mercoledì 15 ottobre 2008

il manifesto 14.10.08
La qualità del «pubblico»
di Fausto Bertinotti


La manifestazione dell'11 ottobre dovrebbe indurci a più di una riflessione su di essa, nel bene e nel male, e sullo stato dell'opposizione in Italia. In ogni caso ha battuto un colpo. Ma una qualche ritrovata presenza di piazza rende non meno ma ancor più drammaticamente evidente la formula di Rossana Rossanda: «Non credo che una sinistra possa dirsi esistente se di fronte alla più grossa crisi del capitalismo dal 1929 non sa che cosa proporre».
Potrebbe essere un primo sviluppo della manifestazione la convocazione di un seminario o di un'assemblea o di un convegno per incominciare a parlarne pubblicamente. Il bisogno di organizzare luoghi e modi di un confronto a sinistra non è ormai minore di quello dell'organizzazione del conflitto.
Intanto, almeno per non lasciare cadere l'importante sollecitazione di Rossana Rossanda, sarà bene che ognuno cominci a dire la sua su di essa, anche sommariamente e provvisoriamente. Sulle cinque osservazioni che Rossana pone a base del suo ragionamento vorrei dire che nel loro impianto generale non solo sono largamente condivisibili, ma credo sia utile, da parte di quella sinistra che ha subito una drammatica e storica sconfitta, ricordare che parti di essa hanno sostenuto queste tesi anche negli anni scorsi, seppure spesso in condizioni di isolamento e molte volte senza neppure farsi forza di un sostegno reciproco. Costituisce in sé un problema politico il fatto che chi ha, all'ingrosso, avuto ragione nella critica a questo capitalismo sia impotente, e persino silente, di fronte alla sua crisi.
La condizione sostanziale dello scheletro proposto da Rossana consente e sollecita, per la stessa complessità delle tesi, degli approfondimenti in cui possano utilmente farsi luce anche differenze interne allo schema il cui confronto possa rivelarsi utile nella ricerca della proposta programmatica. Per parte mia vorrei proporre tre sotto-osservazioni. La prima riguarda il neoliberismo. Esso ha mostrato di sapersi articolare lungo diverse varianti (Usa ed Europa), sicché non le sono impedite né le politiche monetarie espansive, né la domanda di intervento pubblico. La sua caratteristica intrinseca consiste nel poter scegliere tra politiche diverse in funzione della conferma di un nucleo duro che deve valere nella fase espansiva, come in quella recessiva, come nella crisi che accende una nuova ristrutturazione dell'economia. Il nocciolo duro è la piena e, secondo la sua volontà, irreversibile liberalizzazione del mercato del lavoro che deve sempre essere governato secondo il basso salario, l'alta flessibilità e la diffusa precarietà. La seconda osservazione riguarda l'apparato produttivo italiano. Qui, quell'universale nocciolo duro si accompagna, come sappiamo, ad aree di economia nera e grigia, con lavoro nero ed evasione fiscale.
Ma la ristrutturazione della media industria italiana sempre più internazionalizzata, la performance nell'esportazione di alcuni settori produttivi che colloca l'industria italiana appena sotto la potente vicina tedesca, la vitalità e la sua capacità di riorganizzazione su basi territoriali dinamiche sono caratteristiche che non consentono di qualificare questa realtà come arretrata. Va certo discussa la sua collocazione nella divisione internazionale del lavoro e dei mercati (ah, la politica industriale!), ma assai più radicalmente, credo, la sua composizione merceologica, il cosa produrre. Oltre, va da sé, la decisiva contestazione della distribuzione del reddito e del potere tra capitale e lavoro, distribuzione oggi semplicemente repellente. La terza osservazione riguarda ciò che Rossana Rossanda definisce la «demenza» dei dirigenti che hanno mandato a picco grandi enti finanziari, banche e assicurazioni. Vorrei dire che dal punto di vista del capitalismo globalizzato c'è una logica in questa «demenza». Opposta, eppure simile, a quella di Trichet che, anche di fronte alla crisi, testardamente ha tenuto a lungo alto il costo del denaro. Quella logica va rintracciata nel perseguimento del contenimento, anzi nel blocco, della dinamica salariale, a qualsiasi costo, di riffa o di raffa. Greenspan e i grandi managers delle banche americane si devono essere detti: come si fa a tenere su la domanda se i salari non la possono alimentare? La risposta è stata: con l'indebitamento dello Stato e delle famiglie. Inventandosi, cioè, ciò che Bellofiore chiama la figura del «consumatore indebitato». Questo imbroglio è saltato ed è esplosa la crisi, la crisi del «capitalismo finanziario globalizzato» (Guido Rossi). Ed è esplosa malgrado la liaison tra i sistemi delle economie emergenti (Cina e India) e quello statunitense. La crisi fa emergere i suoi nodi strutturali. Non parlano di questo la questione energetica e quella alimentare, oltre all'esigenza del sistema di tagliare i salari e, contemporaneamente, di sostenere la domanda?
Ha ragione da vendere Rossanda a dire che la sinistra non esiste se non fronteggia la crisi del suo avversario (anche perché quello finirebbe altrimenti per risolverla contro tutti coloro le cui ragioni e speranze la sinistra dovrebbe interpretare). Le proposte che Rossana Rossanda avanza mi pare vadano nella direzione giusta. Partiamo da qui, cogliamo l'occasione e apriamo una discussione collettiva. Rossana pone due punti di partenza: un contenuto, l'intervento pubblico in economia, e uno spazio da riempire da sinistra, l'Europa. So che non è buon metodo aggiungere tema a tema, troppo grande diventa altrimenti il rischio di dispersione e di perdita del contatto di confronto. Se trasgredisco alle norme è perché credo che Rossana per prima sarà d'accordo nel legare ad essi il tema del lavoro. Non è un omaggio al classico, è l'individuazione di un terreno di scontro cruciale oggi e qui, anche per affrontare da sinistra il discorso sull'Europa e sulla natura dell'intervento pubblico.
L'intervento pubblico nell'economia c'è e ci sarà. Nella nuova fase che si è aperta non è il «se» che può fissare il clivage tra destra e sinistra, ma il quanto, il come e a che scopo deve realizzarsi l'intervento pubblico. La sua natura è perciò la ragione della possibile contesa. Chi ha spiegato che l'economia per funzionare deve negare l'intervento pubblico, spiegherà che per rimettere in piedi l'economia di mercato (si sottintende, cioè, l'unica possibile) ci vuole l'intervento pubblico: un nuovo servo perché il signore (il mercato) continui a esercitare la sua signoria. Penso come Rossana che la sinistra debba accettare la sfida (proponendo invece che il sostegno puro e semplice alle banche una guida pubblica dell'intervento pubblico), e, contemporaneamente, alzarla.
Accettarla nel senso che non c'è ragione alcuna perché la sinistra debba accettare di far affluire denaro pubblico al fine di salvare grandi aziende finanziarie, senza porre il problema della responsabilità nelle gestioni che hanno portato alla crisi e senza porre, di conseguenza, il tema dell'assetto proprietario delle imprese salvate. Ma anche alzare la sfida, perché il carattere pubblico dell'impresa non costituisce in sé una garanzia di cambiamento non fosse altro perché la cultura economica dei managers pubblici non differisce sostanzialmente da quelli privati sulla concezione del mercato, della competitività e della produttività. Se il pubblico deve intervenire nell'economia (e deve), allora sono il cosa, il dove, il come, il per chi produrre che devono venire in discussione con esso e attraverso di esso. Il modello di sviluppo che in questi 25 anni è stato imposto dal capitale all'Europa è lo sfondo strutturale della crisi. L'intervento pubblico dovrebbe sostenerne la riforma, una riforma che costringa il mercato a un nuovo compromesso con l'affermazione dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, con l'esigenza di sottrarci alla catastrofe ambientale, con le frontiere di una nuova cittadinanza e della ricostruzione della democrazia. Dovremmo tornare a parlare di programmazione, cioè di un assetto di società da perseguire in un tempo definito? E' probabile.
Se cominciassimo a discutere di questo, insieme e continuativamente, sarebbe una buona notizia anche per chi era a Roma a manifestare l'11 ottobre.

Liberazione 14.10.08
"Largo all'eros alato" di Alexandra Kollantaj, il linguaggio della libertà e quello del conflitto di classe
Il rapporto tra politica e amore ai tempi della rivoluzione
di Antonella Stirati


Intellettuale, attivista politica e ministro nel governo presieduto da Lenin, Alexandra Kollontaj fu una delle figure di spicco della rivoluzione bolscevica. Largo all'eros alato, recentemente ripubblicato in un volumetto a cura di Lugi Cavallaro (Il melangolo, 9 euro), è forse il suo pamphlet più famoso. Pubblicato nel 1923, questo breve scritto dedicato al rapporto tra politica e amore suscitò scandalo e fortissime opposizioni in seno al partito comunista russo. E in effetti, ancora oggi, esso ci appare trasgressivo. Il punto di partenza dell'autrice è che l'amore... non è eterno! Infatti, sia i modelli ideali dell'amore che le sue forme concrete cambiano nei diversi periodi storici, adattandosi alle diverse strutture sociali ed economiche. Ma allora, quale modello delle relazioni d'amore avrebbe dovuto imporsi nella neonata repubblica sovietica? La scandalosa risposta di Kollontaj fu che, nella nuova società, l'amore non avrebbe più dovuto significare "possesso" dell'amata o dell'amato, e quindi avrebbe potuto anche non essere un sentimento esclusivo, rivolto ad un solo uomo o ad una sola donna. Per la nuova morale, cioè, sarebbe stato del tutto indifferente se le relazioni amorose fossero durature o passeggere, esclusive o molteplici, e rilevante invece solo la qualità delle emozioni che le contraddistinguono - la delicatezza, il rispetto, l'ascolto e la comprensione dell'altra o dell'altro, il riconoscimento dell'uguaglianza. La più ampia libertà nell'amore, dunque, ma al tempo stesso nulla di più distante da quello che Kollontaj definiva l'eros "senza ali", vale a dire "la trasformazione dell'atto sessuale in scopo a sé stante", slegato dall'attrazione per una particolare persona nella sua individualità, e che si manifesta anche nella mercificazione del sesso. Secondo Kollontaj l'eros "senza ali" è l'altra faccia della morale borghese fondata sul matrimonio, e ha tra i suoi presupposti la disuguaglianza tra uomini e donne e la condizione di dipendenza di queste ultime. Al contrario, il nuovo volto di "eros alato" avrebbe consentito agli individui di esprimere e sviluppare la propria capacità di amare, e sarebbe stato funzionale ad una società solidale, che per il suo stesso sviluppo ha bisogno di espandere l'affettività e di diffonderla in tutte le diverse trame delle relazioni sociali, in netto contrasto con "la fredda solitudine morale" tipica della società borghese.
Viene così delineata quella che potremmo definire una'utopia degli affetti', che ancora oggi sorprende e fa pensare. Essa è evidentemente molto lontana da quanto avvenne realmente in Unione Sovietica negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione del libretto, quando si tornò ad affermare una morale conservatrice e il 'ritorno alla famiglia', come ci ricorda Cavallaro nella sua introduzione. La visione di Kollontaj ha invece forti assonanze con culture e sperimentazioni delle generazioni giovanili degli anni ‘60 e ‘70, ma ci parla del presente più per contrasto che per somiglianza. Infatti, sebbene la condizione femminile e la morale sessuale siano molto mutate, oggi assistiamo al tentativo di riaffermare i valori tradizionali, insieme (non a caso?) alla dilagante mercificazione dei corpi femminili, e alla tendenza a interpretare la libertà come accesso alla sessualità senza relazioni affettive. Per non parlare della "fredda solitudine della società borghese", oggi quanto mai pervasiva.
Ma quali stimoli di riflessione costruttiva per la cultura politica delle donne e della sinistra si possono allora ancora trovare in questo pamphlet? Un elemento che colpisce è l'assenza in questo scritto della Kollontaj di ogni riferimento all'esistenza di un conflitto di genere indipendente dalle condizioni materiali di vita nella società capitalistica. Nella sua sobria Autobiografia (Feltrinelli, 1975) troviamo in realtà parole molto toccanti sul tema della difficoltà nei rapporti tra uomini e donne e sul conflitto interiore che esso genera: "noi, la generazione più anziana... nell'uomo che amavamo credevamo di trovare ogni volta la persona esclusiva, l'unica con la quale fondere la nostra anima... Ma sempre avveniva il contrario poiché l'uomo tentava di imporci il suo io e di assimilarci completamente a se stesso. E così nasceva in tutte.. la ribellione interiore e correvamo verso la libertà. Allora ci trovavamo nuovamente sole, infelici, ma libere" (p.27). L'autrice si mostra però sempre fiduciosa che mutate condizioni - in cui le donne avessero accesso al lavoro, a servizi pubblici e a un sostegno per la maternità, a cultura e relazioni sociali - avrebbero potuto portare di per sé ad un superamento del conflitto di genere. Il contributo di riflessioni del femminismo moderno porta, io credo con ragione, a dubitare di questo. Tuttavia è anche vero, come argomenta Cavallaro, che i processi di emancipazione e liberazione che hanno avuto un forte impulso negli anni '60 e '70 sia in Europa che Negli Stati Uniti sono stati associati a cambiamenti importanti delle condizioni materiali, determinati dalla piena occupazione e dallo sviluppo dello stato sociale. Ed è indubbio che nei paesi dove il welfare si è maggiormente sviluppato, le donne hanno maggiori opportunità nello scegliere il proprio percorso di vita. Mentre, d'altra parte, le tendenze alla 'restaurazione' di oggi vanno insieme alla contrazione del ruolo dello stato e della spesa pubblica, in un modo che presenta alcune analogie con quanto accaduto in Unione Sovietica negli anni '20.
Questo potrebbe indurci a riconsiderare con attenzione una lezione importante del femminismo marxista, che è estremamente chiara negli scritti e nell'attività politica della Kollontaj, e cioè che i cambiamenti nelle condizioni materiali dell'esistenza costituiscono una premessa comunque necessaria alla libertà delle donne (come degli individui in generale). Sbaglieremmo se ritenessimo che nell'Italia di oggi questa lezione sia superata e che le istanze libertarie e di cambiamento culturale possano essere perseguite come se le concrete scelte di vita della maggioranza delle persone non fossero soggette a pesanti vincoli materiali. I dati di cui disponiamo segnalano del resto con insistenza l'importanza di tali vincoli per le scelte di vita. Prendiamo ad esempio un tema importante per le donne, quello delle decisioni riproduttive. Le indagini statistiche ci dicono che le donne italiane vorrebbero, in maggioranza, avere due o più figli, ma ne hanno, per lo più, uno solo (a differenza, ad esempio, delle donne francesi, che esprimono le stesse intenzioni, ma le portano a compimento). A questa evidenza se ne può aggiungere un'altra, restituita da una recente indagine condotta dalla FIOM su centomila lavoratori e lavoratrici metalmeccanici, sia operai che impiegati (Metalmeccanic@, Meta Edizioni, 2008): un quinto delle famiglie con figli, e quasi un quarto delle famiglie composte da genitori con due figli conviventi, ha un reddito familiare inferiore alla soglia di povertà (stimata a 1600 euro) per una famiglia di 4 persone. Insomma, per moltissimi nuclei familiari, fare un secondo figlio non è materialmente sostenibile. E si tratta qui, si noti bene, di nuclei familiari in cui almeno uno dei coniugi ha un lavoro stabile e regolare a tempo pieno, con un reddito mensile non dissimile da quelli prevalenti nel mondo del lavoro dipendente, pubblico e privato. Ma se le cose stanno così, è evidente che anche altre scelte, come rompere una unione coniugale che non funziona più, o scegliere di vivere la maternità al di fuori di una convivenza di coppia, possono essere impraticabili per ragioni solidamente materiali, quali il reddito e il costo dell'affitto. Viene allora naturale pensare anche che un fenomeno oscuro e pervasivo come la violenza tra le mura domestiche (l'Istat rivela che in Italia una donna su sei ha subito violenze fisiche o sessuali, per lo più ripetute, dal partner o ex-partner) sebbene abbia certamente origini profonde e complesse, potrebbe tuttavia essere arginato - per lo meno nel senso della limitazione del danno - da un insieme di condizioni che, 'semplicemente', rendano materialmente più facile per una donna andarsene di casa .
Insomma, la lettura del libretto di Kollontaj, e della interessante introduzione del curatore, può aiutarci a rimettere a fuoco un fatto semplice ma spesso trascurato, e cioè che l'attenzione alla concretezza della vita quotidiana e dei suoi bisogni dovrebbe essere denominatore comune tra chi parla il linguaggio delle libertà, dei diritti, della qualità della vita e delle relazioni, e chi quello del conflitto di classe o dell'economia, e che essa dovrebbe costituire il ponte tra istanze di cambiamento culturale e sociale profonde e obiettivi concreti e immediati dell'azione politica. Una capacità che ha caratterizzato, ad esempio, i momenti migliori dell'esperienza del movimento delle donne negli anni ‘70.

l’Unità 15.10.08
Idea Lega: classi differenziali per i bambini immigrati
Lega, prove tecniche di discriminazione a scuola
«Classi differenziali per stranieri». Razzismo nel Varesotto: sagome di bimbi di colore ridipinte di bianco
di Giuseppe Vittori


L’ultima del Carroccio ha scatenato, ieri, la bagarre a Montecitorio. L’idea è quella di «istituire classi ponte con corsi di italiano per i piccoli immigrati che non superino le prove e i test di valutazione». Il testo della maggioranza è passato e impegna il governo a rivedere il sistema di accesso alla scuola degli studenti stranieri». Durissima la reazione di Fassino: «Discriminazione moralmente abietta contro i bambini».

LA LEGA INSISTE Oltre al «superamento di test e specifiche prove di valutazione» per permettere agli studenti stranieri di entrare nella scuola dell’obbligo, la mozione presentata dal Carroccio alla Camera prevede anche di «istituire classi ponte che consentano agli studenti stranieri che non superano le prove e i test di frequentare corsi di apprendimento delle lingua italiana». Il provvedimento ieri è stato discusso a Montecitorio, e ha scatenato la bagarre in aula.
Particolarmente duro è stato l’intervento di Piero Fassino. «In questo modo si regredisce, si inserisce un elemento di discriminazione. Una discriminazione moralmente più abietta perché la si inserisce tra i bambini e i più piccoli», ha attaccato l’esponente del Pd. La replica è arrivata dal vicecapogruppo del Pdl alla Camera, Italo Bocchino: «Il nostro obiettivo è l'integrazione mai e poi mai la discriminazione», ha spiegato aggiungendo che la mozione leghista ha «la piena adesione del Pdl». Tuttavia, ci sono stati interventi critici anche dai banchi del centrodestra, in particolare si sono dissociati Nicolò Cristaldi e Mario Pepe.
Alla fine di una discussione molto accesa, il testo della maggioranza è passato con 256 sì, 246 no e un astenuto. La mozione approvata a Montecitorio impegna il governo a «rivedere il sistema di accesso degli studenti stranieri alla scuola di ogni ordine e grado, favorendo il loro ingresso, previo superamento di test e specifiche prove di valutazione».
«Favorendo», dunque, e non più «autorizzando» come si leggeva nel testo originario. Un escamotage, che non modifica però il senso del provvedimento. Oltre alle «classi ponte» il testo prevede anche «una distribuzione degli studenti stranieri proporzionata al numero complessivo degli alunni per classe».
Per le forze dell’opposizione questo provvedimento favorisce la discriminazione degli studenti stranieri. Dice sconsolato il parlamentare del Pd Lino Duilio: «Questi qui tra poco presentano una mozione per metterli nel forno e la votano pure...». Parole dette con amaro sarcasmo al termine di una seduta infuocata.
Ma tra i deputati del centrosinistra non è passato inosservato l'episodio di matrice razzista avvenuto l’altra notte a Brinzio, nel Varesotto. In via Indipendenza c’erano alcune sagome di cartone a misura d’uomo raffiguranti bambini. Quattro di queste sagome rappresentavano bambini di colore. Nelle notte i loro volti sono stati ridipinti con vernice bianca da alcuni vandali. Gli studenti della vicina scuola, che hanno realizzato le sagome di cartone nell’ambito del progetto di sicurezza stradale (stanno ad indicare la presenza di una scuola agli automobilisti e a far rallentare il traffico) hanno scritto una lettera aperta agli imbrattatori, lamentandosi per quel gesto «da conigli» e chiedendo loro di tornare sui propri passi e di ripristinare le sagome come erano prima.

Repubblica 15.10.08
Alunni stranieri a quota 570 mila ma uno su tre è nato in Italia
Oggi sono il 6,4%, nel 2011 diventeranno un milione
I romeni il gruppo più consistente, seguiti da albanesi, marocchini, cinesi
di Vladimiro Polchi


ROMA - I primi? Romeni. Gli ultimi? Mongoli. I registri di classe non parlano più solo italiano: 574.133 sono gli alunni stranieri iscritti nell´anno scolastico 2007/2008. Rappresentano il 6,4% del totale, ma in alcune province del centro-nord raggiungono concentrazioni record: fino al 14%. Oltre un terzo (35%) sono nati in Italia. Le nazionalità rappresentate? Ben 166.
La scuola italiana è da tempo multietnica. Lo fotografata uno studio statistico del ministero della Pubblica Istruzione di fine luglio 2008: «Il fenomeno delle immigrazioni - scrivono i ricercatori - si riflette sulla scuola, che in dieci anni ha visto aumentare di oltre 500mila unità gli iscritti di origine straniera». Un´ondata che non accenna ad arrestarsi: secondo le stime, infatti, i figli di immigrati tra i banchi di scuola saranno un milione nel 2011. Nell´anno scolastico 2007/2008 gli stranieri iscritti per la prima volta sono 46.154, oltre la metà (51%) si sono iscritti nella scuola primaria.
Da dove provengono? In testa, da un anno, ci sono i romeni (92.734 alunni, 24mila in più rispetto all´anno precedente), seguono gli albanesi (85mila), i marocchini (76mila), i cinesi (27mila), gli ecuadoregni (17mila) e i tunisini (15mila). Ultimi i mongoli, con solo 20 studenti. Non mancano i "nomadi" (12mila). Frequentano per lo più le scuole primarie (dove sono il 7,7% degli iscritti) e secondarie di I grado (7,3%). Nonostante la scuola dell´infanzia non rientri nell´obbligo scolastico, qui gli iscritti stranieri sono il 6,7%. Più ridotta la loro presenza nella scuola secondaria di II grado (pari al 4,3%). Che cosa studiano? Preferiscono gli istituti professionali (8,7% degli alunni) ai licei classico e scientifico (1,4% e 1,9% rispettivamente). Dove studiano? Per lo più nel centro-nord, con alcune regioni record: in Emilia Romagna sono l´11,8% degli alunni, in Umbria l´11,4%, in Lombardia e Veneto sono oltre il 10%. Non mancano casi limite: classi con oltre la metà di studenti stranieri.
Difficoltà negli studi? «La mancanza di regolarità scolastica tra gli studenti con cittadinanza non italiana - scrivono i tecnici del ministero - rappresenta un dato allarmante, dovuto sia a difficoltà legate alla conoscenza della lingua italiana, sia a problemi di integrazione sociale. In media, il 42,5% di alunni stranieri non è in regola con gli studi e il crescere dell´età aumenta il loro disagio scolastico». Non mancano infine gli studenti "clandestini", figli cioè di immigrati irregolari che «hanno pieno diritto e dovere di partecipare al sistema scolastico italiano come previsto dal Dpr 349/99».

Repubblica 15.10.08
Luisa Imbriani dirige una scuola con punte del 38% di stranieri
La prof più "multietnica": la diversità arricchisce
Preoccupazioni immotivate dei genitori. Indiani e cinesi brillano in matematica, romeni e moldavi nelle lingue
di Filippo Tosatto


PADOVA - Nelle scuole padovane le classi multietniche sono una realtà consolidata, con punte del 37-38 per cento di alunni stranieri nei quartieri - Arcella e Forcellini - dove è maggiore la presenza di famiglie immigrate. In particolare, nella scuola media Briosco la percentuale di ragazzini extraeuropei - africani e asiatici, in particolare - è tra le più elevate d´Italia. Un record che in alcune sezioni ha finito per il sollevare perplessità e anche proteste da parte dei genitori italiani, spalleggiati dall´assessore veneto all´Istruzione, Elena Donazzan di An, favorevole all´introduzione delle "quote etniche" ora caldeggiate in Parlamento dalla Lega. Ma è di tutt´altro avviso la dirigente Luisa Imbriani, responsabile dell´istituto comprensivo che include la Briosco, fermamente contraria all´ipotesi di barriere preventive alla scuola dell´obbligo fondate sulla nazionalità. «Stiano tranquilli i genitori, la diversità è una fonte di crescita culturale, non certo un limite - afferma la professoressa Imbriani - . Noi stiamo dimostrando, attraverso un´offerta formativa articolata, che i ragazzi italiani e stranieri possono crescere insieme, arricchendosi a vicenda nel contatto con la novità. Oltretutto, anche sul piano del rendimento individuale, gli insegnanti ci segnalano spesso esempi di ragazzini indiani e cinesi che brillano nella matematica e nelle scienze. I romeni e i moldavi confermano la disposizione all´apprendimento rapido delle lingue. E in aula, quasi sempre, superata l´iniziale sorpresa, sono proprio gli alunni padovani a mostrare interesse, curiosità e apertura verso i compagni stranieri».

l’Unità 15.10.08
Il Papa in silenzio
Pio XII e le deportazioni
L’Italia ha avuto un ruolo enorme nell’orrore delle persecuzioni razziali
Tutto dimostra che i nazisti avevano bisogno del silenzio
di Furio Colombo


Una proposta sorprendente è stata avanzata da Papa Benedetto XVI come ragione importante per la beatificazione di Pio XII: il silenzio. Di fronte al dilagare delle leggi razziali in Europa e all’evidente gravità di quelle leggi prima ancora che arresti e deportazioni svelassero il progetto di distruzione completa di un popolo, Pio XII, capo della più vasta e potente organizzazione religiosa di un mondo che allora era centrato sull’Europa, ha ritenuto di tacere, di tacere anche quando, con l’occupazione tedesca di due terzi della penisola, Roma inclusa, dopo l’armistizio e il tentativo italiano di uscire dalla guerra, forze armate tedesche e fasciste erano attive, e aggressive, e vendicative nel tentativo di catturare quanti più ebrei, individui e famiglie fosse possibile, intimando la pena di morte a chi avesse aiutato i ricercati e compensando ogni delazione italiana (ce ne sono state a migliaia) con lire cinquemila.
La principale ragione per apprezzare come utile e virtuoso quel silenzio è che in tal modo il Papa ha reso possibile una vasta rete di aiuto e sostegno in Vaticano, in chiese e in conventi italiani per salvare, ospitare, nascondere moltissimi italiani ricercati per razzismo e per ragioni politiche. Si è trattato della più estesa e attiva rete di rifugio e di soccorso, ben documentata dalla Storia e di cui migliaia di sopravvissuti, in Italia e nel mondo, hanno dato atto e gratitudine al Vaticano.
Ci sono però due grandi obiezioni, una nel mondo dei fatti, l’altra a livello dei principi.
I fatti ci dicono che l’Italia ha avuto un ruolo molto grande nell’orrore delle persecuzioni razziali che hanno insanguinato e marcato come indimenticabile vergogna tutta l’Europa.
L’Italia cristiana, cattolica, legata con un Concordato alla Chiesa di Roma. È importante ricordare tutto ciò, oggi, alla vigilia del 16 ottobre. Quella notte del 1943 mille e diciassette cittadini ebrei romani - dai neonati ai vecchi ai malati - sono stati arrestati nelle loro case del Ghetto di Roma da unità militari tedesche munite di nomi e indirizzi da parte dei fascisti italiani. Tutti i rastrellati sono stati tenuti prigionieri per giorni presso il Collegio militare di Roma sotto la sorveglianza di militi fascisti, e poi deportati ad Aushwitz da dove quasi nessuno è tornato. Dunque ciò che è accaduto a Roma il 16 ottobre non è stato il blitz di un terribile istante ma una lunga, meticolosa operazione nazista e fascista durata per giorni nel silenzio di Roma. L’Italia era l’altra grande potenza che ha invaso e occupato, insieme ai tedeschi. Il ruolo che l’auto-narrazione italiana si è attribuito dopo il disastro e la sconfitta fascista, è quello di uno Stato buono, sgangherato e debole dove i soldati combattevano con le scarpe di cartone. Era vero, nell’esperienza disperata dei soldati di allora, ma persino mentre il disastro italiano si compiva, l’Italia dalla Francia ai Balcani alla Russia, era l’altro grande Paese invasore, oppressore, occupante. Non tutti i diplomatici e i generali italiani ubbidivano, anzi ci sono state clamorose dissociazioni di fatto (che vuol dire cauta ma ferma disobbedienza) dalle leggi razziali. Ma l’Italia era l’altro persecutore, le leggi razziali erano state firmate dal re italiano, unico caso in Europa. Ma il re Savoia era imparentato con metà delle monarchie europee del tempo, l’esercito sabaudo era collegato con l’attivismo nazista antisemita attraverso gerarchi, ufficiali, agenti della milizia fascista, che facevano comunque del loro meglio per terrorizzare le popolazioni locali e spingere al peggio i “Gaulatier” e i governi fantoccio. Erano impegnati a terrorizzare tutte le popolazioni, a sostenere tutti i fascismi locali più sanguinosi, ad accumulare, contro l’Italia, un odio che dura ancora. Ma sopratutto erano attivissimi nella collaborazione all’immensa rete di delitti che oggi chiamiamo Shoah. Il diario di un uomo giusto come Giorgio Perlasca che, da solo, in Ungheria, ha salvato migliaia di cittadini ebrei dalla deportazione fingendosi diplomatico spagnolo testimonia del frenetico lavoro della persecuzione in regioni e Paesi di un’Europa cristiana e in gran parte cattolica. O comunque sensibilissima all’autorità della Chiesa cattolica, che riguardava anche una parte non irrilevante di soldati e ufficiali tedeschi. E che certo condizionava il fascismo.
E qui entra in campo la questione di principio. Ciò che è accaduto in Italia, sopratutto l’assenza quasi totale di voci italiane contro le leggi razziali, allo stesso tempo spaventose e folli (folli in modo evidente, a cominciare dalle enunciazioni di principio, dai presunti fondamenti storici e logici, dal titolo stesso di “leggi in difesa della razza”) è reso più inspiegabile e difficile da giustificare a causa del comportamento del Parlamento filo-fascista bulgaro. Quel Parlamento, sotto la guida del presidente Dimitar Peshev (cito da libro di Gabriele Nissim «L’uomo che fermò Hitler», Mondadori), rifiutò e respinse le leggi razziali preparate sull’odioso modello italiano. E impedì in tutto il Paese occupato “dai camerati tedeschi” qualsiasi atto contro i cittadini bulgari ebrei. Dunque dire di no da parte di chi aveva autorità era pericoloso ma possibile. Imbarazza la memoria italiana anche il ben noto gesto del re di Danimarca che, pur privo di forza militare e di qualunque strumento di resistenza, si oppose, senza cedere mai, all’imposizione della stella gialla come identificazione dei suoi cittadini ebrei.
Sono leggende, ormai, brandelli di un onore perduto. Sono tentativi di recupero di un minimo rispetto per un’Europa colta e orgogliosa della sua identità in cui è dilagato il peggior delitto della Storia. Ma quel delitto è dilagato nel silenzio. Ed è stato - poche volte - fermato dal coraggio, raro, drammatico, ma, come si vede, efficace di rompere il silenzio. Tutto dimostra che i nazisti avevano bisogno del silenzio e contavano sulla cancellazione della memoria.
C’è un rapporto fra il silenzio che ha consentito a una organizzazione non sospetta e intatta (a causa del silenzio) come la Chiesa cattolica e la salvezza di migliaia di ebrei? Certo, c’è. Ma è lo stesso silenzio che ha consentito la deportazione e lo sterminio di milioni di ebrei d’Europa. Era possibile parlare? Rispondono alcune voci che, in alcuni luoghi, hanno cambiato la Storia. Era pericoloso? Lo era. Ma era anche un ostacolo grave e imbarazzante, se è vero che le radici d’Europa sono - dunque erano - cristiane e cattoliche.
Infine: si ricorda un esempio, nella lunga storia cattolica di martiri e santi, di qualcuno portato all’onore degli altari per avere taciuto? Uno solo?

l’Unità 15.10.08
Da Milano a Roma, nelle università proteste a valanga
Atenei in rivolta contro la Gelmini. Catania non celebra l’inaugurazione dell’anno accademico
di Luigina Venturelli


RIVOLTA Affettuosamente la chiamano Gelminator, la ministra incaricata dal collega Tremonti di «sterminare l’università italiana». Il giudizio degli studenti sui tagli da 1,4 miliardi di euro che minacciano gli atenei è inesorabile. Come inesorabile è la valanga di proteste sotto cui gli universitari vorrebbero seppellire il suo decreto legge: occupazioni, sospensioni didattiche, lezioni a cielo aperto, catene informatiche e cortei. Mariastella Gelmini sta scalando giorno dopo giorno la classifica dei ministri più contestati della storia repubblicana.
Non solo a Roma, dove continuano i cortei interni alla Sapienza. Ieri è stata l’ennesima giornata di mobilitazioni su tutto il territorio nazionale. Alla Statale di Milano, dopo l’occupazione del rettorato di lunedì, un centinaio di studenti si sono riversati negli uffici amministrativi e poi riuniti in assemblea nel cortile per ottenere una condanna ufficiale del senato accademico contro il decreto. Puntualmente arrivata: «I tagli previsti in finanziaria determinerebbero una situazione del tutto insostenibile per gli atenei, con effetti irreversibili sulle loro funzioni scientifiche e un degrado irrimediabile dell’offerta formativa e di servizi per gli studenti».
A Napoli, invece, gli universitari hanno interrotto lo svolgimento del senato accademico dell’Orientale per chiedere un’assemblea d’ateneo. Anche in questo caso, obiettivo centrato: mercoledì prossimo tutte le attività didattiche saranno sospese per consentire la pubblica discussione «dell’emergenza università». A Firenze la questura contava nella serata di ieri un totale di trenta sedi occupate, tra licei, istituti tecnici e due facoltà universitarie. Clima rovente anche a Torino, dove centinaia di studenti, ricercatori e docenti si sono ritrovati nell’atrio di Palazzo Nuovo per decidere il caledario delle prossime mobilitazioni: lezioni a cielo aperto già da oggi, assemblea d’ateneo per il 22 ottobre, presidio all’Unione industriali dove il 28 ottobre è attesa la ministra.
L’università di Catania ha addirittura deciso di non celebrare l’inaugurazione dell’anno accademico: «Non è tempo di celebrazioni ufficiali» è l’amara considerazione della dirigenza dell’ateneo, meglio «un incontro pubblico sui problemi del sistema nazionale universitario» a sostituire finti rituali d’entusiasmo. Mentre a Palermo la facoltà di lettere e filosofia - in vista del corteo cittadino del 20 ottobre in occasione della presenza in città della Gelmini - ha annunciato «lo stato di agitazione e di assemblea permanente» contro «il grave progetto di attacco alle garanzie e ai diritti dell’intera società».
E mentre il malcontento cresce anche tra il corpo accademico - le sigle sindacali dei docenti stanno organizzando una manifestazione nazionale da attuare nei primi giorni di novembre - oggi il mondo universitario e scolastico scenderà ancora in piazza a Roma, Bologna, Torino, Napoli, Parma, Genova, Perugia, Milano, Viareggio, Brescia e Castrovillari. E Mariastella Gelmini potrebbe presto eguagliare il primato delle proteste accumulate dai suoi predecessori nell’epoca ruggente del ‘68.

l’Unità 15.10.08
Effetto Gelmini: a Firenze undici scuole rischiano la chiusura. Domani lezioni in 15 piazze cittadine
di Silvia Casagrande


SALE a 36 il numero delle sedi occupate. A Novoli tensione con gli studenti di Forza Italia

Trentacinquemila fiaccole contro la riforma-Gelmini. «Un’adesione largamente superiore alle aspettative», commentano i sindacati che hanno organizzato il corteo e che stanno già pensando ad altre iniziative di protesta, «ma soprattutto di informazione, per rispondere con la forza dei contenuti alla superficialità dei messaggi mediatici che manda il governo». Il segretario della Cisl Firenze Riccardo Cerza ha reso noti i numeri delle ricadute della riforma su Firenze: 900 insegnanti, 200 ausiliari, 750 precari in meno, oltre a 11 istituti a rischio chiusura: la scuola città Pestalozzi, le scuole medie Arnolfo di Cambio-Beato Angelico e le Machiavelli-Papini di Firenze, Leonardo da Vinci di Lastra a Signa, Maria Maltoni di Pontassieve, Ippolito Nievo di San Casciano Val di Pesa, mentre delle superiori rischiano Leonardo da Vinci di Empoli, l’Istituto d’arte di Sesto e l’Itc Galilei di Firenze.
Mentre la protesta dilaga tra le scuole superiori e salgono a 36 le sedi occupate e a Pisa anche Scienze Politiche ha sospeso la didattica, tornano le lezioni in piazza degli atenei fiorentini. Oggi dalle 11 alle 16.30 le lezioni di agraria si svolgeranno in piazzale Kennedy, mentre domani anche tutte le altre facoltà faranno offriranno i loro corsi alla cittadinanza in 15 piazze a partire dalle 11. In piazza dell’Isolotto si parlerà di nutrizione animale, in Santa Croce e piazza Ghiberti di architettura, in via delle Pandette a Novoli di geografia dello sviluppo, in piazza Leopoldo si susseguiranno quattro docenti di ingegneria, in piazza Dalmazia si alterneranno argomenti di medicina e farmacia, in piazza Dalmazia corsi in scienze della formazione, storia in piazza Indipendenza, lettere a SS. Annunziata, filosofia in Savonarola, matematica alla stazione di Rifredi, chimica e fisica in piazza della Libertà, mentre in via della Torretta gli studenti di psicologia invitano tutti a un’assemblea aperta sugli effetti delle legge 133.
Ieri pomeriggio l’assemblea delle facoltà del polo di Novoli ha deciso di non procedere a un’occupazione dell’edificio, ma nel corso del dibattito si sono verificati alcuni momenti di tensione. Alessio Paoli, rappresentante di «Studenti per la libertà» fa sapere che, intervenuto per difendere il decreto Tremonti, è stato «contestato con fischi e urla». Qualche ora dopo, è intervenuto a commentare l’accaduto il coordinatore di Forza Italia Giovani Firenze Tommaso Villa, che accusa i partecipanti all’assemblea di saper «produrre solo insulti, calunnie e bugie». A Villa risponde una delle moderatrici dell’incontro: «Dopo aver parlato esattamente come tutti gli altri partecipanti, il rappresentante di “Studenti per la libertà” semplicemente non ha ricevuto nessun applauso, ma risposte relative ai contenuti del suo intervento. A quel punto mi ha accusato di mentire, ma io gli ho fatto notare che stavo semplicemente leggendo il testo della legge 133». Gli studenti del polo di Novoli parlano di «polemiche strumentali» e accusano gli studenti di FI di volerli «provocare», per esempio «appendendo in facoltà manifesti di partito».

Repubblica 15.10.08
La mobilitazione
Dopo la Toscana anche l´Emilia Romagna prepara un ricorso alla Corte Costituzionale contro il taglio delle scuole con pochi alunni
Da Milano a Napoli rivolta in facoltà fiaccolate, cortei e lezioni in piazza
di Mario Reggio


ROMA - Dalle scuole la protesta infiamma ora le università. A Catania non si terrà l´inaugurazione dell´anno accademico. Prove di occupazione degli studenti alla Statale di Milano, dove, ieri sera il Senato accademico ha approvato con solo quattro astensioni la linea della Crui, di cui il rettore Enrico De Cleva è presidente. La linea è: no ai tagli di mezzo miliardo di euro al Fondo ordinario per il funzionamento degli atenei, no ai tagli per la ricerca.
Alla Sapienza di Roma la mobilitazione cresce giorno dopo giorno. Ieri mattina corteo dalla facoltà di Lettere e richiesta al Senato accademico del blocco della didattica. Una richiesta fatta propria dal professor Piero Bevilacqua, docente a Lettere di Storia Contemporanea. «Sono entrato in aula ed ho avvisato gli studenti che ho deciso di rinviare a data da destinarsi l´inizio delle lezioni a meno che il governo non cambi il progetto di legge Gelmini, perché condurrà all´emarginazione dell´università pubblica».
Clima incandescente anche a Torino dove studenti, ricercatori e docenti si sono riuniti nell´atrio di Palazzo Nuovo. Obiettivi: assemblea di ateneo il 22 ottobre, presidio il 28 davanti all´Unione Industriali, partecipazione allo sciopero nazionale del 30 ottobre indetto dai confederali, Snals e Gilda contro i tagli del personale della scuola ed il maestro unico. Oggi assemblea dei collettivi alla facoltà di Lettere della Federico II di Napoli contro i tagli al fondo per le università. Tra i manifestanti alla Statale di Milano una ex compagna di facoltà del ministro Gelmini: «Mi sono iscritta per la seconda laurea a Filosofia - afferma Carla Franzoni - l´ho conosciuta a Giurisprudenza a Brescia, era meglio come compagna di corso che come ministro, una ragazza buona e mansueta, non molto brillante negli studi. E non mi ricordo neanche dei suoi interventi politici». Sul fronte della scuola, oggi, fiaccolate in molte città italiane: Roma, Bologna e Torino. Intanto la Regione Emilia-Romagna, seguendo l´esempio della Toscana, sta preparando il ricorso alla Consulta contro il taglio delle scuole con meno di 50 studenti. E domani, a Firenze, in 14 piazze lezioni universitarie all´aperto per sensibilizzare contro i tagli del governo.

Repubblica 15.10.08
La generazione dei nuovi ribelli
Dai licei alle università la scuola è in rivolta. Ecco il ritratto della generazione che anima la protesta. Con qualche sorpresa
di Maria Novella de Luca


Dalle elementari all´università esplode la protesta contro la riforma del ministro Gelmini. Il cuore della rivolta è tra i liceali: i primi studenti a sentirsi precari già tra i banchi, ma loro non ci stanno. E sono pronti a lottare , questa volta a fianco di prof e genitori. Ecco chi sono
Eleggono Yunus, il banchiere dei poveri, a simbolo della finanza buona
Rosina: "Chi è nato negli anni ´90 dovrà cercare di riscrivere la società"

Una «protesta globale», perché, spiega Renato Pocaterra, sociologo della Fondazione Iard «quello che si sta spezzando in Italia è un patto sociale, dall´anno prossimo avremo milioni di famiglie che non sapranno più come conciliare il lavoro e la cura dei figli», con un impatto durissimo, devastante. Più che un nuovo �68 dunque, un nuovo 1848, come suggeriva due giorni fa Adriano Sofri, sull´inserto Emme dell´Unità. Come quando in un´Europa piegata da una feroce crisi economica, un inseguirsi tumultuoso di moti, rivolte e insurrezioni, cambiarono per sempre paesi ed istituzioni.
Forse. Per adesso il movimento che si organizza negli atenei e nelle scuole superiori è ancora in cerca di un battesimo, ma è camminando tra collettivi e assemblee che si scopre dov´è il cuore del nuovo. Non più, non solo nelle università, dove l´aria che si respira è mesta, come se qui, in molti, il domani sentissero di averlo già perso. Seduta davanti alla facoltà di Fisica alla «Sapienza» di Roma, Francesca Ambrogini, che nella primavera prossima avrà la laurea in tasca, racconta amara: «Non ho futuro come ricercatrice, non ho futuro come insegnante, ho sgobbato duramente per 5 anni e forse avrò una stage in un´azienda di informatica...». E´ tra più giovani invece, i fratelli minori che qualcosa cambia. Andrea che ha 15 anni e fa il liceo scientifico, spiega: «Nei collettivi parliamo soprattutto di diritto e di economia, e spesso invitiamo anche i prof. Cerchiamo di capire e di studiare perché sembra inevitabile avere un futuro incerto e da precari. Poi decidiamo come e quando protestare. La cosa più importante è non essere strumentalizzati: il 17 saremo tutti in piazza e anche il 30. E´ il collettivo che deve decidere non i partiti, la politica siamo anche noi».
Appunto. Eccoli. Consapevoli di come sarà la vita adulta e pronti a navigarci dentro. Alessandro Rosina, demografo dell´università Cattolica di Milano, li ha definiti «generazione post». «La differenza tra questi adolescenti e i giovani adulti che sono all´università, è che loro, i quindici-diciottenni di oggi, forse non si lasceranno schiacciare da una vita che è diventata improvvisamente senza tutele e ombrelli sociali. Mi spiego: questi adolescenti sono la prima generazione che sa con chiarezza che non potrà più contare su un lavoro fisso, sa che dovrà spostarsi, essere nomade, dovranno avere il coraggio di costruirsi una famiglia pur non avendo né sicurezze abitative né lavorative... A differenza però dei trentenni di oggi, le certezze non se le aspettano. E nella critica a questo mondo che pure dovranno affrontare hanno riscoperto il valore della politica e dell´impegno».
Perché ciò che li aspetta è duro, durissimo. «Da un punto di vista simbolico - continua Alessando Rosina, che a questa generazione no-future sta dedicando un libro - i ragazzi nati negli anni Novanta dovranno davvero cercare di riscrivere la società. Perché loro sono post in tutto. Arrivano dopo la fine delle ideologie, arrivano dopo ogni tipo di scoperta scientifica, oltre alla vita reale possiedono già quella virtuale, perché sono nati insieme ad Internet. Però sanno che il modello non è quello dei loro genitori, che potevano contare ancora, appunto, sulla scuola pubblica, sulla sanità pubblica, su un lavoro relativamente certo e su una pensione accettabile. Davanti ai loro occhi c´è una pagina bianca, ma la cosa positiva è che gli adolescenti sembrano rispondere in modo positivo, cercando vie alternative».
Insomma una ribellione diversa, per una politica nuova. Come sottolinea Alessandro Rosina, questi giovani post che il nuovo autunno caldo della scuola sta facendo emergere, sono già «massa critica, sono già un qualcosa». Chiarisce Marina Bruni, 18 anni, leader della rete dei collettivi di Napoli: «La sinistra storica e la sinistra antagonista non esistono più. Noi siamo un movimento che pensa con la propria testa, che combatte la Destra e questo Governo, ma che non appartiene e non si schiera». Infatti. Ciò che conta sono figure simbolo. «Quello che mi interessa - racconta Guglielmo, primo liceo classico al Mamiani di Roma - è l´ecologia sociale. La battaglia di Vandana Shiva, ad esempio, per un´agricoltura sostenibile, o Arundati Roy, che difende l´acqua dei contadini. Sono contro Bill Gates, dalla parte di chi offre Internet open-source. So che avrò un futuro precario, preferisco dire flessibile, mi sto preparando a tutto questo. Quello che però è inaccettabile è che questo Governo di destra abbia deciso di rubarci gli strumenti del sapere. In nome di che? Per controllarci meglio».
E Guglielmo racconta poi che mai suo padre l´ha appoggiato così tanto, che il 30 ottobre alla manifestazione ci andranno insieme ("lui però a quella del 17 non viene, preferisce muoversi con il sindacato"), e con noi, dice, «ci saranno i prof, i lavoratori». «Comunque appena posso me ne vado da questo paese, per fortuna ho studiato le lingue fin da piccolo, il nostro futuro purtroppo non è qui».
Eccolo il dato nuovo. Generazioni "con" e non generazioni "contro". Alla «Sapienza» ieri i presidi di Lettere e Scienze Umanistiche hanno partecipato all´assemblea di ateneo, mentre per un giorno e una notte, i genitori e gli insegnanti delle scuole elementari, daranno vita oggi ad un nuovo «No Gelmini days and night», con cortei, fiaccolate, occupazioni ludiche con canti e balli animati dai bambini. Anna Maria è la madre di Giada, 14 anni, liceo piscopedagogico a Torino. «Noi genitori - dice -dobbiamo fare autocritica. Per anni abbiano criticato senza pietà la scuola, abbiamo abbandonato gli insegnanti al loro destino, li abbiamo privati della loro autorità e adesso ci rendiamo conto di quello che stiamo perdendo. Un paese senza scuola pubblica non è più un paese democratico. Per fortuna non ho più figli alle scuole elementari: ma se ho potuto conciliare nella mia vita il lavoro e la famiglia è stato proprio grazie al tempo pieno. I miei figli hanno fatto scuole buone, ma se passano questi tagli, se si accorciano le ore, addirittura gli anni di scuola, come faranno poi ad inserirsi nel mercato del lavoro? E´ pazzesco. Siamo già gli ultimi in Europa. Ma forse il progetto del Governo è proprio questo: aumentare le differenze tra chi potrà pagarsi l´istruzione e chi no. Tra gli italiani di serie A e quelli di serie B...».

Repubblica 15.10.08
In classe leggevo Macbeth
di Pietro Citati


Molto spesso provo dei sussulti di gioia ricordando gli anni, dal 1954 al 1959, nei quali insegnavo negli avviamenti professionali (medie più modeste, oggi credo scomparse). Venivo da Monaco di Baviera, dove ero lettore d´italiano all´Università, e tenevo seminari, sulle varianti del Giorno di Parini e dei Canti di Leopardi, insieme a giovani austeri, silenziosi e coltissimi, spesso più anziani di me. Alcuni di loro avevano combattuto a Berlino negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale: allora erano giovanissimi, e il cranio adolescente non sopportava la durezza dell´elmo. Dopo due anni di silenzio, ritornando in Italia mi reimmersi nella bolgia della realtà. A Frascati e a Roma, avevo tre classi di quaranta studenti l´una, alle quali avrei dovuto insegnare italiano, storia e geografia. Prima bisognava, come allora si diceva, mantenere la disciplina: lo feci col soccorso di qualche schiaffo, ciò che oggi mi avrebbe procurato, da parte della magistratura italiana, la condanna a venti anni di lavori forzati.
Come dimenticare quegli anni bellissimi? Appena arrivavo nella prima avviamento, trovavo davanti a me, seduti meticolosamente sul primo banco sotto la cattedra, due fratelli gemelli.
Erano piccoli, educati, immobili, silenziosi, in apparenza attentissimi: non avrei potuto desiderare scolari migliori; eppure le mie parole (e qualsiasi parola, anche quella del Padre Eterno) attraversavano le loro orecchie, non vi lasciavano nessuna eco, e poi volavano via, verso le finestre semiaperte e l´azzurro del cielo. Non leggevano mai un libro: non ascoltavano mai le lezioni; non studiavano mai; rimanevano impassibili e indifferenti qualsiasi cosa dicessi. Minacciare la bocciatura non produceva in loro nessun trauma (come oggi si suppone): non sapevano nemmeno cosa fosse un trauma. Avevano scelto di mantenere sempre una passività silenziosa, percorrendo la scuola come due aeroliti caduti da un pianeta sconosciuto.
Il momento più bello - me lo ricordo con struggimento - era attorno alle dieci e un quarto, quindici minuti prima dell´intervallo: in ogni classe, tutti i quaranta ragazzi aprivano con un gesto assolutamente contemporaneo la cartella o il sacco. Ne estraevano un grosso brandello di carta unta, dal quale fuoriusciva un immenso panino: come dicono a Roma, una ciriola. Non avevo mai visto una ciriola così monumentale. Ognuna era aperta a metà; e conteneva una cotoletta, oppure una spessa e odorosa frittata di zucchine. Le mandibole dei ragazzi non riuscivano ad afferrare la ciriola: la smozzicavano in punta, la mordicchiavano ai lati, fino a impadronirsi del cibo desiderato da due ore. Il pasto, laboriosissimo, durava almeno quaranta minuti. Il pane, la carne, la frittata di zucchine scomparivano lentamente nel corpo quasi infantile, mentre un lieve colorito roseo ne irrorava le guance.
In classe, non volava una mosca. Niente turbava la solenne beatitudine del pasto. Era perfettamente inutile tentar di violare quel lungo momento pacifico: sabotare l´azione dei denti, della lingua, dei succhi gastrici, dello stomaco. Se ne avevo voglia, raccontavo una storia divertente. Nessuna risata: la bocca era troppo piena; solo un muto squillare di gioia negli occhi intelligenti.
***
Temo di essere stato un pessimo professore. I temi di italiano erano pieni di errori, disordinati, sgangherati, ma spesso riproducevano fedelmente la vivacità del discorso orale. Annotavo brani espressivi. Ma io ero stato paracadutato in quella scuola per insegnare l´italiano; e se il ragazzo più intelligente scriveva: «Mi´ padre lavora ar Borigrinigo», cosa potevo fare? Avrei dovuto prendere tutti gli scolari, uno per uno, portarli davanti alla lavagna, farli scrivere col gessetto, insegnando loro la giusta grafia. Era impossibile. Se avessi concesso venti minuti d´attenzione esclusiva a un solo ragazzo, la classe sarebbe esplosa in un urlo di gioia, le cerbottane, estratte dalla cartella, avrebbero lanciato frecce o pallini bagnati d´inchiostro, macchiando i visi, le orecchie, gli occhi, le mani, i grembiuli di tutti. Anch´io avrei corso seri pericoli, divorato e inghiottito insieme alle frittate di zucchine.
C´era una sola possibilità di salvezza: rinunciare alla scrittura, e leggere a perdifiato. Ricordo con orgoglio i miei successi di lettore: in prima avviamento, le meravigliose Favole italiane di Calvino e poi, via via, I promessi sposi, semplificati nella sintassi, che ottenne il successo dei grandi romanzi d´avventura. In terza avviamento, osai di più: Delitto e castigo, appena tagliato in qualche capitolo, e il Macbeth, con le diverse voci dei personaggi. Il preside aveva dubbi sui miei metodi: ma io continuavo a leggere e leggere; e la mia voce tornava a casa lievemente arrochita.
Sono persuaso che la condizione del padre, della madre, del nonno o del professore, che leggono un libro al figlio, al nipote e allo studente, sia uno dei momenti supremi della vita. I bambini e i ragazzi adorano (anche oggi) la lettura ad alta voce fatta da un adulto: la lettura giusta, compiuta con passione, colore, estro, dono di intrattenimento. I padri e le madri non amano più questa lettura, che dovrebbe occupare almeno un´ora al giorno, prima di cena. Preferiscono depositare i figli nel famoso tempo pieno (utile ai genitori, ma nocivo per i ragazzi e il loro rapporto con la famiglia): o portarli in macchina, attraverso le convulse strade della città, nelle piscine puzzolenti di cloro, o alla lezione di yoga, o ad allenarsi in palestra.

il Riformista 15.10.08
Scuola. L'unico fronte nella pax berlusconiana
Non solo pantere, stavolta in movimento ci sono i genitori
di Peppino Caldarola


Lo sentiamo chiaramente questo rumore di fondo che viene dalle scuole e dalle università italiane. La pace sociale, fatta di paura del futuro e di consenso politico, che avvolge questi primi mesi del governo Berlusconi, sembra interrotta da studenti, genitori e insegnanti. La protesta dilaga a macchia di leopardo in tutta Italia, dalla Sicilia a Torino e Milano. Forse dovevamo scrivere a macchia di pantera, se il felino avesse le macchie, per ricordare quel dicembre dell'89 quando partì, contro il ministro socialista Ruberti, una grande lotta studentesca culminata nelle occupazioni del ‘90 e che prese il nome dalle "pantere nere" afro-americane o forse da una belva scappata dallo zoo di Roma che lasciava tracce ma non si faceva catturare mai e che fece coniare lo slogan "la pantera siamo noi". La pantera oggi sono i giovani universitari, gli insegnanti di tutti i sindacati, i genitori e persino quei poveri bambini, panterine inconsapevoli, portati a sfilare in corteo o sotto il ministero della Pubblica Istruzione a Roma.
Benvenuta nuova pantera o come diavolo vorrai farti chiamare. C'era bisogno di una scossa. I movimenti giovanili, e i movimenti che nascono nella scuola, spesso annunciano ben altre rivoluzioni, anche del costume. È toccato a quasi tutti i ministri della Pubblica Istruzione o della Università legare il proprio nome a contestazioni feroci. La ministra Gelmini dovrebbe essere contenta, è in compagnia di Ruberti, di Gui, della Falcucci e di altri ancora.
Questa volta la protesta parte assai più larga che nel passato. Nella storia dei movimenti studenteschi c'era dapprima l'università, poi le scuole medie superiori. E poi ancora gli insegnanti e quasi mai i genitori. Oggi si parte dai più piccoli, le panterine destinate a cadere nelle grinfie del domatore, pardon del maestro, unico. Questo è un dato di assoluta novità. Tutta la scuola ribolle perché tutta la scuola è stata messa a soqquadro dalla Gelmini, ovvero, come dicono i contestatori, dai tagli di Tremonti che la Gelmini ha dovuto applicare.
Venerdì 17 e giovedì 30 ci saranno le manifestazioni più grandi contro il mega-taglio che sottrae alle università 500 milioni di euro nei prossimi tre anni. Non si tratta solo di tagli. Ovvero i risparmi modificano la struttura della scuola attuale. Nelle scuole elementari, accanto al grembiule che torna a sancire una nuova eguaglianza (ma il mio fiocchetto era più moscio di quello del mio compagno di banco più ricco e il suo grembiulino era lucido, il mio opaco), ricompare il maestro unico. La retorica dice che un maestro solo è stato sufficiente per tante generazioni e se lo devono far bastare i bambini di oggi. I genitori e gli insegnanti si sono fatti due calcoli e hanno scoperto che le ore di didattica da 40 passano a 24, di cui due di religione, che l'insegnante unico può non essere specializzato sulle tante materie di insegnamento, che le classi diventano di 31 alunni e che alle 12,30 la scuola finisce e lì comincia il tormento delle mamme, e dei papà, che lavorano. Se sono fortunati, se possono pagare e se la scuola lo vuol fare dopo le 24 ore c'è il doposcuola, sennò tutti a casa. Ma dove e con chi? Se c'è il doposcuola non sarà didattica ma baby parking. Chi ha figli sa che dovrà affrontare salti mortali.
Solo per queste ragioni la ministra Gelmini dovrebbe scandalizzarsi di meno e ascoltare di più. La protesta ha anche lati oscuri. Franco Bassanini, ex ministro, ha ricordato che accorpare una scuola con meno di 500 alunni ad un'altra scuola danneggia solo il preside che perde il suo ufficio e la cosa, dice Bassanini, non ci deve commuovere.
Le pantere più grandi stanno scendendo in lotta per difendere le panterine? Se le manifestazioni saranno non violente e non daranno vita a nuove stagioni nichiliste sono benvenute. Bisogna aver paura delle generazioni silenti, non di quelle che chiedono ad altra voce diritti e tutela. Anche i genitori travolti dalla crisi hanno ragione a protestare contro una scuola che gli restituisce figli meno preparati e più esposti al game boy o altre diavolerie elettroniche quando non rintronati dalla tv. La somma di queste ragioni può diventare un torto se il movimento non sceglie la trattativa e il dibattito.
Governo e opposizione devono trarre lezione dal passato. Un governo che si rispetti non può reagire scandalizzato di fronte alla protesta. L'idea che ogni proposta governativa debba suscitare entusiasmo e gratitudine è abbastanza buffa. Il mondo è più complicato di come ce lo raccontano i sondaggi. L'opposizione non può pensare di aver trovato il filone d'oro. Molti dei problemi di Berlusconi nascono dalla situazione reale. Bassanini racconta che alcune iniziative della Gelmini sono state impostate dai governi di centro-sinistra. Infine, cavalcare le proteste senza fare proposte fa male al partito di opposizione e non è gradita dai nuovi movimenti.
Appena poche settimane fa Di Pietro è stato cacciato da una manifestazione di studenti e insegnanti davanti al ministero della Pubblica Istruzione. Questa è la scuola, non l'Alitalia a Fiumicino. Chi fa politica deve innanzitutto capire e pronunciare i "sì" e i "no" che sa di poter contenere nel proprio programma. Detto questo, un po' di "confusion de confusiones" (rubo l'espressione a Joseph de la Vega citato in un bel libro di Giorgio Ruffolo) non ci farà male.

il Riformista 15.10.08
Scuola. Ricorsi anti-decreto e manifestazioni ovunque
Pure le Regioni sul piede di guerra
di Sonia Oranges


È di nuovo "No Gelmini Day". Tornano a protestare i coordinamenti di base di insegnanti e genitori contro la riforma della scuola. E annunciano di farlo in grande stile: nove cortei solamente nella capitale, e analoghe manifestazioni a Bologna, Torino, Napoli, Parma, Genova, Perugia, Milano, Viareggio, Brescia e Castrovillari. Ormai l'appuntamento è quotidiano. Ieri in piazza c'erano i lavoratori del settore pulizia delle scuole per protestare contro il mancato finanziamento del comparto (15mila unità, concentrate soprattutto al centro-sud), oggi ci saranno anche i dirigenti scolastici che rivendicano l'equiparazione delle loro buste paga a quelle degli altri dirigenti dello Stato: il decreto Gelmini sembra aver attivato un effetto domino che sta trasformando l'ennesima riforma della scuola nel terminale dei conti in sospeso dello Stato. Ultimi (ma di peso) aggregati alla rivolta contro viale Trastevere, gli atenei: all'Istituto Orientale di Napoli come alla Sapienza di Roma si inneggia al «blocco subito», mentre il senato accademico dell'ateneo capitolino si appresta a valutare il decreto che prevede i tagli delle risorse, a cominciare dal blocco del turn-over dei docenti che vanno in pensione.
La vera battaglia sugli effetti del decreto, però, si combatte negli enti locali. A Firenze 35mila persone hanno partecipato a una fiaccolata in difesa della scuola pubblica. Il Comune di Bologna ha chiesto al governo di ritirare il decreto e portare in parlamento una proposta di legge che segua il normale iter, mentre l'opinione pubblica si è già mobilitata: l'assemblea delle scuole bolognesi ha promosso per stasera la "notte bianca per la scuola pubblica", mentre un paio di licei sono già occupati e gli altri sul piede di guerra. Ma è dalle Regioni che arriva l'opposizione più dura. L'Emilia Romagna ricorrerà contro il governo, perché «il conflitto è nei fatti», come ha spiegato il presidente Vasco Errani a proposito della prevista chiusura dei plessi con meno di 50 alunni (tagli peraltro inseriti e ben nascosti in un decreto legge approvato a ottobre in materia di sanità): «L'esecutivo interviene direttamente sulle competenze delle regioni e degli enti locali». Ma oltre alla presunta invasione di campo, a preoccupare i governatori sono i tempi strettissimi per realizzare il dimensionamento: tutto deve essere pronto per il 15 dicembre, pena il commissariamento. E c'è chi, come il vicepresidente ligure Massimiliano Costa, assicura che «non sarà tagliata alcuna scuola» e che «la Regione si prende le sue responsabilità e non applicherà le norme del ministro Gelmini, ma assumerà le proposte fatte dalle Province». Stesso messaggio dal Piemonte guidato da Mercedes Bresso. E persino la Lombardia di Roberto Formigoni ha seri dubbi: il tetto dei 50 alunni porterebbe alla chiusura di 240 scuole, senza la garanzia di un reale risparmio. Tanto che a Milano le mamme lavoratrici si sono rimboccate le maniche a colpi di assemblee in difesa del tempo pieno nelle scuole elementari.
Non è certo un caso, dunque, che l'opposizione cavalchi la tigre (o pantera che sia), annunciando opposizione senza se e senza ma nella commissione del Senato che ieri ha avviato l'esame del decreto Gelmini. Ma lei, il ministro sott'attacco, sembra imperturbabile: dopo l'apertura della Cisl, ha incassato anche un timido «forse» da Luigi Angeletti, a proposito di una revoca dello sciopero generale. «La scuola deve passare da terreno di scontro privilegiato a terreno di confronto privilegiato», diceva ieri il ministro. Peccato che non se ne sia ricordata prima.

il Riformista 15.10.08
Formazione. Parla Gualtieri, dell'Istituto Gramsci
A sinistra c'è chi difende il modello Gentile

di Alessandro Calvi

«Di quella grande scuola italiana di impianto sanamente umanistico e storicistico, che costituisce uno dei risultati migliori e più vitali dell'esperienza dello stato unitario, rimane ormai in piedi molto poco». Per «grande scuola italiana» si intende quella ideata da Giovanni Gentile nel 1925. E a scriverne in questi termini sul proprio blog - rispondendo a Luigi Berlinguer che vorrebbe cancellarla - è Roberto Gualtieri, docente di Storia contemporanea alla Sapienza e vicedirettore della Fondazione Istituto Gramsci. Gramsci-Gentile, quasi un testacoda.
Sembra un paradosso che, mentre il ministro Gelmini lavora per riportare la scuola, a forza di grembiuli e maestri unici, a prima del '68, a sinistra vi sia chi pensa addirittura al Ventennio come modello. «Cerchiamo di capirci subito - dice divertito Gualtieri - non tornerei indietro, quella però era sì una scuola di elite, ma anche di qualità e ciò significa che, più che cancellarlo come modello, occorre riuscire ad allargarlo a tutti». A chiedere cosa si deve rimpiangere, la risposta è: «La centralità del metodo storico e l'approccio umanistico che aiutano a comprendere i mutamenti di fronte ai quali siamo oggi molto meglio di quanto si possa fare con gli strumenti di cui la scuola si sta dotando». Ovvero? «Il pedagogismo o l'idea della misurabilità integrale delle competenze che sono del tutto fuori dal tempo. Vanno pure bene il voto in condotta o il grembiule ma è meglio costruire la scuola tenendo al centro l'idea di un rapporto tra maestro e allievo attraverso il quale avviene la comunicazione educativa». Non deve essere soltanto la Gelmini a riflettere, spiega Gualtieri, ma anche la sinistra che da decenni non riesce a risolvere il problema di «innestare un processo di democratizzazione sulla vecchia scuola autoritaria e classista, tutelando però un patrimonio culturale molto ricco che nella scuola di Gentile riusciva ad esprimersi». Magari - sostiene - tenendo ferma la differenza tra autoritarismo ed autorità ma «senza dimenticare che la scuola vive in equilibrio tra autorità e libertà, ed entrambi gli elementi sono necessari».
Per far ciò, però, ci si deve liberare da una visione economicista della scuola che accomuna destra e sinistra. Altrimenti - scherza Gualtieri nel suo blog - «tanto varrebbe rivolgersi direttamente ai responsabili formazione di Lehman Brothers». E per come è finita la storia, non sembra un buon affare, almeno per ora.

l’Unità 15.10.08
Caos carceri, la ricetta Alfano: espulsioni per gli immigrati
Il Guardasigilli: sono il 38% della popolazione. «Così il vitto e l’alloggio ce lo risparmiamo». Il Pd: niente risposte, solo tagli


Gli stranieri in carcere costano tanto. Troppo, per vitto e alloggio. Per non parlare di quanto costa il «frenetico turn over» di coloro che entrano e escono. Dunque, accelerare le espulsioni - «nel 2007 sono state soltanto 282 e lo scorso giugno 158» -, ma creare anche nuovi «posti letto» perché la popolazione carceraria cresce e presto sarà di nuovo emergenza, visto che gli effetti dell’indulto «sono stati del tutto provvisori». Il Guardasigilli Angelino Alfano ieri ha illustrato in Commissione Giustizia alla Camera il piano carceri del governo e le «patologie» della situazione in cui versano gli istituti di detenzione: una di queste è la presenza del 38% dei detenuti stranieri sul totale della popolazione carceraria. Oltre al fatto che i detenuti in attesa di giudizio sono molti di più di quelli condannati in via definitiva.
Da dove cominciare? Intanto rendere più facili e veloci le espulsioni perché gli «stranieri hanno già fatto pagare un costo di sicurezza al Paese e un costo di spese per assicurare loro il giusto processo. Il vitto e l’alloggio, almeno questo, ce lo risparmiamo». Poi, aumentare i posti. Alfano ne promette 4mila entro i prossimi tre anni. E non basteranno neanche quelli, fa notare l’associazione «Antigone», alla luce delle misure che vogliono prendere contro prostitute e immigrati i ministri Carfagna e Maroni.
Carenze strutturali e carenze di organico: sono necessarie 4mila 171 unità di polizia penitenziaria (secondo l’Osapp queste sono le cifre sulla carta, ma in realtà la carenza è maggiore); 2mila 535 nei ministeri interessati e 16 dirigenti. Di fronte a questa situazione il bilancio di previsione presentato dal governo Berlusconi per il triennio 2009-2011 stabilisce tagli di spesa del 45% sui rimborsi spese per gli appartenenti al corpo di polizia penitenziaria (cose basilari, come la traduzione di un detenuto in carcere); mentre, a fronte della necessità di un finanziamento pari a 200milioni di euro ogni anno per gli investimenti sulle strutture, ne sono previsti 80 per l’intero triennio. «Una relazione deludente quella di Alfano - commenta il ministro ombra del Pd Lanfranco Tenaglia -, non ha indicato alcuna ricetta per il sovraffollamento, non ha dato alcuna indicazione sulle sue scelte e sulle normative da modificare. Il ministro ci dovrà spiegare come affronterà i tagli notevoli che il bilancio dello Stato prevede proprio per il settore». La bocciatura arriva anche da Antonio Di Pietro, Idv: «Ci ha detto quello che sapevamo già, cioè che non sono previsti fondi per le nuovi carceri o per la ristrutturazione di quelle esistenti».
La situazione attuale è presto detta: i posti disponibili sono 43mila 262, ma di questi sono effettivamente fruibili soltanto 37mila 742 perché gli altri hanno «varie inidoneità strutturali». Le carceri italiane possono arrivare ad un massimo di 63mila 568 posti. Oggi i detenuti sono 57mila 187 (di cui 21366 stranieri provenienti da 150 paesi). In oltre la metà di queste strutture (che sono 205) è necessario fare interventi di manutenzione, ristrutturazione e realizzazione di nuovi padiglioni e nuove strutture. Finora con le iniziative e i finanziamenti stanziati dal governo Prodi sono stati realizzati 485 nuovi posti. Intervenendo sulle strutture già esistenti a Roma, Rieti, Bergamo, Perugia, Catanzaro si potrebbe arrivare ad altri 1270 posti; altri 575 con interventi a Massa, Rimini, Trani, Napoli e La Spezia. Il ministro ha spiegato che alla fine si cercherà - oltre a mandare via il prima possibile e nel modo più veloce possibile gli immigrati - di aggiungere all’esistente perché costruire un nuovo carcere costa 40 milioni di euro, aggiungere un padiglione appena 10.
Misure alternative alla detenzione in carcere per ora sono allo studio e saranno attuate soltanto «se daranno garanzie credibili e un controllo permanente che va implementato coinvolgendo la polizia penitenziaria». Quanto al «braccialetto elettronico da usare su chi è ai domiciliari, si sta svolgendo un’approfondita indagine di natura tecnica». Se non dovesse funzionare verrà archiviato. Infine, altra misura a cui si sta pensando in via Arenula: «Limitare le traduzioni per lo svolgimento dell’udienza di convalida dell’arresto o del fermo» ai casi di «assoluta urgenza e necessità». Al ministro replica Angiolo Marroni, coordinatore della Conferenza Nazionale dei Garanti dei detenuti: «La questione fondamentale è che senza la riforma del codice penale i problemi del nostro sistema penitenziario permangono».

l’Unità 15.10.08
Più fame e più immigrazione, crescono i guasti da febbre del pianeta
I cambiamenti climatici minacciano l’agricoltura in molti casi unico sostentamento di popolazioni in miseria
di Cristiana Pulcinelli


Oggi si calcola che siano 923 milioni gli esseri umani che soffrono di malnutrizione nel mondo, ma il loro numero è destinato ad aumentare. Gli affamati della Terra vivono per lo più in aree rurali e i loro scarsissimi guadagni vengono dall’agricoltura. Ma proprio l’agricoltura è in forte sofferenza e i motivi sono principalmente due. Da un lato il diffondersi delle coltivazioni di piante da cui ricavare combustibili si sta allargando a scapito delle coltivazioni da cui ricavare cibo. Dall’altro i cambiamenti climatici minacciano di colpire drammaticamente le capacità di approvvigionamento di cibo e acqua pulita di una larga fetta della popolazione mondiale. E addirittura potrebbero far sparire molti piccoli contadini e pescatori. Per questo la Fao quest’anno ha scelto come temi caldi per celebrare la giornata dell’alimentazione che si svolge domani proprio i cambiamenti climatici e i biocombustibili.
In un seminario preparatorio che si è svolto ieri a Roma, organizzato dalla Fao insieme alla sezione europea della Organizzazione Mondiale della sanità e alla Efsa (l’autorità europea per la sicurezza alimentare) sono stati messi sul piatto i dati riguardo all’impatto del cambiamento del clima sulla salute, in particolare per quanto riguarda la disponibilità di cibo a acqua. Non sono rassicuranti per nessuno, neppure per i paesi ricchi. Nella Regione Europea, ad esempio, si prevede una diminuzione della produttività agricola nell’area Mediterranea, nell’Europa sud-orientale e in Asia centrale. I raccolti potrebbero ridursi fino al 30% in Asia centrale entro la metà del ventunesimo secolo. Il cambiamento climatico pone anche delle questioni di sicurezza alimentare. Temperature più alte favoriscono la crescita di batteri negli alimenti, come la salmonella. Il caldo rende più problematico mantenere la catena del freddo per garantire la sicurezza dei cibi oltre a favorire la comparsa di mosche ed altri insetti pericolosi per la salute.
Per quanto riguarda la mancanza d’acqua, si prevede che al centro e al sud d’Europa e in Asia centrale colpirà un numero variabile tra 16 e 44 milioni di persone in più entro il 2080. La diminuzione della portata dei corsi d’acqua, che in estate arriverà fino all’80%, determinerà una riduzione delle acque dolci ed un potenziale incremento della contaminazione delle acque.
Il Mediterraneo è riconosciuto come «zona calda» per il cambiamento climatico. La regione è già caratterizzata da scarse risorse idriche che sono per di più non equamente distribuite all’interno dei paesi. Il cambiamento climatico potrebbe ridurre del 25% le piogge invernali in quest’area.
L’intero territorio italiano, in particolare, è già stato colpito da una diminuzione del 14% delle precipitazioni negli ultimi 50 anni. Mentre uno studio NASA-Goddard Institute for Space Studies ha evidenziato che circa 4.500 chilometri quadrati delle aree costiere sono a rischio di inondazione.
I dati più preoccupanti riguardano comunque i paesi poveri del mondo, dove l’agricoltura potrebbe subire i danni maggiori a causa da un lato della siccità, dall’altro dell’aumento di intensità delle alluvioni e dell’erosione delle coste. Ma le conseguenze, anche in questo caso, sarebbero globali. In particolare, dovremo fare i conti con ondate migratorie senza precedenti, hanno affermato gli esperti che si sono riuniti domenica scorsa a Bonn dove si è svolta la prima conferenza indetta dalle Nazioni Unite su emigrazione e ambiente. Qualche anno fa il biologo Norman Myers aveva previsto che nel 2050 il numero dei rifugiati per cause ambientali raggiungerà il numero di 200 milioni di persone. Una cifra enorme che ancora rimane un valore guida per chi si occupa di questi temi.
Già oggi il fenomeno è cominciato, dicono alcuni studiosi. «In molti casi - ha affermato Tamer Afifi dell’università delle Nazioni Unite - l’emigrazione ha come causa un fenomeno ambientale anche se gli emigranti non la riconoscono. Dicono che sono andati via perché non c’era lavoro, ma i motivi che ci sono dietro sono la desertificazione e l’erosione del suolo».

l’Unità 15.10.08
Sacconi ci riprova, attacco al diritto di sciopero
Cgil: governo illiberale, colpisce la Costituzione. Regole più dure nei servizi pubblici
di Giuseppe Vespo


REGOLE Prevenire il conflitto con la conciliazione e l’arbitrato, evitare annunci o revoche all’ultimo minuto, rendere obbligatori i referendum e l’adesione individuale, garantire degli intervalli minimi tra una protesta e un’altra e incaricare i prefetti per le sanzioni.
Ecco lo sciopero nei servizi di pubblica utilità secondo Sacconi.
Il ministro del Welfare ha anticipato ieri al Cnel i punti principali della riforma che, «anche in relazione a questa stagione di scioperi, credo che già nei prossimi giorni sottoporremo al Parlamento». Un annuncio che ha scatenato la Cgil, che parla di riforma illiberale e attacco al diritto costituzionale.
Sacconi ha motivato l’esigenza di regolare ulteriormente la protesta di chi fornisce un servizio pubblico per «prevenire il conflitto attraverso la conciliazione ed evitare l’annuncio di scioperi che che determinano un danno ai servizi di pubblica utilità e che vengono interrotti all’ultimo momento, magari da soggetti poco rappresentativi».
Per questo è necessario rendere obbligatorio il referendum consultivo, per far sì «che gli utenti siano informati sui livelli di adesione» alla protesta. Ma non solo: il governo intende disciplinare la revoca dello sciopero stesso. Perché, strumentalmente - ha sostenuto il ministro - troppo spesso si annuncia una protesta che poi viene revocata, «in modo che il danno è stato fatto senza pagare pegno con la perdita del salario». Con l’entrata in vigore del disegno di legge, invece, la revoca dovrà essere adeguatamente anticipata, tranne nel caso in cui si trovasse un accordo. «Ma un accordo definitivo, non una semplice e timida intenzione di migliorare il dialogo». Il governo poi vuole regolare l’intervallo tra uno sciopero e l’altro. Cioè, anche se sono diverse categorie di lavoratori ad incrociare le braccia, deve trascorrere un certo tempo tra una portesta e l’altra, «in modo che ci sia un congruo periodo nell’ambito del quale non ci sono attività di interruzione di servizio». Se proprio si vuole scioperare, la soluzione migliore, quella che l’esecutivo Berlusconi vuole agevolare, è quella dello sciopero virtuale: «Si può fare - ha suggerito il ministro - con un fazzoletto al braccio. In questo modo, il lavoratore in stato di agitazione perde il salario, mentre il datore di lavoro paga ugualmente quello che avrebbe dovuto dare al dipendente e lo versa in un fondo solidaristico». Infine le sanzioni, che dovrebbero passare al Prefetto per essere realmente applicate. Oggi, invece, secondo il titolare del Welfare, «i datori di lavoro non le applicano mai».
Il coro di no alle intenzioni è folto: la leader dell’Ugl, Renata Polverini, spera che il ministro voglia prima «affrontare la questione con le organizzazioni sindacali». In linea la Cisl, mentre la Uil dice no « ad atti unilaterali di tipo legislativo». Per il sindacato di Guglielmo Epifani, invece, Il governo «palesa un tratto illiberale fino al rischio di mettere in discussione il diritto di sciopero ora garantito dalla Costituzione. È pericolosa - dicono a Corso d’Italia - l’introduzione di tratti autoritari anche nel governo del conflitto sociale che, invece, richiederebbe regole condivise e consenso».

l’Unità 15.10.08
Precari unitevi: la Costituzione sia con voi
di Gabriella Gallozzi


DOCUMENTARI Più di cento lavoratori precari s’interrogano sugli articoli della Costituzione. È «Caro Parlamento», film di Giacomo Faenza oggi ospite al Festival di Terni

«Ma quale repubblica democratica fondata sul lavoro... sul lavoro precario, forse». «Un diritto? Non lo è più. Lavorare ormai è un privilegio». E ancora: «Non ci sono più le classi sociali e tantomeno la coscienza di classe. E come potrebbe essere diversamente se si cambiano colleghi ogni due mesi». Voci dal mondo del precariato. Dall’universo dell’incertezza del presente e del futuro. Ecco a voi Caro Parlamento, più che un documentario un vero e proprio grido d’allarme firmato da Giacomo Faenza, regista «precario» (è lui stesso a sottolinearlo, nonostante sia figlio «d’arte», suo padre è Roberto Faenza) ospite oggi del festival Cinema &/è lavoro di Terni diretto da Steve Della Casa che dedicherà l’intera giornata al tema della precarietà.
È di questo, infatti che ci racconta Caro Parlamento attraverso un’idea semplice ma geniale: far commentare gli articoli sul lavoro della nostra Costituzione a quell’enorme esercito di precari che popolano l’Italia di questo debutto di millennio. Una cifra enorme di volti in primo piano e di voci: 158 cittadini, tra i 20 e i 40 anni, impegnati nel tentativo ormai impossibile di sbarcare il lunario come camerieri, architetti, commessi, operai, impiegati, attori, ricercatore universitari, avvocati. Tutti, ovviamente, rigorosamente precari.
Gli articoli della Costituzione passano in sovrimpressione come stralci di un vecchio libro di fiabe. A sentir parlare oggi di diritti uguali per tutti, popolo sovrano, garanzia della dignità per ogni cittadino, di etica della politica e libertà di espressione sembra davvero di ascoltare una bella favola da molti dimenticata. Ma da molti altri addirittura mai sentita. «Siamo il popolo sovrano - dice lo stesso regista - che non sa di esserlo. E semplicemente perché non abbiamo mai letto la Carta. Nessuno ce l’ha fatta leggere. E così la mia generazione - Giacomo Feanza ha 38 anni - non sa far valere i propri diritti, è rassegnata. Eppure l’unica possibilità è ripartire proprio da lì. Svegliarsi e prendere coscienza». Lui, da regista, ci ha provato con questo film che ha già inviato al presidente Napolitano, a Fini e per il quale attende una proiezione alle Camere. I suoi protagonisti, intanto, ci raccontano di un paese completamente scollato dalla classe politica e dalle istituzioni. «Si sputano addosso e prendono 30mila euro al mese: è un insulto per chi tenta di vivere con dignità con stipendi che non arrivano a mille euro», raccontano tanti di loro. «La Costituzione è il nostro certificato di nascita, ci dice il colore dei nostri occhi, il nostro peso», spiega una ragazza. «Ma ormai è diventata uno straccio», risponde un’altra. «Non ho più fiducia nel parlamento, è ridotto all’osteria dell’angolo con tutto il rispetto per l’osteria», commenta ancora un ragazzo. Per non parlare del sindacato. Un giovane toscano, sorridente, lo descrive come «la solita cricca della Cgil», mentre gli impieghi interinali impongono i loro ritmi da incubo: «Ormai non si parla più di settimane ma di giorni. Vai a lavorare e ti dicono se domani torni oppure no», raccontano. C’è pure chi ha lavorato al nero in Vaticano e chi «in 10 anni di lavoro nella pubblica amministrazione di Palermo» non ha mai visto un contributo. Persino mangiare una pizza diventa un lusso. E qui l’esercito di precari è unanime: «quante volte ho fatto finta di avere un impegno perché non potevo permettermi di uscire con gli amici per andare in pizzeria» racconta la stragrande maggioranza degli intervistati. L’unica soluzione, dunque, per chi può è rivolgersi alle famiglie per un aiuto, vincendo ogni volta l’umiliazione. Come racconta lo stesso Giacomo Faenza: «Quando ad aprile mi scade l’assicurazione della macchina dovrò di nuovo chiedere l’intervento di mio padre... Ma si può continuare così? Ho una figlia, una famiglia da mandare avanti... E continuo a fare sette, otto lavori insieme come tutti i precari. Per questo ho girato Caro Parlamento per tentare di stimolare la discussione perché qui è in gioco il futuro del nostro paese... Ormai i dati e le statistiche non fanno più notizia, ma forse dei volti in primo piano si ricordano di più».

l’Unità 15.10.08
Sinistra, se non ora quando?
di Bruno Gravagnuolo


Fine delle illusioni. Finanziarie, liberiste, privatistiche, super o turbocapitaliste. Ma soprattutto crollo della follia che ha indotto i mercati, e i suoi corifei, a credere che la finanza, e le banche, creino valore aggiunto, reddito e posti di lavoro. Al contrario! Lasciate a sé, distruggono valore e lavoro. Con scommesse, a vincere sul breve e a perdere sul lungo, che distorcono la percezione del valore economico reale. Sicché incipit vita nova, si spera. Cominciando a regolare il ciclo, a stimolare la domanda e a mettere sotto tutela i movimenti di capitale, volgendoli allo sviluppo (sostenibile). Ecco da dove è ora che riparta la sinistra: dal rovesciamento del neoliberalismo e dei suoi miti: flessibilità, bassi salari, fondi-pensione, outsourcing, etc. Forza Pd (se ci sei!), lo dicono anche teorici globali come Stieglitz o il Nobel Krugmann, non certo bolscevichi. E se non ora quando?
Il solito censore terzista. Galli Della Loggia. Che se la cava con poco sul Corsera, contro la battaglia anti-Gelmini: «riformisti del no, ennesima okkupazione, niente proposte». Ma perché intanto non si cimenta, e non ci dice lui la sua, invece di rimasticare i soliti rimbrotti da benpensante? Gli sembra giusto, ad esempio, che saltino 124mila insegnanti in tre anni o meno? Che si liquidino subito 824 presìdi in piccoli centri? Che si riscoprano sciocchi grembiulini e maestri tuttologi nel terzo millennio? Quando altrove gli insegnanti di supporto, oltre il maestro, sono tanti? Quando altrove si spende molto di più per la scuola? Quando la scuola, e specie quella elementare, è ormai una frontiera decisiva dell’integrazione, nel degrado e nel mondo plurale e multietnico? E quanto alle banalità sul «no», Della Loggia dovrebbe saperlo: il centrodestra procede per diktat e decreti. E dove mai si potrebbero dire dei «sì», eventualmente? O meglio: si dovrebbe solo mangiare la minestra della Gelimini. Quello che fa alla fine Della Loggia. Senza neanche il coraggio di spiegarcelo.
Il peggiore È stato Fabio Cannavaro, capitano azzurro, che dei nazi-fasci a Sofia non ha voluto parlare, preferendo parlare solo di calcio. Un fenomeno di etica civile il capitano! Lui fa come Berlusconi, non gliene frega niente... proprio niente.

l’Unità 15.10.08
La sinistra, la piazza e il volto di Occhetto
di Fulvio Abbate


Sabato scorso sono stato alla manifestazione nazionale indetta a Roma dalla sinistra radicale (uso questo termine per semplici ragioni di comodo, per amore della semplificazione). Non erano ancora le tre del pomeriggio quando sono sbarcato in un’assolata piazza Esedra che iniziava a riempirsi di bandiere. Soprattutto vessilli di Rifondazione e dei Comunisti italiani di Oliviero Diliberto. Certo, c’erano anche i verdi, non lo metto in dubbio, ma, quanto a bandiere, prevaleva comunque il rosso, un modesto rosso sempre identico a se stesso, anzi, omologato nel tessuto sintetico e nella stampa seriale di questo o quell’altro simbolo. Per dire che la sensazione epocale era piuttosto schiacciata sul presente, senza nulla di davvero epico, senza memoria. Un fatto normale, c’è da pensare, dopo decenni di scissioni e, sempre a sinistra, di distinguo portati avanti con pervicacia e orgoglio di cortile: noi ce l’abbiamo più lungo, tu ce l’hai più corto, e così via. Ora, io, ragionando dall’esterno, sono convinto che il Pd, nonostante sia un partito moderato e centrista, debba comunque fare i conti con questo pezzo di mondo che si richiama ancora alle ragioni della sinistra, se non addirittura all’ormai sbiadita prospettiva comunista; esatto: con le persone che portano, e con sommo orgoglio, le bandiere rosse ai cortei, vedi ancora coloro che sabato scorso hanno sfilato in tanti per le strade di Roma, da piazza Esedra alla Bocca della Verità. Dovrebbe avvenire per molte ragioni, a partire dalle esigenze di cambiamento e di maggiore giustizia sociale che la sinistra radicale richiede, desidera, pretende, valori comunque condivisi da tutte le forze progressiste. Tornando invece ai distinguo e alle scissioni, dal punto di vista puramente fenomenologico la manifestazione di sabato scorso mostrava molti spunti interessanti, per esempio sfoderava l’orgoglio più o meno smisurato di coloro, e penso qui agli uomini di Marco Ferrando, leader del Partito comunista dei lavoratori, che non rinunciano alla possibilità di varare una nuova Quarta Internazionale trotskista, costretti a coabitare, sempre lì a piazza Esedra, con gli uomini assai meno, così almeno c’è da supporre, politicamente e strategicamente ingordi della Sinistra democratica di Claudio Fava e dello stesso impagabile Achille Occhetto, insomma una miscela politica e culturale la cui vista spesso e volentieri ti fa venire in mente alcune obiezioni molto semplici, che riguardano per cominciare l’incapacità di assistere a un ragionevole coagulo intorno a un progetto di alternativa di governo.
Ragionando ancora sullo spettacolo umano della manifestazione di sabato scorso, al di là dei numeri e dell’ampia partecipazione di popolo e di realtà regionali, resta da interrogarsi su alcuni dettagli sovrastrutturali. Primo: cosa ci facevano le bandiere della Ddr o della Corea del Nord fra gli fila del partito di Oliviero Diliberto, devo pensare davvero che chi le sventola lo faccia con sincera convinzione? Secondo: qual era il significato di certe parole d’ordine oscillanti fra diatribe fra seconda terza e, appunto, vista la presenta del pur rispettabile Ferrando, quarta inerrnazionale? Per finire, un ultimo fotogramma: Achille Occhetto, l’ultimo segretario del Pci, ma anche, almeno secondo o suoi detrattori, lo «smantellatore» di una grande tradizione, vederlo lì in piazza con la discrezione e il garbo che lo contraddistinguono come chi abbia fatto davvero tesoro di una frase che Pier Paolo Pasolini mette alla fine del suo film sulla fine di certe ideologie e forse della stessa storia: «Il viaggio è finito e il cammino incomincia adesso». La faccia di Achille Occhetto, sia detto con il massimo della simpatia e della stima, era l’immagine più significativa della manifestazione di sabato scorso. Il viaggio è finito, eppure bisogna andare ancora avanti, «al di là dell’orizzonte», giusto per citare le sue parole prese da Tennyson pochi giorni dopo «la Bolognina».
www.teledurruti.it

l’Unità 15.10.08
Le vittime di don Cantini pronte a chiedere i danni alla Curia
di Osvaldo Sabato


«Maniago? Finalmente ha parlato, ma lo ha fatto per mettersi in mostra agli occhi di Betori» insinua il portavoce delle vittime, che non risparmia critiche neanche per il cardinale Ennio Antonelli «lui non si è mai reso conto della gravità dei fatti perché Maniago li ha dipinti ad arte» dice. Tanto che, ricorda chi ha subìto gli abusi, il primo faccia a faccia con il cardinale ci fu a distanza di otto mesi dalle prime lettere di denuncia. «Eminenza lei è nella posizione migliore per fare pulizia e chiarezza» dissero gli ex parrocchiani in quella occasione. La sua risposta? «Non rispose, ci disse che non sapeva cosa fare, poi si è interessato del caso ed ha emesso quel provvedimento ridicolo contro don Cantini». Il processo fu riaperto sulla scia delle notizie di stampa, eppure non avvenne, secondo le indicazioni che Antonelli aveva ricevuto dal Vaticano «lo aveva riaperto in modo più blando». Infatti stando a quanto rivelano ora le vittime: il cardinale Antonelli dette disposizione al giudice istruttore, padre Romano, di interrogare solo le diciotto persone che aveva chiesto di riaprire il caso. Neanche la Congregazione della Dottrina della Fede era a conoscenza del limite alle indagini «suggerito» da Antonelli. A questo punto le vittime stanno valutando l’ipotesi di chiedere il risarcimento dei danni alla Curia. «Aspettavamo la fine del processo canonico per decidere, ora non lo escludiamo». Sorpresi ed esterrefatti. «Maniago ora dice di sentirsi tradito da don Cantini?» si chiede ancora con un pizzico di ironia il portavoce delle vittime dell’ex parroco fiorentino. «Ma se è stato proprio lui ad impedirci di andare avanti con le nostre denunce» insiste. Non si placano le polemiche intorno a Claudio Maniago, vescovo ausiliare uscente della Curia di Firenze. Non si placano nonostante l’alto prelato abbia per la prima volta rotto il suo silenzio sullo scandalo degli abusi sessuali nella parrocchia Regina della Pace. «I fatti che riguardano don Cantini sono stati per me fonte di sconvolgimento» aveva ammesso Maniago ai microfoni di Radio Toscana.

Repubblica 15.10.08
Ercolano
Dove si scatenò la furia del Vesuvio
L’eruzione del 79 d. C. distrusse una città di ville con un panorama mozzafiato
di Giuseppe M. Della Fina


Dal 16 ottobre all´Archeologico di Napoli l´esposizione "Ercolano: tre secoli di scoperte"

La vicende storiche di Ercolano - come di Pompei - vengono narrate in genere partendo dal momento drammatico della distruzione avvenuta a seguito della rovinosa eruzione del Vesuvio del 79 d. C.
Proveremo a fare diversamente e a raccontare le vicende della città partendo da quando era un centro ameno dove la vita scorreva con tranquillità e piacevolezza.
Aiutano in proposito le fonti letterarie: lo storico Sisenna dice che Ercolano era una città cinta da mura non imponenti, posta su un promontorio presso il mare e delimitata da due corsi d´acqua. Strabone ne lodava la salubrità dell´aria, mentre Dionigi di Alicarnasso ne vantava la sicurezza degli approdi in ogni stagione dell´anno. Sempre Strabone descrive un litorale popolato da ville, in una delle quali, bellissima, Seneca dice che venne relegata Agrippina. Sappiamo anche anche che le colture del pero e della vite erano ben sviluppate.
Per la città si erano immaginate origini mitiche: sarebbe stata fondata da Ercole nel luogo dove era approdato di ritorno da un viaggio in Spagna. Sempre dalle fonti letterarie conosciamo per sommi capi la sua prima storia: Ercolano sarebbe stata abitata in successione dagli Osci, i Tirreni, i Pelasgi e i Sanniti prima dell´ingresso nell´orbita di Roma e della sua rapida e riuscita romanizzazione. La documentazione archeologica indica un insediamento che occupava una ventina di ettari di terreno, dotato di edifici civili e religiosi di un certo impegno e abitato da circa quattromila persone. Le residenze private presentano una varietà tipologica notevole: abitazioni dall´impianto tradizionale, caseggiati plurifamiliari e ville costruite in posizioni privilegiate con terrazze, verande e belvederi dai quali si poteva osservare un panorama mozzafiato.
Il grande archeologo Amedeo Maiuri - tra i protagonisti principali della riscoperta di Ercolano - ha provato a immaginarsi ospite nella celeberrima Villa dei Papiri e a descrivere ciò che avrebbe potuto osservare: «L´occhio spaziava liberamente per tutta l´ampia distesa del golfo. Si poteva seguire tutto il movimento marittimo del golfo; navi da carico con le caratteristiche vele alessandrine che veleggiavano verso Puteoli, il primo porto mediterraneo di Roma, e navi greche, rodie e insulari, con il carico più raro e prezioso dei prodotti delle officine d´arte dell´oriente ellenistico, che approdavano al porto di Neapolis». Insieme fonti letterarie e archeologia restituiscono l´immagine di una città caratterizzata da un benessere all´apparenza solido, diverso da quello della vicina Pompei più grande e caotica; con una vita culturale vivace come sembra suggerire la biblioteca presente nella già ricordata villa dei Papiri, dove potrebbe avere soggiornato e forse insegnato il filosofo Filodemo di Gadara, un epigono della scuola epicurea.
Su questo mondo ordinato si scatenò la furia del vulcano: indagini recenti ne hanno restituito le fasi modificando sensibilmente il quadro delineato in precedenza. Ercolano non fu distrutta - come si è ritenuto a lungo - da una colata lenta e fangosa che avrebbe consentito la salvezza della maggioranza degli abitanti, ma in poche ore sommersa da nubi ardenti, ovvero una miscela di gas e frammenti di materiali lavico incandescente, alternate a colate piroclastiche.
Negli ultimi venti anni è stata scavata l´area dell´antica spiaggia e, in particolare, dodici ambienti situati di fronte al mare che fungevano da ricoveri per barche e da magazzini, i cosiddetti Fornici. Qui cercarono inutilmente scampo circa trecento fuggiaschi: gli archeologi li hanno rinvenuti insieme con gli oggetti più cari o preziosi che avevano cercato di portare in salvo.
Le esplorazioni archeologiche a Ercolano sono iniziate comunque molto tempo prima e hanno accompagnato la ripresa di attenzione per il mondo greco e romano: i risultati delle prime indagini impressionarono, ad esempio, già Johann Joachim Winckelmann. Nel 1711, il principe austriaco d´Elboeuf, calandosi attraverso un pozzo, ebbe la fortuna di raggiungere la scena del teatro romano della città e dette inizio alla stagione delle ricerche settecentesche. Un primo salto di qualità nelle indagini si ebbe con il re Carlo III di Borbone che, salito al trono, fece iniziare ricerche sistematiche nell´area. Le indagini erano portate avanti da ufficiali del Genio utilizzando soldati, contadini e persone condannate sull´esempio dello scavo in miniera.
Le strutture antiche non erano riportate alla luce, ma raggiunte attraverso pozzi verticali. Si procedeva alla flebile luce di una lanterna, senza un piano preciso, ma seguendo le caratteristiche strutturali degli ambienti rinvenuti. Attraverso i pozzi venivano portate in superficie le opere ritrovate che erano poi trasferite nell´Herculanense Museum, ospitato in un´ala del Palazzo Caramanico della Reggia di Portici, che il re faceva visitare a un pubblico selezionato composto da visitatori di rango ed eruditi.
Risalendo quei pozzi e quei cunicoli scavati con grande pericolo e fatica, l´arte greca e romana è entrata nella cultura europea.

Repubblica 15.10.08
Quel miracolo di dei e di eroi
La struggente bellezza nella sacra città di Ercole
di Sergio Frau


Nel Pantheon c´è un Dioniso del I secolo dopo Cristo, una Atena alta due metri, e poi Mercurio, Apollo, Vulcano, Bacco, Demetra, Afrodite

Entri e, man mano, li incontri tutti. C´è un Dioniso del I secolo dopo Cristo che - con quel suo viso così sereno, se non avesse la tradizionale coroncina di rose - sembrerebbe già un Cristo: è la reinvenzione romana di sculture greche del V a. C. E c´è Atena: l´Atena fantastica in marmo bianco, alta due metri, ritrovata tra due colonne del lato sud orientale della Villa dei Papiri il 29 ottobre 1752. Eccolo Mercurio, con il caduceo che lo fa riconoscere a prima vista, con tanto di alette ai piedi per volar veloce dove più serve. Più in là un´erma ti fa vedere un Apollo che sembra vivo: al solito è bello come il sole - visto che Apollo, tra l´altro, è anche il Sole - con i suoi capelli di marmo a posto, ancora bruni dell´antica pittura. C´è persino, sacralizzato, Vulcano: venne fuori, quasi beffardo, con altri tre fregi dall´Area Sacra della città negli anni Ottanta del secolo scorso, dalla coltre di 20 metri di materiale vulcanico misto a pioggia che proprio il Vesuvio riversò sulla città.
E sì, gli Dèi - un intero, fastoso, variegato pantheon di dèi - lì a Ercolano, ce li avevano proprio tutti.
Ora - ora che son venuti fuori dai magazzini e dai depositi che li custodivano, per riunirsi ai pezzi superstar in mostra da sempre - te lo fanno capire subito che le fedi di Roma e Grecia punteggiavano l´intera città. Si camminava tra gli dèi, a Ercolano: sembravano benedirti a ogni cerimonia, forse a ogni crocicchio, a ogni festa.
Da domani sono in mostra all´Archeologico di Napoli, riuniti di nuovo tutt´insieme: quelli riapparsi con gli scavi degli ultimi tre secoli, esposti con le statue degli imperatori e, anche, di tutta quella gente comune che li pregava e che un ritratto scolpito poteva permetterselo.
Ercolano: tre secoli di scoperte, infatti, si chiama l´esposizione che li fa conoscere e terrà banco fino ad aprile 2009 nel grande atrio del Museo, restituito a un uso di "Spazio Sorpresa", dove presentare man mano mirabilia che di solito, a malincuore, non si riesce a far vedere.
I tre curatori - Pietro Giovanni Guzzo (soprindendente di Napoli e Pompei), Maria Paola Guidobaldi (direttore degli scavi di Ercolano), e Maria Rosaria Borriello (direttrice del Museo) - hanno voluto scandire il percorso tra le 150 opere scelte (catalogo Electa, pagg. 296, euro 50) e, in parte, restaurate per l´occasione con la luce: le luci forti, fortissime per rendere abbaglianti le divinità all´ingresso si attenuano andando avanti attraverso le altre tre sezioni per presentare le dinastie imperiali monumentalizzate lì, e ritmare i ritratti dei padroni delle case più ricche, e anche, però, i volti scolpiti della gente comune, gli unici - con rughe, calvizie e il doppio mento di marmo - a non nascondere i segni delle età.
E così, già entrando, si vede subito che a Ercolano avevano davvero tutti gli dèi che, allora, era bene tenersi buoni.
Non servirono a nulla, però.
Neppure il grande Augusto servì a salvarla, Ercolano. E sì che ormai era divinizzato: gli avevano anche dedicato una statua in bronzo di due metri e mezzo, che adesso, in mostra, trionfa - come un tempo nell´Augusteum - accanto a Claudio, effigiato come Padre degli Dèi.
Del tutto inefficace, anche il nome santissimo che i cittadini si erano scelti per battezzare e proteggere quel loro piccolo, ricco, paradiso sul mare: Ercolano, città di Ercole, l´uomo che, soffrendo, si fece dio. Era lui, l´Eroe Benedicente, che allora, nelle tombe di mezza Italia, teneva compagnia ai morti pur di assicurare un lieto fine al grande viaggio nell´Aldilà. In mostra lo si vede giovane giovane, in bronzo e in marmo. Ma anche ormai maturo che - statuario - lotta con l´Idra, il mostro di Lerna, o - affrescato - che porta avanti le 12 fatiche. Ma c´è anche un Ercole mezzobusto, coronato del suo ulivo a ricordarne le vittorie su tutto e tutti.
Ma neppure Ercole servì... Il Vesuvio fu più forte di tutti gli Dei.
Così emoziona e stringe anche il cuore questa spettacolare parata di Sacro - inutile, al momento giusto - che ora accoglie a sorpresa i visitatori del Museo: c´è da rabbrividire al pensiero di quel che queste 150 statue - in marmo e bronzo, spesso colossali - hanno visto quella notte del 24 agosto del 79 d. C.
Sembrano averlo ancora negli occhi: tutte provengono dagli scavi di Ercolano, tornate alla luce in epoche differenti. Le ultime sono riapparse appena qualche mese fa, grazie ai nuovi scavi e ai nuovi soldi che la Fondazione Packard ha fatto piovere su Ercolano per consolidarla e resuscitarla davvero.
Bellissime e strazianti queste meraviglie. L´orrore che hanno vissuto è più chiaro soltanto da pochi anni grazie alle analisi che vulcanologi, biologi, zooarcheologi hanno potuto effettuare sui 300 corpi riapparsi tra il 1980 e il 1990, aggrovigliati da una morte rovente e sigillati dal tufo, sulla spiaggetta della città, nella zona degli imbarcaderi, da dove speravano di fuggire.
Anche loro saranno in mostra: ma nella zona più buia, come a ricordare che non solo d´arte ci sta parlando Ercolano. Maria Paola Guidobaldi: «Tetti scoperchiati, muri abbattuti, porte scardinate, suppellettili disseminate ovunque, tutto però in grande misura recuperabile o ricostruibile. Le altissime temperature sviluppate dal fenomeno vulcanico hanno determinato a Ercolano un fenomeno di conservazione assolutamente originale, restituendoci, carbonizzati, tutti i materiali di natura organica: commestibili, papiri, stoffe, corde, tavolette cerate».
E in mostra - per la prima volta - verranno presentate proprio le collezioni di tessuti ercolanesi e pompeiani. Nel luglio scorso, scavando una terrazza del porticato vicino alle terme di Ercolano, agli archeologi è saltata fuori una massa informe di materiale organico. Solo sbrogliando con mille attenzioni quella matassa si sono accorti che era canapa. L´hanno consolidata, salvata e ora con altri 180 reperti tessili - sacchetti, borsellini, brandelli di tuniche - e molte opere d´arte scolpita o dipinta che fanno conoscere gli abbigliamenti di allora, completa il percorso di quest´esposizione che spesso sorprende.
In alcuni marmi sono sopravvissute tracce di colore, che permettono di immaginarseli variopinti com´erano. Oggi, per lo più, quelle statue sono fantasmi bianchi le cui forme, perfette, prendono il sopravvento. Fu questa loro purezza a incantare i Padri dell´Archeologia (Winckelmann & C.) e a dare il via a una nuova fase dello studio della storia dell´arte antica che ancor oggi è dominante. In altre sono gli azzardi d´arte a sorprendere.
E di azzardi, in questo pantheon di capolavori, ce ne sono assai. Alcuni - che fanno fare al bronzo quel che l´artista vuole - li hanno forse importati belli e fatti. Altri, però, li hanno imitati ad arte: c´è una Grecia in bella copia, qui, in mostra, spesso striata di sacrilegi minimi, sincretismi nostrani.
Del resto la fede è fede - si sa - e anche a Ercolano fa miracoli. Come non pregarlo quel Bacco con la pantera, che le luci dell´Archeologico ora esaltano, bello è perfetto com´è? Come non dare fiducia all´erma di Afrodite che con quel suo volto sereno garantisce pace e serenità? Come non credere, poi, alla Demetra imponente, alta un metro e 88, che riassume in sé alcuni tra i segnali sacri delle Dee Madri più osannate dell´antichità?
Scrive Valeria Moesch nel bel catalogo Electa che accompagna la mostra: «Se la testa della statua è facilmente riconoscibile come replica del tipo dell´Hera Borghese, creazione datata tra il 430 e il 410 a. C., il corpo riprende invece il modello della celebre Demetra di Eleusi, opera del 420-410 a. C. Allo stesso arco cronologico rimanda l´elemento dell´appoggio sul lato sinistro che richiama il tipo della cosiddetta angelehente Athena, l´Atena poggiata».
La sentenza finale per questa dea, una e trina, ritrovata 11 anni fa, vicino alla Villa dei Papiri che finora ha restituito da sola 100 statue, con un po´ dei suoi colori ancora addosso (e anch´essa, come la maggioranza delle statue esposte, sconosciuta finora al grande pubblico dei non addetti ai lavori), è verbalizzata in catalogo: «Creazione romana di un artista eclettico che ha contaminato tipi iconografici diversi. Le caratteristiche stilistiche ed esecutive suggeriscono una datazione della statua in età augustea».
Una dea "recente", dunque, ma con mille anni di religiosità mediterranea addosso: costruita, con amore e sapienza, proprio alla vigilia della tragedia che nasconderà Ercolano agli occhi del mondo per 17 secoli, fino alle torce dei "cavamonti" al soldo dei Borboni che perlustrarono il doppiofondo di quella che, ormai, era soltanto una compatta distesa di tufo a sigillare tutta questa meraviglia.
Post scriptum. Ultim´ora: all´Istituto di Geofisica e Vulcanologia oltre 400 ricercatori rischiano il loro posto di lavoro. Sembra humour nero: è cronaca di questi giorni.

Repubblica 15.10.08
Homo sapiens. Dall'Africa in viaggio sull’acqua
di Enrico Franceschini


Un "corridoio umido", fatto di grandi fiumi e grandi laghi, che attraversava il Sahara fino alla Libia Secondo gli studiosi inglesi sarebbe questa la rotta seguita dai nostri antenati per raggiungere l´Europa
Le immagini dal satellite e i reperti archeologici confermerebbero la scoperta

Londra. Tutto iniziò con un viaggio: l´odissea, perché di certo contrassegnata da avventure e disavventure non meno epiche di quelle di Omero, che portò i nostri progenitori, all´incirca 60-70 mila anni or sono, da un punto imprecisato dell´Africa orientale a disseminarsi poco per volta in tutti i continenti. Fino ad ora le ricerche degli antropologi credevano di avere individuato una sola strada, un´unica via d´uscita dal continente africano verso quello che oggi chiamiamo Medio Oriente, e da lì nel resto del Mediterraneo, poi in tutta Europa ed Asia, infine sino alle Americhe e all´Australia: il corso del Nilo, il grande fiume che dal Corno d´Africa arriva appunto a lambire i confini del Mediterraneo e del Levante. Ma nuovi studi condotti da scienziati britannici sembrano avere ora scoperto anche un altro percorso, un nuovo cammino compiuto dal grande esodo dell´umanità verso la conquista del mondo: un «corridoio d´acqua» che dal centro dell´Africa attraversava perpendicolarmente l´intero deserto del Sahara, arrivando fino all´odierna Libia e da essa al mare.
Fiumi nel deserto? Potrebbe sembrare un´idea da fantascienza: eppure è proprio questa l´ipotesi avanzata da un gruppo di ricercatori delle università di Oxford, Bristol, Southampton, Hull e di quella libica di Tripoli. Dati di cui erano già precedentemente in possesso dimostravano che ci fu un incremento di piogge sulle regioni meridionali del Sahara, tra 130 mila e 170 mila anni fa, durante un intervallo tra le ere glaciali noto come l´ultimo periodo interglaciale.
Gli studiosi hanno cercato di capire se queste condizioni atmosferiche crearono un «corridoio bagnato» in grado di giungere molto più a nord di quanto si era creduto fino ad ora. Lo hanno dimostrato in due modi. Dapprima con immagini radar riprese dallo spazio che hanno rivelato l´esistenza di canali fossili dal Sahara alla costa mediterranea della Libia. Quindi, usando test geochimici, gli scienziati hanno verificato che quei canali erano attivi durante l´ultima era interglaciale: ossia c´erano dei vitali corsi d´acqua attraverso una sterminata regione arida. Infine i ricercatori hanno scoperto una somiglianza tra elementi chimici in fossili di conchiglie ritrovati lungo quei «corridoi bagnati» preistorici e simili conchiglie sulle rive del Mediterraneo in Libia, concludendo che soltanto un fiume avrebbe potuto trasportare le stesse conchiglie dal Sahara al mare.
Un´ulteriore prova è venuta dalla somiglianza tra utensili di pietra manufatti in Ciad e in Sudan dai primi uomini con utensili fabbricati nello stesso periodo in Libia. «E´ dunque possibile che i nostri antenati abbiano percorso anche questa strada, attraversando il Sahara fino alla Libia, per lasciare l´Africa», afferma Anne Osborne, docente della Bristol University, nel rapporto scritto insieme ai suoi colleghi sulla rivista scientifica Pnas. «Ora dobbiamo concentrarci su ricerche archeologiche sul campo, lungo la rotta di quei corridoi d´acqua, per trovare reperti che confermino definitivamente la nostra tesi», dice alla Bbc il professor Nick Barton della Oxford University, co-autore del rapporto. Nel lungo viaggio attraverso il tempo e la storia, si sapeva che l´uomo attraversò probabilmente il mar Rosso all´altezza dello stretto di Bab-el - Mandab, passando dal Corno d´Africa alla penisola arabica. Adesso possiamo immaginare che viaggiò anche attraverso l´oceano di sabbia del Sahara, partendo dalla Libia per spargersi nel Mediterraneo. E, poco sopra la Libia, c´era la nostra penisola.

Repubblica 15.10.08
Giorgio Manzi, paleoantropologo all'università La Sapienza di Roma
"Fu un'espansione a cerchi concentrici"
di Luigi Bignami


«Sapevamo già che il Sahara fu molto meno arido in momenti del passato di quanto non lo sia oggi - afferma Giorgio Manzi, paleoantropologo all´università La Sapienza di Roma - Non stupisce affatto che questo possa essere stato vero soprattutto nel corso dell´ultimo periodo interglaciale, diciamo intono a 130 mila anni fa, e che ciò abbia comportato l´esistenza di un corridoio ulteriore per la diffusione verso le coste meridionali del Mediterraneo da parte dell´Homo sapiens, la nostra specie, comparsa in Africa orientale intorno a 200 mila anni fa».
Ma perché il Sapiens sembra avesse questo immenso desiderio di "lasciare" l´Africa?
«Che l´uomo abbia avuto la tendenza diffondersi in varie direzioni e, col tempo, a "uscire" dal perimetro del continente africano fa parte di un quadro complesso che combina il successo biologico, adattativo ed ecologico della nuova specie umana con un successo anche di tipo demografico. Questo fenomeno va visto come l´espansione geografica di un´intera specie».
Ma come è avvenuta questa espansione?
«La possiamo immaginare come i cerchi concentrici che si formano lanciando un sasso in uno stagno, ma che necessariamente deve seguire traiettorie geograficamente possibili: dapprima in Africa, poi (a partire da circa 100mila anni fa) in Eurasia, "scivolando" lungo latitudini meridionali, e poi salendo più a nord, verso l´Europa ad esempio, mentre altre popolazioni erano già penetrate in Australia e altre ancora iniziavano a diffondersi verso le regioni settentrionali dell´Estremo Oriente, tanto da raggiungere l´attuale stretto di Bering. Mettendo piede così nel continente americano».

Corriere della Sera 15.10.08
Anni di piombo, l'uscita giudiziaria
Libertà condizionale per gli ex terroristi neri e rossi Dei 6.000 entrati in carcere, 71 detenuti a tempo pieno
In cella In 97 dietro le sbarre, tra loro i brigatisti arrestati nel 2003 e nel 2007. Ma 26 di giorno escono
di Giovanni Bianconi


La «porta» dell'articolo 176
Gli ex terroristi fanno istanza in base alla norma che prevede per gli ergastolani la possibilità di usufruire della «condizionale» dopo 26 anni di pena scontati (22 con la buona condotta)
La delega ai giudici
Tutto è affidato alla discrezionalità dei magistrati che devono valutare i singoli casi e che hanno orientamenti diversi. Il compito di chiudere quella stagione è stato lasciato a loro

Per la libertà condizionale concessa a Francesca Mambro, l'ex terrorista «nera» condannata a svariati ergastoli, c'è chi ha gridato allo scandalo. E così per la decisione francese di non estradare l'ex brigatista rossa Marina Petrella, ergastolana anche lei, rifugiata in Francia dal 1993. Sulla Mambro due autorevoli deputati del Partito democratico hanno presentato perfino un'interrogazione parlamentare, per sapere dal ministro della Giustizia le ragioni della decisione presa dal tribunale di sorveglianza di Roma.
Naturalmente il Guardasigilli non potrà che riportare le motivazioni dei giudici. I quali per concedere il beneficio all'ex terrorista ufficialmente colpevole anche della strage alla stazione di Bologna del 1980 (85 morti e 200 feriti, un'eccidio del quale la condannata continua a proclamarsi innocente) hanno seguito la giurisprudenza che da qualche tempo ha avallato questa particolare chiusura dei conti con la giustizia (non ancora definitiva, peraltro) per decine di ex militanti del «partito armato». Tra questi alcuni brigatisti autori del sequestro e dell'omicidio di Aldo Moro — Barbara Balzerani, Anna Laura Braghetti, Raffaele Fiore, Bruno Seghetti — e di altri delitti, o gli aderenti a sigle diverse della galassia eversiva degli anni Settanta.
Francesca Mambro — che nel 2009 compirà 50 anni, arrestata quando ne aveva 23, fuori dal carcere già da un paio di lustri per il «lavoro esterno» e la maternità — è solo l'ultima ad essere uscita dalla porta prevista dall'articolo 176 del codice penale. E sarà una delle ultime perché la maggioranza degli ex terroristi ergastolani c'è già passata. Quattro anni fa toccò a suo marito, Valerio Fioravanti, che si trova nella stessa situazione giuridico-giudiziaria della moglie, senza troppi clamori. Per i condannati a vita la norma prevede la possibilità di usufruire della «condizionale» dopo 26 anni di pena scontati (che con la «buona condotta», diventano 22 grazie allo sconto previsto da un'altra legge), e siccome la grande maggioranza dei terroristi è stata arrestata nei primi anni Ottanta, dall'inizio dei Duemila i tribunali di sorveglianza stanno vagliando le istanze degli ergastolani. Col risultato che in galera restano sempre meno prigionieri cosiddetti «politici».
La contabilità aggiornata dei «detenuti appartenenti a movimenti eversivi» offre cifre bassissime rispetto ai circa 6.000 passati dalle prigioni italiane durante e dopo gli «anni di piombo». Oggi sono meno di cento, esattamente 97, così suddivisi per aree di appartenenza: 70 di sinistra, 21 di destra e 6 definiti anarchici. Di questi però, 26 sono in «semilibertà », cioè escono dal carcere ogni mattina per lavorare fuori e rientrano la sera: 23 di sinistra (l'ultimo, in ordine di tempo, Paolo Persichetti, ex militante dell'Ucc, unico estradato dalla Francia nel 2002) e 3 di destra. Chi prima e chi dopo, anche loro potranno arrivare alla possibilità della «condizionale».
Quelli che ancora non mettono il naso fuori dalla cella, quindi, sono solo 71. Anche questo numero, però, va scomposto per scoprire che non tutti i detenuti «a tempo pieno» sono dei terroristi ancora «in servizio». Concentrandosi sul più consistente gruppo di militanti delle Br e sigle affini, ad esempio, i prigionieri che non usufruiscono di alcun beneficio restano 47. Ma in questa cifra rientrano i neobrigatisti arrestati dopo il 2003 (tra cui i responsabili degli omicidi D'Antona e Biagi) e gli aspiranti combattenti del Partito comunista politicomilitare, catturati nel 2007. Quelli della «vecchia guardia» , dunque, sono una trentina, e tra loro sono compresi autonomisti sardi ed ex detenuti comuni «politicizzati» in carcere, senza più velleità. Soltanto la metà di questa pattuglia continua a lanciare proclami di guerra contro lo Stato e si può definire composta da «irriducibili», mentre gli altri non hanno più nulla a che fare con la lotta armata.
Come Cristoforo Piancone, br arrestato nel 1978 dopo l'omicidio di una guardia carceraria, ammesso alla semilibertà nel 2004 ma sorpreso un anno fa a compiere una rapina in banca: nessun «autofinanziamento» sul modello dei tempi andati, solo un tentativo di guadagno personale che gli è costato la revoca dei benefici. Prima di lui avevano preso la stessa strada Giorgio Panizzari (ex Nuclei armati proletari, addirittura graziato nel 1998 da Oscar Luigi Scalfaro), e un ex appartenente all'Unione dei comunisti combattenti.
Tra le donne c'è Rita Algranati, brigatista della «colonna romana» che nel 1979 lasciò le Br e l'Italia, si rifugiò prima in Nicaragua e poi in Algeria. Solo nel 2004 fu arrestata grazie a una «consegna» concordata tra il servizio segreto italiano e le autorità algerine, che dalla sera alla mattina la fece ritrovare in Egitto dove alcuni di funzionari di polizia arrivati da Roma l'hanno presa e portata in carcere. Da quel momento ha cominciato a scontare i cinque ergastoli a cui è stata condannata, quando la sua storia con le Br era chiusa già da un quarto di secolo.
Sul fronte del terrorismo «nero», tra i detenuti senza benefici c'è Pierluigi Concutelli, che un mese fa s'è visto revocare la semilibertà perché trovato con qualche grammo di hashish addosso, non certo per aver ricominciato a sostenere le idee «rivoluzionarie » e omicide d'un tempo. Nella stessa categoria viene contabilizzato l'ex «pentito» Angelo Izzo, che durante i precedenti permessi ha commesso crimini efferati che con la politica non avevano niente a che vedere.
Delle migliaia di persone passate dalle carceri per reati di matrice politica, insomma, ne restano dentro poche decine, e solo in parte con le stesse idee che ce l'hanno portate. Tutti gli altri hanno ottenuto da tempo i benefici o la liberazione condizionale, e le percentuali di chi è tornato a commettere reati (non più di natura politica) incidono pochissimo. Questo a dimostrazione che come venticinque anni fa la magistratura fu artefice della repressione del fenomeno eversivo, grazie ai «pentiti» e alle leggi speciali, così oggi alla stessa magistratura è stato lasciato il compito di chiudere quella stagione facendo tornare alla società persone che hanno sparato e ucciso in nome di un'ideologia. Tutto è delegato al momento giudiziario, con valutazioni sui singoli casi affidate alla discrezionalità dei singoli giudici (che seguono orientamenti diversi, ad esempio tra Milano e Roma, la città dove è stata concessa la maggior parte dei benefici). Senza alcun atto politico che mettesse un punto su quelle vicende.
Attraverso questa «delega» non dichiarata i magistrati si sono fatti carico di restituire alla collettività i protagonisti del sequestro e dell'assassinio di Moro, ma anche il fondatore del sanguinario Partito Guerriglia Giovanni Senzani — condannato tra l'altro per l'efferato omicidio di Roberto Peci, fratello del pentito Patrizio —, un fratello e l'ex marito di Marina Petrella (ergastolani pure loro) e altri ancora. Di solito nella disattenzione generale, con decisioni confermate dalla Cassazione quando la pubblica accusa ha fatto ricorso, senza troppe proteste o grida di scandalo.
Per la liberazione condizionale la legge prescrive un «comportamento tale da far ritenere sicuro il ravvedimento» del condannato. E secondo le ultime decisioni dei giudici, «la certezza o quantomeno l'elevata e qualificata probabilità» di quel ravvedimento non passa più soltanto dalla «revisione critica» del proprio passato violento, ma anche dalla riconciliazione (almeno tentata, attraverso dei contatti epistolari) con le vittime dei crimini commessi. Percorso faticoso, accidentato e dall'esito molto incerto. In fondo al quale l'Italia ha forse cominciato a intravedere — senza rendersene conto, e affidandosi ai verdetti altalenanti dei giudici che variano a seconda dei tribunali — la fine del tunnel degli «anni di piombo».

Corriere della Sera 15.10.08
L'eredità di Haider e gli ebrei italiani
La tenuta fu sottratta alla vedova del proprietario grazie alle leggi razziali
Noemi Merhav chiese la restituzione della valle ma perse la causa. Sua madre aveva ricevuto dopo la guerra un risarcimento irrisorio
di Mara Gergolet


KLAGENFURT — L'eredità spirituale? Ma no, l'eredità vera. Jörg Haider attende ancora d'essere sepolto, sabato, nella sua Bärental, s'attende l'ultimo saluto dei leader austriaci e la calata a Klagenfurt dei governanti d'oltreconfine come il friulano Renzo Tondo, le bandiere rosse-gialle- bianche sono ancora a mezz'asta, i ceri ancora accesi nella Piazza nuova e compare — a turbare l'immagine del leader, a cui dopo la morte è stato reso un corale tributo — quella domanda impertinente e fastidiosa: e che ne sarà adesso dei suoi — discussi, controversi — poderi?
Risposta semplice: li ereditano la moglie Claudia, 51 anni, e le figlie Ulrike, 31, e Cornelia, 28. Ma non sono noccioline. Quindici milioni di euro, circa, perché Haider era un uomo ricco al di là dello stipendio (lordo) di Landeshauptmann di 16.320 euro. Una bella casa a Klagenfurt, un appartamento medio a Vienna, un parco macchine dove spicca una Porsche Cayenne e soprattutto la Bärental. Ovvero, quasi tutti — o una bella parte — dei terreni in questa valle alpina lunga quasi 7 chilometri, la «valle degli orsi»: 1.600 ettari di proprietà. Prati, boschi, la cappella di S. Michele, all'ombra delle Karawanken e quasi fino al confine della Slovenia, anche se Haider nelle valli ha fatto togliere tutte le insegne bilingui in sloveno perché gli davano fastidio.
E così torna sui giornali la storia nota di come Haider sia diventato il padrone di queste terre una volta appartenute agli ebrei. L'eredità donatagli da uno zio acquisito, Wilhelm Webhofer, che a sua volta l'aveva ricevuta dal padre Joseph. È qui che la storia si fa drammatica: Joseph le compra per un prezzo irrisorio (300.000 marchi tedeschi), nel 1939, dalla vedova di un ebreo italiano, Mathilde Roifer. Non aveva altra scelta, la signora, dopo la promulgazione delle leggi razziali: la Bärental doveva essere arianizzata, gli ebrei schiacciati e privati delle loro ricchezze.
E Haider, a quel dono che lo ricollegava agli orrori (e ai profittatori) del regime hitleriano come ha reagito? L'ha sempre difeso, pure in tribunale. Nel 2000, la figlia di Mathilde Roifer, l'allora 73enne Noemi Merhav, l'ha citato a giudizio: reclamava la restituzione della valle. Ma Haider ha vinto, la transazione era regolare e poi la signora — sopravvissuta all'Olocausto — nel 1954 era stata ricompensata, dopo le richieste del Congresso ebraico al governo austriaco: tre volte il prezzo pagato nel '39, soldi in buona parte sborsati da Webhofer. «Per quei tempi non mi sembra proprio poco» disse una volta Haider. Cifre irrisorie, per chi ha fatto i conti: in totale, compensazioni comprese, circa un quarantesimo del valore attuale del podere. Eppure, nella Bärental Haider era amatissimo da tutti. Il sindaco socialdemocratico, Sonya Feinig, dice «avevamo rapporti eccellenti »; un «Super Mensch», un grande uomo, per gli avventori dell'osteria di Feinitz; «un amico » per il vicario generale Gerhard Kalidz. Certo, la Bärental gli ha dato parecchi guai: come quando assunse, per farli lavorare sotto costo nei boschi, dei bosniaci, lui che pubblicamente tuonava contro i clandestini. Ma era anche diventata un simbolo politico, quella Bärental-Republik: lo sfottò coniato dalla satira politica lui l'aveva adottato come uno slogan, un vanto. E ora, un'altra volta, la questione dell'eredità. Fatti privati della famiglia di Jörg Haider, s'intende, non fosse che le ombre lunghe della Bärental gettano un'altra volta una luce più cupa sulla sua finale, pubblica agiografia.
Sulla neve Jörg Haider sui prati della Bärental
La valle Una veduta aerea della casa di Jörg Haider nella Bärental, in Carinzia (foto Ap)

Corriere della Sera 15.10.08
In un saggio di Robert Service le convergenze tra gli eredi di Lenin e quelli di Khomeini
Così il comunismo in versione asiatica ha smentito Marx
di Aurelio Lepre


Il paradosso
L'idea rivoluzionaria fallisce nel mondo industrializzato ma conquista Paesi agricoli Un manifesto inneggiante a Mao tratto dal libro di Service «Compagni»

Robert Service è tra i più noti storici dell'Unione Sovietica: si è già occupato della sua storia e ha pubblicato biografie di Lenin e Stalin. Ora Laterza ha tradotto con grande sollecitudine (l'edizione inglese è del 2007) la sua ultima opera, Compagni, che riguarda l'intero movimento comunista mondiale. Si tratta di un lavoro ricchissimo d'informazioni e di giudizi, accessibile anche a un vasto pubblico.
Nelle ultime pagine Service osserva che «gli impulsi che hanno dato origine al comunismo non si sono spenti», perché ci sono ancora miliardi di persone che non godono della sicurezza personale, dell'istruzione e di un nutrimento adeguato. Scomparsa l'Unione Sovietica e in via di profonda trasformazione la Repubblica popolare cinese, l'eredità anticapitalistica del comunismo sembra però raccolta, anche se con motivazioni completamente differenti, dall'Islam intransigente. Questa conclusione di Service potrebbe apparire forzata, per la distanza incolmabile tra le premesse ideologiche marxiane e quelle dell'islamismo politico. Ma non lo è, se si considera la lunga marcia della rivoluzione comunista, da Marx a Pol Pot, dal centro industrializzato alla periferia contadina del mondo, iniziata da Lenin e proseguita poi fino alle estreme conseguenze da Mao Zedong. Per approdare a qualcosa che Marx non avrebbe mai immaginato: la progressiva orientalizzazione del comunismo.
Nel corso di questo processo sono cambiate molte cose e sono stati profondamente modificati sia l'originario anticapitalismo di Marx sia le sue idee sul modo come costruire la futura società comunista. È vero che a questo riguardo Marx non forniva indicazioni precise, ma senza dubbio era convinto che essa dovesse partire dal livello raggiunto nei Paesi dove la produzione capitalistica era più sviluppata e offriva perciò solide fondamenta e non, come invece è avvenuto, da condizioni di arretratezza economica spesso molto gravi. Si è tentato persino d'impiantare il marxismo in Etiopia, in Angola e in Mozambico, un tentativo che avrebbe fatto sorridere e forse inorridire Marx. Service descrive assai bene questa evoluzione, o piuttosto involuzione, del marxismo, dovuta alle condizioni dei Paesi in cui penetrava molto più che alla volontà degli uomini. Del resto, l'aveva detto anche Marx: le circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze. E aveva sbagliato solo perché, in realtà, le circostanze fanno molto di più. Senza dubbio, come scrive Robert Service, «il comunismo non è stato un rivestimento da sovrapporre alle precedenti tradizioni nazionali», ma quelle tradizioni hanno contato moltissimo e sono riemerse con forza appena il comunismo è entrato in crisi. E non mi riferisco alla croce ortodossa che porta al collo Putin, ma a tutto il resto.
A proposito dell'orientalizzazione del comunismo, Service ricorda lo scambio di lettere tra Marx e Vera Zasulic, che giudica breve ma significativo, sulla possibilità della rivoluzione comunista nella Russia contadina. Marx assunse allora una posizione favorevole, anche se con delle riserve (in realtà contraddiceva tutto quello che aveva scritto fino ad allora). Quelle lettere perciò assunsero un forte rilievo con l'interpretazione terzomondista del marxismo, una delle più grandi forzature politico-culturali della storia del XX secolo. Con essa si cercò di sostituire i contadini agli operai, la campagna alla città, l'Oriente all'Occidente. È probabile che non ci fosse altro da fare, se si voleva continuare a perseguire l'obiettivo della rivoluzione, ma resta il fatto che il marxismo terzomondista, nel solco di uno spostamento verso la periferia del mondo iniziato da Lenin, fu notevolmente diverso dal pensiero di Marx ed Engels.
Già i due fondatori del movimento comunista del resto, come rileva Service, avevano constatato, delusi, che le loro idee nel XIX secolo non progredivano nei Paesi più avanzati, ma in quelli economicamente più arretrati. In Europa rimasero sempre minoritarie. La comunistizzazione della sua parte orientale non fu frutto di un movimento spontaneo, ma dell'esito della Seconda guerra mondiale e nel 1949 la rivoluzione comunista trionfò in Cina, un Paese ancora più arretrato della Russia del 1917. In una canzone cinese era detto: «Il comunismo è il paradiso./ La comune è la scala. / Se costruiamo questa scala, / possiamo salire ad ogni altezza». La scala portò prima all'inferno della «rivoluzione culturale » voluta da Mao Zedong e poi, per il contraccolpo, alla restaurazione in Cina di un capitalismo senza liberalismo. Service illustra questo cammino in maniera chiara e dettagliata, ma mi sembra che non ne tragga tutte le conclusioni. Solo sulla base dell'orientalizzazione del marxismo possono essere spiegati l'accostamento fatto nelle pagine finali tra l'anticapitalismo islamico e quello comunista, nonostante la sorte riservata ai comunisti nei Paesi dove l'islamismo intransigente è al governo. E anche certe convergenze, apparentemente incredibili, tra l'avversione all'Occidente dei simpatizzanti dell'islamismo radicale e quella di movimenti o di singoli che continuano a dirsi, molto impropriamente, eredi di Marx.

Discorso pronunciato da Piero Calamandrei al III Congresso dell’Associazione a difesa della scuola nazionale (Adsn), a Roma l’11 febbraio 1950
Facciamo l´ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura.
Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di stato hanno il difetto di essere imparziali. C´è una certa resistenza; in quelle scuole c’è sempre, perfino sotto il fascismo c’è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un’ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A "quelle" scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d’occhio i cuochi di questa bassa cucina. L’operazione si fa in tre modi: ve l´ho già detto: rovinare le scuole di stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico.
Pubblicato nella rivista Scuola Democratica, 20 marzo 1950.