venerdì 17 ottobre 2008

l’Unità 17.10.08
Università, rabbia e Sapienza
Facoltà occupata, dilaga la protesta
di Eduardo Di Blasi


All’inizio sono una piramide umana impilata lungo le scale che portano al Rettorato della Sapienza. Dietro la statua della Minerva, in un’assemblea di migliaia di persone che un’aula non può contenere, si alternano le loro voci. Parla anche il pro rettore Luigi Frati. Parole pesate una per una davanti a quella platea attenta e rumorosa che gli organizzatori stimano in diecimila persone. Parla dell’idea delle fondazioni bancarie nelle università come di uno «scenario cretino» il pro rettore, degli atenei italiani che hanno perso quel ruolo di «ascensori sociali», di meritocrazia ed equal opportunities, dei tagli che lui stesso farà «ma in funzione degli studenti» (dirà dopo: «Se io devo fare un corso di carciofologia solo perché ho un professore specialista di carciofologia, allora io il corso lo cancello. Dobbiamo lasciare gli insegnamenti utili agli studenti, non quelli utili ai professori. E certo non si possono tagliare i fondi in modo orizzontale come fa il governo»). Dice, infine, quello che ci aspettava: è contrario al blocco della didattica proposto dalle assemblee di facoltà. Lo giudica un metodo inadeguato. «Dobbiamo riconciliare l’università con il Paese. Se non facciamo questo il Paese penserà sempre che sia giusto tagliare le risorse che ci vengono date».
Resta comunque un no alla proposta, che la folla interpreta come il via libera alla mobilitazione. In pochi minuti è già pronto il corteo: direzione via XX settembre, ministero dell’Economia. Al grido di «Stiamo arrivando! Tremonti stiamo arrivando!», il serpentone si muove in direzione di largo Aldo Moro. In testa le avanguardie dei collettivi, più politicizzati, nel mezzo e in coda gli studenti e i dottorandi di Chimica, Fisica e Matematica, quasi emozionati di trovarsi nel mezzo di una città a far valere le proprie idee. Il corteo attraversa viale Castro Pretorio in direzione di Porta Pia, poi piega per via XX settembre. Sono le due del pomeriggio quando davanti alla sede del governo si alza fortissimo il grido «Noi la crisi non la paghiamo!», slogan della protesta romana. Volano anche «buu», fischi e quattro uova contro il portone. Niente di più. A quel punto si deve decidere ancora se chiuderla lì o portare la protesta nel cuore della città. Si chiede alle forze dell’ordine di poter andare al Parlamento, poi a Termini, infine ci si mette d’accordo per tornare all’università da piazza della Repubblica. Ma è proprio all’uscita della piazza che, approfittando della risicata presenza di forze di polizia, il gruppo inizia a correre in direzione della stazione Termini. Corrono con il fiatone continuando a scandire lo slogan: «Noi la crisi non la vogliamo» e a battere le mani. Occupano prima il binario 5 (mollato poco dopo per l’arrivo dell’eurostar da Milano), poi i due contigui. Si guardano negli occhi quasi increduli d’averlo fatto sul serio. Poi tornano indietro con un nuovo slogan: «Se ci bloccano il futuro noi blocchiamo la città! La città! La città! Se ci bloccano il futuro noi blocchiamo la città!». Si avviano per via Marsala. Qualcuno, da sopra gli uffici delle ferrovie, applaude ricambiato (le due grandi ovazioni di giornata del corteo sono state proprio davanti alla sede delle Ferrovie dove un dipendente ha salutato con il pugno chiuso, e davanti al ministero dell’Economia, quando da una finestra un impiegato ha calato la bandiera rossa dei Cobas). Tornano alla Sapienza dove le assemblee sanciranno l’inizio delle occupazioni di Lettere e Fisica. La didattica sarà garantita ma il luogo servirà anche per preparare lo spezzone per il corteo dei sindacati di base che oggi sfilerà per Roma (il corteo degli studenti partirà dalla Sapienza).
In fermento da Nord a Sud le università del Paese. Mentre a Verona la facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali ha bloccato la didattica per l’intero mese di ottobre, a Milano si è provato ad operare un blocco stradale, a Napoli è stata organizzata una raccolta di firme da consegnare a Berlusconi quando tornerà a Napoli. Assemblee permanenti a Palermo, lezioni in strada a Firenze. Mentre Manuela Ghizzoni, capogruppo del Pd nella Commissione Cultura della Camera annota un nuovo taglio in finanziaria: «Il diritto allo studio subisce un taglio di ben 65 milioni di euro sui 152 previsti, di cui 40 sottratti al fondo per la concessione di prestiti d’onore e l’erogazione delle borse di studio e 12 per gli alloggi e le residenze universitarie».

l’Unità 17.10.08
Scuola, è rottura governo-Regioni. E oggi corteo anti-Gelmini a Roma
Errani: cancellino subito la norma sul commissariamento per gli Enti che non si adeguano con i tagli-selvaggi
di Maristella Iervasi


LA CONTRORIFORMA Gelmini terrà banco anche oggi, insegnanti, studenti e personale scolastico prenderanno parte a Roma allo sciopero generale dei sinda-
cati di base (Cobas, Cub e Sdl) proclamato il 20 giugno scorso, ben prima dei decreti-mannaia sull’istruzione e l’università. E sarà un venerdì di passione anche per i trasporti pubblici (con orari diversi nelle città), la sanità e il pubblico impiego. E sulla scuola, tema rovente, insorgono anche le Regioni: i governatori dicono «no» al commissariamento degli enti che entro il 30 novembre non metteranno in pratica il piano di ridimensionamento degli istituti scolastici (un taglio stimato in 2600 istituti e 4200 plessi, soprattutto nei comuni montani) previsto dall’articolo 3 del decreto 154 sulla sanità. E la pregiudiziale «irrinunciabile» dei governatori manda all’aria il blitz Tremonti-Gelmini. Rottura istituzionale. Governo con il cerino in mano senza saper rispondere. La Conferenza unificata salta, viene sospesa. E i ricorsi alla Corte Costituzionale si annunciano sempre più numerosi. Di istruzione parla anche Berlusconi da Bruxelles: «Con il maestro unico il tempo pieno verrà confermato dove c’era e incrementato del 60% perchè ci saranno più insegnanti a disposizione». Un cronista l’incalza: «Ma il pomeriggio il maestro unico finirà per fare un doposcuola...». E il premier controreplica: «Ho visto in tv che c’era chi diceva: “Ci togliete il tempo pieno”. Può darsi che lei abbia ragione e ci sia anche quello che lei ha detto. Ma io ripondevo a quello che ho visto direttamente».
Corteo a Roma La manifestazione nazionale dei sindacati autonomi partirà alle 10 da piazza della Repubblica e terminerà in piazza San Giovanni. Lo striscione d’apertura: «No alla distruzione della scuola». Piero Bernocchi leader dei Cobas, si attende una presenza in piazza di 100mila persone tra maestre, precari, operai, e pubblico impiego. Ma questo non è che il primo assaggio dell’autunno caldo. Gli studenti dell’Uds e della Rete hanno organizzato una tre giorni di occupazioni e di autogestione negli istituti dal 21 al 23 ottobre, in vista dell’«ingresso» nell’aula del Senato del decreto Gelmini.
Schiaffo delle Regioni Gelmini era arrivata alla Conferenza unificata convinta di tener banco. E invece ne è uscita con una sonora bocciatura, anche delle regioni amiche: Lombardia e Veneto. «Non restiamo seduti - hanno deto i governatori - se non si toglie questa norma che prevede, per la prima volta, il commissariamento senza un’intesa istituzionale». E il blitz di Tremonti infilato nel decreto sanità va per aria. Vasco Errani: «Il governo ha voluto procedere in modo unilaterale mettendo un articolo e il commissariamento in un decreto che riguarda peraltro la sanità e non la scuola. Nessuna comunicazione dal ministero, lo abbiamo appreso leggendo il testo. Un punto itituzionalmente gravissimo. Devono eliminare dal testo quella norma». E la Gelmini ha commentato: «Comprendo la posizione delle Regioni ma condivido quella del governo e di Tremonti. La razionalizzazione dei plessi scolastici è prevista da una legge del centrosinistra, fatta da Bassanini nel 1998. Noi chiediamo che venga rispettata».
Bugie sul tempo pieno Mimmo Pantaleo, segretario della Flc-Cgil prende in castagna Berlusconi. «Come è possibile arrivare all’aumento del tempo pieno come dice il presidente del Consiglio se almeno 130mila persone tra docenti e Ata andranno via?. Basta leggere la legge per capire - sottolinea il sindacalista - che le cose non stanno come le raccontano. Il tempo pieno dipenderà dagli organici disponibili ed è chiaro che se gli insegnanti diminuiscono il tempo pieno non si farà. Quello che dice Berlusconi non risponde a verità».

Repubblica 17.10.08
La generazione senza partiti
Tra gli studenti della più grande università d´Europa: fischi ai partiti e insulti ai politici
In corteo con i ragazzi "no future" e alla Sapienza esplode la rabbia
Uova sul ministero e binari occupati "Non sappiamo dove, ma intanto andiamo"
di Marco Marozzi


I volantini di Rifondazione comunista finiscono subito per terra. Nessun oltraggio. Non considerati. «Che c´entrano partiti che non ci sono più?» fa una ragazza dai capelli rossi.
I compagni, sulla scalinata della Sapienza, sospirano. «Sono stati pure al governo». Il Pd i fischi se li prende appena viene nominato, dal rettore Luigi Frati. Fischio preventivo, si rafforza quando si cita la parlamentare che «ha proposto la mutua degli animali». «Difendo i cani. Ma anche noi» ghigna un giovane. La sua maglietta intima: «Cacciare un angelo. Mai». Chissà che vuol dire. «Ma la politica adesso è questa qua». E quando il corteo si blocca davanti al ministero dell´Economia, «Tremonti Gelmini vi spazzeremo via» esplode la rabbia, ecco il gesto più violento. Tre uova volano contro il portone, altissime, attente a non sfiorare nemmeno da lontano la polizia. Ancora più strampalata l´occupazione della stazione Termini. In mille e più di corsa fra i passeggeri ammutoliti, tutti sulle rotaie del terzo e quarto binario. «Con le nostre tasse non pagherete la vostra crisi». Però alle 15.38 deve partire il treno per Ancona. Quindi tutti via. «Libera cultura in libero stato». Viva il Risorgimento. «A Porta Pia apriremo una breccia di democrazia».
Benvenuti o malarrivati fra i ragazzi del 2008. Università La Sapienza, capitale della rivolta studentesca. Occupazione, assemblea, corteo. Fra una immensa voglia di rivendicare diversità, età e speranze. «Sapeste la fatica di sganciarci dai ricordi, i rimpianti, i paragoni. Ma va bene lo stesso» racconta Stefano Zarlenga. Faccia e modi acqua e sapone, un leaderino si sarebbe detto un tempo. Ora «uno dei Collettivi». «Nemmeno portavoci siamo. Quelli che ci hanno preceduti nei movimenti sono diventati deputati...». Spunta l´unica giacca: Francesco Raparelli, «dottorando, 300 euro al mese, 200 per spostarmi, 330 di affitto, mi arrangio...». «Nel ´68 i nostri genitori erano bambini, nel ´77 non ero nato. Sappiamo benissimo di muoverci in un deserto. L´opposizione non c´è. Ma è un deserto molto affollato. Noi, parte della docenza, la scuola, i sindacati di base, gli altri che seguono... Grande sfida. Noi siamo partiti. Vedremo insieme dove andiamo». «Cosa leggiamo? Non i commentatori, nemmeno se parlano di noi. Occhi passati. Piuttosto di Asia, America, economia... Non so se conquisteremo il mondo, ma conoscerlo vogliamo».
«Un riferimento storico? La Pantera di quasi vent´anni fa. Ne scappò una vera da un circo, e ne è scappata una adesso. Ma il richiamo è tutto qui» va sul poetico Zarlenga. Sfila il corteo, sfila. «se ci bloccano il futuro, blocchiamo le città». Erano in diecimila nei cortili della Sapienza, assemblea all´aperto. Diversissimi. «Io come faccio con gli esami? Le tasse le ho pagate. Soldi per aspettare non ne ho. Bisogna restare uniti, ma è difficile» dice un ragazzo con una maglietta azzurra con su scritto Ddr. Zero Guevara, Bob Marley piuttosto, stelle rosse ma non cinesi. L´unica fanciulla che per un secondo si copre il viso lo fa con una pashmina, non con una introvabile kefiah.
«Oddio, non faremo mica la figura di un manipolo comunista?» si dispera una ragazzina stringendosi al moroso, mentre qualche estremista accende due-fumogeni-due. Linguaggi lontani, la piramide sui gradini dell´università ben rappresenta gli strati studenteschi. I «politici» in alto, poi via a scendere. Nel corteo che sfilerà per Roma ne parte la metà, ne arriva un terzo. «Poco politicizzati, molto pragmatici, poco ideologici» si fotografano.
Tante ragazze, la maggioranza, sono state loro ieri a girare per le aule e tirare i compagni fuori. Rivoluzionarie? Quando nel bar davanti al ministero di Tremonti (rivolta e panino), tirano fuori i portamonete, spunta il volto di Audrey Hepburn. L´unico rosso è quello di una bandiera dei Cobas da una finestra del ministero di via XX Settembre. Grandi applausi, come per i pugni chiusi dei due della Cgil davanti alle Ferrovie dello Stato. Applausi, ma tre saluti comunisti in risposta, tre di numero da tremila e passa giovani. «Alemanno pezzo di m...» spunta alle quattro del pomeriggio, dopo più di tre ore di corteo. Idem Berlusconi. Tre grida, senza seguito, quando la stanchezza ha segnato anche la sorveglianza.

Repubblica 17.10.08
Roma, diecimila anti Gelmini oggi il bis con i Cobas in piazza
di Marina Cavallieri


ROMA - Lezioni in piazza, facoltà occupate, cortei e assemblee sparse. In modo creativo e frammentario continuano le proteste. Anche ieri molte le iniziative anti Gelmini e le mobilitazioni di studenti, maestre e professori che in alcuni casi confluiranno nel corteo che in mattinata sfilerà a Roma per lo sciopero generale organizzato dai sindacati autonomi.
Una ribellione diffusa che ha portato ieri gli studenti della Sapienza, dopo un´assemblea per chiedere il blocco della didattica, a sfilare in corteo verso il ministero dell´Economia. Con loro anche ricercatori e alcuni docenti. «Siamo in diecimila», hanno detto gli organizzatori. «Sono al fianco degli studenti, ma la protesta di per sé non risolve il problema, dobbiamo fare proposte concrete al governo per imporre un confronto», ha sottolineato il preside di Medicina e rettore in carica dal prossimo 31 ottobre, Luigi Frati. «La mobilitazione che c´è in tutta Italia, comunque - ha detto Frati - imporrà una riflessione al governo a cui penso vada presentata una piattaforma di proposte».
Cortei improvvisati e assemblee più o meno permanenti. anche a Pisa, Firenze, Ferrara, l´Aquila. A Genova, durante l´assemblea alla Facoltà di Lettere, in un momento in cui stavano arrivando all´università tutti i protagonisti della protesta (dalle maestre elementari, ai genitori, dagli studenti medi ai docenti) per organizzare la mobilitazione di questa mattina, ci sono stati tafferugli causati da un gruppo di una decina di ragazzi di Lotta Comunista.
Proteste e oggi corteo generale. «Sarà il più partecipato di tutta la storia del sindacalismo antagonista», ha detto il portavoce dei Cobas della scuola, Piero Bernocchi, parlando della manifestazione che partirà da piazza della Repubblica alle 10 per arrivare a San Giovanni. «Arriveranno da tutta Italia una marea di lavoratori e lavoratrici con centinaia di pullman, treni, navi e con migliaia di automezzi privati», prevede Bernocchi. Lo sciopero generale nazionale di 24 indetto dai sindacati di base, Cub, Cobas e Sdl coinvolge i lavoratori pubblici e privati di ogni categoria e riguarda tutti i comparti della mobilità: mezzi pubblici urbani, treni, aerei, traghetti, trasporto merci. Autobus e tram a singhiozzo, andranno in tilt molte città.

Corriere della Sera Roma 17.10.08
Assemblea col nuovo rettore. Oggi altro corteo: pure i licei scendono in piazza
Sapienza, la protesta blocca anche Termini


«Siamo in ottomila» dice il Coordinamento dei collettivi della Sapienza. Ed è tra la folla dei manifestanti che si fa largo Luigi Frati: «Sono al fianco degli studenti» afferma il neo-rettore. Poi un corteo da viale delle Scienze, il corteo si sposta verso viale del Castro Pretorio, poi corso d'Italia, Porta Pia, Termini. Gli studenti bloccano per un quarto d'ora i binari 3 e 4: fermo un Eurostar per Milano. Sarà, soprattutto, una «azione simbolica». Ma i disagi ci sono per tutti. E oggi si replica. Nuovo corteo. E anche gli studenti dei licei, seguendo l'esempio del Mamiani, scendono in lotta.

Corteo dalla Sapienza a Termini Lettere e Fisica, sì all'occupazione
Assemblea sui gradini del rettorato con Frati. Gli studenti: «Siamo ottomila» La protesta simbolica blocca per un quarto d'ora i treni. E oggi si ricomincia
Fumogeni e cori guidano la protesta: slogan e uova contro il portone del ministero dell'Economia
Alle 10, l'Aula 1 della facoltà di Lettere è già stracolma: «Non ci stiamo, tutti fuori, siamo tanti, tantissimi» grida uno studente. E l'assemblea più attesa, quella del confronto con il neo-rettore Luigi Frati, si sposta al piazzale della Minerva, sulle scale del rettorato, dove confluiscono i singoli cortei formati nelle facoltà della Sapienza. C'è anche Medicina che – sottolineano gli studenti – «per la prima volta si mobilita: in 600 ci siamo riuniti in assemblea, siamo contro i tagli e, oggi, vogliamo farci sentire». Hanno striscioni e megafoni. Il coro è uno, sempre lo stesso: «Noi la crisi non la paghiamo ». Vorrebbero entrare nell'aula magna del rettorato, i ragazzi. Ma le porte rimangono chiuse. Allora, arriva un microfono chissà da dove e i rappresentanti degli studenti cominciano a sfilare uno ad uno: Fisica, Scienze Politiche, Matematica, Lettere, Sociologia, Psicologia, Ingegneria, Economia. Ci sono anche alunni del liceo Mamiani. Molti i ricercatori (quelli di Fisica che hanno già ritirato la loro disponibilità a tenere i corsi), docenti (candidati alle ultime elezioni della Sapienza, come Gianni Orlandi), e l'ex-ministro Francesco D'Onofrio. L'atmosfera è accesa: «Siamo in ottomila» dice il Coordinamento dei collettivi della Sapienza. Ed è tra la folla dei manifestanti che si fa largo Luigi Frati: «Sono al fianco degli studenti – afferma il neo-rettore – ma il blocco dell'anno accademico non risolve il problema, dobbiamo fare proposte concrete al governo per imporre un confronto». Un lungo discorso quello di Frati. Raccoglie applausi e contestazioni. Ma bastano due parole, basta quel «no al blocco» per trasformare l'assemblea in un corteo. Fumogeni e cori guidano la protesta: «Tremonti stiamo arrivando ». Da viale delle Scienze, il corteo si sposta verso viale del Castro Pretorio, poi corso d'Italia e Porta Pia: l'obiettivo è organizzare un sit-in sotto il ministero dell'Economia. Qualcuno tira fuori una bomboletta spray di vernice rossa e, sui sampietrini di Porta Pia, appare la scritta: «Ci bloccate il futuro? Noi blocchiamo la città ». In via XX settembre, il corteo si ferma per almeno una mezz'ora: «Fuori, fuori» grida la folla davanti ai portoni sbarrati del ministero dell'Economia. Intorno il traffico va in tilt: da via Nomentana a piazza della Repubblica. «È il momento di scegliere e di prendere una posizione» dice Stefano del collettivo di Scienze Politiche. «Frati non ha detto nulla, ci vuole coraggio e fuori le ambiguità » gli fa eco Francesco. E giù fischi e “buuu” verso le finestre del ministero: volano anche discrete quantità di uova contro i portoni in legno. Davanti a Palazzo Massimo, sale la tensione: la polizia fa cordone, ma i manifestanti si dirigono di corsa verso Termini. Nell'atrio della stazione i cori rimbombano. Gli studenti bloccano per un quarto d'ora i binari 3 e 4: fermo un Eurostar per Milano. Sarà, soprattutto, una «azione simbolica». Il corteo si ricompatta e si avvia verso la città universitaria. Arrivano intanto 5 camionette dei Carabinieri. A Lettere e Fisica, dopo affollate assemblee, si decide per l'occupazione. Gli studenti dormono in ateneo perché oggi si ricomincia: alle 9, da piazza della Repubblica, parte il corteo dei sindacati di base. Presente anche l'Unione degli studenti. Psicologia, da lunedì, terrà lezioni all'aperto a San Lorenzo. E, martedì, in concomitanza con la riunione del Senato accademico, gli studenti della Sapienza terranno un sit-in sotto al rettorato.
Simona De Santis

Corriere della Sera 17.10.08
Anche i liceali contro la riforma
Corteo da piazza Fiume. Autogestioni in molti istituti superiori
Dal Virgilio al Pasteur, dal Kennedy al Tasso, Talete, Manara e Righi, gli studenti medi si sono uniti al Mamiani
di Flavia Fiorentino


Assemblee, mobilitazioni, autogestioni in moltissime scuole superiori romane che oggi parteciperanno al corteo dei Cobas per protestare contro la riforma Gelmini. Dal Virgilio al Pasteur, dal Kennedy al Tasso, Talete, Manara e Righi, gli studenti medi si troveranno questa mattina alle 9.30 a piazza Fiume per poi confluire in piazza Esedra verso le 11.
Sulla scia del Mamiani, che ha anticipato la stagione delle occupazioni, il movimento studentesco cresce e si fa sentire come non accadeva da anni. E per la settimana prossima, mentre al Senato sarà in discussione il decreto 137, si moltiplicheranno iniziative di protesta e manifestazioni in tutta la città. «Questa volta non ci fermeremo dopo la discussione in Senato dice Luca, rappresentante dei collettivi dello scientifico Kennedy di Monteverde l'ondata di dissenso accesa dal Mamiani va tenuta viva con ogni mezzo perchè è in gioco la sopravvivenza della scuola pubblica ». Una volontà ancora una volta espressa dallo storico liceo di viale dele Milizie dove ieri penzolava uno striscione appeso alle finestre: «Mamiani (pre) occupato è solo l'inizio ».
Questa volta gli studenti hanno l'appoggio di presidi e docenti che condividono le stesse preoccupazioni. «L'atteggiamento dei professori è diverso rispetto al passato dice Andrea del Tasso - abbiamo la collaborazione del corpo docente perchè la nostra lotta si sta trasformando in una battaglia di civiltà. Mercoledì avremo un'assemblea tutti insieme per decidere iniziative di mobilitazione».
Ovunque vengono organizzate letture collettive dei decreti Gelmini seguite da analisi e commenti. «Due giorni fa si è tenuta un'assemblea a cui, oltre agli insegnanti hanno partecipato anche i bidelli - spiega Agostino del Virgilio - e quest'unità rappresenta la nostra forza. L'affossamento e la dequalificazione della scuola sono temi che non possono lasciare indifferente nessuno e infatti il livello di partecipazione e di interventi alle assemblee è altissimo».
In agitazione anche le scuole in rete del IX Municipio (Russel, Kant, Benedetto da Norcia e altre) dove tutte le iniziative sono aperte anche ai genitori.
E mentre le scuole si mobi-litano, non mancano le provocazioni: ieri mattina al liceo Russel di via Tuscolana, un gruppo di ragazzi di Blocco Studentesco si è presentato davanti ai cancelli della scuola per fare volantinaggio «scortato» dalla polizia: «Siamo rimasti senza parole - racconta la professoressa d'inglese Marinella Putano - in 20 anni d'insegnamento e altrettanti da studentessa non avevano mai visto una cosa simile. Le forze dell'ordine hanno "accompagnato" quei giovani per evitare scontri e disordini».

l’Unità 17.10.08
L’istruzione malata
di Benedetto Vertecchi


Qualcosa sta accadendo nel sistema educativo italiano, qualcosa che deve essere interpretato. Già da alcuni mesi si assiste al crescere del disagio di quanti, in un modo o nell’altro, sono interessati al funzionamento delle scuole e delle università. Finora tale disagio è stato riferito a ragioni occasionali, dall’obbligo dei grembiuli al ripristino dei voti decimali, alla riduzione degli organici, al taglio degli orari e via seguitando. Certamente si è trattato di decisioni che hanno suscitato reazioni, e non ci si poteva attendere altro.
Da parte governativa era scontato si affermasse che qualunque intervento incida in profondità su aspetti importanti della vita sociale produce reazioni difensive, e che tali reazioni costituiscono un segnale di atteggiamenti conservatori. Ma si tratta di una obiezione che, per quanto poco convincente, poteva essere mossa ai movimenti di protesta che si sono andati sviluppando nel Paese fin quando il malessere era prioritariamente riferibile a questo o a quel provvedimento, per esempio la riorganizzazione del lavoro nella scuola primaria (ovvero il ritorno al maestro unico) o la soppressione nelle università di quattro su cinque dei posti in organico che si libereranno per pensionamento nei prossimi anni.
Ma quelle alle quali stiamo assistendo non sono espressioni di malessere che si manifestano a livelli determinati del sistema d’istruzione o che investono strati determinati del personale. Si sta precisando una risposta d'insieme che coinvolge in un rifiuto complessivo l’intera politica governativa per la scuola e per l’università. Si direbbe che giorno dopo giorno cresca la consapevolezza della necessità di considerare il sistema d’istruzione nella sua interezza. Non ci sono interventi che investano un livello di tale sistema senza che si producano ripercussioni sugli altri. L’interpretazione del ruolo che si riconosce all’educazione nella società non può che prendere in considerazione ciò che avviene nelle scuole per l’infanzia come in quelle primarie e secondarie e nelle università. Il fatto nuovo è che va diffondendosi proprio questa consapevolezza. Nelle proteste che vanno montando non prevale più la preoccupazione riferibile a questo o a quel provvedimento, ma quella che investe le linee dell’evoluzione (ma sarebbe più esatto dire involuzione) del sistema d’istruzione.
Nessuno afferma che nelle scuole e nelle università tutto proceda nel migliore dei modi. Sarebbe irragionevole affermarlo, se non altro perché l’educazione si modifica con continuità in relazioni alle trasformazioni del contesto in cui opera. Ma un conto è introdurre nel sistema d’istruzione le modifiche che ad una riflessione consapevole, che non può non investire l’insieme del Paese, appaiano opportune, un conto ben diverso è esplorare le soffitte del sistema per trarre dalla polvere soluzioni che rispondono all'unico intento di diminuire l’impegno dello Stato nel settore. Stiamo constatando che la svolta nell’interpretazione del ruolo del sistema d’istruzione avviata con la riforma della Scuola Media del 1962 è stata profondamente interiorizzata negli atteggiamenti collettivi: quella che a gran voce si richiede, dalle scuole dell’infanzia alle università, è la realizzazione del principio dell’uguaglianza delle opportunità educative. Di fronte allo stillicidio di provvedimenti che già negli anni della gestione Moratti aveva diminuito il ruolo della scuola, agitando i simulacri di un’utilità povera di elementi identitari, si sta riaffermando la funzione democratica insostituibile del sistema d’istruzione. Lo Stato è responsabile del funzionamento e della crescita ulteriore del sistema d’istruzione, un bene collettivo che non può essere sacrificato ad altri interessi, politici o economici che siano. Ma per procedere in questa direzione occorre capacità di analisi e di progetto: siamo in entrambi i casi di fronte ad un vuoto sconfortante.

l’Unità 17.10.08
Una laurea nel buio
di Marco Simoni


Con quale credibilità magnifici rettori e presidi di facoltà protestano contro i tagli del governo? Dopo aver eletto, rapidamente e con una maggioranza schiacciante, Luigi Frati come proprio rettore, con quale onestà intellettuale i presidi della Sapienza sostengono che è il centrodestra ad uccidere l’università, addirittura convocando gli studenti per mobilitarli contro il governo come è accaduto ieri nella facoltà di Ingegneria?
Mi sono laureato in Scienze Politiche all’università di Roma nel 2000, la mia storia è talmente tipica della mia generazione da risultare banale.
In qualche misura, posso testimoniare direttamente di quanto fossero efficaci i corsi di base a cui ero stato esposto. Tra mille inevitabili difetti, la mia preparazione non invidiava nulla a quella dei miei colleghi che venivano da Stanford o Oxford e che seguivano il mio stesso corso di dottorato a Londra. Questa consapevolezza, tuttavia, non fa che acuire il senso di sorda rabbia che prova, come me, ogni accademico italiano all’estero davanti alla decadenza che, nella sostanziale indifferenza sociale, colpisce l’università del nostro Paese. Fuori dai confini e nelle aule universitarie siamo centinaia e centinaia, non credo esista una statistica precisa, chi dovrebbe stilarla? Siamo protagonisti, collettivamente, di una delle più serie ed ignorate tragedie nazionali. Noi ne siamo i protagonisti fortunati. La gran parte di accademici italiani all’estero che io conosco sono contenti della propria vita e del proprio lavoro. Oggi con i voli a basso costo e Internet, per chi come me viene da Roma, lavorare a Londra o Palermo è circa la stessa cosa. Si parte, sapendo tuttavia che l’opzione del ritorno non esiste. Sapendo che il patrimonio di cultura che abbiamo ereditato dalla società che ci ha fatto crescere, gli anni di scuola e di licei dall’eccellenza inimmaginabile in altri Paesi, saranno ora a disposizione di un’altra società. Tutto sarebbe diverso se fossimo capaci anche di attrarre studiosi, oltre che di lasciar partire i nostri: saremmo solo parte di un mondo più largo. Invece non viene nessuno in Italia, e la crisi dell’università diventa fatalmente una delle cause più profonde e importanti della ormai lunga e pronunciata crisi economica, sociale, culturale, del nostro Paese.
Un meritorio libro che Roberto Perotti ha scritto per Einaudi, «L’università truccata», racconta tutti i dettagli di questa storia. La sostanza è che gli accademici italiani hanno governato l’università con le regole del peggior feudalesimo meridionale. Esistono eccezioni, naturalmente, esistono isole felici. Ma chi oggi in Italia continua a fare ricerca, con uno stipendio bassissimo, in condizioni di forzato asservimento culturale nei confronti del proprio barone, un atteggiamento nei confronti della ricerca che rappresenta il più esteso accordo bipartisan della storia d’Italia, è da considerarsi un eroe.
Gli studenti, strumentalizzati in questi giorni da baroni di ogni colore politico, saranno ancora una volta coloro che pagheranno il prezzo più alto dei tagli del governo, come accade sistematicamente in Italia da ormai quasi vent’anni: meno risorse e minori opportunità per i più giovani. Ma bisogna anche aver presente, superando l’ignavia bipartisan della classe politica, che questa scure non arriva a colpire un’organizzazione sana, per quanto migliorabile, ma una struttura impermeabile ad ogni riforma profonda, un luogo che ha perso il rispetto e la stima non tanto dei colleghi di altri Paesi, ma dei cittadini che all’università non vanno, che fanno fatica a capire a cosa serva alla società mantenere in cattedra persone con zero pubblicazioni, che non scrivono nulla di significativo, che gestiscono l’università come fosse cosa loro e non un patrimonio di tutti.
Roberto Perotti ha ricordato che Frati è il terzo rettore di seguito ad avere figli nello stesso ateneo. Mentre era preside della facoltà di Medicina, un incarico che ha conservato per 17 anni come se ne fosse, appunto, il padrone, suo figlio è stato chiamato in cattedra nella stessa istituzione. Anche sua moglie, già professoressa di lettere al liceo, ha una cattedra da ordinaria di storia della medicina nella stessa facoltà. Che cosa insegna questa università, il suo corpo docente, ai suoi studenti? Il governo di centrodestra con ogni sua politica punta ad allargare le spaccature della società italiana perchè su queste spaccature costruisce il suo consenso, come dimostrano i sondaggi e gli ultimi dieci anni di politica italiana. Non possiamo certo aspettarci un sostegno alla formazione pubblica, che per sua natura ricuce le spaccature, e rende una società più coesa. Bisogna ricordare tuttavia, e magari su questa consapevolezza costruire una politica di cambiamento, che l’università è stata già umiliata ripetutamente proprio da coloro che avevano il dovere di proteggerne e tutelarne la reputazione, la autorevolezza e la dignità.

l’Unità 17.10.08
L’autunno freddo della scuola pubblica
di Alessandro Anniballi


Sento in questi giorni provenire freddo dal silenzio civico in cui è calato il mio Paese, dall’indecenza di questa società ormai stravolta dalla passività. L’autunno un tempo si annunciava caldo: di conflitti, ma anche di travolgenti passioni ideali.
Non è semplice nostalgia per quegli anni in cui le masse popolari e gli intellettuali, con convinzione e speranza, riempivano le piazze di Roma, di Bologna, di Napoli, certi di poter cambiare. È piuttosto l’incredulo sgomento che mi pervade innanzi all’inerzia del pensiero e della prassi politica, ormai indifferenti al consolidarsi delle ingiustizie sociali, al punto di consentire che divengano accettabili se non addirittura fisiologiche. È la dilagante approssimazione etica che ha costantemente intessuto la nostra storia e che ora ha corroso le nostre anime fino a farci rimanere immobili anche di fronte alle più abominevoli e mascherate espressioni del potere. Espressioni desuete, da usare in corsivo, ma è di questo che si tratta: il potere è diventato ancora più potente, perfino accattivante e noi sempre più silenti.
Ho trovato i carnefici, vestiti da giudici urbani che trascinano un africano piangente. Bisogna rispettare le regole. Ho trovato giornali che gridano allo stupro perpetrato da vili extracomunitari mentre anonimi connazionali vengono assolti mediaticamente. Ho trovato poi il sette, il cinque, il due in condotta che punirà mirabilmente il “giovine” studente che allora e solo allora conoscerà il buono e il giusto. Finalmente! Al bando analisi e sofismi, le complessità di “poniamoci il problema”. Al bando le estenuanti peregrinazioni del dubbio. La risposta più banale e volgare che si possa dare alla diversità ben più difficile da comprendere.
Caro professor Sandro Onofri, piangerai dal tuo paradiso quando vedrai quanto lontano dalla tua bella idea di scuola sia quella attuale e quanto lontane, quasi un’eco di un’altra epoca, siano le tue parole scritte proprio in occasione dell’eliminazione del voto di condotta: «Una decisione che ha cambiato il rapporto pedagogico, ha eliminato un’arma di ricatto, di avvilimento dell’esuberanza adolescenziale e della vivacità intellettuale dei nostri giovani». E sono passati solo dieci anni! Ed ancora Jerome Bruner, in “La cultura dell’educazione” ci dice: «Idealmente, certo, la scuola dovrebbe fornire un’ambiente dove le nostre prestazioni hanno conseguenze meno dannose per l'autostima rispetto al “mondo reale”. Ma alcuni studiosi, come Paulo Freire, hanno portato avanti una critica radicale, affermando che spesso la scuola distribuisce fallimenti ai bambini che sono destinati in seguito a essere “sfruttati” dalla società».
Un ritorno al passato nefasto ed incolto, precedente al nostro passato che non c’è più. Perché la voce di quella scuola tanto ben regolamentata era l’eco di una società maggiormente strutturata, una società fatta di uomini colmi di sogni e di idee, di voglia di rispondere e perché quei sogni, quelle idee non sono più i nostri. Perché i padri e le madri, i nonni e le nonne di oggi si sono stancamente riprodotti annullando la loro antica referenzialità educativa. Perché i Super-Io si sono dissolti in un Io confuso ed auto distruttivo.
Finalmente il nostro ministro, in barba alla sospetta intransigenza dei Brunetta, ci dona l’analfabetismo e la stasi del progetto educativo. Intanto nelle nostre scuole continua a pioverci dentro. Intanto nelle nostre scuole iper-regolamentate continuano a mancare banchi, sedie, palestre e idee. I giovani insegnanti continuano a rimanere fuori. L’età media dei docenti di ruolo si alza sempre di più disegnando la prospettiva di un’agorà immobile e sonnolenta lontana da ogni dialettica generazionale e priva di ogni gratificazione, sociale e retributiva. E soprattutto continua a mancare la Scuola. Ho trovato tanti nuovi bambini con antichi grembiulini che li renderanno finalmente uguali ed annulleranno una volta per tutte il loro status discriminante. Anche io portavo il grembiule blu, come lo portava il ricco Ansuini, ma il mio era sempre pieno di moccio, logoro e con le asole strappate. E il fiocco bianco diventava presto tutto ciancicato, rosso di sugo e marrone di terra. Ho trovato anche una nuova disciplina, Educazione civica e allora mi sono reso conto che ciò che ho finora insegnato era un’altra cosa. Cosa? Ho trovato Istituzioni che parlano con violenza ed intransigenza di regole e sicurezza, fatte da uomini potenti che di quelle regole si beffano, usandole a loro consumo. Uomini che non hanno mai posseduto alcun carisma e senso pedagogico, capaci di spolverare sul territorio i militari con mitra spianati che giocano la loro comparsata e colorano le nostre città di nebbia in questo scenario dell'assurdo. Mentre ronde poliziesche, poliziotti rondeschi e squadracce di stolti fascistoidi minorenni aggrediscono fino ad uccidere i pochi superstiti del pensiero e della fiducia. Ma ho trovato, anche, un nuovo, bizzarro Padre francescano che caccia i mendicanti dalle chiese e chiama i mercanti nel tempio. L'alemanno padre teologale che soffoca l’alito d'amore del Concilio di Giovanni XXIII disegnando una Chiesa fatta di dottrina e intransigenza controriformista.

l’Unità 17.10.08
Gli statali contro Brunetta
A novembre scioperi regionali
Nel 2009 via al taglio di permessi e distacchi sindacali
Oggi stop dei sindacati di base, disagi nei trasporti
di Giuseppe Vespo



SCIOPERI Più caldo di così l’autunno non poteva essere, con le mobilitazioni che si moltiplicano a ogni misura nuova adottata dal governo. Gli ultimi, in termini di calendario, a programmare i cortei in piazza sono gli statali, che manifesteranno a novembre in tre tranche: il 3 partirà il Centro, il 7 il Nord e il 14 il Sud.
Il nodo del problema sono i soldi, quelli che servirebbero per rinnovare i contratti dei dipendenti pubblici. La trattativa all’Aran, l’ente che per il ministero siede al tavolo sindacale, ieri si è ulteriormente incrinata.
Sindacati e governo restano fermi sulle proprie posizioni: da una parte i rappresentanti dei lavoratori che giudicano insufficienti i tre miliardi dal governo previsti per il rinnovo delle amministrazioni statali e altri tre per il resto delle pubbliche amministrazioni. Dall’altra l’esecutivo, con in testa il ministro Brunetta, secondo cui i fondi permettono la firma di un contratto onesto.
Il sindacato chiede che il tavolo venga allargato a tutte le controparti pubbliche (quindi oltre al governo, alle Regioni e ai Comuni) e che venga riaperto a palazzo Chigi. Brunetta dice no: avete chiesto l’Aran - l’agenzia è stata voluta dai sindacati - e ve lo tenete.
Così si scende in piazza, con il ministro che uscendo dagli studi di Porta a Porta commenta: «Lo sciopero è previsto dalla Costituzione ed è un atto di libertà».
Prima di concedersi alle telecamere, Brunetta ha avuto il tempo di dare un altro colpetto al sindacato, con la firma del decreto che impone in tre anni una riduzione dei distacchi e dei permessi sindacali. Un provvedimento giudicato da Carlo Podda segretario della Fp-Cgil la conseguenza di un straordinario «accanimento sulle libertà sindacali». Critico anche Rino Tarelli omologo di Podda nella Cisl: un taglio «discutibile», dice: «Non comprendiamo le ragioni che hanno indotto il ministro a ricorrere ad un decreto ministeriale per giustificare, in modo unilaterale, una discutibile riduzione dei distacchi e dei permessi sindacali».
La misura comrterà una riduzione di 237 dipendenti in distacco sindacale a partire dal 1 gennaio 2009 (il loro numero salirà a 710 a partire dal 1 gennaio 2011) e che torneranno a disposizione delle amministrazioni di appartenenza. Sempre a partire dal 1 gennaio 2009 verranno ridotti i contingenti dei permessi orari per un ammontare complessivo di 828.535 ore (saliranno a 2.049.969 ore a partire dal 1 gennaio 2001). Secondo i calcoli del ministero tutto questo si tradurrà in «un recupero di 348 uomo/anno nel 2009 fino ad arrivare a 1.042 uomo/anno nel 2011». Tale «recupero di efficienza è stimato in 9 milioni di euro dal 1 gennaio 2009 fino ad arrivare a circa 30 milioni di euro dal 1 gennaio 2011».
Oggi intanto si conteranno i disagi provocati dallo sciopero generale dei sindacati di base, che creerà non pochi problemi ai trasporti, urbani e nazionali, ma anche ai servizi della sanità e nella scuola.
A questo venerdì di protesta e blocchi farà seguito lo sciopero del mondo della scuola indetto per il trenta ottobre dai sindacati confederali, dalla Gilda e dallo Snals. Poi, come detto, sarà la volta dei dipendenti statali del Centro, del Nord e infine del Sud.

l’Unità 17.10.08
Anatema del Papa contro gli scienziati: attratti da facili guadagni
Ricerca, Ratzinger condanna «l’arroganza di sostituirsi a Dio». E poi mette in guardia sulla «speculazione sfrenata»
di Roberto Monteforte


La scienza non è in grado di elaborare una sua etica. Deve confrontarsi con la filosofia e con la teologia per evitare che «proceda da sola in un sentiero tortuoso e non privo di rischi» e non cadere «nelle sue patologie». Lo afferma Benedetto XVI ricevendo in udienza i partecipanti al congresso sull’enciclica «Fides e Ratio» organizzato dalla Pontificia università Lateranense. Per il Papa questo non significa affatto limitare la ricerca scientifica o impedire alla tecnica di produrre «strumenti di sviluppo», quanto piuttosto di «mantenere vigile il senso di responsabilità che la ragione e la fede possiedono nei confronti della scienza» e - aggiunge - perché questa «permanga nel solco del suo servizio all’uomo».
Vede pericoli Ratzinger che non crede alla possibilità da parte della comunità scientifica di darsi un suo autonomo codice deontologico. Evoca il rischio che la scienza moderna anziché seguire il benessere dell'umanità, persegua «il facile guadagno o, peggio ancora, l'arroganza di sostituirsi al Creatore». Definisce la tentazione di «produrre» la natura oltre che a studiarne le verità più profonde, «una forma di hybris (arroganza) che «può assumere caratteristiche pericolose per la stessa umanità». Parole che suonano come un vero affondo contro l’autonomia della scienza, come sfiducia verso la sua capacità di darsi autonomi riferimenti etici e di resistere alle pressioni del mercato. Una sortita che ha provocato le reazioni di figure eminenti della comunità scientifica. Critica è stata quella dell’astrofisica Margherita Hack per la quale le parole del Papa sono «fuori dal mondo». «Gli scienziati - ha detto - sono persone come tutte le altre. Tra di essi, quindi, c'è chi pensa solo ai soldi e chi invece dedica tutta la sua vita al progresso dell'umanità». «Considerato che la maggior parte degli scienziati, soprattutto quelli italiani, lavorano il più delle volte in condizioni di estrema precarietà, le dichiarazioni del Papa sono davvero fuori dal mondo». «I principi etici - ha aggiunto - non sono solo dei credenti. Il principio etico “non fare agli altri ciò che non vorresti che gli altri facciano a te” riguarda i credenti come i laici e gli atei». Hanno, invece, apprezzato le parole del Papa il fisico Antonino Zichichi e il presidente dell'Istituto superiore di Sanità, Enrico Garaci.
Quello sulla scienza non è stato l’unico richiamo ieri del Papa. Nel suo messaggio inviato alla Fao in occasione della giornata mondiale dell'alimentazione, Benedetto XVI ha lanciato un monito fortissimo contro la «speculazione sfrenata» che tocca i meccanismi dei prezzi e dei consumi e che finisce per colpire gli «ultimi». «Basta agli egoismi degli Stati» ha aggiunto osservando come, malgrado vi siano mezzi e risorse sufficienti per soddisfare le crescenti necessità di tutti, «nel mondo, invece, ci sono sempre più affamati». Nonostante la crisi economica mondiale - questo il suo invito - «occorre promuovere un nuovo modo di intendere la cooperazione internazionale, basato sul rispetto della dignità della persona», perché l'indirizzo economico deve essere orientato «verso la condivisione dei beni, verso il loro uso durevole e la giusta ripartizione dei benefici che ne derivano».

l’Unità 17.10.08
Il Pd e gli ombligos della sinistra
di Luca Sofri


«Seis meses después de perder las elecciones, la izquierda italiana está ausente, se diría que no existe». Lo spagnolo suona sempre meraviglioso, è bello metterlo in testa a un articolo. Leggetela ad alta voce, questa frase, sia che conosciate la lingua sia che improvvisiate come me una pronuncia maccheronica: bello, no?
No. Già.
In effetti è difficile che l’abbiate letta con quel piacere che riempie la bocca, e che ve la siate goduta come niente fosse, come un legnetto di cremino da succhiare. Perché a capire cosa significa - e si capisce, dannata familiarità delle lingue latine, si capisce bene - quella frase parla di noi, e non dice cose belle.
Dice: «Sei mesi dopo aver perso le elezioni, la sinistra italiana è sparita: si direbbe che non esista». E lo dice sul Pais, il maggiore quotidiano spagnolo, che l’altro giorno ha dedicato alla sparizione un articolo intero («La izquierda se esfuma en Italia», e tradurlo sarebbe infierire), corredato dalle testimonianze del direttore di Repubblica e di un lucido giovane militante del Pd e collaboratore dell’Unità, Giuseppe Provenzano.
Sì, è vero che dello sguardo dei giornali stranieri sulle cose italiane bisogna sempre un po’ diffidare. La sua pretesa di distacco e obiettività spesso nasconde una più banale distanza e superficialità: molti giudizi pubblicati in questi anni dalla stampa estera facevano macchiette delle cose italiane e servivano solo a essere strumentalizzati da una parte o dall'altra quaggiù. Fossimo meno provinciali, non dovremmo aver bisogno dell'Economist per sapere chi è e quanto vale Silvio Berlusconi.
E temo che ai lettori dell’Unità non suonino sorprendenti le valutazioni del Pais. Ma in questo caso la stampa estera non parla di fatti, ma di percezioni. Il problema del Pd, infatti non è tanto che sia sparito - non lo è -, ma che “sembra” sparito. E questi non sono tempi da sembrare spariti. Ma se questa è un’impressione condivisa da molta parte dei suoi elettori, si ha la sensazione che sfugga inspiegabilmente ai suoi dirigenti, che sembrano ignorare “il Pd percepito”.
È una sensazione sbagliata: se li prendi uno a uno da una parte e ci fai due chiacchiere ti dicono anche loro che il momento è difficile, che la gestione non li convince, e poi che provaci tu, e tutta la sinistra europea è in crisi, eccetera eccetera. Lo sanno, lo sanno bene, che «la izquierda italiana está ausente, se diría que no existe». Quello che inspiegabilmente manca, è un'assunzione di responsabilità e un far corrispondere una reazione a questa consapevolezza. Comportarsi da adulti, insomma.
Per le ragioni note, sta godendo da tempo di rinnovato successo, tra le leadership politiche e intellettuali italiane, l’espressione “ai nostri figli”: persone le cui inadempienze negli scorsi decenni sono state complici dello stato assai malconcio in cui si trovano l’Italia e gli italiani, pretendono di avere i titoli per rammendare questo stato adesso, e il dovere di farlo “per consegnare ai nostri figli un mondo migliore”. Ora, si dà il caso che i loro figli ormai abbiano trenta e quarant’anni, e spesso dei figli a loro volta, e che una buona idea sarebbe consegnargli questo, di mondo, prima di peggiorarlo ancora. Non perché siano necessariamente più in gamba, ma perché ormai è roba loro ed è loro il dovere di provare a migliorarlo. Ma - lo so, suona una cosa da vecchio borbottone - quello che più nuoce a figli e nipoti e alla loro capacità di impegno è la mancanza di modelli ed esempi. Quando la bambina di cinque anni piange perché le è caduto per terra il biscotto invece di raccogliere il dannato biscotto, voi la sgridate (se è la quinta volta che avviene) o cercate di spiegarle che i problemi si affrontano e risolvono. Non si risolvono da soli: e il biscotto non è caduto perché la sinistra europea in crisi. O anche se fosse, si cerca di raccoglierlo lo stesso. Basterà una manifestazione di piazza? Speriamo.
«Se diría que el Partido Demócrata está más dedicado a mirarse el ombligo que a ofrecer una alternativa»: che faccio, traduco? Questi sono tempi che richiedono grandi impegni, grandi idee e grandi visioni, e stiamo facendo battaglie perse sulla presidenza della Commissione di Vigilanza. Ombligos.
La «izquierda italiana» oggi è facilmente individuabile, benché “ausente”: ha dei nomi e dei cognomi e sono quelli di chi prende - o non prende - le decisioni al vertice del Pd: ovvero della migliore idea partorita e costruita dai leader della sinistra italiana negli ultimi decenni. O cercano di raccogliere il biscotto, o comunicano che ci hanno provato ma non lo sanno raccogliere, come coloro che li precedettero: e si comincia a lavorare perché se ne occupi qualcun altro. E non sarà facile per niente, ragione in più per insistere. Con juicio.

Adnkronos 17.10.08
Bertinotti, prendere atto che è fallito un intero modello di sviluppo

"Occorre prendere atto che e' fallito un intero modello di sviluppo fondato su bassi salari, alta flessibilita' e precarieta'. Il tutto condotto con una sistematica ed energivora rapina dell'ambiente". Lo ha detto l'ex presidente della Camera Fausto Bertinotti, intervenendo all'incontro di studio sull'economia 'La mano invisibile', promosso da Radio3. "La crisi di questi giorni -ha affermato tra l'altro Bertinotti- chiede a chi ha formato l'opinione pubblica sull'economia di dire o 'ci siamo sbagliati' o 'vi abbiamo imbrogliato'. Ci hanno raccontato per 25 anni che si doveva ridurre il deficit pubblico come elemento centrale, comprimere i salari e l'economia dell'innovazione avrebbe prodotto i suoi fasti". "Tutto questo e' stato smentito clamorosamente non da una bolla a Wall Street quanto dal fatto che si e' dimostrato che questo modello economico-sociale, oltre a produrre gravi ingiustizie, genera anche crisi e instabilita'. Ora siamo alla recessione e ad un intero sistema che e' imploso. Se ne esce solo -ha concluso Bertinotti- con un grande cambiamento, come fu quello della svolta keynesiana dopo il '29".

Arci: Apartheid nelle scuole
comunicato stampa nazionale





Il centrodestra introduce l’Apartheid nella scuola

Nascono le “classi si inserimento” per gli stranieri. Con la mozione Cota (dal nome del primo firmatario, deputato della Lega), approvata dalla Camera nella serata di martedì scorso, nascono le “classi di inserimento”, riservate agli alunni stranieri che non supereranno i test per accedere alle classi ordinarie. La proposta impegna il governo a subordinare l’iscrizione dei ragazzi stranieri al superamento di test e specifiche prove di valutazione. Chi non li superasse, sarebbe costretto a frequentare delle vere e proprie classi speciali (”di inserimento”), in cui migliorare la conoscenza della lingua italiana, essere educati alla legalità e alla cittadinanza, seguendo un percorso formativo relativo sia alle conoscenza e comprensione di diritti e doveri (rispetto per gli altri, tolleranza, lealtà, rispetto della legge), sia al “rispetto per la diversità morale e la cultura religiosa del paese accogliente”. Sembrerebbe una barzelletta, visto da che pulpito vengono le richieste. Invece è l’ennesimo provvedimento di dubbia costituzionalità che di fatto conferma un subdolo e pericoloso razzismo istituzionale e rischia di legittimare l’esplosione di violenza razzista che sta corrodendo la convivenza civile delle nostra comunità. Non ci sembra esagerato parlare di introduzione dell’Apartheid nella scuola. Si tratta infatti di una scelta tutta politica, che azzera le positive esperienze didattico-pedagogiche tese all’integrazione di questi ultimi anni, che hanno dimostrato come la lingua si impari molto più velocemente grazie all’inserimento nell’ambiente in cui viene parlata. I test, le classi speciali, aumenteranno le distanze; rafforzeranno, nell1immaginario dei ragazzi, l’idea di un “noi” e di un “loro”, diversi al punto da richiedere una formazione particolare in luoghi fisicamente separati. La scuola, principale opportunità di incontro, riconoscimento e integrazione, si trasforma così in luogo di selezione e discriminazione. Chiediamo all’opposizione sociale e politica di mobilitarsi contro questo nuovo Apartheid; agli insegnanti e ai dirigenti scolastici di disobbedire. L’istruzione è un diritto universale. A tutte e tutti deve essere garantita parità di accesso. Le classi di inserimento forse sarebbero più adatte a qualche nostro concittadino, compresi alcuni politici che avrebbero bisogno di un corso sui diritti, i valori della tolleranza, il rispetto delle altre culture e religioni, i principi della nostra Costituzione.
Paolo Beni, presidente nazionale Arci,
Filippo Miraglia, responsabile immigrazione Arci


Roma, 15 ottobre 2008

Repubblica 17.10.08
Fini in Sinagoga a Roma "C´è un rischio razzismo"
Visita 65 anni dopo il rastrellamento al Ghetto
"La deportazione degli ebrei è una tragedia che riguarda tutti gli italiani"
di Alessandra Longo


ROMA - Si sistema la kippah bianca con gesto sicuro, quasi automatico. Gianfranco Fini varca la soglia della Sinagoga di Roma in un clima di grande cordialità. Con lui ci sono il rabbino capo Riccardo Di Segni, il portavoce della comunità ebraica romana Riccardo Pacifici (con il quale da tempo si dà del tu) e il presidente delle comunità ebraiche italiane Renzo Gattegna. Non è la sua prima volta, è già venuto al tempio, ma è la prima volta che lo fa nella veste di presidente della Camera e in un periodo di rigurgiti nostalgici, non estranei al suo mondo politico di provenienza. Non è nemmeno un giorno qualunque ma il 16 ottobre, data che ricorda la deportazione del ‘43: 1022 ebrei della capitale furono portati a morire nei campi di sterminio con «la collaborazione attiva» dei fascisti, anche ieri ricordata all´illustre ospite. Risalirono quell´abisso in 15.
Quelli ancora vivi sono tutti qui, sono ormai solo quattro, e accolgono Fini con un sorriso. Così come sorridono al «Circolo del ‘48», l´organizzazione di base degli ebrei romani. Nel ghetto, dopo la parentesi ufficiale, l´ex ragazzo del Fronte della Gioventù fa una passeggiata, beve un caffè da «Toto» in piazza, si ferma a chiacchierare, ascolta storie di violenza, di morte. «Mi hanno venduto per cinquemila lire», gli dice Mario Limentani, un sopravvissuto. «Cinquemila lire?» «Sì, presidente, cinquemila lire». Si stupisce, si interessa come quando, tra i banchi di legno scuro, aveva chiesto notizie sulla sinagoga: «L´hanno chiusa dopo le leggi razziali?» «No, presidente, fu chiusa, come tutti i luoghi di culto ebraici, dopo l´otto settembre quando cominciò la caccia finale all´ebreo».
Ne è passata di acqua sotto i ponti. Il presidente della Camera è a suo agio («L´altra volta mi avete portato lassù, nei vostri uffici... «) ma soprattutto non ha più niente, personalmente, da dimostrare. Sull´antifascismo è stato chiaro («Tutta la destra si deve riconoscere in quei valori»), sulle leggi razziali ha costretto i suoi a dolorose retromarce e precisazioni e anche adesso si affida a «semplici verità storiche»: «Occorre ricordare - dice - che le deportazioni ci furono perché ci furono le leggi razziali del ‘38. Occorre ancora una volta sottolineare che quel che successe il 16 ottobre del ‘43 a Roma è una tragedia che non riguarda solo gli ebrei ma tutti gli italiani e abbiamo il dovere della memoria».
«Ha coraggio», gli riconosce Piero Terracina, il più famoso tra i sopravvissuti, mai tenero con la destra. «Qualche anno fa - ammette Terracina - mi sarei rifiutato di partecipare ad una cerimonia in sua presenza». Peccato solo, come dice Guido Coen, membro del Consiglio della comunità, che «il suo percorso personale non garantisca il percorso di molti altri». In un colloquio a porte chiuse, Di Segni, Pacifici e Gattegna, gli raccontano della loro preoccupazione per «i segnali» che si avvertono nel nostro Paese. Gli consegnano anche un dossier con l´elenco di «siti xenofobi e razzisti», dove si esalta la razza ariana e si fa «merchandising dal sapore negazionista» (In quei siti il presidente della Camera è inserito nell´elenco dei "nemici", ndr). Fini si impegna a vigilare: «Il razzismo, come la xenofobia, è una sorta di mostro che può risorgere in forme e modalità diverse. In Italia ci sono troppe dimostrazioni di ignoranza, paura, avversione».
Proprio per questo Pacifici annuncia l´impegno della comunità a favore dei rom: «Abbiamo deciso di intervenire in uno dei campi della capitale, li aiuteremo nel processo di integrazione e metteremo a disposizione il nostro ospedale per vaccinare i bambini e fare attività di prevenzione». Fini approva. Anche sui Rom viaggia da solo, rispetto ai suoi. Gattegna, al momento del congedo, ne tesse le lodi: «Con il presidente i rapporti sono di stima e di amicizia, lo ringraziamo della sua intensa attività tesa a riportare la corretta interpretazione della storia».
Se ne va dal tempio, non prima di aver fatto un giro nelle strade del ghetto. Angelo Sermoneta, detto «il Baffone», gli regala una «berakah», targa di benedizione, in inglese ed ebraico, per sua figlia Carolina: «Che le sia di buon augurio, presidente».

Corriere della Sera 17.10.08
La foto per il corteo del 25 al Circo Massimo
La folla di San Pietro nei manifesti pd «Un errore, ma ben vengano suore e preti»


ROMA — ( al.t.) «E perché, le suore non possono venire in piazza con noi?». Alberto Losacco, sfortunato responsabile propaganda del Pd, scherza: «Alcuni preti si sono fatti sentire, saranno in piazza». D'altronde come si fa a non scherzare, quando si legge sul Giornale e su Libero
che nel manifesto che annuncia il corteo del 25 ottobre a Roma, non c'è una folla anonima di militanti ma pellegrini che omaggiano il Papa a San Pietro? Suore con velo e preti in clergyman compresi. Losacco: «Solo un matto può mettersi con il microscopio a ingrandire le transenne. L'agenzia Contrasto ce l'ha venduta come una manifestazione sportiva». E anche fosse San Pietro, chiede Beppe Fioroni: «L'indagine la lascio ai cultori di Sherlock Holmes. A me il manifesto piace. L'Italia è il paese dei mille campanili e l'immagine dà l'idea di una piazza di popolo». Il popolo, sospira Achille Passoni, organizzatore del 25: «Speriamo di riempirlo il Circo Massimo. L'atmosfera è ottima, ma chissà». La foto-equivoco non diverte Marina Magistrelli: «Lasciamo la facile ironia al Bagaglino e pensiamo ai problemi reali».

Boom di vendite in Germania
C’è la crisi Marx torna di moda


Dopo quasi vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, complici la crisi profonda dei mercati e l’imminente anniversario di quel fatidico 9 novembre 1989, la Germania sta vivendo un inatteso dejà vu: da una parte, nei prossimi 12 mesi decine di artisti cercheranno di far tornare al suo antico splendore il più grande pezzo di Muro ancora esistente; dall’altra, migliaia di tedeschi chiedono lumi a Karl Marx, padre del comunismo, sulle sorti del capitalismo. Nessuno ci avrebbe scommesso, invece, proprio a causa della crisi finanziaria, molti stanno riscoprendo il filosofo tedesco ed i suoi scritti, in particolare Il Capitale, che sta tornando ad essere un bestseller, molto richiesto in libreria. La tentazione di tornare a respirare proprio le teorie, almeno economiche, che sono state alla base del comunismo, si intreccia con il desiderio di mantenere vivo il ricordo della fine delle due Germanie attraverso il restauro di una sezione del Muro di Berlino in tempo per l’anniversario dell’anno prossimo. E forse non è un caso che in Germania la Sinistra guadagni sempre più terreno e che - di recente - lo stesso governo abbia ammesso, almeno parzialmente, la validità delle teorie di Marx. Fatto sta, che dall’inizio dell’anno il libro scritto nel 1867 dal filosofo ed economista tedesco ha fortemente aumentato le vendite. «Marx è di nuovo di moda» ha detto Joern Schuetrumpf, della casa editrice berlinese Karl-Dietz che pubblica le opere di Marx e Friedrich Engels. Le vendite del primo volume dell’opera sono triplicate dal 2005, da 500 a 1500. E per dicembre, l’editore si aspetta un ulteriore aumento, a testimonianza del fatto che in Germania la teoria del filosofo - secondo cui il capitalismo in eccesso finisce per autodistruggersi - sembra essersi fatta più attuale. Anche il governo potrebbe avere contribuito a questo boom: «Dopotutto - ha dichiarato il ministro delle finanze tedesco Peer Steinbrueck a Der Spiegel - alcune parti della teoria marxista non erano così sbagliate». Cresce insomma in Germania la «Ostalgia». E c’è perfino chi rimprovera al governo di avere smantellato troppo in fretta il Muro dopo la caduta: sarebbe stato meglio preservarne una parte maggiore in ricordo dei vecchi tempi, dicono adesso gli «ostalgici». Anche in seguito a questo appello, è cominciato il restauro dell’East Side Gallery, Il più grande museo all’aperto d’Europa, formato dal pezzo più lungo (1,3 km) del Muro di Berlino rimasto ancora in piedi. Ai lavori di risanamento parteciperanno molti dei 118 artisti di una ventina di Paesi che, a partire dalla primavera del 1990, avevano affrescato il Muro: tutto dovrà essere pronto entro il 9 novembre del 2009.

Liberazione 5 ottobre 2008
E' scandalo cercare le parole dell'alternativa possibile?
di Rina Gagliardi


Mi si consenta una premessa quasi del tutto irrituale: questo non è un articolo sul comunismo, o sull'identità comunista. Non è possibile condensare un tema di questa portata (storica, teorica, e così via) in sette o ottomila battute. Questo articolo, piuttosto, è un inizio di riflessione sul rapporto tra identità e politica, tra ideologia e pratica della trasformazione, a partire dalla frase di Fausto Bertinotti - che tanto scalpore ha suscitato - sulla "indicibilità" oggi del comunismo.
Ovviamente, si tratta di una riflessione personale, anche se ho avuto modo di parlarne direttamente con l'ex-segretario del Prc, proprio mentre dettava alle agenzie la sua (seconda) stimolante provocazione: "io sono comunista". Con essa, Bertinotti non intendeva, nient'affatto, smentire lo scoop di Bruno Vespa, come di solito fanno i politici, ma rovesciarne radicalmente il senso. Qual era l'obiettivo, in effetti, della notizia lanciata giovedì pomeriggio come promotion del Viaggio in Italia appena uscito in libreria? Quello di gettare una bomba ideologica: l'abiura "definitiva" di Bertinotti, sul quale già da tempo pendono tanti sospetti. L'ex-segretario del Prc, a vent'anni dalla Bolognina, che reitera la liquidazione occhettiana, fatte salve tutte le differenze (soprattutto quantitative) tra Pci e Rifondazione comunista. L'ex-presidente della Camera, oramai "imborghesito", che si pente e arriva a dichiarare pentimento. Una tale rappresentazione, o meglio una tale narrazione falsificante, rischia di "passare" anche nelle file del Prc - una delle grandi debolezze del nostro partito non è forse la prassi diffusa di leggere la realtà, e soprattutto la politica, attraverso gli occhiali del sistema mediatico? Dunque, anche ai fini di una discussione magari aspra ma forse anche utile, è essenziale sgomberare il campo sia da ogni strumentalità, sia dalla subalternità ai "sensazionalismi" di agenzia.
***
Qual è allora il tema reale che Bertinotti pone al dibattito? Non l'archiviazione dell'identità comunista, ma la sua capacità, come tale, di riuscire, nella crisi attuale, a tradursi in organizzazione di massa e quindi in iniziativa efficace di trasformazione: insomma, è il rapporto con la politica, non la rinuncia all'ideologia o all'ambizione strategica. Un tema, a ben vedere, classico, che tante volte si è presentato nella storia del movimento operaio: che cosa debbono proporsi e fare i comunisti, come concretamente devono investire la loro weltanschung , le loro idee, le loro proposte - qui ed ora, in questa durissima fase della storia d'Italia, d'Europa, dell'Occidente. Detto in breve: i comunisti non possono mai limitarsi ad essere, come in una sorta di acquietamento "ontologico": sono ed esistono in quanto, come diceva Marx, a differenza dei filosofi non basta loro interpretare il mondo. Sono quelle e quelli che intendono cambiarlo.
Ora, non solo queste premesse, ma la sostanza del problema posto da Bertinotti, a me paiono difficilmente contestabili. Fino agli anni 60 e 70, dichiararsi socialisti o comunisti - nonché militanti di una forza socialista o comunista - non solo non comprometteva, di per sé il rapporto "con le larghe masse", ma comunicava qualcosa che per tutti era chiaro, definito, comprensibile. Anche con l'interlocutore più lontano o resistente, cioè, era comunque possibile stabilire un rapporto politico. Oggi non è più così: parole come "comunismo" e "socialismo" sono diventate opache - incomprensibili e mute per i più, meri residui del secolo scorso per i più (pochi) informati. Oggi, del resto, nella società sbriciolata, individualizzata, impaurita, tutte le culture politiche maggiori del 900 - tutti gli ismi - hanno perduto ogni forza evocativa e ogni capacità comunicativa: e questa afasia è certo parte integrante della drammatica regressione in corso, indotta dal capitalismo neoliberista e cresciuta nel "disorientamento" della globalizzazione.
Se questo è, all'incirca e all'ingrosso, lo stato delle cose, se ne potrebbe concludere, sempre all'incirca, che "tutto è perduto" - e che la politica (la politica, non solo le elezioni!) è una sfera oramai riservata alle soggettività di destra o centriste, alle tendenze neoautoritarie e a-democratiche, ad un populismo antipolitico che galoppa un po' dovunque. Ma non è questa la conclusione a cui arriva Bertinotti: l'unica strada che vale la pena di percorrere - che i comunisti possono tentar di percorrere - è quella della costruzione di un nuovo, grande, unitario soggetto di sinistra. Un progetto che mette in discussione, senza reti di protezione o autotutele, l'esistente, giacché è in gioco (e forse siamo già fuori tempo massimo) l'esistenza stessa della sinistra - tutta e in quanto tale. Un ricominciare, in politica, a partire dalla dimensione più aggregante possibile e non aprioristicamente escludente. Un riposizionarsi là dove la forza del capitalismo, ivi compresa la violenza delle sue crisi, e delle destre sono più agevolmente combattibili.
E' ovvio che questo soggetto (non necessariamente un partito) si declina come anticapitalistico, femminista, ambientalista, democratico, libertario, antirazzista, capace cioè di inverare politicamente i contenuti concreti - possibili - di una identità alternativa. E' quasi altrettanto ovvio che si tratti, come ha scritto Marcello Cini, di una "sinistra senza aggettivi": perché non c'è sinistra, oggi, che non abbia come propria ragion d'essere l'opposizione radicale al capitalismo - non solo al crac selvaggio dei mercati finanziari, non solo alla logica dell'impresa e del mercato come principio unico e sovraordinatore della società, ma alla mercificazione della scienza, della conoscenza, della cultura, nonché al modello di sviluppo che porta dritti alle catastrofi ambientali preconizzate da Attali.
Tutto questo potrebbe - dovrebbe - essere l'impegno prioritario dei comunisti e delle comuniste. I quali - ecco un'altra frase di Bertinotti che a suo tempo destò scandalo - sono già nei fatti, volenti o nolenti, una "corrente culturale", anche se credono di essere strutturati in quattro, o diciamo pure due, forze politiche. Il confine tra piccole formazioni che non incidono nei processi reali (sociali e politici) e, talora, neppure si propongono di agire dentro di essi in termini efficaci e credibili, e aggregazioni di natura sostanzialmente culturale, eo propagandistica, è in fondo molto sottile. E la soglia da ri-conquistare non è solo quella (elettorale) di sbarramento: è l'egemonia. E' la capacità, oggi perduta, di (ri)entrare nell'immaginario collettivo di larghe masse e di avere un senso nella e per la loro vita. Un obiettivo improbo, già, ma che forse non è impossibile proporsi - e che è alla portata di una grande rinnovata sinistra.
***
Ma dunque il problema tornerebbe ad essere quello del Nome, proprio come accadde tra l'89 e il '91? Naturalmente no. Se è vero che "nomina sunt essentia rerum", secondo l'antico motto (medioevale, mi pare), è vero altresì che i comunisti non dismettono il loro chiamarsi comunisti, all'interno di una più vasta (e certo più indefinita) aggregazione politica di sinistra: semplicemente, non possono imporre ad essa la loro identità - il loro nome. Era questo che intendeva Bertinotti quando parlava del comunismo come "corrente culturale" (altra frase considerata scandalosa), ipotizzando che esso continui a vivere autonomamente in altre sedi, in altri luoghi, in altre forme. Ma anche qui, fuori dagli scandalismi facili e dalle pur comprensibili emotività, chi ha detto che i comunisti e le comuniste danno vita, sempre e comunque, ad un Partito comunista? L'unica forza alternativa consistente, che oggi esiste in Europa, è in Germania: si chiama, tout court, "Die Linke", "La Sinistra" e tra i suoi soggetti promotori c'è la Pds, "Partito del socialismo democratico". L'unico sub-continente che va a sinistra, l'America latina, non ha alla sua guida forze che, nel loro nome, si richiamano al comunismo - e, al di là delle diverse dosi di entusiasmo, non c'è tra di noi chi dubiti del valore del processo in corso in Venezuela, Bolivia, Ecuador. Lo stesso Prc non sentì il bisogno di chiamarsi, appunto, Rifondazione, ad indicare visibilmente la necessità di riaprire un percorso e una ricerca, oltre il richiamo ad un passato e ad una storia da preservare? Viceversa, denominarsi "Partito Comunista" non è mai stato, e non è oggi, garanzia in sé e per sé di spirito rivoluzionario, anticapitalista o innovativo - come ci testimonia in questa fase il più grande Pc del mondo, quello della Cina, o come ci hanno concretamente dimostrato i Partiti comunisti che hanno avuto il potere statuale. Perfino Pol-Pot, sterminatore di milioni di boat people, si diceva comunista. Si può certo replicare che no - che invece e all'opposto proprio questa sia la discriminante decisiva, l'assunzione di un nome. Curiosa manifestazione di ontologismo nominalistico.
Ma anche questo nome, mi pare, avrebbe bisogno di esser definito - reso trasparente ai nostri stessi occhi. Chi, come me e qualcuno più importante di me, continua a dirsi comunista, non si riferisce certo alla tradizione che, nel suo insieme, è andata sotto il nome di Terza Internazionale. Quando mi dichiaro comunista - e lo farò finché avrò lucidità e razionalità - penso a Rosa Luxemburg, ad Antonio Gramsci, a quel filone del "comunismo italiano", del movimento sindacale, del socialismo di sinistra, che ha avuto alla sua testa dirigenti come Pietro Ingrao, Lelio Basso, Bruno Trentin, Raniero Panzieri - ed altri che non cito. Penso al Sessantotto e a quella grande stagione che dall'autunno caldo produsse i consigli operai e un embrione diffuso di contropotere. Penso a Walter Benjamin e alle sue fondamentali Tesi sulla filosofia della storia . E penso anche al Mahatma Gandhi, dal quale ho imparato molte cose e in compagnia (simbolica) del quale mi trovo molto meglio che con Stalin, Breznev o Ceasescu. Rispetto, fino in fondo, coloro che, quando dicono "comunismo", continuano a pensare, invece, alla "nazionalizzazione dei beni di produzione", al Partito Unico, al sindacato di Stato (come quello che organizza oggi in Cina circa duecento milioni di lavoratori e lavoratrici, ma sconsiglia e scoraggia lo sciopero perché turberebbe l'"armonia sociale") - e che ritengono, sotto sotto, che l'unico problema sia quello della conquista - ieri, oggi e domani - del potere centrale. Rispetto, ma mi colloco a mille miglia di distanza da una cultura politica che è stata battuta e che anzi ha clamorosamente fallito. Eppure, mi sento e mi dico comunista.

giovedì 16 ottobre 2008

Repubblica 16.10.08
Notte bianca alle elementari, licei e università occupati
Scuole in rivolta contro la Gelmini: dalle elementari, ai licei, alle università.
Cortei, assemblee e fiaccolate: la protesta dilaga in tutta Italia
E i sindacati chiamano anche l´università allo sciopero generale a metà novembre
di Marina Cavallieri


ROMA - Mamme combattive, padri con computer per aggiornare i blog, maestre preoccupate. E poi bambini, tanti, un po´ per giocare, un po´ per capire. È stata la giornata più insolita, la notte più lunga della scuola italiana.
Dal tramonto all´alba, tanto è durata una protesta spontanea e fantasiosa, una resistenza pacifica, esplosa in centinaia di aule di periferia, nelle strade di quartieri borghesi, negli istituti illuminati a tarda sera. In tutte quelle anonime cittadelle del sapere, piene di disegni, graffiti e buona volontà, che sono le scuole pubbliche, dalle elementari all´università, che in una Notte bianca, di luna piena, hanno ritrovato un sentimento comune e un inaspettato imprevisto scatto d´orgoglio. «Perché la scuola pubblica non sia ridotta ad un fantasma», questo lo slogan che ha unificato le proteste sbocciate come dal nulla che si sono diffuse a Bologna, Roma, Milano, Napoli, Pisa, Parma, Viareggio, Torino, Brescia e in tante altre città.
Nel "Gelmini night & day" hanno marciato insieme compatti genitori e insegnanti, è la nuova alleanza che si è formata contro i tagli e il maestro unico, a favore del tempo pieno, un movimento fluido, spontaneo, che preferisce i blog al ciclostile, odia le etichette politiche «non vogliamo strumentalizzazioni», favorisce le contaminazioni, infatti hanno aderito anche studenti delle medie e universitari che a loro volta hanno dato vita a mobilitazioni nei licei e negli atenei. Perché questa non è una battaglia generazionale ma trasversale contro «l´attacco al sapere pubblico», come si legge nel comunicato dei genitori di Pisa.
«Non è una protesta politicizzata, è un movimento spontaneo, istintivo, nato su un gigantesco passaparola», spiega Simona, madre di due bambini che frequentano la scuola elementare Crispi, di Roma, che ha aderito alla notte bianca. «Il maestro unico, i tagli al tempo pieno sono un passo indietro e incidono sulla qualità della scuola e della vita delle persone, perché né le madri né i bambini sono più quelli di una volta». Una protesta che si nutre di assemblee e di capannelli ma è su internet che si amplifica e corre veloce, nei siti improvvisati, nei blog dove si dibatte fino a notte fonda.
«È nato un movimento trasversale che sta crescendo anche se le possibilità di incidere sul decreto sono ormai poche ma ci saranno tutti i regolamenti, la gestione del dimensionamento, gli organici dove possiamo ancora fare qualcosa magari con una legge di iniziativa popolare», dice una maestra che sfila nella fiaccolata che si è tenuta nel quartiere Prati. A Bologna tra cene sociali, pic nic, assemblee permanenti dove sono stati invitati anche genitori e professori, la mobilitazione è stata contagiosa, tanti i licei occupati e le scuole elementari aperte perché da loro è partita la Notte bianca.
Fiaccolata anche a Napoli a piazza del Plebiscito mentre a Milano i primi a scendere in piazza, ieri pomeriggio, sono stati i bambini della «Casa del Sole», storico istituto dentro al parco Trotter, culla di ogni contestazione che si ricordi. Una ventina le scuole elementari coinvolte. Assemblee anche negli atenei di Roma, Milano, Pisa, Bologna dove Lettere è stata occupata. Nelle aule universitarie la protesta assume sfumature meno festose, forse più cupe. «Non saremo noi a pagare i tagli», era scritto in uno striscione alla Sapienza. Il 14 novembre ci sarà uno sciopero generale ma intanto si discute di quello dei Cobas di domani per capire chi va e chi no.

Repubblica 16.10.08
Le mamme delle elementari sulle barricate "Mai occupato prima, ma stavolta ci vuole"
"Se arriva la Digos torniamo a casa, non siamo martiri, ma l´importante è farci sentire"
di Michele Smargiassi


BOLOGNA - I sacchi a pelo sono a casa, «ma ci metto un attimo a andarli a prendere». Le bimbe sono eccitatissime: stanotte si dorme a scuola? Con mamma e papà, come in campeggio, però tra i banchi? Questa sì che è un´avventura. «Però ci leggerete lo stesso la favola della buonanotte?». Papà Angelo ha spiegato alle due figlie, prima e terza elementare, che sarà un po´ una festa e un po´ una protesta, che «vogliamo tanto bene alla scuola che ci dormiamo dentro perché non ce la rovinino». E adesso sarebbero deluse se non accadesse, anche se questo alle ore 17 è solo il programma provvisorio della famiglia Guerriero e di un´altra ventina: «Stanotte vediamo, se all´una arriva la Digos ci diamo la mano e andiamo a casa, mica siamo martiri anti-Gelmini, quel che conta è farci sentire». Tra le decine di scuole elementari bolognesi che hanno proclamato la «notte bianca» contro i decreti del ministro dell´Istruzione, la Mattiuzzi-Casali è una di quelle dove i genitori hanno (quasi) deciso di occupare davvero la scuola «fino all´alba» come c´è scritto sui volantini. Ma non sono un covo di rivoluzionari. Angelo forse è l´unico che al liceo abbia «fatto qualcosina», ma non ha mai avuto tessere. Veronica, architetto, politica invece non ne ha mai fatta, ma ora brandisce lo striscione ideato col figlio che va in prima ("Non voglio una scuola fatta coi piedi", e sotto impronte colorate), e solo altri due figli piccoli le impediscono di stendersi anche lei in corridoio: «Occupare una scuola è più necessario adesso di quand´ero studentessa io».
Per mobilitare le mamme (più le mamme dei papà), le mamme tassiste cuoche colf e lavoratrici, e farle diventare anche mamme protestatarie, cos´è scattato? «Non ho mai fatto politica, è questo che mi dà la carica», Simona Blosi ha due figlie alle Fortuzzi, «sono una professionista, da vent´anni lavoro sola in un ufficio, per la prima volta capisco che le cose si cambiano insieme, e quel che non ho fatto a diciott´anni lo devo fare adesso». Ma perché adesso? «Perché stavolta la scuola non la cambia, la vogliono tagliano»: anche Sandra, commessa, è al suo primo corteo, quello che esce dalle Romagnoli, una delle scuole più di frontiera della città, quartiere Pilastro, più immigrati che italiani in molte classi. In testa i maestri sindacalizzati scandiscono slogan, più pratici di queste cose. I genitori con carrozzine e bici seguono un po´ esitanti. «Siamo ancora pochi», non s´accontenta Mirella, rappresentante d´istituto. Ma un movimento di mamme auto-organizzato non nasce già bell´e pronto. È un "partito" cresciuto pian piano in quei minuti quotidiani di chiacchiera libera davanti ai cancelli prima della campanella, «Ma è vero che dall´anno prossimo escono alla mezza? Dovrò comprarmi una nonna», battute e paure, si chiedono lumi alle maestre, «dai tigì non si capisce», giri di email, riunioni in pizzeria, «bisogna fare qualcosa», l´emozione del primo volantinaggio a quarant´anni, come ciclostile le stampanti dei computer domestici, «ciascuno faccia cinquanta copie», tutto nel clima un po´ goliardico da prove per la festa di fine anno, «vince una pizza chi disegna il simbolo più bello della notte bianca»; per la cronaca ha vinto un piccolo spettro che sta sveglio la notte «perché la scuola pubblica non sia ridotta a un fantasma».
«Movimento trasversale» per la maestra Laura delle Romagnoli, «perché non è più in gioco un´idea diversa di scuola, come con la Moratti, ma un´idea di meno scuola, e questo non piace neppure a chi vota Berlusconi». L´importante è «non cadere in politica», spiega Marina D´Altri, figlie in seconda e terza; nel suo gruppo è stata decisa questa regola: «si criticano i ministri ma non il premier». Tiro libero su "Gel/mini, il gel che fa rizzare i capelli", zitti su Silvio. Se poi la politica reagisce, ignorarla: Daniele Turchi, papà alle Longhena, è stato decorato sul campo, qualche giorno fa, da un uovo che gli ha centrato la giacca durante un incontro non proprio cordiale col deputato Pdl Garagnani ben difeso dai suoi, ma non ne vuol parlare perché «l´obiettivo non è far la guerra a un governo, ma difendere un bene necessario ai nostri bambini».
Per questo si portano i figli in corteo. «Strumentalizzati», si sentono rinfacciare. «Coinvolti», ribatte Angelo, «c´è differenza. Chiaro che vengono, se glielo chiedono mamma e papà, ma sono in grado di capire che lo facciamo per loro. E poi siamo stati chiari: se i bimbi sono in imbarazzo, non li si porta». «I bambini strumentalizzati sono quelli piazzati per ore davanti alla tivù», è più netta Veronica, «come accadrà in tante case dopo i tagli della Gelmini». Verso sera i cortei s´incrociano, clown bande palloncini, poi entrano nelle scuole concesse dai dirigenti per assemblee e spettacoli, ma solo fino a mezzanotte, chissà come finirà. Sgomberare occupanti di scuola che magari hanno passato gli anta, anche per la Digos sarebbe un debutto.

www.retescuole.net
www.udu.it

l’Unità 16.10.08
Proteste negli atenei, il 14 novembre lo sciopero
Agitazione contro le norme che bloccano la stabilizzazione dei precari degli enti di ricerca


SONO USCITI DALLE UNIVERSITÀ, a Torino, Napoli, Roma. Studenti, dottorandi, ricercatori, personale non docente. Gli atenei hanno iniziato a far sentire la propria voce contro la coversione in legge di un decreto passato in aula ad agosto, mentre le università erano chiuse, e che rischia di mettere in pericolo i già disastrati bilanci degli atenei italiani.
Le parole del ministro Mariastella Gelmini sul fatto che «gli studenti vanno rimessi al centro della nostra missione, tornando a fare dell’università uno strumento straordinario di mobilità sociale e concentrando i nostri sforzi sulla qualità dell’offerta», non coincidono con i tagli previsti da quella «legge 133 del 6 agosto 2008». Da più parti, come all’università «La Sapienza» di Roma si chiede ai Rettori il blocco della didattica. Oggi il rettore della prima università romana Luigi Frati discuterà con loro nell’assemblea di ateneo. Le richieste che arrivano dalle facoltà in mobilitazione chiedono lo stop della didattica. In caso di risposta negativa gli studenti potrebbero anche decidere di occupare l’università.
Gli appuntamenti per far sentire la propria voce non mancano. Già domani a Roma, nell’ambito del corteo organizzato dalle rappresentanze di base ci sarà uno spezzone organizzato dagli studenti. Ma è di ieri anche la notizie di un’ulteriore mobilitazione dei sindacati confederali, che, dopo lo sciopero generale del 30 ottobre, potrebbero proclamarne uno di settore il 14 novembre: «Sarà il culmine di una grande fase di mobilitazione sociale - spiega Domenico Papaleo, segretario generale Slc-Cgil - che vedrà unite tutte le sigle sindacali per difendere i tagli indiscriminati che il Governo vuole applicare ad università, ricerca e conservatori». La spinta ad accelerare la richiesta di uno sciopero è arrivata proprio dal basso, dalle contestazioni spontanee di questi giorni. «Non c’è un progetto che si possa chiamare tale - sostiene Luigia Melillo, responsabile dell’associazione professionale universitaria - mentre si stanno applicando forti tagli che assieme al blocco del turn-over metteranno in ginocchio il sistema universitario italiano».
e.d.b.

l’Unità 16.10.08
Nel fortino della Sapienza: «Pronti al blocco, non vogliamo l’università in mano alle banche»


La lezione di Diritto pubblico sullo Statuto Albertino del professor Francesco D’Onofrio, esponente Udc già ministro della Pubblica Istruzione, è interrotta intorno alle undici e mezza dall’assemblea degli studenti arrivati in massa nell’aula A al secondo piano di Scienze Politiche della Sapienza. L’ex ministro dell’Istruzione si ferma ad ascoltare l’assemblea ed interviene solo per una breve nota: «Almeno qui si discute, al Senato non è stato possibile».
Già, perché l’obiettivo principale della protesta che qui come in altre parti d’Italia ha già acceso focolai nelle facoltà di Psicologia, Fisica e Lettere, è la legge 133 del 2008, ennesima conversione di un decreto legge (questa volta di finanza), passata a Palazzo Madama in pochi minuti nell’agosto trascorso.
Una legge che tiene dentro, per quanto riguarda l’università, tagli di 1,5 miliardi in 5 anni, la possibilità per gli atenei di trasformarsi in fondazioni di diritto privato e un rallentamento del turn-over al 20% (ogni cinque professori pensionati se ne potrà assumere uno).
Eppure non c’è solo questo nelle parole di Dario, Vanessa, Luca, Francesco e Carlo. Non c’è solo questo nello slogan della protesta che all’una del pomeriggio parte dall’aula di Scienze Politiche per arrivare in un corteo interno a Lettere e poi uscire per strada, su un percorso concordato che gira attorno all’università seguendo la direzione del traffico.
Lo slogan che afferma «Noi la crisi non la paghiamo» è il manifesto di questa generazione tenuta a mollo negli atenei italiani, convinta che in un diverso modello di sviluppo potrebbe essere considerata una risorsa per il Paese. E invece è messa dietro «la competizione dei tondini di ferro con la Cina». E alle beghe di cassa.
«Questa crisi non l’abbiamo determinata noi, ma gli speculatori. Le banche a cui questo decreto vorrebbe dare la possibilità di entrare all’università». Luca Cafagna ha 24 anni, studia a Scienze Politiche, e vede che nel suo futuro si sta facendo strada un modello «americano», con lo Stato che toglie soldi dal Welfare, da Sanità, Scuola e Istruzione per darlo in mano alle banche «e non coglie il segno storico di quello che sta succedendo». Con le banche che arrancano davanti alla crisi di prestiti e mutui «di quelle famiglie che devono pagare l’assicurazione per gli ospedali e mettere da parte i soldi per iscrivere i figli all’università». Un’idea condivisa da Francesco Raparelli, che di anni ne ha 30 e prende 800 euro al mese per fare un dottorato di ricerca in filosofia politica a Firenze: «340 euro se ne vanno per l’affitto, 250 per spostarsi ogni mese tra Roma e Firenze. E questo è solo il presente perché il futuro non c’è. Siamo passati dall’incertezza alla catastrofe». Certo, afferma, quando iniziò l’università aveva idea di concentrarsi sullo studio, di avviarsi sul percorso scivoloso della ricerca che in Italia non ha mai pagato in termini economici. Oggi, però, raggiunto quel primo obiettivo, davanti non vede niente. E non è colpa solo di questa legge 133 che toglie soldi all’università senza nemmeno disegnarne un assetto coerente. È che da anni il Paese ha scelto di concentrarsi su altro.
Vanessa, che di anni ne ha 24 e frequenta Scienze Politiche, è convinta di stare studiando a vuoto, che quelle lezioni che segue giorno per giorno alla fine non la porteranno nel posto che meriterebbe. Che gli stessi insegnamenti a volte siano «troppo specifici» per essere spendibili nel mondo del lavoro. Che loro, alla fine, saranno dei precari che non si spenderanno nelle cose che hanno studiato. Ma che si fa? Cosa chiedono questi ragazzi? Risponde sempre lei: «Chiediamo che lo Stato investa sull’università e sulla ricerca. Che investa su di noi e che non ci tratti come una questione finanziaria. Guarda, già ci hanno abituato con la messa in funzione dei “crediti” e dei “debiti” scolastici». Come dice Stefano, 25 anni, due esami alla tesi e un presente da studente-lavoratore (proiezionista e gestore di un banchetto che vende libri): «Non è possibile che a questa età dobbiamo ancora vivere con i genitori perché non riusciamo ad avere i soldi in tasca per andarcene di casa». È lui che nell’aula di Scienze Politiche ha lanciato intorno all’una l’idea del corteo interno, mentre nei plessi di fianco continuavano a tenersi assemblee pubbliche.
Dietro a queste proteste non ci sono partiti, come spiega Dario, ma reti e movimenti di studenti. Nell’immaginario collettivo c’è ancora la Francia. Non quella del maggio di quarant’anni fa, ma quella degli studenti che nel 2005 misero all’angolo il «contratto di primo impiego» (Cpe) del governo di Dominique De Villepin (Nicolas Sarkozy ministro dell’Interno). Quella delle occupazioni e dell’ultima lotta studentesca vinta.
Prima di tutto, però, la battaglia va combattuta contro il luogo comune che sta sommergendo, in nome di una bizzarra efficienza economica, una parte delle battaglie della sinistra nel nostro Paese. Quello che tiene tutto sullo stesso piano. Sintetizzato nello slogan di ribellione del personale non docente rivolto all’assemblea di Scienze Politiche: «Noi non siamo fannulloni, voi non siete bamboccioni».
Eccolo il nodo del problema. Sottolineato anche dalle parole di Vanessa che spiegano quel «Noi la crisi non la paghiamo». Non è una ritirata dei ragazzi dalle proprie eventuali responsabilità: «È al contrario una presa di coscienza. Noi vogliamo impegnarci. Vogliamo fare la nostra parte. Vogliamo solo che qualcuno creda in noi».
La legge 133 è la prima battaglia di una lotta politica che appare lunga e che non tiene dentro, per ora, nemmeno tutto il corpo studentesco.
Dario spiega: «Vogliamo il blocco della didattica. È l’unico segnale possibile per dire che l’università reagisce a questo ennesimo taglio». Oggi il Pro-rettore Luigi Frati risponderà alla richiesta degli studenti. Non sembra ci si orienti su questa linea. Come spiega Fulco Lanchester, preside di Scienze Politiche: «Io verrò all’assemblea, ma devo anche garantire che chi voglia fare lezione possa farlo».

l’Unità 16.10.08
«No Gelmini day and night», notte di lotta per la scuola
Cortei, fiaccolate e assemblee da Bologna a Cosenza, da Milano a Roma. Dove è stato occupato il Mamiani
di Maristella Iervasi


L’IDEA DELLA NOTTE bianca della scuola pubblica è partita da Bologna e in un baleno i coordinamenti nazionali di genitori e insegnanti hanno dato vita al «No Gelmini Day & Night». Da Milano a Castrovillari (Cosenza), passando per Brescia, Mestre, Viareggio, Parma, Roma, e Sassari, la protesta anti-Gelmini è scattata all’unisono: al mattino tutti in classe, poi dall’imbrunire a mezzanotte tutti nelle scuole per un pigiama-party o nelle piazze dei municipi a «far rumore», in corteo con fiaccolate o riunuti in assemblee con ospiti d’eccezione. Come all’elementare Francesco Crispi di Monteverde Vecchio, a Roma, dove Don Roberto Sardelli, il sacerdote che nel ‘68 fondò la «scuola 725» tra i figli dei barraccati dell’Acquedotto Felice e dal quale fu tratto il documentario «Non tacere», si è seduto tra le mamme e i papà del quartiere raccontando la sua esperienza unica. La ministra sottoaccusa, Mariastella Gelmini, intanto ieri mattina è salita al Quirinale per fornire chiaramenti al presidente Napolitano sui suoi provvedimenti che non piacciono neppure alle Regioni.
Il movimento anti-Gelmini non si ferma. Dalle elementari la mobilitazione sta facendo breccia anche nelle medie, mentre tra gli studenti delle superiori è già in atto. Tant’è che ieri è partita la prima occupazione, il liceo Classico «Mamiani» di Roma lo definisce «presidio permanente», una nuova forma di autogestione, volta a far comprendere a tutti cittadini i reali disagi e i punti critici della controriforma sulla scuola.
Parate rumorose e colorate nel quartiere multietnico di Piazza Vittorio, nel primo municipio capitolino. In 300 tra mamme, papà e bambini della Beccarini e della Donati hanno ribadito la loro contrarietà al maestro unico. «Il modo migliore per l’integrazione e per imparare l’italiano - sottolinea un genitore bengalese - è quello di di vivere insieme e non di creare classi separate». Un chiaro riferimento alla mozione leghista sulle classi differenziate per gli immigrati, da poco passata alla Camera. E non finisce qui. Il Coordinamento «Non rubateci il futuro» sottolinea che una una riforma della scuola è necessario, «ma non così: tagliano i fondi, tagliono le ore e rifiutano qualsiasi confronti in Parlamento e nel paese con chi la scuola la fa e la vive tutti i giorni». Così ecco che solo a Roma i concentramenti anti-Gelmini erano oltre una decina. E L’elementare «Andersen» di Roma Nord va avanti l’occupazione senza interrompere la didattica.
Intanto al Senato non è escluso il bis della fiducia sul decreto 137 la commissione Affari Costituzionali ha dato parere favorevole (Pd, Idv e Udc hanno votato contro). Il popolo della scuola ne è cosciente. Tant’è che domani riponderà all’appello dei Cobas e il 30 ottobre allo sciopero generale dei confederali.

l’Unità 16.10.08
Apartheid scolastico, Lega isolata
Classi differenziali, sdegno da tutte le forze politiche. Epifani: atto di inciviltà
di Simone Collini


JEAN LEONARD TOUADI parlamentare del Pd che è nato nella Repubblica del Congo e che certe dinamiche le conosce bene, racconta che «la Lega non si è inventata niente». E spiega: «Le ‘classi ponte’ proposte dal Carroccio esistevano già qualche anno fa, nel Sudafrica delle discriminazioni. La stessa parola “Apartheid” significa, in lingua boera, “sviluppo separato”. Stiamo giocando con il fuoco». L’eurodeputato della Sinistra europea Vittorio Agnoletto ricorre invece agli studi storici: «Prima di Cota ci aveva già pensato Goebbels». Il riferimento al ministro della Propaganda nazista viene argomentato col fatto che «classi ebraiche statali» e per stranieri «furono istituite dal regime nazista»: «La propaganda spiegò al popolo tedesco che i cambiamenti avrebbero migliorato le condizioni di vita tanto dei cittadini del Reich quanto degli stranieri», ricorda. «Oggi Cota usa parole non molto diverse».
In realtà, la mozione presentata dal parlamentare leghista e approvata l’altro ieri alla Camera con i voti del centrodestra fa di più. Per giustificare la norma delle classi separate per gli alunni stranieri che non abbiano superato dei test ad hoc, il provvedimento introduce una formula piuttosto circonvoluta: «La scuola italiana deve essere in grado di supportare una politica di “discriminazione transitoria positiva”, a favore dei minori immigrati». Per l’opposizione, ma anche per pezzi della maggioranza, per il sindacato, per amministratori locali di diverso colore politico, per associazioni le più diverse e per il Vaticano, questa mozione introduce una «discriminazione» punto e basta.
«Dio ci scampi dall’idea di classi separate», dice Walter Veltroni definendo «inconcepibile» il documento approvato. Il segretario del Pd invita ad immaginare cosa sarebbe accaduto se «nella Torino degli anni 60 fossero state fatte delle classi differenziate per i figli di immigrati che non parlavano bene l’italiano. Che Italia avremmo costruito?». Il leader dei democratici promette che se il Pdl tenterà di trasformare la mozione leghista in una legge, il suo partito «farà in aula tutto quello che è possibile fare per bloccarla».
Il destino della mozione è tutt’altro che chiaro. È esclusa la riconversione del testo in emendamento al decreto Gelmini, che martedì sarà discusso al Senato. Piuttosto, le voci critiche che si levano nello stesso centrodestra e anche in ambienti esterni al mondo politico fanno prevedere un percorso quantomeno ad ostacoli.
La presidente della commissione Bicamerale per l’infanzia Alessandra Mussolini parla di «provvedimento razzista» e chiede un incontro urgente con il ministro dell’Istruzione Gelmini. Gianni Alemanno definisce «necessaria una pausa di riflessione prima che la mozione si traduca in norma di legge». Il sindaco di Roma auspica anche «un confronto con il mondo del volontariato, l’associazionismo cattolico e con tutti coloro che operano nel campo dell’istruzione e dell’immigrazione».
Tutti settori che hanno già espresso dure critiche. Il segretario della Cgil Guglielmo Epifani parla di «atto di inciviltà verso tutti i bambini, siano essi figli di immigrati o di italiani» e di una divisione che «richiama gli aspetti bui dell’apartheid». «L’idea di ghettizzare bimbi immigrati in classi differenziate» non piace neanche al segretario dell’Ugl Renata Polverini. Preoccupazione viene espressa dall’Anci, dall’Arci, da Legambiente e da tante altre associazioni e sigle del mondo del volontariato. E anche il Vaticano è intervenuto auspicando adeguate politiche per l’integrazione: «Un indicatore molto importante del grado di inserimento dei giovani - dice l’arcivescovo Agostino Marchetto, segretario del Pontificio Consiglio per la Pastorale dei Migranti e degli itineranti - è la loro integrazione nel sistema formativo del Paese di residenza».

l’Unità 16.10.08
Nel mondo 70 milioni di bimbi senza scuola, 250mila sono soldati
Il rapporto di Save the Children. Dure accuse al governo italiano avaro di fondi ma «generoso» nella vendita di armi ai Paesi in guerra
di Emiliano Dario Esposito


UN FUTURO Riscrivere il futuro, quando quello che si prospetta per milioni di bambini è senza speranza, segnato. Ci sta provando Save the Children, che ha
presentato ieri il rapporto sui primi due anni della campagna «Riscriviamo il Futuro», incentrata sullo sviluppo scolastico e la cessazione dell’uso di bambini soldato nei paesi in conflitto. Un tentativo che sta dando i suoi frutti, ma che vede le istituzioni - mondiali, ma italiane in particolare - insensibili, assenti.
La fotografia della realtà presentata dall’associazione è inquietante. L’indifferenza dei Paesi ricchi fa sì che 70 milioni di bambini non possano andare a scuola, ipotecandone la vita, svalutandone ogni potenzialità. Facendone facile preda di fondamentalismi, di promesse di «giochi di guerra» da parte di uomini senza scrupoli. Le cifre sono terribili: 250 mila minori suono attualmente arruolati in eserciti non governativi. Di recente in guerra due milioni sono morti, sei milioni sono stati feriti, resi invalidi o hanno subito gravi traumi psicologici.
E sotto il fuoco delle armi e della violenza collassa anche il sistema scolastico dei paesi in conflitto: insegnanti uccisi, scuole distrutte o trasformate in caserme. In Afghanistan, ad esempio, solo la metà dei bambini tra i 7 ed i 13 anni frequenta la scuola. In Nepal i maoisti, ora al governo, chiusero mille scuole e rapirono 12 mila studenti per indottrinarli o arruolarli nell’esercito ribelle.
Vernor Munoz - responsabile delle Nazioni Unite per il diritto all’educazione - parla della scolarizzazione come del primo dei diritti inalienabili. «La Dichiarazione Universale dei diritti umani, la Carta dei diritti dell’infanzia e lo Statuto di Roma affermano chiaramente - spiega Munoz - che il diritto all’educazione non è suscettibile di sospensioni, la guerra non può tenere i bambini lontani dalla scuola. L’istruzione riunisce le giovani vittime della guerra, ne ricuce il tessuto sociale».
A proposito di quanto la campagna «Riscriviamo il Futuro» non sia sostenuta dal governo italiano, Valerio Neri - direttore generale di Save the Children Italia - è chiaro: «Nel 2007 Save The Children da sola in Italia ha raccolto 2,5 milioni di euro, laddove il governo italiano ne ha stanziati soltanto tre». Il nostro Paese, del resto, è al terz’ultimo posto nella lista dei grandi donatori in aiuti all’istruzione di base. «Siamo una nazione ipocrita - continua Neri - noi, come gli altri del G8, vendiamo armi a stati che non rispettano i diritti umani, stati che fanno imbracciare queste armi ai bambini. L’Italia tra il 2002 ed il 2007 ha venduto armi in Uganda, Eritrea, Algeria, Colombia, Congo». Ma anche Afghanistan, Burundi, Ciad, Nepal, Nigeria, Pakistan, Sierra Leone. Soprattutto bombe a grappolo, «dormienti» fino a che non vengono calpestate, spesso proprio da bambini. E intanto il nostro governo riduce i fondi per la cooperazione internazionale.
I Paesi del G8, Italia compresa, detengono l’84% delle esportazioni di armi nel mondo. I compratori, d’altra parte, sono Stati che spendono 18 milioni di dollari l’anno in armamenti e nulla per le proprie scuole: considerano i figli delle loro terre come niente più che soldati.
Non c’è soltanto denuncia, nel rapporto di Save the Children: a due anni dalla partenza dell’iniziativa «Riscriviamo il futuro» l’associazione ha raggiunto risultati concreti. Sei milioni di bambini hanno adesso garantita un’educazione primaria, grazie a donazioni per un totale di 300 milioni di euro. La raccolta di fondi continua, ma l’obiettivo di creare un movimento, di coinvolgere i governi dei paesi più sviluppati, è ancora lontano.

Repubblica 16.10.08
Berlusconi a Bruxelles parla della sua longevità politica
"Governerò per 19 anni quasi come quello là..."
di c.t.


BRUXELLES - «Ho fatto i conti. E alla fine di questa legislatura sono quasi 19 anni che sto qui. Quanti anni è stato invece. quel signore là?». E «quello là» sarebbe Benito Mussolini. Che, senza elezioni democratiche e con poteri dittatoriali, ha guidato l´Italia per un «Ventennio». Ad azzardare il paragone è stato Silvio Berlusconi. Al termine della conferenza stampa che ha chiuso la prima giornata del vertice europeo, non è riuscito a trattenere la battuta. Ha salutato i giornalisti, gli ha spiegato di considerarsi un «veterano» di questi summit e poi, sorridendo, ha fatto un po´ di conto. Dal 1994 (quando è sceso in campo) al 2013 (quando terminerà la legislatura) sono, appunto, 19 anni. Il Duce, in realtà, a Palazzo Venezia c´è stato per un po´ di più: quasi 21 anni ininterrotti, dal 31 ottobre del 1922 al 25 luglio del 1943. Il Cavaliere, invece, ha omesso le sue «pause», ha fatto finta di essere stato a Palazzo Chigi per l´intero periodo. Nel ‘94 è stato presidente del Consiglio solo per 7 mesi e poi è tornato al governo nel 2001 fino al 2006. Sta di fatto che ai cronisti non è sfuggito il parallelo e gli hanno fatto notare che per pareggiare il «Ventennio» gli manca ancora un anno. Il tutto è nato dal ruolo che a suo giudizio svolge l´Italia nel Consiglio europeo. «Noi siamo i più esperti. Io e Giulio (Tremonti, ndr) siamo una grande coppia. Io con la mia esperienza da imprenditore, lui con la sua genialità». Anche perché, osserva, oltre ai «big» dei paesi fondatori, «ci sono quelli dell´Est, ragazzi nuovi. Noi, ahimé, siamo dei veterani. Se penso che con ancora 5 anni, io alla fine sarò stato qui 19 anni».
Chi sa se facendo tornare la memoria a 60 anni fa, non abbia avuto un peso l´ultimo sondaggio citato da Berlusconi. Sulla sua scrivania, infatti, spunterebbero cifre «bulgare», o per meglio dire «nostalgiche». «Io - ha riferito - ho dei sondaggi affidabili, che hanno sempre avuto ragione, e che mi danno il consenso al 70,2%. E´ una cosa francamente imbarazzante, da lì non si può che scendere, lo so». Eppure, in passato, aveva accuratamente evitato toccare la materia. Da Fascismo e Resistenza si era sempre tenuto alla larga. «Non voglio entrare in questa discussione che va lasciata in un angolo - aveva detto il 15 settembre scorso dribblando le polemiche suscitate dai richiami di Ignazio La Russa e Gianni Alemanno alla Repubblica di Salò - . Sono abituato a guardare avanti e non mi attardo in questi problemi che non mi toccano, lascio questa discussione ad altri».

Repubblica 16.10.08
"Con le norme taglia-precari il ministro non sarebbe professore"


ROMA - «Con le norme "ammazza precari" il ministro Brunetta non sarebbe diventato professore». Lo ha denunciato nel suo intervento alla Camera il deputato del Pd componente della commissione Cultura, Giovanni Bachelet, che aggiunge: «Brunetta dovrebbe sapere più di altri che fermare simultaneamente i concorsi e la stabilizzazione di molti ricercatori negli enti di ricerca sarebbe una catastrofe. D´altronde, proprio lui, è diventato professore associato con i concorsi del 1981, quei concorsi anche detti "grande sanatoria", con i quali tutti quelli che a vario titolo erano precari nelle Università sono stati accettati come professori con un concorso riservato». «Quello che più critichiamo - prosegue Bachelet - è che il governo con la finanziaria blocca il turnover dell´Università ed impedisce nuovi concorsi e con l´emendamento "ammazza precari" ferma le stabilizzazioni».

Repubblica 16.10.08
La figlia di Guido Rossa "Liberate il Br che uccise mio padre"
"È stato in prigione 28 anni ormai ha pagato la sua colpa"
di Concetto Vecchio


Appello al giudice che ha negato la condizionale all´ex br Guagliardo: "Ci ripensi"

ROMA - Il tribunale di sorveglianza nega la libertà condizionale all´ex brigatista Vincenzo Guagliardo, l´assassino del sindacalista Guido Rossa, e la figlia della vittima, Sabina Rossa, deputata pd, a sorpresa si dice in disaccordo: «I magistrati ci ripensino. Guagliardo l´ho conosciuto, è un uomo ravveduto, che ha pagato il conto con la giustizia». Nome di battaglia "Pippo", sessant´anni, colonna genovese, duro, irriducibile, l´ex br è in carcere dal 21 dicembre 1980, dopo l´arresto a Torino in un bar di corso Brescia. Condannato all´ergastolo. Sei anni fa ammesso al lavoro esterno, da quattro semilibero: esce la mattina da Rebibbia per andare a lavorare in un coop sociale, la Soligraf, dove insieme alla moglie, l´ex br Nadia Ponti, trasferisce su un software per non vedenti intere biblioteche, e rientra in cella alle 23. L´altro giorno la magistratura di sorveglianza di Roma ha respinto la richiesta di libertà condizionale, avanzata dal suo legale, Ugo Giannangeli. Tra le motivazioni: il fatto che non abbia mostrato ravvedimenti né coltivato rapporti con le vittime. Ma un incontro con Sabina Rossa ci fu, agli inizi del 2005, a Melegnano, e fu riportato nel libro Guido Rossa, mio padre, edito da Bur Rizzoli. La figlia gli aveva telefonato senza preavviso, poi gli aveva scritto una lettera, quindi si erano visti in un pomeriggio di fitta neve nel quale s´erano intrecciati per tre ore dolore, imbarazzo, pudore. «Penso sia mio dovere dirti com´è andata. Non davanti ai giudici o nelle aule di tribunale, ma a te lo devo...», esordì "Pippo".
Si persero di vista. Guagliardo non ne parlò mai, nemmeno nella richiesta di liberazione condizionale, con la stessa ferrea coerenza con cui rifiutava i difensori al processo: «Avvocato, taccia se non vuol fare la fine del suo collega Rogolino, pestato nel carcere di Cuneo da un militante comunista. Nella mia veste di brigatista rosso, non voglio essere difeso da nessuno», disse nell´aula bunker di Torino, il 22 febbraio 1981. Guido Rossa doveva essere gambizzato, questo è confermato anche dalle perizie. Guagliardo gli sparò alle gambe con la Beretta 81 calibro 7,65, un altro componente del commando, Riccardo Dura, lo ammazzò. Sabina aveva 16 anni. Dice oggi: «Ha fatto 28 anni di carcere, ha pagato. Trovo paradossale che il tribunale non ritenga importante il nostro incontro solo per il fatto che fu io a propiziarlo. Vorrei andare a parlare con i giudici, per spiegare che non c´è alcuna ragione che se ne stia ancora in carcere».
Rossa si è espressa contro la decisione del governo Sarkozy di non estradare la terrorista rossa Marina Petrella. «Lo trovo incomprensibile, perché in questo caso la pena non è stata espiata. Una volta in Italia, in attesa di un´eventuale grazia, sarebbe trattata con spirito umanitario, e non semplicemente sbattuta dentro una cella». Oggi Le Monde pubblica una lettera inviata dalla Petrella al suo avvocato Irene Terrel il 19 luglio nella quale afferma di provare pena e compassione per le vittime delle Br, e di ritenere «la perdita di una vita umana sempre una tragedia».

Corriere della Sera 16.10.08
La ricerca del Viminale segnala una diminuzione (meno 10,1 per cento) dei reati commessi nei primi sei mesi del 2008
Registrato un meno 12,9 per cento nei furti e un meno 4,7 per cento nelle rapine. In aumento quelle nei negozi
Omicidi in famiglia «È la nuova emergenza»
In aumento. Un delitto su quattro tra le mura di casa
di Fiorenza Sarzanini


E' il numero che spicca, il dato che inquieta. Perché calano gli omicidi commessi in Italia, ma aumenta in maniera vertiginosa il numero di quelli avvenuti in famiglia. Basti pensare che nel 2005 i delitti tra le mura domestiche erano il 14,3 del totale e nel primo semestre 2008 la percentuale è balzata fino al 24,7. Vuol dire che ben uno su quattro scaturisce da atti di violenza tra coniugi oppure tra genitori e figli.
La diminuzione dei reati
L'ultima analisi sull'andamento della criminalità da gennaio a giugno di quest'anno fornisce una fotografia eloquente di quanto sta avvenendo nel nostro Paese. Perché evidenzia, tra l'altro, come il numero dei reati compiuti da stranieri si equivalga con quello dei delinquenti italiani. A cambiare è soltanto la tipologia delle violazioni, visto che chi arriva dall'estero si è specializzato nei furti e nelle rapine di abitazione, mentre per scippi e rapine in strada e in banca rimane il predominio della malavita locale. I numeri mostrano la diminuzione forte della delittuosità, pari al 10,1 per cento. Ma fanno scattare l'allarme per quanto avviene in ambito familiare. Perché quei segnali negativi già rilevati negli anni scorsi adesso sono un dato concreto ed eclatante di quanto le esplosioni di violenza sempre più segnino i rapporti tra persone che appartengono ad uno stesso nucleo.
Nel secondo semestre del 2007 ci sono stati 308 omicidi. Di questi, il 9,5 per cento è stato commesso da appartenenti alla criminalità organizzata e il 39,7 da delinquenti comuni. Ben il 21,9 è nato invece da «dissidi familiari o per motivi passionali». La situazione già grave negli anni scorsi, è ulteriormente peggiorata. Su 297 delitti, l'8,9 per cento è stato compiuto nell'ambito di faide tra clan, il 34 da criminali comuni e quasi il 25 per cento per liti tra parenti.
Difficoltà di affermazione sociale
Secondo l'ultimo rapporto pubblicato dal Viminale e relativo al decennio che va dal 1996 al 2006 «nella maggioranza dei casi è il coniuge, il convivente o il fidanzato maschio ad uccidere la propria compagna. Questo risultato non ci sorprende: la violenza si esercita di norma dal più forte verso il più debole, di conseguenza le donne risultano più esposte rispetto ai compagni. Quando, invece, il rapporto di parentela tra autore e vittima è genitore-figlio, i maschi hanno una probabilità maggiore di essere le vittime di questo efferato crimine». Nella relazione veniva poi evidenziato come «non bisogna dimenticare che gli omicidi da parte di autore di sesso femminile sono una minima parte di quelli commessi e solitamente avvengono nei confronti del proprio partner, in ambienti quindi familiari. In Italia quasi la metà delle donne che agiscono da sole nella commissione di un omicidio hanno come vittima un uomo; la stessa situazione nelle zone del Mezzogiorno risulta più accentuata, con una differenza rispetto al dato nazionale di quasi dieci punti.
Il fenomeno dei delitti familiari è stato analizzato anche dal professor Paolo Albarello, nell'ambito di un master organizzato per conto dell'Università La Sapienza di Roma. La ricerca delle cause che scatenano esplosioni di violenza tra persone legate da vincoli di sangue o comunque da rapporti di affetto e di amore, rimane infatti uno dei campi maggiormente esplorati nell'ambito della criminologia. Secondo il docente, esperto di medicina legale, «gli individui incontrano sempre più spesso difficoltà nel dover fornire continuamente risposte, in termini di adattamento, di integrazione e di affermazione sociale ad una serie di richieste e di aspettative sempre più alte e complesse, il che aumenta il senso di insoddisfazione e moltiplica le frustrazioni. Il nucleo familiare diviene sempre più di frequente il luogo di implosione delle spesso inconciliabili aspirazioni di affermazione sociale con il patrimonio di valori interiorizzato dagli individui fin dai primi anni di vita».
Tutti in calo i «delitti predatori»
Non a caso il Sap, il sindacato autonomo di polizia, ribadisce la richiesta di «una normativa di tutela che permetta alle Forze dell'Ordine di poter intervenire, concretamente, nella prevenzione di questo tipo di reati e non soltanto nella repressione».
«È necessario investire nella formazione e nella preparazione del personale - chiarisce il segretario Nicola Tanzi - perché le dinamiche di cambiamento della società sono veloci e gli operatori, la cui professionalità spesso nasce spesso dall'esperienza personale e da doti umane non comuni, hanno necessità di essere costantemente aggiornati».
La fotografia dell'Italia criminale fornisce anche altre cifre eloquenti. Si scopre che i reati commessi nei capoluoghi sono diminuiti dell'8,3 per cento e ancor di più nelle altre aree con un calo che arriva quasi al 12 per cento. Complessivamente sono state compiute 1.286.391 violazioni penali, ben 145.208 in meno rispetto all'ultimo semestre del 2007 e 215.156 in confronto allo stesso periodo dello scorso anno. I reati «predatori» sono tutti in netto calo. Vanno giù i furti (691.619 con un meno 12,9 per cento), gli scippi (9.403, -13,4), le rapine (23.206, -4,7). Interessante è anche il dato che riguarda il rapporto tra cittadini e forze dell'ordine. Si scopre infatti che le stazioni dei carabinieri continuano ad essere il luogo dove maggiore è l'affluenza di denunce: tra gennaio e giugno il 65,5 per cento di chi doveva segnalare un delitto si è rivolto a loro.

Corriere della Sera 16.10.08
Ecco perché parlare di razze non ha senso
di Guido Barbujani


Le nostre caratteristiche variano in maniera discordante La maggior parte delle varianti del Dna sono cosmopolite
Siamo tutti diversi: abbiamo pelli, occhi e capelli di colori diversi, pesi e stature diverse; abbiamo diverse tendenze ad ammalarci e a rispondere alle stesse terapie, diverse capacità intellettive, caratteri diversi.
Da sempre l'umanità si interroga sull'origine di queste differenze. La risposta tradizionale è a lungo stata che riflettono l'appartenenza a razze diverse. La nostra specie sarebbe composta da razze, cioè gruppi ben distinti, come i cavalli o i cani. Nonostante ad alcuni sembrino evidenti, definire, e addirittura contare, queste razze si è rivelato però un problema insormontabile. Nel corso dei secoli gli elenchi pubblicati da scienziati seri hanno compreso da tre a centinaia di razze. Il problema è che le caratteristiche umane variano in maniera discordante: si possono raggruppare gli individui sulla base del colore della loro pelle, ma se si considera un altro carattere, per esempio la statura o il gruppo sanguigno, i gruppi non sono più gli stessi. Dunque, non ci sono razze non perché siamo tutti uguali (non lo siamo) ma, al contrario, perché siamo molto diversi fra noi: così tanto che non è possibile pensare la nostra diversità immaginandosi poche razze distinte fra loro.
Negli ultimi anni abbiamo imparato moltissimo sulla composizione del nostro genoma, e sulle differenze ereditarie fra le diverse popolazioni della terra. È emerso con chiarezza che nell'umanità non ci sono confini biologici: non si possono disegnare sulla carta geografica linee che separano nettamente alcune popolazioni dalle altre. La maggior parte delle varianti del Dna sono cosmopolite, cioè presenti, a frequenze diverse, in persone di tutto il mondo. Una piccola parte delle varianti del Dna è presente in un solo continente, e quasi sempre questo continente è l'Africa. Perciò nel nostro Dna non troviamo razze biologicamente riconoscibili, ed emerge che l'Africa non è un continente come tutti gli altri. Gli studi sui nostri antenati fossili ci fanno capire perché: indicano che siamo tutti discendenti di una popolazione che centomila anni fa o giù di lì stava in Africa. Da lì, i nostri antenati si sono espansi colonizzando tutta la terra, passando in Europa e Asia, e dall'Asia in Oceania e nelle Americhe. Nel corso di questa espansione, si sono estinte le popolazioni di altre creature simili a noi, che vivevano in Europa e Asia, ma non erano i nostri antenati (in Europa, l'uomo di Neandertal).
Capire la nostra biodiversità, da dove vengano, come si siano evolute e siano oggi distribuite le differenze fra tutti noi, non è solo importante in sé e per sé, ma permette di indirizzare meglio la ricerca in campo medico e farmaceutico. Permette inoltre di capire che ci sono molte differenze nei nostri modi di sentire, di pensare e di confrontarci con gli altri, ma che queste differenze sono il frutto delle diverse culture, non di una sentenza scritta nel Dna delle nostre cellule e pronunciata al momento del nostro concepimento.
Guido Barbujani, professore di Genetica all'Università di Ferrara, interverrà, insieme con Francesco Cassata, al Festival della Scienza il 24 ottobre con una conferenza sul tema «L'invenzione della razza. Le ambigue basi biologiche che hanno influenzato la storia»

Corriere della Sera 16.10.08
Una ricerca sull'incoerenza nell'ultimo libro dell'economista comportamentale
Emozioni, aspettative, norme sociali: così diventiamo logicamente irrazionali
Dan Ariely: «Scegliamo, compriamo, consumiamo in base a un imprinting»
di Roberta Scorranese


Economista comportamentale, docente al prestigioso Massachusetts Institute of Technology di Boston e alla Duke University, autore di «Prevedibilmente irrazionale» (da oggi in libreria per Rizzoli) Dan Ariely illustra la sua complessa ricerca sulle incoerenze del comportamento umano. «Ma prima — dice —, se permette, vorrei venderle un televisore ».
Irrazionalità accademica? No, solo un esempio. «Davanti a tre televisori — continua —, uno super accessoriato e costoso, un altro accessoriato ma meno costoso e un terzo intermedio, la scelta ricadrà su quest'ultimo ». Irrazionale: non scegliamo il meno costoso, ma quello che ci sembra «più simile» al meglio. E il fatto è che non sappiamo quale sia il meglio: scegliere è più difficile di quanto sembri, così ci affidiamo a impulsi che poco hanno a che fare con la ragione. «Pura "economia comportamentale" — spiega Ariely, che interverrà il 24 ottobre al Festival della Scienza —. Ossia scelte prive di razionalità, ma prevedibili. Che facciamo tutti i giorni».
Così, al supermercato acquistiamo un «tre per due», solo perché un prodotto è gratis (anche se quel sugo di noci non ci serve). In profumeria ci lasciamo sedurre da una crema solo perché costa di più e associamo arbitrariamente prezzo e valore. Ci convinciamo che un amore difficile è quello giusto solo perché ci spaventa cambiare. Per non parlare del panico (irrazionale) che attanaglia i mercati finanziari nei momenti di crisi. «Quello che sta succedendo alle Borse — dice Ariely — non è che l'emotività, umanissima, che riaffiora e che prende il sopravvento sulla razionalità ».
Per Ariely è la conferma che, a guidare le nostre azioni, sono tre forze invisibili: le emozioni, le aspettative e le norme sociali. «Difficilmente consideriamo una cosa in sé — prosegue il professore — ma la inseriamo in un contesto che faccia da termine di paragone, da confronto ». Ecco il cuore di questa ricerca: siamo incapaci di valutare le cose. Chiediamo aiuto ad altro. Alle convenzioni sociali, per esempio. Se un uomo invita una donna al cinema e le regala un profumo da cento euro, lei sorride. Ma se le regala direttamente cento euro, lei si infuria. «Non è irrazionale ciò?», ride Ariely.
Dalle piccole alle grandi scelte: nel romanzo «I duellanti» di Joseph Conrad, due ufficiali dedicano la vita a sfinirsi in un corpo a corpo, iniziato per un banale diverbio. Illogico, ma prevedibile, per il professore: «In un dato contesto, anche il minimo particolare diventa importante e determina una scelta». In fondo, in quanti si accorgono che le «guerre umanitarie» sono un ossimoro? Siamo influenzabili: ci sono avvocati che rifiutano di difendere una comunità per pochi soldi, ma lo fanno gratis se si tratta di battersi per una causa etica. E ce lo insegna anche Mark Twain, quando Tom Sawyer convince gli amici a riverniciare lo steccato semplicemente dicendo: «Che fortuna, pensate: possiamo dipingere una staccionata! ».
Siamo come le oche di Lorenz? Il famoso etologo scoprì che le oche, appena nate, si accodano al primo essere in movimento che vedono. «Così anche noi — spiega l'economista — restiamo ancorati alle prime decisioni che prendiamo». Paghiamo un paio di jeans cento euro e difficilmente, poi, ci discosteremo da questa cifra. Imprinting. Un po' come César Birotteau, indimenticabile personaggio balzachiano: da umile commesso divenne ricchissimo eppure continuò a ragionare da bottegaio. E lo ridivenne. La lezione è, quindi, che tutta la nostra esistenza è dominata da una urgenza di irrazionale? «No — conclude il professore — l'irrazionalità è una parte della nostra vita che dobbiamo imparare a riconoscere e a domare. Davanti a due prodotti di prezzo diverso abituiamoci a leggere le etichette. Mettiamo un tetto alla nostra carta di credito. E guardiamoci intorno».

Repubblica 16.10.08
Van Gogh
Diario intimo di un’anima inquieta
di Paolo Vagheggi


Da sabato, a Brescia, nel Museo di Santa Giulia, cento tra dipinti e disegni del maestro olandese provenienti dalla spettacolare collezione realizzata nel Novecento da Helene Kröller-Müller
Tra i quadri "Uliveto" eseguito nel 1889 a Saint-Rémy, un anno prima della morte
La collezionista preferiva Vincent agli altri: di lui acquistò 91 tele e 175 opere su carta

BRESCIA. Scrisse Giorgio Vasari: «Si può concludere che il disegno altro non sia che un´apparente espressione e dichiarazione di ciò che si ha nell´animo». E forse questo era anche il pensiero di Vincent Van Gogh. Lo racconta l´esposizione allestita dal 18 ottobre al 25 gennaio a Brescia, a Santa Giulia. Una mostra del progetto «Lo splendore dell´arte» che finora ha attirato nella città lombarda due milioni di visitatori e che presenta cento opere del maestro olandese: 85 disegni e 15 dipinti.
E´ il Van Gogh più segreto, intimo, quello che ha scelto il curatore, Marco Goldin, è l´artista impegnato nell´appuntare le proprie emozioni, gli scorci, i volti, tutto ciò che poi sarà espresso con la pittura. Opere su carta. Ovvero disegni e acquerelli, in alcuni casi il seme dei capolavori pittorici più noti: furono prima pensati e realizzati a carboncino o a matita.
E´ il primato del disegno che viene narrato a Brescia ed è la prima, organica mostra italiana dedicata a questa parte dell´attività di Van Gogh, è un «diario dell´anima» di questo artista che il 27 luglio del 1890 decise di chiudere la sua esistenza con un colpo di pistola. E´ un «diario» che appartiene interamente al Kröller-Müller Museum di Otterlo, che unitamente al Van Gogh Museum di Amsterdam, conserva una grande parte dell´intera produzione di Van Gogh.
Il Kröller-Müller Museum prende il suo nome da Helene Kröller- Müller (1869-1939), donna forte e carica di interessi, che collezionò più di undicimila opere d´arte. Gli acquisti furono possibili grazie al capitale accumulato dal marito, Anton Kröller, direttore della Wm. H.Müller&Co, una holding internazionale con interessi nella navigazione, nel commercio e nell´estrazione mineraria.
Helene Kröller-Müller iniziò a collezionare opere d´arte all´inizio del Novecento. L´idea prese forma nel periodo in cui frequentava, insieme alla figlia, un corso sul piacere dell´arte condotto da H.P. Bremmer. Nel 1907 il suo primo acquisto: Treno nel paesaggio di Paul Gabriel. Fu in quel periodo che Bremmer cominciò a farle visita ogni settimana. Diventò il suo consulente personale. Insieme ai coniugi Kröller-Müller, ma spesso anche su loro richiesta, visitò case d´asta, studiosi e galleristi nazionali e internazionali, cercando opera per la raccolta di Helene Kröller-Müller, che si ampliò con grande rapidità. In pochi anni divenne proprietaria della più grande collezione privata di Van Gogh nel mondo (esclusa naturalmente quella della famiglia Van Gogh).
Insieme a H.P.Bremmer, lavorò come consulente anche l´architetto Henry van de Velde. Fu lui ad avvisare nel 1922 Helene Kröller-Müller dell´opportunità di acquistare Le Chahut di Georges Seurat.
Alla fine degli anni Venti Wm. H. Müller & Co., l´azienda dei coniugi Kröller, si trovò al centro di una situazione simile a quella odierna, fu duramente colpita dalla recessione economica internazionale. Fu chiaro che c´era il pericolo di vendere e svendere ogni bene, dalla tenuta di campagna alla collezione di opere d´arte.
Per evitare rischi Helene Kröller-Müller nel 1935 offrì la raccolta allo Stato olandese a condizione che fosse costituito un museo appropriato per ospitarla: un sogno che si concretizzò nel 1938, un anno prima della sua morte, quando divenne prima direttrice del Rijksmuseum Kröller-Müller.
Il museo fu ingrandito nel 1953 con l´aggiunta di un´ala congressi e una galleria dedicata a opere di scultura. Un´ala completamente nuova fu edificata tra il 1970 e il 1977. Al contempo il giardino di sculture del museo si è ampliato negli anni ed è ora uno dei più grandi d´Europa, è diventato un´istituzione internazionale, unica nel suo genere.
La collezione delle signora Helene resta comunque il punto di partenza. Scrisse nel 1933: «Uno dei motivi per i quali ho deciso di creare questa collezione era quello di mostrare che l´arte astratta non è qualcosa di incomprensibile, ma che è sempre esistita. Ecco perché si possono trovare opere antiche vicine a quelle moderne, fianco a fianco. Volevo usare l´antico per supportare il nuovo nella sua ragione di esistere».
Tra gli artisti moderni prediligeva i cubisti, acquistò opere di Picasso e di Juan Gris, e difese le loro ricerche con grande entusiasmo. Ammirava molto anche l´opera di Mondrian. A proposito della sua Composizione in linea del 1917 sostenne che quel quadro era «l´arte cubista nella sua forma più pura».
Ma il suo pittore preferito era Van Gogh, che continua ad essere il cuore pulsante della raccolta: «Il suo valore non sta nei modi dell´espressione, nella sua tecnica ma nella sua umanità, grande e nuova. Egli ha creato il nuovo espressionismo».
Durante la sua vita acquistò ben 91 dipinti e 175 disegni del pittore olandese. Sono quelli che ora sono arrivati a Brescia, capolavori come Uliveto eseguito nel giugno del 1889, a Saint-Rémy, un anno prima della morte. Aveva scritto alla madre: «Qui ci sono dei campi bellissimi con ulivi dalle foglie grigio argento, come salici cimati. Non mi stanco mai del cielo azzurro». Espressioni dell´anima di Van Gogh.

Repubblica 16.10.08
Tutte le emozioni del giovane Vincent
Quella pittura incendiata più vera del vero
Disegnava le cose come le sentiva, e manifestava così la sua vocazione espressionista


BRESCIA. Cento Van Gogh, provenienti da un prestito eccezionale di uno dei fondi museali che più largamente conserva le opere del pittore, il Kröller-Müller di Otterlo, fanno la mostra che Marco Goldin ha curato e presenta quest´anno al Museo di Santa Giulia a Brescia. Sono, in particolare, opere su carta, raramente esposte e poco conosciute se non dagli specialisti: disegni a matita, a penna e inchiostro, pastelli, acquarelli, insieme ad un gruppo di olii che testimoniano dello stadio finale dell´elaborazione del tema di volta in volta prescelto dall´artista. Risalgono, in larga prevalenza, al tempo iniziale dell´attività di Van Gogh: dal primissimo momento in cui - a un´età già abbastanza avanzata; aveva ventisette anni, e alle spalle un lungo impegno come commesso in una importante galleria d´arte, come insegnante e come predicatore laico - egli si determinò a investire ogni suo talento nella pittura, nella povera terra mineraria del Borinage e poi a Bruxelles (1880-´81). E di qui fino agli anni di Nuenen (1883-�85), villaggio del Brabante dove s´era stabilita la famiglia e dove la vita scorreva lenta e eguale, legata alla terra e ai suoi severi, essenziali dettami.
Forse per Vincent fu quella un´età - l´unica, nella breve esistenza, conclusa tragicamente con il suicidio - almeno in parte serena: s´era allontanato da una professione - il mercante d´arte - alla quale era stato avviato fin da giovanissimo, ma nei confronti della quale aveva sempre nutrito più d´un sospetto: e che solamente gli era valsa la conoscenza di prima mano di quei maestri francesi della scuola di Barbizon e del successivo naturalismo (Corot, Breton - incontrato nel 1880 a Courrières - Dupré e, soprattutto, Millet) che saranno a lungo la sua guida. E, avendo trovato sbarrata la via degli studi teologici, sua giovanile propensione, aveva adesso almeno il conforto del solidale entusiasmo, e dell´aiuto economico, dell´amatissimo fratello Théo, che lo incoraggiava nella nuova via intrapresa, quella della pittura.
Della storia recente della pittura doveva avere, nonostante l´apprendistato presso il mercante Goupil, un´idea piuttosto vaga, e soprattutto libresca. Di Delacroix, una delle sue passioni d´allora, conosceva, più che le opere, le teorie sul colore, divulgate da Charles Blanc; Millet stesso, che diverrà per lui il «père Millet», e verso il quale nutrirà un colmo e inestinguibile sentimento di devozione, fu per lui, in particolare in questi anni, soprattutto il cantore dei buoni sentimenti dei poveri e dei diseredati, e della sacralità insita nel lavoro dei campi: secondo la lettura agiografica, e travisante, della vita e dell´opera del grande pittore francese che aveva fatto Alfred Sensier, una cui famosa biografia di Millet - uscita appunto nel 1881 - Van Gogh poté subito leggere. A ciò s´aggiungevano, ancora, intense letture dello storico Jules Michelet, e di Dickens: ed è come se tutto questo congiurasse per instillare nel giovane Vincent un sentimento doloroso, mistico, solenne della dignità dell´uomo.
S´era imposto un severo laboratorio: e, spesso scontento di sé e dei propri risultati, come confessava nelle lunghe, quotidiane lettere a Théo, sentiva nondimeno, nei momenti di maggior fiducia, che quell´impegno costante nell´arte che s´era imposto dava lentamente il suo frutto. Così, proprio al termine di questo suo lungo tempo di educazione e di ricerca, venne quello che Van Gogh considerò il suo primo «capolavoro»: I mangiatori di patate, dell´aprile 1885. Il quadro è conservato al museo Van Gogh di Amsterdam; è il primo dipinto di Van Gogh di ragguardevoli dimensioni; e non vale quasi descriverlo, tanto è celebre.
Raffigura, in un ambiente raccolto e costipato, una povera mensa di contadini, illuminata da poca luce radente sui volti invasi dalla fatica. Non piacque molto né a Théo né ad Anthon van Rappard, l´amico di sempre, conosciuto a Bruxelles nell´80 e con il quale Van Gogh s´era da sempre soprattutto confrontato.
Subito dopo quel dipinto cruciale, Vincent tornò a quel lavoro sulla carta che era stato, per tutto il quinquennio ch´era durato il suo tirocinio, il suo modo prediletto. Inviò infine a Théo alcuni disegni, fogli piccoli o più grandi - gessetti neri talvolta rialzati all´acquarello - sperando in una vendita; molti dei quali, raffiguranti contadini al lavoro nei campi o donne intente ai lavori domestici, sono oggi qui in mostra. La persona alla quale Théo li mostrò (tale Charles Serret), avanzò più critiche che lodi. E la risposta che Van Gogh inviò al fratello è una delle sue più importanti dichiarazioni di poetica: «Dì a Serret che mi dispererei se le mie figure fossero corrette, digli che non voglio che siano accademicamente corrette [.] Digli che ritengo Millet e Lhermitte dei veri artisti, proprio perché non dipingono le cose come sono, ma come essi - Millet, Lhermitte, Michelangelo - le sentono. Digli che la cosa che più desidero esprimere sono proprio quelle manchevolezze, quelle deviazioni, quelle alterazioni della realtà che poi fanno sì che risultino alla fine delle falsità, sì, ma più vere della verità letterale».
Sono, queste parole, la presa d´atto della vocazione espressionista di Van Gogh: quella che lo trascinerà fuori dal compunto pietismo verista della scuola dell´Aia, e lo avvierà a fondare la sua pittura incendiata, lontana da preoccupazioni puramente linguistiche, e ansiosa di scandagliare le cose - quasi con ferocia, e come calando un rampino nel magma indifferenziato di quella realtà - alla ricerca della loro verità più profonda e nascosta: persino al di là di quanto esse appaiano.
Gli anni del laboratorio olandese, quelli soprattutto indagati dalla mostra di Brescia (che offre comunque anche saggi delle principali tappe successive dell´opera di Van Gogh, sia nel disegno che nella pittura), sono ancora a monte di questa piena consapevolezza: e svelano, di lui, uno degli aspetti meno noti e celebrati. A dimostrazione ulteriore che, nei pochi anni che gli furono dati, Van Gogh ha impresso nella vicenda della pittura un´impronta tanto vasta da non essere facilmente esauribile.

Repubblica 16.10.08
Ted Hughes e Sylvia Plath. Se la poesia incontra la morte
Un Meridiano raccoglie l´opera del poeta inglese che fu compagno di Sylvia Plath Dopo il suo suicidio tutto cambiò per lui
di Nadia Fusini


Nel cuore di Londra c´è la "mia" biblioteca: in St. James Square, dietro Piccadilly. Si chiama «The London Library», e nel passato l´hanno diretta Tennyson, T. S. Eliot. Da una porta alta e stretta al culmine di alcuni scalini si entra in un alveare di fervidi lettori accucciati in poltrone di pelle. E di alacri camminatori che vanno su e giù per scale antiche di ferro e cunicoli stretti alla ricerca di libri che possono toccare, estrarre dagli scaffali. E chi ama i libri sa che brivido di piacere comunica il gesto.
Arrivo la mattina e rimango fino a sera. Verso l´una vado in un luogo modesto, proprio dietro l´angolo, dove però la zuppa è buona. Un giorno ero lì col mio libro a gustarmi la zuppa, quando entra una signora elegante, con uno stravagante cappello. Doveva essere intorno a Natale, perché aveva molti pacchi; era stata da Floris, in Jermyn Street, per i profumi; da Fortnum & Mason, su Regent´s Street, per i tè; da Liberty, per i tessuti. La guardai meravigliata, perché non era un tipo di persona che avessi mai visto da E. A. T. Però continuai a leggere. Senonché lei si siede accanto a me, guarda il libro che leggo e fa: «Oh, it´s Ted. I used to know him. And Sylvia, of course». Sì, Ted, lo conoscevo. E anche Sylvia.
Stavo in effetti leggendo un libro su Ted Hughes e Sylvia Plath, la coppia più glamour del secolo, e lei li aveva conosciuti. «Really?» feci io incredula. Davvero?
Al mio stupore la signora rispose raccontando episodi che combaciavano con quel che leggevo e avevo letto. Lei vi aggiunse la vibrazione persuasiva della realtà. D´un tratto, era tutto vero: proprio in quella città, in certe strade che conoscevo, e lei rendeva col suo racconto ancora più reali, erano accaduti certi fatti, che avevano avuto una straordinaria rilevanza nella poesia di due tra i più grandi poeti del secolo. Ma soprattutto in quel che raccontava colsi la verità di un timbro che spiegava alla perfezione la voce speciale in poesia di Ted Hughes. Più che Sylvia, l´estranea con me a colloquio aveva conosciuto bene Ted e le sue amanti. E mi parlò di un modo furtivo, quasi losco di Ted con le donne; del suo gusto per i luoghi sporchi; del suo odio per tutto ciò che è comodo, confortevole. Ted-l´oscuro «never wanted it cosy» - a lui non piacevano le situazioni comode.
L´episodio mi torna alla mente sfogliando il Meridiano Ted Hughes (pagg.1810, euro 55), uscito per la duplice cura di Anna Ravano e Nicola Gardini. I due entrambi bravissimi si sono divisi le traduzioni, accogliendo nel volume le versioni anch´esse pregevoli di Maria Stella, una cara amica troppo presto scomparsa, studiosa di valore e pioniera delle devozioni nostrane nei confronti del poeta in oggetto. Anna Ravano ha poi curato la cronologia, Nicola Gardini l´introduzione e le note: il tutto orchestrato con l´impeccabile cura a cui ci hanno abituato i Meridiani diretti da Renata Colorni.
Mi è tornato a mente l´episodio perché nell´introduzione si cita un´intervista dove Ted se la prende, per l´appunto, con chi «wanted it cosy». E ce l´ha con certi poeti che al contrario di lui reagivano alle ansie dell´epoca con lucida freddezza, o addirittura con esibito disimpegno. Con un tipo di poesia ironica e beffarda. Come facevano Auden, Larkin.
Spiega, l´intervista, perché Sylvia Plath, poeta anche lei di eccelsa natura, giocando con il nome Hughes, che richiama nella prossimità con huge l´idea di immenso, possente, chiamò Ted il «colosso». C´è un ideale di forza in Ted, che spesso tramuta in rozzezza. Rozzezza del pensiero, con conseguente rigidità del verso, e un certo compiacimento ideologico della brutalità. Come se la semplicità fosse di per sé un valore. Come se certi concetti astratti quali patria, nazione, natura, potessimo prenderli "semplicemente".
I poeti si potrebbero dividere in due grandi schiere; chi ha bisogno di ali per volare, chi ne fa a meno. In una famosa lettera Keats lo spiega: lui è un poeta che non ha le ali. Quando precipita, se torna su è grazie a una specie di forza negativa, una forza che non ha, che non coltiva. Altri cercano invece sostegno, appoggi, stampelle, che possono avere anche nome «volontà di sapere». Ted Hughes, in particolare, coltiva una forma specialissima di sapienza personale, in cui si mescolano conoscenze sacre e profane suggestioni buddiste e tibetane, pregiudizi pagani e apodittiche credenze junghiane. Non ha la «capacità negativa»; aspira alla forza, ammira il potere.
Vagheggia un poeta sciamano, un poeta guaritore, che sani le ferite. Mentre per lo più i poeti sanno lasciare aperte le ferite, e disvelano la fallacia di chi promette guarigioni.
Vero è che nelle poesie compiute, felici - e sono molte - la zavorra decade. E la tensione eroica, salvifica del poeta sciamano si arrende a un dettato di straordinaria e straziante intensità musicale. Che fossimo in presenza di un grande talento lo si capì già con Il falco nella pioggia e Lupercale. «Il falco appollaiato» - una specie di tour de force alla Lawrence - entrò nelle antologie scolastiche d´acchito. Oltre che di Lawrence si sentì l´eco di Yeats, Hopkins, Thomas, Eliot, ma la lingua era già sua, con quel gusto che mai verrà meno per l´esperienza. Solo che a volte il poeta scambiava la vitalità per vita e l´ardore per eroismo, e non bastava l´impiego dell´aggettivo "huge" a rendere grandi «gli antichi eroi e il pilota bombardiere», per fare un esempio. Alcuni componimenti erano davvero opachi: «Testa d´uovo» una poesia difficile da leggere, con quella spinta affermativa vacua, vana.
Dopo la separazione da Sylvia Plath e il suo suicidio, per qualche anno Ted tace. Legge, lavora all´edizione delle poesie di Sylvia, quell´Ariel che grazie alle sue cure vedrà la luce nel 1966. Quanto a sé, nel 1967 partorisce Wodwo, dove nasce una figura, uomo o bestia o essere fatato che sia, che è una maschera del poeta. Wodwo si chiede: «che cosa sono io?» e non sa rispondere. Sa di essere «il primo», il primo di una nuova specie.
E´ tutto molto «strano» quel che vede intorno, ma continuerà a guardare: non solo quel che è fuori di sé, ma l´altro dentro di sé. Movimento che ha imparato da Sylvia Plath: «La luna piena e la piccola Frieda» lo dimostra.
Procede verso Corvo, il predatore. In un mondo atroce sopravvive il più abile a negoziare con la violenza. Quand´anche «Corvo sulla spiaggia» senta «nelle grida e nelle convulsioni» del mare qualcosa, «il cervello nel suo minuscolo cranio» non arriva neppure a chiedersi «che cosa causasse tanto dolore». E´ il leit motiv che ritorna nelle lettere di Ted a proposito del suicidio delle due donne che ha amato: Sylvia e Assia. Ogni volta si chiede: perché non ho capito? In «Corvo tirannosauro» si risponde: avrebbe dovuto «smettere di mangiare», se avesse capito. E non lo fa, non smette: «piangendo andava e colpiva». Corvo è così, Corvo è everyman, uccide per vivere.
A volte Ted strafa; esagera; cerca lo shock del lettore con eccessi facili. Pretende che concordiamo con il suo determinismo cadaverico, fino a dire che sì, l´esistenza è irredimibile.
Eppure, allo stesso tempo, vorrebbe che non ci disperassimo del tutto. Non completamente. C´è chi ha trovato in lui la medesima specie di speranza disperata che si trova in Beckett. Sono d´accordo: dopo tutto, «Corvo canta», non sarà melodioso, ma è pur sempre un canto. Allo stesso modo i due mendicanti continuano ad attendere Godot. Come fa Ted negli anni, che continua ad avere cura della poesia. A scrivere poesie, drammi, narrazioni, traduzioni. La sua versatilità è prepotente. Non sempre è contento di quel che fa.
Nel 1981 dice, più o meno: sono dieci anni che non scrivo niente di quel che volevo scrivere. E confessa: mi sembra di aver vissuto in una specie di straniamento da me stesso. Eppure, ha pubblicato Gaudete, nel 1977. Uccelli di caverna nel 1978, che considera però «freddo, studiato». Resti di Elmet nel 1979, forse il testo suo più autobiografico. Diario di Mootown, del �79: un libro stanco. Nel 1983 ci sarà Fiume, il libro del pescatore. Le diverse raccolte vengono commentate da Gardini con dovizia di particolari nelle note finali, a cui rimando.
In ogni libro c´è qualcosa di eccezionale e qualcosa di morto, che si ripete. In Fiori e insetti del 1986 tra le poesie più felici v´è «Giunchiglie«, che tornerà in Lettere di compleanno: per me il più autentico, il più "nobile" dei suoi tentativi di tenere in tensione i mondi - esteriore e interiore, oggettivo e soggettivo, della Natura e della Cultura - tra cui ha sempre voluto creare ponti.. Ora il pontefice dell´immaginazione non cerca più palliativi. Mai come altrove il pensiero conficcato come una spada nel cuore lo muove a cercare immagini semplici, niente affatto allegoriche. E torna in mente una sua osservazione profonda, di anni prima: «rispettare le parole più della verità che tentano di trovare è la morte della poesia». Qui la poesia vive.

Repubblica 16.10.08
"Io, precaria e anche un po´ cinica così interpreto le paure dei trentenni"
Dal Roma al Sundance: la rivelazione Valentina Lodovini
di Roberto Rombi


Non sono più la ragazza della porta accanto. Nel film di Anna Negri divento dura, aspra e sensuale

Dall´esordio con Paolo Sorrentino al film di Daniele Vicari, di cui è interprete, Il passato è una terra straniera che sarà presentato in concorso, nella sezione Cinema 2008, al Festival di Roma. Valentina Lodovini, nuova promessa del cinema italiano, ha ritirato ieri a Milano, alla Terrazza Martini, il premio destinato a Riprendimi di Anna Negri, il film che la vede protagonista. Martini Award Première è infatti la manifestazione, realizzata dalla Martini&Rossi, che si propone di individuare e mettere in risalto i talenti emergenti del nostro cinema.
«La ragazza della porta accanto - confessa Valentina Lodovini - è il tipo di ruolo che mi è stato affidato nei lavori precedenti, donne connotate dalla dolcezza, dall´entusiasmo, persone solari con un forte senso della moralità. Anna Negri invece mi ha affidato la parte dell´altra, quella che non è simpatica, che un tormentatissimo amore ha indurito, reso cinica, portato a una sensualità aggressiva. Un´insoddisfatta, fondamentalmente ostile al mondo».
Dopo «un piccolo ruolo, ma molto forte» nel film di Sorrentino L´amico di famiglia, Valentina Lodovini è stata diretta da Francesca Comencini in A casa nostra, da Carlo Mazzacurati in La giusta distanza e da Daniele Vicari in Il passato è una terra straniera. Presto apparirà nel nuovo film, ancora in lavorazione, di Marco Risi, Fort Apache, un lavoro drammatico sull´assassinio, commissionato dalla camorra, del ventiseienne giornalista napoletano Giancarlo Siani. La vedremo anche in un ruolo brillante nella commedia di Massimo Venier, Generazione mille euro, tratto dal libro di Antonio Incorvaia e Alessandro Rimassa. «Ma - continua l´attrice -nell´affrontare ogni film mi sembra di essere ancora all´inizio. Ho tante cose ancora da fare, da conoscere, da dimostrare. Mi piace rimettermi in gioco ogni volta. So comunque di essere un´attrice molto fortunata proprio per l´incontro con le persone con cui ho lavorato. Quello con Sorrentino lo giudico un debutto straordinario. Ho interpretato una donna che ha avuto il coraggio di sfidare l´usuraio».
Riprendimi, premiato ieri con una menzione speciale, è un finto documentario. Prodotto da Francesca Neri e presentato al Sundance, il festival del cinema indipendente fondato da Robert Redford, «racconta di due cameraman che vogliono fare un´indagine sul lavoro precario - spiega Valentina Lodovini - il risultato della ricerca sono le paure dei trentenni, il loro precariato non è solo professionale ma soprattutto esistenziale e sentimentale». Il film, a basso budget, è stato girato in soli 21 giorni. «L´urgenza di raccontare della regista ha dato al lavoro un ritmo caotico e ha trascinato tutti gli interpreti nell´entusiasmo per l´avventura di questo film».

il Riformista 16.10.08
Pochi, arrabbiati, radical-chic: i genitori della capitale che non mollano Mamme di lotta: «Sinistra assente, ci facciamo sentire noi»
di s. o.


Al grido di battaglia "Giù le mani dalla scuola" i genitori delle scuole del centro di Roma, si sono dati appuntamento nei giardini di piazza Vittorio per dimostrare che la riforma Gelmini a loro non sta bene. Poco più di un manipolo di signori e signore un po' radical-chic, prototipo di quel popolo di sinistra che, in barba alla pretesa di voler «parlare anche ai genitori che questo governo lo hanno votato perché capiscano che questa è una battaglia comune», danno inevitabilmente un'impronta politica all'iniziativa. Legittimamente peraltro, visto che hanno cultura e strumenti di comprensione sufficienti a concepire un modello scolastico alternativo a quello proposto dal centrodestra. Sono abbastanza per riempire il centro della piazza, pochissimi per una città vasta come la capitale. E incazzati neri. Prima di tutto con la sinistra.
«Sa com'è cominciato questo movimento? - racconta Roberta, 45 anni, attrice e "organizzattrice di eventi etici", due figli di 17 e 4 anni - Un giorno con Paola ci siamo dette: ma possibile che nessuno faccia niente? Ma Veltroni dov'è? Andiamo noi in viale Trastevere? Andiamo, in tre a protestare è sempre meglio di niente». A vederla da questa angolazione, la manifestazione di ieri in piazza Vittorio è stata un successo: «Il problema è che la gente è troppo impegnata a sopravvivere. Ma sa quale sarà il risultato, se passa questa riforma? Che le donne dovranno restarsene a casa. Questo governo continua a screditare la scuola pubblica. E se poi i soldi risparmiati li danno ai privati? Così potranno definitivamente controllare la formazione dei giovani». I luoghi comuni si sprecano, ma queste donne sono sinceramente spaventate: «Ora andiamo a lavorare sapendo che fino alle 16 i nostri bambini saranno a scuola. Ma se tagliano il tempo pieno, la scuola finirà alle 12. Come faremo?». Giovanna, altra mamma 40enne, non nega che la scuola così com'è non va bene, ma considera inaccettabili le modalità della riforma: «La verità è che noi ci organizzeremo. Casomai per gruppi, prendendo un maestro che venga a casa il pomeriggio. Ma come faranno quelli che non hanno i mezzi?».
Roberta sorride leggendo un sms che le arriva dalla sua Bologna: «Siamo in una scuola occupata, voi a Roma?». È il tam tam di quella sinistra spontaneistica e un po' naif, ancora convinta che «un mondo migliore è possibile» e, soprattutto, di avere il diritto di influire su quanto si decide nelle stanze dei bottoni. «Ho parlato con alcuni genitori che votano a destra - dice sconsolata Paola, ricercatrice e madre di due bambini - Sostanzialmente mi sembrano disinformati. Nemmeno a loro la riforma piace, ma alla fine sperano che così ci sia più controllo sulle presenze dei figli a scuola, più disciplina». Poco a che fare con i tagli alle elementari, dunque, su cui tacciono in nome di un po' di ordine in più.
Ma non sono solamente le donne a essere sul piede di guerra. Paolo fa lo scenografo e tiene d'occhio i suoi due bambini, 5 e 3 anni, che giocano insieme con gli altri: «C'è un disegno macabro sull'educazione. Il piano è mirato a disinnescare l'autonomia della scuola pubblica, in favore del modello di quella privata. Dove gli insegnanti sono maggiormente vincolati al rischio del licenziamento. Ma, soprattutto, saremmo noi a doverci fare carico dei costi tagliati, dalla mensa al doposcuola». Quanto inciderà sul bilancio familiare? «Quanto basta per farmi entrare a far parte dell'ampia fetta di società che ha un bel po' di problemi».
La sensazione, però, è che in piazza Vittorio nessuno corra il rischio di non pagare la rata del mutuo a fine mese, animati più dal senso civico (ma anche da quello pratico, dettato dai mille problemi della vita quotidiana) che dal bisogno. Poi, però, uno spaccato di reale difficoltà si propone: «Io sono qui perché da una settimana non posso mandare mia figlia all'asilo. Non ho i soldi per pagare la rata comunale. E per badare a lei non posso andare a lavorare». Rocco ha 62 anni e, per alterne vicende, è un padre single di due bambini piccoli. «Sa che le dico? Se devono tagliare, lo facciano sui maestri. Ma non sul tempo pieno. Sennò quelli come me saranno messi peggio di quanto già non lo siano». E di certo non è il solo a pensarla così. ()

il Riformista 16.10.08
Il fenomeno Gelmini, odiata nelle piazze ma amata dai sondaggi
di Stefano Cappellini


Ci sono proteste che affossano un ministro e altre che lo rafforzano. Per Mariastella Gelmini, da giorni bersaglio di manifestazioni di protesta in tutto il paese, finora vale la seconda. Secondo un sondaggio Ipr marketing, il gradimento verso il ministro dell'Istruzione è cresciuto di 4 punti nell'ultimo mese. L'indice finale (42 per cento) non è tra i migliori della squadra di governo, ma il segnale è chiaro e non riguarda solo Gelmini: crescono tutti i ministri in prima linea. Sono infatti i dati sulla popolarità dei singoli membri i più lusinghieri per Berlusconi (e preoccupanti per Veltroni). Giulio Tremonti, col 63 per cento di gradimento, supera persino il Cavaliere: la dottrina tremontiana anti-crisi si conferma un formidabile veicolo di promozione per il titolare di via XX settembre. Bobo Maroni, custode della "tolleranza zero" al Viminale, segue da vicino. Renato Brunetta, sempre a caccia di nuove crociate mediatiche, continua ad avanzare. Lo stesso Berlusconi, così affezionato a record e statistiche, può godersi una popolarità alta come mai nella sua carriera politica. A sei mesi dalla vittoria elettorale del centrodestra il premier tocca il picco storico di gradimento: 62 per cento. Di contro, a un anno dalla vittoria alle primarie Walter Veltroni vede il Partito democratico arrancare sotto il 30 per cento, soglia che il vecchio Ulivo prodiano aveva sempre superato in scioltezza.
Le cifre sono queste, e pur con la cautela necessaria quando si maneggiano campioni demoscopici, raccontano un paese cambiato a fondo, in cui è ormai smentito nettamente quel mantra (chi governa perde prima il consenso e poi le elezioni) che negli ultimi anni sembrava diventato comandamento in quasi tutta Europa. Adesso, anche laddove qualcosa non funziona o produce malcontento, è comunque suIl'operato del governo che la maggioranza degli italiani fa affidamento per migliorare le cose. A dispetto degli inciampi e delle incertezze, che certo non sono mancati in questi mesi.
Anzi, i mille casi aperti e chiusi in questi mesi - le polemiche con la Ue sul presunto razzismo, gli alti e bassi su Alitalia, l'estate del lodo Alfano e in ultimo, appunto, le mobilitazioni sulla scuola - si sono rincorsi senza produrre danni oppure hanno accresciuto la credibilità del governo agli occhi dell'opinione pubblica. E la tempesta finanziaria internazionale, lungi dall'incrinare la tenuta dell'esecutivo, ne ha rappresentato la definitiva consacrazione.
Il premier, archiviata con una scrollata di spalla la clamorosa gaffe sulla chiusura temporanea dei mercati, ha voluto segnare ieri il punto, prima di entrare al vertice Ue sulla crisi: «Siamo stati i primi - ha detto - a intravvedere ciò che si doveva fare e l'abbiamo fatto per primi in Italia. Non si è quindi verificato nessun fallimento, nessun momento di estrema negatività nel sistema delle banche e i risparmiatori sono sempre stati garantiti». Da qui alla quantificazione del consenso accumulato il passo è stato breve: «Io - ha spiegato Berlusconi - ho dei sondaggi affidabili, che sono quelli che hanno sempre avuto ragione, che mi danno al 70,2 per cento. Francamente è imbarazzante. Lo so. Da qui non si può che scendere».
Stavolta, a differenza del passato, non si sono registrati commenti sarcastici dal Pd. L'impressione è che in molti sono convinti che il Cavaliere non sia andato lontano dal vero. Il silenzio è figlio dello scoramento. Veltroni aveva investito le chance di rivincita sull'esplosione della questione sociale, sull'autunno caldo e di piazza, e si è ritrovato una crisi mondiale da cui il governo sta uscendo più forte (e che ha costretto l'opposizione a collaborare per senso di responsabilità) e a dover gestire una manifestazione di massa, quella del 25 ottobre, di cui nessuno sa più cosa fare. Una manifestazione nata per «salvare l'Italia» si è trasformata in corsa in un oggetto non identificato. E mentre si susseguono le defezioni di piazza tra dirigenti e amministratori, l'unica scappatoia imboccata dai vertici democrat è assicurare che la manifestazione non sarà «contro il governo». Il salvataggio dell'Italia è rimandato. Restava il salvataggio della scuola. Quello cui, almeno secondo i sondaggi, sta provvedendo Gelmini.

LETTERA APERTA
Noi genitori, il 17 e il 30 in sciopero con i maestri


Venerdì 17 ottobre c'è il primo sciopero nelle scuole e non è uno sciopero come gli altri. Facciamo un appello a tutti i genitori perché, al di là delle sigle sindacali, lo sostengano, come anche quello del 30 ottobre e tutte le forme di lotta previste da maestre e maestri. A cominciare dalla mattina di venerdì 17 andiamo a scuola con i nostri figli e accogliamo il «contrattempo» o il «danno», lo sciopero insomma, con un sorriso complice, il sorriso di chi sa che tutti stiamo lottando per una causa comune.
Il nostro sogno è che allo sciopero del 17 ottobre e al prossimo del 30 aderiscano tutte le maestre e i maestri. Il nostro sogno è che l'Iqbal Masih resti vuota perché tutti insieme stiamo lottando per difendere questa scuola. Alle maestre e ai maestri diciamo: noi siamo con voi e voi con noi.
Lo sciopero ci creerà disagio perché dovremo organizzare in modo diverso la nostra giornata, ma va bene! Servirà a dire con forza che il decreto Gelmini va bloccato. Sappiamo che molti di noi sono scoraggiati, sappiamo che molti di noi sono presi dagli affanni dei problemi quotidiani. Ma questi oggi sono i nostri problemi! Affrontiamo questo sciopero come se fosse anche il nostro. Lo sciopero di tutta la scuola, maestre, maestri, personale Ata, genitori e bambini. Ci rivolgiamo ai genitori che, come noi, sono angosciati per il futuro dei loro figli. Quando a gennaio andremo a iscrivere i figli a scuola, alla materna, alle elementari, alle medie, ci renderemo conto di cosa abbiamo perduto. Solo allora ci accorgeremo cosa significa davvero la formula del «maestro unico» contenuta nel decreto Gelmini. A settembre dell'anno prossimo ci accorgeremo che nel solo Lazio (nel prossimo anno) sono previsti l'allontanamento di 5.000 maestre e la chiusura di 260 scuole. La classe dei nostri figli sarà più numerosa. Avremo un maestro dalle 08.30 alle 12.30 e poi? Cosa faranno nelle altre 4 ore i bambini? Non si meritano questo! E quanto ci costerà in più? La qualità della scuola pubblica si abbasserà di colpo e questo ricadrà sui nostri figli. Non è una delle cose peggiori che ci può accadere?
In questo mese abbiamo lottato in tutte le forme, ma ogni volta che proponiamo di bloccare le ore di lezione ci sentiamo dire: «Questo non si può fare» e noi, per rispetto di tutti i genitori e della convivenza civile, non abbiamo mai toccato il normale svolgimento della didattica. Ma sono proprio queste le forme di lotta che i nostri governanti temono di più, a patto che trovino ampia adesione in tutto il paese.
Da questa settimana il decreto Gelmini è in discussione al Senato, il momento è drammatico per le conseguenze che avrà tra breve e crediamo che lo sciopero sia un'occasione di protesta di massima importanza, perché le strade d'Italia sono percorse da centinaia di manifestazioni e sempre più persone stanno capendo la truffa che c'è dietro la riforma: distruggere la scuola pubblica per risparmiare 8 miliardi di euro e aiutare le scuole private. Altro che miglioramenti. E altro che sacrifici necessari: per sostenere le banche i miliardi a disposizione sono illimitati.
*Il coordinamento dei genitori della «Iqbal Masih»