non firmare il decreto Gelmini.

Repubblica 12.10.08
"Troppi corsi e finanziamenti a pioggia" La Gelmini vuole "razionalizzare" gli atenei

RIMINI - Quatto priorità, quattro disegni di legge «per cambiare il volto dell´università italiana». Il ministro dell´Istruzione Mariastella Gelmini, al meeting della comunità di San Patrignano "Drugs off day" contro la droga, ospite di Andrea Muccioli, annuncia un «cronoprogramma, non una riforma» per gli atenei: «Non c´è una università italiana nelle prime cento del mondo, prevalgono raccomandazioni, baroni, nepotismo che non danno spazio ai giovani ricercatori». L´analisi del ministro è molto severa: «Non c´è nessun altro paese dove l´università ha 5.500 corsi di laurea, 300 sedi distaccate, il 50 per cento degli iscritti che non arriva alla fine degli studi, una spesa corrente del 90 per cento». E spesso «i rettori sono succubi di ricatti». È tempo di cambiare: «Non è più tempo di erogazioni a pioggia. Dobbiamo dotarci di un sistema di valutazione della ricerca». Per l´università propone una «razionalizzazione, non tagli» dei troppi corsi di laurea e una «valutazione dell´operato degli atenei, soprattutto per la ricerca». Pronta anche una bozza per la riforma degli istituti tecnici e professionali «ora ci sono 900 indirizzi, un´assurdità».
(l. sp.)

Repubblica 12.10.08
E ora arriva la tassa sull´immigrato
La Lega: fondo antiflussi, 200 euro per ogni permesso di soggiorno
Bodega: proposte vicine alla gente L´avvocato Paggi: balzello insopportabile
di Vladimiro Polchi

ROMA - Dopo il permesso di soggiorno a punti arriva la tassa sull´immigrato. Ogni straniero dovrà infatti versare 200 euro per chiedere il rilascio e il rinnovo del permesso o avviare la pratica di cittadinanza. La tassa va ad aggiungersi ai 70 euro di costi fissi già sborsati dai lavoratori extracomunitari. Il nuovo balzello è contenuto in due emendamenti leghisti al disegno di legge sulla sicurezza e servirà a finanziare un "fondo per la prevenzione dei flussi migratori" istituito presso la Farnesina.
Non si ferma dunque l´offensiva del gruppo del Carroccio al Senato: prima il permesso a punti per punire gli immigrati che commettono infrazioni, poi la regolarizzazione delle ronde cittadine, quindi l´obbligo di referendum prima della costruzione di una moschea. Ora, il giro di vite sull´immigrazione si arricchisce di un nuovo tassello. Basta leggere due degli emendamenti presentati venerdì scorso dai leghisti in Senato. Primo, «le istanze o dichiarazioni di elezione, acquisto, riacquisto, rinuncia o concessione della cittadinanza sono soggette al pagamento di una tassa di importo pari a euro 200». Secondo, «la richiesta di rilascio e di rinnovo del permesso di soggiorno è sottoposta al pagamento di una tassa, il cui importo è fissato in 200 euro». La tassa si applica anche in caso di permesso di soggiorno per motivi familiari.
A cosa serviranno questi soldi? Semplice, a finanziare «un fondo per la prevenzione dei flussi migratori, finalizzato a progetti di sviluppo locale nei Paesi, che hanno stipulato o intendono stipulare con lo Stato italiano accordi bilaterali». «Vogliamo semplicemente che chi arrivi nel nostro Paese ne rispetti le leggi e gli emendamenti presentati vanno in questa direzione. Le nostre proposte – spiega Lorenzo Bodega, vicepresidente dei senatori della Lega – stanno riscuotendo opinioni favorevoli tra i cittadini. Se prendiamo, per esempio, il permesso a punti, questo è un sistema che darà più sicurezza e più integrazione, facendo emergere solo quella immigrazione positiva e onesta che lavora, produce e si è integrata alla perfezione». Quanto alla nuova tassa sui permessi, il senatore del Carroccio sostiene che servirà ad «aiutare i Paesi poveri a casa loro, grazie ai 200 euro che ogni immigrato dovrà pagare al Fondo per la prevenzione dei flussi migratori. Questa – aggiunge – è solidarietà e vicinanza verso i popoli: aiutarli in casa loro, senza illusioni di El Dorado, che non esistono più. A maggior ragione da noi».
Ma quale sarà l´effetto della nuova tassa sulle tasche degli immigrati? «Già oggi per richiedere il primo rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno il lavoratore straniero spende 70 euro tra spese postali, pagamento del bollo e costo del permesso elettronico – spiega l´avvocato Marco Paggi dell´Associazione di studi giuridici sull´immigrazione –. Simile la spesa per ottenere la cittadinanza, tra pagamento del bollo e costo dei certificati in Italia e in madrepatria». Ora si vorrebbe aggiungere una tassa ad hoc di 200 euro. «Una tassa sui poveri, che rischia di minacciare pericolosamente il tenore di vita dei migranti». Un esempio? «Basta pensare a quei nuclei familiari – risponde Paggi – i cui componenti hanno contratti di lavoro a tempo determinato e che devono rinnovare il permesso di soggiorno ogni sei mesi. In tal caso, la famiglia dovrebbe sborsare, tra tasse e costi fissi, 540 euro all´anno per ogni suo membro».

Repubblica 12.10.08
Vergogna Italia, cori per il Duce
di Fabrizio Bocca

Avanti così: mani tese alzate, l´urlo «Duce, Duce», il torso nudo e la cinghia in mano con la fibbia che rotea pronta a colpire. Sono arrivati anche in nazionale, sono gli "Ultras Italia", non propriamente tranquilli supporter in gita: fascisti, e cattivi pure. L´Italia fa 0-0 a Sofia ma loro no: ieri sera si sono fatti conoscere, hanno portato il loro delirio persino in nazionale. Hanno fatto cortei per Sofia, bruciato bandiere bulgare, messo a soqquadro un bar, scatenato la rissa con i «nemici» del Cska Sofia, affrontato a viso aperto la polizia.

sabato 11 ottobre 2008

l’Unità 11.10.08
In 500mila, per fermare la distruzione della scuola
di Maristella Iervasi

Uno striscione per tutta l’Italia: «Non è che l’inizio». E gli studenti delle superiori hanno «occupato» le città per «suonare» lo «sconcerto» alla Gelmini. Da Torino a Lentini (Siracusa) in 500mila (Uds, Rete e gli universitari dell’Udu) hanno «bocciato» i tagli all’istruzione e il voto in condotta che fa media per la bocciatura nella ricetta «Gelmini-Tremonti». Mentre alle elementari non cessa la battaglia contro il maestro unico: «Giù le mani dalla scuola pubblica» è lo slogan-bandiera di protesta che sventolerà da oggi dalle finestre delle case dei cittadini. Walter Veltroni, leader del Pd: «Dagli studenti una grande prova di maturità. Stiamo con loro e con tutti i protagonisti della scuola. La manifestazione del 25 ottobre che il Pd ha promosso, sarà una nuova occasione di lotta contro la scuola che piace a questo governo e che non piace agli italiani». Fulvio Fammoni, segretario confederale Cgil: «Un grandissimo successo». L’Associazione «Libera»: «Scuola pubblica, presidio di legalità».
Nelle metropoli i cortei più numerosi. Balli e canti a Roma (50mila) con l’«occupazione» della gradinata del ministero e dei binari del tram e la decisione di indire un Referendum. I 40mila di Napoli hanno invece scelto i veli neri per celebrare il funerale della scuola in piazza Plebiscito, proprio sotto le orecchie della Gelmini «blindata» nel Consiglio dei ministri. Una bara nera con un necrologio è sfilata di spalla in spalla tra i 15mila di Firenze: «Qui giace l’Università pubblica». Cori e slogan a Milano: «Ministro ci puoi giurare, non ci faremo privatizzare» e una promessa tra i 30mila: lunedì sit-in sotto la sede della Regione. «C’è la Gelmini... Non potrà ignorarci». Ma poco il Pirellone fa marcia-indietro. E il convegno su educazione e scuola viene rinviato proprio per non fare da «palcoscenico» ai collettivi studenteschi. Striscioni ironici e clima da festa anche nelle cittadine, come Lentini: «Maria Stella Crescente, Scuola Calante». «EntroGelmini uccide la flora studentesca». Mentre a Bergamo è di scena il falò dei grembiulini.
Giulio non va ancora all’Università ma mette in bella mostra una maglietta con la Pantera, il simbolo della protesta degli Atenei dei primi anni Novanta. Un camioncino con gli altoparlanti sotto il ministero manda musica ad alto volume. Poi il silenzio e la voce degli studenti. Uno per uno salgono sul «palco» dell’ultimo gradino della Pubblica «D»istruzione e gridano la loro rabbia: «Siamo venuti qui da te perché tu non ci chiami mai - dicono alla Gelmini assente -. Non ci chiedi che cosa pensiamo». Alice del liceo Aristotele, sembra quasi sentire la risposta del ministro: «Ha paura di noi. Ci vuole ignoranti», urla dal microfono. «Ma noi non siamo marionette», replica Luca dell’Artistico del Tuscolano. Così la decisione da studenti maturi: «Chiediamo di essere ricevuti. Se non ci ascoltano da qui non ce ne andiamo. Occupazione ad oltranza». E tocca al direttore del personale della scuola Luciano Chiappetta e al vice direttore regionale Sergio Scala ricevere una delegazione dei movimenti. Salgono nelle stanze del Palazzo, Stefano Vitale dell’Uds, Luca De Zolt della Rete degli studenti medi e Federica Musetta dell’Udu. Mentre Alessio dello sperimentale di Ariccia vede il papà, dipendente del ministero, solidarizza con i poliziotti colpiti dai Finanziaria e si avvicina: «A pà, stanno ancora parlando?». E poco dopo la delegazione fa capolino. Delusa. «Nessuna risposta politica. Ci hanno ricevuto dei tecnici. Ma noi vogliamo un incontro col ministro, se ha il coraggio. Vogliamo che la Gelmini faccia un referendum tra gli studenti, ma non verrà fatto. Lo faremo noi e girerà su Internet. Vogliamo i criteri sui voti bassi, finanziamenti per l’edilizia, una legge nazionale sul diritto allo studio e l’estensione della carta studenti agli universitari».
La manifestazione si scioglie. E sul muro resta uno striscione a mo’ di messaggio: «Decreto cazzata, riforma sbagliata».

l’Unità 11.10.08
Scuola, rompiamo il silenzio
di Marina Boscaino

Cinquecentomila ragazzi in piazza in tutta Italia. Era tempo che non si assisteva a una manifestazione così diffusa e imponente. E che ha dato una prima, concreta risposta alla domanda di Simonetta Salacone, dirigente scolastico della scuola elementare Iqbal Masih di Roma, avanguardia del movimento di resistenza attiva e costruttiva alla coppia Gelmini-Tremonti. Simonetta, oltre ad essere esperta e capace, è anche una donna realista. Davanti a una platea di insegnanti e politici, ha chiesto chi - tra politica, sindacato, enti locali, amministrazione - sarà in grado di raccogliere l’eredità della grande mobilitazione della scuola primaria messa in piedi a Roma e in altre città d’Italia, una volta che i riflettori del mondo dell’informazione si saranno fatalmente spenti. La domanda è legittima, considerando che la scuola italiana passa da momenti di sovraesposizione mediatica - spesso gestiti in maniera pedestre e approssimativa - a lunghissime fasi di oblio. Ma c’è una domanda precedente: che fine ha fatto la scuola superiore? Latitanza assoluta, a parte l’incoraggiante risposta dei ragazzi. Ma gli insegnanti? L’impressione è che da alcuni anni, più che un’idea di scuola come sistema organico che garantisce il Paese nella sua crescita culturale e nell’educazione ai diritti di cittadinanza, essa sia considerata un insieme di segmenti, quasi avulsi l’uno dall’altro, e pertanto indifferenti, o quasi, alle sorti l’uno dell’altro. Le battaglie contro la Moratti furono anni fa considerate una bega degli insegnanti delle primarie, svincolate da qualunque visione di scuola come bene comune e da qualunque rappresentazione di un sistema di welfare universale. Oggi, per il momento, chi sta facendo le spese della scellerata politica del Governo è, ancora una volta, soprattutto, la scuola primaria; e - come allora - il silenzio delle medie e delle superiori è assordante. La miopia di un simile atteggiamento è evidente da molti punti di vista. Innanzitutto dà il senso di una partecipazione e di una reazione che nasce solo dal contatto diretto con situazioni di emergenza. Questo, in molti casi, rischia di trasformare le mobilitazioni, i movimenti - anche i più efficaci e costruttivi - in una reazione all’emergenza stessa; e non nell’occasione per inaugurare una riflessione comune su un problema culturale complesso e delicato, quale quello che investe globalmente la scuola italiana e le rappresaglie dei vari governi: ancora una volta gli insegnanti italiani derogano alla propria funzione intellettuale in senso ampio. Inoltre, configura un’idea di scuola non come sistema organico, dal punto di vista didattico e della cura dello sviluppo della emancipazione degli individui che sono e saranno gli studenti, ma come sistema settoriale, scollato completamente da qualunque idea di verticalità. Marca poi una vistosa lontananza tra ordini di scuola che - attraverso dialogo, coesione, solidarietà - indicherebbero alla politica e all’amministrazione un “mondo della scuola” come interlocutore non solo nominale. Un mondo della scuola più forte, perché compatto, sinergico; capace di elaborare, comunemente, idee e resistenza. Invece le scuole elementari, oggi come qualche anno fa, stanno reagendo in totale solitudine alla strategia economicista del governo che - oltre a tagliare posti di lavoro - impoverisce in maniera irreversibile l’impianto didattico-culturale di quel segmento di scuola. Infine, in questo silenzio, hanno buon gioco le voci di chi si associa alle nostalgiche pseudostrategie culturali del governo e ai suoi inadeguati, muscolari provvedimenti, in una indefessa difesa del passato (che, si badi bene, non coincide necessariamente con serietà, rigore, competenza). Che nel vuoto di senso della nostra società esercitano un’attrattiva fatale sull’opinione pubblica. Demotivazione, disimpegno, il risultato della mancanza di quella collegialità che invece connota la scuola primaria e ne costituisce una forza innegabile: la situazione alle superiori è questa. È probabile che si avvertirà un rigurgito di reazione quando arriveranno i “piattini” che Gelmini&C stanno preparando, quando si sentiranno gli effetti dei tagli preventivati, se e quando la proposta di legge Aprea dovesse attuarsi, nel momento in cui le promesse revisioni ordinamentali dovessero concretizzarsi. Ricordiamo, comunque, che una gran parte degli insegnanti non ha ritenuto opportuno scaldarsi per il pasticcio sull’obbligo (scolastico di istruzione), e ha in molti casi reagito tiepidamente alla questione dei debiti scolastici, dimenticando per lo più che non si trattava solo di un problema di organizzazione interna alle scuole, ma dello spunto per inaugurare una seria riflessione culturale e didattica.
Sfruttando il coinvolgimento responsabile delle famiglie e degli studenti, potrebbe essere questo il momento di ribadire che, quando si deve fare i conti con il mondo della scuola - luogo della democrazia, della cultura emancipante, del dibattito critico - la coesione tra le sue componenti è obbligatoria, etica, politica e passa attraverso l’esigibilità dei diritti, l’esercizio dei doveri e l’interpretazione puntuale e intransigente dei principi della Costituzione. Attori e spettatori passivi: dura da troppo tempo. Speriamo che la manifestazione di Torino di qualche giorno fa, i 500.000 ragazzi di ieri, lo sciopero dei sindacati di base del 17 e lo sciopero del 30 dei confederali siano l’inizio di una risposta responsabile all’emergenza democratica che stiamo vivendo.

l’Unità 11.10.08
La rabbia degli studenti torna in piazza
Grande manifestazione ieri a Firenze di universitari e liceali contro la riforma del ministro
Una mobilitazione massiccia che riapre la stagione della protesta organizzata
di Silvia Casagrande

UNITI contro i tagli del governo. Ragazzi di tutte le età e sigle hanno marciato fianco a fianco nelle vie del centro per denunciare l’attacco del governo all’istruzione pubblica

«Tutti uniti senza bandiere nè partiti», recitava uno dei cori scanditi ieri mattina alla protesta contro i tagli a scuola e università. E l’appello all’unità non era retorica. C’erano manifestanti di tutte le età e di tutti i collettivi universitari. E anche se qualche bandiera di partito c’era, giovani comunisti, giovani democratici, anarchici e spezzoni autorganizzati hanno sfilato fianco a fianco nel corteo. Fra chi indossava un grembiule e chi portava la bara dell’università, i partecipanti erano quasi 5mila, e qualcuno dei più giovani commentava emozionato: «Non ho mai mai visto una manifestazione così grande», mentre un altro più deciso rassicurava i compagni di classe: «Siamo tantissimi, ora la Gelmini dovrà starci a sentire».
«Il governo taglia il nostro futuro» diceva uno degli striscioni, un altro, in ricordo alla lotta studentesca dell’anno scorso, «Gelmini rimandata a settembre». C’era un coloratissimo «Un Paese che taglia i fondi all'istruzione è una Paese alla frutta» e il più arrabbiato «Con il voto in condotta ci tappano la bocca», fino all’amara ironia di «Adotta un ricercatore». La protesta si è conclusa in piazza SS. Annunziata, con+ un microfono aperto agli interventi di tutti.
Intanto nell’aula magna del Rettorato il prorettore Sandro Rogari, chiamato a sostituire il rettore all’inaugurazione del festival Pianeta Galileo, esprimeva il suo sostegno ai «giovani che stanno giustamente protestando qui fuori». A lui si è unito il presidente del consiglio regionale Riccardo Nencini, ricordando «le eccellenze nella ricerca scientifica in Toscana, spesso opera di ricercatori precari».
Il presidente del consiglio comunale Eros Cruccolini, invece, era per la strada tra i ragazzi: «Si percepiva nell’aria un sentimento di disagio e preoccupazione, ma allo stesso tempo la ribellione e l’allegra voglia di lottare tipica dei giovani». «La buona condizione di una nazione - ha aggiunto Cruccolini - si vede anche e soprattutto per quanto si investe in formazione, saperi e ricerca. La precarietà non preclude solo il presente ma anche il futuro».
Mentre per le strade sfilava il corteo, i precari delle agenzie regionali Ars, Arpat, Irpet, Apet, Arr e Artea erano riuniti presso la Cgil per raccontare la loro condizione di «appesi a un filo», dopo anni di lavoro come «dipendenti di fatto, non collaboratori», dandosi appuntamento il 14 ottobre per un presidio sotto il consiglio regionale in via Cavour.
Tra i vari rappresentanti sindacali che hanno aderito alla manifestazione, Flc Cgil ha colto l’occasione per ricordare che la protesta continuerà lunedì sera con una fiaccolata anti-Gelmini. Appuntamento alle 21 in piazza SS. Annunziata, tutti armati di torce elettrice, visto che le fiaccole sono state vietate dal nuovo regolamento di polizia municipale, per cercare di «riconquistare uno spazio di trattativa con il governo - ha spiegato il segretario provinciale di Flc Cgil Alessandro Rapezzi -, che non ha aperto nessun tavolo di confronto con chi nella scuola ci lavora e con i genitori, mentre con arroganza ha utilizzato la decretazione d’urgenza mettendo la fiducia sui provvedimenti».
Alla fiaccolata stanno giungendo numerose adesioni di Comuni, insegnanti, genitori, cittadini e associazioni, tra cui l’Arci Firenze, che promuove anche la campagna di affissione sulle finestre la scritta: «Vietato calpestare la scuola».

l’Unità 11.10.08
Anpi: resistere, resistere, resistere
Angela, ex partigiana alla festa del Saschall a Firenze: «Tira una brutta aria per il paese»
di Sonia Renzini

ECCOLE LÌ le donne della Resistenza, sguardo deciso e volontà di ferro. Tanti piccoli volti che hanno fatto la storia di questo paese e dell’Anpi, in festa da ieri a domenica al Saschall di Firenze. Le madri della Repubblica se ne stanno lì, immortalate da una
manciata di foto in bianco e nero appese su una parete del teatro, a ricordarci che la loro parte loro l’hanno fatta. E non è stata cosa da poco. Ne sa qualcosa Liliana Benvenuti, caschetto bianco e occhi neri. Ora ha 85 anni, ma molto tempo prima, quando Angela era il nome di battaglia e se ne andava in giro per Firenze con il triciclo a portare bombe molotov e fucili ai partigiani di anni ne aveva 20. «Facevo di tutto - dice - eravamo un esercito, eravamo organizzati militarmente e se qualcuno sbagliava veniva punito». Non rimpiange di avere trascorso la sua gioventù tra le armi e il timore di morire. Per lei, che faceva parte del comando di divisione Potente, la lotta di liberazione era un sogno in grado di piegare qualsiasi desiderio. «Le donne dovevano essere caste - continua - non c’era il femminismo, allora. i miei compagni mi volevano un gran bene, ma il femminismo non c’era proprio e le ricompense dopo per le donne non sono state le stesse che per gli uomini. Eppure, io coprivo i capi quando si dovevano spostare, tenevo i rapporti con i gappisti, ho salvato tante vite e ho fatto cose che gli uomini non potevano fare». L’orgoglio della combattente è ancora vivo. Eccome. Tanto più ora che registi hollywoodiani ansiosi di vendere al botteghino cercano di riscrivere la storia. La sua storia. «Non lo voglio vedere io il film su Sant’Anna - dice - perché questo vip americano non sa niente della nostra umanità». E sulla situazione politica attuale: «Tira una brutta aria per il paese, vogliamo che la Costituzione sia rispettata». La festa dell’Anpi è anche l’occasione per conoscerla meglio. In programma tre giorni di dibattiti (ieri con il presidente Scalfaro) e proiezioni, incontri con ex combattenti e rappresentanti delle istituzioni. Non manca neanche la musica, a partire dal concerto di Bobo Rondelli di ieri sera. Stasera a salire sul palco, invece, saranno alcuni gruppi toscani, come Tenedle,Clever, The Rent, Apuamater, Scritti corsari, Banda K 100 e Malasuerte Fi Sud. Conclude la kermesse domani sera il gruppo Yo to mundi.

l’Unità 11.10.08
Napolitano: nessuna forzatura sul Parlamento
E sulla crisi: niente allarmismi, più etica nelle banche. Allerta sul diffondersi del pregiudizio razzista
di Marcella Ciarnelli

STABILIRE REGOLE di comportamento etico nelle banche. Ribadire la scelta della democrazia parlamentare. Cogliere il rischio che l’intolleranza e la xenofobia sconfinino nel razzismo. Salvare il pluralismo dell’informazione. Parla a tutto campo il presiden-
te della Repubblica nella “Giornata dell’informazione”, celebrata nel giorno in cui l’Osservatore Romano anticipa l’intervista fatta a Giorgio Napolitano dopo la visita di Benedetto XVI al Quirinale diffusa anche dalla Radio e dalla Tv Vaticana.
In un momento di crisi economica grave come quello attuale il monito del Capo dello Stato va a chi le notizie le diffonde e che «non deve alimentare un allarmismo che in questo campo può diventare fattore di aggravamento» della situazione ma, innanzitutto, a chi deve coniugare «logiche di mercato e principi solidali».
La crisi delle banche e delle Borse dimostra che «si debbano stabilire delle regole, delle regole di comportamento, anche di comportamento etico, all’interno delle istituzioni di governo dell’economia». Già una settimana fa, in occasione dell’incontro con il Papa, il Presidente aveva fatto riferimento alla «corrosiva» mancanza di etica in politica ed economia.
Ma il Capo dello Stato ha anche voluto chiarire, ancora una volta, il suo pensiero sulle possibili ipotesi di riforme istituzionali, logica conseguenza, o almeno tale sembrerebbe, di una Costituzione che negli anni è andata mutando. Nessun dubbio per Napolitano che la scelta della democrazia parlamentare va ribadita perchè senza confronto in Parlamento si rischia di lasciare la strada giusta e «finire in un vicolo cieco». Ma senza dimenticare che «va portato fino in fondo l’impegno che venne soltanto anunciato nell’Assemblea costituente: introdurre, cioè, correttivi che garantiscano la stabilità dell’esecutivo, la capacità di governo di chi ha ricevuto la maggioranza e, nello stesso tempo, però garantiscano contro ogni degenerazione parlamentaristica di vecchio stampo, un efficace, incisivo ruolo legislativo, di indirizzo e di controllo del Parlamento». La velleità della riscrittura globale della Costituzione è «appunto una velleità» come dimostra una lunga «esperienza di tentativi infruttosi» che «non portano da nessuna parte». Bisogna, invece, ripartire da indicazioni concordi «scaturite dal Parlamento anche in modo piuttosto concorde al termine della passata legislatura» e portare avanti «delle ipotesi di riforma mirata, di riforma parziale nel senso di rafforzare le autonomia regionali e locali nell’ambito di uno Stato nazionale che deve mantenere fortemente la sua unità ma superando persistenti vizi di centralismo e burocratizzazione».
Il presidente parla ai giornalisti italiani nella loro giornata, quella dedicata a tutti i vincitori di premi e a tutti quelli che quotidianamente si misurano con la professione. In prima fila ci sono i genitori di Ilaria Alpi e la moglie e il figlio di Miran Hrovatin, giornalisti Rai trucidati a Mogadisco perchè credevano nel loro lavoro. Riceveranno una medaglia d’oro in memoria del loro sacrificio. Ci sono anche i vertici delle organizzazioni di categoria, il sottosegretario all’Editoria, Paolo Bonaiuti. E tante facce note, direttori, “firme” storiche come Vittorio Zucconi e Miriam Mafai. È commosso il ricordo di Italo Moretti.
Gli argomenti si affollano. Ritorna il presidente sul rischio che il «pregiudizio razzista» dilaghi nel nostro Paese e loda la «Carta di Roma». Richiama il diritto-dovere dell’informazione ma anche il rispetto delle indagini, della privacy e della dignità delle persone.
«L’autovigilanza è la strada maestra da seguire, anche per non dover poi giustificare misure coercitive che possono mettere a rischio la libertà di informazione». Si augura che finalmente, davanti agli spiragli di questi giorni, si arrivi a firmare il contratto dei giornalisti scaduto da quasi quattro anni.
Ed infine, sulla scia della disponibilità espressa dal sottesegretario Bonaiuti, ecco l’invito «preoccupato» a «non comprimere il pluralismo» riducendo i fondi a quei giornali che parlano a nome di «chi non è rappresentato in Parlamento» pur nella consapevolezza che sacrifici vanno fatti in nome del bene comune e degli impegni presi con l’Europa.

l’Unità 11.10.08
Il sondaggio
Sale all’82% la fiducia nel Presidente
Decreti: la maggioranza li accetta solo per casi urgenti

Accade che dopo lo tsunami dell’antipolitica gli italiani sembrino diposti ad «un’apertura di credito» verso le istituzioni. Il gap rispetto al 2006 non è stato ancora colmato. E per ora solo una tendenza avverte Nando Pagnoncelli, direttore dell’Ipsos, che parla forte di recenti sondaggi riservati che indicano però che qualcosa sta cambiando. Il Paese, oggettivamente in preda a molteplici difficoltà, riscopre una fiducia nelle istituzioni che sembrava persa per sempre.
Quella che fa da traino su tutte è la Presidenza della Repubblica. Il trend è positivo dal giugno del 2007. Il 78 per cento ripone fiducia nel Quirinale. E Giorgio Napolitano arriva all’82 per cento raccogliendo anche consensi in quegli elettori di centrodestra i cui partiti di riferimento non lo avevano votato al momento dell’elezione. Un anno fa era al 70 per cento. Per quanto riguarda seconda e terza carica dello stato la situazione è cambiata dopo il voto anche grazie alla sensazione che la semplificazione del quadro politico potesse consentire ai due rami del Parlamento di lavorare meglio. Nel Senato ha fiducia il 51 per cento mentre la Camera si ferma al 49. La situazione si ribalta nei numeri legati alle persone: Gianfranco Fini viaggia sul 54 per cento mentre Renato Schifani è fermo al 36 per cento. Al di là del singolo dato sembra che ci sia «un crescente bisogno di punti di riferimento». E su questo influisce certamente la crisi economica che potrebbe indurre ad un confronto che «deve avere un perimetro ben preciso». Dal dialogo all’inciucio il passo può essere breve. «Ma la crisi potrebbe essere un’opportunità...».Verrebbe da chiedersi, a questo punto, e tenendo presente che la presidenza del Consiglio per la gente non è un’istituzione ma una persona, cioè Berlusconi, come possa accadere che proprio mentre chi governa dichiara apertamente di voler in tutte le occasioni possibili superare il confronto parlamentare puntando alla via breve dei decreti legge cresca questa voglia di istituzione.
Il sondaggio non è temporalmente coincidente con le dichiarazioni di Berlusconi. Ma resta il fatto che la maggioranza realativa del campione, il 41 per cento, si dice disponibile ad essere governata per decreto solo in casi urgenti e motivati. Il 28 per cento che giudica il Parlamento troppo lento mostra più disponibilità. Il 25 per cento dice mai. «Non credo che l’iter legislativo sia chiaro a tutti gli italianima risultato evidenti due dati: gli italiani vogliono leggi più rapide ma anche che il Parlamento sia rispettato».m. ci.

l’Unità 11.10.08
Ecco la «Carta di Roma», il protocollo sottoscritto da Ordine dei giornalisti e Fnsi in collaborazione con l’Alto commissariato Onu per i rifugiati. In arrivo un Osservatorio
Migranti e rifugiati, mai più pregiudizi e informazioni scorrette

Il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, condividendo le preoccupazioni dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) sull’informazione concernente rifugiati, richiedenti asilo, vittime della tratta e migranti, richiamandosi ai dettati deontologici della Carta dei Doveri del giornalista - con particolare riguardo al dovere fondamentale di rispettare la persona e la sua dignità e di non discriminare nessuno per la razza, la religione, il sesso, le condizioni fisiche e mentali e le opinioni politiche - ed ai princìpi contenuti nelle norme nazionali ed internazionali sul tema; riconfermando la particolare tutela nei confronti dei minori così come stabilito dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dai dettati deontologici della Carta di Treviso e del Vademecum aggiuntivo, invitano, in base al criterio deontologico fondamentale “del rispetto della verità sostanziale dei fatti osservati”, i giornalisti italiani a osservare la massima attenzione nel trattamento delle informazioni concernenti i richiedenti asilo, i rifugiati, le vittime della tratta ed i migranti e in particolare a:
a. Adottare termini giuridicamente appropriati sempre al fine di restituire al lettore ed all’utente la massima aderenza alla realtà dei fatti, evitando l’uso di termini impropri;
b. Evitare la diffusione di informazioni imprecise, sommarie o distorte riguardo a richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti. Cnog e Fnsi richiamano l’attenzione di tutti i colleghi, e dei responsabili di redazione in particolare, sul danno che può essere arrecato da comportamenti superficiali e non corretti, che possano suscitare allarmi ingiustificati, anche attraverso improprie associazioni di notizie, alle persone oggetto di notizia e servizio; e di riflesso alla credibilità della intera categoria dei giornalisti;
c. Tutelare i richiedenti asilo, i rifugiati, le vittime della tratta ed i migranti che scelgono di parlare con i giornalisti, adottando quelle accortezze sull’identità e l’immagine che non consentano l’identificazione della persona, onde evitare di esporla a ritorsioni tanto da parte di autorità del paese di origine, che di entità non statali o di organizzazioni criminali. Inoltre, va tenuto presente che chi proviene da contesti socioculturali diversi, nei quali il ruolo dei mezzi di informazione è limitato e circoscritto, può non conoscere le dinamiche mediatiche e non essere quindi in grado di valutare tutte le conseguenze dell’esposizione attraverso i media;
d. Interpellare, quando ciò sia possibile, esperti ed organizzazioni specializzate in materia, per poter fornire al pubblico l’informazione in un contesto chiaro e completo, che guardi anche alle cause dei fenomeni.
Impegni dei promotori
I. Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e la Fnsi, in collaborazione con i Consigli regionali dell’Ordine, le Associazioni regionali di Stampa e tutti gli altri organismi promotori della Carta, si propongono di inserire le problematiche relative a richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti tra gli argomenti trattati nelle attività di formazione dei giornalisti, dalle scuole di giornalismo ai seminari per i praticanti. Il Cnog e la Fnsi si impegnano altresì a promuovere periodicamente seminari di studio sulla rappresentazione di richiedenti asilo, rifugiati, vittime di tratta e migranti nell’informazione, sia stampata che radiofonica e televisiva.
II. Il Cnog e la Fnsi, d’intesa con l’Unhcr, promuovono l’istituzione di un Osservatorio autonomo ed indipendente che (...) monitorizzi l’evoluzione del modo di fare informazione su richiedenti asilo, rifugiati, vittime di tratta, migranti e minoranze con lo scopo di:
a) fornire analisi qualitative e quantitative dell’immagine di richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti nei mezzi d’informazione italiani ad enti di ricerca ed istituti universitari italiani ed europei nonché alle agenzie dell’Unione Europea e del Consiglio d’Europa che si occupano di discriminazione, xenofobia ed intolleranza;
b) offrire materiale di riflessione e di confronto ai Consigli regionali dell’Ordine dei Giornalisti, ai responsabili ed agli operatori della comunicazione e dell’informazione ed agli esperti del settore sullo stato delle cose e sulle tendenze in atto.
III. Il Cnog e la Fnsi si adopereranno per l’istituzione di premi speciali dedicati all’informazione sui richiedenti asilo, i rifugiati, le vittime di tratta ed i migranti, sulla scorta della positiva esperienza rappresentata da analoghe iniziative a livello europeo ed internazionale.

l’Unità 11.10.08
Prc, Pdci, Sd, Verdi: a Roma il corteo della sinistra
L’Idv in piazza Navona raccoglierà le firme per il referendum contro il Lodo Alfano

DUE PIAZZE contro il governo. La sinistra sfilerà da piazza della Repubblica (ore 14) fino alla Bocca della verità. L’Italia dei valori sarà in piazza Navona per una no-stop dalle 10 di mattina alle 8 di sera per raccogliere firme per il referendum sul Lodo Alfano. Antonio Di Pietro interverrà verso le 17, mentre nessun leader politico di Rifondazione comunista, Pdci, Verdi o Sinistra democratica salirà sul palco alla fine del corteo contro Berlusconi e Confindustria (parleranno esponenti del mondo dei movimenti e dell’associazionismo). Non saranno invece sul palco, a piazza Navona, Sabina Guzzanti e Beppe Grillo.
A chiamare alla partecipazione ci ha pensato Pietro Ingrao: «È importante, anzi necessario ripetere il successo del 20 ottobre 2007. Oggi c’è ancora più bisogno di far sentire la voce delle masse». Il padre nobile della sinistra oggi sarà in piazza, come pure Fausto Bertinotti. Ad aprire il corteo della sinistra ci sarà uno striscione con scritto «un’altra politica, un’altra Italia». Sd ha preparato striscioni che dicono semplicemente «Per la sinistra» e un giornale, con lo stesso titolo, a sostegno della costituente con articoli di Claudio Fava, Moni Ovadia, Fabio Mussi e altri. Dalle parti del Pdci si guarda con soddisfazione al fatto che dieci anni dopo la scissione dal Prc, in diverse città militanti e simpatizzanti dei due partiti hanno organizzato pullman insieme per Roma.
Ma alla vigilia dell’appuntamento che dovrebbe segnare il rilancio di una sinistra unitaria non mancano fibrillazioni tra i diversi partiti. Dice Oliviero Diliberto conversando con i giornalisti a Montecitorio: «Sono convinto che alle europee faremo una lista con Rifondazione comunista e che ci sia lo spazio per superare ampiamente la soglia di sbarramento». Frase che arriva in tempo reale alla sede del Prc, dove è in corso la Direzione del partito. E la reazione dei vendoliani è tutt’altro che pacata. «Non so su quali basi Diliberto fondi quest’affermazione», dice Gennaro Migliore a nome del coordinamento di “Rifondazione per la sinistra”. «Noi escludiamo qualsiasi possibilità di unità dei comunisti alle europee e chiediamo formalmente alla segreteria di Rifondazione di escludere a sua volta chiaramente questa ipotesi». Paolo Ferrero non la esclude: «La sinistra ha già passato troppo tempo a discutere di come andare alle elezioni. Questo è il tempo di ricostruire l'opposizione». Il segretario del Prc aspetta di conoscere la nuova legge elettorale, e intanto incassa un risultato non da poco: la Direzione ha votato all’unanimità un documento nel quale si dice che Liberazione è «strumento indispensabile per il rilancio del progetto della Rifondazione comunista» (sottinteso, e non della costituente di sinistra sostenuta dai vendoliani). Resta invece per ora al suo posto il direttore Piero Sansonetti. Difeso da Franco Giordano con un intervento duro: «Mettere in discussione la direzione significa mettere in discussione le ragioni della nostra convivenza». I malumori tra i ferreriani sono però molti. L’assalto alla direzione del giornale forse è stato soltanto rimandato.s.c.

l’Unità 11.10.08
Gtazia Francescato. La portavoce dei Verdi: «Non firmerò per il referendum sul Lodo Alfano. Alle europee? Importante non è il nostro simbolo ma che gli eletti vadano nella famiglia ambientalista»
«C’è un’emergenza democratica, ci saremo oggi e con il Pd»
di Simone Collini

Grazia Francescato sarà alla manifestazione di oggi, ma anche a quella del Pd del 25: «Dobbiamo dare una risposta alla paura che si sta insinuando nel paese e il primo modo per farlo è essere in piazza e dire che un altro futuro è possibile». La portavoce dei Verdi non firmerà invece per il referendum sul Lodo Alfano: «Quella legge è una vergogna nazionale, ma ho delle perplessità sia sullo strumento che su certe modalità con cui Di Pietro fa opposizione». Quanto alle europee, se le si chiede qual è la condizione irrinunciabile, la risposta non è la presenza sulle schede elettorali del simbolo del Sole che ride, ma che gli eletti vadano nella famiglia dei Verdi.
Basta una manifestazione per dare una risposta alla paura che la destra cavalca?
«È un primo passo, che dobbiamo compiere mettendo insieme alla protesta le nostre proposte. Ci hanno attaccato addosso l’etichetta del “no”. Ora dobbiamo mettercene un’altra, quella dell’“invece”».
Qualche esempio concreto?
«Una lotta sul lavoro che metta insieme economia ed ecologia, un no al nucleare che si accompagni a un sì alle fonti rinnovabili, la battaglia per i beni comuni, in particolare sull’acqua, visto che le privatizzazioni portano a un aumento delle tariffe e non garantiscono la qualità dei servizi».
Come pensate di farlo, visto che non siete in Parlamento.
«Non va sottovalutata la battaglia che possiamo fare a livello locale».
I Verdi saranno in piazza con la sinistra ma anche con il Pd, però le due manifestazioni non hanno piattaforme proprio identiche...
«Noi manifesteremo oggi contro il governo perché c’è un’emergenza democratica impressionante. Basti pensare alla legge elettorale per le europee proposta dal centrodestra che impedisce ai cittadini di scegliere e colpisce la biodiversità politica con una soglia di sbarramento del 5%. Ma noi vogliamo anche ricostruire il tessuto lacerato dei rapporti nel centrosinistra. E il 25 saremo in piazza con dei gazebo sul no al nucleare e in difesa dei beni comuni. Dobbiamo riannodare un dialogo col popolo del Pd, nel quale sono convinta che ci siano persone che vogliono vedere un’opposizione molto più netta».
Firmerà anche per il referendum sul Lodo Alfano?
«No, non firmerò. Il coordinamento dei Verdi ha discusso a lungo la questione e si è deciso di lasciare libertà sui territori. Molti dei nostri stanno raccogliendo le firme ed è evidente che siamo contro una legge che è una vergogna nazionale. Però ci sono anche perplessità sullo strumento referendario, che può rivelarsi un boomerang, e su certe modalità con cui Di Pietro fa opposizione».
Pdci e Rifondazione hanno iniziato a discutere di come andare alle europee, voi?
«Stiamo valutando due opzioni: andare da soli o vedere se ci sono possibilità di alleanze».
Con gli ex alleati dell’Arcobaleno o anche con il Pd?
«Bisogna vedere il cantiere della sinistra come si svilupperà. Per ora c’è uno stallo. Col Pd sicuramente dobbiamo riannodare un dialogo. Comunque bisogna aspettare che nel partito emerga una posizione maggioritaria».
La presenza del vostro simbolo sulla scheda elettorale è un paletto irrinunciabile?
«Quello che per noi è importante è che gli eletti vadano nei Verdi europei. Stiamo facendo una battaglia comune in tutta Europa, non possiamo che andare in quella famiglia».

il Riformista 11.10.08
Il ritorno del comunismo. Oggi a Roma in piazza della Repubblica
di Alessandro De Angelis

Oggi i comunisti manifesteranno «contro il governo e contro i padroni», da piazza della Repubblica alla Bocca della verità. E chissà se la data è stata scelta a caso: proprio dieci anni fa - l'11 ottobre del 1998 - dopo la caduta del governo Prodi, Cossutta e Diliberto lasciarono Rifondazione per fondare il loro partito, il Pdci. Oggi i due partiti marceranno insieme. Certo, ci saranno quelli di Sinistra democratica, i Verdi, tutti i cocci dell'Arcobaleno che fu, e anche altre sigle e associazioni della sinistra. Ma, al quartier generale dei due partiti "comunisti", si respira un clima da riunificazione. Presente, come nelle grandi occasioni, il grande vecchio del comunismo italiano come Pietro Ingrao.La vigilia, però, è sembrata tutt'altro che un appuntamento con la storia. A via del Policlinico si è svolta una giornata (l'ennesima) da lunghi coltelli: veleni, rese dei conti, tentativi di epurazione. Alla direzione del partito, svoltasi ieri, più che della mobilitazione si è parlato del «caso Liberazione». Il giornale è pieno di debiti, e questa non è una novità. La novità, che sa di antico, è il tentativo di defenestrare il direttore, Piero Sansonetti, che comunista eretico lo è sempre stato. Lui che l'aria l'ha fiutata da tempo ieri ha alzato il tiro in nome dell'«autonomia» del giornale.
Giordano minaccia la scissione, Sansonetti si salva di Alessandro De Angelis Ferrero perde la sua guerra di Liberazione
Bastava leggere, sul giornale di ieri, il titolo dell'articolo di Ritanna Armeni: «Il cupio dissolvi di un partito che non sopporta il suo giornale». L'accusa a Ferrero è presto detta: «La maggioranza di Rifondazione - scrive la Armeni - è pronta a compiere la chiusura di Liberazione, l'allontanamento del suo direttore, la richiesta di obbedienza ai suoi redattori». Quanto basta per andare allo show down nel parlamentino comunista. Pezzi della maggioranza ferreriana - almeno una ventina di interventi - hanno chiesto la testa di Sansonetti: «L'autonomia non può essere in contrasto con la linea del partito» hanno detto gli uomini del potente responsabile organizzazione Claudio Grassi. Praticamente, un processo vecchio stampo. A salvare Sansonetti ci hanno pensato gli uomini di Bertinotti. L'ex segretario Franco Giordano ci è andato giù duro: «Difendo il giornale - ha detto Giordano - non perché siamo sulla stessa linea. Anzi con Sansonetti anche io ho avuto scontri come quando lui sosteneva che dovevamo uscire dal governo. Ma difendo la sua autonomia. E se qualcuno la mette in discussione significa che sta mettendo in discussione la nostra comunità politica». È il gelo. Uno spetto si è aggirato tra i comunisti: quello della scissione, di cui Liberazione è diventata il casus belli. Tanto che Ferrero, nelle conclusioni, ha ammorbidito la linea. Ed è stato approvato, all'unanimità, un «dispositivo» con cui il partito si impegna a ripianare il debito, e dà mandato al cda del giornale di presentare un piano di rilancio. Detta in altri termini, fino alle europee è tregua, anche sul giornale.E la politica-politica? Ferrero, in vista della manifestazione, ha lanciato l'idea di «comitati di opposizione» aperti a tutti quelli che dicono no a Berlusconi. Ma il ritrovato feeling è con Diliberto. Per passione, ma anche per necessità. Di fronte all'ipotesi di sbarramento alle europee, la riunificazione comunista potrebbe essere un modo per sopravvivere. Ferrero non lo dice apertamente, anche perché perderebbe mezzo partito. Anzi ieri ha tagliato contro sul tema: «Se passiamo il tempo a discutere di questo poi i voti non vengono» ha detto Ferrero. Diliberto sì: «Sono convinto che faremo una lista con Rifondazione comunista e che ci sia lo spazio per superare ampiamente la soglia di sbarramento». Ma i sondaggi già circolano: i comunisti uniti sono al 4,8 per cento. Sarà un caso - e non lo è - ma i militanti sono più vicini di quel che si pensi: alla manifestazione di oggi in molte regioni i due partiti hanno organizzato pullman comuni: Veneto, Basilicata, Sicilia, ma anche Firenze e Ancona.Gli organizzatori annunciano «un fiume di popolo» e parlano di 50 mila persone; garantito anche il supporto della Fiom e la presenza del suo leader Gianni Rinaldini. Dal palco niente big. Parleranno quelli che dicono "no": comitati "no Tav", "no Dal Molin", insegnanti contro la Gelmini. E, soprattutto, che dicono «no al governo e alla Confindustria», complici a detta di Rifondazione, di un disegno comune. Su tutto. Anche sullo sbarramento alle europee: «Un vero e proprio colpo di Stato» ha detto ieri Ferrero che ha partecipato, a Piazza Venezia, a uno dei tanti presidi davanti alle prefetture che Rifondazione ha organizzato in tutta Italia contro la riforma della legge elettorale.Sarà, dunque, la giornata della falce e martello. Ma sarà anche la giornata della "questione morale". Sulla giustizia i comunisti e Di Pietro marciano divisi, ma colpiscono uniti. Un filo unisce il corteo rosso a piazza Navona dove andrà in scena il "no Cav day", atto secondo: la raccolta delle firme contro il lodo Alfano. Certo, i distinguo non mancano, ma Ferrero è convinto che non si possa lasciare all'ex pm la bandiera dell'antiberlusconismo duro e puro. Di Pietro lo ha capito, ma tira dritto. E i suoi scommettono che dalla Bocca della verità più di un militante rosso farà un salto a piazza Navona. Dove il Tonino nazionale ha invitato sul palco anche cantanti e comici graditi alla sinistra, da Simone Cristicchi a Andrea Rivera. Anche se a lui le bandiere rosse non piacciono.

il Riformista 11.10.08
25 ottobre infuria il dibattito sul senso della manifestazione
«Non contro il governo», il Pd riempie la piazza di se e di ma
di Francesco Nardi

In piazza il 25 ottobre. Oppure no. Altrimenti sì, ma non contro il governo. Veltroni ha garantito che il corteo si farà, ma il Pd continua a interrogarsi sul senso e l'opportunità della manifestazione. E anche ieri polemiche, dubbi e discussioni si sono rincorsi.«Francamente non capiamo». Così Franco Monaco commenta l'intervista al Giornale con cui Enrico Morando, coordinatore del governo ombra, ha sorpreso tutti ed innescato un fitto botta e risposta. «Non sarà una manifestazione antigovernativa» ha detto Morando «anzi l'opposizione dovrà incoraggiare e sostenere il governo nel suo sforzo teso a fronteggiare l'emergenza». Quello che non capisce Monaco, ma che sono in molti a non aver capito, è come sia possibile che una manifestazione indetta mesi fa con lo slogan "Salva l'Italia" possa diventare ora una manifestazione quasi di "salva il governo".«È vero», dice Monaco, «le condizioni sono cambiate, ma in molti avevamo criticato l'iimpostazione di questa manifestazione fin dall'inizio. Siamo convinti che è possibile fare un'opposizione responsabile e non barricadera pur senza confondere i luoghi istituzionali di confronto con la piazza». Parole non morbide e che suscitano un vespaio di repliche nell'universo piddino, con il risultato di dare ulteriore volume alle parole che Monaco affida ancora ad Il Riformista: «C'è confusione. Tanto tra i militanti, quanto tra i dirigenti. Il Pd sta trasmettendo una linea ondivaga e che sconcerta gli elettori. Abbiamo urgente bisogno di una bussola».Dicevamo che Monaco non è solo, ma più che l'assenza di una bussola quella che emerge è la necessità di un piano condiviso sulla rotta. Il senatore del Pd Riccardo Villari, tra gli altri, confessa il suo stupore di fronte al polverone sollevato dalle parole di Morando. Il parlamentare napoletano ha cercato di svelenire il clima, denunciando contemporaneamente isterismi pericolosi che in questa vicenda diventerebbero «forieri di ansia e scompiglio». Freddamente ha poi annunciato: «Bisognerebbe mettere da parte per un po' di tempo tutta questa emotività che si respira nel partito». Insomma, per Villari la crisi non è grave e la manifestazione s'ha da fare, almeno finché la situazione economica resta quella attuale e non precipita veramente. «In quel caso potremmo anche non fare la manifestazione, come ha detto Veltroni».Ma Veltroni l'ha detto? A Piero Martino, capo ufficio stampa del Pd, non risulta affatto, anzi conferma che l'eventuale precipitare della situazione renderebbe la manifestazione romana ancor più necessaria, «per senso di responsabilità». Ma ci sono anche altre cose che non convincono Martino: come l'equivoco che a suo dire si trascina da mesi sul significato del termine "manifestazione antigovernativa". «Non significa», spiega, «attaccare frontalmente il premier per motivi non strettamente politici, ma per le cose che ha fatto, che sta facendo e che annuncia di voler fare. Perché sono molte e non ci convincono affatto».Bisognerà informare di questo Antonio Di Pietro, che invece al Riformista ha spiegato tutt'altra ricetta, ovvero quella composta da tutti i suoi più sperimentati cavalli di battaglia, leggi ad personam incluse. A Di Pietro si deve però l'unica concordanza interpretativa della giornata sull'opportunità della manifestazione: è infatti della stessa opinione di Martino perché «il precipitare della crisi economica non rende inopportuna la manifestazione del 25 aprile. Sarebbe, invece, un grosso motivo in più. Ma, ditemi, quando un‘opposizione dovrebbe "opporsi", se non adesso?». Stessa bussola, insomma.L'attesa della manifestazione appare scossa da un dibattito interno che oppone voci lontanissime tra loro. Si va dal "manifestare senza se e senza ma", qualunque sia il senso di questa piazza e comunque vadano le borse, alla sconfessione totale dell'iniziativa, come nel caso di Marco Follini che, semplicemente, chiede che «l'opposizione possa al più presto concentrare la sua insostituibile azione all'interno delle sedi istituzionali: il Parlamento».Quella del 25 ottobre era stata annunciata come la data che avrebbe salvato l'Italia. Ora, visto il caos interno, tocca capire chi salverà il Pd dalla sua piazza.

Repubblica 11.10.08
A Ronciglione, a 50 chilometri da Roma
Tutte le classi a messa protesta dei genitori

La funzione durante l´orario di lezione. Il preside: i ragazzi esonerati dalla religione? Una esigua minoranza

ROMA - Per festeggiare l´inizio dell´anno scolastico, tutti gli alunni a messa. Non importa se in classe c´è chi è esonerato dalle ore di religione, se ci sono bambini e ragazzi altre fedi e altre culture: la maggioranza ha deciso e i ragazzi dovranno seguire la funzione cattolica. Accade vicino a Roma, all´Istituto Comprensivo Marianna Virgili di Ronciglione, scuola che comprende elementari e medie. Nonostante le proteste di un gruppetto di genitori laici, che avevano chiesto che la messa si svolgesse al di fuori dell´orario scolastico, la preside e il collegio dei docenti hanno affermato che la richiesta di quei genitori rappresentava soltanto «un´esigua minoranza», e pertanto non poteva essere accolta.
Così Beatrice Nardi e Felice Antonelli, genitori di due ragazzi esonerati dall´ora di religione, (e lasciati nei corridoi a giocare), dopo aver protestato (invano) per la scelta degli organi dirigenti di aprire l´anno scolastico con una messa, hanno deciso di rendere pubblica, con una lettera, la vicenda dell´istituto di Ronciglione. «Abbiamo chiesto solamente quello che la legge sancisce - si legge nella lettera - cioè che la messa si svolgesse al di fuori dell´orario scolastico. Con protervia e arroganza ci è stato risposto ufficialmente che i tre organi collegiali (Preside, Collegio dei Docenti, Consiglio di Istituto) avevano deciso all´unanimità la partecipazione alla Funzione e che la nostra richiesta non poteva essere accettata "in quanto rappresentativa di una esigua minoranza"». Ma non era la scuola il luogo dove tutti, anche appunto, le «esigue minoranze» dovevano trovare voce e dignità, così come dice la Costituzione? Altrove forse, ma non all´Istituto Virgili di Ronciglione, dove si decide a maggioranza. «È questo il rispetto che una dirigenza scolastica riserva ai loro studenti? È così che i professori - si chiedono Nardi e Antonelli - difendono i ragazzi che sono stati affidati loro, approvando all´unanimità una proposta che veda discriminati gli alunni perché figli di genitori diversi per cultura o credo religioso?».

Repubblica 11.10.08
La Lega: regolarizzare le ronde dei cittadini
Proposta shock del Carroccio. "Aiutano le forze di polizia, le usino gli enti locali"
di Liana Milella

ROMA - E adesso la Lega vuole regolarizzare, ufficializzare, statalizzare pure le ronde spontanee dei cittadini per venire in aiuto alle forze di polizia. Un leghista, Roberto Maroni, siede al Viminale, e delle ronde ha sempre parlato bene, ribadendolo perfino in un´intervista poche ore dopo la sua nomina a ministro. I leghisti, al Senato, stanno utilizzando il disegno di legge sulla sicurezza, quello che introduce il reato di immigrazione clandestina, come una testa d´ariete per riproporre tutto lo scibile del Carroccio per garantire il "loro" tipo di legalità e soprattutto contro gli immigrati. È tutto da vedere se il Pdl, Forza Italia e An, saranno d´accordo.
Fatto sta che, da ieri, le ronde entrano a pieno titolo tra le ipotesi possibili per aumentare i controlli del territorio. Accanto a un´altra proposta choc del partito di Bossi, quella di trasformare il permesso di soggiorno in una sorta di tessera obliterabile in negativo, da cui si possono scalare punti, fino all´azzeramento, se l´immigrato commette reati o infrazioni. Alla fine del percorso c´è l´espulsione. Sulle ronde i leghisti ipotizzano che gli enti locali si possano avvalere stabilmente «di associazioni tra cittadini con funzioni ausiliarie di sorveglianza nei luoghi pubblici, per segnalare alla polizia eventi che possano arrecare danno o disagio alla sicurezza o cooperare nel presidio del territorio». Una polizia privata a tutti gli effetti. Pugno durissimo dei leghisti con gli immigrati. Accanto al permesso a punti, ecco l´obbligo per lo straniero di esibire subito un documento in caso di controlli, pena un anno di carcere e duemila euro di multa. Ma anche l´obbligo di ricorrere a referendum prima di costruire luoghi di culto diversi dalle chiese cattoliche.
Di ben altro tenore i 18 emendamenti presentati dai relatori del ddl sicurezza Carlo Vizzini (presidente della commissione Affari costituzionali) e Filippo Berselli (omologo alla Giustizia). Il palermitano Vizzini, che ne ha fatto un punto fermo del suo lavoro a palazzo Madama, propone la revisione del regime del 41 bis (il carcere duro per i mafiosi), maggiori poteri ai prefetti per gestire i beni confiscati alle cosche, ma anche l´obbligo della custodia cautelare in carcere per chi commette delitti di terrorismo e criminalità organizzata.
Altre due proposte, nuove aggravanti di pena per chi si macchia di crimini contro persone deboli (anziani e bambini) e in zone a rischio come le scuole e per fatti commessi da minorenni, mirano a creare le cosiddette safety zone e a colpire il fenomeno delle baby gang. Dalla prossima settimana, nelle due commissioni congiunte, cominceranno le votazioni, e soprattutto la battaglia sul reato di clandestinità.

Repubblica 11.10.08
A nord di Berlino una scoperta archeologica getta luce su eventi di 1300 anni prima di Cristo
Trovate le tracce della strage in un villaggio, con donne e bambini, distrutto da un esercito di invasori
di Luigi Bignami

Clan in guerra nell´età del bronzo la battaglia più antica d´Europa
Nello scontro morirono almeno 50 persone, tante per un´ Europa poco abitata

Erano un centinaio di persone, forse ancora di più. Con sé avevano lance, asce e grossi bastoni. Cercando di fare il meno rumore possibile si introdussero nel villaggio rivale e colpirono chiunque venisse a tiro, senza risparmiare nessuno. Uccisero uomini, donne e anche bambini. Poi, così come erano venuti, gli aggressori ritornarono nella foresta e al loro villaggio. Ma di quella "guerra" sono rimaste le testimonianze fino ai nostri giorni e stando a quanto ha scoperto l´archeologo di Stato tedesco Detlef Jantzen risulta essere la battaglia più antica di cui si abbiano testimonianze mai combattuta in Europa, proprio vicino alle Alpi. Gli eventi narrati, infatti, si svolsero circa 1.300 anni prima di Cristo. Dalle ossa rimaste nel luogo della battaglia risulta che morirono almeno 50 persone, un gran numero se si pensa che a quei tempi l´Europa era per lo più disabitata. L´area ove si svolse la battaglia è presso la città di Demmin, che si trova poco a nord dell´attuale Berlino.
«Stando ad alcuni reperti è possibile affermare che lo scontro fu particolarmente cruento», ha spiegato l´archeologo. A conferma di ciò vi è un teschio che testimonia la ferocia dell´aggressione: presenta un buco grande come una moneta da un euro che venne aperto da un colpo probabilmente portato con una mazza di legno. Quel teschio apparteneva ad un giovane di 20-30 anni. Secondo le analisi, la ferita gli provocò un´agonia di diverse ore. Altre ossa testimoniano che anche le donne e i bambini furono colpiti a morte. I resti sono giunti fino a noi perché l´area del combattimento all´epoca era paludosa e il fango, che presto ricoprì i corpi dei morti, li ha preservati nei millenni. Poiché è ancora possibile estrarre il Dna di quelle persone ora si pensa di capire se tra i combattenti ci furono degli avi di tedeschi o comunque nordeuropei dei nostri giorni. Le ricerche non sono terminate, perché si vorrebbe capire quali furono le cause che portarono i due clan a scontrarsi con tanta ferocia in un ambiente per lo più disabitato.
Fu quella la prima guerra dell´umanità? Certamente sono gli indizi della battaglia più antica di cui si abbia testimonianza in Europa, ma vi sono almeno due "guerre" ancora più antiche. Una fu combattuta tra 1.500 e 2.000 anni prima di Cristo a Hamoukar, una località a nord est della Siria. In questo caso le testimonianze archeologiche dicono che la città fu sottoposta a un vero assedio che durò mesi e che fu anche "bombardata" da palle di argilla frammista a materiale incendiario. L´altra battaglia che si perde nella notte dei tempi si combatté tra le città di Umma e Lagash in Mesopotamia e risale a circa 2.700 anni prima di Cristo. Non è da escludere che combattimenti tra gruppi appartenenti ai più antichi Homo Sapiens e Neanderthal siano avvenuti anche qualche decina di migliaia di anni fa, tant´è che schegge trovate in alcuni scheletri fanno ipotizzare tali scontri. Ma al momento non si hanno certezze.

Repubblica 11.10.08
Con Darwin in pancia
L´evoluzione dei batteri. Un esperimento dell´università del Michigan
di Piergiorgio Odifreddi

Il programma è cominciato il 15 febbraio 1988 con dodici ceppi di Escherichia coli
Per vent´anni e nel corso di 45.000 generazioni si sono studiati i cambiamenti

All´insegna del motto «il presente è la chiave del passato», chiaramente espresso nel sottotitolo «Un tentativo di spiegare gli antichi cambiamenti della superficie terrestre partendo dalle cause attualmente operanti», i Princìpi di geologia di Charles Lyell introdussero nel 1830 una nuova concezione della natura: il fatto, cioè, che i fenomeni geologici globali sono il risultato di una lenta accumulazione di piccoli effetti locali su enormi scale temporali.
Il giovane Charles Darwin lesse il libro due anni dopo, durante il suo viaggio sul Beagle, e dichiarò in seguito che «il più grande merito dei Princìpi è stato di aver rivoluzionato l´intero modo di pensare». Egli adattò nel 1859 la teoria di Lyell a L´origine delle specie, ma il fatto che i fenomeni evolutivi sono il risultato di una lenta accumulazione di piccole mutazioni locali su enormi scale temporali finì per essergli ritorto contro, storpiato come affermazione della non verificabilità sperimentale dell´intera teoria dell´evoluzione per selezione naturale.
Ironicamente, sono stati i fondamentalisti cristiani ad adottare questa critica: come se le storie della Bibbia fossero invece verificabili sperimentalmente, e la stessa espressione «tempi biblici» non derivasse comunque proprio da esse! Recentemente, l´argomento è stato sposato addirittura da papa Benedetto XVI, che negli atti della conferenza su Creazione ed evoluzione (Edizioni Dehoniane, 2007) dice testualmente: «la teoria dell´evoluzione in gran parte non è dimostrabile sperimentalmente in modo tanto facile perché non possiamo introdurre in laboratorio 10.000 generazioni».
Queste parole sono state pronunciate il pomeriggio del 1 settembre 2006 a Castelgandolfo, dopo che quella stessa mattina e nello stesso luogo il papa aveva udito Peter Schuster, presidente dell´Accademia delle Scienze austriaca, riportare invece nella sua conferenza: «Richard Lenski dell´Università del Michigan a East Lansing nell´anno 1988 ha iniziato un esperimento che continua anche oggi con batteri del tipo Escherichia coli, che egli lascia evolvere in condizioni costanti. A tutt´oggi ha isolato e analizzato circa 40.000 generazioni».
Naturalmente, non c´è peggior sordo di chi non vuol sentire. Ma per chi vuole invece prestare attenzione, la ricerca in questione rappresenta una spettacolare confutazione della non dimostrabilità sperimentale del darwinismo, come dice già il suo stesso nome: Long-term evolution experiment, «Esperimento di lunga durata sull´evoluzione». Esso è iniziato il 15 febbraio 1988 con dodici ceppi di Escherichia coli, tutti derivati da uno stesso batterio iniziale e mantenuti in incubazione a 37 gradi in dodici provette: ogni mattina si aggiunge in ciascuna un po´ di glucosio (25 milligrammi per litro), che viene consumato entro il pomeriggio. Il giorno dopo si estrae da ciascuna provetta una stessa quantità di ciascun ceppo, la si rimette in un´altra provetta con un po´ di glucosio, e così via.
Ogni 75 giorni, pari a 500 generazioni di riproduzione (asessuata), si congela una parte di ciascun ceppo per creare una specie di «testimonianza fossile» dell´intero esperimento: diversamente dai fossili, però, queste testimonianze possono non solo essere studiate, ma anche scongelate per far ripartire l´esperimento da un certo punto, o per mescolare vecchie generazioni con altre più giovani e osservare come esse interagiscono e quale risulti essere meglio adattata. Per vent´anni e nel corso di 45.000 generazioni, raggiunte nel 2008, si sono costantemente monitorati e registrati i dati relativi ai cambiamenti indotti nei batteri da modifiche dell´ambiente in cui essi sono mantenuti, al loro comportamento sociale, alla loro resistenza ai parassiti e agli antibiotici, alla velocità di comparsa delle mutazioni e alla loro interazione reciproca.
A causa delle piccole dimensioni del genoma del batterio e del gran numero di generazioni succedutesi, si è calcolato che ormai ogni possibile mutazione individuale dev´essersi manifestata più volte. Alcune di queste mutazioni sono ad alta probabilità, visto che hanno prodotto gli stessi effetti in tutti i dodici ceppi: ad esempio, un aumento di volume delle cellule e una diminuzione della densità di popolazione. Altre sono a probabilità intermedia, visto che hanno prodotto gli stessi effetti in alcuni ceppi, ma non in tutti: ad esempio, in quattro si sono sviluppati difetti nella capacità di riparazione del Dna.
La cosa più interessante che è accaduta ha a che fare col fatto che, durante il trasferimento giornaliero di un ceppo da una provetta all´altra, questo può essere contaminato da batteri in grado di nutrirsi del citrato che fa parte della soluzione nella quale vengono mantenuti gli Escherichia coli (il cosiddetto brodo minimale di Davis, che è comunemente usato per studiarne i mutanti e contiene il minimo dei nutrienti necessari per la loro sopravvivenza e autoriproduzione). Poiché gli Escherichia coli non sono invece in grado di nutrirsi direttamente del citrato, i batteri invasori prendono il sopravvento su di essi e l´effetto è visibile anche a occhio nudo, in quanto la soluzione della provetta diventa opaca.
Se questo accade Lenski butta via il ceppo contaminato e riparte dalla precedente generazione, scongelandone una parte. Ma una volta, nel giorno della 33.127 generazione, si accorse che il liquido nella provetta era diventato opaco senza essere contaminato: il ceppo degli Escherichia coli aveva sviluppato da solo la capacità di nutrirsi del citrato! Scongelando le generazioni precedenti ed esaminandole, Lenski si accorse che fino alla 31.000 non c´erano mutanti in grado di digerire il citrato, alla 31.500 ne erano apparsi il cinque per mille, alla 32.500 costituivano quasi il venti per cento, alla 33.000 erano praticamente scomparsi, ma alla 33.127 essi erano improvvisamente diventati dominanti e avevano appunto reso opaco il liquido nella provetta.
Esaminando varie generazioni congelate degli altri ceppi, Lenski non vi ha mai trovato batteri in grado di mangiare il citrato: a differenza di altre mutazioni, che tendono a ripetersi più o meno uniformemente nei vari ceppi, siamo dunque di fronte a un evento di probabilità molto bassa (che esperimenti successivi hanno calcolato essere dell´ordine di uno su mille miliardi). Inoltre l´andamento delle percentuali nelle varie generazioni mostra che quella mutazione non è sufficiente, da sola, a rendere i batteri in grado di mangiare il citrato più adatti alla sopravvivenza nella lotta per vita, di quelli in grado di mangiare il glucosio: i batteri della generazione 33.127 dovevano dunque aver subìto qualche ulteriore mutazione, e come tali erano il risultato di un evento a bassissima probabilità.
Ora, questo è precisamente il genere di cose che i detrattori dell´evoluzionismo sostengono non possano accadere in natura senza l´intervento divino!
Puntualmente, tre giorni dopo che i risultati dell´esperimento erano stati pubblicati da Lenski e due suoi collaboratori il 10 giugno 2008 nei Proceedings dell´Accademia Nazionale delle Scienze statunitense, il sito Conservapedia (un nome, un programma) ha pubblicato un attacco alla loro ricerca, in cui si intimava a Lenski di rendere pubblici i protocolli e i dati dell´esperimento, e di specificare come questi supportassero le conclusioni annunciate.
Lenski ha dapprima risposto cortesemente, invitando i critici a leggere l´articolo originale e consultare il sito dell´esperimento, invece di limitarsi a citare un articolo di giornale che riportava la notizia di seconda mano. Ma quando il sito ha insistito imperterrito, egli ha smascherato la pretesa dei fondamentalisti religiosi di pretendere che ogni qualvolta i dati scientifici supportano conclusioni contrarie alle loro prevenzioni, allora si deve per forza essere di fronte a un errore o una frode.
Come ogni scienziato che si rispetti, Lenski è pronto a fornire a ogni altro scienziato che si rispetti non solo esemplari dei batteri originari che si nutrono di glucosio, ma anche di quelli mutati che si nutrono di citrato. Ai fondamentalisti, invece, consiglia di accontentarsi del miliardo di Escherichia coli che ciascuno di essi ha nel proprio intestino: oltre al fatto che bisogna lavarsi bene le mani dopo essere andati in bagno, questo significa anche che al mondo ci sono miliardi di miliardi di Escherichia coli, ciascuno dei quali si riproduce più volte al giorno. E poiché all´incirca una volta su un miliardo si verifica una mutazione, più o meno tutte le possibili mutazioni avvengono ogni giorno, comprese quelle estremamente improbabili.

Corriere della sera 11.10.08
Modelli Strategie politiche e rapporti di collaborazione tra categorie sociali nell'antichità: un sistema solo in apparenza contraddittorio
Il potere
Quando i ricchi guidano il popolo: nasce la democrazia aristocratica
La sfida (riuscita) di Pericle nell'Atene del V secolo a.C.
di Luciano Canfora

In Atene, l'estensione della cittadinanza ai non possidenti ha determinato una importante dinamica ai vertici del sistema. I gruppi dirigenti — questo non va mai dimenticato — sono e restano esponenti delle classi alte, delle due più ricche classi di censo. Sia gli strateghi che, ovviamente, gli ipparchi (cioè i magistrati militari, coloro che detengono il vero potere politico nella città), nonché gli ellenotami (i quali amministrano il tesoro della lega e controllano le finanza), provengono da quelle classi. A sorte sono eletti i «buleuti», i componenti del Consiglio (composto di 500 persone, 50 per ciascuna delle dieci tribù create da Clistene). A sorte: e dunque in modo da consentire a qualunque cittadino di entrare a far parte del consesso, e, secondo il turno, di occupare sia pure per breve tempo il ruolo equivalente alla «presidenza » della Repubblica. Anche le liste annue di circa seimila cittadini da cui trarre i giudici che avrebbero composto le varie corti erano liste composte di volontari, senza preclusioni di ceto. E tutti sanno quale importante ruolo svolgessero i tribunali nello scontro sociale quotidianamente in atto e avente come oggetto, quasi sempre, l'uso della ricchezza.
Nondimeno la prevalenza dei ceti più forti e più ricchi nella direzione politica della città era indiscutibile. In non piccola parte, i ricchi, i «signori» hanno accettato il sistema lealmente e hanno accettato di dirigerlo, o per meglio dire ne hanno naturaliter assunto la direzione. Pericle, Alcibiade, Nicia, Cleone, per fare solo i nomi più celebri, sono o ricchi o nobili, o le due cose insieme. Quale che sia il valore della furiosa caricatura di Cleone ossessivamente sbandierata da Aristofane, anche Cleone è della classe dei cavalieri, una delle due più alte classi di censo.
Guidavano o erano guidati? Gli stessi autori contemporanei su ciò si dividono. L'autore della Costituzione degli Ateniesi dichiara senza sfumature che i non popolani che accettano il sistema democratico sono essi stessi delle canaglie, dei criminali che hanno qualcosa da nascondere ( II, 20): «Ma io al popolo la democrazia gliela perdono! È comprensibile che ciascuno voglia giovare a se stesso. Ma chi pur non essendo di origine popolare accetta di fare politica in una città governata dal popolo piuttosto che in una retta dagli oligarchi, costui è pronto ad ogni mala azione e sa bene che gli sarà più facile occultare la sua natura canagliesca in una città democratica, anziché in una oligarchica».
Da queste battute si capisce qual è la sua scelta: di totale contrapposizione. Ma egli sente di appartenere ad una minoranza. Se si considera del resto un personaggio gigantesco ed emblematico come Pericle, è istruttivo osservare che per Tucidide egli è l'anti-demagogo per eccellenza, colui che guida e non si fa guidare, colui che sa andare contro corrente in contrasto con gli impulsi, o istinti, popolari (II, 65), laddove per Platone ( Gorgia) Pericle è l'incarnazione stessa della demagogia, uno dei grandi «corruttori» del popolo, da lui assecondato e appunto perciò corrotto. Per Tucidide, Pericle è talmente anti-demagogico nella conduzione della cosa pubblica da essere definibile col termine di «principe» e — quel che è più — da rendere legittimo affermare che sotto il suo governo solo nominalmente c'era ad Atene «democrazia». Peraltro quando gli dà la parola nell'importante discorso per i morti nel primo anno di guerra, Tucidide fa dire a Pericle che ad Atene governa «la legge», mentre Senofonte — un altro socratico — nei
Memorabili gli fa dire che in democrazia è in ultima analisi la volontà del popolo che conta, anche al di sopra della legge. E comunque la forza della demagogia era reputata dallo stesso Tucidide tale da indurlo ad un giudizio molto bilanciato intorno al rapporto tra Pericle e la massa dei frequentatori dell'assemblea: «Non era guidato da loro più di quanto egli stesso non li guidasse». In queste parole, dette a proposito di colui che Tucidide non esita poco dopo a definire «principe» della città, vi è un serio riconoscimento dell'inevitabilità comunque
di «essere condotto» ( àgesthai) quando si fa politica alle prese con la «massa popolare » ( plethos).
Arduo è dunque riuscire a dare un'idea corretta dell'intreccio di interessi, compromessi, reciproche concessioni, tra «signori» ( leaders,
grandi famiglie) e «popolo» nel quadro della democrazia ateniese. Non si trascurerà il fattore personale e soggettivo. L'autorità, l'abilità, il prestigio di Pericle non erano disgiunti dall'uso disinvolto e «demagogico» (secondo i suoi avversari) delle risorse economiche della città. Comunque non è errato assumere come fondato il punto di vista tucidideo e vedere in Pericle il leader capace di egemonia e perciò anche pronto all'impopolarità. Peraltro l'unico vero discorso politico che Tucidide fa pronunciare a Cleone è, anch'esso, un discorso che non arretra dinanzi ai toni impopolari. Si dovrebbe dunque dire, a giudicare da quel discorso, che anche Cleone «guidava più che essere guidato»: al punto che Demostene, nel secolo seguente, fa propri quei toni quando vuol assumere le vesti «periclee» dell'impopolare «educatore del popolo». Forse non si riuscirà mai a scavare fino in fondo nell'intreccio capi/popolo, leader/ masse: una «circolarità» in cui risiede l'essenza stessa del far politica. Quel che è qui importante rilevare è che la democrazia non determina ad Atene un «governo popolare», ma una guida del «regime popolare » da parte di quella non piccola porzione dei «ricchi» e dei «signori» che accettano il sistema.
Orbene il fenomeno dinamico e lacerante innescato dalla democrazia (dalla estensione della cittadinanza ai non possidenti) è questo: di fronte al fatto nuovo del potere dei non possidenti, i gruppi dirigenti, coloro che per elevata collocazione sociale sono anche i detentori dell'educazione politica e perciò possiedono l'arte della parola (e in virtù di queste capacità naturalmente si candidano a dirigere la città)
si dividono. Una parte — si direbbe la più rilevante, ma non abbiamo strumenti di controllo «quantitativo» — accetta di dirigere il sistema di cui i non possidenti sono ormai forza prevalente. Da questa consistente parte dei ceti alti (grandi famiglie, ricchi cavalieri eccetera) vien fuori il ceto politico che dirige la città: da Clistene a Cleone. Al loro interno si sviluppa una dialettica politica spesso fondata sullo scontro personale, di prestigio, di potere, di leadership.
Ciascuno è sorretto e guidato dal convincimento di incarnare gli interessi generali; l'idea che la propria prevalenza sulla scena politica sia anche il miglior veicolo per la miglior conduzione della comunità. Lottano gli uni contro gli altri per conquistare la guida politico- militare della città. Nessuno di loro è contro il «sistema»: sono dunque «democratici» (nel senso che, appunto, accettano il sistema, stanno al gioco e puntano a dirigerlo) tanto Pericle quanto Cimone, Nicia e Cleone, e Alcibiade.
Al contrario una minoranza di «signori»
non accetta il sistema. Organizzati in formazioni più o meno segrete («eterìe»), essi costituiscono una perenne minaccia potenziale per il «sistema», del quale spiano le possibili incrinature, soprattutto nei momenti di difficoltà militare. Sono i cosiddetti «oligarchi».
«L'epoca di Pericle», incisione colorata dell'artista tedesco Philippe von Foltz (1805-1877) Il filosofo greco Platone (427 a.C. - 347 a.C.) ritratto nella «Scuola di Atene» di Raffaello Lo storico Tucidide (460 a.C. 400 a.C.) è autore della «Guerra del Peloponneso»

Corriere della sera 11.10.08
Concita De Gregorio indaga sulle ragioni di una violenza che non passa nonostante l'emancipazione
Nel segno del dolore: le donne che sperano di cambiare gli uomini
di Daniela Monti

Ribaltare tutto, cambiare prospettiva. Mettere in discussione quello che abbiamo imparato finora: che è la subordinazione economica, culturale e sociale a fare delle donne le vittime predestinate della violenza maschile. È la mancanza di scelta e di alternativa a consegnarle, mani e piedi legati, al proprio aguzzino. Chi un'alternativa ce l'ha, chi ha uno stipendio, chi non è costretta a vivere all'ombra di nessuno è salva. Sospiro di sollievo. Eppure questi argomenti non bastano più. Ci sono nuove emergenze e nuove domande, come quelle attorno a cui ruota l'ultimo libro di Concita De Gregorio, Malamore. Esercizi di resistenza al dolore, edito da Mondadori nella collana Strade Blu: si può decidere consapevolmente di essere vittime? Come mai tante donne disinvolte, intelligenti, autonome, emancipate accettano di subire maltrattamenti gravi, a volte gravissimi? Perché potendo scegliere, scelgono il dolore?
«Violenza borghese», la chiama la De Gregorio, quattro figli (maschi), per anni inviata di la Repubblica
e ora fresca direttrice de l'Unità.
Il libro è un mosaico di storie di donne diverse — da Louise Bourgeois a Dora Maar, dalla Eva Kant dei fumetti a Lee Miller, dalla prostituta d'alto bordo Cristina, alla piccola Dalia, venduta a 12 anni dalla nonna — e anche se il sottotitolo recita «le donne, i loro uomini e la violenza », gli uomini non sono che figurine sullo sfondo, si muovono con gesti meccanici, scontati. Meschini anche quando portano nomi importanti (impietoso il ritratto di Picasso), sono la parte debole della storia. Non c'è interesse a raccontarli. Li conosciamo, in fondo. Giocando sul titolo di un altro libro della De Gregorio: una donna lo sa. Chi sono, come sono. Sa riconoscerli. Eppure li sceglie. E allora?
Non è neppure la violenza degli uomini il tema del libro. Sono le donne che accettano quella violenza, donne che sembrano tutto fuorché indifese. Potrebbero spaccare il mondo e invece si lasciano annientare nel privato. La De Gregorio cerca di renderlo pubblico, questo privato, come fosse l'unica mossa per mettere k.o. l'avversario: perché come insegna la fiaba di Barbablù (e le fiabe, dice la De Gregorio, lo sanno) — l'assassino seriale che sposa giovinette per poi ucciderle e nasconderle in cantina — alla fine, a vincere sarà quella che ordisce un piano per ingannare il mostro, quella che «resta ferma e guarda meglio, poi richiude la porta della cantina e torna su per le scale. Vince chi va all'inferno e ritorna. Vince chi vuol sapere e poi sa cosa farsene, anche, del suo sapere. Chi soffre e trova un rimedio».
Le bambine di Elena Gianini Belotti sono diventate grandi. Mettersi dalla loro parte, ora, vuol dire cercare di portare a galla meccanismi di autodistruzione che alimentano vite all'apparenza perfette: la donna ministro che si lascia umiliare in privato dall'amante subalterno, a cui ha spianato la strada per la carriera; la bella e misteriosa Marie Trintignant, che si fa uccidere dall'amante rockstar di una «bellezza cupa e maledetta, dei duri in fondo fragili, quelli che fanno svenire le adolescenti pronte a guarirli dai loro mali »; la signora alto borghese presa a botte dal marito e insultata dai figli che sulle pareti del soggiorno le dedicano una scritta con lo spray: «Mamma vattene, i deboli soccombono, i forti vincono».
E alla fine del suo viaggio fra le mille storie, sono due le risposte che l'autrice dà a quell'ossessivo perché: da una parte una specie di contrappasso, un prezzo da pagare in privato per i riconoscimenti che si sono ottenuti in pubblico. È la giustificazione lucida che la donna ministro offre a se stessa: «Credo di capire cosa mi succede quando mi faccio maltrattare così tanto da lui. È come se io stessa ne avessi bisogno, da qualche parte: è come se fosse necessario per sostenere l'altro ruolo, quello pubblico». L'altra risposta è più sconcertante. E, di nuovo, viene cercata nella parte più profonda, «dentro» le donne: è il programma segreto, l'agenda occulta, la presunzione che fa pensare alle donne di poterli cambiare, gli uomini violenti, l'idea grandiosa di sé che fa credere alla topina protagonista della favola La rateta — che apre e chiude il volume — di poter sposare il gatto e di essere capace di domarlo, convincendolo ad amarla invece di mangiarla. Che illusione. Il gatto farà della moglie presuntuosa e dei suoi supposti «superpoteri» un sol boccone. «I gatti mangiano i topi ed è inutile provare a cucinare loro carciofi — è la morale del volume —. La più grande prova di forza è affrancarsene, liberarsi di loro, imparare a evitarli, lasciarli soli. Questo sì è uno straordinario successo: non dover dimostrare più niente, non mettersi alla prova».
Pablo Picasso, «Donna che piange», 1937 (particolare)

Corriere della Sera 11.10.08
Beni culturali, il suicidio dei tagli
Salvatore Settis: «Il governo penalizza Paestum e Pompei»
di Stefano Bucci

«Un suicidio assistito»: così Salvatore Settis ha definito ieri il risultato della «lite di competenze sui beni culturali attualmente in corso tra Stato, regioni, province, comuni». In particolare, per «suicidio» dei beni artistici italiani, Settis intendeva l'effetto di quel decreto Tremonti che ha tagliato i fondi allo Stato (Soprintendenze comprese) ma non alle Regioni: «Così si penalizzerà soprattutto il Sud. A cominciare da gioielli come Paestum e Pompei» (proprio ieri il sindaco di Venezia Massimo Cacciari aveva dichiarato: «La situazione del nostro patrimonio artistico è drammatica se il governo non interviene»).
Settis, attualmente presidente del Consiglio superiore dei beni culturali, ha criticato il sindaco di Roma Gianni Alemanno che, sul sito del comune, ha chiesto che la tutela dei beni culturali dell'Urbe venga assegnata alla Soprintendenza comunale (e quindi locale): «Così dicendo Alemanno contraddice l'articolo 9 della Costituzione, quello che assegna la tutela allo stato centrale e che non mi risulta sia stato ancora abrogato». E ha aggiunto: «Adesso il Comune non può pensare di occuparsi anche di Villa Borghese o del Colosseo». Settis, invece, si è schierato dalla parte di Alemanno a proposito del parcheggio al Pincio: «Sono completamente d'accordo con lui, il blocco è giusto, così è stato rimediato un errore». La politica c'entra ma non è tutto: «È stato il centrosinistra — ha spiegato — a volere la riforma del titolo V della Costituzione con l'assegnazione della fruizione dei beni culturali alle Regioni: gran bel risultato politico!». Ieri, nella Sala della Stampa estera a Roma, si è discusso della «conservazione programmata del patrimonio artistico italiano». Accanto a Settis c'erano Caterina Bon Valsassina (direttore dell'Istituto centrale del restauro), Giorgio Bonsanti (docente di Storia e tecnica del restauro a Firenze), Roberto Cecchi (direttore generale per i beni architettonici e storico-artistici del ministero dei Beni culturali), Giuseppe Proietti (segretario generale dello stesso ministero), Nicola Spinosa (soprintendente del polo museale napoletano) e Salvatore Settis (presidente del Consiglio superiore dei beni culturali). Oltre a Mirella Stampa Barracco, presidente della Fondazione Napoli Novantanove: perché la tavola rotonda (coordinata dal giornalista Paolo Conti) prendeva spunto dal ventennale di un restauro fortemente voluto dalla Fondazione, quello dell'Arco di Trionfo di Alfonso d'Aragona a Castelnuovo, a Napoli. Un vero e proprio simbolo: quando venne presentato (il 30 settembre 1988, vent'anni fa) erano i primi momenti in cui la città «andava scoprendo un patrimonio artistico troppo a lungo dimenticato». Si voleva, insomma, recuperare grazie all'impegno della Fondazione uno dei monumenti più importanti della storia napoletana «per ridare alla cultura e al patrimonio artistico un ruolo determinante di sviluppo». Un impegno che appare attualissimo ancora oggi.
Il 95% della spesa entro il 2011: questi i tagli in arrivo sui beni culturali: «Sono molto preoccupato — ha ribadito Settis — dei possibili effetti del federalismo sui beni culturali e del fatto che i tagli renderanno sempre più difficile il lavoro delle soprintendenze che oltretutto dal primo gennaio 2009 dovranno anche fare i conti con il nuovo codice del paesaggio e con la sua relativa attuazione ». Anche se Proietti ha ricordato come «il ministro Bondi abbia assicurato che, a suo avviso, lo Stato deve assolutamente mantenere il proprio compito di tutela». Un discorso a parte, poi, sul vandalismo: «Esiste un vandalismo generico contro le statue, ma anche una "sottospecie" che si accanisce contro quello che è stato appena restaurato (lo stesso Arco di Trionfo venne imbrattato con della vernice rossa ndr). Nessuno lo giustifica certo, ma bisogna analizzare quel disagio e in questo la scuola può e deve fare molto». L'unica soluzione per Settis resta la collaborazione «tra Stato, regione, soprintendenze» perché solo così «la situazione del patrimonio artistico potrà essere uguale a Reggio Calabria come a Bergamo».
Secondo Roberto Cecchi il modello dell'Arco restaurato dalla Fondazione Napoli Novantanove è ancora oggi valido (Caterina Bon Valsassina ha ricordato il lavoro di Giovanni Urbani già direttore dell'Istituto Centrale e definendolo «l'anticipatore del restauro programmato»), criticando al contrario il restauro stilistico (così è stato ricostruito il Corridoio Vasariano a Firenze) e quello analogico (le varie fabbriche del Duomo). «Si tratta di un'imitazione, per dirla con Heidegger, che non aggiunge nulla al vero ed oggi più che mai. E nessuno di noi vuole vedere falsi quadri di Picasso o Leonardo, vogliamo l'originale. Certo, diverso è il discorso nel caso di grandi disgrazie come i bombardamenti o l'incendio della Fenice di Venezia dove intervengono meccanismi psicologici». Da Cecchi è arrivata anche la proposta di «destinare per ogni grande restauro una parte di fondi alla manutenzione ordinaria» (sulla stessa linea Bonsanti che ha parlato «di una manutenzione per spezzare l'urgenza » piccioni compresi). Mentre Spinosa ha così definito la situazione di Napoli: «Restauriamo 10 per veder distrutto 100 ma tutto ha senso solo se diventa un momento di aggregazione».

Corriere della sera 11.10.08
E Don Chisciotte incontrò Paul Klee
I grandi artisti usano il potere della fantasia per capire le cose vere
di Carlo Sini

L'arte, diceva Paul Klee, non ripete le cose visibili, ma rende visibili le cose, la realtà. Se aggiungiamo a questo motto famoso un celebre aneddoto, avremo perfettamente circoscritto il tema affascinante della «serietà giocosa» dell'arte. Narra l'aneddoto che una signora, dopo aver visitato una mostra di Klee, si rivolse all'artista così apostrofandolo: «Queste cose le sa fare anche il mio bambino, che ha cinque anni!». «Certo signora — rispose Klee —. Bisognerà vedere se le farà ancora a cinquanta». Maturità e infanzia si trovano così immediatamente accostate e contrapposte: c'è qualcosa che si rende visibile al bambino che l'adulto non vede o non vede più, a meno che non sia appunto un artista. Ovviamente questo «qualcosa» ha a che fare con la fantasia e col gioco ed è ben noto che il gioco per i bambini è una cosa molto seria e anzi indispensabile. Anche l'artista vi ha a che fare, almeno nella misura in cui la sua attività è connessa all'immaginazione e alla creazione di cose che il giudizio comune tende talora a ritenere futili, gratuite e insomma poco serie. Ma come sta la cosa in realtà?
Sigmund Freud se lo chiese. «Il contrario del gioco, osservò, non è ciò che è serio, bensì ciò che è reale ». Cosa fa infatti il bambino giocando? Egli crea un mondo di fantasia che prende molto sul serio, perché lo carica di profondi significati affettivi, senza per questo dimenticare che quel mondo non è quello della comune realtà. Ancora l'adolescente fa qualcosa del genere; mostra infatti una forte tendenza a fantasticare (ed è appunto nell'adolescenza che per lo più si manifestano le vocazioni artistiche). L'attività ludica e quella fantastica serbano così un tratto comune, che il linguaggio esprime efficacemente quando le definisce «sogni a occhi aperti». In altri termini, modi di gratificazione simbolica dei desideri più profondi. Il bambino, giocando, sogna di essere adulto, di essere «grande». A sua volta l'adolescente esaudisce fantasticando i suoi desideri, per lo più erotici. Su questa stessa linea si pone infine l'artista, poiché la sua indole non riesce ad adattarsi alla dura prosaicità della vita corrente. Il suo bisogno di soddisfacimento pulsionale trova nell'arte la possibilità meravigliosa di trasfigurare le sue fantasie in un una nuova specie di «cose vere» e «reali» che il mondo accoglie per lo più con favore. Questo favore mostra chiaramente che anche gli altri uomini provano la stessa insoddisfazione dell'artista nei confronti della vita e delle rinunce che essa impone. In ogni essere umano, si dice, c'è potenzialmente un poeta. Tra l'artista e il suo pubblico si stabilisce pertanto una sorta di patto segreto, una tacita connivenza: dietro lo schermo del «lavoro» artistico e delle «regole severe» del-l'arte vien dato spazio al bisogno di continuare a giocare con le proprie fantasie. L'idea che l'arte sia «disinteressata » sembrerebbe allora quanto mai ingannevole; Aristotele con la sua teoria della catarsi l'aveva compreso: c'è nell'arte un bisogno nascosto di trasgressione e di trasfigurazione delle passioni più profonde, e cioè un bisogno di purificazione e insieme di soddisfacimento simbolico dei nostri sentimenti e desideri, che la vita e la società respingono o censurano. Solo i bambini, infatti, non si vergognano di mostrarsi mentre giocano, grazie appunto alla loro «innocenza». Gli adolescenti e gli adulti, invece, nascondono le loro private fantasie, spesso inconfessabili, ma l'arte e il lavoro serissimo dell'artista giungono a risarcirli per via indiretta e traversa. In parole povere: essi possono continuare a giocare, sottraendosi, senza vergogna o sensi di colpa, agli ostacoli che la vita reale oppone ai loro se in un altro senso è forse possibile intendere la serietà del gioco dell'arte: un senso che percorre una via contraria e insieme parallela alla precedente. Qui non si tratta di frequentare la fantasia per sfuggire alla durezza del reale, ma di utilizzarla invece per ritornarvi, in parte risanati dalla comune follia dei mortali. Il gioco dell'arte appare allora come una metafora della sapienza e un'introduzione alla saggezza. Il suo mondo immaginario diviene uno specchio nel quale ravvisarsi, vedersi vivere e riconoscersi in ciò che non si sapeva, non si credeva o non si voleva ammettere di essere. Esemplare ed emblematica appare allora la figura del Chisciotte, il protagonista del romanzo di Cervantes: forse la più alta espressione della nostra modernità critica e disincantata. Tutto il cammino del libro, dalla prima alla seconda parte, è infatti un percorso attraverso il quale il cavaliere e il suo scudiero in un certo senso si scambiano insensibilmente le parti e a tratti quasi si confondono: l'uno nel mostrare quanta savia consapevolezza sta al fondo delle nostre idealizzate fantasie; l'altro quanta folle e ignorante presunzione abita le opinioni e i costumi del cosiddetto vivere civile. E così l'arte, anche per questa via, rende visibile l'oscura trama e la nascosta realtà delle nostre vite.
Carlo Sini è docente di filosofia teoretica alla Statale di Milano Affinità
A sinistra, il «Don Chisciotte» del francese Honoré Daumier (1868).
Nel tondo, il «Funambolo » (1923) di Paul Klee