Università, rabbia e Sapienza
Facoltà occupata, dilaga la protesta
di Eduardo Di Blasi
All’inizio sono una piramide umana impilata lungo le scale che portano al Rettorato della Sapienza. Dietro la statua della Minerva, in un’assemblea di migliaia di persone che un’aula non può contenere, si alternano le loro voci. Parla anche il pro rettore Luigi Frati. Parole pesate una per una davanti a quella platea attenta e rumorosa che gli organizzatori stimano in diecimila persone. Parla dell’idea delle fondazioni bancarie nelle università come di uno «scenario cretino» il pro rettore, degli atenei italiani che hanno perso quel ruolo di «ascensori sociali», di meritocrazia ed equal opportunities, dei tagli che lui stesso farà «ma in funzione degli studenti» (dirà dopo: «Se io devo fare un corso di carciofologia solo perché ho un professore specialista di carciofologia, allora io il corso lo cancello. Dobbiamo lasciare gli insegnamenti utili agli studenti, non quelli utili ai professori. E certo non si possono tagliare i fondi in modo orizzontale come fa il governo»). Dice, infine, quello che ci aspettava: è contrario al blocco della didattica proposto dalle assemblee di facoltà. Lo giudica un metodo inadeguato. «Dobbiamo riconciliare l’università con il Paese. Se non facciamo questo il Paese penserà sempre che sia giusto tagliare le risorse che ci vengono date».
Resta comunque un no alla proposta, che la folla interpreta come il via libera alla mobilitazione. In pochi minuti è già pronto il corteo: direzione via XX settembre, ministero dell’Economia. Al grido di «Stiamo arrivando! Tremonti stiamo arrivando!», il serpentone si muove in direzione di largo Aldo Moro. In testa le avanguardie dei collettivi, più politicizzati, nel mezzo e in coda gli studenti e i dottorandi di Chimica, Fisica e Matematica, quasi emozionati di trovarsi nel mezzo di una città a far valere le proprie idee. Il corteo attraversa viale Castro Pretorio in direzione di Porta Pia, poi piega per via XX settembre. Sono le due del pomeriggio quando davanti alla sede del governo si alza fortissimo il grido «Noi la crisi non la paghiamo!», slogan della protesta romana. Volano anche «buu», fischi e quattro uova contro il portone. Niente di più. A quel punto si deve decidere ancora se chiuderla lì o portare la protesta nel cuore della città. Si chiede alle forze dell’ordine di poter andare al Parlamento, poi a Termini, infine ci si mette d’accordo per tornare all’università da piazza della Repubblica. Ma è proprio all’uscita della piazza che, approfittando della risicata presenza di forze di polizia, il gruppo inizia a correre in direzione della stazione Termini. Corrono con il fiatone continuando a scandire lo slogan: «Noi la crisi non la vogliamo» e a battere le mani. Occupano prima il binario 5 (mollato poco dopo per l’arrivo dell’eurostar da Milano), poi i due contigui. Si guardano negli occhi quasi increduli d’averlo fatto sul serio. Poi tornano indietro con un nuovo slogan: «Se ci bloccano il futuro noi blocchiamo la città! La città! La città! Se ci bloccano il futuro noi blocchiamo la città!». Si avviano per via Marsala. Qualcuno, da sopra gli uffici delle ferrovie, applaude ricambiato (le due grandi ovazioni di giornata del corteo sono state proprio davanti alla sede delle Ferrovie dove un dipendente ha salutato con il pugno chiuso, e davanti al ministero dell’Economia, quando da una finestra un impiegato ha calato la bandiera rossa dei Cobas). Tornano alla Sapienza dove le assemblee sanciranno l’inizio delle occupazioni di Lettere e Fisica. La didattica sarà garantita ma il luogo servirà anche per preparare lo spezzone per il corteo dei sindacati di base che oggi sfilerà per Roma (il corteo degli studenti partirà dalla Sapienza).
In fermento da Nord a Sud le università del Paese. Mentre a Verona la facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali ha bloccato la didattica per l’intero mese di ottobre, a Milano si è provato ad operare un blocco stradale, a Napoli è stata organizzata una raccolta di firme da consegnare a Berlusconi quando tornerà a Napoli. Assemblee permanenti a Palermo, lezioni in strada a Firenze. Mentre Manuela Ghizzoni, capogruppo del Pd nella Commissione Cultura della Camera annota un nuovo taglio in finanziaria: «Il diritto allo studio subisce un taglio di ben 65 milioni di euro sui 152 previsti, di cui 40 sottratti al fondo per la concessione di prestiti d’onore e l’erogazione delle borse di studio e 12 per gli alloggi e le residenze universitarie».
l’Unità 17.10.08
Scuola, è rottura governo-Regioni. E oggi corteo anti-Gelmini a Roma
Errani: cancellino subito la norma sul commissariamento per gli Enti che non si adeguano con i tagli-selvaggi
di Maristella Iervasi
LA CONTRORIFORMA Gelmini terrà banco anche oggi, insegnanti, studenti e personale scolastico prenderanno parte a Roma allo sciopero generale dei sinda-
cati di base (Cobas, Cub e Sdl) proclamato il 20 giugno scorso, ben prima dei decreti-mannaia sull’istruzione e l’università. E sarà un venerdì di passione anche per i trasporti pubblici (con orari diversi nelle città), la sanità e il pubblico impiego. E sulla scuola, tema rovente, insorgono anche le Regioni: i governatori dicono «no» al commissariamento degli enti che entro il 30 novembre non metteranno in pratica il piano di ridimensionamento degli istituti scolastici (un taglio stimato in 2600 istituti e 4200 plessi, soprattutto nei comuni montani) previsto dall’articolo 3 del decreto 154 sulla sanità. E la pregiudiziale «irrinunciabile» dei governatori manda all’aria il blitz Tremonti-Gelmini. Rottura istituzionale. Governo con il cerino in mano senza saper rispondere. La Conferenza unificata salta, viene sospesa. E i ricorsi alla Corte Costituzionale si annunciano sempre più numerosi. Di istruzione parla anche Berlusconi da Bruxelles: «Con il maestro unico il tempo pieno verrà confermato dove c’era e incrementato del 60% perchè ci saranno più insegnanti a disposizione». Un cronista l’incalza: «Ma il pomeriggio il maestro unico finirà per fare un doposcuola...». E il premier controreplica: «Ho visto in tv che c’era chi diceva: “Ci togliete il tempo pieno”. Può darsi che lei abbia ragione e ci sia anche quello che lei ha detto. Ma io ripondevo a quello che ho visto direttamente».
Corteo a Roma La manifestazione nazionale dei sindacati autonomi partirà alle 10 da piazza della Repubblica e terminerà in piazza San Giovanni. Lo striscione d’apertura: «No alla distruzione della scuola». Piero Bernocchi leader dei Cobas, si attende una presenza in piazza di 100mila persone tra maestre, precari, operai, e pubblico impiego. Ma questo non è che il primo assaggio dell’autunno caldo. Gli studenti dell’Uds e della Rete hanno organizzato una tre giorni di occupazioni e di autogestione negli istituti dal 21 al 23 ottobre, in vista dell’«ingresso» nell’aula del Senato del decreto Gelmini.
Schiaffo delle Regioni Gelmini era arrivata alla Conferenza unificata convinta di tener banco. E invece ne è uscita con una sonora bocciatura, anche delle regioni amiche: Lombardia e Veneto. «Non restiamo seduti - hanno deto i governatori - se non si toglie questa norma che prevede, per la prima volta, il commissariamento senza un’intesa istituzionale». E il blitz di Tremonti infilato nel decreto sanità va per aria. Vasco Errani: «Il governo ha voluto procedere in modo unilaterale mettendo un articolo e il commissariamento in un decreto che riguarda peraltro la sanità e non la scuola. Nessuna comunicazione dal ministero, lo abbiamo appreso leggendo il testo. Un punto itituzionalmente gravissimo. Devono eliminare dal testo quella norma». E la Gelmini ha commentato: «Comprendo la posizione delle Regioni ma condivido quella del governo e di Tremonti. La razionalizzazione dei plessi scolastici è prevista da una legge del centrosinistra, fatta da Bassanini nel 1998. Noi chiediamo che venga rispettata».
Bugie sul tempo pieno Mimmo Pantaleo, segretario della Flc-Cgil prende in castagna Berlusconi. «Come è possibile arrivare all’aumento del tempo pieno come dice il presidente del Consiglio se almeno 130mila persone tra docenti e Ata andranno via?. Basta leggere la legge per capire - sottolinea il sindacalista - che le cose non stanno come le raccontano. Il tempo pieno dipenderà dagli organici disponibili ed è chiaro che se gli insegnanti diminuiscono il tempo pieno non si farà. Quello che dice Berlusconi non risponde a verità».
Repubblica 17.10.08
La generazione senza partiti
Tra gli studenti della più grande università d´Europa: fischi ai partiti e insulti ai politici
In corteo con i ragazzi "no future" e alla Sapienza esplode la rabbia
Uova sul ministero e binari occupati "Non sappiamo dove, ma intanto andiamo"
di Marco Marozzi
I volantini di Rifondazione comunista finiscono subito per terra. Nessun oltraggio. Non considerati. «Che c´entrano partiti che non ci sono più?» fa una ragazza dai capelli rossi.
I compagni, sulla scalinata della Sapienza, sospirano. «Sono stati pure al governo». Il Pd i fischi se li prende appena viene nominato, dal rettore Luigi Frati. Fischio preventivo, si rafforza quando si cita la parlamentare che «ha proposto la mutua degli animali». «Difendo i cani. Ma anche noi» ghigna un giovane. La sua maglietta intima: «Cacciare un angelo. Mai». Chissà che vuol dire. «Ma la politica adesso è questa qua». E quando il corteo si blocca davanti al ministero dell´Economia, «Tremonti Gelmini vi spazzeremo via» esplode la rabbia, ecco il gesto più violento. Tre uova volano contro il portone, altissime, attente a non sfiorare nemmeno da lontano la polizia. Ancora più strampalata l´occupazione della stazione Termini. In mille e più di corsa fra i passeggeri ammutoliti, tutti sulle rotaie del terzo e quarto binario. «Con le nostre tasse non pagherete la vostra crisi». Però alle 15.38 deve partire il treno per Ancona. Quindi tutti via. «Libera cultura in libero stato». Viva il Risorgimento. «A Porta Pia apriremo una breccia di democrazia».
Benvenuti o malarrivati fra i ragazzi del 2008. Università La Sapienza, capitale della rivolta studentesca. Occupazione, assemblea, corteo. Fra una immensa voglia di rivendicare diversità, età e speranze. «Sapeste la fatica di sganciarci dai ricordi, i rimpianti, i paragoni. Ma va bene lo stesso» racconta Stefano Zarlenga. Faccia e modi acqua e sapone, un leaderino si sarebbe detto un tempo. Ora «uno dei Collettivi». «Nemmeno portavoci siamo. Quelli che ci hanno preceduti nei movimenti sono diventati deputati...». Spunta l´unica giacca: Francesco Raparelli, «dottorando, 300 euro al mese, 200 per spostarmi, 330 di affitto, mi arrangio...». «Nel ´68 i nostri genitori erano bambini, nel ´77 non ero nato. Sappiamo benissimo di muoverci in un deserto. L´opposizione non c´è. Ma è un deserto molto affollato. Noi, parte della docenza, la scuola, i sindacati di base, gli altri che seguono... Grande sfida. Noi siamo partiti. Vedremo insieme dove andiamo». «Cosa leggiamo? Non i commentatori, nemmeno se parlano di noi. Occhi passati. Piuttosto di Asia, America, economia... Non so se conquisteremo il mondo, ma conoscerlo vogliamo».
«Un riferimento storico? La Pantera di quasi vent´anni fa. Ne scappò una vera da un circo, e ne è scappata una adesso. Ma il richiamo è tutto qui» va sul poetico Zarlenga. Sfila il corteo, sfila. «se ci bloccano il futuro, blocchiamo le città». Erano in diecimila nei cortili della Sapienza, assemblea all´aperto. Diversissimi. «Io come faccio con gli esami? Le tasse le ho pagate. Soldi per aspettare non ne ho. Bisogna restare uniti, ma è difficile» dice un ragazzo con una maglietta azzurra con su scritto Ddr. Zero Guevara, Bob Marley piuttosto, stelle rosse ma non cinesi. L´unica fanciulla che per un secondo si copre il viso lo fa con una pashmina, non con una introvabile kefiah.
«Oddio, non faremo mica la figura di un manipolo comunista?» si dispera una ragazzina stringendosi al moroso, mentre qualche estremista accende due-fumogeni-due. Linguaggi lontani, la piramide sui gradini dell´università ben rappresenta gli strati studenteschi. I «politici» in alto, poi via a scendere. Nel corteo che sfilerà per Roma ne parte la metà, ne arriva un terzo. «Poco politicizzati, molto pragmatici, poco ideologici» si fotografano.
Tante ragazze, la maggioranza, sono state loro ieri a girare per le aule e tirare i compagni fuori. Rivoluzionarie? Quando nel bar davanti al ministero di Tremonti (rivolta e panino), tirano fuori i portamonete, spunta il volto di Audrey Hepburn. L´unico rosso è quello di una bandiera dei Cobas da una finestra del ministero di via XX Settembre. Grandi applausi, come per i pugni chiusi dei due della Cgil davanti alle Ferrovie dello Stato. Applausi, ma tre saluti comunisti in risposta, tre di numero da tremila e passa giovani. «Alemanno pezzo di m...» spunta alle quattro del pomeriggio, dopo più di tre ore di corteo. Idem Berlusconi. Tre grida, senza seguito, quando la stanchezza ha segnato anche la sorveglianza.
Repubblica 17.10.08
Roma, diecimila anti Gelmini oggi il bis con i Cobas in piazza
di Marina Cavallieri
ROMA - Lezioni in piazza, facoltà occupate, cortei e assemblee sparse. In modo creativo e frammentario continuano le proteste. Anche ieri molte le iniziative anti Gelmini e le mobilitazioni di studenti, maestre e professori che in alcuni casi confluiranno nel corteo che in mattinata sfilerà a Roma per lo sciopero generale organizzato dai sindacati autonomi.
Una ribellione diffusa che ha portato ieri gli studenti della Sapienza, dopo un´assemblea per chiedere il blocco della didattica, a sfilare in corteo verso il ministero dell´Economia. Con loro anche ricercatori e alcuni docenti. «Siamo in diecimila», hanno detto gli organizzatori. «Sono al fianco degli studenti, ma la protesta di per sé non risolve il problema, dobbiamo fare proposte concrete al governo per imporre un confronto», ha sottolineato il preside di Medicina e rettore in carica dal prossimo 31 ottobre, Luigi Frati. «La mobilitazione che c´è in tutta Italia, comunque - ha detto Frati - imporrà una riflessione al governo a cui penso vada presentata una piattaforma di proposte».
Cortei improvvisati e assemblee più o meno permanenti. anche a Pisa, Firenze, Ferrara, l´Aquila. A Genova, durante l´assemblea alla Facoltà di Lettere, in un momento in cui stavano arrivando all´università tutti i protagonisti della protesta (dalle maestre elementari, ai genitori, dagli studenti medi ai docenti) per organizzare la mobilitazione di questa mattina, ci sono stati tafferugli causati da un gruppo di una decina di ragazzi di Lotta Comunista.
Proteste e oggi corteo generale. «Sarà il più partecipato di tutta la storia del sindacalismo antagonista», ha detto il portavoce dei Cobas della scuola, Piero Bernocchi, parlando della manifestazione che partirà da piazza della Repubblica alle 10 per arrivare a San Giovanni. «Arriveranno da tutta Italia una marea di lavoratori e lavoratrici con centinaia di pullman, treni, navi e con migliaia di automezzi privati», prevede Bernocchi. Lo sciopero generale nazionale di 24 indetto dai sindacati di base, Cub, Cobas e Sdl coinvolge i lavoratori pubblici e privati di ogni categoria e riguarda tutti i comparti della mobilità: mezzi pubblici urbani, treni, aerei, traghetti, trasporto merci. Autobus e tram a singhiozzo, andranno in tilt molte città.
Corriere della Sera Roma 17.10.08
Assemblea col nuovo rettore. Oggi altro corteo: pure i licei scendono in piazza
Sapienza, la protesta blocca anche Termini
«Siamo in ottomila» dice il Coordinamento dei collettivi della Sapienza. Ed è tra la folla dei manifestanti che si fa largo Luigi Frati: «Sono al fianco degli studenti» afferma il neo-rettore. Poi un corteo da viale delle Scienze, il corteo si sposta verso viale del Castro Pretorio, poi corso d'Italia, Porta Pia, Termini. Gli studenti bloccano per un quarto d'ora i binari 3 e 4: fermo un Eurostar per Milano. Sarà, soprattutto, una «azione simbolica». Ma i disagi ci sono per tutti. E oggi si replica. Nuovo corteo. E anche gli studenti dei licei, seguendo l'esempio del Mamiani, scendono in lotta.
Corteo dalla Sapienza a Termini Lettere e Fisica, sì all'occupazione
Assemblea sui gradini del rettorato con Frati. Gli studenti: «Siamo ottomila» La protesta simbolica blocca per un quarto d'ora i treni. E oggi si ricomincia
Fumogeni e cori guidano la protesta: slogan e uova contro il portone del ministero dell'Economia
Alle 10, l'Aula 1 della facoltà di Lettere è già stracolma: «Non ci stiamo, tutti fuori, siamo tanti, tantissimi» grida uno studente. E l'assemblea più attesa, quella del confronto con il neo-rettore Luigi Frati, si sposta al piazzale della Minerva, sulle scale del rettorato, dove confluiscono i singoli cortei formati nelle facoltà della Sapienza. C'è anche Medicina che – sottolineano gli studenti – «per la prima volta si mobilita: in 600 ci siamo riuniti in assemblea, siamo contro i tagli e, oggi, vogliamo farci sentire». Hanno striscioni e megafoni. Il coro è uno, sempre lo stesso: «Noi la crisi non la paghiamo ». Vorrebbero entrare nell'aula magna del rettorato, i ragazzi. Ma le porte rimangono chiuse. Allora, arriva un microfono chissà da dove e i rappresentanti degli studenti cominciano a sfilare uno ad uno: Fisica, Scienze Politiche, Matematica, Lettere, Sociologia, Psicologia, Ingegneria, Economia. Ci sono anche alunni del liceo Mamiani. Molti i ricercatori (quelli di Fisica che hanno già ritirato la loro disponibilità a tenere i corsi), docenti (candidati alle ultime elezioni della Sapienza, come Gianni Orlandi), e l'ex-ministro Francesco D'Onofrio. L'atmosfera è accesa: «Siamo in ottomila» dice il Coordinamento dei collettivi della Sapienza. Ed è tra la folla dei manifestanti che si fa largo Luigi Frati: «Sono al fianco degli studenti – afferma il neo-rettore – ma il blocco dell'anno accademico non risolve il problema, dobbiamo fare proposte concrete al governo per imporre un confronto». Un lungo discorso quello di Frati. Raccoglie applausi e contestazioni. Ma bastano due parole, basta quel «no al blocco» per trasformare l'assemblea in un corteo. Fumogeni e cori guidano la protesta: «Tremonti stiamo arrivando ». Da viale delle Scienze, il corteo si sposta verso viale del Castro Pretorio, poi corso d'Italia e Porta Pia: l'obiettivo è organizzare un sit-in sotto il ministero dell'Economia. Qualcuno tira fuori una bomboletta spray di vernice rossa e, sui sampietrini di Porta Pia, appare la scritta: «Ci bloccate il futuro? Noi blocchiamo la città ». In via XX settembre, il corteo si ferma per almeno una mezz'ora: «Fuori, fuori» grida la folla davanti ai portoni sbarrati del ministero dell'Economia. Intorno il traffico va in tilt: da via Nomentana a piazza della Repubblica. «È il momento di scegliere e di prendere una posizione» dice Stefano del collettivo di Scienze Politiche. «Frati non ha detto nulla, ci vuole coraggio e fuori le ambiguità » gli fa eco Francesco. E giù fischi e “buuu” verso le finestre del ministero: volano anche discrete quantità di uova contro i portoni in legno. Davanti a Palazzo Massimo, sale la tensione: la polizia fa cordone, ma i manifestanti si dirigono di corsa verso Termini. Nell'atrio della stazione i cori rimbombano. Gli studenti bloccano per un quarto d'ora i binari 3 e 4: fermo un Eurostar per Milano. Sarà, soprattutto, una «azione simbolica». Il corteo si ricompatta e si avvia verso la città universitaria. Arrivano intanto 5 camionette dei Carabinieri. A Lettere e Fisica, dopo affollate assemblee, si decide per l'occupazione. Gli studenti dormono in ateneo perché oggi si ricomincia: alle 9, da piazza della Repubblica, parte il corteo dei sindacati di base. Presente anche l'Unione degli studenti. Psicologia, da lunedì, terrà lezioni all'aperto a San Lorenzo. E, martedì, in concomitanza con la riunione del Senato accademico, gli studenti della Sapienza terranno un sit-in sotto al rettorato.
Simona De Santis
Corriere della Sera 17.10.08
Anche i liceali contro la riforma
Corteo da piazza Fiume. Autogestioni in molti istituti superiori
Dal Virgilio al Pasteur, dal Kennedy al Tasso, Talete, Manara e Righi, gli studenti medi si sono uniti al Mamiani
di Flavia Fiorentino
Assemblee, mobilitazioni, autogestioni in moltissime scuole superiori romane che oggi parteciperanno al corteo dei Cobas per protestare contro la riforma Gelmini. Dal Virgilio al Pasteur, dal Kennedy al Tasso, Talete, Manara e Righi, gli studenti medi si troveranno questa mattina alle 9.30 a piazza Fiume per poi confluire in piazza Esedra verso le 11.
Sulla scia del Mamiani, che ha anticipato la stagione delle occupazioni, il movimento studentesco cresce e si fa sentire come non accadeva da anni. E per la settimana prossima, mentre al Senato sarà in discussione il decreto 137, si moltiplicheranno iniziative di protesta e manifestazioni in tutta la città. «Questa volta non ci fermeremo dopo la discussione in Senato dice Luca, rappresentante dei collettivi dello scientifico Kennedy di Monteverde l'ondata di dissenso accesa dal Mamiani va tenuta viva con ogni mezzo perchè è in gioco la sopravvivenza della scuola pubblica ». Una volontà ancora una volta espressa dallo storico liceo di viale dele Milizie dove ieri penzolava uno striscione appeso alle finestre: «Mamiani (pre) occupato è solo l'inizio ».
Questa volta gli studenti hanno l'appoggio di presidi e docenti che condividono le stesse preoccupazioni. «L'atteggiamento dei professori è diverso rispetto al passato dice Andrea del Tasso - abbiamo la collaborazione del corpo docente perchè la nostra lotta si sta trasformando in una battaglia di civiltà. Mercoledì avremo un'assemblea tutti insieme per decidere iniziative di mobilitazione».
Ovunque vengono organizzate letture collettive dei decreti Gelmini seguite da analisi e commenti. «Due giorni fa si è tenuta un'assemblea a cui, oltre agli insegnanti hanno partecipato anche i bidelli - spiega Agostino del Virgilio - e quest'unità rappresenta la nostra forza. L'affossamento e la dequalificazione della scuola sono temi che non possono lasciare indifferente nessuno e infatti il livello di partecipazione e di interventi alle assemblee è altissimo».
In agitazione anche le scuole in rete del IX Municipio (Russel, Kant, Benedetto da Norcia e altre) dove tutte le iniziative sono aperte anche ai genitori.
E mentre le scuole si mobi-litano, non mancano le provocazioni: ieri mattina al liceo Russel di via Tuscolana, un gruppo di ragazzi di Blocco Studentesco si è presentato davanti ai cancelli della scuola per fare volantinaggio «scortato» dalla polizia: «Siamo rimasti senza parole - racconta la professoressa d'inglese Marinella Putano - in 20 anni d'insegnamento e altrettanti da studentessa non avevano mai visto una cosa simile. Le forze dell'ordine hanno "accompagnato" quei giovani per evitare scontri e disordini».
l’Unità 17.10.08
L’istruzione malata
di Benedetto Vertecchi
Qualcosa sta accadendo nel sistema educativo italiano, qualcosa che deve essere interpretato. Già da alcuni mesi si assiste al crescere del disagio di quanti, in un modo o nell’altro, sono interessati al funzionamento delle scuole e delle università. Finora tale disagio è stato riferito a ragioni occasionali, dall’obbligo dei grembiuli al ripristino dei voti decimali, alla riduzione degli organici, al taglio degli orari e via seguitando. Certamente si è trattato di decisioni che hanno suscitato reazioni, e non ci si poteva attendere altro.
Da parte governativa era scontato si affermasse che qualunque intervento incida in profondità su aspetti importanti della vita sociale produce reazioni difensive, e che tali reazioni costituiscono un segnale di atteggiamenti conservatori. Ma si tratta di una obiezione che, per quanto poco convincente, poteva essere mossa ai movimenti di protesta che si sono andati sviluppando nel Paese fin quando il malessere era prioritariamente riferibile a questo o a quel provvedimento, per esempio la riorganizzazione del lavoro nella scuola primaria (ovvero il ritorno al maestro unico) o la soppressione nelle università di quattro su cinque dei posti in organico che si libereranno per pensionamento nei prossimi anni.
Ma quelle alle quali stiamo assistendo non sono espressioni di malessere che si manifestano a livelli determinati del sistema d’istruzione o che investono strati determinati del personale. Si sta precisando una risposta d'insieme che coinvolge in un rifiuto complessivo l’intera politica governativa per la scuola e per l’università. Si direbbe che giorno dopo giorno cresca la consapevolezza della necessità di considerare il sistema d’istruzione nella sua interezza. Non ci sono interventi che investano un livello di tale sistema senza che si producano ripercussioni sugli altri. L’interpretazione del ruolo che si riconosce all’educazione nella società non può che prendere in considerazione ciò che avviene nelle scuole per l’infanzia come in quelle primarie e secondarie e nelle università. Il fatto nuovo è che va diffondendosi proprio questa consapevolezza. Nelle proteste che vanno montando non prevale più la preoccupazione riferibile a questo o a quel provvedimento, ma quella che investe le linee dell’evoluzione (ma sarebbe più esatto dire involuzione) del sistema d’istruzione.
Nessuno afferma che nelle scuole e nelle università tutto proceda nel migliore dei modi. Sarebbe irragionevole affermarlo, se non altro perché l’educazione si modifica con continuità in relazioni alle trasformazioni del contesto in cui opera. Ma un conto è introdurre nel sistema d’istruzione le modifiche che ad una riflessione consapevole, che non può non investire l’insieme del Paese, appaiano opportune, un conto ben diverso è esplorare le soffitte del sistema per trarre dalla polvere soluzioni che rispondono all'unico intento di diminuire l’impegno dello Stato nel settore. Stiamo constatando che la svolta nell’interpretazione del ruolo del sistema d’istruzione avviata con la riforma della Scuola Media del 1962 è stata profondamente interiorizzata negli atteggiamenti collettivi: quella che a gran voce si richiede, dalle scuole dell’infanzia alle università, è la realizzazione del principio dell’uguaglianza delle opportunità educative. Di fronte allo stillicidio di provvedimenti che già negli anni della gestione Moratti aveva diminuito il ruolo della scuola, agitando i simulacri di un’utilità povera di elementi identitari, si sta riaffermando la funzione democratica insostituibile del sistema d’istruzione. Lo Stato è responsabile del funzionamento e della crescita ulteriore del sistema d’istruzione, un bene collettivo che non può essere sacrificato ad altri interessi, politici o economici che siano. Ma per procedere in questa direzione occorre capacità di analisi e di progetto: siamo in entrambi i casi di fronte ad un vuoto sconfortante.
l’Unità 17.10.08
Una laurea nel buio
di Marco Simoni
Con quale credibilità magnifici rettori e presidi di facoltà protestano contro i tagli del governo? Dopo aver eletto, rapidamente e con una maggioranza schiacciante, Luigi Frati come proprio rettore, con quale onestà intellettuale i presidi della Sapienza sostengono che è il centrodestra ad uccidere l’università, addirittura convocando gli studenti per mobilitarli contro il governo come è accaduto ieri nella facoltà di Ingegneria?
Mi sono laureato in Scienze Politiche all’università di Roma nel 2000, la mia storia è talmente tipica della mia generazione da risultare banale.
In qualche misura, posso testimoniare direttamente di quanto fossero efficaci i corsi di base a cui ero stato esposto. Tra mille inevitabili difetti, la mia preparazione non invidiava nulla a quella dei miei colleghi che venivano da Stanford o Oxford e che seguivano il mio stesso corso di dottorato a Londra. Questa consapevolezza, tuttavia, non fa che acuire il senso di sorda rabbia che prova, come me, ogni accademico italiano all’estero davanti alla decadenza che, nella sostanziale indifferenza sociale, colpisce l’università del nostro Paese. Fuori dai confini e nelle aule universitarie siamo centinaia e centinaia, non credo esista una statistica precisa, chi dovrebbe stilarla? Siamo protagonisti, collettivamente, di una delle più serie ed ignorate tragedie nazionali. Noi ne siamo i protagonisti fortunati. La gran parte di accademici italiani all’estero che io conosco sono contenti della propria vita e del proprio lavoro. Oggi con i voli a basso costo e Internet, per chi come me viene da Roma, lavorare a Londra o Palermo è circa la stessa cosa. Si parte, sapendo tuttavia che l’opzione del ritorno non esiste. Sapendo che il patrimonio di cultura che abbiamo ereditato dalla società che ci ha fatto crescere, gli anni di scuola e di licei dall’eccellenza inimmaginabile in altri Paesi, saranno ora a disposizione di un’altra società. Tutto sarebbe diverso se fossimo capaci anche di attrarre studiosi, oltre che di lasciar partire i nostri: saremmo solo parte di un mondo più largo. Invece non viene nessuno in Italia, e la crisi dell’università diventa fatalmente una delle cause più profonde e importanti della ormai lunga e pronunciata crisi economica, sociale, culturale, del nostro Paese.
Un meritorio libro che Roberto Perotti ha scritto per Einaudi, «L’università truccata», racconta tutti i dettagli di questa storia. La sostanza è che gli accademici italiani hanno governato l’università con le regole del peggior feudalesimo meridionale. Esistono eccezioni, naturalmente, esistono isole felici. Ma chi oggi in Italia continua a fare ricerca, con uno stipendio bassissimo, in condizioni di forzato asservimento culturale nei confronti del proprio barone, un atteggiamento nei confronti della ricerca che rappresenta il più esteso accordo bipartisan della storia d’Italia, è da considerarsi un eroe.
Gli studenti, strumentalizzati in questi giorni da baroni di ogni colore politico, saranno ancora una volta coloro che pagheranno il prezzo più alto dei tagli del governo, come accade sistematicamente in Italia da ormai quasi vent’anni: meno risorse e minori opportunità per i più giovani. Ma bisogna anche aver presente, superando l’ignavia bipartisan della classe politica, che questa scure non arriva a colpire un’organizzazione sana, per quanto migliorabile, ma una struttura impermeabile ad ogni riforma profonda, un luogo che ha perso il rispetto e la stima non tanto dei colleghi di altri Paesi, ma dei cittadini che all’università non vanno, che fanno fatica a capire a cosa serva alla società mantenere in cattedra persone con zero pubblicazioni, che non scrivono nulla di significativo, che gestiscono l’università come fosse cosa loro e non un patrimonio di tutti.
Roberto Perotti ha ricordato che Frati è il terzo rettore di seguito ad avere figli nello stesso ateneo. Mentre era preside della facoltà di Medicina, un incarico che ha conservato per 17 anni come se ne fosse, appunto, il padrone, suo figlio è stato chiamato in cattedra nella stessa istituzione. Anche sua moglie, già professoressa di lettere al liceo, ha una cattedra da ordinaria di storia della medicina nella stessa facoltà. Che cosa insegna questa università, il suo corpo docente, ai suoi studenti? Il governo di centrodestra con ogni sua politica punta ad allargare le spaccature della società italiana perchè su queste spaccature costruisce il suo consenso, come dimostrano i sondaggi e gli ultimi dieci anni di politica italiana. Non possiamo certo aspettarci un sostegno alla formazione pubblica, che per sua natura ricuce le spaccature, e rende una società più coesa. Bisogna ricordare tuttavia, e magari su questa consapevolezza costruire una politica di cambiamento, che l’università è stata già umiliata ripetutamente proprio da coloro che avevano il dovere di proteggerne e tutelarne la reputazione, la autorevolezza e la dignità.
l’Unità 17.10.08
L’autunno freddo della scuola pubblica
di Alessandro Anniballi
Sento in questi giorni provenire freddo dal silenzio civico in cui è calato il mio Paese, dall’indecenza di questa società ormai stravolta dalla passività. L’autunno un tempo si annunciava caldo: di conflitti, ma anche di travolgenti passioni ideali.
Non è semplice nostalgia per quegli anni in cui le masse popolari e gli intellettuali, con convinzione e speranza, riempivano le piazze di Roma, di Bologna, di Napoli, certi di poter cambiare. È piuttosto l’incredulo sgomento che mi pervade innanzi all’inerzia del pensiero e della prassi politica, ormai indifferenti al consolidarsi delle ingiustizie sociali, al punto di consentire che divengano accettabili se non addirittura fisiologiche. È la dilagante approssimazione etica che ha costantemente intessuto la nostra storia e che ora ha corroso le nostre anime fino a farci rimanere immobili anche di fronte alle più abominevoli e mascherate espressioni del potere. Espressioni desuete, da usare in corsivo, ma è di questo che si tratta: il potere è diventato ancora più potente, perfino accattivante e noi sempre più silenti.
Ho trovato i carnefici, vestiti da giudici urbani che trascinano un africano piangente. Bisogna rispettare le regole. Ho trovato giornali che gridano allo stupro perpetrato da vili extracomunitari mentre anonimi connazionali vengono assolti mediaticamente. Ho trovato poi il sette, il cinque, il due in condotta che punirà mirabilmente il “giovine” studente che allora e solo allora conoscerà il buono e il giusto. Finalmente! Al bando analisi e sofismi, le complessità di “poniamoci il problema”. Al bando le estenuanti peregrinazioni del dubbio. La risposta più banale e volgare che si possa dare alla diversità ben più difficile da comprendere.
Caro professor Sandro Onofri, piangerai dal tuo paradiso quando vedrai quanto lontano dalla tua bella idea di scuola sia quella attuale e quanto lontane, quasi un’eco di un’altra epoca, siano le tue parole scritte proprio in occasione dell’eliminazione del voto di condotta: «Una decisione che ha cambiato il rapporto pedagogico, ha eliminato un’arma di ricatto, di avvilimento dell’esuberanza adolescenziale e della vivacità intellettuale dei nostri giovani». E sono passati solo dieci anni! Ed ancora Jerome Bruner, in “La cultura dell’educazione” ci dice: «Idealmente, certo, la scuola dovrebbe fornire un’ambiente dove le nostre prestazioni hanno conseguenze meno dannose per l'autostima rispetto al “mondo reale”. Ma alcuni studiosi, come Paulo Freire, hanno portato avanti una critica radicale, affermando che spesso la scuola distribuisce fallimenti ai bambini che sono destinati in seguito a essere “sfruttati” dalla società».
Un ritorno al passato nefasto ed incolto, precedente al nostro passato che non c’è più. Perché la voce di quella scuola tanto ben regolamentata era l’eco di una società maggiormente strutturata, una società fatta di uomini colmi di sogni e di idee, di voglia di rispondere e perché quei sogni, quelle idee non sono più i nostri. Perché i padri e le madri, i nonni e le nonne di oggi si sono stancamente riprodotti annullando la loro antica referenzialità educativa. Perché i Super-Io si sono dissolti in un Io confuso ed auto distruttivo.
Finalmente il nostro ministro, in barba alla sospetta intransigenza dei Brunetta, ci dona l’analfabetismo e la stasi del progetto educativo. Intanto nelle nostre scuole continua a pioverci dentro. Intanto nelle nostre scuole iper-regolamentate continuano a mancare banchi, sedie, palestre e idee. I giovani insegnanti continuano a rimanere fuori. L’età media dei docenti di ruolo si alza sempre di più disegnando la prospettiva di un’agorà immobile e sonnolenta lontana da ogni dialettica generazionale e priva di ogni gratificazione, sociale e retributiva. E soprattutto continua a mancare la Scuola. Ho trovato tanti nuovi bambini con antichi grembiulini che li renderanno finalmente uguali ed annulleranno una volta per tutte il loro status discriminante. Anche io portavo il grembiule blu, come lo portava il ricco Ansuini, ma il mio era sempre pieno di moccio, logoro e con le asole strappate. E il fiocco bianco diventava presto tutto ciancicato, rosso di sugo e marrone di terra. Ho trovato anche una nuova disciplina, Educazione civica e allora mi sono reso conto che ciò che ho finora insegnato era un’altra cosa. Cosa? Ho trovato Istituzioni che parlano con violenza ed intransigenza di regole e sicurezza, fatte da uomini potenti che di quelle regole si beffano, usandole a loro consumo. Uomini che non hanno mai posseduto alcun carisma e senso pedagogico, capaci di spolverare sul territorio i militari con mitra spianati che giocano la loro comparsata e colorano le nostre città di nebbia in questo scenario dell'assurdo. Mentre ronde poliziesche, poliziotti rondeschi e squadracce di stolti fascistoidi minorenni aggrediscono fino ad uccidere i pochi superstiti del pensiero e della fiducia. Ma ho trovato, anche, un nuovo, bizzarro Padre francescano che caccia i mendicanti dalle chiese e chiama i mercanti nel tempio. L'alemanno padre teologale che soffoca l’alito d'amore del Concilio di Giovanni XXIII disegnando una Chiesa fatta di dottrina e intransigenza controriformista.
l’Unità 17.10.08
Gli statali contro Brunetta
A novembre scioperi regionali
Nel 2009 via al taglio di permessi e distacchi sindacali
Oggi stop dei sindacati di base, disagi nei trasporti
di Giuseppe Vespo
SCIOPERI Più caldo di così l’autunno non poteva essere, con le mobilitazioni che si moltiplicano a ogni misura nuova adottata dal governo. Gli ultimi, in termini di calendario, a programmare i cortei in piazza sono gli statali, che manifesteranno a novembre in tre tranche: il 3 partirà il Centro, il 7 il Nord e il 14 il Sud.
Il nodo del problema sono i soldi, quelli che servirebbero per rinnovare i contratti dei dipendenti pubblici. La trattativa all’Aran, l’ente che per il ministero siede al tavolo sindacale, ieri si è ulteriormente incrinata.
Sindacati e governo restano fermi sulle proprie posizioni: da una parte i rappresentanti dei lavoratori che giudicano insufficienti i tre miliardi dal governo previsti per il rinnovo delle amministrazioni statali e altri tre per il resto delle pubbliche amministrazioni. Dall’altra l’esecutivo, con in testa il ministro Brunetta, secondo cui i fondi permettono la firma di un contratto onesto.
Il sindacato chiede che il tavolo venga allargato a tutte le controparti pubbliche (quindi oltre al governo, alle Regioni e ai Comuni) e che venga riaperto a palazzo Chigi. Brunetta dice no: avete chiesto l’Aran - l’agenzia è stata voluta dai sindacati - e ve lo tenete.
Così si scende in piazza, con il ministro che uscendo dagli studi di Porta a Porta commenta: «Lo sciopero è previsto dalla Costituzione ed è un atto di libertà».
Prima di concedersi alle telecamere, Brunetta ha avuto il tempo di dare un altro colpetto al sindacato, con la firma del decreto che impone in tre anni una riduzione dei distacchi e dei permessi sindacali. Un provvedimento giudicato da Carlo Podda segretario della Fp-Cgil la conseguenza di un straordinario «accanimento sulle libertà sindacali». Critico anche Rino Tarelli omologo di Podda nella Cisl: un taglio «discutibile», dice: «Non comprendiamo le ragioni che hanno indotto il ministro a ricorrere ad un decreto ministeriale per giustificare, in modo unilaterale, una discutibile riduzione dei distacchi e dei permessi sindacali».
La misura comrterà una riduzione di 237 dipendenti in distacco sindacale a partire dal 1 gennaio 2009 (il loro numero salirà a 710 a partire dal 1 gennaio 2011) e che torneranno a disposizione delle amministrazioni di appartenenza. Sempre a partire dal 1 gennaio 2009 verranno ridotti i contingenti dei permessi orari per un ammontare complessivo di 828.535 ore (saliranno a 2.049.969 ore a partire dal 1 gennaio 2001). Secondo i calcoli del ministero tutto questo si tradurrà in «un recupero di 348 uomo/anno nel 2009 fino ad arrivare a 1.042 uomo/anno nel 2011». Tale «recupero di efficienza è stimato in 9 milioni di euro dal 1 gennaio 2009 fino ad arrivare a circa 30 milioni di euro dal 1 gennaio 2011».
Oggi intanto si conteranno i disagi provocati dallo sciopero generale dei sindacati di base, che creerà non pochi problemi ai trasporti, urbani e nazionali, ma anche ai servizi della sanità e nella scuola.
A questo venerdì di protesta e blocchi farà seguito lo sciopero del mondo della scuola indetto per il trenta ottobre dai sindacati confederali, dalla Gilda e dallo Snals. Poi, come detto, sarà la volta dei dipendenti statali del Centro, del Nord e infine del Sud.
l’Unità 17.10.08
Anatema del Papa contro gli scienziati: attratti da facili guadagni
Ricerca, Ratzinger condanna «l’arroganza di sostituirsi a Dio». E poi mette in guardia sulla «speculazione sfrenata»
di Roberto Monteforte
La scienza non è in grado di elaborare una sua etica. Deve confrontarsi con la filosofia e con la teologia per evitare che «proceda da sola in un sentiero tortuoso e non privo di rischi» e non cadere «nelle sue patologie». Lo afferma Benedetto XVI ricevendo in udienza i partecipanti al congresso sull’enciclica «Fides e Ratio» organizzato dalla Pontificia università Lateranense. Per il Papa questo non significa affatto limitare la ricerca scientifica o impedire alla tecnica di produrre «strumenti di sviluppo», quanto piuttosto di «mantenere vigile il senso di responsabilità che la ragione e la fede possiedono nei confronti della scienza» e - aggiunge - perché questa «permanga nel solco del suo servizio all’uomo».
Vede pericoli Ratzinger che non crede alla possibilità da parte della comunità scientifica di darsi un suo autonomo codice deontologico. Evoca il rischio che la scienza moderna anziché seguire il benessere dell'umanità, persegua «il facile guadagno o, peggio ancora, l'arroganza di sostituirsi al Creatore». Definisce la tentazione di «produrre» la natura oltre che a studiarne le verità più profonde, «una forma di hybris (arroganza) che «può assumere caratteristiche pericolose per la stessa umanità». Parole che suonano come un vero affondo contro l’autonomia della scienza, come sfiducia verso la sua capacità di darsi autonomi riferimenti etici e di resistere alle pressioni del mercato. Una sortita che ha provocato le reazioni di figure eminenti della comunità scientifica. Critica è stata quella dell’astrofisica Margherita Hack per la quale le parole del Papa sono «fuori dal mondo». «Gli scienziati - ha detto - sono persone come tutte le altre. Tra di essi, quindi, c'è chi pensa solo ai soldi e chi invece dedica tutta la sua vita al progresso dell'umanità». «Considerato che la maggior parte degli scienziati, soprattutto quelli italiani, lavorano il più delle volte in condizioni di estrema precarietà, le dichiarazioni del Papa sono davvero fuori dal mondo». «I principi etici - ha aggiunto - non sono solo dei credenti. Il principio etico “non fare agli altri ciò che non vorresti che gli altri facciano a te” riguarda i credenti come i laici e gli atei». Hanno, invece, apprezzato le parole del Papa il fisico Antonino Zichichi e il presidente dell'Istituto superiore di Sanità, Enrico Garaci.
Quello sulla scienza non è stato l’unico richiamo ieri del Papa. Nel suo messaggio inviato alla Fao in occasione della giornata mondiale dell'alimentazione, Benedetto XVI ha lanciato un monito fortissimo contro la «speculazione sfrenata» che tocca i meccanismi dei prezzi e dei consumi e che finisce per colpire gli «ultimi». «Basta agli egoismi degli Stati» ha aggiunto osservando come, malgrado vi siano mezzi e risorse sufficienti per soddisfare le crescenti necessità di tutti, «nel mondo, invece, ci sono sempre più affamati». Nonostante la crisi economica mondiale - questo il suo invito - «occorre promuovere un nuovo modo di intendere la cooperazione internazionale, basato sul rispetto della dignità della persona», perché l'indirizzo economico deve essere orientato «verso la condivisione dei beni, verso il loro uso durevole e la giusta ripartizione dei benefici che ne derivano».
l’Unità 17.10.08
Il Pd e gli ombligos della sinistra
di Luca Sofri
«Seis meses después de perder las elecciones, la izquierda italiana está ausente, se diría que no existe». Lo spagnolo suona sempre meraviglioso, è bello metterlo in testa a un articolo. Leggetela ad alta voce, questa frase, sia che conosciate la lingua sia che improvvisiate come me una pronuncia maccheronica: bello, no?
No. Già.
In effetti è difficile che l’abbiate letta con quel piacere che riempie la bocca, e che ve la siate goduta come niente fosse, come un legnetto di cremino da succhiare. Perché a capire cosa significa - e si capisce, dannata familiarità delle lingue latine, si capisce bene - quella frase parla di noi, e non dice cose belle.
Dice: «Sei mesi dopo aver perso le elezioni, la sinistra italiana è sparita: si direbbe che non esista». E lo dice sul Pais, il maggiore quotidiano spagnolo, che l’altro giorno ha dedicato alla sparizione un articolo intero («La izquierda se esfuma en Italia», e tradurlo sarebbe infierire), corredato dalle testimonianze del direttore di Repubblica e di un lucido giovane militante del Pd e collaboratore dell’Unità, Giuseppe Provenzano.
Sì, è vero che dello sguardo dei giornali stranieri sulle cose italiane bisogna sempre un po’ diffidare. La sua pretesa di distacco e obiettività spesso nasconde una più banale distanza e superficialità: molti giudizi pubblicati in questi anni dalla stampa estera facevano macchiette delle cose italiane e servivano solo a essere strumentalizzati da una parte o dall'altra quaggiù. Fossimo meno provinciali, non dovremmo aver bisogno dell'Economist per sapere chi è e quanto vale Silvio Berlusconi.
E temo che ai lettori dell’Unità non suonino sorprendenti le valutazioni del Pais. Ma in questo caso la stampa estera non parla di fatti, ma di percezioni. Il problema del Pd, infatti non è tanto che sia sparito - non lo è -, ma che “sembra” sparito. E questi non sono tempi da sembrare spariti. Ma se questa è un’impressione condivisa da molta parte dei suoi elettori, si ha la sensazione che sfugga inspiegabilmente ai suoi dirigenti, che sembrano ignorare “il Pd percepito”.
È una sensazione sbagliata: se li prendi uno a uno da una parte e ci fai due chiacchiere ti dicono anche loro che il momento è difficile, che la gestione non li convince, e poi che provaci tu, e tutta la sinistra europea è in crisi, eccetera eccetera. Lo sanno, lo sanno bene, che «la izquierda italiana está ausente, se diría que no existe». Quello che inspiegabilmente manca, è un'assunzione di responsabilità e un far corrispondere una reazione a questa consapevolezza. Comportarsi da adulti, insomma.
Per le ragioni note, sta godendo da tempo di rinnovato successo, tra le leadership politiche e intellettuali italiane, l’espressione “ai nostri figli”: persone le cui inadempienze negli scorsi decenni sono state complici dello stato assai malconcio in cui si trovano l’Italia e gli italiani, pretendono di avere i titoli per rammendare questo stato adesso, e il dovere di farlo “per consegnare ai nostri figli un mondo migliore”. Ora, si dà il caso che i loro figli ormai abbiano trenta e quarant’anni, e spesso dei figli a loro volta, e che una buona idea sarebbe consegnargli questo, di mondo, prima di peggiorarlo ancora. Non perché siano necessariamente più in gamba, ma perché ormai è roba loro ed è loro il dovere di provare a migliorarlo. Ma - lo so, suona una cosa da vecchio borbottone - quello che più nuoce a figli e nipoti e alla loro capacità di impegno è la mancanza di modelli ed esempi. Quando la bambina di cinque anni piange perché le è caduto per terra il biscotto invece di raccogliere il dannato biscotto, voi la sgridate (se è la quinta volta che avviene) o cercate di spiegarle che i problemi si affrontano e risolvono. Non si risolvono da soli: e il biscotto non è caduto perché la sinistra europea in crisi. O anche se fosse, si cerca di raccoglierlo lo stesso. Basterà una manifestazione di piazza? Speriamo.
«Se diría que el Partido Demócrata está más dedicado a mirarse el ombligo que a ofrecer una alternativa»: che faccio, traduco? Questi sono tempi che richiedono grandi impegni, grandi idee e grandi visioni, e stiamo facendo battaglie perse sulla presidenza della Commissione di Vigilanza. Ombligos.
La «izquierda italiana» oggi è facilmente individuabile, benché “ausente”: ha dei nomi e dei cognomi e sono quelli di chi prende - o non prende - le decisioni al vertice del Pd: ovvero della migliore idea partorita e costruita dai leader della sinistra italiana negli ultimi decenni. O cercano di raccogliere il biscotto, o comunicano che ci hanno provato ma non lo sanno raccogliere, come coloro che li precedettero: e si comincia a lavorare perché se ne occupi qualcun altro. E non sarà facile per niente, ragione in più per insistere. Con juicio.
Adnkronos 17.10.08
Bertinotti, prendere atto che è fallito un intero modello di sviluppo
"Occorre prendere atto che e' fallito un intero modello di sviluppo fondato su bassi salari, alta flessibilita' e precarieta'. Il tutto condotto con una sistematica ed energivora rapina dell'ambiente". Lo ha detto l'ex presidente della Camera Fausto Bertinotti, intervenendo all'incontro di studio sull'economia 'La mano invisibile', promosso da Radio3. "La crisi di questi giorni -ha affermato tra l'altro Bertinotti- chiede a chi ha formato l'opinione pubblica sull'economia di dire o 'ci siamo sbagliati' o 'vi abbiamo imbrogliato'. Ci hanno raccontato per 25 anni che si doveva ridurre il deficit pubblico come elemento centrale, comprimere i salari e l'economia dell'innovazione avrebbe prodotto i suoi fasti". "Tutto questo e' stato smentito clamorosamente non da una bolla a Wall Street quanto dal fatto che si e' dimostrato che questo modello economico-sociale, oltre a produrre gravi ingiustizie, genera anche crisi e instabilita'. Ora siamo alla recessione e ad un intero sistema che e' imploso. Se ne esce solo -ha concluso Bertinotti- con un grande cambiamento, come fu quello della svolta keynesiana dopo il '29".
Arci: Apartheid nelle scuole
comunicato stampa nazionale
Il centrodestra introduce l’Apartheid nella scuola
Nascono le “classi si inserimento” per gli stranieri. Con la mozione Cota (dal nome del primo firmatario, deputato della Lega), approvata dalla Camera nella serata di martedì scorso, nascono le “classi di inserimento”, riservate agli alunni stranieri che non supereranno i test per accedere alle classi ordinarie. La proposta impegna il governo a subordinare l’iscrizione dei ragazzi stranieri al superamento di test e specifiche prove di valutazione. Chi non li superasse, sarebbe costretto a frequentare delle vere e proprie classi speciali (”di inserimento”), in cui migliorare la conoscenza della lingua italiana, essere educati alla legalità e alla cittadinanza, seguendo un percorso formativo relativo sia alle conoscenza e comprensione di diritti e doveri (rispetto per gli altri, tolleranza, lealtà, rispetto della legge), sia al “rispetto per la diversità morale e la cultura religiosa del paese accogliente”. Sembrerebbe una barzelletta, visto da che pulpito vengono le richieste. Invece è l’ennesimo provvedimento di dubbia costituzionalità che di fatto conferma un subdolo e pericoloso razzismo istituzionale e rischia di legittimare l’esplosione di violenza razzista che sta corrodendo la convivenza civile delle nostra comunità. Non ci sembra esagerato parlare di introduzione dell’Apartheid nella scuola. Si tratta infatti di una scelta tutta politica, che azzera le positive esperienze didattico-pedagogiche tese all’integrazione di questi ultimi anni, che hanno dimostrato come la lingua si impari molto più velocemente grazie all’inserimento nell’ambiente in cui viene parlata. I test, le classi speciali, aumenteranno le distanze; rafforzeranno, nell1immaginario dei ragazzi, l’idea di un “noi” e di un “loro”, diversi al punto da richiedere una formazione particolare in luoghi fisicamente separati. La scuola, principale opportunità di incontro, riconoscimento e integrazione, si trasforma così in luogo di selezione e discriminazione. Chiediamo all’opposizione sociale e politica di mobilitarsi contro questo nuovo Apartheid; agli insegnanti e ai dirigenti scolastici di disobbedire. L’istruzione è un diritto universale. A tutte e tutti deve essere garantita parità di accesso. Le classi di inserimento forse sarebbero più adatte a qualche nostro concittadino, compresi alcuni politici che avrebbero bisogno di un corso sui diritti, i valori della tolleranza, il rispetto delle altre culture e religioni, i principi della nostra Costituzione.
Paolo Beni, presidente nazionale Arci,
Filippo Miraglia, responsabile immigrazione Arci
Roma, 15 ottobre 2008
Filippo Miraglia, responsabile immigrazione Arci
Roma, 15 ottobre 2008
Repubblica 17.10.08
Fini in Sinagoga a Roma "C´è un rischio razzismo"
Visita 65 anni dopo il rastrellamento al Ghetto
"La deportazione degli ebrei è una tragedia che riguarda tutti gli italiani"
di Alessandra Longo
ROMA - Si sistema la kippah bianca con gesto sicuro, quasi automatico. Gianfranco Fini varca la soglia della Sinagoga di Roma in un clima di grande cordialità. Con lui ci sono il rabbino capo Riccardo Di Segni, il portavoce della comunità ebraica romana Riccardo Pacifici (con il quale da tempo si dà del tu) e il presidente delle comunità ebraiche italiane Renzo Gattegna. Non è la sua prima volta, è già venuto al tempio, ma è la prima volta che lo fa nella veste di presidente della Camera e in un periodo di rigurgiti nostalgici, non estranei al suo mondo politico di provenienza. Non è nemmeno un giorno qualunque ma il 16 ottobre, data che ricorda la deportazione del ‘43: 1022 ebrei della capitale furono portati a morire nei campi di sterminio con «la collaborazione attiva» dei fascisti, anche ieri ricordata all´illustre ospite. Risalirono quell´abisso in 15.
Quelli ancora vivi sono tutti qui, sono ormai solo quattro, e accolgono Fini con un sorriso. Così come sorridono al «Circolo del ‘48», l´organizzazione di base degli ebrei romani. Nel ghetto, dopo la parentesi ufficiale, l´ex ragazzo del Fronte della Gioventù fa una passeggiata, beve un caffè da «Toto» in piazza, si ferma a chiacchierare, ascolta storie di violenza, di morte. «Mi hanno venduto per cinquemila lire», gli dice Mario Limentani, un sopravvissuto. «Cinquemila lire?» «Sì, presidente, cinquemila lire». Si stupisce, si interessa come quando, tra i banchi di legno scuro, aveva chiesto notizie sulla sinagoga: «L´hanno chiusa dopo le leggi razziali?» «No, presidente, fu chiusa, come tutti i luoghi di culto ebraici, dopo l´otto settembre quando cominciò la caccia finale all´ebreo».
Ne è passata di acqua sotto i ponti. Il presidente della Camera è a suo agio («L´altra volta mi avete portato lassù, nei vostri uffici... «) ma soprattutto non ha più niente, personalmente, da dimostrare. Sull´antifascismo è stato chiaro («Tutta la destra si deve riconoscere in quei valori»), sulle leggi razziali ha costretto i suoi a dolorose retromarce e precisazioni e anche adesso si affida a «semplici verità storiche»: «Occorre ricordare - dice - che le deportazioni ci furono perché ci furono le leggi razziali del ‘38. Occorre ancora una volta sottolineare che quel che successe il 16 ottobre del ‘43 a Roma è una tragedia che non riguarda solo gli ebrei ma tutti gli italiani e abbiamo il dovere della memoria».
«Ha coraggio», gli riconosce Piero Terracina, il più famoso tra i sopravvissuti, mai tenero con la destra. «Qualche anno fa - ammette Terracina - mi sarei rifiutato di partecipare ad una cerimonia in sua presenza». Peccato solo, come dice Guido Coen, membro del Consiglio della comunità, che «il suo percorso personale non garantisca il percorso di molti altri». In un colloquio a porte chiuse, Di Segni, Pacifici e Gattegna, gli raccontano della loro preoccupazione per «i segnali» che si avvertono nel nostro Paese. Gli consegnano anche un dossier con l´elenco di «siti xenofobi e razzisti», dove si esalta la razza ariana e si fa «merchandising dal sapore negazionista» (In quei siti il presidente della Camera è inserito nell´elenco dei "nemici", ndr). Fini si impegna a vigilare: «Il razzismo, come la xenofobia, è una sorta di mostro che può risorgere in forme e modalità diverse. In Italia ci sono troppe dimostrazioni di ignoranza, paura, avversione».
Proprio per questo Pacifici annuncia l´impegno della comunità a favore dei rom: «Abbiamo deciso di intervenire in uno dei campi della capitale, li aiuteremo nel processo di integrazione e metteremo a disposizione il nostro ospedale per vaccinare i bambini e fare attività di prevenzione». Fini approva. Anche sui Rom viaggia da solo, rispetto ai suoi. Gattegna, al momento del congedo, ne tesse le lodi: «Con il presidente i rapporti sono di stima e di amicizia, lo ringraziamo della sua intensa attività tesa a riportare la corretta interpretazione della storia».
Se ne va dal tempio, non prima di aver fatto un giro nelle strade del ghetto. Angelo Sermoneta, detto «il Baffone», gli regala una «berakah», targa di benedizione, in inglese ed ebraico, per sua figlia Carolina: «Che le sia di buon augurio, presidente».
Corriere della Sera 17.10.08
La foto per il corteo del 25 al Circo Massimo
La folla di San Pietro nei manifesti pd «Un errore, ma ben vengano suore e preti»
ROMA — ( al.t.) «E perché, le suore non possono venire in piazza con noi?». Alberto Losacco, sfortunato responsabile propaganda del Pd, scherza: «Alcuni preti si sono fatti sentire, saranno in piazza». D'altronde come si fa a non scherzare, quando si legge sul Giornale e su Libero
che nel manifesto che annuncia il corteo del 25 ottobre a Roma, non c'è una folla anonima di militanti ma pellegrini che omaggiano il Papa a San Pietro? Suore con velo e preti in clergyman compresi. Losacco: «Solo un matto può mettersi con il microscopio a ingrandire le transenne. L'agenzia Contrasto ce l'ha venduta come una manifestazione sportiva». E anche fosse San Pietro, chiede Beppe Fioroni: «L'indagine la lascio ai cultori di Sherlock Holmes. A me il manifesto piace. L'Italia è il paese dei mille campanili e l'immagine dà l'idea di una piazza di popolo». Il popolo, sospira Achille Passoni, organizzatore del 25: «Speriamo di riempirlo il Circo Massimo. L'atmosfera è ottima, ma chissà». La foto-equivoco non diverte Marina Magistrelli: «Lasciamo la facile ironia al Bagaglino e pensiamo ai problemi reali».
Boom di vendite in Germania
C’è la crisi Marx torna di moda
Dopo quasi vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, complici la crisi profonda dei mercati e l’imminente anniversario di quel fatidico 9 novembre 1989, la Germania sta vivendo un inatteso dejà vu: da una parte, nei prossimi 12 mesi decine di artisti cercheranno di far tornare al suo antico splendore il più grande pezzo di Muro ancora esistente; dall’altra, migliaia di tedeschi chiedono lumi a Karl Marx, padre del comunismo, sulle sorti del capitalismo. Nessuno ci avrebbe scommesso, invece, proprio a causa della crisi finanziaria, molti stanno riscoprendo il filosofo tedesco ed i suoi scritti, in particolare Il Capitale, che sta tornando ad essere un bestseller, molto richiesto in libreria. La tentazione di tornare a respirare proprio le teorie, almeno economiche, che sono state alla base del comunismo, si intreccia con il desiderio di mantenere vivo il ricordo della fine delle due Germanie attraverso il restauro di una sezione del Muro di Berlino in tempo per l’anniversario dell’anno prossimo. E forse non è un caso che in Germania la Sinistra guadagni sempre più terreno e che - di recente - lo stesso governo abbia ammesso, almeno parzialmente, la validità delle teorie di Marx. Fatto sta, che dall’inizio dell’anno il libro scritto nel 1867 dal filosofo ed economista tedesco ha fortemente aumentato le vendite. «Marx è di nuovo di moda» ha detto Joern Schuetrumpf, della casa editrice berlinese Karl-Dietz che pubblica le opere di Marx e Friedrich Engels. Le vendite del primo volume dell’opera sono triplicate dal 2005, da 500 a 1500. E per dicembre, l’editore si aspetta un ulteriore aumento, a testimonianza del fatto che in Germania la teoria del filosofo - secondo cui il capitalismo in eccesso finisce per autodistruggersi - sembra essersi fatta più attuale. Anche il governo potrebbe avere contribuito a questo boom: «Dopotutto - ha dichiarato il ministro delle finanze tedesco Peer Steinbrueck a Der Spiegel - alcune parti della teoria marxista non erano così sbagliate». Cresce insomma in Germania la «Ostalgia». E c’è perfino chi rimprovera al governo di avere smantellato troppo in fretta il Muro dopo la caduta: sarebbe stato meglio preservarne una parte maggiore in ricordo dei vecchi tempi, dicono adesso gli «ostalgici». Anche in seguito a questo appello, è cominciato il restauro dell’East Side Gallery, Il più grande museo all’aperto d’Europa, formato dal pezzo più lungo (1,3 km) del Muro di Berlino rimasto ancora in piedi. Ai lavori di risanamento parteciperanno molti dei 118 artisti di una ventina di Paesi che, a partire dalla primavera del 1990, avevano affrescato il Muro: tutto dovrà essere pronto entro il 9 novembre del 2009.
Liberazione 5 ottobre 2008
E' scandalo cercare le parole dell'alternativa possibile?
di Rina Gagliardi
Mi si consenta una premessa quasi del tutto irrituale: questo non è un articolo sul comunismo, o sull'identità comunista. Non è possibile condensare un tema di questa portata (storica, teorica, e così via) in sette o ottomila battute. Questo articolo, piuttosto, è un inizio di riflessione sul rapporto tra identità e politica, tra ideologia e pratica della trasformazione, a partire dalla frase di Fausto Bertinotti - che tanto scalpore ha suscitato - sulla "indicibilità" oggi del comunismo.
Ovviamente, si tratta di una riflessione personale, anche se ho avuto modo di parlarne direttamente con l'ex-segretario del Prc, proprio mentre dettava alle agenzie la sua (seconda) stimolante provocazione: "io sono comunista". Con essa, Bertinotti non intendeva, nient'affatto, smentire lo scoop di Bruno Vespa, come di solito fanno i politici, ma rovesciarne radicalmente il senso. Qual era l'obiettivo, in effetti, della notizia lanciata giovedì pomeriggio come promotion del Viaggio in Italia appena uscito in libreria? Quello di gettare una bomba ideologica: l'abiura "definitiva" di Bertinotti, sul quale già da tempo pendono tanti sospetti. L'ex-segretario del Prc, a vent'anni dalla Bolognina, che reitera la liquidazione occhettiana, fatte salve tutte le differenze (soprattutto quantitative) tra Pci e Rifondazione comunista. L'ex-presidente della Camera, oramai "imborghesito", che si pente e arriva a dichiarare pentimento. Una tale rappresentazione, o meglio una tale narrazione falsificante, rischia di "passare" anche nelle file del Prc - una delle grandi debolezze del nostro partito non è forse la prassi diffusa di leggere la realtà, e soprattutto la politica, attraverso gli occhiali del sistema mediatico? Dunque, anche ai fini di una discussione magari aspra ma forse anche utile, è essenziale sgomberare il campo sia da ogni strumentalità, sia dalla subalternità ai "sensazionalismi" di agenzia.
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Qual è allora il tema reale che Bertinotti pone al dibattito? Non l'archiviazione dell'identità comunista, ma la sua capacità, come tale, di riuscire, nella crisi attuale, a tradursi in organizzazione di massa e quindi in iniziativa efficace di trasformazione: insomma, è il rapporto con la politica, non la rinuncia all'ideologia o all'ambizione strategica. Un tema, a ben vedere, classico, che tante volte si è presentato nella storia del movimento operaio: che cosa debbono proporsi e fare i comunisti, come concretamente devono investire la loro weltanschung , le loro idee, le loro proposte - qui ed ora, in questa durissima fase della storia d'Italia, d'Europa, dell'Occidente. Detto in breve: i comunisti non possono mai limitarsi ad essere, come in una sorta di acquietamento "ontologico": sono ed esistono in quanto, come diceva Marx, a differenza dei filosofi non basta loro interpretare il mondo. Sono quelle e quelli che intendono cambiarlo.
Ora, non solo queste premesse, ma la sostanza del problema posto da Bertinotti, a me paiono difficilmente contestabili. Fino agli anni 60 e 70, dichiararsi socialisti o comunisti - nonché militanti di una forza socialista o comunista - non solo non comprometteva, di per sé il rapporto "con le larghe masse", ma comunicava qualcosa che per tutti era chiaro, definito, comprensibile. Anche con l'interlocutore più lontano o resistente, cioè, era comunque possibile stabilire un rapporto politico. Oggi non è più così: parole come "comunismo" e "socialismo" sono diventate opache - incomprensibili e mute per i più, meri residui del secolo scorso per i più (pochi) informati. Oggi, del resto, nella società sbriciolata, individualizzata, impaurita, tutte le culture politiche maggiori del 900 - tutti gli ismi - hanno perduto ogni forza evocativa e ogni capacità comunicativa: e questa afasia è certo parte integrante della drammatica regressione in corso, indotta dal capitalismo neoliberista e cresciuta nel "disorientamento" della globalizzazione.
Se questo è, all'incirca e all'ingrosso, lo stato delle cose, se ne potrebbe concludere, sempre all'incirca, che "tutto è perduto" - e che la politica (la politica, non solo le elezioni!) è una sfera oramai riservata alle soggettività di destra o centriste, alle tendenze neoautoritarie e a-democratiche, ad un populismo antipolitico che galoppa un po' dovunque. Ma non è questa la conclusione a cui arriva Bertinotti: l'unica strada che vale la pena di percorrere - che i comunisti possono tentar di percorrere - è quella della costruzione di un nuovo, grande, unitario soggetto di sinistra. Un progetto che mette in discussione, senza reti di protezione o autotutele, l'esistente, giacché è in gioco (e forse siamo già fuori tempo massimo) l'esistenza stessa della sinistra - tutta e in quanto tale. Un ricominciare, in politica, a partire dalla dimensione più aggregante possibile e non aprioristicamente escludente. Un riposizionarsi là dove la forza del capitalismo, ivi compresa la violenza delle sue crisi, e delle destre sono più agevolmente combattibili.
E' ovvio che questo soggetto (non necessariamente un partito) si declina come anticapitalistico, femminista, ambientalista, democratico, libertario, antirazzista, capace cioè di inverare politicamente i contenuti concreti - possibili - di una identità alternativa. E' quasi altrettanto ovvio che si tratti, come ha scritto Marcello Cini, di una "sinistra senza aggettivi": perché non c'è sinistra, oggi, che non abbia come propria ragion d'essere l'opposizione radicale al capitalismo - non solo al crac selvaggio dei mercati finanziari, non solo alla logica dell'impresa e del mercato come principio unico e sovraordinatore della società, ma alla mercificazione della scienza, della conoscenza, della cultura, nonché al modello di sviluppo che porta dritti alle catastrofi ambientali preconizzate da Attali.
Tutto questo potrebbe - dovrebbe - essere l'impegno prioritario dei comunisti e delle comuniste. I quali - ecco un'altra frase di Bertinotti che a suo tempo destò scandalo - sono già nei fatti, volenti o nolenti, una "corrente culturale", anche se credono di essere strutturati in quattro, o diciamo pure due, forze politiche. Il confine tra piccole formazioni che non incidono nei processi reali (sociali e politici) e, talora, neppure si propongono di agire dentro di essi in termini efficaci e credibili, e aggregazioni di natura sostanzialmente culturale, eo propagandistica, è in fondo molto sottile. E la soglia da ri-conquistare non è solo quella (elettorale) di sbarramento: è l'egemonia. E' la capacità, oggi perduta, di (ri)entrare nell'immaginario collettivo di larghe masse e di avere un senso nella e per la loro vita. Un obiettivo improbo, già, ma che forse non è impossibile proporsi - e che è alla portata di una grande rinnovata sinistra.
Ma anche questo nome, mi pare, avrebbe bisogno di esser definito - reso trasparente ai nostri stessi occhi. Chi, come me e qualcuno più importante di me, continua a dirsi comunista, non si riferisce certo alla tradizione che, nel suo insieme, è andata sotto il nome di Terza Internazionale. Quando mi dichiaro comunista - e lo farò finché avrò lucidità e razionalità - penso a Rosa Luxemburg, ad Antonio Gramsci, a quel filone del "comunismo italiano", del movimento sindacale, del socialismo di sinistra, che ha avuto alla sua testa dirigenti come Pietro Ingrao, Lelio Basso, Bruno Trentin, Raniero Panzieri - ed altri che non cito. Penso al Sessantotto e a quella grande stagione che dall'autunno caldo produsse i consigli operai e un embrione diffuso di contropotere. Penso a Walter Benjamin e alle sue fondamentali Tesi sulla filosofia della storia . E penso anche al Mahatma Gandhi, dal quale ho imparato molte cose e in compagnia (simbolica) del quale mi trovo molto meglio che con Stalin, Breznev o Ceasescu. Rispetto, fino in fondo, coloro che, quando dicono "comunismo", continuano a pensare, invece, alla "nazionalizzazione dei beni di produzione", al Partito Unico, al sindacato di Stato (come quello che organizza oggi in Cina circa duecento milioni di lavoratori e lavoratrici, ma sconsiglia e scoraggia lo sciopero perché turberebbe l'"armonia sociale") - e che ritengono, sotto sotto, che l'unico problema sia quello della conquista - ieri, oggi e domani - del potere centrale. Rispetto, ma mi colloco a mille miglia di distanza da una cultura politica che è stata battuta e che anzi ha clamorosamente fallito. Eppure, mi sento e mi dico comunista.
C’è la crisi Marx torna di moda
Dopo quasi vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, complici la crisi profonda dei mercati e l’imminente anniversario di quel fatidico 9 novembre 1989, la Germania sta vivendo un inatteso dejà vu: da una parte, nei prossimi 12 mesi decine di artisti cercheranno di far tornare al suo antico splendore il più grande pezzo di Muro ancora esistente; dall’altra, migliaia di tedeschi chiedono lumi a Karl Marx, padre del comunismo, sulle sorti del capitalismo. Nessuno ci avrebbe scommesso, invece, proprio a causa della crisi finanziaria, molti stanno riscoprendo il filosofo tedesco ed i suoi scritti, in particolare Il Capitale, che sta tornando ad essere un bestseller, molto richiesto in libreria. La tentazione di tornare a respirare proprio le teorie, almeno economiche, che sono state alla base del comunismo, si intreccia con il desiderio di mantenere vivo il ricordo della fine delle due Germanie attraverso il restauro di una sezione del Muro di Berlino in tempo per l’anniversario dell’anno prossimo. E forse non è un caso che in Germania la Sinistra guadagni sempre più terreno e che - di recente - lo stesso governo abbia ammesso, almeno parzialmente, la validità delle teorie di Marx. Fatto sta, che dall’inizio dell’anno il libro scritto nel 1867 dal filosofo ed economista tedesco ha fortemente aumentato le vendite. «Marx è di nuovo di moda» ha detto Joern Schuetrumpf, della casa editrice berlinese Karl-Dietz che pubblica le opere di Marx e Friedrich Engels. Le vendite del primo volume dell’opera sono triplicate dal 2005, da 500 a 1500. E per dicembre, l’editore si aspetta un ulteriore aumento, a testimonianza del fatto che in Germania la teoria del filosofo - secondo cui il capitalismo in eccesso finisce per autodistruggersi - sembra essersi fatta più attuale. Anche il governo potrebbe avere contribuito a questo boom: «Dopotutto - ha dichiarato il ministro delle finanze tedesco Peer Steinbrueck a Der Spiegel - alcune parti della teoria marxista non erano così sbagliate». Cresce insomma in Germania la «Ostalgia». E c’è perfino chi rimprovera al governo di avere smantellato troppo in fretta il Muro dopo la caduta: sarebbe stato meglio preservarne una parte maggiore in ricordo dei vecchi tempi, dicono adesso gli «ostalgici». Anche in seguito a questo appello, è cominciato il restauro dell’East Side Gallery, Il più grande museo all’aperto d’Europa, formato dal pezzo più lungo (1,3 km) del Muro di Berlino rimasto ancora in piedi. Ai lavori di risanamento parteciperanno molti dei 118 artisti di una ventina di Paesi che, a partire dalla primavera del 1990, avevano affrescato il Muro: tutto dovrà essere pronto entro il 9 novembre del 2009.
Liberazione 5 ottobre 2008
E' scandalo cercare le parole dell'alternativa possibile?
di Rina Gagliardi
Mi si consenta una premessa quasi del tutto irrituale: questo non è un articolo sul comunismo, o sull'identità comunista. Non è possibile condensare un tema di questa portata (storica, teorica, e così via) in sette o ottomila battute. Questo articolo, piuttosto, è un inizio di riflessione sul rapporto tra identità e politica, tra ideologia e pratica della trasformazione, a partire dalla frase di Fausto Bertinotti - che tanto scalpore ha suscitato - sulla "indicibilità" oggi del comunismo.
Ovviamente, si tratta di una riflessione personale, anche se ho avuto modo di parlarne direttamente con l'ex-segretario del Prc, proprio mentre dettava alle agenzie la sua (seconda) stimolante provocazione: "io sono comunista". Con essa, Bertinotti non intendeva, nient'affatto, smentire lo scoop di Bruno Vespa, come di solito fanno i politici, ma rovesciarne radicalmente il senso. Qual era l'obiettivo, in effetti, della notizia lanciata giovedì pomeriggio come promotion del Viaggio in Italia appena uscito in libreria? Quello di gettare una bomba ideologica: l'abiura "definitiva" di Bertinotti, sul quale già da tempo pendono tanti sospetti. L'ex-segretario del Prc, a vent'anni dalla Bolognina, che reitera la liquidazione occhettiana, fatte salve tutte le differenze (soprattutto quantitative) tra Pci e Rifondazione comunista. L'ex-presidente della Camera, oramai "imborghesito", che si pente e arriva a dichiarare pentimento. Una tale rappresentazione, o meglio una tale narrazione falsificante, rischia di "passare" anche nelle file del Prc - una delle grandi debolezze del nostro partito non è forse la prassi diffusa di leggere la realtà, e soprattutto la politica, attraverso gli occhiali del sistema mediatico? Dunque, anche ai fini di una discussione magari aspra ma forse anche utile, è essenziale sgomberare il campo sia da ogni strumentalità, sia dalla subalternità ai "sensazionalismi" di agenzia.
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Qual è allora il tema reale che Bertinotti pone al dibattito? Non l'archiviazione dell'identità comunista, ma la sua capacità, come tale, di riuscire, nella crisi attuale, a tradursi in organizzazione di massa e quindi in iniziativa efficace di trasformazione: insomma, è il rapporto con la politica, non la rinuncia all'ideologia o all'ambizione strategica. Un tema, a ben vedere, classico, che tante volte si è presentato nella storia del movimento operaio: che cosa debbono proporsi e fare i comunisti, come concretamente devono investire la loro weltanschung , le loro idee, le loro proposte - qui ed ora, in questa durissima fase della storia d'Italia, d'Europa, dell'Occidente. Detto in breve: i comunisti non possono mai limitarsi ad essere, come in una sorta di acquietamento "ontologico": sono ed esistono in quanto, come diceva Marx, a differenza dei filosofi non basta loro interpretare il mondo. Sono quelle e quelli che intendono cambiarlo.
Ora, non solo queste premesse, ma la sostanza del problema posto da Bertinotti, a me paiono difficilmente contestabili. Fino agli anni 60 e 70, dichiararsi socialisti o comunisti - nonché militanti di una forza socialista o comunista - non solo non comprometteva, di per sé il rapporto "con le larghe masse", ma comunicava qualcosa che per tutti era chiaro, definito, comprensibile. Anche con l'interlocutore più lontano o resistente, cioè, era comunque possibile stabilire un rapporto politico. Oggi non è più così: parole come "comunismo" e "socialismo" sono diventate opache - incomprensibili e mute per i più, meri residui del secolo scorso per i più (pochi) informati. Oggi, del resto, nella società sbriciolata, individualizzata, impaurita, tutte le culture politiche maggiori del 900 - tutti gli ismi - hanno perduto ogni forza evocativa e ogni capacità comunicativa: e questa afasia è certo parte integrante della drammatica regressione in corso, indotta dal capitalismo neoliberista e cresciuta nel "disorientamento" della globalizzazione.
Se questo è, all'incirca e all'ingrosso, lo stato delle cose, se ne potrebbe concludere, sempre all'incirca, che "tutto è perduto" - e che la politica (la politica, non solo le elezioni!) è una sfera oramai riservata alle soggettività di destra o centriste, alle tendenze neoautoritarie e a-democratiche, ad un populismo antipolitico che galoppa un po' dovunque. Ma non è questa la conclusione a cui arriva Bertinotti: l'unica strada che vale la pena di percorrere - che i comunisti possono tentar di percorrere - è quella della costruzione di un nuovo, grande, unitario soggetto di sinistra. Un progetto che mette in discussione, senza reti di protezione o autotutele, l'esistente, giacché è in gioco (e forse siamo già fuori tempo massimo) l'esistenza stessa della sinistra - tutta e in quanto tale. Un ricominciare, in politica, a partire dalla dimensione più aggregante possibile e non aprioristicamente escludente. Un riposizionarsi là dove la forza del capitalismo, ivi compresa la violenza delle sue crisi, e delle destre sono più agevolmente combattibili.
E' ovvio che questo soggetto (non necessariamente un partito) si declina come anticapitalistico, femminista, ambientalista, democratico, libertario, antirazzista, capace cioè di inverare politicamente i contenuti concreti - possibili - di una identità alternativa. E' quasi altrettanto ovvio che si tratti, come ha scritto Marcello Cini, di una "sinistra senza aggettivi": perché non c'è sinistra, oggi, che non abbia come propria ragion d'essere l'opposizione radicale al capitalismo - non solo al crac selvaggio dei mercati finanziari, non solo alla logica dell'impresa e del mercato come principio unico e sovraordinatore della società, ma alla mercificazione della scienza, della conoscenza, della cultura, nonché al modello di sviluppo che porta dritti alle catastrofi ambientali preconizzate da Attali.
Tutto questo potrebbe - dovrebbe - essere l'impegno prioritario dei comunisti e delle comuniste. I quali - ecco un'altra frase di Bertinotti che a suo tempo destò scandalo - sono già nei fatti, volenti o nolenti, una "corrente culturale", anche se credono di essere strutturati in quattro, o diciamo pure due, forze politiche. Il confine tra piccole formazioni che non incidono nei processi reali (sociali e politici) e, talora, neppure si propongono di agire dentro di essi in termini efficaci e credibili, e aggregazioni di natura sostanzialmente culturale, eo propagandistica, è in fondo molto sottile. E la soglia da ri-conquistare non è solo quella (elettorale) di sbarramento: è l'egemonia. E' la capacità, oggi perduta, di (ri)entrare nell'immaginario collettivo di larghe masse e di avere un senso nella e per la loro vita. Un obiettivo improbo, già, ma che forse non è impossibile proporsi - e che è alla portata di una grande rinnovata sinistra.
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Ma dunque il problema tornerebbe ad essere quello del Nome, proprio come accadde tra l'89 e il '91? Naturalmente no. Se è vero che "nomina sunt essentia rerum", secondo l'antico motto (medioevale, mi pare), è vero altresì che i comunisti non dismettono il loro chiamarsi comunisti, all'interno di una più vasta (e certo più indefinita) aggregazione politica di sinistra: semplicemente, non possono imporre ad essa la loro identità - il loro nome. Era questo che intendeva Bertinotti quando parlava del comunismo come "corrente culturale" (altra frase considerata scandalosa), ipotizzando che esso continui a vivere autonomamente in altre sedi, in altri luoghi, in altre forme. Ma anche qui, fuori dagli scandalismi facili e dalle pur comprensibili emotività, chi ha detto che i comunisti e le comuniste danno vita, sempre e comunque, ad un Partito comunista? L'unica forza alternativa consistente, che oggi esiste in Europa, è in Germania: si chiama, tout court, "Die Linke", "La Sinistra" e tra i suoi soggetti promotori c'è la Pds, "Partito del socialismo democratico". L'unico sub-continente che va a sinistra, l'America latina, non ha alla sua guida forze che, nel loro nome, si richiamano al comunismo - e, al di là delle diverse dosi di entusiasmo, non c'è tra di noi chi dubiti del valore del processo in corso in Venezuela, Bolivia, Ecuador. Lo stesso Prc non sentì il bisogno di chiamarsi, appunto, Rifondazione, ad indicare visibilmente la necessità di riaprire un percorso e una ricerca, oltre il richiamo ad un passato e ad una storia da preservare? Viceversa, denominarsi "Partito Comunista" non è mai stato, e non è oggi, garanzia in sé e per sé di spirito rivoluzionario, anticapitalista o innovativo - come ci testimonia in questa fase il più grande Pc del mondo, quello della Cina, o come ci hanno concretamente dimostrato i Partiti comunisti che hanno avuto il potere statuale. Perfino Pol-Pot, sterminatore di milioni di boat people, si diceva comunista. Si può certo replicare che no - che invece e all'opposto proprio questa sia la discriminante decisiva, l'assunzione di un nome. Curiosa manifestazione di ontologismo nominalistico.Ma anche questo nome, mi pare, avrebbe bisogno di esser definito - reso trasparente ai nostri stessi occhi. Chi, come me e qualcuno più importante di me, continua a dirsi comunista, non si riferisce certo alla tradizione che, nel suo insieme, è andata sotto il nome di Terza Internazionale. Quando mi dichiaro comunista - e lo farò finché avrò lucidità e razionalità - penso a Rosa Luxemburg, ad Antonio Gramsci, a quel filone del "comunismo italiano", del movimento sindacale, del socialismo di sinistra, che ha avuto alla sua testa dirigenti come Pietro Ingrao, Lelio Basso, Bruno Trentin, Raniero Panzieri - ed altri che non cito. Penso al Sessantotto e a quella grande stagione che dall'autunno caldo produsse i consigli operai e un embrione diffuso di contropotere. Penso a Walter Benjamin e alle sue fondamentali Tesi sulla filosofia della storia . E penso anche al Mahatma Gandhi, dal quale ho imparato molte cose e in compagnia (simbolica) del quale mi trovo molto meglio che con Stalin, Breznev o Ceasescu. Rispetto, fino in fondo, coloro che, quando dicono "comunismo", continuano a pensare, invece, alla "nazionalizzazione dei beni di produzione", al Partito Unico, al sindacato di Stato (come quello che organizza oggi in Cina circa duecento milioni di lavoratori e lavoratrici, ma sconsiglia e scoraggia lo sciopero perché turberebbe l'"armonia sociale") - e che ritengono, sotto sotto, che l'unico problema sia quello della conquista - ieri, oggi e domani - del potere centrale. Rispetto, ma mi colloco a mille miglia di distanza da una cultura politica che è stata battuta e che anzi ha clamorosamente fallito. Eppure, mi sento e mi dico comunista.