giovedì 16 ottobre 2008

Repubblica 16.10.08
Notte bianca alle elementari, licei e università occupati
Scuole in rivolta contro la Gelmini: dalle elementari, ai licei, alle università.
Cortei, assemblee e fiaccolate: la protesta dilaga in tutta Italia
E i sindacati chiamano anche l´università allo sciopero generale a metà novembre
di Marina Cavallieri


ROMA - Mamme combattive, padri con computer per aggiornare i blog, maestre preoccupate. E poi bambini, tanti, un po´ per giocare, un po´ per capire. È stata la giornata più insolita, la notte più lunga della scuola italiana.
Dal tramonto all´alba, tanto è durata una protesta spontanea e fantasiosa, una resistenza pacifica, esplosa in centinaia di aule di periferia, nelle strade di quartieri borghesi, negli istituti illuminati a tarda sera. In tutte quelle anonime cittadelle del sapere, piene di disegni, graffiti e buona volontà, che sono le scuole pubbliche, dalle elementari all´università, che in una Notte bianca, di luna piena, hanno ritrovato un sentimento comune e un inaspettato imprevisto scatto d´orgoglio. «Perché la scuola pubblica non sia ridotta ad un fantasma», questo lo slogan che ha unificato le proteste sbocciate come dal nulla che si sono diffuse a Bologna, Roma, Milano, Napoli, Pisa, Parma, Viareggio, Torino, Brescia e in tante altre città.
Nel "Gelmini night & day" hanno marciato insieme compatti genitori e insegnanti, è la nuova alleanza che si è formata contro i tagli e il maestro unico, a favore del tempo pieno, un movimento fluido, spontaneo, che preferisce i blog al ciclostile, odia le etichette politiche «non vogliamo strumentalizzazioni», favorisce le contaminazioni, infatti hanno aderito anche studenti delle medie e universitari che a loro volta hanno dato vita a mobilitazioni nei licei e negli atenei. Perché questa non è una battaglia generazionale ma trasversale contro «l´attacco al sapere pubblico», come si legge nel comunicato dei genitori di Pisa.
«Non è una protesta politicizzata, è un movimento spontaneo, istintivo, nato su un gigantesco passaparola», spiega Simona, madre di due bambini che frequentano la scuola elementare Crispi, di Roma, che ha aderito alla notte bianca. «Il maestro unico, i tagli al tempo pieno sono un passo indietro e incidono sulla qualità della scuola e della vita delle persone, perché né le madri né i bambini sono più quelli di una volta». Una protesta che si nutre di assemblee e di capannelli ma è su internet che si amplifica e corre veloce, nei siti improvvisati, nei blog dove si dibatte fino a notte fonda.
«È nato un movimento trasversale che sta crescendo anche se le possibilità di incidere sul decreto sono ormai poche ma ci saranno tutti i regolamenti, la gestione del dimensionamento, gli organici dove possiamo ancora fare qualcosa magari con una legge di iniziativa popolare», dice una maestra che sfila nella fiaccolata che si è tenuta nel quartiere Prati. A Bologna tra cene sociali, pic nic, assemblee permanenti dove sono stati invitati anche genitori e professori, la mobilitazione è stata contagiosa, tanti i licei occupati e le scuole elementari aperte perché da loro è partita la Notte bianca.
Fiaccolata anche a Napoli a piazza del Plebiscito mentre a Milano i primi a scendere in piazza, ieri pomeriggio, sono stati i bambini della «Casa del Sole», storico istituto dentro al parco Trotter, culla di ogni contestazione che si ricordi. Una ventina le scuole elementari coinvolte. Assemblee anche negli atenei di Roma, Milano, Pisa, Bologna dove Lettere è stata occupata. Nelle aule universitarie la protesta assume sfumature meno festose, forse più cupe. «Non saremo noi a pagare i tagli», era scritto in uno striscione alla Sapienza. Il 14 novembre ci sarà uno sciopero generale ma intanto si discute di quello dei Cobas di domani per capire chi va e chi no.

Repubblica 16.10.08
Le mamme delle elementari sulle barricate "Mai occupato prima, ma stavolta ci vuole"
"Se arriva la Digos torniamo a casa, non siamo martiri, ma l´importante è farci sentire"
di Michele Smargiassi


BOLOGNA - I sacchi a pelo sono a casa, «ma ci metto un attimo a andarli a prendere». Le bimbe sono eccitatissime: stanotte si dorme a scuola? Con mamma e papà, come in campeggio, però tra i banchi? Questa sì che è un´avventura. «Però ci leggerete lo stesso la favola della buonanotte?». Papà Angelo ha spiegato alle due figlie, prima e terza elementare, che sarà un po´ una festa e un po´ una protesta, che «vogliamo tanto bene alla scuola che ci dormiamo dentro perché non ce la rovinino». E adesso sarebbero deluse se non accadesse, anche se questo alle ore 17 è solo il programma provvisorio della famiglia Guerriero e di un´altra ventina: «Stanotte vediamo, se all´una arriva la Digos ci diamo la mano e andiamo a casa, mica siamo martiri anti-Gelmini, quel che conta è farci sentire». Tra le decine di scuole elementari bolognesi che hanno proclamato la «notte bianca» contro i decreti del ministro dell´Istruzione, la Mattiuzzi-Casali è una di quelle dove i genitori hanno (quasi) deciso di occupare davvero la scuola «fino all´alba» come c´è scritto sui volantini. Ma non sono un covo di rivoluzionari. Angelo forse è l´unico che al liceo abbia «fatto qualcosina», ma non ha mai avuto tessere. Veronica, architetto, politica invece non ne ha mai fatta, ma ora brandisce lo striscione ideato col figlio che va in prima ("Non voglio una scuola fatta coi piedi", e sotto impronte colorate), e solo altri due figli piccoli le impediscono di stendersi anche lei in corridoio: «Occupare una scuola è più necessario adesso di quand´ero studentessa io».
Per mobilitare le mamme (più le mamme dei papà), le mamme tassiste cuoche colf e lavoratrici, e farle diventare anche mamme protestatarie, cos´è scattato? «Non ho mai fatto politica, è questo che mi dà la carica», Simona Blosi ha due figlie alle Fortuzzi, «sono una professionista, da vent´anni lavoro sola in un ufficio, per la prima volta capisco che le cose si cambiano insieme, e quel che non ho fatto a diciott´anni lo devo fare adesso». Ma perché adesso? «Perché stavolta la scuola non la cambia, la vogliono tagliano»: anche Sandra, commessa, è al suo primo corteo, quello che esce dalle Romagnoli, una delle scuole più di frontiera della città, quartiere Pilastro, più immigrati che italiani in molte classi. In testa i maestri sindacalizzati scandiscono slogan, più pratici di queste cose. I genitori con carrozzine e bici seguono un po´ esitanti. «Siamo ancora pochi», non s´accontenta Mirella, rappresentante d´istituto. Ma un movimento di mamme auto-organizzato non nasce già bell´e pronto. È un "partito" cresciuto pian piano in quei minuti quotidiani di chiacchiera libera davanti ai cancelli prima della campanella, «Ma è vero che dall´anno prossimo escono alla mezza? Dovrò comprarmi una nonna», battute e paure, si chiedono lumi alle maestre, «dai tigì non si capisce», giri di email, riunioni in pizzeria, «bisogna fare qualcosa», l´emozione del primo volantinaggio a quarant´anni, come ciclostile le stampanti dei computer domestici, «ciascuno faccia cinquanta copie», tutto nel clima un po´ goliardico da prove per la festa di fine anno, «vince una pizza chi disegna il simbolo più bello della notte bianca»; per la cronaca ha vinto un piccolo spettro che sta sveglio la notte «perché la scuola pubblica non sia ridotta a un fantasma».
«Movimento trasversale» per la maestra Laura delle Romagnoli, «perché non è più in gioco un´idea diversa di scuola, come con la Moratti, ma un´idea di meno scuola, e questo non piace neppure a chi vota Berlusconi». L´importante è «non cadere in politica», spiega Marina D´Altri, figlie in seconda e terza; nel suo gruppo è stata decisa questa regola: «si criticano i ministri ma non il premier». Tiro libero su "Gel/mini, il gel che fa rizzare i capelli", zitti su Silvio. Se poi la politica reagisce, ignorarla: Daniele Turchi, papà alle Longhena, è stato decorato sul campo, qualche giorno fa, da un uovo che gli ha centrato la giacca durante un incontro non proprio cordiale col deputato Pdl Garagnani ben difeso dai suoi, ma non ne vuol parlare perché «l´obiettivo non è far la guerra a un governo, ma difendere un bene necessario ai nostri bambini».
Per questo si portano i figli in corteo. «Strumentalizzati», si sentono rinfacciare. «Coinvolti», ribatte Angelo, «c´è differenza. Chiaro che vengono, se glielo chiedono mamma e papà, ma sono in grado di capire che lo facciamo per loro. E poi siamo stati chiari: se i bimbi sono in imbarazzo, non li si porta». «I bambini strumentalizzati sono quelli piazzati per ore davanti alla tivù», è più netta Veronica, «come accadrà in tante case dopo i tagli della Gelmini». Verso sera i cortei s´incrociano, clown bande palloncini, poi entrano nelle scuole concesse dai dirigenti per assemblee e spettacoli, ma solo fino a mezzanotte, chissà come finirà. Sgomberare occupanti di scuola che magari hanno passato gli anta, anche per la Digos sarebbe un debutto.

www.retescuole.net
www.udu.it

l’Unità 16.10.08
Proteste negli atenei, il 14 novembre lo sciopero
Agitazione contro le norme che bloccano la stabilizzazione dei precari degli enti di ricerca


SONO USCITI DALLE UNIVERSITÀ, a Torino, Napoli, Roma. Studenti, dottorandi, ricercatori, personale non docente. Gli atenei hanno iniziato a far sentire la propria voce contro la coversione in legge di un decreto passato in aula ad agosto, mentre le università erano chiuse, e che rischia di mettere in pericolo i già disastrati bilanci degli atenei italiani.
Le parole del ministro Mariastella Gelmini sul fatto che «gli studenti vanno rimessi al centro della nostra missione, tornando a fare dell’università uno strumento straordinario di mobilità sociale e concentrando i nostri sforzi sulla qualità dell’offerta», non coincidono con i tagli previsti da quella «legge 133 del 6 agosto 2008». Da più parti, come all’università «La Sapienza» di Roma si chiede ai Rettori il blocco della didattica. Oggi il rettore della prima università romana Luigi Frati discuterà con loro nell’assemblea di ateneo. Le richieste che arrivano dalle facoltà in mobilitazione chiedono lo stop della didattica. In caso di risposta negativa gli studenti potrebbero anche decidere di occupare l’università.
Gli appuntamenti per far sentire la propria voce non mancano. Già domani a Roma, nell’ambito del corteo organizzato dalle rappresentanze di base ci sarà uno spezzone organizzato dagli studenti. Ma è di ieri anche la notizie di un’ulteriore mobilitazione dei sindacati confederali, che, dopo lo sciopero generale del 30 ottobre, potrebbero proclamarne uno di settore il 14 novembre: «Sarà il culmine di una grande fase di mobilitazione sociale - spiega Domenico Papaleo, segretario generale Slc-Cgil - che vedrà unite tutte le sigle sindacali per difendere i tagli indiscriminati che il Governo vuole applicare ad università, ricerca e conservatori». La spinta ad accelerare la richiesta di uno sciopero è arrivata proprio dal basso, dalle contestazioni spontanee di questi giorni. «Non c’è un progetto che si possa chiamare tale - sostiene Luigia Melillo, responsabile dell’associazione professionale universitaria - mentre si stanno applicando forti tagli che assieme al blocco del turn-over metteranno in ginocchio il sistema universitario italiano».
e.d.b.

l’Unità 16.10.08
Nel fortino della Sapienza: «Pronti al blocco, non vogliamo l’università in mano alle banche»


La lezione di Diritto pubblico sullo Statuto Albertino del professor Francesco D’Onofrio, esponente Udc già ministro della Pubblica Istruzione, è interrotta intorno alle undici e mezza dall’assemblea degli studenti arrivati in massa nell’aula A al secondo piano di Scienze Politiche della Sapienza. L’ex ministro dell’Istruzione si ferma ad ascoltare l’assemblea ed interviene solo per una breve nota: «Almeno qui si discute, al Senato non è stato possibile».
Già, perché l’obiettivo principale della protesta che qui come in altre parti d’Italia ha già acceso focolai nelle facoltà di Psicologia, Fisica e Lettere, è la legge 133 del 2008, ennesima conversione di un decreto legge (questa volta di finanza), passata a Palazzo Madama in pochi minuti nell’agosto trascorso.
Una legge che tiene dentro, per quanto riguarda l’università, tagli di 1,5 miliardi in 5 anni, la possibilità per gli atenei di trasformarsi in fondazioni di diritto privato e un rallentamento del turn-over al 20% (ogni cinque professori pensionati se ne potrà assumere uno).
Eppure non c’è solo questo nelle parole di Dario, Vanessa, Luca, Francesco e Carlo. Non c’è solo questo nello slogan della protesta che all’una del pomeriggio parte dall’aula di Scienze Politiche per arrivare in un corteo interno a Lettere e poi uscire per strada, su un percorso concordato che gira attorno all’università seguendo la direzione del traffico.
Lo slogan che afferma «Noi la crisi non la paghiamo» è il manifesto di questa generazione tenuta a mollo negli atenei italiani, convinta che in un diverso modello di sviluppo potrebbe essere considerata una risorsa per il Paese. E invece è messa dietro «la competizione dei tondini di ferro con la Cina». E alle beghe di cassa.
«Questa crisi non l’abbiamo determinata noi, ma gli speculatori. Le banche a cui questo decreto vorrebbe dare la possibilità di entrare all’università». Luca Cafagna ha 24 anni, studia a Scienze Politiche, e vede che nel suo futuro si sta facendo strada un modello «americano», con lo Stato che toglie soldi dal Welfare, da Sanità, Scuola e Istruzione per darlo in mano alle banche «e non coglie il segno storico di quello che sta succedendo». Con le banche che arrancano davanti alla crisi di prestiti e mutui «di quelle famiglie che devono pagare l’assicurazione per gli ospedali e mettere da parte i soldi per iscrivere i figli all’università». Un’idea condivisa da Francesco Raparelli, che di anni ne ha 30 e prende 800 euro al mese per fare un dottorato di ricerca in filosofia politica a Firenze: «340 euro se ne vanno per l’affitto, 250 per spostarsi ogni mese tra Roma e Firenze. E questo è solo il presente perché il futuro non c’è. Siamo passati dall’incertezza alla catastrofe». Certo, afferma, quando iniziò l’università aveva idea di concentrarsi sullo studio, di avviarsi sul percorso scivoloso della ricerca che in Italia non ha mai pagato in termini economici. Oggi, però, raggiunto quel primo obiettivo, davanti non vede niente. E non è colpa solo di questa legge 133 che toglie soldi all’università senza nemmeno disegnarne un assetto coerente. È che da anni il Paese ha scelto di concentrarsi su altro.
Vanessa, che di anni ne ha 24 e frequenta Scienze Politiche, è convinta di stare studiando a vuoto, che quelle lezioni che segue giorno per giorno alla fine non la porteranno nel posto che meriterebbe. Che gli stessi insegnamenti a volte siano «troppo specifici» per essere spendibili nel mondo del lavoro. Che loro, alla fine, saranno dei precari che non si spenderanno nelle cose che hanno studiato. Ma che si fa? Cosa chiedono questi ragazzi? Risponde sempre lei: «Chiediamo che lo Stato investa sull’università e sulla ricerca. Che investa su di noi e che non ci tratti come una questione finanziaria. Guarda, già ci hanno abituato con la messa in funzione dei “crediti” e dei “debiti” scolastici». Come dice Stefano, 25 anni, due esami alla tesi e un presente da studente-lavoratore (proiezionista e gestore di un banchetto che vende libri): «Non è possibile che a questa età dobbiamo ancora vivere con i genitori perché non riusciamo ad avere i soldi in tasca per andarcene di casa». È lui che nell’aula di Scienze Politiche ha lanciato intorno all’una l’idea del corteo interno, mentre nei plessi di fianco continuavano a tenersi assemblee pubbliche.
Dietro a queste proteste non ci sono partiti, come spiega Dario, ma reti e movimenti di studenti. Nell’immaginario collettivo c’è ancora la Francia. Non quella del maggio di quarant’anni fa, ma quella degli studenti che nel 2005 misero all’angolo il «contratto di primo impiego» (Cpe) del governo di Dominique De Villepin (Nicolas Sarkozy ministro dell’Interno). Quella delle occupazioni e dell’ultima lotta studentesca vinta.
Prima di tutto, però, la battaglia va combattuta contro il luogo comune che sta sommergendo, in nome di una bizzarra efficienza economica, una parte delle battaglie della sinistra nel nostro Paese. Quello che tiene tutto sullo stesso piano. Sintetizzato nello slogan di ribellione del personale non docente rivolto all’assemblea di Scienze Politiche: «Noi non siamo fannulloni, voi non siete bamboccioni».
Eccolo il nodo del problema. Sottolineato anche dalle parole di Vanessa che spiegano quel «Noi la crisi non la paghiamo». Non è una ritirata dei ragazzi dalle proprie eventuali responsabilità: «È al contrario una presa di coscienza. Noi vogliamo impegnarci. Vogliamo fare la nostra parte. Vogliamo solo che qualcuno creda in noi».
La legge 133 è la prima battaglia di una lotta politica che appare lunga e che non tiene dentro, per ora, nemmeno tutto il corpo studentesco.
Dario spiega: «Vogliamo il blocco della didattica. È l’unico segnale possibile per dire che l’università reagisce a questo ennesimo taglio». Oggi il Pro-rettore Luigi Frati risponderà alla richiesta degli studenti. Non sembra ci si orienti su questa linea. Come spiega Fulco Lanchester, preside di Scienze Politiche: «Io verrò all’assemblea, ma devo anche garantire che chi voglia fare lezione possa farlo».

l’Unità 16.10.08
«No Gelmini day and night», notte di lotta per la scuola
Cortei, fiaccolate e assemblee da Bologna a Cosenza, da Milano a Roma. Dove è stato occupato il Mamiani
di Maristella Iervasi


L’IDEA DELLA NOTTE bianca della scuola pubblica è partita da Bologna e in un baleno i coordinamenti nazionali di genitori e insegnanti hanno dato vita al «No Gelmini Day & Night». Da Milano a Castrovillari (Cosenza), passando per Brescia, Mestre, Viareggio, Parma, Roma, e Sassari, la protesta anti-Gelmini è scattata all’unisono: al mattino tutti in classe, poi dall’imbrunire a mezzanotte tutti nelle scuole per un pigiama-party o nelle piazze dei municipi a «far rumore», in corteo con fiaccolate o riunuti in assemblee con ospiti d’eccezione. Come all’elementare Francesco Crispi di Monteverde Vecchio, a Roma, dove Don Roberto Sardelli, il sacerdote che nel ‘68 fondò la «scuola 725» tra i figli dei barraccati dell’Acquedotto Felice e dal quale fu tratto il documentario «Non tacere», si è seduto tra le mamme e i papà del quartiere raccontando la sua esperienza unica. La ministra sottoaccusa, Mariastella Gelmini, intanto ieri mattina è salita al Quirinale per fornire chiaramenti al presidente Napolitano sui suoi provvedimenti che non piacciono neppure alle Regioni.
Il movimento anti-Gelmini non si ferma. Dalle elementari la mobilitazione sta facendo breccia anche nelle medie, mentre tra gli studenti delle superiori è già in atto. Tant’è che ieri è partita la prima occupazione, il liceo Classico «Mamiani» di Roma lo definisce «presidio permanente», una nuova forma di autogestione, volta a far comprendere a tutti cittadini i reali disagi e i punti critici della controriforma sulla scuola.
Parate rumorose e colorate nel quartiere multietnico di Piazza Vittorio, nel primo municipio capitolino. In 300 tra mamme, papà e bambini della Beccarini e della Donati hanno ribadito la loro contrarietà al maestro unico. «Il modo migliore per l’integrazione e per imparare l’italiano - sottolinea un genitore bengalese - è quello di di vivere insieme e non di creare classi separate». Un chiaro riferimento alla mozione leghista sulle classi differenziate per gli immigrati, da poco passata alla Camera. E non finisce qui. Il Coordinamento «Non rubateci il futuro» sottolinea che una una riforma della scuola è necessario, «ma non così: tagliano i fondi, tagliono le ore e rifiutano qualsiasi confronti in Parlamento e nel paese con chi la scuola la fa e la vive tutti i giorni». Così ecco che solo a Roma i concentramenti anti-Gelmini erano oltre una decina. E L’elementare «Andersen» di Roma Nord va avanti l’occupazione senza interrompere la didattica.
Intanto al Senato non è escluso il bis della fiducia sul decreto 137 la commissione Affari Costituzionali ha dato parere favorevole (Pd, Idv e Udc hanno votato contro). Il popolo della scuola ne è cosciente. Tant’è che domani riponderà all’appello dei Cobas e il 30 ottobre allo sciopero generale dei confederali.

l’Unità 16.10.08
Apartheid scolastico, Lega isolata
Classi differenziali, sdegno da tutte le forze politiche. Epifani: atto di inciviltà
di Simone Collini


JEAN LEONARD TOUADI parlamentare del Pd che è nato nella Repubblica del Congo e che certe dinamiche le conosce bene, racconta che «la Lega non si è inventata niente». E spiega: «Le ‘classi ponte’ proposte dal Carroccio esistevano già qualche anno fa, nel Sudafrica delle discriminazioni. La stessa parola “Apartheid” significa, in lingua boera, “sviluppo separato”. Stiamo giocando con il fuoco». L’eurodeputato della Sinistra europea Vittorio Agnoletto ricorre invece agli studi storici: «Prima di Cota ci aveva già pensato Goebbels». Il riferimento al ministro della Propaganda nazista viene argomentato col fatto che «classi ebraiche statali» e per stranieri «furono istituite dal regime nazista»: «La propaganda spiegò al popolo tedesco che i cambiamenti avrebbero migliorato le condizioni di vita tanto dei cittadini del Reich quanto degli stranieri», ricorda. «Oggi Cota usa parole non molto diverse».
In realtà, la mozione presentata dal parlamentare leghista e approvata l’altro ieri alla Camera con i voti del centrodestra fa di più. Per giustificare la norma delle classi separate per gli alunni stranieri che non abbiano superato dei test ad hoc, il provvedimento introduce una formula piuttosto circonvoluta: «La scuola italiana deve essere in grado di supportare una politica di “discriminazione transitoria positiva”, a favore dei minori immigrati». Per l’opposizione, ma anche per pezzi della maggioranza, per il sindacato, per amministratori locali di diverso colore politico, per associazioni le più diverse e per il Vaticano, questa mozione introduce una «discriminazione» punto e basta.
«Dio ci scampi dall’idea di classi separate», dice Walter Veltroni definendo «inconcepibile» il documento approvato. Il segretario del Pd invita ad immaginare cosa sarebbe accaduto se «nella Torino degli anni 60 fossero state fatte delle classi differenziate per i figli di immigrati che non parlavano bene l’italiano. Che Italia avremmo costruito?». Il leader dei democratici promette che se il Pdl tenterà di trasformare la mozione leghista in una legge, il suo partito «farà in aula tutto quello che è possibile fare per bloccarla».
Il destino della mozione è tutt’altro che chiaro. È esclusa la riconversione del testo in emendamento al decreto Gelmini, che martedì sarà discusso al Senato. Piuttosto, le voci critiche che si levano nello stesso centrodestra e anche in ambienti esterni al mondo politico fanno prevedere un percorso quantomeno ad ostacoli.
La presidente della commissione Bicamerale per l’infanzia Alessandra Mussolini parla di «provvedimento razzista» e chiede un incontro urgente con il ministro dell’Istruzione Gelmini. Gianni Alemanno definisce «necessaria una pausa di riflessione prima che la mozione si traduca in norma di legge». Il sindaco di Roma auspica anche «un confronto con il mondo del volontariato, l’associazionismo cattolico e con tutti coloro che operano nel campo dell’istruzione e dell’immigrazione».
Tutti settori che hanno già espresso dure critiche. Il segretario della Cgil Guglielmo Epifani parla di «atto di inciviltà verso tutti i bambini, siano essi figli di immigrati o di italiani» e di una divisione che «richiama gli aspetti bui dell’apartheid». «L’idea di ghettizzare bimbi immigrati in classi differenziate» non piace neanche al segretario dell’Ugl Renata Polverini. Preoccupazione viene espressa dall’Anci, dall’Arci, da Legambiente e da tante altre associazioni e sigle del mondo del volontariato. E anche il Vaticano è intervenuto auspicando adeguate politiche per l’integrazione: «Un indicatore molto importante del grado di inserimento dei giovani - dice l’arcivescovo Agostino Marchetto, segretario del Pontificio Consiglio per la Pastorale dei Migranti e degli itineranti - è la loro integrazione nel sistema formativo del Paese di residenza».

l’Unità 16.10.08
Nel mondo 70 milioni di bimbi senza scuola, 250mila sono soldati
Il rapporto di Save the Children. Dure accuse al governo italiano avaro di fondi ma «generoso» nella vendita di armi ai Paesi in guerra
di Emiliano Dario Esposito


UN FUTURO Riscrivere il futuro, quando quello che si prospetta per milioni di bambini è senza speranza, segnato. Ci sta provando Save the Children, che ha
presentato ieri il rapporto sui primi due anni della campagna «Riscriviamo il Futuro», incentrata sullo sviluppo scolastico e la cessazione dell’uso di bambini soldato nei paesi in conflitto. Un tentativo che sta dando i suoi frutti, ma che vede le istituzioni - mondiali, ma italiane in particolare - insensibili, assenti.
La fotografia della realtà presentata dall’associazione è inquietante. L’indifferenza dei Paesi ricchi fa sì che 70 milioni di bambini non possano andare a scuola, ipotecandone la vita, svalutandone ogni potenzialità. Facendone facile preda di fondamentalismi, di promesse di «giochi di guerra» da parte di uomini senza scrupoli. Le cifre sono terribili: 250 mila minori suono attualmente arruolati in eserciti non governativi. Di recente in guerra due milioni sono morti, sei milioni sono stati feriti, resi invalidi o hanno subito gravi traumi psicologici.
E sotto il fuoco delle armi e della violenza collassa anche il sistema scolastico dei paesi in conflitto: insegnanti uccisi, scuole distrutte o trasformate in caserme. In Afghanistan, ad esempio, solo la metà dei bambini tra i 7 ed i 13 anni frequenta la scuola. In Nepal i maoisti, ora al governo, chiusero mille scuole e rapirono 12 mila studenti per indottrinarli o arruolarli nell’esercito ribelle.
Vernor Munoz - responsabile delle Nazioni Unite per il diritto all’educazione - parla della scolarizzazione come del primo dei diritti inalienabili. «La Dichiarazione Universale dei diritti umani, la Carta dei diritti dell’infanzia e lo Statuto di Roma affermano chiaramente - spiega Munoz - che il diritto all’educazione non è suscettibile di sospensioni, la guerra non può tenere i bambini lontani dalla scuola. L’istruzione riunisce le giovani vittime della guerra, ne ricuce il tessuto sociale».
A proposito di quanto la campagna «Riscriviamo il Futuro» non sia sostenuta dal governo italiano, Valerio Neri - direttore generale di Save the Children Italia - è chiaro: «Nel 2007 Save The Children da sola in Italia ha raccolto 2,5 milioni di euro, laddove il governo italiano ne ha stanziati soltanto tre». Il nostro Paese, del resto, è al terz’ultimo posto nella lista dei grandi donatori in aiuti all’istruzione di base. «Siamo una nazione ipocrita - continua Neri - noi, come gli altri del G8, vendiamo armi a stati che non rispettano i diritti umani, stati che fanno imbracciare queste armi ai bambini. L’Italia tra il 2002 ed il 2007 ha venduto armi in Uganda, Eritrea, Algeria, Colombia, Congo». Ma anche Afghanistan, Burundi, Ciad, Nepal, Nigeria, Pakistan, Sierra Leone. Soprattutto bombe a grappolo, «dormienti» fino a che non vengono calpestate, spesso proprio da bambini. E intanto il nostro governo riduce i fondi per la cooperazione internazionale.
I Paesi del G8, Italia compresa, detengono l’84% delle esportazioni di armi nel mondo. I compratori, d’altra parte, sono Stati che spendono 18 milioni di dollari l’anno in armamenti e nulla per le proprie scuole: considerano i figli delle loro terre come niente più che soldati.
Non c’è soltanto denuncia, nel rapporto di Save the Children: a due anni dalla partenza dell’iniziativa «Riscriviamo il futuro» l’associazione ha raggiunto risultati concreti. Sei milioni di bambini hanno adesso garantita un’educazione primaria, grazie a donazioni per un totale di 300 milioni di euro. La raccolta di fondi continua, ma l’obiettivo di creare un movimento, di coinvolgere i governi dei paesi più sviluppati, è ancora lontano.

Repubblica 16.10.08
Berlusconi a Bruxelles parla della sua longevità politica
"Governerò per 19 anni quasi come quello là..."
di c.t.


BRUXELLES - «Ho fatto i conti. E alla fine di questa legislatura sono quasi 19 anni che sto qui. Quanti anni è stato invece. quel signore là?». E «quello là» sarebbe Benito Mussolini. Che, senza elezioni democratiche e con poteri dittatoriali, ha guidato l´Italia per un «Ventennio». Ad azzardare il paragone è stato Silvio Berlusconi. Al termine della conferenza stampa che ha chiuso la prima giornata del vertice europeo, non è riuscito a trattenere la battuta. Ha salutato i giornalisti, gli ha spiegato di considerarsi un «veterano» di questi summit e poi, sorridendo, ha fatto un po´ di conto. Dal 1994 (quando è sceso in campo) al 2013 (quando terminerà la legislatura) sono, appunto, 19 anni. Il Duce, in realtà, a Palazzo Venezia c´è stato per un po´ di più: quasi 21 anni ininterrotti, dal 31 ottobre del 1922 al 25 luglio del 1943. Il Cavaliere, invece, ha omesso le sue «pause», ha fatto finta di essere stato a Palazzo Chigi per l´intero periodo. Nel ‘94 è stato presidente del Consiglio solo per 7 mesi e poi è tornato al governo nel 2001 fino al 2006. Sta di fatto che ai cronisti non è sfuggito il parallelo e gli hanno fatto notare che per pareggiare il «Ventennio» gli manca ancora un anno. Il tutto è nato dal ruolo che a suo giudizio svolge l´Italia nel Consiglio europeo. «Noi siamo i più esperti. Io e Giulio (Tremonti, ndr) siamo una grande coppia. Io con la mia esperienza da imprenditore, lui con la sua genialità». Anche perché, osserva, oltre ai «big» dei paesi fondatori, «ci sono quelli dell´Est, ragazzi nuovi. Noi, ahimé, siamo dei veterani. Se penso che con ancora 5 anni, io alla fine sarò stato qui 19 anni».
Chi sa se facendo tornare la memoria a 60 anni fa, non abbia avuto un peso l´ultimo sondaggio citato da Berlusconi. Sulla sua scrivania, infatti, spunterebbero cifre «bulgare», o per meglio dire «nostalgiche». «Io - ha riferito - ho dei sondaggi affidabili, che hanno sempre avuto ragione, e che mi danno il consenso al 70,2%. E´ una cosa francamente imbarazzante, da lì non si può che scendere, lo so». Eppure, in passato, aveva accuratamente evitato toccare la materia. Da Fascismo e Resistenza si era sempre tenuto alla larga. «Non voglio entrare in questa discussione che va lasciata in un angolo - aveva detto il 15 settembre scorso dribblando le polemiche suscitate dai richiami di Ignazio La Russa e Gianni Alemanno alla Repubblica di Salò - . Sono abituato a guardare avanti e non mi attardo in questi problemi che non mi toccano, lascio questa discussione ad altri».

Repubblica 16.10.08
"Con le norme taglia-precari il ministro non sarebbe professore"


ROMA - «Con le norme "ammazza precari" il ministro Brunetta non sarebbe diventato professore». Lo ha denunciato nel suo intervento alla Camera il deputato del Pd componente della commissione Cultura, Giovanni Bachelet, che aggiunge: «Brunetta dovrebbe sapere più di altri che fermare simultaneamente i concorsi e la stabilizzazione di molti ricercatori negli enti di ricerca sarebbe una catastrofe. D´altronde, proprio lui, è diventato professore associato con i concorsi del 1981, quei concorsi anche detti "grande sanatoria", con i quali tutti quelli che a vario titolo erano precari nelle Università sono stati accettati come professori con un concorso riservato». «Quello che più critichiamo - prosegue Bachelet - è che il governo con la finanziaria blocca il turnover dell´Università ed impedisce nuovi concorsi e con l´emendamento "ammazza precari" ferma le stabilizzazioni».

Repubblica 16.10.08
La figlia di Guido Rossa "Liberate il Br che uccise mio padre"
"È stato in prigione 28 anni ormai ha pagato la sua colpa"
di Concetto Vecchio


Appello al giudice che ha negato la condizionale all´ex br Guagliardo: "Ci ripensi"

ROMA - Il tribunale di sorveglianza nega la libertà condizionale all´ex brigatista Vincenzo Guagliardo, l´assassino del sindacalista Guido Rossa, e la figlia della vittima, Sabina Rossa, deputata pd, a sorpresa si dice in disaccordo: «I magistrati ci ripensino. Guagliardo l´ho conosciuto, è un uomo ravveduto, che ha pagato il conto con la giustizia». Nome di battaglia "Pippo", sessant´anni, colonna genovese, duro, irriducibile, l´ex br è in carcere dal 21 dicembre 1980, dopo l´arresto a Torino in un bar di corso Brescia. Condannato all´ergastolo. Sei anni fa ammesso al lavoro esterno, da quattro semilibero: esce la mattina da Rebibbia per andare a lavorare in un coop sociale, la Soligraf, dove insieme alla moglie, l´ex br Nadia Ponti, trasferisce su un software per non vedenti intere biblioteche, e rientra in cella alle 23. L´altro giorno la magistratura di sorveglianza di Roma ha respinto la richiesta di libertà condizionale, avanzata dal suo legale, Ugo Giannangeli. Tra le motivazioni: il fatto che non abbia mostrato ravvedimenti né coltivato rapporti con le vittime. Ma un incontro con Sabina Rossa ci fu, agli inizi del 2005, a Melegnano, e fu riportato nel libro Guido Rossa, mio padre, edito da Bur Rizzoli. La figlia gli aveva telefonato senza preavviso, poi gli aveva scritto una lettera, quindi si erano visti in un pomeriggio di fitta neve nel quale s´erano intrecciati per tre ore dolore, imbarazzo, pudore. «Penso sia mio dovere dirti com´è andata. Non davanti ai giudici o nelle aule di tribunale, ma a te lo devo...», esordì "Pippo".
Si persero di vista. Guagliardo non ne parlò mai, nemmeno nella richiesta di liberazione condizionale, con la stessa ferrea coerenza con cui rifiutava i difensori al processo: «Avvocato, taccia se non vuol fare la fine del suo collega Rogolino, pestato nel carcere di Cuneo da un militante comunista. Nella mia veste di brigatista rosso, non voglio essere difeso da nessuno», disse nell´aula bunker di Torino, il 22 febbraio 1981. Guido Rossa doveva essere gambizzato, questo è confermato anche dalle perizie. Guagliardo gli sparò alle gambe con la Beretta 81 calibro 7,65, un altro componente del commando, Riccardo Dura, lo ammazzò. Sabina aveva 16 anni. Dice oggi: «Ha fatto 28 anni di carcere, ha pagato. Trovo paradossale che il tribunale non ritenga importante il nostro incontro solo per il fatto che fu io a propiziarlo. Vorrei andare a parlare con i giudici, per spiegare che non c´è alcuna ragione che se ne stia ancora in carcere».
Rossa si è espressa contro la decisione del governo Sarkozy di non estradare la terrorista rossa Marina Petrella. «Lo trovo incomprensibile, perché in questo caso la pena non è stata espiata. Una volta in Italia, in attesa di un´eventuale grazia, sarebbe trattata con spirito umanitario, e non semplicemente sbattuta dentro una cella». Oggi Le Monde pubblica una lettera inviata dalla Petrella al suo avvocato Irene Terrel il 19 luglio nella quale afferma di provare pena e compassione per le vittime delle Br, e di ritenere «la perdita di una vita umana sempre una tragedia».

Corriere della Sera 16.10.08
La ricerca del Viminale segnala una diminuzione (meno 10,1 per cento) dei reati commessi nei primi sei mesi del 2008
Registrato un meno 12,9 per cento nei furti e un meno 4,7 per cento nelle rapine. In aumento quelle nei negozi
Omicidi in famiglia «È la nuova emergenza»
In aumento. Un delitto su quattro tra le mura di casa
di Fiorenza Sarzanini


E' il numero che spicca, il dato che inquieta. Perché calano gli omicidi commessi in Italia, ma aumenta in maniera vertiginosa il numero di quelli avvenuti in famiglia. Basti pensare che nel 2005 i delitti tra le mura domestiche erano il 14,3 del totale e nel primo semestre 2008 la percentuale è balzata fino al 24,7. Vuol dire che ben uno su quattro scaturisce da atti di violenza tra coniugi oppure tra genitori e figli.
La diminuzione dei reati
L'ultima analisi sull'andamento della criminalità da gennaio a giugno di quest'anno fornisce una fotografia eloquente di quanto sta avvenendo nel nostro Paese. Perché evidenzia, tra l'altro, come il numero dei reati compiuti da stranieri si equivalga con quello dei delinquenti italiani. A cambiare è soltanto la tipologia delle violazioni, visto che chi arriva dall'estero si è specializzato nei furti e nelle rapine di abitazione, mentre per scippi e rapine in strada e in banca rimane il predominio della malavita locale. I numeri mostrano la diminuzione forte della delittuosità, pari al 10,1 per cento. Ma fanno scattare l'allarme per quanto avviene in ambito familiare. Perché quei segnali negativi già rilevati negli anni scorsi adesso sono un dato concreto ed eclatante di quanto le esplosioni di violenza sempre più segnino i rapporti tra persone che appartengono ad uno stesso nucleo.
Nel secondo semestre del 2007 ci sono stati 308 omicidi. Di questi, il 9,5 per cento è stato commesso da appartenenti alla criminalità organizzata e il 39,7 da delinquenti comuni. Ben il 21,9 è nato invece da «dissidi familiari o per motivi passionali». La situazione già grave negli anni scorsi, è ulteriormente peggiorata. Su 297 delitti, l'8,9 per cento è stato compiuto nell'ambito di faide tra clan, il 34 da criminali comuni e quasi il 25 per cento per liti tra parenti.
Difficoltà di affermazione sociale
Secondo l'ultimo rapporto pubblicato dal Viminale e relativo al decennio che va dal 1996 al 2006 «nella maggioranza dei casi è il coniuge, il convivente o il fidanzato maschio ad uccidere la propria compagna. Questo risultato non ci sorprende: la violenza si esercita di norma dal più forte verso il più debole, di conseguenza le donne risultano più esposte rispetto ai compagni. Quando, invece, il rapporto di parentela tra autore e vittima è genitore-figlio, i maschi hanno una probabilità maggiore di essere le vittime di questo efferato crimine». Nella relazione veniva poi evidenziato come «non bisogna dimenticare che gli omicidi da parte di autore di sesso femminile sono una minima parte di quelli commessi e solitamente avvengono nei confronti del proprio partner, in ambienti quindi familiari. In Italia quasi la metà delle donne che agiscono da sole nella commissione di un omicidio hanno come vittima un uomo; la stessa situazione nelle zone del Mezzogiorno risulta più accentuata, con una differenza rispetto al dato nazionale di quasi dieci punti.
Il fenomeno dei delitti familiari è stato analizzato anche dal professor Paolo Albarello, nell'ambito di un master organizzato per conto dell'Università La Sapienza di Roma. La ricerca delle cause che scatenano esplosioni di violenza tra persone legate da vincoli di sangue o comunque da rapporti di affetto e di amore, rimane infatti uno dei campi maggiormente esplorati nell'ambito della criminologia. Secondo il docente, esperto di medicina legale, «gli individui incontrano sempre più spesso difficoltà nel dover fornire continuamente risposte, in termini di adattamento, di integrazione e di affermazione sociale ad una serie di richieste e di aspettative sempre più alte e complesse, il che aumenta il senso di insoddisfazione e moltiplica le frustrazioni. Il nucleo familiare diviene sempre più di frequente il luogo di implosione delle spesso inconciliabili aspirazioni di affermazione sociale con il patrimonio di valori interiorizzato dagli individui fin dai primi anni di vita».
Tutti in calo i «delitti predatori»
Non a caso il Sap, il sindacato autonomo di polizia, ribadisce la richiesta di «una normativa di tutela che permetta alle Forze dell'Ordine di poter intervenire, concretamente, nella prevenzione di questo tipo di reati e non soltanto nella repressione».
«È necessario investire nella formazione e nella preparazione del personale - chiarisce il segretario Nicola Tanzi - perché le dinamiche di cambiamento della società sono veloci e gli operatori, la cui professionalità spesso nasce spesso dall'esperienza personale e da doti umane non comuni, hanno necessità di essere costantemente aggiornati».
La fotografia dell'Italia criminale fornisce anche altre cifre eloquenti. Si scopre che i reati commessi nei capoluoghi sono diminuiti dell'8,3 per cento e ancor di più nelle altre aree con un calo che arriva quasi al 12 per cento. Complessivamente sono state compiute 1.286.391 violazioni penali, ben 145.208 in meno rispetto all'ultimo semestre del 2007 e 215.156 in confronto allo stesso periodo dello scorso anno. I reati «predatori» sono tutti in netto calo. Vanno giù i furti (691.619 con un meno 12,9 per cento), gli scippi (9.403, -13,4), le rapine (23.206, -4,7). Interessante è anche il dato che riguarda il rapporto tra cittadini e forze dell'ordine. Si scopre infatti che le stazioni dei carabinieri continuano ad essere il luogo dove maggiore è l'affluenza di denunce: tra gennaio e giugno il 65,5 per cento di chi doveva segnalare un delitto si è rivolto a loro.

Corriere della Sera 16.10.08
Ecco perché parlare di razze non ha senso
di Guido Barbujani


Le nostre caratteristiche variano in maniera discordante La maggior parte delle varianti del Dna sono cosmopolite
Siamo tutti diversi: abbiamo pelli, occhi e capelli di colori diversi, pesi e stature diverse; abbiamo diverse tendenze ad ammalarci e a rispondere alle stesse terapie, diverse capacità intellettive, caratteri diversi.
Da sempre l'umanità si interroga sull'origine di queste differenze. La risposta tradizionale è a lungo stata che riflettono l'appartenenza a razze diverse. La nostra specie sarebbe composta da razze, cioè gruppi ben distinti, come i cavalli o i cani. Nonostante ad alcuni sembrino evidenti, definire, e addirittura contare, queste razze si è rivelato però un problema insormontabile. Nel corso dei secoli gli elenchi pubblicati da scienziati seri hanno compreso da tre a centinaia di razze. Il problema è che le caratteristiche umane variano in maniera discordante: si possono raggruppare gli individui sulla base del colore della loro pelle, ma se si considera un altro carattere, per esempio la statura o il gruppo sanguigno, i gruppi non sono più gli stessi. Dunque, non ci sono razze non perché siamo tutti uguali (non lo siamo) ma, al contrario, perché siamo molto diversi fra noi: così tanto che non è possibile pensare la nostra diversità immaginandosi poche razze distinte fra loro.
Negli ultimi anni abbiamo imparato moltissimo sulla composizione del nostro genoma, e sulle differenze ereditarie fra le diverse popolazioni della terra. È emerso con chiarezza che nell'umanità non ci sono confini biologici: non si possono disegnare sulla carta geografica linee che separano nettamente alcune popolazioni dalle altre. La maggior parte delle varianti del Dna sono cosmopolite, cioè presenti, a frequenze diverse, in persone di tutto il mondo. Una piccola parte delle varianti del Dna è presente in un solo continente, e quasi sempre questo continente è l'Africa. Perciò nel nostro Dna non troviamo razze biologicamente riconoscibili, ed emerge che l'Africa non è un continente come tutti gli altri. Gli studi sui nostri antenati fossili ci fanno capire perché: indicano che siamo tutti discendenti di una popolazione che centomila anni fa o giù di lì stava in Africa. Da lì, i nostri antenati si sono espansi colonizzando tutta la terra, passando in Europa e Asia, e dall'Asia in Oceania e nelle Americhe. Nel corso di questa espansione, si sono estinte le popolazioni di altre creature simili a noi, che vivevano in Europa e Asia, ma non erano i nostri antenati (in Europa, l'uomo di Neandertal).
Capire la nostra biodiversità, da dove vengano, come si siano evolute e siano oggi distribuite le differenze fra tutti noi, non è solo importante in sé e per sé, ma permette di indirizzare meglio la ricerca in campo medico e farmaceutico. Permette inoltre di capire che ci sono molte differenze nei nostri modi di sentire, di pensare e di confrontarci con gli altri, ma che queste differenze sono il frutto delle diverse culture, non di una sentenza scritta nel Dna delle nostre cellule e pronunciata al momento del nostro concepimento.
Guido Barbujani, professore di Genetica all'Università di Ferrara, interverrà, insieme con Francesco Cassata, al Festival della Scienza il 24 ottobre con una conferenza sul tema «L'invenzione della razza. Le ambigue basi biologiche che hanno influenzato la storia»

Corriere della Sera 16.10.08
Una ricerca sull'incoerenza nell'ultimo libro dell'economista comportamentale
Emozioni, aspettative, norme sociali: così diventiamo logicamente irrazionali
Dan Ariely: «Scegliamo, compriamo, consumiamo in base a un imprinting»
di Roberta Scorranese


Economista comportamentale, docente al prestigioso Massachusetts Institute of Technology di Boston e alla Duke University, autore di «Prevedibilmente irrazionale» (da oggi in libreria per Rizzoli) Dan Ariely illustra la sua complessa ricerca sulle incoerenze del comportamento umano. «Ma prima — dice —, se permette, vorrei venderle un televisore ».
Irrazionalità accademica? No, solo un esempio. «Davanti a tre televisori — continua —, uno super accessoriato e costoso, un altro accessoriato ma meno costoso e un terzo intermedio, la scelta ricadrà su quest'ultimo ». Irrazionale: non scegliamo il meno costoso, ma quello che ci sembra «più simile» al meglio. E il fatto è che non sappiamo quale sia il meglio: scegliere è più difficile di quanto sembri, così ci affidiamo a impulsi che poco hanno a che fare con la ragione. «Pura "economia comportamentale" — spiega Ariely, che interverrà il 24 ottobre al Festival della Scienza —. Ossia scelte prive di razionalità, ma prevedibili. Che facciamo tutti i giorni».
Così, al supermercato acquistiamo un «tre per due», solo perché un prodotto è gratis (anche se quel sugo di noci non ci serve). In profumeria ci lasciamo sedurre da una crema solo perché costa di più e associamo arbitrariamente prezzo e valore. Ci convinciamo che un amore difficile è quello giusto solo perché ci spaventa cambiare. Per non parlare del panico (irrazionale) che attanaglia i mercati finanziari nei momenti di crisi. «Quello che sta succedendo alle Borse — dice Ariely — non è che l'emotività, umanissima, che riaffiora e che prende il sopravvento sulla razionalità ».
Per Ariely è la conferma che, a guidare le nostre azioni, sono tre forze invisibili: le emozioni, le aspettative e le norme sociali. «Difficilmente consideriamo una cosa in sé — prosegue il professore — ma la inseriamo in un contesto che faccia da termine di paragone, da confronto ». Ecco il cuore di questa ricerca: siamo incapaci di valutare le cose. Chiediamo aiuto ad altro. Alle convenzioni sociali, per esempio. Se un uomo invita una donna al cinema e le regala un profumo da cento euro, lei sorride. Ma se le regala direttamente cento euro, lei si infuria. «Non è irrazionale ciò?», ride Ariely.
Dalle piccole alle grandi scelte: nel romanzo «I duellanti» di Joseph Conrad, due ufficiali dedicano la vita a sfinirsi in un corpo a corpo, iniziato per un banale diverbio. Illogico, ma prevedibile, per il professore: «In un dato contesto, anche il minimo particolare diventa importante e determina una scelta». In fondo, in quanti si accorgono che le «guerre umanitarie» sono un ossimoro? Siamo influenzabili: ci sono avvocati che rifiutano di difendere una comunità per pochi soldi, ma lo fanno gratis se si tratta di battersi per una causa etica. E ce lo insegna anche Mark Twain, quando Tom Sawyer convince gli amici a riverniciare lo steccato semplicemente dicendo: «Che fortuna, pensate: possiamo dipingere una staccionata! ».
Siamo come le oche di Lorenz? Il famoso etologo scoprì che le oche, appena nate, si accodano al primo essere in movimento che vedono. «Così anche noi — spiega l'economista — restiamo ancorati alle prime decisioni che prendiamo». Paghiamo un paio di jeans cento euro e difficilmente, poi, ci discosteremo da questa cifra. Imprinting. Un po' come César Birotteau, indimenticabile personaggio balzachiano: da umile commesso divenne ricchissimo eppure continuò a ragionare da bottegaio. E lo ridivenne. La lezione è, quindi, che tutta la nostra esistenza è dominata da una urgenza di irrazionale? «No — conclude il professore — l'irrazionalità è una parte della nostra vita che dobbiamo imparare a riconoscere e a domare. Davanti a due prodotti di prezzo diverso abituiamoci a leggere le etichette. Mettiamo un tetto alla nostra carta di credito. E guardiamoci intorno».

Repubblica 16.10.08
Van Gogh
Diario intimo di un’anima inquieta
di Paolo Vagheggi


Da sabato, a Brescia, nel Museo di Santa Giulia, cento tra dipinti e disegni del maestro olandese provenienti dalla spettacolare collezione realizzata nel Novecento da Helene Kröller-Müller
Tra i quadri "Uliveto" eseguito nel 1889 a Saint-Rémy, un anno prima della morte
La collezionista preferiva Vincent agli altri: di lui acquistò 91 tele e 175 opere su carta

BRESCIA. Scrisse Giorgio Vasari: «Si può concludere che il disegno altro non sia che un´apparente espressione e dichiarazione di ciò che si ha nell´animo». E forse questo era anche il pensiero di Vincent Van Gogh. Lo racconta l´esposizione allestita dal 18 ottobre al 25 gennaio a Brescia, a Santa Giulia. Una mostra del progetto «Lo splendore dell´arte» che finora ha attirato nella città lombarda due milioni di visitatori e che presenta cento opere del maestro olandese: 85 disegni e 15 dipinti.
E´ il Van Gogh più segreto, intimo, quello che ha scelto il curatore, Marco Goldin, è l´artista impegnato nell´appuntare le proprie emozioni, gli scorci, i volti, tutto ciò che poi sarà espresso con la pittura. Opere su carta. Ovvero disegni e acquerelli, in alcuni casi il seme dei capolavori pittorici più noti: furono prima pensati e realizzati a carboncino o a matita.
E´ il primato del disegno che viene narrato a Brescia ed è la prima, organica mostra italiana dedicata a questa parte dell´attività di Van Gogh, è un «diario dell´anima» di questo artista che il 27 luglio del 1890 decise di chiudere la sua esistenza con un colpo di pistola. E´ un «diario» che appartiene interamente al Kröller-Müller Museum di Otterlo, che unitamente al Van Gogh Museum di Amsterdam, conserva una grande parte dell´intera produzione di Van Gogh.
Il Kröller-Müller Museum prende il suo nome da Helene Kröller- Müller (1869-1939), donna forte e carica di interessi, che collezionò più di undicimila opere d´arte. Gli acquisti furono possibili grazie al capitale accumulato dal marito, Anton Kröller, direttore della Wm. H.Müller&Co, una holding internazionale con interessi nella navigazione, nel commercio e nell´estrazione mineraria.
Helene Kröller-Müller iniziò a collezionare opere d´arte all´inizio del Novecento. L´idea prese forma nel periodo in cui frequentava, insieme alla figlia, un corso sul piacere dell´arte condotto da H.P. Bremmer. Nel 1907 il suo primo acquisto: Treno nel paesaggio di Paul Gabriel. Fu in quel periodo che Bremmer cominciò a farle visita ogni settimana. Diventò il suo consulente personale. Insieme ai coniugi Kröller-Müller, ma spesso anche su loro richiesta, visitò case d´asta, studiosi e galleristi nazionali e internazionali, cercando opera per la raccolta di Helene Kröller-Müller, che si ampliò con grande rapidità. In pochi anni divenne proprietaria della più grande collezione privata di Van Gogh nel mondo (esclusa naturalmente quella della famiglia Van Gogh).
Insieme a H.P.Bremmer, lavorò come consulente anche l´architetto Henry van de Velde. Fu lui ad avvisare nel 1922 Helene Kröller-Müller dell´opportunità di acquistare Le Chahut di Georges Seurat.
Alla fine degli anni Venti Wm. H. Müller & Co., l´azienda dei coniugi Kröller, si trovò al centro di una situazione simile a quella odierna, fu duramente colpita dalla recessione economica internazionale. Fu chiaro che c´era il pericolo di vendere e svendere ogni bene, dalla tenuta di campagna alla collezione di opere d´arte.
Per evitare rischi Helene Kröller-Müller nel 1935 offrì la raccolta allo Stato olandese a condizione che fosse costituito un museo appropriato per ospitarla: un sogno che si concretizzò nel 1938, un anno prima della sua morte, quando divenne prima direttrice del Rijksmuseum Kröller-Müller.
Il museo fu ingrandito nel 1953 con l´aggiunta di un´ala congressi e una galleria dedicata a opere di scultura. Un´ala completamente nuova fu edificata tra il 1970 e il 1977. Al contempo il giardino di sculture del museo si è ampliato negli anni ed è ora uno dei più grandi d´Europa, è diventato un´istituzione internazionale, unica nel suo genere.
La collezione delle signora Helene resta comunque il punto di partenza. Scrisse nel 1933: «Uno dei motivi per i quali ho deciso di creare questa collezione era quello di mostrare che l´arte astratta non è qualcosa di incomprensibile, ma che è sempre esistita. Ecco perché si possono trovare opere antiche vicine a quelle moderne, fianco a fianco. Volevo usare l´antico per supportare il nuovo nella sua ragione di esistere».
Tra gli artisti moderni prediligeva i cubisti, acquistò opere di Picasso e di Juan Gris, e difese le loro ricerche con grande entusiasmo. Ammirava molto anche l´opera di Mondrian. A proposito della sua Composizione in linea del 1917 sostenne che quel quadro era «l´arte cubista nella sua forma più pura».
Ma il suo pittore preferito era Van Gogh, che continua ad essere il cuore pulsante della raccolta: «Il suo valore non sta nei modi dell´espressione, nella sua tecnica ma nella sua umanità, grande e nuova. Egli ha creato il nuovo espressionismo».
Durante la sua vita acquistò ben 91 dipinti e 175 disegni del pittore olandese. Sono quelli che ora sono arrivati a Brescia, capolavori come Uliveto eseguito nel giugno del 1889, a Saint-Rémy, un anno prima della morte. Aveva scritto alla madre: «Qui ci sono dei campi bellissimi con ulivi dalle foglie grigio argento, come salici cimati. Non mi stanco mai del cielo azzurro». Espressioni dell´anima di Van Gogh.

Repubblica 16.10.08
Tutte le emozioni del giovane Vincent
Quella pittura incendiata più vera del vero
Disegnava le cose come le sentiva, e manifestava così la sua vocazione espressionista


BRESCIA. Cento Van Gogh, provenienti da un prestito eccezionale di uno dei fondi museali che più largamente conserva le opere del pittore, il Kröller-Müller di Otterlo, fanno la mostra che Marco Goldin ha curato e presenta quest´anno al Museo di Santa Giulia a Brescia. Sono, in particolare, opere su carta, raramente esposte e poco conosciute se non dagli specialisti: disegni a matita, a penna e inchiostro, pastelli, acquarelli, insieme ad un gruppo di olii che testimoniano dello stadio finale dell´elaborazione del tema di volta in volta prescelto dall´artista. Risalgono, in larga prevalenza, al tempo iniziale dell´attività di Van Gogh: dal primissimo momento in cui - a un´età già abbastanza avanzata; aveva ventisette anni, e alle spalle un lungo impegno come commesso in una importante galleria d´arte, come insegnante e come predicatore laico - egli si determinò a investire ogni suo talento nella pittura, nella povera terra mineraria del Borinage e poi a Bruxelles (1880-´81). E di qui fino agli anni di Nuenen (1883-�85), villaggio del Brabante dove s´era stabilita la famiglia e dove la vita scorreva lenta e eguale, legata alla terra e ai suoi severi, essenziali dettami.
Forse per Vincent fu quella un´età - l´unica, nella breve esistenza, conclusa tragicamente con il suicidio - almeno in parte serena: s´era allontanato da una professione - il mercante d´arte - alla quale era stato avviato fin da giovanissimo, ma nei confronti della quale aveva sempre nutrito più d´un sospetto: e che solamente gli era valsa la conoscenza di prima mano di quei maestri francesi della scuola di Barbizon e del successivo naturalismo (Corot, Breton - incontrato nel 1880 a Courrières - Dupré e, soprattutto, Millet) che saranno a lungo la sua guida. E, avendo trovato sbarrata la via degli studi teologici, sua giovanile propensione, aveva adesso almeno il conforto del solidale entusiasmo, e dell´aiuto economico, dell´amatissimo fratello Théo, che lo incoraggiava nella nuova via intrapresa, quella della pittura.
Della storia recente della pittura doveva avere, nonostante l´apprendistato presso il mercante Goupil, un´idea piuttosto vaga, e soprattutto libresca. Di Delacroix, una delle sue passioni d´allora, conosceva, più che le opere, le teorie sul colore, divulgate da Charles Blanc; Millet stesso, che diverrà per lui il «père Millet», e verso il quale nutrirà un colmo e inestinguibile sentimento di devozione, fu per lui, in particolare in questi anni, soprattutto il cantore dei buoni sentimenti dei poveri e dei diseredati, e della sacralità insita nel lavoro dei campi: secondo la lettura agiografica, e travisante, della vita e dell´opera del grande pittore francese che aveva fatto Alfred Sensier, una cui famosa biografia di Millet - uscita appunto nel 1881 - Van Gogh poté subito leggere. A ciò s´aggiungevano, ancora, intense letture dello storico Jules Michelet, e di Dickens: ed è come se tutto questo congiurasse per instillare nel giovane Vincent un sentimento doloroso, mistico, solenne della dignità dell´uomo.
S´era imposto un severo laboratorio: e, spesso scontento di sé e dei propri risultati, come confessava nelle lunghe, quotidiane lettere a Théo, sentiva nondimeno, nei momenti di maggior fiducia, che quell´impegno costante nell´arte che s´era imposto dava lentamente il suo frutto. Così, proprio al termine di questo suo lungo tempo di educazione e di ricerca, venne quello che Van Gogh considerò il suo primo «capolavoro»: I mangiatori di patate, dell´aprile 1885. Il quadro è conservato al museo Van Gogh di Amsterdam; è il primo dipinto di Van Gogh di ragguardevoli dimensioni; e non vale quasi descriverlo, tanto è celebre.
Raffigura, in un ambiente raccolto e costipato, una povera mensa di contadini, illuminata da poca luce radente sui volti invasi dalla fatica. Non piacque molto né a Théo né ad Anthon van Rappard, l´amico di sempre, conosciuto a Bruxelles nell´80 e con il quale Van Gogh s´era da sempre soprattutto confrontato.
Subito dopo quel dipinto cruciale, Vincent tornò a quel lavoro sulla carta che era stato, per tutto il quinquennio ch´era durato il suo tirocinio, il suo modo prediletto. Inviò infine a Théo alcuni disegni, fogli piccoli o più grandi - gessetti neri talvolta rialzati all´acquarello - sperando in una vendita; molti dei quali, raffiguranti contadini al lavoro nei campi o donne intente ai lavori domestici, sono oggi qui in mostra. La persona alla quale Théo li mostrò (tale Charles Serret), avanzò più critiche che lodi. E la risposta che Van Gogh inviò al fratello è una delle sue più importanti dichiarazioni di poetica: «Dì a Serret che mi dispererei se le mie figure fossero corrette, digli che non voglio che siano accademicamente corrette [.] Digli che ritengo Millet e Lhermitte dei veri artisti, proprio perché non dipingono le cose come sono, ma come essi - Millet, Lhermitte, Michelangelo - le sentono. Digli che la cosa che più desidero esprimere sono proprio quelle manchevolezze, quelle deviazioni, quelle alterazioni della realtà che poi fanno sì che risultino alla fine delle falsità, sì, ma più vere della verità letterale».
Sono, queste parole, la presa d´atto della vocazione espressionista di Van Gogh: quella che lo trascinerà fuori dal compunto pietismo verista della scuola dell´Aia, e lo avvierà a fondare la sua pittura incendiata, lontana da preoccupazioni puramente linguistiche, e ansiosa di scandagliare le cose - quasi con ferocia, e come calando un rampino nel magma indifferenziato di quella realtà - alla ricerca della loro verità più profonda e nascosta: persino al di là di quanto esse appaiano.
Gli anni del laboratorio olandese, quelli soprattutto indagati dalla mostra di Brescia (che offre comunque anche saggi delle principali tappe successive dell´opera di Van Gogh, sia nel disegno che nella pittura), sono ancora a monte di questa piena consapevolezza: e svelano, di lui, uno degli aspetti meno noti e celebrati. A dimostrazione ulteriore che, nei pochi anni che gli furono dati, Van Gogh ha impresso nella vicenda della pittura un´impronta tanto vasta da non essere facilmente esauribile.

Repubblica 16.10.08
Ted Hughes e Sylvia Plath. Se la poesia incontra la morte
Un Meridiano raccoglie l´opera del poeta inglese che fu compagno di Sylvia Plath Dopo il suo suicidio tutto cambiò per lui
di Nadia Fusini


Nel cuore di Londra c´è la "mia" biblioteca: in St. James Square, dietro Piccadilly. Si chiama «The London Library», e nel passato l´hanno diretta Tennyson, T. S. Eliot. Da una porta alta e stretta al culmine di alcuni scalini si entra in un alveare di fervidi lettori accucciati in poltrone di pelle. E di alacri camminatori che vanno su e giù per scale antiche di ferro e cunicoli stretti alla ricerca di libri che possono toccare, estrarre dagli scaffali. E chi ama i libri sa che brivido di piacere comunica il gesto.
Arrivo la mattina e rimango fino a sera. Verso l´una vado in un luogo modesto, proprio dietro l´angolo, dove però la zuppa è buona. Un giorno ero lì col mio libro a gustarmi la zuppa, quando entra una signora elegante, con uno stravagante cappello. Doveva essere intorno a Natale, perché aveva molti pacchi; era stata da Floris, in Jermyn Street, per i profumi; da Fortnum & Mason, su Regent´s Street, per i tè; da Liberty, per i tessuti. La guardai meravigliata, perché non era un tipo di persona che avessi mai visto da E. A. T. Però continuai a leggere. Senonché lei si siede accanto a me, guarda il libro che leggo e fa: «Oh, it´s Ted. I used to know him. And Sylvia, of course». Sì, Ted, lo conoscevo. E anche Sylvia.
Stavo in effetti leggendo un libro su Ted Hughes e Sylvia Plath, la coppia più glamour del secolo, e lei li aveva conosciuti. «Really?» feci io incredula. Davvero?
Al mio stupore la signora rispose raccontando episodi che combaciavano con quel che leggevo e avevo letto. Lei vi aggiunse la vibrazione persuasiva della realtà. D´un tratto, era tutto vero: proprio in quella città, in certe strade che conoscevo, e lei rendeva col suo racconto ancora più reali, erano accaduti certi fatti, che avevano avuto una straordinaria rilevanza nella poesia di due tra i più grandi poeti del secolo. Ma soprattutto in quel che raccontava colsi la verità di un timbro che spiegava alla perfezione la voce speciale in poesia di Ted Hughes. Più che Sylvia, l´estranea con me a colloquio aveva conosciuto bene Ted e le sue amanti. E mi parlò di un modo furtivo, quasi losco di Ted con le donne; del suo gusto per i luoghi sporchi; del suo odio per tutto ciò che è comodo, confortevole. Ted-l´oscuro «never wanted it cosy» - a lui non piacevano le situazioni comode.
L´episodio mi torna alla mente sfogliando il Meridiano Ted Hughes (pagg.1810, euro 55), uscito per la duplice cura di Anna Ravano e Nicola Gardini. I due entrambi bravissimi si sono divisi le traduzioni, accogliendo nel volume le versioni anch´esse pregevoli di Maria Stella, una cara amica troppo presto scomparsa, studiosa di valore e pioniera delle devozioni nostrane nei confronti del poeta in oggetto. Anna Ravano ha poi curato la cronologia, Nicola Gardini l´introduzione e le note: il tutto orchestrato con l´impeccabile cura a cui ci hanno abituato i Meridiani diretti da Renata Colorni.
Mi è tornato a mente l´episodio perché nell´introduzione si cita un´intervista dove Ted se la prende, per l´appunto, con chi «wanted it cosy». E ce l´ha con certi poeti che al contrario di lui reagivano alle ansie dell´epoca con lucida freddezza, o addirittura con esibito disimpegno. Con un tipo di poesia ironica e beffarda. Come facevano Auden, Larkin.
Spiega, l´intervista, perché Sylvia Plath, poeta anche lei di eccelsa natura, giocando con il nome Hughes, che richiama nella prossimità con huge l´idea di immenso, possente, chiamò Ted il «colosso». C´è un ideale di forza in Ted, che spesso tramuta in rozzezza. Rozzezza del pensiero, con conseguente rigidità del verso, e un certo compiacimento ideologico della brutalità. Come se la semplicità fosse di per sé un valore. Come se certi concetti astratti quali patria, nazione, natura, potessimo prenderli "semplicemente".
I poeti si potrebbero dividere in due grandi schiere; chi ha bisogno di ali per volare, chi ne fa a meno. In una famosa lettera Keats lo spiega: lui è un poeta che non ha le ali. Quando precipita, se torna su è grazie a una specie di forza negativa, una forza che non ha, che non coltiva. Altri cercano invece sostegno, appoggi, stampelle, che possono avere anche nome «volontà di sapere». Ted Hughes, in particolare, coltiva una forma specialissima di sapienza personale, in cui si mescolano conoscenze sacre e profane suggestioni buddiste e tibetane, pregiudizi pagani e apodittiche credenze junghiane. Non ha la «capacità negativa»; aspira alla forza, ammira il potere.
Vagheggia un poeta sciamano, un poeta guaritore, che sani le ferite. Mentre per lo più i poeti sanno lasciare aperte le ferite, e disvelano la fallacia di chi promette guarigioni.
Vero è che nelle poesie compiute, felici - e sono molte - la zavorra decade. E la tensione eroica, salvifica del poeta sciamano si arrende a un dettato di straordinaria e straziante intensità musicale. Che fossimo in presenza di un grande talento lo si capì già con Il falco nella pioggia e Lupercale. «Il falco appollaiato» - una specie di tour de force alla Lawrence - entrò nelle antologie scolastiche d´acchito. Oltre che di Lawrence si sentì l´eco di Yeats, Hopkins, Thomas, Eliot, ma la lingua era già sua, con quel gusto che mai verrà meno per l´esperienza. Solo che a volte il poeta scambiava la vitalità per vita e l´ardore per eroismo, e non bastava l´impiego dell´aggettivo "huge" a rendere grandi «gli antichi eroi e il pilota bombardiere», per fare un esempio. Alcuni componimenti erano davvero opachi: «Testa d´uovo» una poesia difficile da leggere, con quella spinta affermativa vacua, vana.
Dopo la separazione da Sylvia Plath e il suo suicidio, per qualche anno Ted tace. Legge, lavora all´edizione delle poesie di Sylvia, quell´Ariel che grazie alle sue cure vedrà la luce nel 1966. Quanto a sé, nel 1967 partorisce Wodwo, dove nasce una figura, uomo o bestia o essere fatato che sia, che è una maschera del poeta. Wodwo si chiede: «che cosa sono io?» e non sa rispondere. Sa di essere «il primo», il primo di una nuova specie.
E´ tutto molto «strano» quel che vede intorno, ma continuerà a guardare: non solo quel che è fuori di sé, ma l´altro dentro di sé. Movimento che ha imparato da Sylvia Plath: «La luna piena e la piccola Frieda» lo dimostra.
Procede verso Corvo, il predatore. In un mondo atroce sopravvive il più abile a negoziare con la violenza. Quand´anche «Corvo sulla spiaggia» senta «nelle grida e nelle convulsioni» del mare qualcosa, «il cervello nel suo minuscolo cranio» non arriva neppure a chiedersi «che cosa causasse tanto dolore». E´ il leit motiv che ritorna nelle lettere di Ted a proposito del suicidio delle due donne che ha amato: Sylvia e Assia. Ogni volta si chiede: perché non ho capito? In «Corvo tirannosauro» si risponde: avrebbe dovuto «smettere di mangiare», se avesse capito. E non lo fa, non smette: «piangendo andava e colpiva». Corvo è così, Corvo è everyman, uccide per vivere.
A volte Ted strafa; esagera; cerca lo shock del lettore con eccessi facili. Pretende che concordiamo con il suo determinismo cadaverico, fino a dire che sì, l´esistenza è irredimibile.
Eppure, allo stesso tempo, vorrebbe che non ci disperassimo del tutto. Non completamente. C´è chi ha trovato in lui la medesima specie di speranza disperata che si trova in Beckett. Sono d´accordo: dopo tutto, «Corvo canta», non sarà melodioso, ma è pur sempre un canto. Allo stesso modo i due mendicanti continuano ad attendere Godot. Come fa Ted negli anni, che continua ad avere cura della poesia. A scrivere poesie, drammi, narrazioni, traduzioni. La sua versatilità è prepotente. Non sempre è contento di quel che fa.
Nel 1981 dice, più o meno: sono dieci anni che non scrivo niente di quel che volevo scrivere. E confessa: mi sembra di aver vissuto in una specie di straniamento da me stesso. Eppure, ha pubblicato Gaudete, nel 1977. Uccelli di caverna nel 1978, che considera però «freddo, studiato». Resti di Elmet nel 1979, forse il testo suo più autobiografico. Diario di Mootown, del �79: un libro stanco. Nel 1983 ci sarà Fiume, il libro del pescatore. Le diverse raccolte vengono commentate da Gardini con dovizia di particolari nelle note finali, a cui rimando.
In ogni libro c´è qualcosa di eccezionale e qualcosa di morto, che si ripete. In Fiori e insetti del 1986 tra le poesie più felici v´è «Giunchiglie«, che tornerà in Lettere di compleanno: per me il più autentico, il più "nobile" dei suoi tentativi di tenere in tensione i mondi - esteriore e interiore, oggettivo e soggettivo, della Natura e della Cultura - tra cui ha sempre voluto creare ponti.. Ora il pontefice dell´immaginazione non cerca più palliativi. Mai come altrove il pensiero conficcato come una spada nel cuore lo muove a cercare immagini semplici, niente affatto allegoriche. E torna in mente una sua osservazione profonda, di anni prima: «rispettare le parole più della verità che tentano di trovare è la morte della poesia». Qui la poesia vive.

Repubblica 16.10.08
"Io, precaria e anche un po´ cinica così interpreto le paure dei trentenni"
Dal Roma al Sundance: la rivelazione Valentina Lodovini
di Roberto Rombi


Non sono più la ragazza della porta accanto. Nel film di Anna Negri divento dura, aspra e sensuale

Dall´esordio con Paolo Sorrentino al film di Daniele Vicari, di cui è interprete, Il passato è una terra straniera che sarà presentato in concorso, nella sezione Cinema 2008, al Festival di Roma. Valentina Lodovini, nuova promessa del cinema italiano, ha ritirato ieri a Milano, alla Terrazza Martini, il premio destinato a Riprendimi di Anna Negri, il film che la vede protagonista. Martini Award Première è infatti la manifestazione, realizzata dalla Martini&Rossi, che si propone di individuare e mettere in risalto i talenti emergenti del nostro cinema.
«La ragazza della porta accanto - confessa Valentina Lodovini - è il tipo di ruolo che mi è stato affidato nei lavori precedenti, donne connotate dalla dolcezza, dall´entusiasmo, persone solari con un forte senso della moralità. Anna Negri invece mi ha affidato la parte dell´altra, quella che non è simpatica, che un tormentatissimo amore ha indurito, reso cinica, portato a una sensualità aggressiva. Un´insoddisfatta, fondamentalmente ostile al mondo».
Dopo «un piccolo ruolo, ma molto forte» nel film di Sorrentino L´amico di famiglia, Valentina Lodovini è stata diretta da Francesca Comencini in A casa nostra, da Carlo Mazzacurati in La giusta distanza e da Daniele Vicari in Il passato è una terra straniera. Presto apparirà nel nuovo film, ancora in lavorazione, di Marco Risi, Fort Apache, un lavoro drammatico sull´assassinio, commissionato dalla camorra, del ventiseienne giornalista napoletano Giancarlo Siani. La vedremo anche in un ruolo brillante nella commedia di Massimo Venier, Generazione mille euro, tratto dal libro di Antonio Incorvaia e Alessandro Rimassa. «Ma - continua l´attrice -nell´affrontare ogni film mi sembra di essere ancora all´inizio. Ho tante cose ancora da fare, da conoscere, da dimostrare. Mi piace rimettermi in gioco ogni volta. So comunque di essere un´attrice molto fortunata proprio per l´incontro con le persone con cui ho lavorato. Quello con Sorrentino lo giudico un debutto straordinario. Ho interpretato una donna che ha avuto il coraggio di sfidare l´usuraio».
Riprendimi, premiato ieri con una menzione speciale, è un finto documentario. Prodotto da Francesca Neri e presentato al Sundance, il festival del cinema indipendente fondato da Robert Redford, «racconta di due cameraman che vogliono fare un´indagine sul lavoro precario - spiega Valentina Lodovini - il risultato della ricerca sono le paure dei trentenni, il loro precariato non è solo professionale ma soprattutto esistenziale e sentimentale». Il film, a basso budget, è stato girato in soli 21 giorni. «L´urgenza di raccontare della regista ha dato al lavoro un ritmo caotico e ha trascinato tutti gli interpreti nell´entusiasmo per l´avventura di questo film».

il Riformista 16.10.08
Pochi, arrabbiati, radical-chic: i genitori della capitale che non mollano Mamme di lotta: «Sinistra assente, ci facciamo sentire noi»
di s. o.


Al grido di battaglia "Giù le mani dalla scuola" i genitori delle scuole del centro di Roma, si sono dati appuntamento nei giardini di piazza Vittorio per dimostrare che la riforma Gelmini a loro non sta bene. Poco più di un manipolo di signori e signore un po' radical-chic, prototipo di quel popolo di sinistra che, in barba alla pretesa di voler «parlare anche ai genitori che questo governo lo hanno votato perché capiscano che questa è una battaglia comune», danno inevitabilmente un'impronta politica all'iniziativa. Legittimamente peraltro, visto che hanno cultura e strumenti di comprensione sufficienti a concepire un modello scolastico alternativo a quello proposto dal centrodestra. Sono abbastanza per riempire il centro della piazza, pochissimi per una città vasta come la capitale. E incazzati neri. Prima di tutto con la sinistra.
«Sa com'è cominciato questo movimento? - racconta Roberta, 45 anni, attrice e "organizzattrice di eventi etici", due figli di 17 e 4 anni - Un giorno con Paola ci siamo dette: ma possibile che nessuno faccia niente? Ma Veltroni dov'è? Andiamo noi in viale Trastevere? Andiamo, in tre a protestare è sempre meglio di niente». A vederla da questa angolazione, la manifestazione di ieri in piazza Vittorio è stata un successo: «Il problema è che la gente è troppo impegnata a sopravvivere. Ma sa quale sarà il risultato, se passa questa riforma? Che le donne dovranno restarsene a casa. Questo governo continua a screditare la scuola pubblica. E se poi i soldi risparmiati li danno ai privati? Così potranno definitivamente controllare la formazione dei giovani». I luoghi comuni si sprecano, ma queste donne sono sinceramente spaventate: «Ora andiamo a lavorare sapendo che fino alle 16 i nostri bambini saranno a scuola. Ma se tagliano il tempo pieno, la scuola finirà alle 12. Come faremo?». Giovanna, altra mamma 40enne, non nega che la scuola così com'è non va bene, ma considera inaccettabili le modalità della riforma: «La verità è che noi ci organizzeremo. Casomai per gruppi, prendendo un maestro che venga a casa il pomeriggio. Ma come faranno quelli che non hanno i mezzi?».
Roberta sorride leggendo un sms che le arriva dalla sua Bologna: «Siamo in una scuola occupata, voi a Roma?». È il tam tam di quella sinistra spontaneistica e un po' naif, ancora convinta che «un mondo migliore è possibile» e, soprattutto, di avere il diritto di influire su quanto si decide nelle stanze dei bottoni. «Ho parlato con alcuni genitori che votano a destra - dice sconsolata Paola, ricercatrice e madre di due bambini - Sostanzialmente mi sembrano disinformati. Nemmeno a loro la riforma piace, ma alla fine sperano che così ci sia più controllo sulle presenze dei figli a scuola, più disciplina». Poco a che fare con i tagli alle elementari, dunque, su cui tacciono in nome di un po' di ordine in più.
Ma non sono solamente le donne a essere sul piede di guerra. Paolo fa lo scenografo e tiene d'occhio i suoi due bambini, 5 e 3 anni, che giocano insieme con gli altri: «C'è un disegno macabro sull'educazione. Il piano è mirato a disinnescare l'autonomia della scuola pubblica, in favore del modello di quella privata. Dove gli insegnanti sono maggiormente vincolati al rischio del licenziamento. Ma, soprattutto, saremmo noi a doverci fare carico dei costi tagliati, dalla mensa al doposcuola». Quanto inciderà sul bilancio familiare? «Quanto basta per farmi entrare a far parte dell'ampia fetta di società che ha un bel po' di problemi».
La sensazione, però, è che in piazza Vittorio nessuno corra il rischio di non pagare la rata del mutuo a fine mese, animati più dal senso civico (ma anche da quello pratico, dettato dai mille problemi della vita quotidiana) che dal bisogno. Poi, però, uno spaccato di reale difficoltà si propone: «Io sono qui perché da una settimana non posso mandare mia figlia all'asilo. Non ho i soldi per pagare la rata comunale. E per badare a lei non posso andare a lavorare». Rocco ha 62 anni e, per alterne vicende, è un padre single di due bambini piccoli. «Sa che le dico? Se devono tagliare, lo facciano sui maestri. Ma non sul tempo pieno. Sennò quelli come me saranno messi peggio di quanto già non lo siano». E di certo non è il solo a pensarla così. ()

il Riformista 16.10.08
Il fenomeno Gelmini, odiata nelle piazze ma amata dai sondaggi
di Stefano Cappellini


Ci sono proteste che affossano un ministro e altre che lo rafforzano. Per Mariastella Gelmini, da giorni bersaglio di manifestazioni di protesta in tutto il paese, finora vale la seconda. Secondo un sondaggio Ipr marketing, il gradimento verso il ministro dell'Istruzione è cresciuto di 4 punti nell'ultimo mese. L'indice finale (42 per cento) non è tra i migliori della squadra di governo, ma il segnale è chiaro e non riguarda solo Gelmini: crescono tutti i ministri in prima linea. Sono infatti i dati sulla popolarità dei singoli membri i più lusinghieri per Berlusconi (e preoccupanti per Veltroni). Giulio Tremonti, col 63 per cento di gradimento, supera persino il Cavaliere: la dottrina tremontiana anti-crisi si conferma un formidabile veicolo di promozione per il titolare di via XX settembre. Bobo Maroni, custode della "tolleranza zero" al Viminale, segue da vicino. Renato Brunetta, sempre a caccia di nuove crociate mediatiche, continua ad avanzare. Lo stesso Berlusconi, così affezionato a record e statistiche, può godersi una popolarità alta come mai nella sua carriera politica. A sei mesi dalla vittoria elettorale del centrodestra il premier tocca il picco storico di gradimento: 62 per cento. Di contro, a un anno dalla vittoria alle primarie Walter Veltroni vede il Partito democratico arrancare sotto il 30 per cento, soglia che il vecchio Ulivo prodiano aveva sempre superato in scioltezza.
Le cifre sono queste, e pur con la cautela necessaria quando si maneggiano campioni demoscopici, raccontano un paese cambiato a fondo, in cui è ormai smentito nettamente quel mantra (chi governa perde prima il consenso e poi le elezioni) che negli ultimi anni sembrava diventato comandamento in quasi tutta Europa. Adesso, anche laddove qualcosa non funziona o produce malcontento, è comunque suIl'operato del governo che la maggioranza degli italiani fa affidamento per migliorare le cose. A dispetto degli inciampi e delle incertezze, che certo non sono mancati in questi mesi.
Anzi, i mille casi aperti e chiusi in questi mesi - le polemiche con la Ue sul presunto razzismo, gli alti e bassi su Alitalia, l'estate del lodo Alfano e in ultimo, appunto, le mobilitazioni sulla scuola - si sono rincorsi senza produrre danni oppure hanno accresciuto la credibilità del governo agli occhi dell'opinione pubblica. E la tempesta finanziaria internazionale, lungi dall'incrinare la tenuta dell'esecutivo, ne ha rappresentato la definitiva consacrazione.
Il premier, archiviata con una scrollata di spalla la clamorosa gaffe sulla chiusura temporanea dei mercati, ha voluto segnare ieri il punto, prima di entrare al vertice Ue sulla crisi: «Siamo stati i primi - ha detto - a intravvedere ciò che si doveva fare e l'abbiamo fatto per primi in Italia. Non si è quindi verificato nessun fallimento, nessun momento di estrema negatività nel sistema delle banche e i risparmiatori sono sempre stati garantiti». Da qui alla quantificazione del consenso accumulato il passo è stato breve: «Io - ha spiegato Berlusconi - ho dei sondaggi affidabili, che sono quelli che hanno sempre avuto ragione, che mi danno al 70,2 per cento. Francamente è imbarazzante. Lo so. Da qui non si può che scendere».
Stavolta, a differenza del passato, non si sono registrati commenti sarcastici dal Pd. L'impressione è che in molti sono convinti che il Cavaliere non sia andato lontano dal vero. Il silenzio è figlio dello scoramento. Veltroni aveva investito le chance di rivincita sull'esplosione della questione sociale, sull'autunno caldo e di piazza, e si è ritrovato una crisi mondiale da cui il governo sta uscendo più forte (e che ha costretto l'opposizione a collaborare per senso di responsabilità) e a dover gestire una manifestazione di massa, quella del 25 ottobre, di cui nessuno sa più cosa fare. Una manifestazione nata per «salvare l'Italia» si è trasformata in corsa in un oggetto non identificato. E mentre si susseguono le defezioni di piazza tra dirigenti e amministratori, l'unica scappatoia imboccata dai vertici democrat è assicurare che la manifestazione non sarà «contro il governo». Il salvataggio dell'Italia è rimandato. Restava il salvataggio della scuola. Quello cui, almeno secondo i sondaggi, sta provvedendo Gelmini.

LETTERA APERTA
Noi genitori, il 17 e il 30 in sciopero con i maestri


Venerdì 17 ottobre c'è il primo sciopero nelle scuole e non è uno sciopero come gli altri. Facciamo un appello a tutti i genitori perché, al di là delle sigle sindacali, lo sostengano, come anche quello del 30 ottobre e tutte le forme di lotta previste da maestre e maestri. A cominciare dalla mattina di venerdì 17 andiamo a scuola con i nostri figli e accogliamo il «contrattempo» o il «danno», lo sciopero insomma, con un sorriso complice, il sorriso di chi sa che tutti stiamo lottando per una causa comune.
Il nostro sogno è che allo sciopero del 17 ottobre e al prossimo del 30 aderiscano tutte le maestre e i maestri. Il nostro sogno è che l'Iqbal Masih resti vuota perché tutti insieme stiamo lottando per difendere questa scuola. Alle maestre e ai maestri diciamo: noi siamo con voi e voi con noi.
Lo sciopero ci creerà disagio perché dovremo organizzare in modo diverso la nostra giornata, ma va bene! Servirà a dire con forza che il decreto Gelmini va bloccato. Sappiamo che molti di noi sono scoraggiati, sappiamo che molti di noi sono presi dagli affanni dei problemi quotidiani. Ma questi oggi sono i nostri problemi! Affrontiamo questo sciopero come se fosse anche il nostro. Lo sciopero di tutta la scuola, maestre, maestri, personale Ata, genitori e bambini. Ci rivolgiamo ai genitori che, come noi, sono angosciati per il futuro dei loro figli. Quando a gennaio andremo a iscrivere i figli a scuola, alla materna, alle elementari, alle medie, ci renderemo conto di cosa abbiamo perduto. Solo allora ci accorgeremo cosa significa davvero la formula del «maestro unico» contenuta nel decreto Gelmini. A settembre dell'anno prossimo ci accorgeremo che nel solo Lazio (nel prossimo anno) sono previsti l'allontanamento di 5.000 maestre e la chiusura di 260 scuole. La classe dei nostri figli sarà più numerosa. Avremo un maestro dalle 08.30 alle 12.30 e poi? Cosa faranno nelle altre 4 ore i bambini? Non si meritano questo! E quanto ci costerà in più? La qualità della scuola pubblica si abbasserà di colpo e questo ricadrà sui nostri figli. Non è una delle cose peggiori che ci può accadere?
In questo mese abbiamo lottato in tutte le forme, ma ogni volta che proponiamo di bloccare le ore di lezione ci sentiamo dire: «Questo non si può fare» e noi, per rispetto di tutti i genitori e della convivenza civile, non abbiamo mai toccato il normale svolgimento della didattica. Ma sono proprio queste le forme di lotta che i nostri governanti temono di più, a patto che trovino ampia adesione in tutto il paese.
Da questa settimana il decreto Gelmini è in discussione al Senato, il momento è drammatico per le conseguenze che avrà tra breve e crediamo che lo sciopero sia un'occasione di protesta di massima importanza, perché le strade d'Italia sono percorse da centinaia di manifestazioni e sempre più persone stanno capendo la truffa che c'è dietro la riforma: distruggere la scuola pubblica per risparmiare 8 miliardi di euro e aiutare le scuole private. Altro che miglioramenti. E altro che sacrifici necessari: per sostenere le banche i miliardi a disposizione sono illimitati.
*Il coordinamento dei genitori della «Iqbal Masih»

mercoledì 15 ottobre 2008

il manifesto 14.10.08
La qualità del «pubblico»
di Fausto Bertinotti


La manifestazione dell'11 ottobre dovrebbe indurci a più di una riflessione su di essa, nel bene e nel male, e sullo stato dell'opposizione in Italia. In ogni caso ha battuto un colpo. Ma una qualche ritrovata presenza di piazza rende non meno ma ancor più drammaticamente evidente la formula di Rossana Rossanda: «Non credo che una sinistra possa dirsi esistente se di fronte alla più grossa crisi del capitalismo dal 1929 non sa che cosa proporre».
Potrebbe essere un primo sviluppo della manifestazione la convocazione di un seminario o di un'assemblea o di un convegno per incominciare a parlarne pubblicamente. Il bisogno di organizzare luoghi e modi di un confronto a sinistra non è ormai minore di quello dell'organizzazione del conflitto.
Intanto, almeno per non lasciare cadere l'importante sollecitazione di Rossana Rossanda, sarà bene che ognuno cominci a dire la sua su di essa, anche sommariamente e provvisoriamente. Sulle cinque osservazioni che Rossana pone a base del suo ragionamento vorrei dire che nel loro impianto generale non solo sono largamente condivisibili, ma credo sia utile, da parte di quella sinistra che ha subito una drammatica e storica sconfitta, ricordare che parti di essa hanno sostenuto queste tesi anche negli anni scorsi, seppure spesso in condizioni di isolamento e molte volte senza neppure farsi forza di un sostegno reciproco. Costituisce in sé un problema politico il fatto che chi ha, all'ingrosso, avuto ragione nella critica a questo capitalismo sia impotente, e persino silente, di fronte alla sua crisi.
La condizione sostanziale dello scheletro proposto da Rossana consente e sollecita, per la stessa complessità delle tesi, degli approfondimenti in cui possano utilmente farsi luce anche differenze interne allo schema il cui confronto possa rivelarsi utile nella ricerca della proposta programmatica. Per parte mia vorrei proporre tre sotto-osservazioni. La prima riguarda il neoliberismo. Esso ha mostrato di sapersi articolare lungo diverse varianti (Usa ed Europa), sicché non le sono impedite né le politiche monetarie espansive, né la domanda di intervento pubblico. La sua caratteristica intrinseca consiste nel poter scegliere tra politiche diverse in funzione della conferma di un nucleo duro che deve valere nella fase espansiva, come in quella recessiva, come nella crisi che accende una nuova ristrutturazione dell'economia. Il nocciolo duro è la piena e, secondo la sua volontà, irreversibile liberalizzazione del mercato del lavoro che deve sempre essere governato secondo il basso salario, l'alta flessibilità e la diffusa precarietà. La seconda osservazione riguarda l'apparato produttivo italiano. Qui, quell'universale nocciolo duro si accompagna, come sappiamo, ad aree di economia nera e grigia, con lavoro nero ed evasione fiscale.
Ma la ristrutturazione della media industria italiana sempre più internazionalizzata, la performance nell'esportazione di alcuni settori produttivi che colloca l'industria italiana appena sotto la potente vicina tedesca, la vitalità e la sua capacità di riorganizzazione su basi territoriali dinamiche sono caratteristiche che non consentono di qualificare questa realtà come arretrata. Va certo discussa la sua collocazione nella divisione internazionale del lavoro e dei mercati (ah, la politica industriale!), ma assai più radicalmente, credo, la sua composizione merceologica, il cosa produrre. Oltre, va da sé, la decisiva contestazione della distribuzione del reddito e del potere tra capitale e lavoro, distribuzione oggi semplicemente repellente. La terza osservazione riguarda ciò che Rossana Rossanda definisce la «demenza» dei dirigenti che hanno mandato a picco grandi enti finanziari, banche e assicurazioni. Vorrei dire che dal punto di vista del capitalismo globalizzato c'è una logica in questa «demenza». Opposta, eppure simile, a quella di Trichet che, anche di fronte alla crisi, testardamente ha tenuto a lungo alto il costo del denaro. Quella logica va rintracciata nel perseguimento del contenimento, anzi nel blocco, della dinamica salariale, a qualsiasi costo, di riffa o di raffa. Greenspan e i grandi managers delle banche americane si devono essere detti: come si fa a tenere su la domanda se i salari non la possono alimentare? La risposta è stata: con l'indebitamento dello Stato e delle famiglie. Inventandosi, cioè, ciò che Bellofiore chiama la figura del «consumatore indebitato». Questo imbroglio è saltato ed è esplosa la crisi, la crisi del «capitalismo finanziario globalizzato» (Guido Rossi). Ed è esplosa malgrado la liaison tra i sistemi delle economie emergenti (Cina e India) e quello statunitense. La crisi fa emergere i suoi nodi strutturali. Non parlano di questo la questione energetica e quella alimentare, oltre all'esigenza del sistema di tagliare i salari e, contemporaneamente, di sostenere la domanda?
Ha ragione da vendere Rossanda a dire che la sinistra non esiste se non fronteggia la crisi del suo avversario (anche perché quello finirebbe altrimenti per risolverla contro tutti coloro le cui ragioni e speranze la sinistra dovrebbe interpretare). Le proposte che Rossana Rossanda avanza mi pare vadano nella direzione giusta. Partiamo da qui, cogliamo l'occasione e apriamo una discussione collettiva. Rossana pone due punti di partenza: un contenuto, l'intervento pubblico in economia, e uno spazio da riempire da sinistra, l'Europa. So che non è buon metodo aggiungere tema a tema, troppo grande diventa altrimenti il rischio di dispersione e di perdita del contatto di confronto. Se trasgredisco alle norme è perché credo che Rossana per prima sarà d'accordo nel legare ad essi il tema del lavoro. Non è un omaggio al classico, è l'individuazione di un terreno di scontro cruciale oggi e qui, anche per affrontare da sinistra il discorso sull'Europa e sulla natura dell'intervento pubblico.
L'intervento pubblico nell'economia c'è e ci sarà. Nella nuova fase che si è aperta non è il «se» che può fissare il clivage tra destra e sinistra, ma il quanto, il come e a che scopo deve realizzarsi l'intervento pubblico. La sua natura è perciò la ragione della possibile contesa. Chi ha spiegato che l'economia per funzionare deve negare l'intervento pubblico, spiegherà che per rimettere in piedi l'economia di mercato (si sottintende, cioè, l'unica possibile) ci vuole l'intervento pubblico: un nuovo servo perché il signore (il mercato) continui a esercitare la sua signoria. Penso come Rossana che la sinistra debba accettare la sfida (proponendo invece che il sostegno puro e semplice alle banche una guida pubblica dell'intervento pubblico), e, contemporaneamente, alzarla.
Accettarla nel senso che non c'è ragione alcuna perché la sinistra debba accettare di far affluire denaro pubblico al fine di salvare grandi aziende finanziarie, senza porre il problema della responsabilità nelle gestioni che hanno portato alla crisi e senza porre, di conseguenza, il tema dell'assetto proprietario delle imprese salvate. Ma anche alzare la sfida, perché il carattere pubblico dell'impresa non costituisce in sé una garanzia di cambiamento non fosse altro perché la cultura economica dei managers pubblici non differisce sostanzialmente da quelli privati sulla concezione del mercato, della competitività e della produttività. Se il pubblico deve intervenire nell'economia (e deve), allora sono il cosa, il dove, il come, il per chi produrre che devono venire in discussione con esso e attraverso di esso. Il modello di sviluppo che in questi 25 anni è stato imposto dal capitale all'Europa è lo sfondo strutturale della crisi. L'intervento pubblico dovrebbe sostenerne la riforma, una riforma che costringa il mercato a un nuovo compromesso con l'affermazione dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, con l'esigenza di sottrarci alla catastrofe ambientale, con le frontiere di una nuova cittadinanza e della ricostruzione della democrazia. Dovremmo tornare a parlare di programmazione, cioè di un assetto di società da perseguire in un tempo definito? E' probabile.
Se cominciassimo a discutere di questo, insieme e continuativamente, sarebbe una buona notizia anche per chi era a Roma a manifestare l'11 ottobre.

Liberazione 14.10.08
"Largo all'eros alato" di Alexandra Kollantaj, il linguaggio della libertà e quello del conflitto di classe
Il rapporto tra politica e amore ai tempi della rivoluzione
di Antonella Stirati


Intellettuale, attivista politica e ministro nel governo presieduto da Lenin, Alexandra Kollontaj fu una delle figure di spicco della rivoluzione bolscevica. Largo all'eros alato, recentemente ripubblicato in un volumetto a cura di Lugi Cavallaro (Il melangolo, 9 euro), è forse il suo pamphlet più famoso. Pubblicato nel 1923, questo breve scritto dedicato al rapporto tra politica e amore suscitò scandalo e fortissime opposizioni in seno al partito comunista russo. E in effetti, ancora oggi, esso ci appare trasgressivo. Il punto di partenza dell'autrice è che l'amore... non è eterno! Infatti, sia i modelli ideali dell'amore che le sue forme concrete cambiano nei diversi periodi storici, adattandosi alle diverse strutture sociali ed economiche. Ma allora, quale modello delle relazioni d'amore avrebbe dovuto imporsi nella neonata repubblica sovietica? La scandalosa risposta di Kollontaj fu che, nella nuova società, l'amore non avrebbe più dovuto significare "possesso" dell'amata o dell'amato, e quindi avrebbe potuto anche non essere un sentimento esclusivo, rivolto ad un solo uomo o ad una sola donna. Per la nuova morale, cioè, sarebbe stato del tutto indifferente se le relazioni amorose fossero durature o passeggere, esclusive o molteplici, e rilevante invece solo la qualità delle emozioni che le contraddistinguono - la delicatezza, il rispetto, l'ascolto e la comprensione dell'altra o dell'altro, il riconoscimento dell'uguaglianza. La più ampia libertà nell'amore, dunque, ma al tempo stesso nulla di più distante da quello che Kollontaj definiva l'eros "senza ali", vale a dire "la trasformazione dell'atto sessuale in scopo a sé stante", slegato dall'attrazione per una particolare persona nella sua individualità, e che si manifesta anche nella mercificazione del sesso. Secondo Kollontaj l'eros "senza ali" è l'altra faccia della morale borghese fondata sul matrimonio, e ha tra i suoi presupposti la disuguaglianza tra uomini e donne e la condizione di dipendenza di queste ultime. Al contrario, il nuovo volto di "eros alato" avrebbe consentito agli individui di esprimere e sviluppare la propria capacità di amare, e sarebbe stato funzionale ad una società solidale, che per il suo stesso sviluppo ha bisogno di espandere l'affettività e di diffonderla in tutte le diverse trame delle relazioni sociali, in netto contrasto con "la fredda solitudine morale" tipica della società borghese.
Viene così delineata quella che potremmo definire una'utopia degli affetti', che ancora oggi sorprende e fa pensare. Essa è evidentemente molto lontana da quanto avvenne realmente in Unione Sovietica negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione del libretto, quando si tornò ad affermare una morale conservatrice e il 'ritorno alla famiglia', come ci ricorda Cavallaro nella sua introduzione. La visione di Kollontaj ha invece forti assonanze con culture e sperimentazioni delle generazioni giovanili degli anni ‘60 e ‘70, ma ci parla del presente più per contrasto che per somiglianza. Infatti, sebbene la condizione femminile e la morale sessuale siano molto mutate, oggi assistiamo al tentativo di riaffermare i valori tradizionali, insieme (non a caso?) alla dilagante mercificazione dei corpi femminili, e alla tendenza a interpretare la libertà come accesso alla sessualità senza relazioni affettive. Per non parlare della "fredda solitudine della società borghese", oggi quanto mai pervasiva.
Ma quali stimoli di riflessione costruttiva per la cultura politica delle donne e della sinistra si possono allora ancora trovare in questo pamphlet? Un elemento che colpisce è l'assenza in questo scritto della Kollontaj di ogni riferimento all'esistenza di un conflitto di genere indipendente dalle condizioni materiali di vita nella società capitalistica. Nella sua sobria Autobiografia (Feltrinelli, 1975) troviamo in realtà parole molto toccanti sul tema della difficoltà nei rapporti tra uomini e donne e sul conflitto interiore che esso genera: "noi, la generazione più anziana... nell'uomo che amavamo credevamo di trovare ogni volta la persona esclusiva, l'unica con la quale fondere la nostra anima... Ma sempre avveniva il contrario poiché l'uomo tentava di imporci il suo io e di assimilarci completamente a se stesso. E così nasceva in tutte.. la ribellione interiore e correvamo verso la libertà. Allora ci trovavamo nuovamente sole, infelici, ma libere" (p.27). L'autrice si mostra però sempre fiduciosa che mutate condizioni - in cui le donne avessero accesso al lavoro, a servizi pubblici e a un sostegno per la maternità, a cultura e relazioni sociali - avrebbero potuto portare di per sé ad un superamento del conflitto di genere. Il contributo di riflessioni del femminismo moderno porta, io credo con ragione, a dubitare di questo. Tuttavia è anche vero, come argomenta Cavallaro, che i processi di emancipazione e liberazione che hanno avuto un forte impulso negli anni '60 e '70 sia in Europa che Negli Stati Uniti sono stati associati a cambiamenti importanti delle condizioni materiali, determinati dalla piena occupazione e dallo sviluppo dello stato sociale. Ed è indubbio che nei paesi dove il welfare si è maggiormente sviluppato, le donne hanno maggiori opportunità nello scegliere il proprio percorso di vita. Mentre, d'altra parte, le tendenze alla 'restaurazione' di oggi vanno insieme alla contrazione del ruolo dello stato e della spesa pubblica, in un modo che presenta alcune analogie con quanto accaduto in Unione Sovietica negli anni '20.
Questo potrebbe indurci a riconsiderare con attenzione una lezione importante del femminismo marxista, che è estremamente chiara negli scritti e nell'attività politica della Kollontaj, e cioè che i cambiamenti nelle condizioni materiali dell'esistenza costituiscono una premessa comunque necessaria alla libertà delle donne (come degli individui in generale). Sbaglieremmo se ritenessimo che nell'Italia di oggi questa lezione sia superata e che le istanze libertarie e di cambiamento culturale possano essere perseguite come se le concrete scelte di vita della maggioranza delle persone non fossero soggette a pesanti vincoli materiali. I dati di cui disponiamo segnalano del resto con insistenza l'importanza di tali vincoli per le scelte di vita. Prendiamo ad esempio un tema importante per le donne, quello delle decisioni riproduttive. Le indagini statistiche ci dicono che le donne italiane vorrebbero, in maggioranza, avere due o più figli, ma ne hanno, per lo più, uno solo (a differenza, ad esempio, delle donne francesi, che esprimono le stesse intenzioni, ma le portano a compimento). A questa evidenza se ne può aggiungere un'altra, restituita da una recente indagine condotta dalla FIOM su centomila lavoratori e lavoratrici metalmeccanici, sia operai che impiegati (Metalmeccanic@, Meta Edizioni, 2008): un quinto delle famiglie con figli, e quasi un quarto delle famiglie composte da genitori con due figli conviventi, ha un reddito familiare inferiore alla soglia di povertà (stimata a 1600 euro) per una famiglia di 4 persone. Insomma, per moltissimi nuclei familiari, fare un secondo figlio non è materialmente sostenibile. E si tratta qui, si noti bene, di nuclei familiari in cui almeno uno dei coniugi ha un lavoro stabile e regolare a tempo pieno, con un reddito mensile non dissimile da quelli prevalenti nel mondo del lavoro dipendente, pubblico e privato. Ma se le cose stanno così, è evidente che anche altre scelte, come rompere una unione coniugale che non funziona più, o scegliere di vivere la maternità al di fuori di una convivenza di coppia, possono essere impraticabili per ragioni solidamente materiali, quali il reddito e il costo dell'affitto. Viene allora naturale pensare anche che un fenomeno oscuro e pervasivo come la violenza tra le mura domestiche (l'Istat rivela che in Italia una donna su sei ha subito violenze fisiche o sessuali, per lo più ripetute, dal partner o ex-partner) sebbene abbia certamente origini profonde e complesse, potrebbe tuttavia essere arginato - per lo meno nel senso della limitazione del danno - da un insieme di condizioni che, 'semplicemente', rendano materialmente più facile per una donna andarsene di casa .
Insomma, la lettura del libretto di Kollontaj, e della interessante introduzione del curatore, può aiutarci a rimettere a fuoco un fatto semplice ma spesso trascurato, e cioè che l'attenzione alla concretezza della vita quotidiana e dei suoi bisogni dovrebbe essere denominatore comune tra chi parla il linguaggio delle libertà, dei diritti, della qualità della vita e delle relazioni, e chi quello del conflitto di classe o dell'economia, e che essa dovrebbe costituire il ponte tra istanze di cambiamento culturale e sociale profonde e obiettivi concreti e immediati dell'azione politica. Una capacità che ha caratterizzato, ad esempio, i momenti migliori dell'esperienza del movimento delle donne negli anni ‘70.

l’Unità 15.10.08
Idea Lega: classi differenziali per i bambini immigrati
Lega, prove tecniche di discriminazione a scuola
«Classi differenziali per stranieri». Razzismo nel Varesotto: sagome di bimbi di colore ridipinte di bianco
di Giuseppe Vittori


L’ultima del Carroccio ha scatenato, ieri, la bagarre a Montecitorio. L’idea è quella di «istituire classi ponte con corsi di italiano per i piccoli immigrati che non superino le prove e i test di valutazione». Il testo della maggioranza è passato e impegna il governo a rivedere il sistema di accesso alla scuola degli studenti stranieri». Durissima la reazione di Fassino: «Discriminazione moralmente abietta contro i bambini».

LA LEGA INSISTE Oltre al «superamento di test e specifiche prove di valutazione» per permettere agli studenti stranieri di entrare nella scuola dell’obbligo, la mozione presentata dal Carroccio alla Camera prevede anche di «istituire classi ponte che consentano agli studenti stranieri che non superano le prove e i test di frequentare corsi di apprendimento delle lingua italiana». Il provvedimento ieri è stato discusso a Montecitorio, e ha scatenato la bagarre in aula.
Particolarmente duro è stato l’intervento di Piero Fassino. «In questo modo si regredisce, si inserisce un elemento di discriminazione. Una discriminazione moralmente più abietta perché la si inserisce tra i bambini e i più piccoli», ha attaccato l’esponente del Pd. La replica è arrivata dal vicecapogruppo del Pdl alla Camera, Italo Bocchino: «Il nostro obiettivo è l'integrazione mai e poi mai la discriminazione», ha spiegato aggiungendo che la mozione leghista ha «la piena adesione del Pdl». Tuttavia, ci sono stati interventi critici anche dai banchi del centrodestra, in particolare si sono dissociati Nicolò Cristaldi e Mario Pepe.
Alla fine di una discussione molto accesa, il testo della maggioranza è passato con 256 sì, 246 no e un astenuto. La mozione approvata a Montecitorio impegna il governo a «rivedere il sistema di accesso degli studenti stranieri alla scuola di ogni ordine e grado, favorendo il loro ingresso, previo superamento di test e specifiche prove di valutazione».
«Favorendo», dunque, e non più «autorizzando» come si leggeva nel testo originario. Un escamotage, che non modifica però il senso del provvedimento. Oltre alle «classi ponte» il testo prevede anche «una distribuzione degli studenti stranieri proporzionata al numero complessivo degli alunni per classe».
Per le forze dell’opposizione questo provvedimento favorisce la discriminazione degli studenti stranieri. Dice sconsolato il parlamentare del Pd Lino Duilio: «Questi qui tra poco presentano una mozione per metterli nel forno e la votano pure...». Parole dette con amaro sarcasmo al termine di una seduta infuocata.
Ma tra i deputati del centrosinistra non è passato inosservato l'episodio di matrice razzista avvenuto l’altra notte a Brinzio, nel Varesotto. In via Indipendenza c’erano alcune sagome di cartone a misura d’uomo raffiguranti bambini. Quattro di queste sagome rappresentavano bambini di colore. Nelle notte i loro volti sono stati ridipinti con vernice bianca da alcuni vandali. Gli studenti della vicina scuola, che hanno realizzato le sagome di cartone nell’ambito del progetto di sicurezza stradale (stanno ad indicare la presenza di una scuola agli automobilisti e a far rallentare il traffico) hanno scritto una lettera aperta agli imbrattatori, lamentandosi per quel gesto «da conigli» e chiedendo loro di tornare sui propri passi e di ripristinare le sagome come erano prima.

Repubblica 15.10.08
Alunni stranieri a quota 570 mila ma uno su tre è nato in Italia
Oggi sono il 6,4%, nel 2011 diventeranno un milione
I romeni il gruppo più consistente, seguiti da albanesi, marocchini, cinesi
di Vladimiro Polchi


ROMA - I primi? Romeni. Gli ultimi? Mongoli. I registri di classe non parlano più solo italiano: 574.133 sono gli alunni stranieri iscritti nell´anno scolastico 2007/2008. Rappresentano il 6,4% del totale, ma in alcune province del centro-nord raggiungono concentrazioni record: fino al 14%. Oltre un terzo (35%) sono nati in Italia. Le nazionalità rappresentate? Ben 166.
La scuola italiana è da tempo multietnica. Lo fotografata uno studio statistico del ministero della Pubblica Istruzione di fine luglio 2008: «Il fenomeno delle immigrazioni - scrivono i ricercatori - si riflette sulla scuola, che in dieci anni ha visto aumentare di oltre 500mila unità gli iscritti di origine straniera». Un´ondata che non accenna ad arrestarsi: secondo le stime, infatti, i figli di immigrati tra i banchi di scuola saranno un milione nel 2011. Nell´anno scolastico 2007/2008 gli stranieri iscritti per la prima volta sono 46.154, oltre la metà (51%) si sono iscritti nella scuola primaria.
Da dove provengono? In testa, da un anno, ci sono i romeni (92.734 alunni, 24mila in più rispetto all´anno precedente), seguono gli albanesi (85mila), i marocchini (76mila), i cinesi (27mila), gli ecuadoregni (17mila) e i tunisini (15mila). Ultimi i mongoli, con solo 20 studenti. Non mancano i "nomadi" (12mila). Frequentano per lo più le scuole primarie (dove sono il 7,7% degli iscritti) e secondarie di I grado (7,3%). Nonostante la scuola dell´infanzia non rientri nell´obbligo scolastico, qui gli iscritti stranieri sono il 6,7%. Più ridotta la loro presenza nella scuola secondaria di II grado (pari al 4,3%). Che cosa studiano? Preferiscono gli istituti professionali (8,7% degli alunni) ai licei classico e scientifico (1,4% e 1,9% rispettivamente). Dove studiano? Per lo più nel centro-nord, con alcune regioni record: in Emilia Romagna sono l´11,8% degli alunni, in Umbria l´11,4%, in Lombardia e Veneto sono oltre il 10%. Non mancano casi limite: classi con oltre la metà di studenti stranieri.
Difficoltà negli studi? «La mancanza di regolarità scolastica tra gli studenti con cittadinanza non italiana - scrivono i tecnici del ministero - rappresenta un dato allarmante, dovuto sia a difficoltà legate alla conoscenza della lingua italiana, sia a problemi di integrazione sociale. In media, il 42,5% di alunni stranieri non è in regola con gli studi e il crescere dell´età aumenta il loro disagio scolastico». Non mancano infine gli studenti "clandestini", figli cioè di immigrati irregolari che «hanno pieno diritto e dovere di partecipare al sistema scolastico italiano come previsto dal Dpr 349/99».

Repubblica 15.10.08
Luisa Imbriani dirige una scuola con punte del 38% di stranieri
La prof più "multietnica": la diversità arricchisce
Preoccupazioni immotivate dei genitori. Indiani e cinesi brillano in matematica, romeni e moldavi nelle lingue
di Filippo Tosatto


PADOVA - Nelle scuole padovane le classi multietniche sono una realtà consolidata, con punte del 37-38 per cento di alunni stranieri nei quartieri - Arcella e Forcellini - dove è maggiore la presenza di famiglie immigrate. In particolare, nella scuola media Briosco la percentuale di ragazzini extraeuropei - africani e asiatici, in particolare - è tra le più elevate d´Italia. Un record che in alcune sezioni ha finito per il sollevare perplessità e anche proteste da parte dei genitori italiani, spalleggiati dall´assessore veneto all´Istruzione, Elena Donazzan di An, favorevole all´introduzione delle "quote etniche" ora caldeggiate in Parlamento dalla Lega. Ma è di tutt´altro avviso la dirigente Luisa Imbriani, responsabile dell´istituto comprensivo che include la Briosco, fermamente contraria all´ipotesi di barriere preventive alla scuola dell´obbligo fondate sulla nazionalità. «Stiano tranquilli i genitori, la diversità è una fonte di crescita culturale, non certo un limite - afferma la professoressa Imbriani - . Noi stiamo dimostrando, attraverso un´offerta formativa articolata, che i ragazzi italiani e stranieri possono crescere insieme, arricchendosi a vicenda nel contatto con la novità. Oltretutto, anche sul piano del rendimento individuale, gli insegnanti ci segnalano spesso esempi di ragazzini indiani e cinesi che brillano nella matematica e nelle scienze. I romeni e i moldavi confermano la disposizione all´apprendimento rapido delle lingue. E in aula, quasi sempre, superata l´iniziale sorpresa, sono proprio gli alunni padovani a mostrare interesse, curiosità e apertura verso i compagni stranieri».

l’Unità 15.10.08
Il Papa in silenzio
Pio XII e le deportazioni
L’Italia ha avuto un ruolo enorme nell’orrore delle persecuzioni razziali
Tutto dimostra che i nazisti avevano bisogno del silenzio
di Furio Colombo


Una proposta sorprendente è stata avanzata da Papa Benedetto XVI come ragione importante per la beatificazione di Pio XII: il silenzio. Di fronte al dilagare delle leggi razziali in Europa e all’evidente gravità di quelle leggi prima ancora che arresti e deportazioni svelassero il progetto di distruzione completa di un popolo, Pio XII, capo della più vasta e potente organizzazione religiosa di un mondo che allora era centrato sull’Europa, ha ritenuto di tacere, di tacere anche quando, con l’occupazione tedesca di due terzi della penisola, Roma inclusa, dopo l’armistizio e il tentativo italiano di uscire dalla guerra, forze armate tedesche e fasciste erano attive, e aggressive, e vendicative nel tentativo di catturare quanti più ebrei, individui e famiglie fosse possibile, intimando la pena di morte a chi avesse aiutato i ricercati e compensando ogni delazione italiana (ce ne sono state a migliaia) con lire cinquemila.
La principale ragione per apprezzare come utile e virtuoso quel silenzio è che in tal modo il Papa ha reso possibile una vasta rete di aiuto e sostegno in Vaticano, in chiese e in conventi italiani per salvare, ospitare, nascondere moltissimi italiani ricercati per razzismo e per ragioni politiche. Si è trattato della più estesa e attiva rete di rifugio e di soccorso, ben documentata dalla Storia e di cui migliaia di sopravvissuti, in Italia e nel mondo, hanno dato atto e gratitudine al Vaticano.
Ci sono però due grandi obiezioni, una nel mondo dei fatti, l’altra a livello dei principi.
I fatti ci dicono che l’Italia ha avuto un ruolo molto grande nell’orrore delle persecuzioni razziali che hanno insanguinato e marcato come indimenticabile vergogna tutta l’Europa.
L’Italia cristiana, cattolica, legata con un Concordato alla Chiesa di Roma. È importante ricordare tutto ciò, oggi, alla vigilia del 16 ottobre. Quella notte del 1943 mille e diciassette cittadini ebrei romani - dai neonati ai vecchi ai malati - sono stati arrestati nelle loro case del Ghetto di Roma da unità militari tedesche munite di nomi e indirizzi da parte dei fascisti italiani. Tutti i rastrellati sono stati tenuti prigionieri per giorni presso il Collegio militare di Roma sotto la sorveglianza di militi fascisti, e poi deportati ad Aushwitz da dove quasi nessuno è tornato. Dunque ciò che è accaduto a Roma il 16 ottobre non è stato il blitz di un terribile istante ma una lunga, meticolosa operazione nazista e fascista durata per giorni nel silenzio di Roma. L’Italia era l’altra grande potenza che ha invaso e occupato, insieme ai tedeschi. Il ruolo che l’auto-narrazione italiana si è attribuito dopo il disastro e la sconfitta fascista, è quello di uno Stato buono, sgangherato e debole dove i soldati combattevano con le scarpe di cartone. Era vero, nell’esperienza disperata dei soldati di allora, ma persino mentre il disastro italiano si compiva, l’Italia dalla Francia ai Balcani alla Russia, era l’altro grande Paese invasore, oppressore, occupante. Non tutti i diplomatici e i generali italiani ubbidivano, anzi ci sono state clamorose dissociazioni di fatto (che vuol dire cauta ma ferma disobbedienza) dalle leggi razziali. Ma l’Italia era l’altro persecutore, le leggi razziali erano state firmate dal re italiano, unico caso in Europa. Ma il re Savoia era imparentato con metà delle monarchie europee del tempo, l’esercito sabaudo era collegato con l’attivismo nazista antisemita attraverso gerarchi, ufficiali, agenti della milizia fascista, che facevano comunque del loro meglio per terrorizzare le popolazioni locali e spingere al peggio i “Gaulatier” e i governi fantoccio. Erano impegnati a terrorizzare tutte le popolazioni, a sostenere tutti i fascismi locali più sanguinosi, ad accumulare, contro l’Italia, un odio che dura ancora. Ma sopratutto erano attivissimi nella collaborazione all’immensa rete di delitti che oggi chiamiamo Shoah. Il diario di un uomo giusto come Giorgio Perlasca che, da solo, in Ungheria, ha salvato migliaia di cittadini ebrei dalla deportazione fingendosi diplomatico spagnolo testimonia del frenetico lavoro della persecuzione in regioni e Paesi di un’Europa cristiana e in gran parte cattolica. O comunque sensibilissima all’autorità della Chiesa cattolica, che riguardava anche una parte non irrilevante di soldati e ufficiali tedeschi. E che certo condizionava il fascismo.
E qui entra in campo la questione di principio. Ciò che è accaduto in Italia, sopratutto l’assenza quasi totale di voci italiane contro le leggi razziali, allo stesso tempo spaventose e folli (folli in modo evidente, a cominciare dalle enunciazioni di principio, dai presunti fondamenti storici e logici, dal titolo stesso di “leggi in difesa della razza”) è reso più inspiegabile e difficile da giustificare a causa del comportamento del Parlamento filo-fascista bulgaro. Quel Parlamento, sotto la guida del presidente Dimitar Peshev (cito da libro di Gabriele Nissim «L’uomo che fermò Hitler», Mondadori), rifiutò e respinse le leggi razziali preparate sull’odioso modello italiano. E impedì in tutto il Paese occupato “dai camerati tedeschi” qualsiasi atto contro i cittadini bulgari ebrei. Dunque dire di no da parte di chi aveva autorità era pericoloso ma possibile. Imbarazza la memoria italiana anche il ben noto gesto del re di Danimarca che, pur privo di forza militare e di qualunque strumento di resistenza, si oppose, senza cedere mai, all’imposizione della stella gialla come identificazione dei suoi cittadini ebrei.
Sono leggende, ormai, brandelli di un onore perduto. Sono tentativi di recupero di un minimo rispetto per un’Europa colta e orgogliosa della sua identità in cui è dilagato il peggior delitto della Storia. Ma quel delitto è dilagato nel silenzio. Ed è stato - poche volte - fermato dal coraggio, raro, drammatico, ma, come si vede, efficace di rompere il silenzio. Tutto dimostra che i nazisti avevano bisogno del silenzio e contavano sulla cancellazione della memoria.
C’è un rapporto fra il silenzio che ha consentito a una organizzazione non sospetta e intatta (a causa del silenzio) come la Chiesa cattolica e la salvezza di migliaia di ebrei? Certo, c’è. Ma è lo stesso silenzio che ha consentito la deportazione e lo sterminio di milioni di ebrei d’Europa. Era possibile parlare? Rispondono alcune voci che, in alcuni luoghi, hanno cambiato la Storia. Era pericoloso? Lo era. Ma era anche un ostacolo grave e imbarazzante, se è vero che le radici d’Europa sono - dunque erano - cristiane e cattoliche.
Infine: si ricorda un esempio, nella lunga storia cattolica di martiri e santi, di qualcuno portato all’onore degli altari per avere taciuto? Uno solo?

l’Unità 15.10.08
Da Milano a Roma, nelle università proteste a valanga
Atenei in rivolta contro la Gelmini. Catania non celebra l’inaugurazione dell’anno accademico
di Luigina Venturelli


RIVOLTA Affettuosamente la chiamano Gelminator, la ministra incaricata dal collega Tremonti di «sterminare l’università italiana». Il giudizio degli studenti sui tagli da 1,4 miliardi di euro che minacciano gli atenei è inesorabile. Come inesorabile è la valanga di proteste sotto cui gli universitari vorrebbero seppellire il suo decreto legge: occupazioni, sospensioni didattiche, lezioni a cielo aperto, catene informatiche e cortei. Mariastella Gelmini sta scalando giorno dopo giorno la classifica dei ministri più contestati della storia repubblicana.
Non solo a Roma, dove continuano i cortei interni alla Sapienza. Ieri è stata l’ennesima giornata di mobilitazioni su tutto il territorio nazionale. Alla Statale di Milano, dopo l’occupazione del rettorato di lunedì, un centinaio di studenti si sono riversati negli uffici amministrativi e poi riuniti in assemblea nel cortile per ottenere una condanna ufficiale del senato accademico contro il decreto. Puntualmente arrivata: «I tagli previsti in finanziaria determinerebbero una situazione del tutto insostenibile per gli atenei, con effetti irreversibili sulle loro funzioni scientifiche e un degrado irrimediabile dell’offerta formativa e di servizi per gli studenti».
A Napoli, invece, gli universitari hanno interrotto lo svolgimento del senato accademico dell’Orientale per chiedere un’assemblea d’ateneo. Anche in questo caso, obiettivo centrato: mercoledì prossimo tutte le attività didattiche saranno sospese per consentire la pubblica discussione «dell’emergenza università». A Firenze la questura contava nella serata di ieri un totale di trenta sedi occupate, tra licei, istituti tecnici e due facoltà universitarie. Clima rovente anche a Torino, dove centinaia di studenti, ricercatori e docenti si sono ritrovati nell’atrio di Palazzo Nuovo per decidere il caledario delle prossime mobilitazioni: lezioni a cielo aperto già da oggi, assemblea d’ateneo per il 22 ottobre, presidio all’Unione industriali dove il 28 ottobre è attesa la ministra.
L’università di Catania ha addirittura deciso di non celebrare l’inaugurazione dell’anno accademico: «Non è tempo di celebrazioni ufficiali» è l’amara considerazione della dirigenza dell’ateneo, meglio «un incontro pubblico sui problemi del sistema nazionale universitario» a sostituire finti rituali d’entusiasmo. Mentre a Palermo la facoltà di lettere e filosofia - in vista del corteo cittadino del 20 ottobre in occasione della presenza in città della Gelmini - ha annunciato «lo stato di agitazione e di assemblea permanente» contro «il grave progetto di attacco alle garanzie e ai diritti dell’intera società».
E mentre il malcontento cresce anche tra il corpo accademico - le sigle sindacali dei docenti stanno organizzando una manifestazione nazionale da attuare nei primi giorni di novembre - oggi il mondo universitario e scolastico scenderà ancora in piazza a Roma, Bologna, Torino, Napoli, Parma, Genova, Perugia, Milano, Viareggio, Brescia e Castrovillari. E Mariastella Gelmini potrebbe presto eguagliare il primato delle proteste accumulate dai suoi predecessori nell’epoca ruggente del ‘68.

l’Unità 15.10.08
Effetto Gelmini: a Firenze undici scuole rischiano la chiusura. Domani lezioni in 15 piazze cittadine
di Silvia Casagrande


SALE a 36 il numero delle sedi occupate. A Novoli tensione con gli studenti di Forza Italia

Trentacinquemila fiaccole contro la riforma-Gelmini. «Un’adesione largamente superiore alle aspettative», commentano i sindacati che hanno organizzato il corteo e che stanno già pensando ad altre iniziative di protesta, «ma soprattutto di informazione, per rispondere con la forza dei contenuti alla superficialità dei messaggi mediatici che manda il governo». Il segretario della Cisl Firenze Riccardo Cerza ha reso noti i numeri delle ricadute della riforma su Firenze: 900 insegnanti, 200 ausiliari, 750 precari in meno, oltre a 11 istituti a rischio chiusura: la scuola città Pestalozzi, le scuole medie Arnolfo di Cambio-Beato Angelico e le Machiavelli-Papini di Firenze, Leonardo da Vinci di Lastra a Signa, Maria Maltoni di Pontassieve, Ippolito Nievo di San Casciano Val di Pesa, mentre delle superiori rischiano Leonardo da Vinci di Empoli, l’Istituto d’arte di Sesto e l’Itc Galilei di Firenze.
Mentre la protesta dilaga tra le scuole superiori e salgono a 36 le sedi occupate e a Pisa anche Scienze Politiche ha sospeso la didattica, tornano le lezioni in piazza degli atenei fiorentini. Oggi dalle 11 alle 16.30 le lezioni di agraria si svolgeranno in piazzale Kennedy, mentre domani anche tutte le altre facoltà faranno offriranno i loro corsi alla cittadinanza in 15 piazze a partire dalle 11. In piazza dell’Isolotto si parlerà di nutrizione animale, in Santa Croce e piazza Ghiberti di architettura, in via delle Pandette a Novoli di geografia dello sviluppo, in piazza Leopoldo si susseguiranno quattro docenti di ingegneria, in piazza Dalmazia si alterneranno argomenti di medicina e farmacia, in piazza Dalmazia corsi in scienze della formazione, storia in piazza Indipendenza, lettere a SS. Annunziata, filosofia in Savonarola, matematica alla stazione di Rifredi, chimica e fisica in piazza della Libertà, mentre in via della Torretta gli studenti di psicologia invitano tutti a un’assemblea aperta sugli effetti delle legge 133.
Ieri pomeriggio l’assemblea delle facoltà del polo di Novoli ha deciso di non procedere a un’occupazione dell’edificio, ma nel corso del dibattito si sono verificati alcuni momenti di tensione. Alessio Paoli, rappresentante di «Studenti per la libertà» fa sapere che, intervenuto per difendere il decreto Tremonti, è stato «contestato con fischi e urla». Qualche ora dopo, è intervenuto a commentare l’accaduto il coordinatore di Forza Italia Giovani Firenze Tommaso Villa, che accusa i partecipanti all’assemblea di saper «produrre solo insulti, calunnie e bugie». A Villa risponde una delle moderatrici dell’incontro: «Dopo aver parlato esattamente come tutti gli altri partecipanti, il rappresentante di “Studenti per la libertà” semplicemente non ha ricevuto nessun applauso, ma risposte relative ai contenuti del suo intervento. A quel punto mi ha accusato di mentire, ma io gli ho fatto notare che stavo semplicemente leggendo il testo della legge 133». Gli studenti del polo di Novoli parlano di «polemiche strumentali» e accusano gli studenti di FI di volerli «provocare», per esempio «appendendo in facoltà manifesti di partito».

Repubblica 15.10.08
La mobilitazione
Dopo la Toscana anche l´Emilia Romagna prepara un ricorso alla Corte Costituzionale contro il taglio delle scuole con pochi alunni
Da Milano a Napoli rivolta in facoltà fiaccolate, cortei e lezioni in piazza
di Mario Reggio


ROMA - Dalle scuole la protesta infiamma ora le università. A Catania non si terrà l´inaugurazione dell´anno accademico. Prove di occupazione degli studenti alla Statale di Milano, dove, ieri sera il Senato accademico ha approvato con solo quattro astensioni la linea della Crui, di cui il rettore Enrico De Cleva è presidente. La linea è: no ai tagli di mezzo miliardo di euro al Fondo ordinario per il funzionamento degli atenei, no ai tagli per la ricerca.
Alla Sapienza di Roma la mobilitazione cresce giorno dopo giorno. Ieri mattina corteo dalla facoltà di Lettere e richiesta al Senato accademico del blocco della didattica. Una richiesta fatta propria dal professor Piero Bevilacqua, docente a Lettere di Storia Contemporanea. «Sono entrato in aula ed ho avvisato gli studenti che ho deciso di rinviare a data da destinarsi l´inizio delle lezioni a meno che il governo non cambi il progetto di legge Gelmini, perché condurrà all´emarginazione dell´università pubblica».
Clima incandescente anche a Torino dove studenti, ricercatori e docenti si sono riuniti nell´atrio di Palazzo Nuovo. Obiettivi: assemblea di ateneo il 22 ottobre, presidio il 28 davanti all´Unione Industriali, partecipazione allo sciopero nazionale del 30 ottobre indetto dai confederali, Snals e Gilda contro i tagli del personale della scuola ed il maestro unico. Oggi assemblea dei collettivi alla facoltà di Lettere della Federico II di Napoli contro i tagli al fondo per le università. Tra i manifestanti alla Statale di Milano una ex compagna di facoltà del ministro Gelmini: «Mi sono iscritta per la seconda laurea a Filosofia - afferma Carla Franzoni - l´ho conosciuta a Giurisprudenza a Brescia, era meglio come compagna di corso che come ministro, una ragazza buona e mansueta, non molto brillante negli studi. E non mi ricordo neanche dei suoi interventi politici». Sul fronte della scuola, oggi, fiaccolate in molte città italiane: Roma, Bologna e Torino. Intanto la Regione Emilia-Romagna, seguendo l´esempio della Toscana, sta preparando il ricorso alla Consulta contro il taglio delle scuole con meno di 50 studenti. E domani, a Firenze, in 14 piazze lezioni universitarie all´aperto per sensibilizzare contro i tagli del governo.

Repubblica 15.10.08
La generazione dei nuovi ribelli
Dai licei alle università la scuola è in rivolta. Ecco il ritratto della generazione che anima la protesta. Con qualche sorpresa
di Maria Novella de Luca


Dalle elementari all´università esplode la protesta contro la riforma del ministro Gelmini. Il cuore della rivolta è tra i liceali: i primi studenti a sentirsi precari già tra i banchi, ma loro non ci stanno. E sono pronti a lottare , questa volta a fianco di prof e genitori. Ecco chi sono
Eleggono Yunus, il banchiere dei poveri, a simbolo della finanza buona
Rosina: "Chi è nato negli anni ´90 dovrà cercare di riscrivere la società"

Una «protesta globale», perché, spiega Renato Pocaterra, sociologo della Fondazione Iard «quello che si sta spezzando in Italia è un patto sociale, dall´anno prossimo avremo milioni di famiglie che non sapranno più come conciliare il lavoro e la cura dei figli», con un impatto durissimo, devastante. Più che un nuovo �68 dunque, un nuovo 1848, come suggeriva due giorni fa Adriano Sofri, sull´inserto Emme dell´Unità. Come quando in un´Europa piegata da una feroce crisi economica, un inseguirsi tumultuoso di moti, rivolte e insurrezioni, cambiarono per sempre paesi ed istituzioni.
Forse. Per adesso il movimento che si organizza negli atenei e nelle scuole superiori è ancora in cerca di un battesimo, ma è camminando tra collettivi e assemblee che si scopre dov´è il cuore del nuovo. Non più, non solo nelle università, dove l´aria che si respira è mesta, come se qui, in molti, il domani sentissero di averlo già perso. Seduta davanti alla facoltà di Fisica alla «Sapienza» di Roma, Francesca Ambrogini, che nella primavera prossima avrà la laurea in tasca, racconta amara: «Non ho futuro come ricercatrice, non ho futuro come insegnante, ho sgobbato duramente per 5 anni e forse avrò una stage in un´azienda di informatica...». E´ tra più giovani invece, i fratelli minori che qualcosa cambia. Andrea che ha 15 anni e fa il liceo scientifico, spiega: «Nei collettivi parliamo soprattutto di diritto e di economia, e spesso invitiamo anche i prof. Cerchiamo di capire e di studiare perché sembra inevitabile avere un futuro incerto e da precari. Poi decidiamo come e quando protestare. La cosa più importante è non essere strumentalizzati: il 17 saremo tutti in piazza e anche il 30. E´ il collettivo che deve decidere non i partiti, la politica siamo anche noi».
Appunto. Eccoli. Consapevoli di come sarà la vita adulta e pronti a navigarci dentro. Alessandro Rosina, demografo dell´università Cattolica di Milano, li ha definiti «generazione post». «La differenza tra questi adolescenti e i giovani adulti che sono all´università, è che loro, i quindici-diciottenni di oggi, forse non si lasceranno schiacciare da una vita che è diventata improvvisamente senza tutele e ombrelli sociali. Mi spiego: questi adolescenti sono la prima generazione che sa con chiarezza che non potrà più contare su un lavoro fisso, sa che dovrà spostarsi, essere nomade, dovranno avere il coraggio di costruirsi una famiglia pur non avendo né sicurezze abitative né lavorative... A differenza però dei trentenni di oggi, le certezze non se le aspettano. E nella critica a questo mondo che pure dovranno affrontare hanno riscoperto il valore della politica e dell´impegno».
Perché ciò che li aspetta è duro, durissimo. «Da un punto di vista simbolico - continua Alessando Rosina, che a questa generazione no-future sta dedicando un libro - i ragazzi nati negli anni Novanta dovranno davvero cercare di riscrivere la società. Perché loro sono post in tutto. Arrivano dopo la fine delle ideologie, arrivano dopo ogni tipo di scoperta scientifica, oltre alla vita reale possiedono già quella virtuale, perché sono nati insieme ad Internet. Però sanno che il modello non è quello dei loro genitori, che potevano contare ancora, appunto, sulla scuola pubblica, sulla sanità pubblica, su un lavoro relativamente certo e su una pensione accettabile. Davanti ai loro occhi c´è una pagina bianca, ma la cosa positiva è che gli adolescenti sembrano rispondere in modo positivo, cercando vie alternative».
Insomma una ribellione diversa, per una politica nuova. Come sottolinea Alessandro Rosina, questi giovani post che il nuovo autunno caldo della scuola sta facendo emergere, sono già «massa critica, sono già un qualcosa». Chiarisce Marina Bruni, 18 anni, leader della rete dei collettivi di Napoli: «La sinistra storica e la sinistra antagonista non esistono più. Noi siamo un movimento che pensa con la propria testa, che combatte la Destra e questo Governo, ma che non appartiene e non si schiera». Infatti. Ciò che conta sono figure simbolo. «Quello che mi interessa - racconta Guglielmo, primo liceo classico al Mamiani di Roma - è l´ecologia sociale. La battaglia di Vandana Shiva, ad esempio, per un´agricoltura sostenibile, o Arundati Roy, che difende l´acqua dei contadini. Sono contro Bill Gates, dalla parte di chi offre Internet open-source. So che avrò un futuro precario, preferisco dire flessibile, mi sto preparando a tutto questo. Quello che però è inaccettabile è che questo Governo di destra abbia deciso di rubarci gli strumenti del sapere. In nome di che? Per controllarci meglio».
E Guglielmo racconta poi che mai suo padre l´ha appoggiato così tanto, che il 30 ottobre alla manifestazione ci andranno insieme ("lui però a quella del 17 non viene, preferisce muoversi con il sindacato"), e con noi, dice, «ci saranno i prof, i lavoratori». «Comunque appena posso me ne vado da questo paese, per fortuna ho studiato le lingue fin da piccolo, il nostro futuro purtroppo non è qui».
Eccolo il dato nuovo. Generazioni "con" e non generazioni "contro". Alla «Sapienza» ieri i presidi di Lettere e Scienze Umanistiche hanno partecipato all´assemblea di ateneo, mentre per un giorno e una notte, i genitori e gli insegnanti delle scuole elementari, daranno vita oggi ad un nuovo «No Gelmini days and night», con cortei, fiaccolate, occupazioni ludiche con canti e balli animati dai bambini. Anna Maria è la madre di Giada, 14 anni, liceo piscopedagogico a Torino. «Noi genitori - dice -dobbiamo fare autocritica. Per anni abbiano criticato senza pietà la scuola, abbiamo abbandonato gli insegnanti al loro destino, li abbiamo privati della loro autorità e adesso ci rendiamo conto di quello che stiamo perdendo. Un paese senza scuola pubblica non è più un paese democratico. Per fortuna non ho più figli alle scuole elementari: ma se ho potuto conciliare nella mia vita il lavoro e la famiglia è stato proprio grazie al tempo pieno. I miei figli hanno fatto scuole buone, ma se passano questi tagli, se si accorciano le ore, addirittura gli anni di scuola, come faranno poi ad inserirsi nel mercato del lavoro? E´ pazzesco. Siamo già gli ultimi in Europa. Ma forse il progetto del Governo è proprio questo: aumentare le differenze tra chi potrà pagarsi l´istruzione e chi no. Tra gli italiani di serie A e quelli di serie B...».

Repubblica 15.10.08
In classe leggevo Macbeth
di Pietro Citati


Molto spesso provo dei sussulti di gioia ricordando gli anni, dal 1954 al 1959, nei quali insegnavo negli avviamenti professionali (medie più modeste, oggi credo scomparse). Venivo da Monaco di Baviera, dove ero lettore d´italiano all´Università, e tenevo seminari, sulle varianti del Giorno di Parini e dei Canti di Leopardi, insieme a giovani austeri, silenziosi e coltissimi, spesso più anziani di me. Alcuni di loro avevano combattuto a Berlino negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale: allora erano giovanissimi, e il cranio adolescente non sopportava la durezza dell´elmo. Dopo due anni di silenzio, ritornando in Italia mi reimmersi nella bolgia della realtà. A Frascati e a Roma, avevo tre classi di quaranta studenti l´una, alle quali avrei dovuto insegnare italiano, storia e geografia. Prima bisognava, come allora si diceva, mantenere la disciplina: lo feci col soccorso di qualche schiaffo, ciò che oggi mi avrebbe procurato, da parte della magistratura italiana, la condanna a venti anni di lavori forzati.
Come dimenticare quegli anni bellissimi? Appena arrivavo nella prima avviamento, trovavo davanti a me, seduti meticolosamente sul primo banco sotto la cattedra, due fratelli gemelli.
Erano piccoli, educati, immobili, silenziosi, in apparenza attentissimi: non avrei potuto desiderare scolari migliori; eppure le mie parole (e qualsiasi parola, anche quella del Padre Eterno) attraversavano le loro orecchie, non vi lasciavano nessuna eco, e poi volavano via, verso le finestre semiaperte e l´azzurro del cielo. Non leggevano mai un libro: non ascoltavano mai le lezioni; non studiavano mai; rimanevano impassibili e indifferenti qualsiasi cosa dicessi. Minacciare la bocciatura non produceva in loro nessun trauma (come oggi si suppone): non sapevano nemmeno cosa fosse un trauma. Avevano scelto di mantenere sempre una passività silenziosa, percorrendo la scuola come due aeroliti caduti da un pianeta sconosciuto.
Il momento più bello - me lo ricordo con struggimento - era attorno alle dieci e un quarto, quindici minuti prima dell´intervallo: in ogni classe, tutti i quaranta ragazzi aprivano con un gesto assolutamente contemporaneo la cartella o il sacco. Ne estraevano un grosso brandello di carta unta, dal quale fuoriusciva un immenso panino: come dicono a Roma, una ciriola. Non avevo mai visto una ciriola così monumentale. Ognuna era aperta a metà; e conteneva una cotoletta, oppure una spessa e odorosa frittata di zucchine. Le mandibole dei ragazzi non riuscivano ad afferrare la ciriola: la smozzicavano in punta, la mordicchiavano ai lati, fino a impadronirsi del cibo desiderato da due ore. Il pasto, laboriosissimo, durava almeno quaranta minuti. Il pane, la carne, la frittata di zucchine scomparivano lentamente nel corpo quasi infantile, mentre un lieve colorito roseo ne irrorava le guance.
In classe, non volava una mosca. Niente turbava la solenne beatitudine del pasto. Era perfettamente inutile tentar di violare quel lungo momento pacifico: sabotare l´azione dei denti, della lingua, dei succhi gastrici, dello stomaco. Se ne avevo voglia, raccontavo una storia divertente. Nessuna risata: la bocca era troppo piena; solo un muto squillare di gioia negli occhi intelligenti.
***
Temo di essere stato un pessimo professore. I temi di italiano erano pieni di errori, disordinati, sgangherati, ma spesso riproducevano fedelmente la vivacità del discorso orale. Annotavo brani espressivi. Ma io ero stato paracadutato in quella scuola per insegnare l´italiano; e se il ragazzo più intelligente scriveva: «Mi´ padre lavora ar Borigrinigo», cosa potevo fare? Avrei dovuto prendere tutti gli scolari, uno per uno, portarli davanti alla lavagna, farli scrivere col gessetto, insegnando loro la giusta grafia. Era impossibile. Se avessi concesso venti minuti d´attenzione esclusiva a un solo ragazzo, la classe sarebbe esplosa in un urlo di gioia, le cerbottane, estratte dalla cartella, avrebbero lanciato frecce o pallini bagnati d´inchiostro, macchiando i visi, le orecchie, gli occhi, le mani, i grembiuli di tutti. Anch´io avrei corso seri pericoli, divorato e inghiottito insieme alle frittate di zucchine.
C´era una sola possibilità di salvezza: rinunciare alla scrittura, e leggere a perdifiato. Ricordo con orgoglio i miei successi di lettore: in prima avviamento, le meravigliose Favole italiane di Calvino e poi, via via, I promessi sposi, semplificati nella sintassi, che ottenne il successo dei grandi romanzi d´avventura. In terza avviamento, osai di più: Delitto e castigo, appena tagliato in qualche capitolo, e il Macbeth, con le diverse voci dei personaggi. Il preside aveva dubbi sui miei metodi: ma io continuavo a leggere e leggere; e la mia voce tornava a casa lievemente arrochita.
Sono persuaso che la condizione del padre, della madre, del nonno o del professore, che leggono un libro al figlio, al nipote e allo studente, sia uno dei momenti supremi della vita. I bambini e i ragazzi adorano (anche oggi) la lettura ad alta voce fatta da un adulto: la lettura giusta, compiuta con passione, colore, estro, dono di intrattenimento. I padri e le madri non amano più questa lettura, che dovrebbe occupare almeno un´ora al giorno, prima di cena. Preferiscono depositare i figli nel famoso tempo pieno (utile ai genitori, ma nocivo per i ragazzi e il loro rapporto con la famiglia): o portarli in macchina, attraverso le convulse strade della città, nelle piscine puzzolenti di cloro, o alla lezione di yoga, o ad allenarsi in palestra.

il Riformista 15.10.08
Scuola. L'unico fronte nella pax berlusconiana
Non solo pantere, stavolta in movimento ci sono i genitori
di Peppino Caldarola


Lo sentiamo chiaramente questo rumore di fondo che viene dalle scuole e dalle università italiane. La pace sociale, fatta di paura del futuro e di consenso politico, che avvolge questi primi mesi del governo Berlusconi, sembra interrotta da studenti, genitori e insegnanti. La protesta dilaga a macchia di leopardo in tutta Italia, dalla Sicilia a Torino e Milano. Forse dovevamo scrivere a macchia di pantera, se il felino avesse le macchie, per ricordare quel dicembre dell'89 quando partì, contro il ministro socialista Ruberti, una grande lotta studentesca culminata nelle occupazioni del ‘90 e che prese il nome dalle "pantere nere" afro-americane o forse da una belva scappata dallo zoo di Roma che lasciava tracce ma non si faceva catturare mai e che fece coniare lo slogan "la pantera siamo noi". La pantera oggi sono i giovani universitari, gli insegnanti di tutti i sindacati, i genitori e persino quei poveri bambini, panterine inconsapevoli, portati a sfilare in corteo o sotto il ministero della Pubblica Istruzione a Roma.
Benvenuta nuova pantera o come diavolo vorrai farti chiamare. C'era bisogno di una scossa. I movimenti giovanili, e i movimenti che nascono nella scuola, spesso annunciano ben altre rivoluzioni, anche del costume. È toccato a quasi tutti i ministri della Pubblica Istruzione o della Università legare il proprio nome a contestazioni feroci. La ministra Gelmini dovrebbe essere contenta, è in compagnia di Ruberti, di Gui, della Falcucci e di altri ancora.
Questa volta la protesta parte assai più larga che nel passato. Nella storia dei movimenti studenteschi c'era dapprima l'università, poi le scuole medie superiori. E poi ancora gli insegnanti e quasi mai i genitori. Oggi si parte dai più piccoli, le panterine destinate a cadere nelle grinfie del domatore, pardon del maestro, unico. Questo è un dato di assoluta novità. Tutta la scuola ribolle perché tutta la scuola è stata messa a soqquadro dalla Gelmini, ovvero, come dicono i contestatori, dai tagli di Tremonti che la Gelmini ha dovuto applicare.
Venerdì 17 e giovedì 30 ci saranno le manifestazioni più grandi contro il mega-taglio che sottrae alle università 500 milioni di euro nei prossimi tre anni. Non si tratta solo di tagli. Ovvero i risparmi modificano la struttura della scuola attuale. Nelle scuole elementari, accanto al grembiule che torna a sancire una nuova eguaglianza (ma il mio fiocchetto era più moscio di quello del mio compagno di banco più ricco e il suo grembiulino era lucido, il mio opaco), ricompare il maestro unico. La retorica dice che un maestro solo è stato sufficiente per tante generazioni e se lo devono far bastare i bambini di oggi. I genitori e gli insegnanti si sono fatti due calcoli e hanno scoperto che le ore di didattica da 40 passano a 24, di cui due di religione, che l'insegnante unico può non essere specializzato sulle tante materie di insegnamento, che le classi diventano di 31 alunni e che alle 12,30 la scuola finisce e lì comincia il tormento delle mamme, e dei papà, che lavorano. Se sono fortunati, se possono pagare e se la scuola lo vuol fare dopo le 24 ore c'è il doposcuola, sennò tutti a casa. Ma dove e con chi? Se c'è il doposcuola non sarà didattica ma baby parking. Chi ha figli sa che dovrà affrontare salti mortali.
Solo per queste ragioni la ministra Gelmini dovrebbe scandalizzarsi di meno e ascoltare di più. La protesta ha anche lati oscuri. Franco Bassanini, ex ministro, ha ricordato che accorpare una scuola con meno di 500 alunni ad un'altra scuola danneggia solo il preside che perde il suo ufficio e la cosa, dice Bassanini, non ci deve commuovere.
Le pantere più grandi stanno scendendo in lotta per difendere le panterine? Se le manifestazioni saranno non violente e non daranno vita a nuove stagioni nichiliste sono benvenute. Bisogna aver paura delle generazioni silenti, non di quelle che chiedono ad altra voce diritti e tutela. Anche i genitori travolti dalla crisi hanno ragione a protestare contro una scuola che gli restituisce figli meno preparati e più esposti al game boy o altre diavolerie elettroniche quando non rintronati dalla tv. La somma di queste ragioni può diventare un torto se il movimento non sceglie la trattativa e il dibattito.
Governo e opposizione devono trarre lezione dal passato. Un governo che si rispetti non può reagire scandalizzato di fronte alla protesta. L'idea che ogni proposta governativa debba suscitare entusiasmo e gratitudine è abbastanza buffa. Il mondo è più complicato di come ce lo raccontano i sondaggi. L'opposizione non può pensare di aver trovato il filone d'oro. Molti dei problemi di Berlusconi nascono dalla situazione reale. Bassanini racconta che alcune iniziative della Gelmini sono state impostate dai governi di centro-sinistra. Infine, cavalcare le proteste senza fare proposte fa male al partito di opposizione e non è gradita dai nuovi movimenti.
Appena poche settimane fa Di Pietro è stato cacciato da una manifestazione di studenti e insegnanti davanti al ministero della Pubblica Istruzione. Questa è la scuola, non l'Alitalia a Fiumicino. Chi fa politica deve innanzitutto capire e pronunciare i "sì" e i "no" che sa di poter contenere nel proprio programma. Detto questo, un po' di "confusion de confusiones" (rubo l'espressione a Joseph de la Vega citato in un bel libro di Giorgio Ruffolo) non ci farà male.

il Riformista 15.10.08
Scuola. Ricorsi anti-decreto e manifestazioni ovunque
Pure le Regioni sul piede di guerra
di Sonia Oranges


È di nuovo "No Gelmini Day". Tornano a protestare i coordinamenti di base di insegnanti e genitori contro la riforma della scuola. E annunciano di farlo in grande stile: nove cortei solamente nella capitale, e analoghe manifestazioni a Bologna, Torino, Napoli, Parma, Genova, Perugia, Milano, Viareggio, Brescia e Castrovillari. Ormai l'appuntamento è quotidiano. Ieri in piazza c'erano i lavoratori del settore pulizia delle scuole per protestare contro il mancato finanziamento del comparto (15mila unità, concentrate soprattutto al centro-sud), oggi ci saranno anche i dirigenti scolastici che rivendicano l'equiparazione delle loro buste paga a quelle degli altri dirigenti dello Stato: il decreto Gelmini sembra aver attivato un effetto domino che sta trasformando l'ennesima riforma della scuola nel terminale dei conti in sospeso dello Stato. Ultimi (ma di peso) aggregati alla rivolta contro viale Trastevere, gli atenei: all'Istituto Orientale di Napoli come alla Sapienza di Roma si inneggia al «blocco subito», mentre il senato accademico dell'ateneo capitolino si appresta a valutare il decreto che prevede i tagli delle risorse, a cominciare dal blocco del turn-over dei docenti che vanno in pensione.
La vera battaglia sugli effetti del decreto, però, si combatte negli enti locali. A Firenze 35mila persone hanno partecipato a una fiaccolata in difesa della scuola pubblica. Il Comune di Bologna ha chiesto al governo di ritirare il decreto e portare in parlamento una proposta di legge che segua il normale iter, mentre l'opinione pubblica si è già mobilitata: l'assemblea delle scuole bolognesi ha promosso per stasera la "notte bianca per la scuola pubblica", mentre un paio di licei sono già occupati e gli altri sul piede di guerra. Ma è dalle Regioni che arriva l'opposizione più dura. L'Emilia Romagna ricorrerà contro il governo, perché «il conflitto è nei fatti», come ha spiegato il presidente Vasco Errani a proposito della prevista chiusura dei plessi con meno di 50 alunni (tagli peraltro inseriti e ben nascosti in un decreto legge approvato a ottobre in materia di sanità): «L'esecutivo interviene direttamente sulle competenze delle regioni e degli enti locali». Ma oltre alla presunta invasione di campo, a preoccupare i governatori sono i tempi strettissimi per realizzare il dimensionamento: tutto deve essere pronto per il 15 dicembre, pena il commissariamento. E c'è chi, come il vicepresidente ligure Massimiliano Costa, assicura che «non sarà tagliata alcuna scuola» e che «la Regione si prende le sue responsabilità e non applicherà le norme del ministro Gelmini, ma assumerà le proposte fatte dalle Province». Stesso messaggio dal Piemonte guidato da Mercedes Bresso. E persino la Lombardia di Roberto Formigoni ha seri dubbi: il tetto dei 50 alunni porterebbe alla chiusura di 240 scuole, senza la garanzia di un reale risparmio. Tanto che a Milano le mamme lavoratrici si sono rimboccate le maniche a colpi di assemblee in difesa del tempo pieno nelle scuole elementari.
Non è certo un caso, dunque, che l'opposizione cavalchi la tigre (o pantera che sia), annunciando opposizione senza se e senza ma nella commissione del Senato che ieri ha avviato l'esame del decreto Gelmini. Ma lei, il ministro sott'attacco, sembra imperturbabile: dopo l'apertura della Cisl, ha incassato anche un timido «forse» da Luigi Angeletti, a proposito di una revoca dello sciopero generale. «La scuola deve passare da terreno di scontro privilegiato a terreno di confronto privilegiato», diceva ieri il ministro. Peccato che non se ne sia ricordata prima.

il Riformista 15.10.08
Formazione. Parla Gualtieri, dell'Istituto Gramsci
A sinistra c'è chi difende il modello Gentile

di Alessandro Calvi

«Di quella grande scuola italiana di impianto sanamente umanistico e storicistico, che costituisce uno dei risultati migliori e più vitali dell'esperienza dello stato unitario, rimane ormai in piedi molto poco». Per «grande scuola italiana» si intende quella ideata da Giovanni Gentile nel 1925. E a scriverne in questi termini sul proprio blog - rispondendo a Luigi Berlinguer che vorrebbe cancellarla - è Roberto Gualtieri, docente di Storia contemporanea alla Sapienza e vicedirettore della Fondazione Istituto Gramsci. Gramsci-Gentile, quasi un testacoda.
Sembra un paradosso che, mentre il ministro Gelmini lavora per riportare la scuola, a forza di grembiuli e maestri unici, a prima del '68, a sinistra vi sia chi pensa addirittura al Ventennio come modello. «Cerchiamo di capirci subito - dice divertito Gualtieri - non tornerei indietro, quella però era sì una scuola di elite, ma anche di qualità e ciò significa che, più che cancellarlo come modello, occorre riuscire ad allargarlo a tutti». A chiedere cosa si deve rimpiangere, la risposta è: «La centralità del metodo storico e l'approccio umanistico che aiutano a comprendere i mutamenti di fronte ai quali siamo oggi molto meglio di quanto si possa fare con gli strumenti di cui la scuola si sta dotando». Ovvero? «Il pedagogismo o l'idea della misurabilità integrale delle competenze che sono del tutto fuori dal tempo. Vanno pure bene il voto in condotta o il grembiule ma è meglio costruire la scuola tenendo al centro l'idea di un rapporto tra maestro e allievo attraverso il quale avviene la comunicazione educativa». Non deve essere soltanto la Gelmini a riflettere, spiega Gualtieri, ma anche la sinistra che da decenni non riesce a risolvere il problema di «innestare un processo di democratizzazione sulla vecchia scuola autoritaria e classista, tutelando però un patrimonio culturale molto ricco che nella scuola di Gentile riusciva ad esprimersi». Magari - sostiene - tenendo ferma la differenza tra autoritarismo ed autorità ma «senza dimenticare che la scuola vive in equilibrio tra autorità e libertà, ed entrambi gli elementi sono necessari».
Per far ciò, però, ci si deve liberare da una visione economicista della scuola che accomuna destra e sinistra. Altrimenti - scherza Gualtieri nel suo blog - «tanto varrebbe rivolgersi direttamente ai responsabili formazione di Lehman Brothers». E per come è finita la storia, non sembra un buon affare, almeno per ora.

l’Unità 15.10.08
Caos carceri, la ricetta Alfano: espulsioni per gli immigrati
Il Guardasigilli: sono il 38% della popolazione. «Così il vitto e l’alloggio ce lo risparmiamo». Il Pd: niente risposte, solo tagli


Gli stranieri in carcere costano tanto. Troppo, per vitto e alloggio. Per non parlare di quanto costa il «frenetico turn over» di coloro che entrano e escono. Dunque, accelerare le espulsioni - «nel 2007 sono state soltanto 282 e lo scorso giugno 158» -, ma creare anche nuovi «posti letto» perché la popolazione carceraria cresce e presto sarà di nuovo emergenza, visto che gli effetti dell’indulto «sono stati del tutto provvisori». Il Guardasigilli Angelino Alfano ieri ha illustrato in Commissione Giustizia alla Camera il piano carceri del governo e le «patologie» della situazione in cui versano gli istituti di detenzione: una di queste è la presenza del 38% dei detenuti stranieri sul totale della popolazione carceraria. Oltre al fatto che i detenuti in attesa di giudizio sono molti di più di quelli condannati in via definitiva.
Da dove cominciare? Intanto rendere più facili e veloci le espulsioni perché gli «stranieri hanno già fatto pagare un costo di sicurezza al Paese e un costo di spese per assicurare loro il giusto processo. Il vitto e l’alloggio, almeno questo, ce lo risparmiamo». Poi, aumentare i posti. Alfano ne promette 4mila entro i prossimi tre anni. E non basteranno neanche quelli, fa notare l’associazione «Antigone», alla luce delle misure che vogliono prendere contro prostitute e immigrati i ministri Carfagna e Maroni.
Carenze strutturali e carenze di organico: sono necessarie 4mila 171 unità di polizia penitenziaria (secondo l’Osapp queste sono le cifre sulla carta, ma in realtà la carenza è maggiore); 2mila 535 nei ministeri interessati e 16 dirigenti. Di fronte a questa situazione il bilancio di previsione presentato dal governo Berlusconi per il triennio 2009-2011 stabilisce tagli di spesa del 45% sui rimborsi spese per gli appartenenti al corpo di polizia penitenziaria (cose basilari, come la traduzione di un detenuto in carcere); mentre, a fronte della necessità di un finanziamento pari a 200milioni di euro ogni anno per gli investimenti sulle strutture, ne sono previsti 80 per l’intero triennio. «Una relazione deludente quella di Alfano - commenta il ministro ombra del Pd Lanfranco Tenaglia -, non ha indicato alcuna ricetta per il sovraffollamento, non ha dato alcuna indicazione sulle sue scelte e sulle normative da modificare. Il ministro ci dovrà spiegare come affronterà i tagli notevoli che il bilancio dello Stato prevede proprio per il settore». La bocciatura arriva anche da Antonio Di Pietro, Idv: «Ci ha detto quello che sapevamo già, cioè che non sono previsti fondi per le nuovi carceri o per la ristrutturazione di quelle esistenti».
La situazione attuale è presto detta: i posti disponibili sono 43mila 262, ma di questi sono effettivamente fruibili soltanto 37mila 742 perché gli altri hanno «varie inidoneità strutturali». Le carceri italiane possono arrivare ad un massimo di 63mila 568 posti. Oggi i detenuti sono 57mila 187 (di cui 21366 stranieri provenienti da 150 paesi). In oltre la metà di queste strutture (che sono 205) è necessario fare interventi di manutenzione, ristrutturazione e realizzazione di nuovi padiglioni e nuove strutture. Finora con le iniziative e i finanziamenti stanziati dal governo Prodi sono stati realizzati 485 nuovi posti. Intervenendo sulle strutture già esistenti a Roma, Rieti, Bergamo, Perugia, Catanzaro si potrebbe arrivare ad altri 1270 posti; altri 575 con interventi a Massa, Rimini, Trani, Napoli e La Spezia. Il ministro ha spiegato che alla fine si cercherà - oltre a mandare via il prima possibile e nel modo più veloce possibile gli immigrati - di aggiungere all’esistente perché costruire un nuovo carcere costa 40 milioni di euro, aggiungere un padiglione appena 10.
Misure alternative alla detenzione in carcere per ora sono allo studio e saranno attuate soltanto «se daranno garanzie credibili e un controllo permanente che va implementato coinvolgendo la polizia penitenziaria». Quanto al «braccialetto elettronico da usare su chi è ai domiciliari, si sta svolgendo un’approfondita indagine di natura tecnica». Se non dovesse funzionare verrà archiviato. Infine, altra misura a cui si sta pensando in via Arenula: «Limitare le traduzioni per lo svolgimento dell’udienza di convalida dell’arresto o del fermo» ai casi di «assoluta urgenza e necessità». Al ministro replica Angiolo Marroni, coordinatore della Conferenza Nazionale dei Garanti dei detenuti: «La questione fondamentale è che senza la riforma del codice penale i problemi del nostro sistema penitenziario permangono».

l’Unità 15.10.08
Più fame e più immigrazione, crescono i guasti da febbre del pianeta
I cambiamenti climatici minacciano l’agricoltura in molti casi unico sostentamento di popolazioni in miseria
di Cristiana Pulcinelli


Oggi si calcola che siano 923 milioni gli esseri umani che soffrono di malnutrizione nel mondo, ma il loro numero è destinato ad aumentare. Gli affamati della Terra vivono per lo più in aree rurali e i loro scarsissimi guadagni vengono dall’agricoltura. Ma proprio l’agricoltura è in forte sofferenza e i motivi sono principalmente due. Da un lato il diffondersi delle coltivazioni di piante da cui ricavare combustibili si sta allargando a scapito delle coltivazioni da cui ricavare cibo. Dall’altro i cambiamenti climatici minacciano di colpire drammaticamente le capacità di approvvigionamento di cibo e acqua pulita di una larga fetta della popolazione mondiale. E addirittura potrebbero far sparire molti piccoli contadini e pescatori. Per questo la Fao quest’anno ha scelto come temi caldi per celebrare la giornata dell’alimentazione che si svolge domani proprio i cambiamenti climatici e i biocombustibili.
In un seminario preparatorio che si è svolto ieri a Roma, organizzato dalla Fao insieme alla sezione europea della Organizzazione Mondiale della sanità e alla Efsa (l’autorità europea per la sicurezza alimentare) sono stati messi sul piatto i dati riguardo all’impatto del cambiamento del clima sulla salute, in particolare per quanto riguarda la disponibilità di cibo a acqua. Non sono rassicuranti per nessuno, neppure per i paesi ricchi. Nella Regione Europea, ad esempio, si prevede una diminuzione della produttività agricola nell’area Mediterranea, nell’Europa sud-orientale e in Asia centrale. I raccolti potrebbero ridursi fino al 30% in Asia centrale entro la metà del ventunesimo secolo. Il cambiamento climatico pone anche delle questioni di sicurezza alimentare. Temperature più alte favoriscono la crescita di batteri negli alimenti, come la salmonella. Il caldo rende più problematico mantenere la catena del freddo per garantire la sicurezza dei cibi oltre a favorire la comparsa di mosche ed altri insetti pericolosi per la salute.
Per quanto riguarda la mancanza d’acqua, si prevede che al centro e al sud d’Europa e in Asia centrale colpirà un numero variabile tra 16 e 44 milioni di persone in più entro il 2080. La diminuzione della portata dei corsi d’acqua, che in estate arriverà fino all’80%, determinerà una riduzione delle acque dolci ed un potenziale incremento della contaminazione delle acque.
Il Mediterraneo è riconosciuto come «zona calda» per il cambiamento climatico. La regione è già caratterizzata da scarse risorse idriche che sono per di più non equamente distribuite all’interno dei paesi. Il cambiamento climatico potrebbe ridurre del 25% le piogge invernali in quest’area.
L’intero territorio italiano, in particolare, è già stato colpito da una diminuzione del 14% delle precipitazioni negli ultimi 50 anni. Mentre uno studio NASA-Goddard Institute for Space Studies ha evidenziato che circa 4.500 chilometri quadrati delle aree costiere sono a rischio di inondazione.
I dati più preoccupanti riguardano comunque i paesi poveri del mondo, dove l’agricoltura potrebbe subire i danni maggiori a causa da un lato della siccità, dall’altro dell’aumento di intensità delle alluvioni e dell’erosione delle coste. Ma le conseguenze, anche in questo caso, sarebbero globali. In particolare, dovremo fare i conti con ondate migratorie senza precedenti, hanno affermato gli esperti che si sono riuniti domenica scorsa a Bonn dove si è svolta la prima conferenza indetta dalle Nazioni Unite su emigrazione e ambiente. Qualche anno fa il biologo Norman Myers aveva previsto che nel 2050 il numero dei rifugiati per cause ambientali raggiungerà il numero di 200 milioni di persone. Una cifra enorme che ancora rimane un valore guida per chi si occupa di questi temi.
Già oggi il fenomeno è cominciato, dicono alcuni studiosi. «In molti casi - ha affermato Tamer Afifi dell’università delle Nazioni Unite - l’emigrazione ha come causa un fenomeno ambientale anche se gli emigranti non la riconoscono. Dicono che sono andati via perché non c’era lavoro, ma i motivi che ci sono dietro sono la desertificazione e l’erosione del suolo».

l’Unità 15.10.08
Sacconi ci riprova, attacco al diritto di sciopero
Cgil: governo illiberale, colpisce la Costituzione. Regole più dure nei servizi pubblici
di Giuseppe Vespo


REGOLE Prevenire il conflitto con la conciliazione e l’arbitrato, evitare annunci o revoche all’ultimo minuto, rendere obbligatori i referendum e l’adesione individuale, garantire degli intervalli minimi tra una protesta e un’altra e incaricare i prefetti per le sanzioni.
Ecco lo sciopero nei servizi di pubblica utilità secondo Sacconi.
Il ministro del Welfare ha anticipato ieri al Cnel i punti principali della riforma che, «anche in relazione a questa stagione di scioperi, credo che già nei prossimi giorni sottoporremo al Parlamento». Un annuncio che ha scatenato la Cgil, che parla di riforma illiberale e attacco al diritto costituzionale.
Sacconi ha motivato l’esigenza di regolare ulteriormente la protesta di chi fornisce un servizio pubblico per «prevenire il conflitto attraverso la conciliazione ed evitare l’annuncio di scioperi che che determinano un danno ai servizi di pubblica utilità e che vengono interrotti all’ultimo momento, magari da soggetti poco rappresentativi».
Per questo è necessario rendere obbligatorio il referendum consultivo, per far sì «che gli utenti siano informati sui livelli di adesione» alla protesta. Ma non solo: il governo intende disciplinare la revoca dello sciopero stesso. Perché, strumentalmente - ha sostenuto il ministro - troppo spesso si annuncia una protesta che poi viene revocata, «in modo che il danno è stato fatto senza pagare pegno con la perdita del salario». Con l’entrata in vigore del disegno di legge, invece, la revoca dovrà essere adeguatamente anticipata, tranne nel caso in cui si trovasse un accordo. «Ma un accordo definitivo, non una semplice e timida intenzione di migliorare il dialogo». Il governo poi vuole regolare l’intervallo tra uno sciopero e l’altro. Cioè, anche se sono diverse categorie di lavoratori ad incrociare le braccia, deve trascorrere un certo tempo tra una portesta e l’altra, «in modo che ci sia un congruo periodo nell’ambito del quale non ci sono attività di interruzione di servizio». Se proprio si vuole scioperare, la soluzione migliore, quella che l’esecutivo Berlusconi vuole agevolare, è quella dello sciopero virtuale: «Si può fare - ha suggerito il ministro - con un fazzoletto al braccio. In questo modo, il lavoratore in stato di agitazione perde il salario, mentre il datore di lavoro paga ugualmente quello che avrebbe dovuto dare al dipendente e lo versa in un fondo solidaristico». Infine le sanzioni, che dovrebbero passare al Prefetto per essere realmente applicate. Oggi, invece, secondo il titolare del Welfare, «i datori di lavoro non le applicano mai».
Il coro di no alle intenzioni è folto: la leader dell’Ugl, Renata Polverini, spera che il ministro voglia prima «affrontare la questione con le organizzazioni sindacali». In linea la Cisl, mentre la Uil dice no « ad atti unilaterali di tipo legislativo». Per il sindacato di Guglielmo Epifani, invece, Il governo «palesa un tratto illiberale fino al rischio di mettere in discussione il diritto di sciopero ora garantito dalla Costituzione. È pericolosa - dicono a Corso d’Italia - l’introduzione di tratti autoritari anche nel governo del conflitto sociale che, invece, richiederebbe regole condivise e consenso».

l’Unità 15.10.08
Precari unitevi: la Costituzione sia con voi
di Gabriella Gallozzi


DOCUMENTARI Più di cento lavoratori precari s’interrogano sugli articoli della Costituzione. È «Caro Parlamento», film di Giacomo Faenza oggi ospite al Festival di Terni

«Ma quale repubblica democratica fondata sul lavoro... sul lavoro precario, forse». «Un diritto? Non lo è più. Lavorare ormai è un privilegio». E ancora: «Non ci sono più le classi sociali e tantomeno la coscienza di classe. E come potrebbe essere diversamente se si cambiano colleghi ogni due mesi». Voci dal mondo del precariato. Dall’universo dell’incertezza del presente e del futuro. Ecco a voi Caro Parlamento, più che un documentario un vero e proprio grido d’allarme firmato da Giacomo Faenza, regista «precario» (è lui stesso a sottolinearlo, nonostante sia figlio «d’arte», suo padre è Roberto Faenza) ospite oggi del festival Cinema &/è lavoro di Terni diretto da Steve Della Casa che dedicherà l’intera giornata al tema della precarietà.
È di questo, infatti che ci racconta Caro Parlamento attraverso un’idea semplice ma geniale: far commentare gli articoli sul lavoro della nostra Costituzione a quell’enorme esercito di precari che popolano l’Italia di questo debutto di millennio. Una cifra enorme di volti in primo piano e di voci: 158 cittadini, tra i 20 e i 40 anni, impegnati nel tentativo ormai impossibile di sbarcare il lunario come camerieri, architetti, commessi, operai, impiegati, attori, ricercatore universitari, avvocati. Tutti, ovviamente, rigorosamente precari.
Gli articoli della Costituzione passano in sovrimpressione come stralci di un vecchio libro di fiabe. A sentir parlare oggi di diritti uguali per tutti, popolo sovrano, garanzia della dignità per ogni cittadino, di etica della politica e libertà di espressione sembra davvero di ascoltare una bella favola da molti dimenticata. Ma da molti altri addirittura mai sentita. «Siamo il popolo sovrano - dice lo stesso regista - che non sa di esserlo. E semplicemente perché non abbiamo mai letto la Carta. Nessuno ce l’ha fatta leggere. E così la mia generazione - Giacomo Feanza ha 38 anni - non sa far valere i propri diritti, è rassegnata. Eppure l’unica possibilità è ripartire proprio da lì. Svegliarsi e prendere coscienza». Lui, da regista, ci ha provato con questo film che ha già inviato al presidente Napolitano, a Fini e per il quale attende una proiezione alle Camere. I suoi protagonisti, intanto, ci raccontano di un paese completamente scollato dalla classe politica e dalle istituzioni. «Si sputano addosso e prendono 30mila euro al mese: è un insulto per chi tenta di vivere con dignità con stipendi che non arrivano a mille euro», raccontano tanti di loro. «La Costituzione è il nostro certificato di nascita, ci dice il colore dei nostri occhi, il nostro peso», spiega una ragazza. «Ma ormai è diventata uno straccio», risponde un’altra. «Non ho più fiducia nel parlamento, è ridotto all’osteria dell’angolo con tutto il rispetto per l’osteria», commenta ancora un ragazzo. Per non parlare del sindacato. Un giovane toscano, sorridente, lo descrive come «la solita cricca della Cgil», mentre gli impieghi interinali impongono i loro ritmi da incubo: «Ormai non si parla più di settimane ma di giorni. Vai a lavorare e ti dicono se domani torni oppure no», raccontano. C’è pure chi ha lavorato al nero in Vaticano e chi «in 10 anni di lavoro nella pubblica amministrazione di Palermo» non ha mai visto un contributo. Persino mangiare una pizza diventa un lusso. E qui l’esercito di precari è unanime: «quante volte ho fatto finta di avere un impegno perché non potevo permettermi di uscire con gli amici per andare in pizzeria» racconta la stragrande maggioranza degli intervistati. L’unica soluzione, dunque, per chi può è rivolgersi alle famiglie per un aiuto, vincendo ogni volta l’umiliazione. Come racconta lo stesso Giacomo Faenza: «Quando ad aprile mi scade l’assicurazione della macchina dovrò di nuovo chiedere l’intervento di mio padre... Ma si può continuare così? Ho una figlia, una famiglia da mandare avanti... E continuo a fare sette, otto lavori insieme come tutti i precari. Per questo ho girato Caro Parlamento per tentare di stimolare la discussione perché qui è in gioco il futuro del nostro paese... Ormai i dati e le statistiche non fanno più notizia, ma forse dei volti in primo piano si ricordano di più».

l’Unità 15.10.08
Sinistra, se non ora quando?
di Bruno Gravagnuolo


Fine delle illusioni. Finanziarie, liberiste, privatistiche, super o turbocapitaliste. Ma soprattutto crollo della follia che ha indotto i mercati, e i suoi corifei, a credere che la finanza, e le banche, creino valore aggiunto, reddito e posti di lavoro. Al contrario! Lasciate a sé, distruggono valore e lavoro. Con scommesse, a vincere sul breve e a perdere sul lungo, che distorcono la percezione del valore economico reale. Sicché incipit vita nova, si spera. Cominciando a regolare il ciclo, a stimolare la domanda e a mettere sotto tutela i movimenti di capitale, volgendoli allo sviluppo (sostenibile). Ecco da dove è ora che riparta la sinistra: dal rovesciamento del neoliberalismo e dei suoi miti: flessibilità, bassi salari, fondi-pensione, outsourcing, etc. Forza Pd (se ci sei!), lo dicono anche teorici globali come Stieglitz o il Nobel Krugmann, non certo bolscevichi. E se non ora quando?
Il solito censore terzista. Galli Della Loggia. Che se la cava con poco sul Corsera, contro la battaglia anti-Gelmini: «riformisti del no, ennesima okkupazione, niente proposte». Ma perché intanto non si cimenta, e non ci dice lui la sua, invece di rimasticare i soliti rimbrotti da benpensante? Gli sembra giusto, ad esempio, che saltino 124mila insegnanti in tre anni o meno? Che si liquidino subito 824 presìdi in piccoli centri? Che si riscoprano sciocchi grembiulini e maestri tuttologi nel terzo millennio? Quando altrove gli insegnanti di supporto, oltre il maestro, sono tanti? Quando altrove si spende molto di più per la scuola? Quando la scuola, e specie quella elementare, è ormai una frontiera decisiva dell’integrazione, nel degrado e nel mondo plurale e multietnico? E quanto alle banalità sul «no», Della Loggia dovrebbe saperlo: il centrodestra procede per diktat e decreti. E dove mai si potrebbero dire dei «sì», eventualmente? O meglio: si dovrebbe solo mangiare la minestra della Gelimini. Quello che fa alla fine Della Loggia. Senza neanche il coraggio di spiegarcelo.
Il peggiore È stato Fabio Cannavaro, capitano azzurro, che dei nazi-fasci a Sofia non ha voluto parlare, preferendo parlare solo di calcio. Un fenomeno di etica civile il capitano! Lui fa come Berlusconi, non gliene frega niente... proprio niente.

l’Unità 15.10.08
La sinistra, la piazza e il volto di Occhetto
di Fulvio Abbate


Sabato scorso sono stato alla manifestazione nazionale indetta a Roma dalla sinistra radicale (uso questo termine per semplici ragioni di comodo, per amore della semplificazione). Non erano ancora le tre del pomeriggio quando sono sbarcato in un’assolata piazza Esedra che iniziava a riempirsi di bandiere. Soprattutto vessilli di Rifondazione e dei Comunisti italiani di Oliviero Diliberto. Certo, c’erano anche i verdi, non lo metto in dubbio, ma, quanto a bandiere, prevaleva comunque il rosso, un modesto rosso sempre identico a se stesso, anzi, omologato nel tessuto sintetico e nella stampa seriale di questo o quell’altro simbolo. Per dire che la sensazione epocale era piuttosto schiacciata sul presente, senza nulla di davvero epico, senza memoria. Un fatto normale, c’è da pensare, dopo decenni di scissioni e, sempre a sinistra, di distinguo portati avanti con pervicacia e orgoglio di cortile: noi ce l’abbiamo più lungo, tu ce l’hai più corto, e così via. Ora, io, ragionando dall’esterno, sono convinto che il Pd, nonostante sia un partito moderato e centrista, debba comunque fare i conti con questo pezzo di mondo che si richiama ancora alle ragioni della sinistra, se non addirittura all’ormai sbiadita prospettiva comunista; esatto: con le persone che portano, e con sommo orgoglio, le bandiere rosse ai cortei, vedi ancora coloro che sabato scorso hanno sfilato in tanti per le strade di Roma, da piazza Esedra alla Bocca della Verità. Dovrebbe avvenire per molte ragioni, a partire dalle esigenze di cambiamento e di maggiore giustizia sociale che la sinistra radicale richiede, desidera, pretende, valori comunque condivisi da tutte le forze progressiste. Tornando invece ai distinguo e alle scissioni, dal punto di vista puramente fenomenologico la manifestazione di sabato scorso mostrava molti spunti interessanti, per esempio sfoderava l’orgoglio più o meno smisurato di coloro, e penso qui agli uomini di Marco Ferrando, leader del Partito comunista dei lavoratori, che non rinunciano alla possibilità di varare una nuova Quarta Internazionale trotskista, costretti a coabitare, sempre lì a piazza Esedra, con gli uomini assai meno, così almeno c’è da supporre, politicamente e strategicamente ingordi della Sinistra democratica di Claudio Fava e dello stesso impagabile Achille Occhetto, insomma una miscela politica e culturale la cui vista spesso e volentieri ti fa venire in mente alcune obiezioni molto semplici, che riguardano per cominciare l’incapacità di assistere a un ragionevole coagulo intorno a un progetto di alternativa di governo.
Ragionando ancora sullo spettacolo umano della manifestazione di sabato scorso, al di là dei numeri e dell’ampia partecipazione di popolo e di realtà regionali, resta da interrogarsi su alcuni dettagli sovrastrutturali. Primo: cosa ci facevano le bandiere della Ddr o della Corea del Nord fra gli fila del partito di Oliviero Diliberto, devo pensare davvero che chi le sventola lo faccia con sincera convinzione? Secondo: qual era il significato di certe parole d’ordine oscillanti fra diatribe fra seconda terza e, appunto, vista la presenta del pur rispettabile Ferrando, quarta inerrnazionale? Per finire, un ultimo fotogramma: Achille Occhetto, l’ultimo segretario del Pci, ma anche, almeno secondo o suoi detrattori, lo «smantellatore» di una grande tradizione, vederlo lì in piazza con la discrezione e il garbo che lo contraddistinguono come chi abbia fatto davvero tesoro di una frase che Pier Paolo Pasolini mette alla fine del suo film sulla fine di certe ideologie e forse della stessa storia: «Il viaggio è finito e il cammino incomincia adesso». La faccia di Achille Occhetto, sia detto con il massimo della simpatia e della stima, era l’immagine più significativa della manifestazione di sabato scorso. Il viaggio è finito, eppure bisogna andare ancora avanti, «al di là dell’orizzonte», giusto per citare le sue parole prese da Tennyson pochi giorni dopo «la Bolognina».
www.teledurruti.it

l’Unità 15.10.08
Le vittime di don Cantini pronte a chiedere i danni alla Curia
di Osvaldo Sabato


«Maniago? Finalmente ha parlato, ma lo ha fatto per mettersi in mostra agli occhi di Betori» insinua il portavoce delle vittime, che non risparmia critiche neanche per il cardinale Ennio Antonelli «lui non si è mai reso conto della gravità dei fatti perché Maniago li ha dipinti ad arte» dice. Tanto che, ricorda chi ha subìto gli abusi, il primo faccia a faccia con il cardinale ci fu a distanza di otto mesi dalle prime lettere di denuncia. «Eminenza lei è nella posizione migliore per fare pulizia e chiarezza» dissero gli ex parrocchiani in quella occasione. La sua risposta? «Non rispose, ci disse che non sapeva cosa fare, poi si è interessato del caso ed ha emesso quel provvedimento ridicolo contro don Cantini». Il processo fu riaperto sulla scia delle notizie di stampa, eppure non avvenne, secondo le indicazioni che Antonelli aveva ricevuto dal Vaticano «lo aveva riaperto in modo più blando». Infatti stando a quanto rivelano ora le vittime: il cardinale Antonelli dette disposizione al giudice istruttore, padre Romano, di interrogare solo le diciotto persone che aveva chiesto di riaprire il caso. Neanche la Congregazione della Dottrina della Fede era a conoscenza del limite alle indagini «suggerito» da Antonelli. A questo punto le vittime stanno valutando l’ipotesi di chiedere il risarcimento dei danni alla Curia. «Aspettavamo la fine del processo canonico per decidere, ora non lo escludiamo». Sorpresi ed esterrefatti. «Maniago ora dice di sentirsi tradito da don Cantini?» si chiede ancora con un pizzico di ironia il portavoce delle vittime dell’ex parroco fiorentino. «Ma se è stato proprio lui ad impedirci di andare avanti con le nostre denunce» insiste. Non si placano le polemiche intorno a Claudio Maniago, vescovo ausiliare uscente della Curia di Firenze. Non si placano nonostante l’alto prelato abbia per la prima volta rotto il suo silenzio sullo scandalo degli abusi sessuali nella parrocchia Regina della Pace. «I fatti che riguardano don Cantini sono stati per me fonte di sconvolgimento» aveva ammesso Maniago ai microfoni di Radio Toscana.

Repubblica 15.10.08
Ercolano
Dove si scatenò la furia del Vesuvio
L’eruzione del 79 d. C. distrusse una città di ville con un panorama mozzafiato
di Giuseppe M. Della Fina


Dal 16 ottobre all´Archeologico di Napoli l´esposizione "Ercolano: tre secoli di scoperte"

La vicende storiche di Ercolano - come di Pompei - vengono narrate in genere partendo dal momento drammatico della distruzione avvenuta a seguito della rovinosa eruzione del Vesuvio del 79 d. C.
Proveremo a fare diversamente e a raccontare le vicende della città partendo da quando era un centro ameno dove la vita scorreva con tranquillità e piacevolezza.
Aiutano in proposito le fonti letterarie: lo storico Sisenna dice che Ercolano era una città cinta da mura non imponenti, posta su un promontorio presso il mare e delimitata da due corsi d´acqua. Strabone ne lodava la salubrità dell´aria, mentre Dionigi di Alicarnasso ne vantava la sicurezza degli approdi in ogni stagione dell´anno. Sempre Strabone descrive un litorale popolato da ville, in una delle quali, bellissima, Seneca dice che venne relegata Agrippina. Sappiamo anche anche che le colture del pero e della vite erano ben sviluppate.
Per la città si erano immaginate origini mitiche: sarebbe stata fondata da Ercole nel luogo dove era approdato di ritorno da un viaggio in Spagna. Sempre dalle fonti letterarie conosciamo per sommi capi la sua prima storia: Ercolano sarebbe stata abitata in successione dagli Osci, i Tirreni, i Pelasgi e i Sanniti prima dell´ingresso nell´orbita di Roma e della sua rapida e riuscita romanizzazione. La documentazione archeologica indica un insediamento che occupava una ventina di ettari di terreno, dotato di edifici civili e religiosi di un certo impegno e abitato da circa quattromila persone. Le residenze private presentano una varietà tipologica notevole: abitazioni dall´impianto tradizionale, caseggiati plurifamiliari e ville costruite in posizioni privilegiate con terrazze, verande e belvederi dai quali si poteva osservare un panorama mozzafiato.
Il grande archeologo Amedeo Maiuri - tra i protagonisti principali della riscoperta di Ercolano - ha provato a immaginarsi ospite nella celeberrima Villa dei Papiri e a descrivere ciò che avrebbe potuto osservare: «L´occhio spaziava liberamente per tutta l´ampia distesa del golfo. Si poteva seguire tutto il movimento marittimo del golfo; navi da carico con le caratteristiche vele alessandrine che veleggiavano verso Puteoli, il primo porto mediterraneo di Roma, e navi greche, rodie e insulari, con il carico più raro e prezioso dei prodotti delle officine d´arte dell´oriente ellenistico, che approdavano al porto di Neapolis». Insieme fonti letterarie e archeologia restituiscono l´immagine di una città caratterizzata da un benessere all´apparenza solido, diverso da quello della vicina Pompei più grande e caotica; con una vita culturale vivace come sembra suggerire la biblioteca presente nella già ricordata villa dei Papiri, dove potrebbe avere soggiornato e forse insegnato il filosofo Filodemo di Gadara, un epigono della scuola epicurea.
Su questo mondo ordinato si scatenò la furia del vulcano: indagini recenti ne hanno restituito le fasi modificando sensibilmente il quadro delineato in precedenza. Ercolano non fu distrutta - come si è ritenuto a lungo - da una colata lenta e fangosa che avrebbe consentito la salvezza della maggioranza degli abitanti, ma in poche ore sommersa da nubi ardenti, ovvero una miscela di gas e frammenti di materiali lavico incandescente, alternate a colate piroclastiche.
Negli ultimi venti anni è stata scavata l´area dell´antica spiaggia e, in particolare, dodici ambienti situati di fronte al mare che fungevano da ricoveri per barche e da magazzini, i cosiddetti Fornici. Qui cercarono inutilmente scampo circa trecento fuggiaschi: gli archeologi li hanno rinvenuti insieme con gli oggetti più cari o preziosi che avevano cercato di portare in salvo.
Le esplorazioni archeologiche a Ercolano sono iniziate comunque molto tempo prima e hanno accompagnato la ripresa di attenzione per il mondo greco e romano: i risultati delle prime indagini impressionarono, ad esempio, già Johann Joachim Winckelmann. Nel 1711, il principe austriaco d´Elboeuf, calandosi attraverso un pozzo, ebbe la fortuna di raggiungere la scena del teatro romano della città e dette inizio alla stagione delle ricerche settecentesche. Un primo salto di qualità nelle indagini si ebbe con il re Carlo III di Borbone che, salito al trono, fece iniziare ricerche sistematiche nell´area. Le indagini erano portate avanti da ufficiali del Genio utilizzando soldati, contadini e persone condannate sull´esempio dello scavo in miniera.
Le strutture antiche non erano riportate alla luce, ma raggiunte attraverso pozzi verticali. Si procedeva alla flebile luce di una lanterna, senza un piano preciso, ma seguendo le caratteristiche strutturali degli ambienti rinvenuti. Attraverso i pozzi venivano portate in superficie le opere ritrovate che erano poi trasferite nell´Herculanense Museum, ospitato in un´ala del Palazzo Caramanico della Reggia di Portici, che il re faceva visitare a un pubblico selezionato composto da visitatori di rango ed eruditi.
Risalendo quei pozzi e quei cunicoli scavati con grande pericolo e fatica, l´arte greca e romana è entrata nella cultura europea.

Repubblica 15.10.08
Quel miracolo di dei e di eroi
La struggente bellezza nella sacra città di Ercole
di Sergio Frau


Nel Pantheon c´è un Dioniso del I secolo dopo Cristo, una Atena alta due metri, e poi Mercurio, Apollo, Vulcano, Bacco, Demetra, Afrodite

Entri e, man mano, li incontri tutti. C´è un Dioniso del I secolo dopo Cristo che - con quel suo viso così sereno, se non avesse la tradizionale coroncina di rose - sembrerebbe già un Cristo: è la reinvenzione romana di sculture greche del V a. C. E c´è Atena: l´Atena fantastica in marmo bianco, alta due metri, ritrovata tra due colonne del lato sud orientale della Villa dei Papiri il 29 ottobre 1752. Eccolo Mercurio, con il caduceo che lo fa riconoscere a prima vista, con tanto di alette ai piedi per volar veloce dove più serve. Più in là un´erma ti fa vedere un Apollo che sembra vivo: al solito è bello come il sole - visto che Apollo, tra l´altro, è anche il Sole - con i suoi capelli di marmo a posto, ancora bruni dell´antica pittura. C´è persino, sacralizzato, Vulcano: venne fuori, quasi beffardo, con altri tre fregi dall´Area Sacra della città negli anni Ottanta del secolo scorso, dalla coltre di 20 metri di materiale vulcanico misto a pioggia che proprio il Vesuvio riversò sulla città.
E sì, gli Dèi - un intero, fastoso, variegato pantheon di dèi - lì a Ercolano, ce li avevano proprio tutti.
Ora - ora che son venuti fuori dai magazzini e dai depositi che li custodivano, per riunirsi ai pezzi superstar in mostra da sempre - te lo fanno capire subito che le fedi di Roma e Grecia punteggiavano l´intera città. Si camminava tra gli dèi, a Ercolano: sembravano benedirti a ogni cerimonia, forse a ogni crocicchio, a ogni festa.
Da domani sono in mostra all´Archeologico di Napoli, riuniti di nuovo tutt´insieme: quelli riapparsi con gli scavi degli ultimi tre secoli, esposti con le statue degli imperatori e, anche, di tutta quella gente comune che li pregava e che un ritratto scolpito poteva permetterselo.
Ercolano: tre secoli di scoperte, infatti, si chiama l´esposizione che li fa conoscere e terrà banco fino ad aprile 2009 nel grande atrio del Museo, restituito a un uso di "Spazio Sorpresa", dove presentare man mano mirabilia che di solito, a malincuore, non si riesce a far vedere.
I tre curatori - Pietro Giovanni Guzzo (soprindendente di Napoli e Pompei), Maria Paola Guidobaldi (direttore degli scavi di Ercolano), e Maria Rosaria Borriello (direttrice del Museo) - hanno voluto scandire il percorso tra le 150 opere scelte (catalogo Electa, pagg. 296, euro 50) e, in parte, restaurate per l´occasione con la luce: le luci forti, fortissime per rendere abbaglianti le divinità all´ingresso si attenuano andando avanti attraverso le altre tre sezioni per presentare le dinastie imperiali monumentalizzate lì, e ritmare i ritratti dei padroni delle case più ricche, e anche, però, i volti scolpiti della gente comune, gli unici - con rughe, calvizie e il doppio mento di marmo - a non nascondere i segni delle età.
E così, già entrando, si vede subito che a Ercolano avevano davvero tutti gli dèi che, allora, era bene tenersi buoni.
Non servirono a nulla, però.
Neppure il grande Augusto servì a salvarla, Ercolano. E sì che ormai era divinizzato: gli avevano anche dedicato una statua in bronzo di due metri e mezzo, che adesso, in mostra, trionfa - come un tempo nell´Augusteum - accanto a Claudio, effigiato come Padre degli Dèi.
Del tutto inefficace, anche il nome santissimo che i cittadini si erano scelti per battezzare e proteggere quel loro piccolo, ricco, paradiso sul mare: Ercolano, città di Ercole, l´uomo che, soffrendo, si fece dio. Era lui, l´Eroe Benedicente, che allora, nelle tombe di mezza Italia, teneva compagnia ai morti pur di assicurare un lieto fine al grande viaggio nell´Aldilà. In mostra lo si vede giovane giovane, in bronzo e in marmo. Ma anche ormai maturo che - statuario - lotta con l´Idra, il mostro di Lerna, o - affrescato - che porta avanti le 12 fatiche. Ma c´è anche un Ercole mezzobusto, coronato del suo ulivo a ricordarne le vittorie su tutto e tutti.
Ma neppure Ercole servì... Il Vesuvio fu più forte di tutti gli Dei.
Così emoziona e stringe anche il cuore questa spettacolare parata di Sacro - inutile, al momento giusto - che ora accoglie a sorpresa i visitatori del Museo: c´è da rabbrividire al pensiero di quel che queste 150 statue - in marmo e bronzo, spesso colossali - hanno visto quella notte del 24 agosto del 79 d. C.
Sembrano averlo ancora negli occhi: tutte provengono dagli scavi di Ercolano, tornate alla luce in epoche differenti. Le ultime sono riapparse appena qualche mese fa, grazie ai nuovi scavi e ai nuovi soldi che la Fondazione Packard ha fatto piovere su Ercolano per consolidarla e resuscitarla davvero.
Bellissime e strazianti queste meraviglie. L´orrore che hanno vissuto è più chiaro soltanto da pochi anni grazie alle analisi che vulcanologi, biologi, zooarcheologi hanno potuto effettuare sui 300 corpi riapparsi tra il 1980 e il 1990, aggrovigliati da una morte rovente e sigillati dal tufo, sulla spiaggetta della città, nella zona degli imbarcaderi, da dove speravano di fuggire.
Anche loro saranno in mostra: ma nella zona più buia, come a ricordare che non solo d´arte ci sta parlando Ercolano. Maria Paola Guidobaldi: «Tetti scoperchiati, muri abbattuti, porte scardinate, suppellettili disseminate ovunque, tutto però in grande misura recuperabile o ricostruibile. Le altissime temperature sviluppate dal fenomeno vulcanico hanno determinato a Ercolano un fenomeno di conservazione assolutamente originale, restituendoci, carbonizzati, tutti i materiali di natura organica: commestibili, papiri, stoffe, corde, tavolette cerate».
E in mostra - per la prima volta - verranno presentate proprio le collezioni di tessuti ercolanesi e pompeiani. Nel luglio scorso, scavando una terrazza del porticato vicino alle terme di Ercolano, agli archeologi è saltata fuori una massa informe di materiale organico. Solo sbrogliando con mille attenzioni quella matassa si sono accorti che era canapa. L´hanno consolidata, salvata e ora con altri 180 reperti tessili - sacchetti, borsellini, brandelli di tuniche - e molte opere d´arte scolpita o dipinta che fanno conoscere gli abbigliamenti di allora, completa il percorso di quest´esposizione che spesso sorprende.
In alcuni marmi sono sopravvissute tracce di colore, che permettono di immaginarseli variopinti com´erano. Oggi, per lo più, quelle statue sono fantasmi bianchi le cui forme, perfette, prendono il sopravvento. Fu questa loro purezza a incantare i Padri dell´Archeologia (Winckelmann & C.) e a dare il via a una nuova fase dello studio della storia dell´arte antica che ancor oggi è dominante. In altre sono gli azzardi d´arte a sorprendere.
E di azzardi, in questo pantheon di capolavori, ce ne sono assai. Alcuni - che fanno fare al bronzo quel che l´artista vuole - li hanno forse importati belli e fatti. Altri, però, li hanno imitati ad arte: c´è una Grecia in bella copia, qui, in mostra, spesso striata di sacrilegi minimi, sincretismi nostrani.
Del resto la fede è fede - si sa - e anche a Ercolano fa miracoli. Come non pregarlo quel Bacco con la pantera, che le luci dell´Archeologico ora esaltano, bello è perfetto com´è? Come non dare fiducia all´erma di Afrodite che con quel suo volto sereno garantisce pace e serenità? Come non credere, poi, alla Demetra imponente, alta un metro e 88, che riassume in sé alcuni tra i segnali sacri delle Dee Madri più osannate dell´antichità?
Scrive Valeria Moesch nel bel catalogo Electa che accompagna la mostra: «Se la testa della statua è facilmente riconoscibile come replica del tipo dell´Hera Borghese, creazione datata tra il 430 e il 410 a. C., il corpo riprende invece il modello della celebre Demetra di Eleusi, opera del 420-410 a. C. Allo stesso arco cronologico rimanda l´elemento dell´appoggio sul lato sinistro che richiama il tipo della cosiddetta angelehente Athena, l´Atena poggiata».
La sentenza finale per questa dea, una e trina, ritrovata 11 anni fa, vicino alla Villa dei Papiri che finora ha restituito da sola 100 statue, con un po´ dei suoi colori ancora addosso (e anch´essa, come la maggioranza delle statue esposte, sconosciuta finora al grande pubblico dei non addetti ai lavori), è verbalizzata in catalogo: «Creazione romana di un artista eclettico che ha contaminato tipi iconografici diversi. Le caratteristiche stilistiche ed esecutive suggeriscono una datazione della statua in età augustea».
Una dea "recente", dunque, ma con mille anni di religiosità mediterranea addosso: costruita, con amore e sapienza, proprio alla vigilia della tragedia che nasconderà Ercolano agli occhi del mondo per 17 secoli, fino alle torce dei "cavamonti" al soldo dei Borboni che perlustrarono il doppiofondo di quella che, ormai, era soltanto una compatta distesa di tufo a sigillare tutta questa meraviglia.
Post scriptum. Ultim´ora: all´Istituto di Geofisica e Vulcanologia oltre 400 ricercatori rischiano il loro posto di lavoro. Sembra humour nero: è cronaca di questi giorni.

Repubblica 15.10.08
Homo sapiens. Dall'Africa in viaggio sull’acqua
di Enrico Franceschini


Un "corridoio umido", fatto di grandi fiumi e grandi laghi, che attraversava il Sahara fino alla Libia Secondo gli studiosi inglesi sarebbe questa la rotta seguita dai nostri antenati per raggiungere l´Europa
Le immagini dal satellite e i reperti archeologici confermerebbero la scoperta

Londra. Tutto iniziò con un viaggio: l´odissea, perché di certo contrassegnata da avventure e disavventure non meno epiche di quelle di Omero, che portò i nostri progenitori, all´incirca 60-70 mila anni or sono, da un punto imprecisato dell´Africa orientale a disseminarsi poco per volta in tutti i continenti. Fino ad ora le ricerche degli antropologi credevano di avere individuato una sola strada, un´unica via d´uscita dal continente africano verso quello che oggi chiamiamo Medio Oriente, e da lì nel resto del Mediterraneo, poi in tutta Europa ed Asia, infine sino alle Americhe e all´Australia: il corso del Nilo, il grande fiume che dal Corno d´Africa arriva appunto a lambire i confini del Mediterraneo e del Levante. Ma nuovi studi condotti da scienziati britannici sembrano avere ora scoperto anche un altro percorso, un nuovo cammino compiuto dal grande esodo dell´umanità verso la conquista del mondo: un «corridoio d´acqua» che dal centro dell´Africa attraversava perpendicolarmente l´intero deserto del Sahara, arrivando fino all´odierna Libia e da essa al mare.
Fiumi nel deserto? Potrebbe sembrare un´idea da fantascienza: eppure è proprio questa l´ipotesi avanzata da un gruppo di ricercatori delle università di Oxford, Bristol, Southampton, Hull e di quella libica di Tripoli. Dati di cui erano già precedentemente in possesso dimostravano che ci fu un incremento di piogge sulle regioni meridionali del Sahara, tra 130 mila e 170 mila anni fa, durante un intervallo tra le ere glaciali noto come l´ultimo periodo interglaciale.
Gli studiosi hanno cercato di capire se queste condizioni atmosferiche crearono un «corridoio bagnato» in grado di giungere molto più a nord di quanto si era creduto fino ad ora. Lo hanno dimostrato in due modi. Dapprima con immagini radar riprese dallo spazio che hanno rivelato l´esistenza di canali fossili dal Sahara alla costa mediterranea della Libia. Quindi, usando test geochimici, gli scienziati hanno verificato che quei canali erano attivi durante l´ultima era interglaciale: ossia c´erano dei vitali corsi d´acqua attraverso una sterminata regione arida. Infine i ricercatori hanno scoperto una somiglianza tra elementi chimici in fossili di conchiglie ritrovati lungo quei «corridoi bagnati» preistorici e simili conchiglie sulle rive del Mediterraneo in Libia, concludendo che soltanto un fiume avrebbe potuto trasportare le stesse conchiglie dal Sahara al mare.
Un´ulteriore prova è venuta dalla somiglianza tra utensili di pietra manufatti in Ciad e in Sudan dai primi uomini con utensili fabbricati nello stesso periodo in Libia. «E´ dunque possibile che i nostri antenati abbiano percorso anche questa strada, attraversando il Sahara fino alla Libia, per lasciare l´Africa», afferma Anne Osborne, docente della Bristol University, nel rapporto scritto insieme ai suoi colleghi sulla rivista scientifica Pnas. «Ora dobbiamo concentrarci su ricerche archeologiche sul campo, lungo la rotta di quei corridoi d´acqua, per trovare reperti che confermino definitivamente la nostra tesi», dice alla Bbc il professor Nick Barton della Oxford University, co-autore del rapporto. Nel lungo viaggio attraverso il tempo e la storia, si sapeva che l´uomo attraversò probabilmente il mar Rosso all´altezza dello stretto di Bab-el - Mandab, passando dal Corno d´Africa alla penisola arabica. Adesso possiamo immaginare che viaggiò anche attraverso l´oceano di sabbia del Sahara, partendo dalla Libia per spargersi nel Mediterraneo. E, poco sopra la Libia, c´era la nostra penisola.

Repubblica 15.10.08
Giorgio Manzi, paleoantropologo all'università La Sapienza di Roma
"Fu un'espansione a cerchi concentrici"
di Luigi Bignami


«Sapevamo già che il Sahara fu molto meno arido in momenti del passato di quanto non lo sia oggi - afferma Giorgio Manzi, paleoantropologo all´università La Sapienza di Roma - Non stupisce affatto che questo possa essere stato vero soprattutto nel corso dell´ultimo periodo interglaciale, diciamo intono a 130 mila anni fa, e che ciò abbia comportato l´esistenza di un corridoio ulteriore per la diffusione verso le coste meridionali del Mediterraneo da parte dell´Homo sapiens, la nostra specie, comparsa in Africa orientale intorno a 200 mila anni fa».
Ma perché il Sapiens sembra avesse questo immenso desiderio di "lasciare" l´Africa?
«Che l´uomo abbia avuto la tendenza diffondersi in varie direzioni e, col tempo, a "uscire" dal perimetro del continente africano fa parte di un quadro complesso che combina il successo biologico, adattativo ed ecologico della nuova specie umana con un successo anche di tipo demografico. Questo fenomeno va visto come l´espansione geografica di un´intera specie».
Ma come è avvenuta questa espansione?
«La possiamo immaginare come i cerchi concentrici che si formano lanciando un sasso in uno stagno, ma che necessariamente deve seguire traiettorie geograficamente possibili: dapprima in Africa, poi (a partire da circa 100mila anni fa) in Eurasia, "scivolando" lungo latitudini meridionali, e poi salendo più a nord, verso l´Europa ad esempio, mentre altre popolazioni erano già penetrate in Australia e altre ancora iniziavano a diffondersi verso le regioni settentrionali dell´Estremo Oriente, tanto da raggiungere l´attuale stretto di Bering. Mettendo piede così nel continente americano».

Corriere della Sera 15.10.08
Anni di piombo, l'uscita giudiziaria
Libertà condizionale per gli ex terroristi neri e rossi Dei 6.000 entrati in carcere, 71 detenuti a tempo pieno
In cella In 97 dietro le sbarre, tra loro i brigatisti arrestati nel 2003 e nel 2007. Ma 26 di giorno escono
di Giovanni Bianconi


La «porta» dell'articolo 176
Gli ex terroristi fanno istanza in base alla norma che prevede per gli ergastolani la possibilità di usufruire della «condizionale» dopo 26 anni di pena scontati (22 con la buona condotta)
La delega ai giudici
Tutto è affidato alla discrezionalità dei magistrati che devono valutare i singoli casi e che hanno orientamenti diversi. Il compito di chiudere quella stagione è stato lasciato a loro

Per la libertà condizionale concessa a Francesca Mambro, l'ex terrorista «nera» condannata a svariati ergastoli, c'è chi ha gridato allo scandalo. E così per la decisione francese di non estradare l'ex brigatista rossa Marina Petrella, ergastolana anche lei, rifugiata in Francia dal 1993. Sulla Mambro due autorevoli deputati del Partito democratico hanno presentato perfino un'interrogazione parlamentare, per sapere dal ministro della Giustizia le ragioni della decisione presa dal tribunale di sorveglianza di Roma.
Naturalmente il Guardasigilli non potrà che riportare le motivazioni dei giudici. I quali per concedere il beneficio all'ex terrorista ufficialmente colpevole anche della strage alla stazione di Bologna del 1980 (85 morti e 200 feriti, un'eccidio del quale la condannata continua a proclamarsi innocente) hanno seguito la giurisprudenza che da qualche tempo ha avallato questa particolare chiusura dei conti con la giustizia (non ancora definitiva, peraltro) per decine di ex militanti del «partito armato». Tra questi alcuni brigatisti autori del sequestro e dell'omicidio di Aldo Moro — Barbara Balzerani, Anna Laura Braghetti, Raffaele Fiore, Bruno Seghetti — e di altri delitti, o gli aderenti a sigle diverse della galassia eversiva degli anni Settanta.
Francesca Mambro — che nel 2009 compirà 50 anni, arrestata quando ne aveva 23, fuori dal carcere già da un paio di lustri per il «lavoro esterno» e la maternità — è solo l'ultima ad essere uscita dalla porta prevista dall'articolo 176 del codice penale. E sarà una delle ultime perché la maggioranza degli ex terroristi ergastolani c'è già passata. Quattro anni fa toccò a suo marito, Valerio Fioravanti, che si trova nella stessa situazione giuridico-giudiziaria della moglie, senza troppi clamori. Per i condannati a vita la norma prevede la possibilità di usufruire della «condizionale» dopo 26 anni di pena scontati (che con la «buona condotta», diventano 22 grazie allo sconto previsto da un'altra legge), e siccome la grande maggioranza dei terroristi è stata arrestata nei primi anni Ottanta, dall'inizio dei Duemila i tribunali di sorveglianza stanno vagliando le istanze degli ergastolani. Col risultato che in galera restano sempre meno prigionieri cosiddetti «politici».
La contabilità aggiornata dei «detenuti appartenenti a movimenti eversivi» offre cifre bassissime rispetto ai circa 6.000 passati dalle prigioni italiane durante e dopo gli «anni di piombo». Oggi sono meno di cento, esattamente 97, così suddivisi per aree di appartenenza: 70 di sinistra, 21 di destra e 6 definiti anarchici. Di questi però, 26 sono in «semilibertà », cioè escono dal carcere ogni mattina per lavorare fuori e rientrano la sera: 23 di sinistra (l'ultimo, in ordine di tempo, Paolo Persichetti, ex militante dell'Ucc, unico estradato dalla Francia nel 2002) e 3 di destra. Chi prima e chi dopo, anche loro potranno arrivare alla possibilità della «condizionale».
Quelli che ancora non mettono il naso fuori dalla cella, quindi, sono solo 71. Anche questo numero, però, va scomposto per scoprire che non tutti i detenuti «a tempo pieno» sono dei terroristi ancora «in servizio». Concentrandosi sul più consistente gruppo di militanti delle Br e sigle affini, ad esempio, i prigionieri che non usufruiscono di alcun beneficio restano 47. Ma in questa cifra rientrano i neobrigatisti arrestati dopo il 2003 (tra cui i responsabili degli omicidi D'Antona e Biagi) e gli aspiranti combattenti del Partito comunista politicomilitare, catturati nel 2007. Quelli della «vecchia guardia» , dunque, sono una trentina, e tra loro sono compresi autonomisti sardi ed ex detenuti comuni «politicizzati» in carcere, senza più velleità. Soltanto la metà di questa pattuglia continua a lanciare proclami di guerra contro lo Stato e si può definire composta da «irriducibili», mentre gli altri non hanno più nulla a che fare con la lotta armata.
Come Cristoforo Piancone, br arrestato nel 1978 dopo l'omicidio di una guardia carceraria, ammesso alla semilibertà nel 2004 ma sorpreso un anno fa a compiere una rapina in banca: nessun «autofinanziamento» sul modello dei tempi andati, solo un tentativo di guadagno personale che gli è costato la revoca dei benefici. Prima di lui avevano preso la stessa strada Giorgio Panizzari (ex Nuclei armati proletari, addirittura graziato nel 1998 da Oscar Luigi Scalfaro), e un ex appartenente all'Unione dei comunisti combattenti.
Tra le donne c'è Rita Algranati, brigatista della «colonna romana» che nel 1979 lasciò le Br e l'Italia, si rifugiò prima in Nicaragua e poi in Algeria. Solo nel 2004 fu arrestata grazie a una «consegna» concordata tra il servizio segreto italiano e le autorità algerine, che dalla sera alla mattina la fece ritrovare in Egitto dove alcuni di funzionari di polizia arrivati da Roma l'hanno presa e portata in carcere. Da quel momento ha cominciato a scontare i cinque ergastoli a cui è stata condannata, quando la sua storia con le Br era chiusa già da un quarto di secolo.
Sul fronte del terrorismo «nero», tra i detenuti senza benefici c'è Pierluigi Concutelli, che un mese fa s'è visto revocare la semilibertà perché trovato con qualche grammo di hashish addosso, non certo per aver ricominciato a sostenere le idee «rivoluzionarie » e omicide d'un tempo. Nella stessa categoria viene contabilizzato l'ex «pentito» Angelo Izzo, che durante i precedenti permessi ha commesso crimini efferati che con la politica non avevano niente a che vedere.
Delle migliaia di persone passate dalle carceri per reati di matrice politica, insomma, ne restano dentro poche decine, e solo in parte con le stesse idee che ce l'hanno portate. Tutti gli altri hanno ottenuto da tempo i benefici o la liberazione condizionale, e le percentuali di chi è tornato a commettere reati (non più di natura politica) incidono pochissimo. Questo a dimostrazione che come venticinque anni fa la magistratura fu artefice della repressione del fenomeno eversivo, grazie ai «pentiti» e alle leggi speciali, così oggi alla stessa magistratura è stato lasciato il compito di chiudere quella stagione facendo tornare alla società persone che hanno sparato e ucciso in nome di un'ideologia. Tutto è delegato al momento giudiziario, con valutazioni sui singoli casi affidate alla discrezionalità dei singoli giudici (che seguono orientamenti diversi, ad esempio tra Milano e Roma, la città dove è stata concessa la maggior parte dei benefici). Senza alcun atto politico che mettesse un punto su quelle vicende.
Attraverso questa «delega» non dichiarata i magistrati si sono fatti carico di restituire alla collettività i protagonisti del sequestro e dell'assassinio di Moro, ma anche il fondatore del sanguinario Partito Guerriglia Giovanni Senzani — condannato tra l'altro per l'efferato omicidio di Roberto Peci, fratello del pentito Patrizio —, un fratello e l'ex marito di Marina Petrella (ergastolani pure loro) e altri ancora. Di solito nella disattenzione generale, con decisioni confermate dalla Cassazione quando la pubblica accusa ha fatto ricorso, senza troppe proteste o grida di scandalo.
Per la liberazione condizionale la legge prescrive un «comportamento tale da far ritenere sicuro il ravvedimento» del condannato. E secondo le ultime decisioni dei giudici, «la certezza o quantomeno l'elevata e qualificata probabilità» di quel ravvedimento non passa più soltanto dalla «revisione critica» del proprio passato violento, ma anche dalla riconciliazione (almeno tentata, attraverso dei contatti epistolari) con le vittime dei crimini commessi. Percorso faticoso, accidentato e dall'esito molto incerto. In fondo al quale l'Italia ha forse cominciato a intravedere — senza rendersene conto, e affidandosi ai verdetti altalenanti dei giudici che variano a seconda dei tribunali — la fine del tunnel degli «anni di piombo».

Corriere della Sera 15.10.08
L'eredità di Haider e gli ebrei italiani
La tenuta fu sottratta alla vedova del proprietario grazie alle leggi razziali
Noemi Merhav chiese la restituzione della valle ma perse la causa. Sua madre aveva ricevuto dopo la guerra un risarcimento irrisorio
di Mara Gergolet


KLAGENFURT — L'eredità spirituale? Ma no, l'eredità vera. Jörg Haider attende ancora d'essere sepolto, sabato, nella sua Bärental, s'attende l'ultimo saluto dei leader austriaci e la calata a Klagenfurt dei governanti d'oltreconfine come il friulano Renzo Tondo, le bandiere rosse-gialle- bianche sono ancora a mezz'asta, i ceri ancora accesi nella Piazza nuova e compare — a turbare l'immagine del leader, a cui dopo la morte è stato reso un corale tributo — quella domanda impertinente e fastidiosa: e che ne sarà adesso dei suoi — discussi, controversi — poderi?
Risposta semplice: li ereditano la moglie Claudia, 51 anni, e le figlie Ulrike, 31, e Cornelia, 28. Ma non sono noccioline. Quindici milioni di euro, circa, perché Haider era un uomo ricco al di là dello stipendio (lordo) di Landeshauptmann di 16.320 euro. Una bella casa a Klagenfurt, un appartamento medio a Vienna, un parco macchine dove spicca una Porsche Cayenne e soprattutto la Bärental. Ovvero, quasi tutti — o una bella parte — dei terreni in questa valle alpina lunga quasi 7 chilometri, la «valle degli orsi»: 1.600 ettari di proprietà. Prati, boschi, la cappella di S. Michele, all'ombra delle Karawanken e quasi fino al confine della Slovenia, anche se Haider nelle valli ha fatto togliere tutte le insegne bilingui in sloveno perché gli davano fastidio.
E così torna sui giornali la storia nota di come Haider sia diventato il padrone di queste terre una volta appartenute agli ebrei. L'eredità donatagli da uno zio acquisito, Wilhelm Webhofer, che a sua volta l'aveva ricevuta dal padre Joseph. È qui che la storia si fa drammatica: Joseph le compra per un prezzo irrisorio (300.000 marchi tedeschi), nel 1939, dalla vedova di un ebreo italiano, Mathilde Roifer. Non aveva altra scelta, la signora, dopo la promulgazione delle leggi razziali: la Bärental doveva essere arianizzata, gli ebrei schiacciati e privati delle loro ricchezze.
E Haider, a quel dono che lo ricollegava agli orrori (e ai profittatori) del regime hitleriano come ha reagito? L'ha sempre difeso, pure in tribunale. Nel 2000, la figlia di Mathilde Roifer, l'allora 73enne Noemi Merhav, l'ha citato a giudizio: reclamava la restituzione della valle. Ma Haider ha vinto, la transazione era regolare e poi la signora — sopravvissuta all'Olocausto — nel 1954 era stata ricompensata, dopo le richieste del Congresso ebraico al governo austriaco: tre volte il prezzo pagato nel '39, soldi in buona parte sborsati da Webhofer. «Per quei tempi non mi sembra proprio poco» disse una volta Haider. Cifre irrisorie, per chi ha fatto i conti: in totale, compensazioni comprese, circa un quarantesimo del valore attuale del podere. Eppure, nella Bärental Haider era amatissimo da tutti. Il sindaco socialdemocratico, Sonya Feinig, dice «avevamo rapporti eccellenti »; un «Super Mensch», un grande uomo, per gli avventori dell'osteria di Feinitz; «un amico » per il vicario generale Gerhard Kalidz. Certo, la Bärental gli ha dato parecchi guai: come quando assunse, per farli lavorare sotto costo nei boschi, dei bosniaci, lui che pubblicamente tuonava contro i clandestini. Ma era anche diventata un simbolo politico, quella Bärental-Republik: lo sfottò coniato dalla satira politica lui l'aveva adottato come uno slogan, un vanto. E ora, un'altra volta, la questione dell'eredità. Fatti privati della famiglia di Jörg Haider, s'intende, non fosse che le ombre lunghe della Bärental gettano un'altra volta una luce più cupa sulla sua finale, pubblica agiografia.
Sulla neve Jörg Haider sui prati della Bärental
La valle Una veduta aerea della casa di Jörg Haider nella Bärental, in Carinzia (foto Ap)

Corriere della Sera 15.10.08
In un saggio di Robert Service le convergenze tra gli eredi di Lenin e quelli di Khomeini
Così il comunismo in versione asiatica ha smentito Marx
di Aurelio Lepre


Il paradosso
L'idea rivoluzionaria fallisce nel mondo industrializzato ma conquista Paesi agricoli Un manifesto inneggiante a Mao tratto dal libro di Service «Compagni»

Robert Service è tra i più noti storici dell'Unione Sovietica: si è già occupato della sua storia e ha pubblicato biografie di Lenin e Stalin. Ora Laterza ha tradotto con grande sollecitudine (l'edizione inglese è del 2007) la sua ultima opera, Compagni, che riguarda l'intero movimento comunista mondiale. Si tratta di un lavoro ricchissimo d'informazioni e di giudizi, accessibile anche a un vasto pubblico.
Nelle ultime pagine Service osserva che «gli impulsi che hanno dato origine al comunismo non si sono spenti», perché ci sono ancora miliardi di persone che non godono della sicurezza personale, dell'istruzione e di un nutrimento adeguato. Scomparsa l'Unione Sovietica e in via di profonda trasformazione la Repubblica popolare cinese, l'eredità anticapitalistica del comunismo sembra però raccolta, anche se con motivazioni completamente differenti, dall'Islam intransigente. Questa conclusione di Service potrebbe apparire forzata, per la distanza incolmabile tra le premesse ideologiche marxiane e quelle dell'islamismo politico. Ma non lo è, se si considera la lunga marcia della rivoluzione comunista, da Marx a Pol Pot, dal centro industrializzato alla periferia contadina del mondo, iniziata da Lenin e proseguita poi fino alle estreme conseguenze da Mao Zedong. Per approdare a qualcosa che Marx non avrebbe mai immaginato: la progressiva orientalizzazione del comunismo.
Nel corso di questo processo sono cambiate molte cose e sono stati profondamente modificati sia l'originario anticapitalismo di Marx sia le sue idee sul modo come costruire la futura società comunista. È vero che a questo riguardo Marx non forniva indicazioni precise, ma senza dubbio era convinto che essa dovesse partire dal livello raggiunto nei Paesi dove la produzione capitalistica era più sviluppata e offriva perciò solide fondamenta e non, come invece è avvenuto, da condizioni di arretratezza economica spesso molto gravi. Si è tentato persino d'impiantare il marxismo in Etiopia, in Angola e in Mozambico, un tentativo che avrebbe fatto sorridere e forse inorridire Marx. Service descrive assai bene questa evoluzione, o piuttosto involuzione, del marxismo, dovuta alle condizioni dei Paesi in cui penetrava molto più che alla volontà degli uomini. Del resto, l'aveva detto anche Marx: le circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze. E aveva sbagliato solo perché, in realtà, le circostanze fanno molto di più. Senza dubbio, come scrive Robert Service, «il comunismo non è stato un rivestimento da sovrapporre alle precedenti tradizioni nazionali», ma quelle tradizioni hanno contato moltissimo e sono riemerse con forza appena il comunismo è entrato in crisi. E non mi riferisco alla croce ortodossa che porta al collo Putin, ma a tutto il resto.
A proposito dell'orientalizzazione del comunismo, Service ricorda lo scambio di lettere tra Marx e Vera Zasulic, che giudica breve ma significativo, sulla possibilità della rivoluzione comunista nella Russia contadina. Marx assunse allora una posizione favorevole, anche se con delle riserve (in realtà contraddiceva tutto quello che aveva scritto fino ad allora). Quelle lettere perciò assunsero un forte rilievo con l'interpretazione terzomondista del marxismo, una delle più grandi forzature politico-culturali della storia del XX secolo. Con essa si cercò di sostituire i contadini agli operai, la campagna alla città, l'Oriente all'Occidente. È probabile che non ci fosse altro da fare, se si voleva continuare a perseguire l'obiettivo della rivoluzione, ma resta il fatto che il marxismo terzomondista, nel solco di uno spostamento verso la periferia del mondo iniziato da Lenin, fu notevolmente diverso dal pensiero di Marx ed Engels.
Già i due fondatori del movimento comunista del resto, come rileva Service, avevano constatato, delusi, che le loro idee nel XIX secolo non progredivano nei Paesi più avanzati, ma in quelli economicamente più arretrati. In Europa rimasero sempre minoritarie. La comunistizzazione della sua parte orientale non fu frutto di un movimento spontaneo, ma dell'esito della Seconda guerra mondiale e nel 1949 la rivoluzione comunista trionfò in Cina, un Paese ancora più arretrato della Russia del 1917. In una canzone cinese era detto: «Il comunismo è il paradiso./ La comune è la scala. / Se costruiamo questa scala, / possiamo salire ad ogni altezza». La scala portò prima all'inferno della «rivoluzione culturale » voluta da Mao Zedong e poi, per il contraccolpo, alla restaurazione in Cina di un capitalismo senza liberalismo. Service illustra questo cammino in maniera chiara e dettagliata, ma mi sembra che non ne tragga tutte le conclusioni. Solo sulla base dell'orientalizzazione del marxismo possono essere spiegati l'accostamento fatto nelle pagine finali tra l'anticapitalismo islamico e quello comunista, nonostante la sorte riservata ai comunisti nei Paesi dove l'islamismo intransigente è al governo. E anche certe convergenze, apparentemente incredibili, tra l'avversione all'Occidente dei simpatizzanti dell'islamismo radicale e quella di movimenti o di singoli che continuano a dirsi, molto impropriamente, eredi di Marx.

Discorso pronunciato da Piero Calamandrei al III Congresso dell’Associazione a difesa della scuola nazionale (Adsn), a Roma l’11 febbraio 1950
Facciamo l´ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura.
Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di stato hanno il difetto di essere imparziali. C´è una certa resistenza; in quelle scuole c’è sempre, perfino sotto il fascismo c’è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un’ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A "quelle" scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d’occhio i cuochi di questa bassa cucina. L’operazione si fa in tre modi: ve l´ho già detto: rovinare le scuole di stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico.
Pubblicato nella rivista Scuola Democratica, 20 marzo 1950.