domenica 19 ottobre 2008

l’Unità 19.10.08
Scuola e immigrati
Il giorno dell’Apartheid
di Furio Colombo


«Non posso condividere - e come me altri deputati della maggioranza - il contenuto della mozione presentata dalla Lega Nord. Per cui abbandono l’aula e insieme a me alcuni altri deputati

L’idea che i bambini che hanno difficoltà nella lingua italiana vadano segregati e rinchiusi tra loro è una delle più assurde non solo in termini di pedagogia ma di buon senso. Non parlano, non ascoltano, non imparano

Un evento triste e squallido è avvenuto nella Camera dei Deputati nei giorni 8 e 9 ottobre quando la maggioranza di governo, guidata dalla Lega, ha proposto e fatto approvare una odiosa mozione che chiede la separazione e segregazione dei bambini immigrati nelle scuole italiane. È giusto che ci sia memoria di questo tragico evento e perciò trascrivo qui alcune parti dei verbali d’Aula di quelle sedute.
On. Niccolò Cristaldi (Pdl-An): «Signor Presidente, onorevoli colleghi, io non parteciperò a questa votazione (mozione Cota, Lega nord, sulla segregazione dei bambini immigrati nelle scuole italiane, ndr) perché non ne condivido le ragioni politiche. Non condivido il contenuto della mozione della maggioranza perché sono nato e cresciuto in una città, Mazara del Vallo, nella quale il venti per cento della popolazione è musulmana».
«La mia è una città dove l’integrazione non si è decisa con una legge né con mozioni come questa. Si è decisa attraverso il rispetto delle diverse culture, attraverso l’amicizia tra i popoli, che si è instaurata partendo da situazioni drammatiche che hanno visto tanta gente venire nella mia città per cercare lavoro. Abbiamo scambiato attività culturali, insegnando molte cose della nostra cultura occidentale, imparando a inginocchiarci davanti ai grandi musei che ci sono in Tunisia, in Marocco, nei Paesi del Maghreb e in tutto quel mondo. Non posso condividere - e come me altri deputati della maggioranza - il contenuto della mozione presentata dalla Lega Nord. Per cui abbandono l’aula e insieme a me alcuni altri deputati». (Camera dei deputati, 9 ottobre ore 19.05, applausi dei deputati del Partito democratico).
On. Mario Pepe (Pdl): «Signor Presidente, vorrei ricordare agli amici della Lega che il Duca d’Aosta, quando era Governatore della Somalia emise un editto che impediva ai bambini indigeni di frequentare le scuole italiane, se prima non avevano imparato l’italiano. Oggi il popolo somalo si divide in due categorie: quelli che hanno un fucile e quelli che non ce l’hanno. Mi auguro che questo non sia il futuro dell’Italia. Per questo io voterò contro questa mozione». (Camera dei deputati, 9 ottobre ore 19.09, applausi dei deputati del Partito democratico).
Emanuele Fiano, (Pd): «Signor Presidente, nella mia famiglia abbiamo saputo sessant’anni fa che cosa significa essere scacciati dalle classi delle scuole del regno, in quanto ebrei. Non userò questo argomento per rispondere agli argomenti della Lega Nord Padania. (Urla dei deputati della Lega Nord Padania). Parlo di oggi, di voi. Penso che sia profondamente sbagliato proporre una separazione dei bambini per risolvere il problema della integrazione, spezzare una comunità che vive e cresce insieme. Le «classi differenziate» sono la risposta sbagliata. L’integrazione si fa insieme. (Camera dei deputati, 9 ottobre ore 19.15, applausi dei deputati del Partito democratico, grida e urla della Lega Nord e del Pdl).
On. Piero Fassino (Pd): «Signor presidente, mi rivolgo all’onorevole Cota (capogruppo Lega Nord Padania alla Camera dei deputati, ndr) e a tutti i colleghi. Vi voglio raccontare un episodio vero che ci può illuminare. Un mio amico ha un bambino di sette anni che frequenta una seconda elementare per metà costituita da bambini extracomunitari. Il suo compagno di banco è il suo amico del cuore. A casa racconta ai genitori che «con Emanuel abbiamo fatto questo, abbiamo fatto quello, siamo andati qui e siamo andati là». Un giorno il padre del bambino italiano lo va a prendere a scuola e quando i bambini escono chiede per curiosità al figlio: chi è Emanuel? Il figlio si volta e indica: “eccolo là, quello col maglione rosso”. Non gli viene in mente di dire: «Quello con la pelle scura».
«Con il provvedimento che vi apprestate a farci votare voi state producendo una regressione culturale che mette in discussione i principi di uguaglianza tra gli uomini. E fate una cosa ancora più grave: introducete la discriminazione, quella moralmente più abbietta: discriminate tra i bambini, tra i più piccoli». (Camera dei deputati, 9 ottobre ore 19.20, prolungati applausi dei deputati del Partito democratico, di Italia dei Valori, del gruppo di Unione di Centro).
On Gianluca Galletti (Udc): «Signor presidente, devo dire che chi ha redatto la mozione, ne ha dato l’interpretazione autentica (si riferisce al deputato Cota, capogruppo Lega Nord Padania, che ha illustrato la mozione in aula, ndr). Dopo averlo ascoltato, noi siamo certi di non voler avere nelle nostre scuole, allievi di serie A e allievi di serie B. Ci sembra, invece, che l’obiettivo della mozione in esame sia proprio questo. Per tale ragione, dichiaro il voto contrario del nostro gruppo». (Camera dei deputati, 9 ottobre ore 19.30, applausi dei deputati dei gruppi Unione di Centro e Partito democratico).
On. Valentina Aprea (Pdl): «Signor presidente, vi assicuro che questa mozione è attesa dai docenti della scuola italiana, da quei docenti, onorevole Fassino, dove l’inserimento degli alunni stranieri avviene in modo selvaggio. (Camera dei deputati, 9 ottobre ore 20.00, proteste del Partito democratico, applausi dei deputati del gruppi Pdl, ovazioni dei deputati Lega Nord Padania).
«No, no, no!» (Furio Colombo, Pd, Camera dei deputati, 9 ottobre ore 20.05 grida e urla dei deputati del gruppo Lega Nord Padania).
***
Testo della mozione per la apartheid nelle scuole italiane presentato dalla Lega Nord alla Camera dei Deputati con l’assenso e il sostegno della maggioranza di governo:
«La Lega Nord Padania impegna il governo:
- a rivedere il sistema di accesso degli studenti stranieri alla scuola di ogni ordine e grado, autorizzando il loro ingresso previo superamento di test e di specifiche prove di valutazione.
- istituire classi ponte (classi separate, ndr) che consentano agli studenti stranieri che non superano le prove e i test sopra menzionati di frequentare cori di apprendimento della lingua italiana, propedeutiche (obbligatorie e separate, ndr) all’ingresso degli studenti nelle classi permanenti.
- a non consentire in ogni caso l’ingresso nelle classi ordinarie oltre il 31 dicembre di ciascun anno, al fine di un razionale (traduzione: limitato o impedito, ndr) inserimento degli studenti stranieri nelle nostre scuole, e a provvedere a una distribuzione degli stessi in proporzione al numero complessivo degli alunni per classe.
- a favorire l’elaborazione di un curricolo che tenga conto di lealtà e rispetto alla legge del paese accogliente, del rispetto di tradizioni territoriali e regionali del paese accogliente, del rispetto per la diversità morale e culturale (traduzione: superiorità, ndr) del Paese accogliente (prime firme: Cota, Goisis, Grimoldi, Rivolta, Aprea, Carlucci, Farina, Mazzucca, Garagnani, Rampelli)».
***
Furio Colombo: «Signor presidente, devo dirle a nome dei miei colleghi (spero di parlare a nome di tanti miei colleghi) che sono contento di intervenire in questo momento, in quest’aula vuota. Evito agli altri deputati di provare l’umiliazione che provo io ascoltando la presentazione di questa mozione della Lega Nord Padania che intende istituire scuole segregate per bambini immigrati, le scuole contro cui si è battuto Martin Luther King in Mississippi e Alabama 45 anni fa. Si è battuto, e ha vinto. Ma i miei colleghi si sono risparmiati l’angoscia di guardare verso i banchi della Lega e di domandarsi, dopo aver ascoltato l’elogio della scuola segregata: «Ma questi sono i miei colleghi? Facciamo lo stesso lavoro? Condividiamo lo stesso Parlamento? Siamo stati eletti dallo stesso popolo?».
Presidente: «Onorevole Colombo, in questa Camera tutti sono altrettanto onorevoli».
Colombo: «No, presidente. Devo esprimere il mio sentimento di umiliazione».
Presidente: «A termini di regolamento lei non può offendere un suo collega».
Colombo: «Mi dica, presidente, qual è l’espressione offensiva?».
Presidente: «L’espressione offensiva è quando lei dice che si vergogna di...».
Colombo: «Ho detto che mi sento umiliato nel giorno della apartheid della scuola italiana e ho diritto di dirlo perché è il mio sentimento».
Presidente: «Mi pare che tale espressione sia l’equivalente di “mi vergogno”».
Colombo: «Signor presidente, Matteotti si è sentito umiliato di fronte a ciò che aveva ascoltato in quest’aula. Ripensi per un momento al dibattito al quale oggi in questa Camera abbiamo assistito. Viviamo in un mondo in cui sta per essere eletto presidente degli Stati Uniti un nero, figlio di un immigrato di origine kenyota, educato nelle scuole americane dove nessuno lo ha separato (non più, dopo il movimento per i diritti civili di Martin Luther King) dagli altri bambini. Ed è diventato uno dei più brillanti giuristi, poi uno dei più importanti senatori, poi uno dei più carismatici candidati alla presidenza degli Stati Uniti che quel paese abbia mai avuto.
Ma lei pensi - presidente - ad un altro Paese, il nostro, nelle mani della cultura di Borghezio e di Gentilini e mi dica: quale sarebbe oggi, qui, da noi, in questa Italia occupata dalla Lega, il destino di un piccolo Obama? Forse lo aspetterebbero le sprangate e la morte in una strada di Milano dove - ci assicura il ministro dell’Interno Maroni - le sprangate che hanno ucciso il diciannovenne Abdul erano la punizione per un furto, non lo sfogo di un sentimento razzista. L’idea che i bambini che hanno difficoltà nella lingua italiana vadano prontamente segregati e rinchiusi tra loro è una delle più assurde non solo in termini di pedagogia e di psicologia ma di comune buon senso. Non parlano, non ascoltano, non imparano. L’ottusa idea leghista è il 41 bis dei bambini immigrati. Ad essi per giunta, viene imposto di imparare «le tradizioni», “l’identità”, la religione del paese ospitante. Il concetto è bene espresso dalle alte parole del pro-sindaco leghista di Treviso: “Che vadano a pisciare nelle loro moschee”. Sono parole memorabili per la loro qualità morale, umana, politica che la Lega da oggi dovrebbe scrivere sulle proprie bandiere.
Alexander Hamilton, uno dei padri della Costituzione americana, ha detto ai coloni immigrati che si accingevano a fondare la nuova Repubblica degli Stati Uniti: “C’è qualcosa di unico nel nostro destino. Noi, che veniamo dai quattro angoli del mondo e fino a questo momento non abbiamo niente in comune, d’ora in poi avremo in comune il nostro futuro. Questo è il nostro destino eccezionale. Siamo i soli al mondo ad avere questo privilegio”.
Era il 1788. Qui, oggi, nell’anno 2008, si propone di isolare i bambini immigrati in corridoi chiusi come se fossero portatori di malattie infettive. Prevedo e temo che questa ignobile mozione non sarà respinta. Perciò mi unisco alla umiliazione di molti colleghi di Alleanza nazionale e di ciò che resta di Forza Italia che dovranno votare questa mozione fondata su separazione, apartheid, xenofobia, razzismo» (Camera dei deputati, 8 ottobre 2008, ore 22; presiedeva il vice presidente della Camera Buttiglione).

Nota.
La mozione di apartheid per i bambini immigrati è stata votata la sera del 9 ottobre 2008 e ha ottenuto l’approvazione della Camera dei Deputati con soli venti voti in più per la maggioranza. Il margine di differenza fra maggioranza e opposizione alla Camera è di settanta voti.
È utile ricordare che una mozione non è una legge ma un «indirizzo» o suggerimento al governo. La sua votazione non significa automaticamente accettazione ed esecuzione da parte del governo. Perciò è necessario che l’opposizione contro l’apartheid continui in tutte le occasioni, in tutte le sedi, a tutti i livelli. Le manifestazioni di protesta nella scuola in questi giorni sono il luogo e il momento giusto: studenti e docenti contro l’apartheid di Bossi-Cota-Borghezio-Maroni. Tutta la scuola italiana in difesa dei bambini immigrati.
furiocolombo@unita.it

l’Unità 19.10.08
Gelmini favorevole alle classi differenziali
«I bimbi immigrati non conoscono l’italiano e la Costituzione». Veltroni: si instilla il seme dell’odio
di Maristella Iervasi


QUANDO VELTRONI PARLA bisognerebbe sempre ascoltarlo. «C’è un brutto clima nel paese - ha detto il segretario del Pd parlando in un circolo democratico di Roma -. Cosa vuol dire che un immigrato non può stare nelle classi con gli altri italiani? Si vuole instillare il seme dell’odio», osserva. La Gelmini, maestra unica, è a Norcia e dal convegno su Educazione e libertà, organizzato dalla fondazione Magna Carta, difende a spada tratta le classi d’ingresso per i bambini immigrati. E da ministro dell’Istruzione spiega anche perché il governo ha deciso di adottare questo provvedimento: «Non si può parlare di integrazione quando ci sono bambini immigrati che non conoscono la lingua e la Costituzione repubblicana».
È per via dell’ignoranza della Carta costituzione che i bimbi migranti devono essere divisi dagli altri studenti? Ma chi conosce la Costituzione? Per Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione Comunista, «è la Gelmini in primis a non conoscerla». A partire dall’articolo 2, i diritti inviolabili della persona. Un principio che rappresenta una grande protezione per tutte le persone che, anche se lontane geograficamente e culturalmente si ritrovano a vivere sullo stesso territorio.
È giusto far conoscere la Costituzione a tutti, ma separare i bimbi immigrati dagli altri solo per questo «è creare classi apartheid», sottolinea Ferrero. È nell’infanzia, infatti, che si superano i pregiudizi. Non a caso nell’anno scolastico scorso fu proprio l’ex ministro della Solidarietà Sociale in collaborazione con l’Arci a far stampare e distribuire la Costituzione italiana in tutte le lingue parlate dai migranti. E la stessa iniziativa fu portata avanti da moltissimi comuni. Ma la ministra dell’Istruzione questo non lo dice. Lei punta a «rinchiudere» i bimbi immigrati in classi speciali solo perchè non conoscono la Costituzione repubblicana, visto che non parlano l’italiano. E i nostri bambini, e gli italiani adulti? Un sondaggio effettuato in occasione dei sessant’anni della Carta costituzionale rivelò che il 51 per cento degli italiani non l’ha mai letta una volta in vita sua; solo l’11% ne ricorda per sommi capi i contenuti.
Eppure a sentire la Gelmini, le classi d’ingresso sono necessarie per l’integrazione ed «è fuorviante» evocare lo «spettro» del razzismo. «Ci troviamo invece - sottolinea - di fronte a un problema esclusivamente didattico». E snocciala la sua lezioncina al riguardo: «I ragazzi di dieci, undici anni, da poco arrivati in Italia e con una famiglia che non parla la lingua italiana, senza il passaggio nelle classi d’ingresso si troverebbero proiettati direttamente nelle classi normali». Di conseguenza, precisa il ministro, avranno problemi di apprendimento e quindi non riuscirano a portare avanti un progetto formativo per la loro vita. Abbandonarli a se stessi è di fatto un atto contro l’integrazione nella scuola». Poi «bacchetta» la definizione del Carroccio: «È sbagliato chiamarle classi ponte perché danno il senso della divisione tra studenti di serie A e studenti di serie B». Quella stessa Lega che bloccò i 100milioni di euro stanziati da Ferrero per il fondo sull’integrazione dei migranti a colpi di ricorsi. E che l’attuale governo non ha riconfermato.
Ha proprio ragione Veltroni nel ribadire: «Si vuole instillare il seme dell’odio».

l’Unità 19.10.08
Angelique Kidjo: «La scuola salverà il mondo»
«La scuola è il seme del cambiamento»
di Enrico Rotelli


«Oggi, con la crisi è vitale che ribaltiamo il concetto che non è il denaro a creare l’uomo, ma è l’uomo che crea la ricchezza»

INTERVISTA con Angelique Kidjo: musicista di fama e ambasciatrice Unicef, ha creato la fondazione «Batonga» per garantire un’istruzione alle ragazze africane altrimenti costrette a lavorare: «È la chiave di volta per cambiare il nostro futuro»

Il suo logo è una farfalla, nella cui livrea vive il profilo del continente africano. Un logo che dalle classifiche musicali internazionali è volato sulla Fondazione da lei creata, «Batonga» (www.batongafoundation.org), per dare un’istruzione secondaria o universitaria alle giovani donne di Camerun, Benin, Etiopia, Sierra Leone, perché possano diventare, «le madri del cambiamento» in Africa. Il logo di Angelique Kidjo. Musicista beninese di origine, ma la sua vita si divide tra Parigi e New York, alterna alla musica delle sue radici ai ritmi afroamericani e al jazz, seguendo un filo conduttore: l’impegno per colmare le distanze, attraverso le note, tra sud e nord del mondo, tra donne e uomini del suo continente. Contaminazioni, molte in questo suo viaggio che sembra ripercorrere le rotte degli schiavi, dalla nativa Cotonou ai suoni dei luoghi degli approdi della tratta, affiancata da musicisti come Peter Gabriel, Carlos Santana, Branford Marsalis. Sia nella sua produzione discografica sia nei numerosi eventi concertistici che costellano l’impegno sociale nell’ultimo decennio: Cape Town nel 2003, per la Nelson Mandela Foundation, We are the Future, Roma 2004 al Circo Massimo, il Cd Instant Karma di Amnesty International per il Darfur, nel 2007.
È scesa a Rimini, per le Giornate internazionali del centro Pio Manzù, dove è stata premiata con la Medaglia d’oro del Presidente della Repubblica italiana, per il suo impegno, come Ambasciatrice Unicef (incarico attribuitole nel 2002), al quale ha affiancato la propria fondazione non governativa. Batonga, è una parola che ha inventato lei stessa, molto prima che diventasse il titolo di una delle sue canzoni più note, con le quali è arrivata a ottenere il Grammy Award. I ragazzi del suo Paese non potevano comprenderne il significato, ma per lei simboleggiava il diritto delle donne ad un’educazione. La chiave di volta per innescare un cambiamento profondo nella propria società, il seme di una tradizione che le donne, poi madri, avrebbero «trasferito e fatto crescere da famiglia a famiglia, da generazione a generazione, una tradizione che va a cambiare il futuro per l’Africa».
Lei ha trovato una propria via per sfidare le differenze tra Nord e Sud, per aiutare a crescere il suo Paese. Ce ne parla?
«Ho vissuto in una famiglia povera, dieci figli e papà era l’unico a lavorare. Ho vissuto circondata da persone ancora più povere di noi, ma ricche di saggezza. Con loro ho imparato che si può essere poveri ma ricchi di dignità. E che non è detto che si possa essere poveri e non aiutare gli altri.
Questa infanzia e questa educazione mi ha trasformato in quella che sono oggi. Mia madre mi ha donato questa visione del mondo, che no penso sia mia. Non esistono il terzo o il quarto mondo, ne esiste uno solo, e la razza umana è una. Non ho inventato io questo ma le persone che vivevano con me.
I musicisti tradizionali facevano da ponte tra la società rurale e il mondo politico. Grazie a loro ho capito che potevo fare qualcosa senza avere paura delle conseguenze. E mamma e papà sono esempi perfetti: nonostante 10 figli non so quanti bambini hanno aiutato e mantenuto agli studi. È la musica il collegamento e il legame tra tutto questo».
Quando ha presentato la Fondazione Batonga e i progetti educativi alle ragazze per un’istruzione secondaria e universitaria che sviluppa in diversi paesi africani, ha detto che «educare le ragazze in Africa dà loro la forza e gli strumenti che servono ad essere madri del cambiamento». Ci può spiegare cosa intendeva?
«Mio padre e mia madre hanno sempre insistito perché fossi istruita. Ma a un certo punto con la musica ho cominciato a fare soldi. E sono andata da mio padre dicendogli che avrei proseguito con la musica, lasciando la scuola. Non esiste mi disse: tu non canti più e vai a scuola.
Una madre istruita si batte fino alla morte perché i figli vadano a scuola. Eravamo tre figlie a studiare e i parenti di papà venivano in continuazione a dire “perché le mandi a scuola?, è uno spreco di soldi. Daccele a noi e le faremo guadagnare”. E mia madre controbatteva: “Assolutamente no, se togli le ragazze dalla scuola non avrai più nulla, non avrai più famiglia”.
Ecco perché diventano la madre del cambiamento. Un africano tende a considerare di più il bestiame che la donna. È fondamentale che le donne capiscano l’importanza dell’istruzione, perché domani le madri potranno poi insegnare ai figli e alle figlie, e fare in modo che la cultura diventi merce di scambio.
Anche la mortalità infantile è molto legata all’istruzione. Ho visto madri che per colpa dell’ignoranza restavano impotenti di fronte al figlio malato. Una madre istruita invece può aiutare il suo bambino, è in grado di conoscere le medicine, leggere i foglietti e usarle nel modo giusto, informarsi. L’ignoranza può esser pericolosa».
Con la sua musica, hanno detto, lei getta un’ancora ai più deboli...
«Questo fatto di essere circondata da persone comuni mi ha dato la necessità di credere nell’uomo. Perché non ci sono alternative. Da quando ho cominciato a fare musica i miei ispiratori sono stati uomini, donne e bambini. Ci troviamo in un periodo di totale destabilizzazione. Perché? Perché ci siamo allontanati gli uni dagli altri. Noi stessi abbiamo infilato il lupo nell’ovile. Noi abbiamo creato i soldi per poter scambiare le merci, per mangiare. E questo lupo, il denaro, lo abbiamo fatto crescere fino a distruggerci. Madri, padri e figli. Finché non sarà nella giusta prospettiva l’idolo denaro non troveremo soluzione e sacrificheremo molte generazioni. Oggi, con la crisi, se non riusciamo a capovolgere il concetto che non è il denaro che crea l’uomo, ma è l’uomo che crea la ricchezza, non avremo nessuna chances.
Per decenni i paesi ricchi hanno destabilizzato i paesi poveri. Difficilmente con questo passato è possibile cambiare. E abbiamo destabilizzato su false credenze: che i poveri restassero a casa loro. Ma purtroppo per loro, il povero si muove.
Quando le persone venivano ridotte in schiavitù, con un lavaggio del cervello si cancellavano i ricordi delle origini. Ma la musica opera come un’impronta genetica, la musica è uno specchio fedele del Dna, perché i ricordi non si cancellano. Sta a noi prendere in mano la sfida e i problemi dell’umanità, della quale siamo causa e soluzione. La soluzione per salvarci è dentro di noi».
Per questo la sua ricerca artistica l’ha portata nei paesi mete della rotta degli schiavi, per contaminarla con ritmi afroamericani?
«Esatto. I vecchi musicisti tradizionali mi hanno insegnato che la musica non ha colori, non ha lingua, perché il cuore dell’uomo non ha colore. Lo vedo ogni volta, mi vengono a vedere gruppi sociali diversi, con background diversi. Ma con la musica si riesce ad affratellare persone così diverse. La musica non uccide ma riunisce, salva e può far arrivare a liberare qualcuno come Nelson Mandela. Sono questi i motivi della bellezza della musica. E per questo l’amerò fino alla fine dei miei giorni».
Lei ha dichiarato che «i Paesi forti devono rispettare i popoli. Altrimenti la globalizzazione diventerà la più forte alleata del terrorismo». E ha aggiunto che la musica serve anche a chiedersi come possiamo fermarla, tutta questa violenza. Quella dei ricchi verso i poveri e quella di chi ha fame e vuole cibo. In che modo?
«Questo è già vero: non si vincerà la guerra al terrorismo se non si accorcerà il gap tra ricchi e poveri. Chi ha le fonti di reddito che permettono di fare delle cose non vorrà mai che qualcuno gliele tolga. Mentre qualcuno che cerca di riuscire nella vita, e non ci riesce, pensa che la risposta sia nella violenza, nel terrorismo. I paesi ricchi non si chiedono perché certa gente lascia il proprio paese per andare all’estero? Se avessero potuto non l’avrebbero lasciato mai. Se fossi stato uomo, avrei potuto magari avere un mercato nel mio paese, ma essendo donna non ho potuto, sono dovuta andare via. In Africa tanti ragazzi sono così, maschi e femmine, che vogliono studiare, farsi una cultura e non se ne andrebbero mai. E quando faccio sessioni musicali, e gli dico che c’è la miseria anche in Europa, e non mi credono. Guardano la tv e pensano a un mondo diverso. Inutile porre i problemi, vedono solo l’aspetto positivo.
La risposta sta dentro di noi. Se prendiamo in mano questa risposta, possiamo cambiare. Appena ho cominciato a fare musica, i musicisti tradizionali mi dicevano sempre che dovevo amare me stessa, e rispettarmi, e potevo così fare questo agli altri, perché tutti hanno bisogno di amore e rispetto. Amore e rispetto. Con cultura ed educazione servono a cambiare la propria vita e la vita degli altri. E a risolvere i problemi».

l’Unità 19.10.08
Firenze. La bella giornata degli studenti
Diecimila in strada a Firenze insieme ai professori. A Sesto sfilano universitari e genitori
Metà delle occupazioni prosegue fino a martedì, giorno della manifestazione regionale
di Tommaso Galgani


Tre cortei hanno coronato una settimana di mobilitazione da parte di tutto il mondo della scuola contro le scelte del governo. A Firenze gli studenti medi hanno sfilato in una manifestazione autogestita. A Sesto Fiorentino due cortei: universitari la mattina e genitori il pomeriggio. Ma non finisce qui.
In barba alle previsioni, quasi la metà degli istituti superiori fiorentini domani proseguiranno con la protesta contro i tagli a scuola e università. Se gli studenti del Da Vinci e Newton domani torneranno sicuramente tra i banchi, Castelnuovo, Rodolico, Ginori-Conti, Elsa Morante e Alberti sono fra quelli in cui è già stato stabilito di proseguire con l’occupazione almeno fino a martedì, giorno della manifestazione organizzata dagli universitari di tutta la Toscana. In altri istituti, come il Gobetti e il Volta, si passerà a forme di autogestione, ma le assemblee andranno avanti anche lì fino a martedì. All’Istituto d’Arte non solo continua l’autogestione, ma martedì si deciderà se occupare la sede della succursale. In tanti altri licei e istituti superiori, come per esempio al Gramsci, al Michelangiolo e al Galileo, la forma da dare al futuro della propria protesta verrà stabilita oggi. Fissato per oggi pomeriggio anche un incontro-assemblea alle 14.30 in SS. Annunziata, promosso da alcuni studenti delle scuole superiori, per studiare un modo condiviso con cui far proseguire le mobilitazioni. Intanto, in questi giorni, alcuni presidi hanno segnalato in procura le occupazioni degli istituti, «come atto dovuto».
Intanto il comitato docenti del liceo Il Pontormo di Empoli invita tutti a un’assemblea domani sera alle 21.30 al PalaEsposizioni, mentre mercoledì il segretario regionale del Pd Andrea Manciulli, incontrerà alcuni rappresentanti del movimento studentesco universitario, professori e ricercatori toscani.
Per quanto riguarda la manifestazione regionale di martedì, il ritrovo è fissato per le 9:45 in piazza San Marco. Il corteo che proseguirà per le vie del centro storico, toccando simbolicamente la sede della Prefettura, per consegnare il documento della manifestazione affinché venga trasmesso ai ministri competenti. Lo stesso documento sarà recapitato anche alle sedi di Provincia e Regione in via Cavour e del Comune in Piazza della Signoria.

l’Unità 19.10.08
Firenze. La manifestazione autogestita dei liceali
Migliaia in corteo. «Abbiamo fatto tutto da soli. Non siamo burattini manovrati da qualche burattinaio»
di Silvia Casagrande


CONTINUA la protesta nei licei e negli istituti cittadini, che si preparano a riscendere in piazza dopodomani a fianco degli universitari di tutta la Toscana

UNA MOLTITUDINE colorata e rumorosa ha riempito le strade del centro di Firenze ieri mattina. Quasi 10mila (7mila per le forze dell’ordine) fra studenti, genitori, professori e simpatizzanti sono riscesi in piazza a solo otto giorni di distanza dall’ultima manifestazione studentesca. In testa al corteo stavolta non c’erano bare o segni di lutto per la morte scuola pubblica, ma un gruppo di ragazzi e ragazze dell’artistico che sbandieravano colorati stendardi a ritmo di tamburi. Sul volto dei ragazzi che camminavano cantando, c’erano sorrisi pieni di speranza. È l’effetto dell’intensa settimana di mobilitazione appena trascorsa: «L’esperienza dell’autogestione e della democrazia diretta - come la chiama un professore del Russell-Newton - deve rimanere dentro di voi anche se le occupazioni si fermeranno. L’esercizio del pensiero critico: è quello che avete fatto questa settimana, studiando e analizzando i testi di legge contro cui vi battete, ed è anche quello che la riforma Gelmini vi vuole togliere».
«È facile governare un popolo di ignoranti», recita uno degli striscioni. «Maestro unico vuol dire pensiero unico», urlano dai microfoni i liceali: «non siamo qui solo per difendere il nostro futuro, ma quello di tutto il Paese». Ecco spiegato perché gli studenti medi si battono per la scuola elementare e l’università, anche se «sono marginalmente toccati dal provvedimento», come ha commentato il ministro Gelmini in un intervista.
«Non siamo burattini nelle mani di nessuno», rispondono gli studenti a chi li accusa di essere manipolati da partiti di sinistra e sindacati: «chiunque voglia partecipare è il ben venuto, ma questa manifestazione l’abbiamo messa in piedi noi e da soli, anzi stiamo facendo colletta per pagare il noleggio del furgoncino (e una multa), aiutateci!». Quando il corteo raggiunge il Duomo, i partecipanti si siedono «per far vedere quanti siamo» e l’invasione di via Cavour è completa. Passanti, bottegai e turisti sono costretti a fermarsi e a guardarli, il volantinaggio si infittisce: c’è chi si congratula, chi li incoraggia ad «andare avanti così», ma anche chi si indispettisce scuotendo la testa e perfino chi ancora si stupisce, chi ancora non si era accorto di quello che succedeva in città.
Sono venuti anche da Pisa, da Pistoia, da Prato e saranno di nuovo qui martedì, a fianco agli universitari di tutta la Toscana, per un altro corteo nel giorno della discussione al Senato del decreto 137. Dopo la conclusione del corteo in piazza Santa Croce, la mobilitazione si è spostata al polo universitario di Novoli, dove, nel corso di un’affollata assemblea, è stato stilato il programma dei prossimi giorni di occupazione: oggi pomeriggio alle 15 «giornata ludico ricreativa» dedicata ai bambini delle elementari e genitori, con burattinaio e giocolieri e stasera alle 22.30 proiezioni di film, documentari e musica (forse dal vivo). Domani alle 14 il ricercatore Duccio Basosi terrà presso il lampredottaio accanto al polo una lezione dal titolo «la civiltà della trippa». Alle 16 sarà la volta del professor Turi in una lezione su «governance della ricerca e potere accademico» che si svolgerà nell’edificio occupato D5.

l’Unità 19.10.08
Da Dante a Ligabue nel corteo dei diecimila
I volti e i simboli della manifestazione di ieri a Firenze: magliette dell’Anpi, canzoni e slogan contro il governo
di M.V. Giannotti


Chi sono i 10mila partecipanti alla manifestazione di ieri a Firenze contro il ministro Gelmini? Professori, genitori e studenti universitari, certo. Ma di sicuro, la stragrande maggioranza sono studenti delle scuole superiori della città. Una mobilitazione che per numeri e impatto non si vedeva da anni.
LE MAGLIETTE Per la maggiore vanno t-shirt autoprodotte con scritte contro il decreto Gelmini. Così come quelle che chiamano direttamente in causa il ministro e il governo. Non mancavano magliette con la scritta «Ezln» (esercito zapatista di liberazione nazionale, che si rifà alla lotta dei militanti messicani del Chiapas), quelle dell’Anpi e di gruppi rock.
LE CANZONI Il furgoncino con tanto di casse che apriva il corteo offriva una play list di canzoni che vanno da quelle storiche delle militanza di sinistra («Contessa» e «Rebel Rebel» di Bowie) fino a quelle più recenti dei Modena City Ramblers della Bandabardò. Senza dimenticare quelle che si rifanno alla tradizione dei partigiani («Fischia il vento», interrotta però a metà perché qualcuno non voleva creare polemiche) e quelle a favore della liberalizzazione delle droghe leggere («Canapa» dei Punkreas). Ma si sentivano anche i System of a Down, must del rock alternativo. Oltre agli immancabili Ligabue, Manu Chao, Bob Marley e i brani evergreen «Sweet home Alabama» e «Il mio nome è mai più», inciso dal trio Jovanotti-Liga-Pelù.
GLI SLOGAN Urlati o cantati, scritti su striscioni o sparati col megafono, gli slogan sono uno dei protagonisti principali della protesta. Si va da «Gelmini e Tremonti state attenti, la scuola è solo degli studenti» a «Contro la scuola dell’obbedienza l’unica risposta è la resistenza». Uno striscione, quello più oggetto dei flash dei fotografi, raffigurava Dante Alighieri che dice «questa legge è un inferno». Un altro esibito da un gruppo di genitori recava la scritta «Giù le mani dal futuro dei nostri figli». t.gal.

l’Unità 19.10.08
«Pio XII non è santo per colpa degli ebrei»
L’accusa del «postulatore», padre Gumpel. Il direttore della sala stampa vaticana smorza la polemica
di Roberto Monteforte


È QUELLA TARGA che blocca tutto. Colpa del mondo ebraico e delle resistenze di Israele se Papa Ratzinger non ha ancora firmato il decreto con la quale si dichiarerebbe beato Pio XII, il pontefice che traghettò la Chiesa oltre il secondo conflitto mondiale e la «guerra fredda». Non ha usato perifrasi il postulatore della causa per la santificazione di papa Pacelli, padre Peter Gumpel. Se la prende con quell’accusa - lo precisa - «di una parte del mondo ebraico» di aver taciuto sulla Shoah. Di non aver fatto tutto il possibile per fermare la razzia degli Ebrei anche al ghetto di Roma deportati nei campi di sterminio. La pietra dello scandalo sarebbe la didascalia che accompagna la foto del pontefice esposta nel nuovo museo, visitatissimo, di Yad Vashem a Gerusalemme, quello sulla Shoah inaugurato nel 2005. «Pio XII eletto nel 1939 - vi si legge - il Papa mise da parte una lettera contro l'antisemitismo e il razzismo preparata dal suo predecessore. Anche quando i resoconti sulle stragi degli ebrei raggiunsero il Vaticano, non reagì con proteste scritte o verbali. Nel 1942, non si associò alla condanna espressa dagli Alleati per l'uccisione degli ebrei. Quando vennero deportati da Roma ad Auschwitz, Pio XII non intervenne». Dieci righe che suonano come staffillata per la Chiesa di Roma. Dopo le proteste formali della Santa Sede, ieri, si è scagliato il padre «postulatore». «La causa di beatificazione di Pio XII, ormai conclusa e su cui manca solo la firma di Benedetto XVI - confida all’Ansa -, non si sblocca perché il Papa vuole avere buoni rapporti con gli ebrei». Che papa Pacelli abbia effettivamente esercitato le virtù cristiane a un grado «eroico» sarebbe oramai indubbio per la Curia romana. Ma manca l’ultimo passaggio, la firma del Papa tedesco per la quale ha chiesto tempo. Questione di opportunità «politica», di buoni rapporti tra Chiesa e Stato d’Israele, visto che in numerose occasioni autorità politiche e religiose, da ultimo il rabbino capo di Haifa intervenuto al Sinodo dei vescovi, hanno chiesto di non procedere. Di attendere che i loro studiosi abbiano accesso a quegli archivi segreti vaticani successivi al 1939, ancora non «aperti». Padre Gumpel le carte, anche quelle ancora coperte da segreto che danno conto del rapporto tra la Santa Sede e la Germania dal 1930 al 1950, le conosce bene e ricorda i numerosi attestati di riconoscenza di parte ebraica a Pio XII. Infine aggiunge un’altra considerazione. Il Papa «vuole andare in Israele al più presto» ma ciò è «impossibile fino a quando la didascalia sotto la fotografia di Pio XII al museo dello Yad Vashem, evidente falsificazione storica non sarà rimossa». Conclude: «Sarebbe uno scandalo per i cattolici».
Su questo punto arriva in serata la smentita del direttore della sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi. «La targa su Pio XII nel museo di Gerusalemme dello Yad Vashem, per quanto “rilevante”, non è un fatto “determinante” nella decisione di un eventuale viaggio del Papa in Israele». Da parte israeliana prende posizione il portavoce del ministero degli Esteri,Yossi Levy. «Papa Benedetto XVI resta per Israele un ospite gradito ed amato». Sulla «targa» contestata il portavoce si limita ad osservare che «lo Stato di Israele non commenta le dichiarazioni di persone che non sono state autorizzate a parlare a nome di papa Benedetto XVI».

l’Unità 19.10.08
Allo Yad Vashem: «Quell’uomo per noi non ha mosso un dito»
I commenti al Museo dell’Olocausto di Gerusalemme. Una ferita aperta e gli inviti alla prudenza verso la Santa Sede
di Umberto De Giovannangeli


«Mise da parte una lettera contro antisemitismo e razzismo preparata dal suo predecessore»
Shear Yesuv Cohen: «Crediamo che non dovrebbe essere beatificato o preso
a modello»

I RAGAZZI e le ragazze in divisa militare visitano attenti, in silenzio, le sale dello Yad Vashem, il Museo dell’Olocausto nel cuore della Gerusalemme ebraica. Mi
affianco al gruppo, che si ferma a leggere la didascalia che accompagna la foto di Pio XII. Un ragazzo occhialuto dice alla bionda ragazza in divisa: «Quell’uomo poteva salvare tanti ebrei, ma non ha mosso un dito...». E’ una testimonianza diretta. Che dà conto di un sentire comune che unisce molti dei sopravvissuti dai lager nazisti con le giovani generazioni di Israele: il giudizio negativo sul comportamento di Papa Pio XII. Un sentimento profondamente radicato, tanto da influenzare la stessa diplomazia dello stato ebraico nei confronti della Santa Sede. Israele ambirebbe alla visita ufficiale di Benedetto XVI ma non al prezzo della rimozione di quella didascalia che recita: «Eletto nel 1939, il Papa (Pio XII) mise da parte una lettera contro l’antisemitismo e il razzismo preparata dal suo predecessore. Anche quando i resoconti sulle stragi degli ebrei raggiunsero il Vaticano, non reagì con proteste scritte o verbali. Nel 1942, non si associò alla condanna espressa dagli Alleati per l’uccisione degli ebrei. Quando vennero deportati da Roma ad Auschwitz, Pio XII non intervenne». Una decina di righe: più che una didascalia, quelle righe hanno il contenuto e il tono di una requisitoria. Per Israele, Pio XII resta il «Papa dei silenzi». Silenzi pesanti. Pesanti come la morte. Come pesante è stato il silenzio del governo di Gerusalemme, e della direzione dello Yad Vashem, di fronte alla dichiarata volontà di Papa Ratzinger di avviare il processo di beatificazione di Papa Pacelli. A parlare, in quell’occasione è stato il direttore per gli Affari interreligiosi dell’American Jewish Committee, rabbino David Rosen, che ha invitato il Vaticano a tener conto delle "sensibilità" dei sopravvissuti alla deportazione e a "rinviare" qualsiasi decisione almeno fino all’apertura degli archivi ufficiali, tra cinque anni. Più dure le parole pronunciate dal rabbino capo di Haifa, Shear Yesuv Cohen, in occasione del recente Sinodo dei vescovi: «Crediamo che non dovrebbe essere beatificato o preso a modello, perché ha mancato di salvarci o di levare la sua voce, anche se ha cercato segretamente di aiutare». Affermazioni tanto più significative per il contesto e l’occasione in cui sono state svolte: era la primissima volta che un esponente ebraico veniva invitato al Sinodo dei vescovi.
«Ratzinger lo celebra? Se lo sapevo non venivo al Sinodo. Non siamo contenti dei tentativi nella Chiesa di dimenticare questo triste capitolo», aveva sottolineato il rabbino Cohen. «La verità storica non può essere piegata alle ragioni della diplomazia», dice a l’Unità una fonte autorevole vicina alla direzione dello Yad Vashem. In un Paese che fa della memoria della Shoah un elemento fondante della propria identità nazionale, la beatificazione di Pio XII verrebbe vista come un affronto. Peggio: come un oltraggio alla memoria dei milioni di ebrei sterminati nei lager nazisti. Per questo sarà molto difficile che quella didascalia venga rimossa. Perché Israele non può, non vuole dimenticare i silenzi di un Papa.

Repubblica 19.10.08
Un rapporto segreto del britannico Osborne su Pio XII
L’ambasciatore scrisse "Ho visto il pontefice parla bene dei tedeschi"
Il diplomatico nazista "Il Papa si augura che manteniamo le posizioni in Urss contro i comunisti"
di Francesco Bei


ROMA - Sarà pure, come dice padre Gumpel (il gesuita che lo vorrebbe beato), tutta «una montatura». Ma certo i nuovi documenti su Pio XII, scoperti dagli studiosi Giuseppe Casarrubea e Mario J. Cereghino negli archivi americani e inglesi, non solo sembrano confermare i giudizi degli ebrei sul Pontefice ma ci restituiscono un Pacelli schierato con i nazisti in funzione anticomunista. Si tratta in particolare di due documenti segreti, che saranno pubblicati dai ricercatori in un volume di prossima uscita presso Bompiani. Il primo dà conto dell´incontro tra Pio XII e Sir d´Arcy Osborne, inviato straordinario inglese, che si svolge in Vaticano due giorni dopo il brutale rastrellamento di mille ebrei romani.
I due si vedono il 18 ottobre, mentre alla stazione Tiburtina le SS stanno ancora facendo salire gli ebrei sui carri bestiame, destinazione Auschwitz. L´inviato della Gran Bretagna, che trasmetterà poi a Londra il resoconto dell´udienza, fa notare al Papa come Roma sia «alla mercé dei tedeschi, che sistematicamente la privano di tutti i rifornimenti e della manodopera, che arrestano ufficiali italiani, giovani e carabinieri e che applicano metodi spietati nella persecuzione degli ebrei. (...) Io ho affermato che Egli dovrebbe fare tutto il possibile per salvaguardare lo Stato del Vaticano e i suoi diritti alla neutralità. Egli ha replicato che, in tal senso e fino a questo momento, i tedeschi si sono sempre comportati correttamente».
Insomma, dal documento inglese sembra che il Papa sorvoli sul rastrellamento del ghetto, sottolineando invece la «correttezza» dei tedeschi con la Chiesa. L´altro rapporto segreto è quello che l´ambasciatore tedesco presso il Vaticano, von Weiszaecker, invia a Berlino il 13 dicembre del �43. «Il Papa - scrive il diplomatico a Ribbentrop - si augura che i nazisti mantengano le posizioni militari sul fronte russo e spera che la pace arrivi il prima possibile. In caso contrario il comunismo sarà l´unico vincitore in grado di emergere dalla devastazione bellica. Egli sogna l´unione delle antiche nazioni civilizzate dell´Occidente per isolare il bolscevismo a Oriente. Così come fece papa Innocenzo XI, che unificò l´Europa contro i Musulmani».
Cereghino, il ricercatore d´archivio che ha trovato queste carte e le ha lette in originale, è convinto della loro importanza: «Sono un atto d´accusa non indifferente del quale non si potrà non tener conto in futuro. I documenti confermano i dubbi che gli ebrei, soprattutto quelli italiani, hanno sempre avuto su Pio XII».

l’Unità 19.10.08
Su Berlusconi l’affondo del «Financial Times»
«Silvio adulato a livelli nordcoreani»
In linea con l’Agcom: nei tg si parla solo del governo
di Roberto Brunelli


L’Authority: nei tg Mediaset il tempo di parola lasciato all’esecutivo arriva all’80%
Grandi squilibri anche in Rai: al Tg2 il 65% va alla destra

SILVIO COME IL «CARO LEADER», al secolo Kim Jong-Il. Lo dice, in pratica, il Financial Times: l’inquilino di Palazzo Chigi riceve dai media italiani «un’adulazione vicina ai livelli nordcoreani», scrive l’autorevole quotidiano britannico in una corrispondenza da Roma firmata Guy Dinmore, e non è esattamente un complimento. L’osservazione - che appare non su un noto foglio comunista, ma sulla bibbia del liberismo occidentale - fa il paio con i dati diffusi ieri l’altro dall’Autorità per le telecomunicazioni, che denuncia lo spaventoso sbilanciamento nei telegiornali nostrani a favore del governo e dei partiti della maggioranza.
Il monitoraggio effettuato dall’Agcom copre il periodo da aprile a settembre: nelle testate Mediaset il tempo di parole a favore dell’esecutivo raggiunge punte tra il 60 e il 75% del totale, e le cose non vanno poi tanto meglio in Rai. Nello specifico, Studio aperto riesce addirittura a battere il Tg4, offrendo al governo l’82,2% del proprio spazio, mentre il Tg4 si «ferma» all’80,8%: quel che resta dell’opposizione sono briciole. Il Tg1 lascia invece il 48,16% al governo e il 27,6 all’opposizione, nel Tg2 lo sbilanciamento arriva al 65,7% contro il 18,8%, mentre il Tg3 si ferma, per l’esecutivo, al 50,1% con l’opposizione rappresentata al 35,8%. Divertente la dichiarazione di difesa di Mauro Mazza, direttore del Tg2: «In periodi di emergenza il governo parla, dice, rassicura, prende provvedimenti. È normale che sia così».
Hai voglia poi a dire che il premier è popolarissimo in Italia, come sostiene ancora il Financial Times, che riferisce di un sondaggio Ipr Marketing che dà la «quota di fiducia» data al premier dagli italiani al 62%. «Gli italiani stanno celebrenado il ruolo dello Stato salvatore», scrive Dinmore, e l’esempio-chiave è Alitalia. Certo, non è tutto l’oro quel che luccica, e i nodi prima o poi potranno venire al pettine visto che, come dice (sempre citato dall’Ft) Ilvo Diamanti, «il nuovo Stato salva banche e mercati, ma non la scuola e il welfare», iniziando a riempire le piazze. Dinmore non è tenero: «La luna di miele potrebbe accorciarsi: a Milano il processo a carico di David Mills, un avvocato inglese accusato di esser stato corrotto da mr. Berlusconi, è ripartito ieri».
Intanto però le fanfare di Re Silvio suonano più forti e colorite che mai: venerdì sera Rete4 ed Emilio Fede hanno brillato con uno speciale da antologia sulla visita del premier dall’amico George a Washington. Un’ode, punteggiata di vibrante entusiasmo, dove si narra alatamente dei due amici «che si intendono a colpo d’occhio» e che culmina nell’integrale del discorso dell’uomo di Arcore nel giardinetto della Casa Bianca: ebbene sì, il celebre discorso per il quale la Storia riserverà a Bush un posto di «grande, grandissimo presidente degli Stati Uniti d’America».
Insomma, l’emergenza media c’è, eccome. «Anche il Financial Times si occupa dell’anomalia italiana», dice Vinicio Peluffo, Pd, membro della Commissione di Vigilanza Rai. E aggiunge il senatore Vincenzo Vita, che «la lettura attenta dei dati forniti dall’Agcom non solo dà ragione al commento amaro del quotidiano britannico, ma fa riflettere sull’inaudita presenza del presidente del consiglio sugli schermi. La stessa Autorità avrà il compito di trarre le dovute conseguenze sulle violazioni del pluralismo e sulla necessità di un urgente riequilibrio comunicativo. Per esempio, invitando i contenitori domenicali a interrompere la prassi assai discutibile di chiamare in trasmissione ministri in carica. Il caso si ripeterà anche domani (oggi, ndr), con l’annunciata presenza a Canale 5 della ministra Mara Carfagna».
PS. «Ufficialmente il governo nordcoreano si presenta come uno Stato multipartitico guidato secondo l’ideologia politica della “Juche”, ovverosia dell’autosufficienza, ma molti osservatori occidentali lo considerano sottoposto ad un duro regime dittatoriale» (dalla voce “Corea del Nord”, Wikipedia).

l’Unità 19.10.08
Palladio, geometria e invenzione del Moderno
di Renato Barilli


ARCHITETTURA A Vicenza omaggio al grande artefice che con Leon Battista Alberti schiuse le vie della modernità architettonica. Soluzioni semplici e geniali con figure geometriche rielaborate ed essenziali

È più che giusto che per protagonisti d’eccezione si colgano a volo le occasioni dei centenari dalla nascita o dalla morte per metterne in scena grandiose celebrazioni. Questa volta l’onore tocca all’architetto Andrea Palladio (1508-1580), per il quale Vicenza, sua città d’elezione, ha predisposto un’ampia rassegna, in Palazzo Barbaran da Porto (a cura di Guido Beltramini e Howard Burn, fino al 6 gennaio, poi alla Royal Academy di Londra). Il Palladio fu uno dei principali fondatori di una linea che potremmo legare al concetto del moderno, in sé alquanto usurato, ma in questo caso esso va preso nel senso secondo cui negli anni Venti del Novecento si ebbe appunto un fondamentale Movimento Moderno, avente tra i vari membri anche il francese Le Corbusier, che molto opportunamente, in mostra, è menzionato come uno degli ultimi eredi dell’insegnamento da lui partito. In realtà, occorrerebbe fare un passo indietro di circa altri cento anni e venire a Leon Battista Alberti, nato nel 1406, cui, in occasione del relativo centenario, si sono tributati omaggi a dire il vero alquanto caotici, non nitidi e concentrati come questo riservato al Palladio. E dunque l’erede diretto risulta meglio trattato rispetto al progenitore. Ma appunto dall’Alberti al Palladio parte una tendenza irresistibile che altra volta mi è piaciuto siglare con un’etichetta scandalosamente anacronistica, quella di Minimalismo. Infatti essi hanno insegnato all’intero Occidente che l’architettura poggia su un numero ridottissimo di elementi primari, il pilastro, che sostiene l’architrave, con spigoloso e rigido angolo retto; o in luogo del pilastro può entrare anche la colonna, ma già meno bene; e certo vi sta pure l’arco, dono prezioso proveniente dall’arte romana. Attraverso una oculata distribuzione spaziale di questi pochi dati strutturali può venir fuori qualsivoglia edificio, ecco la grande lezione congiunta proveniente dai due. Che però, ovviamente, l’hanno applicata in modi alquanto diversi. L’Alberti non poteva non essere ligio ai canoni dell’Umanesimo, e dunque, questa sua concezione della scatola elementare doveva essere rapportata alle misure dell’uomo, venir concepita in modi raccolti e unitari. Il Palladio invece, per questo verso più lanciato verso traguardi ulteriori della modernità, non si sente vincolato al rispetto di quelle auree misure, e dunque tende a prolungare senza limite la scatola, facendone una stecca, per così dire, un edificio pronto a ospitare le complesse funzioni della burocrazia o dell’industria, gli alveari in cui l’individuo deve rassegnarsi ad essere racchiuso. Ma in entrambi i casi alla base di tutto c’è una griglia, una scansione implacabile di orizzontali-verticali.
Naturalmente una mostra dedicata a un architetto non può esibire le sue realizzazioni tridimensionali, deve limitarsi a schizzi e abbozzi, possibilmente autografi, ed è quanto la rassegna vicentina fa con abbondanza. Così, riesce perfettamente possibile seguire la marcia risoluta del Palladio verso il moderno, che qui potremo puntualizzare attraverso alcune tappe. Iniziando con Villa Pisani a Bagnolo, se ne veda in particolare il retro, dove compare appunto la scatola, a pareti lisce, sgombrate di ogni ornamento, anche Gropius avrebbe potuto firmare un progetto del genere. Palazzo Chiericati, poco dopo, segna un passo più avanti, a favore della nudità di una griglia strutturale, al punto che nelle ali dell’edificio scompare la riempitura muraria, il pretesto di continuare il corpo centrale dell’edificio con due verande aperte consente all’architetto di lasciar cadere appunto il riempitivo, e l’ossatura dell’edificio può apparire a nudo, quasi che egli potesse già valersi di pilastri in cemento armato. Un altro dei tratti che il Vicentino eredita dall’Alberti, ed è di nuovo un segno di avanzante modernità, di quella modernità che arriverà a condannare l’ornamento «come un delitto», sta proprio nella riduzione del ricorso a statue ornamentali. Queste ci sono, nella cimasa di Palazzo Chiericati, ma come prolungamenti dello slancio verticale delle strutture portanti, per ribadirlo, piuttosto che per nasconderlo. Ma veniamo alle modalità con cui il Palladio affronta il tema vincolante delle facciate delle chiese, portatrici di esigenze di culto da cui non è facile svincolarsi. Eppure anche in questo caso egli parte da una sorta di scatola essenziale, magari scandita lungo l’intera sua superficie dal motivo di colonne, però agili, simili a putrelle metalliche. E poi, per ricavare sia il timpano della navata centrale, sia quelli delle navate laterali, ovvero per interrompere il dominio dell’angolo retto, il nostro grande progettista inserisce un dimezzamento, un motivo in diagonale, il quadrato insomma viene diviso in due, ma mentalmente l’osservatore può effettuarne un raddoppio, e restituire la totalità dell’insieme. Questo il ritmo di scomposizione e immediata ricomposizione che il Palladio applica ai due gioielli veneziani, S. Giorgio Maggiore e il Redentore. Ma se si vuole ammirare la sua genialità all’opera, senza vincoli utilitari, si vadano a vedere i suoi disegni per illustrare i campi di battaglia, per esempio il dispiegamento delle legioni con cui Cesare andò alla conquista della Gallia. Sono davvero composizioni allo stato puro, estensioni illimitate di tanti moduli minimali che si associano in una grammatica al tempo stesso libera e vincolante.
Andrea Palladio 500 Vicenza Palazzo Barbaran da Porto Fino al 6 gennaio Catalogo Marsilio

Repubblica 19.10.08
De Benedetti: "Dopo quello di Berlino è crollato anche il muro di Wall Street"


ROMA - «Quello che è successo e succederà è un fatto storico che ricorderemo. Così come la crisi del ´29, passerà nella storia dell´economia». Lo ha detto il presidente di Cir e Gruppo Espresso, Carlo De Benedetti, durante la trasmissione Che tempo che fa condotta da Fabio Fazio, a proposito della crisi finanziaria. De Benedetti ha ricordato che ci sono state «due grandi cadute di muri: quello di Berlino ha fatto credere agli Usa di poter gestire il mondo da soli. Poi c´è stato il crollo del muro di Wall Street. Vi sembra poco?». La parte più acuta della crisi è stata risolta con un intervento da 2.000 miliardi, che De Benedetti considera giusto. «Ma ormai è chiaro - ha aggiunto - che siamo in recessione e la discussione è quale sarà il prossimo step. Penso che arriveremo alla deflazione. Praticamente è il consumatore a decidere di non comprare più perché aspetta che un prodotto costi meno». De Benedetti si augura che «ognuno di noi conquisti padronanza del proprio destino. La riforma siamo noi, io non credo alle riforme dall´alto, credo a quelle dal basso. L´Italia dopo la guerra era distrutta. I nostri padri hanno saputo guadagnare 23 punti di Pil rispetto alla Germania». De Benedetti ha definito, infine, quella italiana una «democrazia a scartamento ridotto se chi siede in Parlamento non è stato eletto ma nominato». Non si può «certo parlare di regime, però, se la libertà di espressione è totale».

Repubblica 19.10.08
La Lega: niente assistenza medica ai clandestini
di Vladimiro Polchi


Emendamento al Senato. E Maroni attacca la Libia: rispetti gli accordi sugli immigrati
È polemica per l´emendamento del Carroccio I sanitari: non siamo delatori

ROMA - Medici delatori per la polizia. Immigrati irregolari privi di cure mediche gratuite. Monta la protesta contro un emendamento al ddl sicurezza presentato dalla Lega Nord. «Salta il diritto alla salute per gli stranieri», denunciano Medici senza Frontiere, Asgi e Società italiana di medicina delle migrazioni. Su altro fronte il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, accusa: «Le classi differenziate per bambini italiani e stranieri rischiano di far nascere delle banlieu». Ma il ministro dell´Interno, Roberto Maroni, è di ben altra opinione: «L´Italia è uno dei Paesi che integrano di più». Poi, rivolto alla Libia: «Spero che il governo libico, oltre a pensare a Unicredit, nei prossimi mesi si convinca ad attuare gli accordi sul controllo dell´immigrazione già sottoscritti».
Al centro delle polemiche è un emendamento presentato dal Carroccio in Senato, che mira a modificare l´articolo 35 del Testo unico sull´immigrazione. In particolare si vuole cancellare il comma 5, in base al quale «l´accesso alle strutture sanitarie da parte dello straniero non in regola con le norme sul soggiorno non può comportare alcun tipo di segnalazione all´autorità». Quale è la logica di questa norma? «Non solo quella di curare l´immigrato irregolare - spiega Salvatore Geraci, presidente della Società italiana di medicina delle migrazioni - ma di tutelare la collettività: il rischio di denuncia contestuale alla prestazione sanitaria spingerebbe infatti a una clandestinità sanitaria pericolosa per l´individuo, ma anche per la popolazione italiana in caso di malattie trasmissibili». Insomma, si rischia di trasformare i medici in delatori. Non è tutto. L´emendamento leghista mira anche a eliminare la gratuita delle cure per gli stranieri. Critica l´Asgi (Associazione studi giuridici sull´immigrazione): «La previsione di sopprimere la gratuità della prestazione urgente o essenziale erogata agli stranieri non iscritti al servizio sanitario nazionale e privi di risorse economiche sufficienti, cozza con l´articolo 32 della Costituzione, che tutela la salute come fondamentale diritto dell´individuo, garantendo cure gratuite agli indigenti». Sul piede di guerra anche Medici senza Frontiere, che dal 2003 a oggi ha attivato in Italia 35 ambulatori per stranieri privi di permesso di soggiorno, visitando 18mila pazienti. «Con questo emendamento leghista - denuncia Antonio Virgilio, capo missione dei progetti italiani di Msf - si mette in seria discussione uno dei diritti fondamentali dell´uomo, quello alla salute».
Sul fronte immigrazione si registra poi lo scontro tra Maroni e Chiamparino, intervenuti ieri a Saint Vincent, al convegno di studi della Fondazione Donat-Cattin. A dare fuoco alle polveri è il sindaco di Torino: «Il provvedimento del governo che prevede classi differenziate per bambini italiani e stranieri rischia di essere la base per un fenomeno banlieue». Il ministro Roberto Maroni replica: «L´Italia è tra i primi Paesi europei per la qualità dell´integrazione. Siamo al settimo posto su 25 paesi dell´Unione e se si considerano i cinque Paesi con il più alto tasso di immigrazione (Italia, Regno Unito, Spagna, Germania, Francia), il nostro è al primo posto». Poi aggiunge: «L´Italia dà asilo politico a oltre 8 mila persone all´anno». E infine: «Per risolvere il problema dell´immigrazione dalla Libia c´è un modo, occorre che il governo libico attui un accordo che già c´è».

Corriere della Sera 19.10.08
La ricerca Presi in esame gli abitanti di 90 Paesi. I cittadini intervistati anche sul benessere, legato alle condizioni economiche
I risultati Il primo studio è stato fatto nel 1981. «Nell'ultimo quarto di secolo c'è stato un miglioramento per l'umanità»
La classifica mondiale della felicità
In testa i Paesi dell'Est europeo. Italia in calo «Dove aumentano le libertà, l'indice sale»
di Federico Fubini


C'è una foto che rischia di passare alla storia dei crolli di questi mesi, come i bronzi di Lenin rovesciati sul selciato simboleggiarono la caduta del comunismo. È stata scattata a New York il mese scorso. Una ragazza in un elegante, costoso tailleur, accovacciata sul marciapiede, scrive a pennarello un insulto su un poster buttato per strada. Il volto nel quadro è quello di Richard Fuld, il capo di Lehman Brothers. Gli impiegati passano davanti a quell'icona abbattuta mentre escono dal grattacielo della banca fallita, e a turno vi lasciano una frase. Spesso sono sarcastici «grazie Dick!».
La ragazza, neo-disoccupata, sorride mentre scrive. E ora che esce a pezzi il mito della ricchezza smodata, dell'aumento dei consumi come misura principale della felicità, quel Fuld abbattuto potrebbe essere la copertina di uno studio che prova a ribaltare alcune presunte certezze di questi anni di crescita globale vertiginosa. L'articolo su «Sviluppo, libertà e felicità crescente» è appena stato pubblicato sul prestigioso Perspectives on Psychological Science. Uno dei quattro autori è Roberto Foa, studente italo-inglese di PhD di scienze politiche a Harvard e associato di ricerca della World Value Survey, il progetto mondiale di sondaggi. Gli altri sono politologi e psicologi delle Università del Michigan e di Brema.
La conclusione dei quattro studiosi è che l'umanità ha conosciuto nell'ultimo quarto di secolo «un enorme aumento della felicità». Ma un simile balzo sarebbe da collegare più al progresso delle libertà personali e politiche in quasi tutti i Paesi del mondo, che al miglioramento delle condizioni materiali. Se questo è vero, resterebbero allora da approfondire i risultati dello studio relativi all'Italia, dove ad esempio la quota di popolazione che si definisce «molto felice» è in calo e resta più bassa che in quasi tutti gli altri Paesi europei.
Ma Roberto Foa e i suoi tre colleghi non si soffermano troppo sui singoli casi dell'Europa occidentale. Il loro studio è globale, su un campione di 90 Paesi che coprono i nove decimi della popolazione mondiale e basato su 350 mila interviste della World Value Survey. Le domande, sempre le stesse dall'Ucraina alla Cina, dall'Africa subsahariana agli Stati Uniti, spingono gli intervistati a valutare il proprio livello di «felicità» e di «soddisfazione nella vita» (o benessere). La prima è intesa come espressione degli stati d'animo, la seconda viene legata alle condizioni di sviluppo economico. Esattamente il tipo di domande di cui nell'Occidente agiato, o minacciato dall'impoverimento dei ceti medi, si occupano guru, santoni e medici che a pagamento offrono consolazione di vario tipo.
La differenza qui è che il prodotto sono tabelle sorprendenti. Quella più originale mostra come nei 52 Paesi per i quali sono disponibili dati su almeno un decennio (ma per molti il sondaggio va dall'81 al 2007), il senso di benessere individuale è aumentato in 40 casi ed è diminuito solo in 12. In media, la quota globale di coloro che si definiscono «molto felici» sale del 7%. In Italia, passa dal 10% dell'81 al 18% del '99 per ricadere poi al 16% del 2007; in Francia, invece, si va dal 19% dell'81 a un picco del 36%, per poi ricadere al 31% del 2007. Ma, appunto, non si tratta solo di una fotografia delle condizioni materiali di vita perché ad esempio anche l'Ungheria, un caso di transizione difficile dal comunismo al mercato, «batte» l'Italia salendo dall'11% al 17% di popolazione che si dichiara «molto felice». E nei punteggi della World Value Survey persino la Russia scavalca l'Italia in fatto di «felicità», benché resti nettamente indietro sui dati più economici di benessere o «soddisfazione nella vita».
Possibile? Gli autori ricordano la conclusione di Tucidide, lo storico aristocratico ma esiliato dall'Atene del quinto secolo avanti Cristo: «Il segreto della felicità è la libertà». E credono di trovarne le prove nei loro dati. Da un lato c'è quella che chiamano «la legge dei rendimenti calanti», ossia l'assuefazione: una volta risolto il problema della sussistenza e raggiunto un certo benessere materiale, l'aumento del reddito contribuisce via via sempre di meno a quella strana condizione che chiamiamo «felicità».
Insomma i soldi non fanno, o non farebbero, la felicità. Dirlo suona banale o peggio ipocrita, eppure gli autori ne indicano un riscontro nell'evoluzione della galassia dei Paesi dell'ex blocco sovietico da quando è caduto il comunismo. Il collasso del sistema ha creato crisi economica e catastrofi sociali ovunque oltre l'ex cortina di ferro, ma l'aprirsi di nuove possibilità di scelta ha avuto lo stesso un effetto psicologico benefico sulle persone. Non è un caso se i Paesi che nello studio mostrano il coefficiente più elevato di «felicità» sono Moldova (2.52), Romania (2.44), Bulgaria (2.40). Osservano Foa e soci: «Negli anni dopo l'81 la Russia ha vissuto una liberalizzazione politica e un trauma economico. Mentre i livelli di felicità personale salivano, quelli di soddisfazione (materiale,
ndr) nella vita cadevano bruscamente». Altro esempio simile è quello degli ungheresi, meno soddisfatti del loro tenore di vita ma più «felici», mentre la Bielorussia sembra la riprova all'opposto: con la Serbia, è l'unico Paese ex socialista in cui coloro che si dichiarano «molto felici» non aumentano. Ma il governo di Minsk è anche l'unico rimasto una dittatura totalitaria.
Insomma se i soldi non fanno la felicità globale, questa sarebbe favorita da quelle che Foa e colleghi chiamano «istituzioni»: democrazia, Stato di diritto, tolleranza. Poco importa se queste siano garantite da una socialdemocrazia alla scandinava o dal superliberismo all'australiana. «Lasciate alla propria autodeterminazione, le persone sono perfettamente capaci di organizzare la propria felicità», concludono gli autori. Essa sarebbe insomma sinonimo di possibilità di scelta, di espressione e di affermazione anche per le minoranze etniche o sessuali.
Ovvio che le disuguaglianze sociali complicano gli equilibri comunque. Ma non stupisce se nella World Value Survey la Cina iper-autoritaria emerge con uno dei maggiori cali al mondo nella quota dei cittadini che si dicono «molto felici», anche dopo vent'anni di crescita economica a doppia cifra. Né meraviglia che dopo otto anni di Vladimir Putin i russi siano più «soddisfatti della vita», ma meno «felici», che ai tempi disastrati di Boris Eltsin. Perché la sfida è qui: dagli anni '80 in poi, l'Occidente era riuscito almeno a essere (a volte) credibile nel produrre libertà. A patto, ovviamente, che il crollo dell'icona di Fuld, con il ritorno del paternalismo di Stato in Occidente, non porti anche effetti collaterali indesiderati.

Corriere della Sera 19.10.08
I ricercatori spiegano cosa c'è dietro il sentirsi meno felici nel nostro Paese
«Gli italiani? Hanno poche opzioni»
«E spesso si sentono perdenti nel confronto internazionale»
di F. Fub.


Come si faccia a lavorare a un sondaggio sul 90% dell'umanità, a Roberto Foa non va neppure chiesto: per lui è normale. A 26 anni lo fa da tempo come associato di ricerca della World Value Survey, l'organizzazione internazionale che segue le principali tendenze nell'opinione pubblica internazionale. E a forza di raccogliere quei dati, il giovane studioso italo-inglese di Harvard ha capito che, nell'era della globalizzazione, neppure lo sviluppo economico da solo può bastare. Non se non si accompagna a nuove possibilità di decidere come esprimersi nella vita personale e civile, quale stile di vita seguire.
Foa lo ha notato in aree del mondo dove il reddito è bassissimo, ma anche quei dati aiutano a spiegare il paradosso italiano. «In Mali, Burkina Faso, Tanzania e in altri Paesi democratici del-l'Africa subsahariana — dice Foa — le persone intervistate tendono a dichiararsi nel corso degli anni meno soddisfatte, ma più felici». La «soddisfazione » deriva dal confronto dei propri beni materiali con quelli del vicino, spiega Foa. La «felicità » riguarda invece l'eterna domanda sul «chi vuoi essere» o l'obiettivo che vuoi raggiungere, rispetto a ciò che sei. Quegli africani meno soddisfatti, ma più felici, non indicano che il denaro non conta: fanno capire che esiste anche un benessere impossibile da monetizzare.
Se questo è vero resta da capire perché l'Italia, la terra della qualità della vita, sia relativamente indietro nelle classifiche della World Value Survey.
È vero che dall'81 al 2007 nel Paese il «benessere soggettivo» (la somma di soddisfazione materiale e felicità) è aumentato più che in Germania, Danimarca o negli Stati Uniti. Ma è cresciuto meno che in Ucraina, Moldova, Bulgaria o Spagna. E soprattutto, in base ai sondaggi, nella graduatoria in termini assoluti gli italiani emergono fra i più in ritardo in Occidente e indietro anche rispetto a Paesi più poveri (ma non più liberi) come Nigeria, Guatemala, Ghana, Colombia.
La cucina e la bellezza artistica o naturale sembrano non bastare più agli italiani. Anche l'impressione che il tenore di vita sia minacciato dalla nuova concorrenza internazionale fa la sua parte. Foa propende però per una una spiegazione psicologica. «L'Italia registra un forte aumento della felicità negli anni '60 e '70, mentre la trasformazione sociale dagli anni '80 in poi non è stata così forte come in Spagna o in Irlanda», osserva. In altri termini, è ormai da una generazione che gli italiani non vivono più «un aumento nella libertà di scelta personale rapido come quello di altri Paesi europei, e ciò contribuisce a diffondere l'impressione nelle persone di avere opzioni più limitate nella vita».
Ma benessere mentale ed economico non si separano facilmente, ed è qui che si fa sentire la stagnazione prolungata del potere d'acquisto. Il confronto internazionale demoralizza, sostiene Foa: «Negli anni '80 all'Italia riuscì il famoso sorpasso sulla Gran Bretagna in termini di prodotto interno lordo — ricorda il ricercatore —. Ma da almeno un decennio l'aumento del reddito per abitante è fra i più bassi d'Europa e l'essere rimasti indietro rispetto alla Spagna nella classifica nel potere d'acquisto colpisce l'amor proprio». Come dire che le forme contemporanee di «patriottismo e orgoglio nazionale» non si limitano affatto al tifo alle Olimpiadi o ai Mondiali: filtrano giù giù, fino all'autostima degli italiani in carne ed ossa.

Corriere della Sera 19.10.08
L'iniziativa Il progetto Unitalia e una crescita senza paragoni: da 104 matricole universitarie nel nostro Paese nel 2003 a 1.800 nel 2007
Tutor e software: gli atenei italiani puntano alla Cina
di Marco Del Corona


3.204 gli studenti cinesi che hanno studiato nelle università italiane durante lo scorso anno accademico

PECHINO — Vengono da Shanghai, dalla capitale, dai centri avanzati della costa come Dalian o Xiamen, da metropoli dell'interno come Chongqing: rappresentano una Cina tutta diversa da quella dell'immigrazione di chi arriva per lavorare. Sono ragazzi, per studiare scelgono le università italiane. Sempre di più, e sono una risorsa: «L'Italia sta cercando di recuperare posizioni rispetto alla Cina, riusciamo a farlo anche grazie all'accoglienza dei loro studenti», secondo la chiave di lettura dell'ambasciatore a Pechino, Riccardo Sessa. Le cifre rivelano una crescita che non ha paragoni: se nel 2003 le matricole universitarie cinesi in Italia erano 104, nel 2006 erano decuplicate (mille) e lo scorso anno sono diventate 1800. Nel 2007 erano 3204 i cittadini della Repubblica Popolare impegnati in attività di studio in nostre istituzioni.
La capacità di attrazione esercitata dalle università italiane è considerata un investimento. I grandi Paesi europei, Usa, Canada, coltivano con speciale cura gli allievi asiatici, e ieri alla China Education Exhibition di Pechino — una fiera che tocca le maggiori città — i loro padiglioni mostravano una disinvolta consuetudine con il mercato cinese. Tuttavia, qui per la prima volta un gruppo di istituzioni italiane (18) ha partecipato in modo coordinato: è il segno visibile del progetto Unitalia, lanciato quest'anno proprio per valorizzare e rendere più fluido l'accesso degli studenti cinesi al sistema universitario italiano.
Promossa e gestita dalla Fondazione Italia-Cina (presidente è Cesare Romiti) e finanziata con 2 milioni di euro dalla Fondazione Cariplo, Unitalia è nata in febbraio, sostenuta dall'ambasciata, integrandosi con i consolati e l'Istituto italiano di Cultura. Vi aderiscono università e istituzioni, la Regione Lazio, e nelle sue prospettive include «borse di studio di aziende italiane per giovani cinesi che poi — spiega il direttore del progetto, Alberto Ortolani — diventeranno ambasciatori del sistema Italia in Cina».
L'impianto di Unitalia copre il percorso degli studenti dalla Cina fino all'accoglienza in Italia. L'informazione sul-l'offerta di facoltà e corsi e la possibilità di avvicinarsi alla lingua, vengono garantiti dal sostegno agli istituti di italianistica esistenti e dall'invio in Cina di nove tutor. Cruciale il nodo dei visti. La cui procedura è stata semplificata. Unitalia funge da raccordo fra le università e il consolato in modo che la concessione del visto vada di pari passo con l'iter dell'iscrizione. Tempi brevi: una domanda presentata ai primi di luglio viene accolta a metà agosto e il primo settembre lo studente può partire per l'Italia. Rigoroso — assicurano — il controllo sull'autenticità dei titoli di studio cinesi, anche grazie al coinvolgimento delle autorità di Pechino: delle ultime 1.620 domande, solo 10 avevano diplomi contraffatti. Approdati in Italia, gli studenti cinesi trovano un sistema di accoglienza gestita da Ital.co.ser. (stanze e appartamenti), un software per l'apprendimento della lingua (Didael), una rete di tutor- mediatori in 5 città e negli atenei.
In Cina, intanto, si dissoda il terreno. Si lavora per intercettare chi cerca in un'università italiana «eccellenze che non si trovano altrove» e non chi ci considera un ripiego. E si pensa al prossimo obiettivo: il coinvolgimento delle imprese e l'insegnamento dell'italiano nelle superiori.

Corriere della Sera 19.10.08
Epurazioni. Giovanni Sedita ricostruisce su «Nuova storia contemporanea» i processi a Nicola Pende e Sabato Visco
Manifesto della razza: perché nessuno pagò
di Dino Messina


Uno dei tanti misteri italiani è perché gli intellettuali che appoggiarono la politica razziale del fascismo nel dopoguerra non pagarono pegno. In un interessante saggio in uscita sul prossimo numero di Nuova storia contemporanea, Giovanni Sedita, allievo di Mauro Canali, indaga sull'«epurazione mancata dei firmatari del Manifesto della razza».
La scena d'inizio del saggio sono le proteste di alcuni studenti di medicina dell'ateneo romano La Sapienza nel dicembre 1948 per il ritorno sulla cattedra di patologia di Nicola Pende. La stessa scena si ripetè un mese dopo, nel gennaio 1949 per un altro grande ritorno, quello del fisiologo Sabato Visco, ex capo dell'ufficio razza al ministero della Cultura popolare. Ma già nel '46 alla Sapienza erano stati reintegrati lo zoologo Edoardo Zavattari e il demografo Franco Savorgnan. Quanto agli altri firmatari, non c'era modo di procedere, perché lo psichiatra Arturo Donaggio era morto e gli assistenti Guido Landra, il vero e unico estensore del manifesto, Lidio Cipriani, Lino Businco, Leone Franzi e Marcello Ricci erano usciti dall'accademia, quindi non erano «epurabili».
Sedita ricostruisce i tre gradi di giudizio attraverso cui passarono i quattro cattedratici e attraverso le requisitorie dei commissari per l'epurazione sostenitori dell'accusa e i ricorsi degli imputati giunge alla conclusione che se tecnicamente gli scienziati sotto accusa non firmarono il manifesto razzista pubblicato nel luglio 1938, tuttavia con i loro scritti contribuirono alla costruzione dell'ideologia razzista e antisemita.
Dopo l'epurazione di 23 professori, tra cui Pende, Visco, Savorgnan e Zavattari, decisa nel giugno 1944 dal colonnello americano Charles Poletti, il governo provvisorio italiano si fece carico della questione con un testo meno duro di quello alleato. Una prima sentenza nel dicembre 1944 respinse le accuse del commissario Mauro Scoccimarro e accolse la linea difensiva degli imputati: in difesa di Pende erano intervenuti testimoni ebrei come il rabbino capo di Roma, Israel Zolli; Visco aveva esibito addirittura una «certificazione di combattente per la libertà ». Per tutti e quattro gli imputati era stata accettata la versione del dottor Marcello Ricci, ex assistente di Zavattari, il quale aveva dimostrato che nessuno degli accusati aveva firmato il manifesto.
Nel secondo grado di giudizio le cose furono più difficili per gli imputati, perché il nuovo commissario Ruggiero Grieco citò un articolo di Nicola Pende pubblicato nell'ottobre 1938 da Vita universitaria, ricco di affermazioni razziste, oltre a una sua conferenza a Taranto nel 31 maggio 1940 in cui difendeva «le leggi antisemitiche ». Tuttavia queste non furono considerate prove di razzismo ma soltanto di testimonianze di adesione all'ideologia fascista: per Pende si decise soltanto una sospensione di sei mesi dal servizio.
Il terzo grado si svolse in sede politica, dopo un nuovo decreto emesso «per rimediare alle iniquità sino allora commesse », nel Consiglio dei ministri del 20 gennaio 1946. Le posizioni in discussione erano soprattutto quelle di Pende e Visco. Alla fine 8 ministri su 12 votarono contro il loro reinserimento (tra gli innocentisti Alcide De Gasperi e Mario Scelba, favorevoli alla messa a riposo Manlio Brosio, Emilio Lussu, Palmiro Togliatti). A nulla servì la testimonianza di Giuseppe Nathan, capo delle comunità israelitiche, il quale ribadiva il gesto «eroico» di Pende verso «23 israeliti». Ma dopo la «messa a riposo » firmata da De Gasperi e da Enrico De Nicola, il Consiglio di Stato nel giugno 1947 accolse i ricorsi degli accusati a causa di un vizio di forma.
Fu così che la politica razziale del regime risultò senza razzisti.

Corriere della Sera Salute 19.10.08
Fitoterapia Gli studi confermano l'efficacia dell'iperico
Depressione grave: funziona la cura verde
Come i farmaci, meno effetti collaterali
di Antonella Sparvoli


Già si sapeva che l'iperico è efficace per depressioni lievi e moderate, la sorpresa è che funzioni anche in quelle gravi
Pastiglie addio, cureremo anche la depressione grave con un'erba? Che l'iperico, o erba di San Giovanni (una pianta erbacea perenne) fosse utile nei casi di depressione lievi o di modesta entità già si sapeva, ma ora una rassegna della Cochrane Library su ben 29 studi clinici dimostrerebbe l'efficacia dell'iperico anche nei casi di depressione grave. Negli studi l'erba di San Giovanni è stata confrontata sia con placebo (farmaco inattivo), sia con farmaci antidepressivi di prima generazione (triciclici) e di più recente introduzione (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, Ssri). I dati ottenuti su più di 5000 pazienti indicano che questa pianta medicinale non avrebbe nulla da invidiare a triciclici e Ssri, con il vantaggio di essere meglio tollerata e comportare minori effetti collaterali.
«L'estratto di iperico contiene sostanze farmacologicamente attive che agiscono sul sistema nervoso — commenta Giovanni Biggio, presidente della Società italiana di neuropsicofarmacologia —. Si tratta di un rimedio di derivazione naturale, ma non per questo "innocuo". Fatta questa precisazione, non mi sorprende che questa erba possa funzionare anche nelle depressioni più gravi. Verosimilmente, ha effetto in pazienti nei quali avrebbero funzionato, forse anche meglio, i farmaci tradizionali. Noi oggi sappiamo che gli antidepressivi non sono efficaci in tutti: ci sono infatti individui che, probabilmente per ragioni genetiche, non rispondono alle terapie. Purtroppo in questi casi né iperico, né farmaci possono molto».
Che si ricorra all'erba di San Giovanni o ai farmaci, il segreto del successo delle cure sta nell'intervenire precocemente e evitare ricadute. «Fatta la diagnosi di depressione, la sfida è "azzeccare" il farmaco più adatto, somministrarlo nelle dosi appropriate e per il tempo necessario — fa notare Biggio —. Oggi sappiamo che nelle forme di depressione lievi la cura va protratta per almeno sei mesi, anche se già dopo poche settimane il paziente sta meglio. Nelle forme importanti, il trattamento deve invece durare almeno due anni. Gli studi su pazienti con depressione maggiore mostrano infatti che le ricadute sono circa il 10% se il paziente è curato a lungo, mentre salgono al 60-70% se la terapia viene troncata dopo sei mesi. E riprendersi dalle ricadute è difficile perché le cellule nervose tendono ad atrofizzarsi e non riescono più a recuperare ».
Più scettico è Carlo Altamura, direttore della Clinica psichiatrica del Policlinico di Milano: «Indubbiamente l'iperico ha un'attività psicostimolante che in alcuni casi può giovare, ma non nella depressione maggiore. Noi sappiamo che nelle forme gravi di depressione il trattamento farmacologico deve essere prolungato, ma non abbiamo dati sull'uso dell'iperico per lunghi periodi. Non sappiamo inoltre se questo genere di farmaco può portare a una remissione completa».

Corriere della Sera Salute 19.10.08
Attenti agli incroci pericolosi

Nella medicina popolare l'iperico è stato utilizzato per vari disturbi: dalla bronchite all'insonnia.
Oggi è impiegato quasi solo come antidepressivo e richiede la prescrizione medica. Spiega Fabio Firenzuoli, direttore del Centro di medicina naturale dell'ospedale San Giuseppe di Empoli: «Il suo estratto inibisce la ricaptazione della serotonina e aumenta la disponibilità di dopamina e noradrenalina: non agisce come una singola classe di antidepressivi, ma ha un effetto misto.
Ha un ottimo profilo di sicurezza. Si possono però avere problemi quando viene preso con altre medicine (digitale, anticoagulanti, ciclosporina, inibitori della pompa protonica, pillola contraccettiva e tamoxifene) di cui può potenziare o ridurre l'azione. Può interferire anche sull'azione degli antidepressivi convenzionali. Va usato quindi sotto stretto controllo medico».

Corriere della Sera Salute 19.10.08
Approvato in Usa. Contro la tristezza anche lo stimolatore «magnetico»
di Cesare Peccarisi


Col nuovo millennio, nei casi di depressione maggiore dove i farmaci non riescono a funzionare o procurano più effetti collaterali che benefici, la Fda, la Food and Drug Administration statunitense, ha imboccato la strada dei trattamenti non farmacologici. La prima metodica di questo tipo, approvata nel 2001, è la Vns, la stimolazione vagale che "resetta" i neuroni cerebrali con microimpulsi elettrici che risalgono al cervello lungo il nervo vago del collo.
Adesso la Fda ha approvato anche la rTMS (repetitive Transcranial Magnetic Stimulation), la stimolazione magnetica transcranica: ogni impulso elettrico genera anche un campo magnetico e questo, adeguatamente indirizzato e pulsato, può influenzare i circuiti nervosi, il cui funzionamento si basa su processi elettrochimici. Lo studio che ha convinto la Fda è stato condotto da Phil Janicak, della Rush University di Chicago, che ha trattato i pazienti per 4-6 settimane con sedute quotidiane di 40 minuti.
La TMS è diventata trattamento quasi per caso. Era nata per osservare l'attività del cervello attraverso i campi magnetici generati dai suoi circuiti, ma negli anni 90 ci si accorse che quando a fare questo esame erano pazienti depressi, ne uscivano più sereni e tranquilli. Con piccole modifiche, la macchina fu trasformata in rTMS che invia impulsi su particolari aree del cervello ed è proprio questo modello che la Fda ha approvato con alcune limitazioni, fra cui: non essere gravide, in trattamento con triciclici o neurolettici, avere meno di 14 anni, soffrire di cardiopatie e, soprattutto, avere familiarità per epilessia. Gli stimoli ad alta frequenza della rTMS sembrano bloccare l'eccitabilità neuronale: indirizzandoli verso la zona da cui originerebbe la depressione (lobo frontale sinistro) si possono ridurre le crisi con cicli di 5 applicazioni di mezz'ora (il paziente avverte solo un gran rumore) per 5 giorni consecutivi.
Qualche anno fa il New York Times, sull'onda di un mai dimostrato impiego della TMS per memoria e resistenza al sonno, auspicava autostimolatori "casalinghi", ma un utilizzo non guidato da mani esperte potrebbe teoricamente favorire la formazione di circuiti nervosi anomali inducendo manifestazioni psicopatologiche gravi.
Il problema della rTMS è infatti l'indeterminatezza: nessuno sa dove un impulso magnetico "va a parare". Stanno cercando di capirlo Giovanni Bersani della Sapienza di Roma, Carlo Miniussi del Fatebenefratelli di Brescia, Antonio Petralia e Vincenzo Rapisarda dell'Università di Catania e Paolo Maria Rossini dell'Università Campus Bio-Medico di Roma, centri dove la TMS viene usata per trattare anche psicosi, disturbo ossessivo e bipolare o demenza di Alzheimer.

sabato 18 ottobre 2008



Repubblica 18.10.08
Scuola, la protesta riempie le piazze mezzo milione contro la Gelmini
In 350mila solo a Roma. Contestazione a sorpresa sotto il ministero
di Marina Cavallieri


ROMA - Sotto un ombrellino zuppo color arcobaleno un bambino di otto anni grida serissimo e senza timidezze: «Giù le mani dalla scuola». È uno dei tanti baby-difensori dell´istruzione pubblica arrivato, con mamma e maestre al seguito, nel corteo che ieri ha attraversato la città. Il popolo della scuola è sceso in piazza, compatto come mai, incredibilmente unito. Sono trecentocinquantamila. Forse di più. Marciano indifferenti alla pioggia che scende fitta, legati dagli stessi bisogni più che dalle bandiere.
È un venerdì duro di protesta e lo sciopero nazionale indetto dai sindacati autonomi riunisce migliaia di persone ma non tutte con la stessa divisa. Partono puntuali da piazza della Repubblica, ma è un corteo senza sorrisi e senza folclore, «incazzato», non ci sono balli e canti a rallegrare, come non c´è la sinistra radicale e chic che a volte s´incontra. È un corteo pacifico che non intende però fare sconti. Ci sono gli operai di Pomigliano, i vigili del fuoco con la divisa, quelli con lo striscione «Ridateci il ministero della sanità» ma sono i rappresentanti della scuola i più numerosi. Sono qui contro «un attacco a tutto campo» e per arginare «una distrazione collettiva» che consente di mandare alla deriva la scuola pubblica. Sfilano oggi e minacciano di farlo ancora perché questa battaglia «si vince ora o si perde per sempre». Ed è qui, nelle strade dense di folla, che circola palpabile una preoccupazione profonda, si diffonde pericolosa una nuova paura.
Ecco una maestra di Monterotondo, si chiama Gigliola: «Stanno distruggendo la scuola, non è un problema di grembiulini, sono trent´anni che insegno, sono stata maestra unica ma lavorare con altri colleghi è stato solo bello e utile. Ora con questi tagli avremo classi sempre più numerose e sarà più difficile seguire i bambini». Ecco un gruppo di genitori con i figli che indossano una maglia «Gelmini non fa rima con bambini». «Non siamo cobas», dicono, «non facciamo politica attiva, andremo anche al corteo del 30 ottobre. Quello che accade oggi è una lenta deriva perché non è che le cose cambino tutte insieme, però un decreto oggi, uno domani, accadrà che un giorno ci si sveglierà con la scuola pubblica che non c´è più». Ecco una maestra, una mamma e un bidello, vengono dalla periferia romana: «Io solo sono cobas», dice l´insegnante, «una grande trasformazione è in atto: con la legge 133 si decide che l´orario sarà di 24 ore, si torna alla scuola del passato e sarà una scuola di élite. Con le classi sempre più affollate, andranno avanti solo quelli che hanno le famiglie dietro che li possono seguire ed aiutare».
Quando il corteo arriva a piazza San Giovanni la coda è ancora a piazza Esedra, gli organizzatori - Cobas e Rdb - gridano soddisfatti: «In questa piazza negli ultimi anni ridotta a spettacolo ci siamo ripresi lo sciopero». Lentamente arrivano tutti, è un popolo distante e incompatibile con il mondo dei Berlusconi, dei Tremonti, delle Gelmini: «Con i ricchi statalisti con i poveri liberisti», scandiscono. Un operaio di colore che viene dal Madagascar ripete: «Sono preoccupato, sono in Italia da 14 anni, i miei figli sono nati qui, a scuola vanno bene ma temo che i più piccoli incontreranno solo ostacoli, è un governo razzista».
«I numeri di questa protesta sono indubbiamente enormi», dice Piero Bernocchi, portavoce nazionale dei Cobas della scuola. «Uno straordinario successo, ma è soprattutto una grande mobilitazione popolare perché le cifre dello sciopero sono superiori alle nostre forze. Quello che ha spinto tanta gente a venire è aver constatato come il governo quando vuole può intervenire. È stato così con l´Alitalia, con le banche, solo per la scuola non ci sono soldi».
Alla fine uno spezzone del corteo di soli studenti si dirige sotto il ministero di viale Trastevere dove rimarrà sorvegliato dalla polizia, controllato da elicotteri. Ma lo sciopero ha attraversato tutta l´Italia, cinquecentomila complessivamente i lavoratori che hanno manifestato, creando disagi nella sanità e soprattutto nei trasporti. Mentre in molti atenei, da Milano, a Genova, a Ferrara, sono continuate le mobilitazioni. È solo l´inizio, dicono.

l’Unità 18.10.08
Scuola: 350mila no. Gelmini: non capisco
Scuola di classe, trecentocinquantamila no
Maestre, prof, studenti medi e universitari al corteo di Roma contro la riforma Gelmini: «È solo l’inizio»
di Maristella Iervasi


Un fiume. Secondo gli organizzatori almeno 350mila persone sono sfilate a Roma contro la scuola del governo Berlusconi. In piazza c’erano insegnanti e universitari, bambini delle materne e genitori per lo sciopero generale indetto dai Cobas e da Rdb. Ma si è manifestato anche in altre città mentre proseguono le occupazioni delle scuole e degli atenei. Il ministro Gelmini ha confessato di non capire i motivi della protesta, mentre il Capo dello Stato ha dichiarato: «Ma non bisogna dire solo no e farsi prendere dalla paura». E intanto sei regioni faranno ricorso alla Corte Costituzionale per illegittimità della riforma.

C’ERA UN POMPIERE sulla barella con accanto Brunetta che succhia l’ultima goccia di sangue al moribondo. C’era l’ambulanza di San Precario arrivata dall’Abruzzo con dentro i Co.co.co. delle Usl. C’erano le bandiere rosse dei Cobas, che hanno indetto lo sciopero nazionale. Ma sopra tutti c’erano loro: gli anti-Gelmini. Tantissimi bambini con le loro mamme e maestre, prof e studenti medi, universitari e ricercatori di tutti gli Atenei. Con i loro cori, striscioni e proteste hanno oscurato il sindacato autonomo. E sotto la pioggia battente di Roma hanno dato vita ad un corteo rumoroso e colorato, sfilando in 350mila fino a piazza San Giovanni. Ma all’improvviso, mentre Piero Bernocchi dei Cobas dal camion-palco «brindava» al successo della manifestazione, gli studenti più grandi si dileguono. Per poi ripartire al grido di «Roma libera» alla «presa» del ministero dell’Istruzione.
«Mariastella stiamo arrivando...», urla al megafono Carlo della facoltà di Lettere de La Sapienza. «Corteo auto-organizzato - è l’invito -. Chiediamo che non ci siano bandiere di nessun tipo. Solo la nostra voce e i nostri striscioni». E i pochi carabinieri che sono in fondo a via Labicana, fanno fatica a contenere i 50mila ragazzi. I liceali e gli universitari accettano di concordare il percorso che porta dalla Gelmini, ma giunti sul Lungotevere sfondano il cordone delle forze dell’ordine e di corsa attraversano il ponte prima dell’Isola Tiberina. «Occupiamo il ministero! Gelmini, veniamo da te. Dimissioni!». E lo spauracchio fa sì che la difesa di Trastevere «indossi» gli scudi e i manganelli. «Finanzieri, poliziotti... dovete essere dalla nostra parte, anche voi avete dei bambini, anche per voi ci sono tagli. Il nemico è lì, nel ministero, non siamo noi», urlano i ragazzi. Poi a turno prendono la parola con il megafono: «Volevano impedircelo perchè Roma è solo comando e sicurezza. Invece no - dice Bruno di Ingegneria - in questa città c’è gioia, indignazione e rabbia. La legge 133 non siamo disposti a mandarla giù. Per Gelmini e Berlusconi siamo solo una minoranza rissosa? Ma siamo noi il paese reale. Non vogliamo fare atti di vandalismo, vogliamo solo giustizia». La parola passa a Michela, precaria: «Sdraiamoci a terra e restiamo uniti. L’Italia siamo noi e faremo un casino... ». Poi è la volta di un insegnante di scuola media: «Nel 1985 ero all’università. Mi sono fatto la Pantera - spiega - ma un movimento di protesta studentesca come questo non l’ho mai visto... è la prima volta nella storia che tutte le scuole dalle materne all’università sono compatte». Le mani del movimento anti-Gelmini si alzano all’unisono e un solo coro intona a ripetizione: «Noi la crisi non la vogliamo. Noi la crisi non la paghiamo». E oltre alla Gelmini anche Brunetta finisce sotto tiro: «Renato, Renato, questo decreto va ritirato...».
Solo alle 16 il movimento si scioglie. «Torniamo alle nostre facoltà e riuniamoci in assemblea - ma questa protesta non è che l’inizio». Così laddove non sono ancora partite le occupazioni il calendario prevede: lunedì azioni di lotta; martedì assedio al Senato accademico...
Tutta Roma parla solo del movimento anti-Gelmini. Chi non è uscito dalle scuole si affaccia dalle finestre per applaudire i manifestanti (liceo scientifico Newton di via dell’Olmata). E chi ha una telecamera in casa riprende dai palazzi la protesta dei bambini dell’elementare e lancia caramelle sugli ombrelli (via Cavour e via Merulana). Anna, 10 anni, della «Principe di Piemonte», è con la sua maestra e due compagne di classe. Non ha il grembiule ma un cartello: «Non vogliamo tornare a una scuola di classe. Il meglio per pochi, gli avanzi alle masse». Riferimento chiaro alla mozione leghista sulle classi per gli immigrati. E Antonio Nocchetti, della onlus «Tuttiascuola» non nasconde un timore: che si possa arrivare ad una nuova ghettizzazione, ai mini-manicomi in cui infilare gli studenti con disabilità. Così i genitori esorcizzano la preoccupazione portando in spalla nel corteo una grande gabbia blu, con dentro una sedia a rotelle.

l’Unità 18.10.08
Marcella, la prof: «Oggi dovevo essere qui»
54 anni, una vita alle elementari: «La politica
non c’entra, tolgono il futuro ai nostri ragazzi»
di Federica Fantozzi


L’UNICO striscione che non sanguina è il suo: «Gelmini risplendi di luce propria? Ai posteri l’ardua sentenza». Se non si scioglie sotto la pioggia, è merito del ferro da stiro passato sui colori acrilici. Destinati agli alunni, ma, come per risme di carta, scotch e
pennarelli, non c’è peculato: «Se tieni al lavoro che fai, ti metti le mani in tasca e compri i materiali che non ci sono».
Marcella Patassa insegna italiano e storia alla primaria Giuseppe Verdi di Santa Maria delle Mole, Castelli Romani. Una scuola normale, non di trincea: 280 bambini, 14 classi da 16 a 25, due stranieri ognuna, 33 docenti, palestra e cortile di cemento, la richiesta al Comune di un pezzo di giardino per giocare.
Una maestra normale: 54 anni, piccola e bruna, pantaloni gessati e golfino sotto il k-way, occhiali dalla montatura trasparente. Davanti ha la pensione tra 6 anni, alle spalle 32 di insegnamento tra ruolo e fuori ruolo. A Lavinio, ad Ariccia, a Cava dei Selci, alle scuole serali, un anno dalle suore oblate. Nell’82 è stata quel maestro unico che ora tornerà: «Ma sono altri tempi. Prima si trattava di leggere, scrivere e far di conto». Gli ex allievi le scrivono, ma il vicolo della nostalgia è cieco: «La società è più veloce, pressante. I bimbi hanno difficoltà a mantenere l’attenzione. Quando le mamme non lavoravano il doposcuola era un’opzione, ora il tempo pieno è una benedizione».
Alla scuola «G.Verdi» si fanno 40 ore con due insegnanti, più inglese e religione. La retta costa 86 euro a trimestre; la mensa 2,75 dal primo al dolce. Si pagano a parte il pulmino e la «prescuola» mattino o sera. Santa Maria è un paese di pendolari, la scelta obbligata per figli di operai, artigiani, professionisti.
Marcella non ha tessere di partito, vorrebbe prendere «un pezzetto dall’uno e dall’altro», non ha protestato contro Moratti e Fioroni, diffida degli «estremisti». Quando i ragazzi fradici urlano al ministro «vaffanculo» e «buttana», sussulta: «A volte ti riducono in un modo...». Si è chiesta se scendere in piazza, si è risposta che lì i greci discutevano tutto ed era una democrazia. In gruppo hanno preso il treno per Termini: «La G. Verdi ha chiuso i battenti per un giorno».
Per 1600 euro, la sua giornata comprende sveglia alle 7, colazione, tragitto da Due Santi, la frazione di campagna in cui abita, lezione, rientro, pranzo, faccende di casa, correzione dei compiti dalle 16 alle 20, cena. Fannulloni? Ore vuote? Sogghigna: «No, usate per progetti. Gite, cura dell’ambiente, educazione al gusto. Con i bambini non puoi correre, devi ascoltarli». C’è il giornalino con le pagine «accade nel mondo» e «accade a scuola» e il concorso di poesie. Marcella lo accantona: «Non sarà più possibile. I tagli significano, semplicemente, nozionismo anziché creatività. Ci sarà un impoverimento didattico, culturale, umano». Il maestro unico del nuovo millennio segnerà la fine del rapporto uno a uno: «Impossibile con 30 ragazzi».
Nubile, sei nipoti tra 15 e trent’anni, scarpina fino a San Giovanni pensando ai precari senza futuro. Non alle sue incertezze: se i suoi 19 allievi finiranno accorpati, se rimarrà di serie A o B, se finirà in un ministero. Non teme il grembiule né i voti, ma strutture fatiscenti e aule-ripostiglio: «Non c’è la metratura, nessun edificio è a norma». Il peggio? «Le classi differenziali è razzismo». Quell’argomento è miele, i colleghi accorrono, negano rallentamenti: «In un mese uno straniero impara l’italiano e un italiano che c’è chi lascia gli affetti per mangiare». I timori di Veronesi? «Un bravo scrittore ma non un genitore illuminato».
Si pensa alla bimba rumena che non spiccicava una parola e la classe l’ha aiutata con le immagini, e se l’è cavata alla grande. O al bulgaro, figlio di ragazza madre, che in aula non studiava ma aveva amici. Ai casi «problematici» con handicap o genitori separati.
Intorno, corrono piccole sagome: giusto portare i bimbi ai cortei? «Devono sapere cosa accade intorno, se non troppo piccini». In classe lo spiega? «Parlo poco, insegno che ogni messaggio va letto tra le righe». Cosa le mancherà di più? «Gli insegnanti di Frosinone e della Calabria, con le graduatorie provinciali - dice Marcella che è umbra di Sellano - Sono bravissimi».
Dopo una vita defilata usa parole come «lotta» e «crollo» perché vede a rischio la sua missione: «Forse fa comodo il popolo ignorante». A chi dice che non cambierà niente? «Cambierà tutto. Non più la Carta ma la legge del più forte. Non la giustizia sociale ma la selezione naturale». A chi dice: ho studiato nel pubblico ma non ci manderei mio figlio? «Sbaglia. Uscito dalla scuola pubblica suo figlio non avrà paura del mondo. Non si può vivere in una bolla di cristallo».

l’Unità 18.10.08
Gelmini sul decreto: «La sinistra difende una scuola indifendibile»


È FIRMATO «Mariastella Gelmini - gruppo di lavoro» l’opuscolo di 5 pagine, dal titolo «istruzione», che i collaboratori del ministro hanno distribuito ai senatori del Pdl e della Lega nord nell’incontro con la titolare del dicastero di viale Trastevere, che si è svolto mercoledì scorso a Palazzo Madama. tema della riunione, ovviamente, la riforma della scuola.Tre titoli per una sorta di promemoria dedicato alla contestata riforma: «La scuola del centrodestra», «Tagli? no, lotta agli sprechi per riqualificare la scuola italiana», «la sinistra difende lo status quo».
- La scuola del centrodestra. Qui vengono spiegate le ragioni delle scelte contenute nel decreto all’esame del Senato. si parte dal ritorno al grembiule che trova le sue motivazioni nel «risparmio per le famiglie, eguaglianza di tutti i bambini a scuola, fine della corsa alle griffe». C’è poi il 5 in condotta, necessario per «un ritorno al rispetto dell’istituzione scolastica contro i fenomeni del bullismo». sei sono invece le ragioni del ritorno al maestro unico: «al bambino serve un punto di riferimento unico; in tutti i paesi d’europa c’è il maestro unico; aumentare il numero di maestre per bambino è servito ai sindacati per aumentare posti di lavoro proprio quando diminuiva il numero dei bambini; al maestro sarà affiancato l’insegnante di inglese e di religione; con il maestro unico l’italia era terza nelle classifiche Ocse, con più maestri è scesa all’ottavo posto; ridurre il numero dei maestri per bambino consente di aumentare il tempo pieno del 50%». e questo perchè «ci sono più insegnanti per il tempo pieno».
sulla scelta di un ritorno ai voti si dice: «Si torna alla chiarezza contro i giudizi spesso incomprensibili. un 4 è un 4. un 7 è un 7». Breve accenno agli stranieri: «sarà possibile frequentare dei corsi di italiano pomeridiani per gli stranieri». Infine, «più poteri ai presidi nel reclutamento dei docenti» e «non si toccano gli insegnanti di sostegno e le scuole di montagna».
- tagli? no, lotta agli sprechi nessun taglio ma lotta agli sprechi perché «il 97% del bilancio del ministero va per pagare stipendi; in italia ci sono più bidelli che carabinieri; più di 10 mila classi con meno di 10 alunni; 1.350.000 dipendenti sono troppi; in una scuola serale di Mestre ci sono 11 insegnanti e nessun iscritto; a Como una classe elementare ha 9 maestre». Dunque, l’obiettivo è avere «meno professori ma più pagati con premi di produttività fino a 7000 euro annui; più soldi per innovazione e formazione; premiare studenti e professori migliori; più libertà nel reclutamento dei docenti».
- la sinistra difende lo status quo. Parole d’ordine nette nel capitolo dedicato alla sinistra: «la sinistra e i sindacati difendono l’indifendibile: una delle scuole peggiori d’Europa; è finita un’epoca. Col governo Berlusconi la scuola non sarà più un ammortizzatore sociale e uno stipendificio. I sondaggi dimostrano che gli italiani apprezzano le iniziative del governo sulla scuola; la sinistra ha creato questa scuola: 14 euro lordi l’ora per un insegnante, quasi come un collaboratore domestico».

Repubblica 18.10.08
Gli studenti invadono viale Trastevere, la Gelmini si rifugia all´Eur
Il ministro dribbla il corteo "Proprio non li capisco ma ormai sono abituata"
Mi piace Paola Cortellesi quando mi imita in tv, rivedo le sue gag anche tre o quattro volte
di Mario Reggio


ROMA - Per Mariastella Gelmini è stata un giornata davvero particolare. Venerdì 17 novembre 2008 verrà ricordato per molto tempo ancora. Eppure il ministro della Pubblica Istruzione non sembra scomporsi. «Davvero non comprendo le ragioni della protesta - commenta stupita - e sono sempre più convinta che molti di coloro che scendono in piazza in realtà non abbiano letto il decreto, non capisco come mai si occupino le università e si facciano manifestazioni nella scuola superiore, che sono ambiti marginalmente toccati dal provvedimento».
Una giornata particolare, apparentemente normale. Sveglia alle 7, colazione, poi dalla suo appartamento di Roma l´intervista telefonica alla trasmissione di Maurizio Belpietro su Canale 5. Di chi è la colpa della bagarre che attraversa scuole e università? «La sinistra sta dicendo alle famiglie che scomparirà il tempo pieno e che addirittura verranno meno gli insegnanti di inglese e informatica. È una grande bugia - continua Mariastella Gelmini - sia i docenti aggiuntivi che il tempo pieno verranno potenziati».
Il tempo stringe per il ministro, per le 10 e un quarto è convocato il Consiglio dei ministri. L´Audi grigio metallizzata che l´attende sotto casa parte di gran carriera e punta su Palazzo Chigi. All´ordine del giorno i prezzi dei materiali di costruzione, l´autotrasporto e la proroga degli sfratti. A mezzogiorno i ministri vengono messi in libertà. Mariastella Gelmini, nel bel mezzo di una Roma paralizzata dallo sciopero dei Cobas e dal traffico impazzito, riesce a raggiungere lo stesso il ministero dell´Università all´Eur. Poco dopo l´una i primi studenti delle superiori che hanno abbandonato il corteo che affolla piazza San Giovanni arrivano sotto il ministero in viale Trastevere. Carabinieri e poliziotti non tentano di bloccare il corteo, che non è autorizzato, lo scortano con discrezione. Le migliaia di studenti non sanno che Gelmini non è passata di là ieri mattina e che ha preferito puntare direttamente sull´Eur.
Ma cosa passa per la testa del ministro mentre nelle strade della capitale e di altre città il suo cognome è issato sui cartelli, dipinto sugli striscioni e oggetto di slogan non proprio lusinghieri? «Ho vissuto la giornata con grande serenità, ho visto le foto ed i filmati della manifestazione su Repubblica.it. Alcune davvero divertenti. Le proteste? Ormai sono abituata, tutti i giorni c´è qualcuno che protesta sotto il ministero - commenta Mariastella Gelmini - mi piace molto Paola Cortellesi quando mi imita in tv, è davvero brava e rivedo le sue gag anche tre o quattro volte». Il ministro consuma un frugale pasto al ministero dell´Università: un tramezzino accompagnato da un succo d´arancia, poi un lungo summit con i direttori generali dell´università. Chissà quali sorprese ci aspettano nel prossimo futuro. E l´assist del presidente Napolitano? «Non commenterò mai le sue affermazioni e poi non ho alcuna intenzione di tirarlo per la giacchetta».

l’Unità 18.10.08
In piazza per la scuola pubblica
Stamani cortei degli studenti in varie città toscane. A Firenze attese 10mila persone
A Pisa lezioni in Piazza dei Miracoli e gli iscritti di matematica chiedono l’elemosina
di Maria Vittoria Giannotti e Silvia Casagrande


AL LICEO CASTELNUOVO i ragazzi hanno
deciso di interrogare i giornalisti: «Ma perché
per fare un titolo a effetto scrivete che siamo tutti dei vandali?»

La protesta del mondo della scuola contro le norme Gelmini-Tremonti, che tagliano fondi, classi e insegnanti all’istruzione pubblica (dalle elementari fino all’università) continua. Questa mattina a Firenze, con partenza da piazza San Marco alle 10, si terrà nelle vie del centro una manifestazione degli studenti con un corteo per le vie del centro e conclusione in Santa Croce. Gli organizzatori si aspettano migliaia di persone. Dalla Questura è stata prevista la presenza di almeno 10mila studenti. Cortei e sit-in sono annunciati anche in altre città toscane. A Sesto Fiorentino si svolgerà un’altra manifestazione con la annunciata partecipazione di circa 1500 studenti che percorreranno le strade del comune per poi raggiungere piazza Vittorio Veneto. Sempre a Sesto, nel pomeriggio si terrà un’altra manifestazione con corteo, promossa dai genitori del 1° circolo didattico delle scuole locali, per la quale è annunciata l'adesione di circa 500 persone.
Corteo anche nelle strade di Empoli per tutti gli studenti delle scuole superiori, accompagnati da genitori, docenti e personale non docente. Appuntamento alle 10 in piazza dei Leoni e ritrovo finale in piazza della Vittoria.
Ma le manifestazioni di oggi potrebbero segnare la fine dell’occupazione in molti istituti superiori. Gli alunni del Dante hanno già fatto sapere che lunedì torneranno sui banchi: «Abbiamo raggiunto gli scopi della nostra protesta - spiegano -, che era tesa a informare la cittadinanza sugli effetti che la riforma avrà sulla scuola pubblica».
Più incerti sul futuro delle loro occupazioni la maggior parte degli altri istituti, che aspettano di prendere una decisione comune nel corso di un’assemblea che si svolgerà oggi al termine della manifestazione. Una delle proposte è di prolungare l’interruzione della didattica fino a martedì, giorno in cui la legge 137 verrà discussa al Senato. Ma, «anche se in altre forme, la nostra lotta continuerà», assicurano gli studenti. Proseguono invece le mobilitazioni degli universitari. A Pisa ieri hanno fatto lezione in piazza dei Miracoli davanti a gruppi di turisti un po’ disorientati. Mentre a Firenze studenti del dipartimento di Matematica hanno trascorso parte del pomeriggio a chiedere l’elemosina agli automobilisti fermi davanti ai semafori vicini alla loro facoltà fra piazza Dalmazia e viale Morgagni. «Un gesto provocatorio - spiegano - per dimostrare come si possono finanziare gli atenei italiani». In tutto però hanno raccolto solo un paio di euro.
Più degli automobilisti fa la Regione che, tramite l’assessore all’istruzione Simoncini, ha deciso di dare “prestiti fiduciari”, fino a 4 mila euro l’anno, agli studenti universitari che frequentano con profitto gli atenei toscani ma che non hanno i requisiti per accedere alle borse di studio.
Allo scientifico Castelnuovo invece è andata in scena una conferenza stampa al contrario. Con gli studenti che hanno intervistato alcuni giornalisti per chiedere spiegazioni a chi, pur di avere un titolo accattivante, li descrive come «vandali», ma soprattutto per far sentire la loro voce. La voce priva di filtri degli studenti, occupa anche le pagine del giornalino autoprodotto «Il Controinformatore» e in questi giorni stanno anche raccogliendo firme per indire un referendum abrogativo.

Repubblica 18.10.08
"Mamma, vieni in corteo con me"
Scuola, oggi genitori, figli e prof sfileranno uniti in centro
La manifestazione partirà alle 9.30 da piazza San Marco: l´arrivo in Santa Croce
di Laura Montanari


Gli striscioni sono già pronti, gli inviti li hanno «spediti» nei giorni scorsi: «Mamme e prof venite con noi a manifestare per difendere la scuola pubblica». E´ un grido d´aiuto, mille mani che chiedono. Generazioni che di solito si scontrano, saldate per un giorno in strada, questo è il desiderio dei ragazzi del coordinamento che in questa settimana hanno occupato licei e istituti medi superiori. Un fronte comune, in marcia insieme, «senza sigle di partito», dietro i cartelli contro la legge 133, la Finanziaria (decreto 137) e contro il maestro unico, le classi più numerose e i tagli alle scuole e le economie in genere a spese dell´istruzione. Un gruppo di mamme «pre-occupate» ha già annunciato di aderire all´appello dei figli e che stamani ci sfileranno con loro.
La questura ha stimato che al corteo degli studenti medi potrebbero partecipare anche più di diecimila persone. E´ la terza manifestazione su scuola-università che si svolge in meno di una settimana. L´appuntamento è per le ore 9 in piazza San Marco, ore 9,30 partenza della manifestazione che taglierà le strade del centro storico, passerà da via Martelli e via Cavour, piazza Duomo, via del Proconsolo, per approdare poi in piazza Santa Croce. Da lunedì quelli delle medie superiori torneranno in aula a far lezione, quelli dell´università ancora no. Cortei e studenti in piazza oggi sono previsti anche a Sesto Fiorentino e a Empoli. «Ma non finisce qui - racconta uno studente del Galileo - il 21 ci sarà la manifestazione regionale e il 30 ottobre quella nazionale a Roma». Ieri mattina in piazza d´Azeglio il collettivo Ztl ha organizzato un incontro fra bambini delle materne e delle elementari, genitori e ragazzi delle scuole occupate. Mentre i bambini giocavano con i colori su grandi fogli preparati dalle ragazze del Michelangelo, gli universitari hanno raccolto le firme dei genitori per una petizione contro la legge 133 e contro il decreto Gelmini. Intanto al liceo scientifico Castelnuovo gli studenti hanno convocato una conferenza stampa al contrario, in cui i ragazzi hanno intervistato i giornalisti. Fra le domande anche: «Quando le nostre occupazioni sono diventate una notizia?», «Perché vi interessate ad aspetti marginali della nostra lotta come quello che ci diciamo in Facebook o come organizziamo le collette per finanziare le occupazioni?».
Questa mattina, al Ginori Conti, ore 9,30 gli allievi che occupano l´istituto di via del Ghirlandaio 52 hanno organizzato un incontro con la parlamentare afghana Joya Malalay impegnata in progetti per l´istruzione femminile, la sanità e alcune iniziative di alfabetizzazione. Sul fronte accademico, a Pisa continuano oggi le lezioni in piazza. Ieri intanto un gruppo di studenti universitari del polo occupato di Matematica ha trascorso alcune ore nel pomeriggio a chiedere simbolicamente l´elemosina agli automobilisti fermi davanti ai semafori vicini alla loro facoltà, in viale Morgagni e in piazza Dalmazia. Un gesto provocatorio, hanno spiegato, per dimostrare come verranno finanziati gli atenei italiani. Agli automobilisti sono stati consegnati volantini in cui si spiegano le ragioni della protesta. Magra però la raccolta dei soldi: due euro in tutto.

Corriere della Sera 18.10.08
Scuola, cortei e blocchi Gelmini: non li capisco
«Non hanno letto il decreto». Classi ponte, critiche dall'Ue
Il commissario europeo Spidla: difficile accettare classi separate, ma le scelte spettano ai singoli Stati
di Enrico Marro


In piazza
Migliaia di persone hanno manifestato ieri in molte città italiane contro le politiche del governo Berlusconi sulla scuola, il pubblico impiego e il precariato. A destra, il corteo degli studenti di Milano.
Nello sciopero organizzato a Roma dai sindacati di base hanno sfilato circa 500 mila persone tra insegnanti della scuola pubblica, genitori, bambini e lavoratori.

ROMA — Mezzi pubblici a singhiozzo nelle grandi città. Numerose scuole chiuse mentre aumentano gli istituti e le Università occupate. Disagi anche negli altri servizi pubblici. Traffico in tilt a Roma e Milano per le manifestazioni di studenti e lavoratori. Il sindacalismo di base (Cobas, Cub e Sdl) canta vittoria: parla di massiccia adesione allo sciopero generale di ieri e di milioni di persone in piazza. Al di là della solita tendenza degli organizzatori a gonfiare i numeri, è certo che sinistra antagonista, sindacati di base e movimento studentesco hanno prodotto una vistosa giornata di protesta. Contro la riforma scuola, primo bersaglio la ministra Mariastella Gelmini, accusata di tagliare fondi e occupazione nella scuola. E contro il governo: oltre a Silvio Berlusconi, i più bersagliati da slogan e attacchi sono stati i ministri Renato Brunetta e Giulio Tremonti. A Roma la manifestazione si è conclusa a piazza San Giovanni, la storica piazza del sindacato.
Nel corteo c'era di tutto. In maggioranza insegnanti della scuola dell'obbligo e studenti. Soddisfatto per questo Piero Bernocchi, leader dei Cobas. Molti i bambini delle elementari, anche a Milano. A Roma tanti indossavano una maglietta verde con lo slogan: «Il futuro dei bambini non è la Gelmini». Un ragazzino portato per mano dal papà aveva addirittura un cartello con la scritta a pennarello: «La Gelmini mangia i bambini. Mattia». Come già in passato il centrodestra polemizza. «È sbagliato strumentalizzare i bambini portandoli nei cortei: è una cosa gravissima, e chi lo fa è un cattivo genitore», dice Maurizio Gasparri, capogruppo dei senatori del Pdl. Sotto una pioggia battente, un corteo di giovani è andato anche davanti al ministero dell'Istruzione, a Trastevere. Secondo Gelmini «la sinistra sta facendo una campagna di disinformazione » e molti dei manifestanti, «di cui non capisco le ragioni, in realtà non hanno letto il provvedimento».
La ministra difende i suoi provvedimenti, dal maestro unico alle classi differenziate per gli immigrati: «È una questione didattica, il razzismo non c'entra», dice, mentre proprio ieri è arrivata una stoccata dal commissario europeo per gli Affari sociali, Vladimir Spidla, per il quale si tratta invece di ipotesi «difficilmente accettabili anche se l'Ue non può farci nulla perché in materia di scuola ogni singolo Stato dell'Unione è sovrano».
Dal palco di San Giovanni improvvisato su un autocarro hanno parlato, oltre ai leader dei tre sindacati, studenti, insegnanti, precari e dipendenti pubblici, che lamentano i tagli alle voci accessorie dello stipendio, la riduzione del salario nei giorni di malattia, il mancato rinnovo dei contratti. In piazza anche un gruppetto di anarchici e qualche decina di militanti dei Carc dietro lo striscione «Contro il governo terrorista» che scandivano lo slogan: «Berlusconi e Gelmini farete la fine di Mussolini». Alcuni giovani hanno scritto sulle vetrine di una banca con le bombolette spray: «La crisi ve la pagate voi». Molti gli attacchi al governo per aver soccorso la finanza in crisi invece di aumentare i salari. Concetti rilanciati anche dal leader di Rifondazione, Paolo Ferrero, che ha partecipato alla manifestazione e da Giorgio Cremaschi della Cgil, che ha aderito anche lui «a titolo personale».
Manifestazioni ci sono state anche a Firenze, Bologna, Genova, Venezia, Napoli, Palermo. Contro la Gelmini si scaglia anche il ministro ombra dell'Istruzione, Pina Picierno, a proposito dell'annunciata presenza della stessa Gelmini alla riunione domani del Parlamento leghista del Nord: «Che ne pensa il ministro Meloni (An) del comportamento della Gelmini?», chiede Picierno, appellandosi al valore dell'unità nazionale, bandiera di An. Infine, sei regioni (Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Marche, Puglia e Sardegna) hanno deciso di ricorrere alla Corte Costituzionale contro le norme della Finanziaria che riguardano la scuola.

Corriere della Sera 18.10.08
Dibattito Il Secolo d'Italia: non regaliamo i giovani alla sinistra come nel '68. Gasparri: proteste a base di menzogne, non vanno sostenute
Destra divisa sulla contestazione
di L. Sal.


ROMA — Ridotta all'osso la questione suona così: la protesta studentesca di questi giorni è di destra o di sinistra? Slogan contro il governo Berlusconi, striscioni contro la Gelmini, bandiere rosse a profusione: non ci dovrebbero essere dubbi. E invece qualche dubbio lo mette in prima pagina il Secolo d'Italia, il quotidiano di An che spesso, per amor di polemica, prova a remare controcorrente. Scrive il direttore responsabile Luciano Lanna: «Non demonizziamo gli studenti e non regaliamoli a Veltroni e Ferrero». Azzardando anche un paragone con il movimento di 40 anni fa: «C'è chi demonizza i ragazzi, si rinchiude a riccio davanti alle loro aspettative. Come i benpensanti e i superficiali fecero alla vigilia del '68, spingendo a sinistra tutta una generazione ». Quasi un'evocazione di quella foto degli scontri di Valle Giulia che, vicino ai celerini, vede anche un pezzo della destra giovanile (furono poi allontanati dal movimento quando Giorgio Almirante e Giulio Caradonna guidarono la liberazione della Sapienza dagli occupanti). In questi giorni Azione giovani non partecipa alla protesta: «Niente occupazioni e cortei — dice il presidente di Azione universitaria Giovanni Donzelli — perché sono politicizzati.
Ma così l'università non funziona e se le soluzioni non arriveranno non avremmo problemi ad esprimere il nostro dissenso, anche contro questo governo». «Il problema — dice Maurizio Gasparri — non è regalare la piazza alla sinistra: alla base di questa protesta ci sono menzogne». D'accordo il ministro della Gioventù Giorgia Meloni: «Può essere una mia distrazione ma finora non ho visto una proposta degli studenti».

Repubblica 18.10.08
Le università italiane a caccia di studenti cinesi


ROMA - Viene inaugurato oggi a Pechino il Padiglione Italia che accoglie le maggiori università italiane presso il China Education Expo, la principale manifestazione dedicata alla formazione in Cina promossa dal ministero dell´Istruzione cinese e sponsorizzata dal Ceaie, l´associazione per gli scambi accademici internazionali. L´evento si tiene all´interno del China World Trade Center. Qui il Padiglione Italia ospiterà una serie di seminari, presentazioni, incontri con gli studenti cinesi con l´obiettivo di far conoscere le offerte formative del nostro sistema universitario.
Il Padiglione Italia è stato organizzato nell´ambito del Progetto Unitalia, la prima iniziativa per favorire la collaborazione tra istituzioni universitarie italiane e cinesi promossa dalla Fondazione Italia Cina, presieduta da Cesare Romiti, e cofinanziata dalla Fondazione Cariplo. L´obiettivo del progetto Unitalia è quello di attrarre studenti cinesi nel nostro paese attraverso la promozione delle diverse opportunità che vengono offerte dal sistema universitario italiano, attraverso la diffusione della lingua e della cultura italiana negli atenei cinesi, con la promozione della formazione universitaria e post-universitaria e con l´accoglienza degli studenti cinesi nelle nostre università. Aumentando la loro presenza nel nostro paese, il progetto vuole contribuire a migliorare le relazioni tra Italia e Cina in modo da poter superare le attuali incomprensioni culturali e linguistiche fra i due paesi. Dopo Pechino, il 25 e il 26 ottobre le università italiane che partecipano al progetto avranno all´interno del Padiglione Italia un´altra vetrina nell´ambito del salone di Shanghai.
(p.co.)

Repubblica 18.10.08
I silenzi della socialdemocrazia
di Massimo L. Salvadori


Nell´ultimo quarto di secolo la macina della storia, che ha preso a girare sempre più veloce, è passata in successione sopra i corpi degli ultimi imperi, quello sovietico e quello americano, cancellando l´uno e riducendo a mal partito l´altro. Ma ciò che è notevole è che tanto il crollo del comunismo sovietico quanto la crisi attuale del primato americano (che è ben possibile sia senza ritorno) sono stati preceduti dal manifestarsi delle più grandi ambizioni di «rinascita» e «rigenerazione», dalla promessa, con toni quasi millenaristici, di «nuove leadership» per il mondo. In un certo senso, naturalmente con tutta la differenza che vi è tra chi finisce in un crollo e chi in una crisi profonda, i governi di Gorbaciov e di Bush il Giovane si presentano come due «vite parallele». Il primo fece un immenso rumore con la sua perestroika e la sua glasnost; il secondo propagandando l´esportazione pacificatrice e unificatrice della democrazia, la guerra agli Stati canaglia e l´estensione globale del libero mercato inteso alla maniera neoconservatrice. Al primo è toccato di assistere al rapido e totale disfacimento dell´Unione Sovietica nel giro di pochi anni e al secondo di vedere l´esportazione della democrazia incagliarsi sugli scogli, il libero mercato comandato dalle oligarchie finanziare provocare una crisi economica devastante, il sogno della supremazia americana fermato dal sorgere di due grandi potenze asiatiche e dal ricostituirsi della potenza russa. La storia dunque è corsa veloce, ed ha anche rovesciato le carte sul tavolo.
Ma in quest´ultimo quarto di secolo non vi sono state soltanto le vicende del comunismo sovietico e del neoconservatorismo americano piombato nel discredito dopo aver agitato la bandiera della democrazia e del benessere universali, bensì anche quella della socialdemocrazia in primo luogo europea. Negli anni tra il 1917 e i primi anni ‘30, passando attraverso la crisi economica del 1929, la socialdemocrazia, influenzata dalle correnti del liberalismo progressista, assunse i tratti che ne avrebbero segnato robustamente il volto per circa il mezzo secolo seguente. Difese contro gli opposti totalitarismi fascista e comunista e le forze conservatrici e autoritarie le istituzioni democratiche parlamentari; fu forza trainante, poggiando anzitutto sui lavoratori di fabbrica e sui sindacati, del sistema del Welfare eretto a tutela degli strati sociali più deboli; si fece fautrice dell´intervento pubblico regolatore nell´economia e patrocinò una strategia di nazionalizzazioni; ebbe, insomma, quel grande ruolo che indusse in proposito a parlare di «secolo socialdemocratico». Sennonché questo ruolo venne messo in crescente affanno dall´assalto neoconservatore e neoliberista iniziato dalla Thatcher nel 1979, madre della grande ondata della deregulation destinata a diffondersi e a dominare fino a ieri.
La socialdemocrazia si proclamò nel 1989 vincitrice all´interno della sinistra internazionale del duro confronto-scontro con il comunismo. Ma quando avrebbe dovuto coglierne i frutti, questa vittoria le si andò svuotando tra le mani in un quadro in cui sempre più il movimento operaio cessava di essere tale. L´ancoraggio tradizionale alla classe operaia si indebolì infatti rapidamente con le trasformazioni dell´economia che assottigliavano le file delle tute blu, i sindacati andarono perdendo a loro volta il vigore di un tempo, il New Labour di Blair costituì con i suoi intenti di innovazione una presa coscienza dei mutamenti della società ma anche la testimonianza delle crescenti difficoltà del socialismo europeo di resistere all´urto del neoliberismo e all´attacco al Welfare. Sicché al crollo sovietico, al fallimento del disegno di Bush, è andato accompagnandosi l´affanno via via più forte della socialdemocrazia, che non è riuscita a diventare il solido punto di riferimento delle schiere di un lavoro dipendente frammentato, impoverito dal dominio delle oligarchie finanziarie e industriali in costante arricchimento, afflitto dal crescere di rapporti precari, minacciato dal deterioramento delle protezioni costruite in passato dalla rete della sicurezza sociale.
Ci si sarebbe potuti aspettare che, all´erompere della presente enorme caduta del neoliberismo e della grande crisi finanziaria, l´Internazionale socialista e il Partito socialista europeo facessero sentire la loro voce. Invece un silenzio assordante, sul cui significato occorre ragionare. Il leader laburista Brown, lui è sì salito alla ribalta nel brutto frangente del disastro finanziario, ma come capo del governo britannico. In passato, i partiti della sinistra di tutte le correnti producevano progetti, avanzavano programmi e seguivano strategie, le quali, buone o meno buone che fossero, erano testimonianza di una presenza vitale. Ora che i comunisti sono stati ridotti al nulla, salvo residue vociferazioni, i partiti socialisti sembrano chiusi ciascuno nei propri ristretti ambiti nazionali, come entità materiali incapaci di assumere un´iniziativa culturale e politica che parli davvero alla gente sconcertata, la quale si interroga inquieta su un futuro incerto e a cui la socialdemocrazia non pare capace di offrire soluzioni.
Il periodo storico iniziato con il crollo sovietico sta ora chiudendosi con lo scacco delle già trionfanti ricette del capitalismo patrocinato dalla scuola di Chicago. Ma va chiudendosi - e spetta ora al socialismo europeo dare una prova sicura positiva o negativa - anche con la dimostrazione dell´impotenza della socialdemocrazia, preludio di svuotamento e persino di insignificanza? Se così fosse, da dove verrà una nuova politica e chi fornirà le guide future della società? Forse tutta la gravità della situazione attuale sta proprio nell´impossibilità di dare risposta a questo interrogativo. È di per sé amaro essere nel pieno dell´affondamento di una formula di gestione dell´economia, eppure ancora più amaro è dover domandarsi pieni di dubbio se a guidare la nave nella tempesta vi saranno timonieri capaci di tenere la rotta e chi mai potranno essere.

Repubblica 18.10.08
Cosa sognano gli italiani
di Vera Schiavazzi


I più precisi li trasferiscono dal piccolo registratore al ciomputer, per conservare le parole del paziente: un sogno raccontato può essere molto diverso da uno scritto. Qualcuno conserva gli appunti mattutini del sofgnatore, qualcun altro si limita a riempire con la matita piccole schede che poi finiscono in uno schedario come quello delle vecchie biblioteche. Ma alla fine tutti vanno afinire nel Registro dei Sogni, la materia prima sulla quale generazioni e generazioni di psicoanalisti hanno studiato e si sono formati, che ogni associazione, ogni “scuola” terapeutica continua a custodire e ad accumulare nei suoi archivi e che ciascun didatta utilizza con i suoi allievi. Siamo andati a sfogliare questi registri: non è come leggere una ricerca dell’Istat ma certo dà qualche indizio sull’umore diurno e notturno degli italiani
Cambiano ma soprattutto si complicano e si arricchiscono di nuovi oggetti i sogni degli italiani. Si scopre così che ai vecchi perfino rassicuranti simboli, come il bosco, il labirinto, gli animali, il mare o il volo, se ne sono aggiunti altri che pongono a chi li interpreta per professione nuove domande.Una classifica provvisoria vede al primo posto il telefonino e subito dopo lo "straniero", seguiti dalle grandi catastrofi naturali e da strumenti e situazioni legati alla carriera e allo stress che ne deriva. Ma ci sono anche la maternità (o l´impossibilità di raggiungerla), e l´ossessione della bellezza, lo sport e i suoi campioni, meglio se non troppo irraggiungibili: sognare di guidare la moto come Casey Stoner è più facile che identificarsi con Valentino Rossi. Alcune situazioni oniriche resistono a qualsiasi innovazione: è il caso degli animali, selvaggi o domestici, che secondo la paura o l´empatia che suscitano nel sogno testimoniano il nostro rapporto col lato oscuro e irrazionale della personalità. Resistono acqua e volo, altri due luoghi tipici della rappresentazione dell´inconscio, ma la perdita di sé in luoghi un tempo classici come il bosco diventa più sfumata, a mano a mano che sul lettino si sdraiano persone che ormai di rado passeggiano in campagna. Siepi e giardini perdono quota, salgono l´ufficio, le circostanze mondane, le fotografie, soprattutto quelle scattate al cellulare, come nuova rappresentazione di sé. E mentre l´allattamento - un tempo sogno classico intrecciato alla vita amorosa e al rapporto con la madre - appare ormai raramente, la paura di perdere la battaglia contro l´orologio biologico trascina con sé nei sogni femminili medici e provette collegati alla fecondazione.
Così, anziché nella foresta, la manager torinese, cinquantenne affascinante e sicura di sé, colloca le sue paure in un prato di periferia: «Mi avevano scaricato lì, provavo a telefonare per chiedere di venirmi a prendere ma a ogni tasto del mio cellulare corrispondeva un altro numero, invisibile. Così sbagliavo sempre…». Il direttore di un ospedale napoletano invece unisce nuove abitudini e antichi miti: «Seguivo mio padre in mare su una piccola barca, ma arrivati a Gaeta lo perdevo di vista… Allora ho accostato la spiaggia per chiedere se mi facevano telefonare per sapere se c´era sempre e se stava bene». I nuovi sogni degli italiani accolgono fatti e oggetti d´uso quotidiano che non esistevano - almeno nell´inconscio - fino a pochi anni fa. Accade così, a distanza di 109 anni dalla prima edizione de "L´interpretazione dei sogni" di Sigmund Freud, e 80 anni dopo il seminario che Carl Gustav Jung dedicò allo stesso argomento, che gli psicoanalisti italiani - insieme ai colleghi del resto del mondo - siano costretti ad aggiornare registri e metodi di classificazione. E scoppia la pace (quella scientifica, almeno) tra le diverse scuole, unite dall´urgenza di definire parametri comuni: sono circa 1.000, oggi, gli psicoanalisti iscritti alle società più importanti ed accreditate a livello internazionale, ma a loro si unisce una galassia di terapeuti che non appartiene ad alcuna di queste "famiglie". Si discute, un po´ in tutta Europa, sul modo nel quale a situazioni oniriche moderne ma già note (l´auto che non parte, simbolo per eccellenza dell´impotenza ad agire) se ne intreccino altre per le quali l´interpretazione è ancora aperta: l´incubo di non poter avvisare i propri cari, ad esempio, non potrebbe testimoniare un bisogno di liberarci da legami soffocanti?
«Chi sogna è il regista, e fa il "casting" delle sue esperienze per poterle rielaborare», spiega Anna Ferruta, milanese, segretaria scientifica della Società psicanalitica italiana, analista e didatta freudiana. «Così, il telefonino rappresenta una volontà di comunicare, di stabilire relazioni, che però non sempre riesce a diventare reale». Come è successo a M., quarantenne, che ha sognato di essere intento a "trafficare" col cellulare proprio mentre accanto a lui, in strada, passava un gruppetto di ragazze che lo apprezzavano: «Mica male quel tipo». Peccato che sia stato proprio l´amato-odiato cellulare a impedire a M. di cogliere l´occasione: «Quando ho sollevato la testa dallo schermo loro erano già andate via». Una giovane psicologa con inclinazioni artistiche, invece, usa il telefonino per rimediare ad un incubo ‘classico´: scoprirsi nuda a una festa dove tutti sono invece eleganti e formali. «Trovavo nel cellulare una mia bella foto dove indossavo bellissimi vestiti e giravo tra i tavoli per mostrarla a tutti», ha raccontato. Commenta la terapeuta Maria Rita Beccari, didatta della Sipr (la Società italiana di psicoterapia relazionale): «Il telefonino ti "veste" e ti rende disinvolta. Ma i problemi relazionali sono quelli antichi, in questo caso la relazione con la madre e il bisogno di cominciare a differenziarsi da lei».
Nei sogni dei giovanissimi, il mondo virtuale e quello reale si intrecciano in un linguaggio spesso incomprensibile agli adulti: E., 15 anni, trasforma così il Virgilio della Divina Commedia nella Virgin protagonista dei suoi manga preferiti, contando sul fatto che «la professoressa non se ne accorgerà mai». Commenta Nadia Neri, didatta junghiana dell´Aipa: «Può sembrare un piccolo lapsus, invece è un´importante trasposizione. In questi anni abbiamo corso il forte rischio di dare meno importanza ai sogni, i pazienti stessi credono di sognare di meno. Ma è un errore, perché per scegliere terapie più veloci si rinuncia a andare in profondità».
«C´era un dogma intoccabile per gli psicoanalisti classici, ma ci stiamo ripensando - spiega Stefano Bolognini, psichiatra, psicoanalista e membro autorevole della Spi, la Società psicoanalitica italiana che raccoglie i seguaci di Freud - Credevamo che il sogno fosse sempre e comunque dettato da un desiderio inconscio, ora pensiamo invece che si tratti anche del modo di rielaborare traumi che nella vita reale la persona non è riuscita ad accettare. Come sognare di essere coinvolti da grandi fenomeni naturali visti in televisione, lo scioglimento dei ghiacciai o le terribili alluvioni di altri continenti, spesso sta a significare che qualche evento affettivo imprevisto ci sta travolgendo e abbiamo paura di non riuscire a gestirlo». Quanto al telefonino, «è l´antidoto che usiamo per combattere la nostra ansia da separazione, convinti come siamo che possa evitarcela in tutti i casi e in tutti i tipi di relazione. Sognare di non riuscire ad usarlo testimonia quasi certamente una difficoltà di comunicazione in campo affettivo».
Dal fronte junghiano, Antonio Vitolo - presidente dell´Aipa (l´Associazione italiana di psicologia analitica), racconta che «sogni e mondo esterno sembrano essere in una relazione sempre più stretta». I nuovi sogni sono, anche, "politici": «Quando il livello cosciente della società si abbassa e si percepisce un´involuzione autoritaria, i sogni compensano i traumi quotidiani collegati all´intolleranza o all´odio. Così lo straniero, riconoscibile nel sogno dal colore della pelle simboleggia l´aspirazione al cambiamento, come è accaduto a un paziente preoccupato di non riuscire a capirsi con tre donne dai diversi colori, che però nel sogno lo hanno subito rassicurato, "parliamo tutti la stessa lingua"». Augusto Romano, il più celebre tra gli junghiani torinesi, sottolinea il significato difensivo di strumenti come cellulare e i-pod già durante la vita diurna e cosciente: «Viviamo isolati dalle cuffie, in un mondo senza padri e senza regole dove qualsiasi conflitto o sofferenza viene considerato patologico. Al posto delle signore isteriche studiate da Freud, noi vediamo soprattutto uomini e donne malati di narcisismo: spesso sono bravi manager, donne con obiettivi di carriera altissimi, anche più ambiziosi di quelli dei loro colleghi, ma del tutto centrati su di sé e privi di capacità affettive. Per queste persone è fondamentale impedire all´altro di "entrare" nella loro sfera intima, e a questo scopo le tecnologie sono utilissime». Ma il sogno di non riuscire a usare il cellulare può simboleggiare anche «la non volontà di comunicare con qualcuno, magari con la propria moglie o famiglia, o al contrario - quando ad esempio è l´amante la persona che non si riesce a chiamare - il groviglio di senso di colpa e di conflitto che emerge dal nostro inconscio e che durante il giorno forse non riusciamo a vedere con chiarezza». Perfino l´auto sognata cambia, e oggi appare soprattutto un guscio protettivo: «Come il collega - racconta Romano - che in sogno ha visto me, suo supervisore, mentre sotto le finestre di casa mi accanivo a smontare gli sportelli della sua macchina. Interrogato, mi ha sentito con orrore rispondergli che stavo smontando i suoi meccanismi di difesa».

Repubblica 18.10.08
Lo strano gioco degli opposti
di Marino Niola


Il telefonino, le email, l´Ipod. La tecnologia domina il nuovo mondo onirico degli italiani. Che, accanto ai più classici bosco e labirinto, la notte immaginano nuovi oggetti-simbolo. Come lo tsunami e gli stranieri. Ecco quanto emerge dai Registri delle grandi scuole psicoanalitiche. Che abbiamo sfogliato
Sono circa 1.000 gli psicoanalisti iscritti alle società più importanti e accreditate
Alcune situazioni resistono a qualsiasi innovazione: è il caso degli animali

Il cellulare, il lavoro, la bellezza, gli stranieri, l´automobile, lo tsunami. Sono questi i sogni e gli incubi degli Italiani. I sintomi del cambiamento epocale che attraversiamo. E che ci attraversa. Così profondamente da ridisegnare la mappa delle nostre fantasie, dei nostri desideri, delle nostre ansie. I sogni sono sempre uno specchio fedele - anche se enigmatico, grottesco, rovesciato - che riflette la parte più segreta di noi, facendo affiorare quei sentimenti e quei pensieri che non riusciamo a dire e che traduciamo in simboli. Questo nuovo quadro onirico del Bel Paese somiglia maledettamente a un rapporto Istat. Le grandi questioni del presente, l´insicurezza, l´immigrazione, la tecnologia, l´ecologia, ci sono tutte. Ma il loro significato è diverso. Spesso opposto. Come se quel che pensiamo di giorno fosse contraddetto da quel che sogniamo di notte.
Così quegli stranieri che alimentano le nostre paure e fanno crescere la quota pro capite di insicurezza, sulla scena onirica diventano un simbolo positivo. Incarnando una sana istanza di cambiamento, un desiderio di novità, una irresistibile attrazione verso una contaminazione che di giorno temiamo tanto.
Lo sconosciuto di fuori rivela così lo sconosciuto che abbiamo dentro, il nostro lato oscuro. Come diceva il grande poeta Edmond Jabès, lo straniero si trova soprattutto in fondo a noi stessi ma noi esitiamo a mostrare il fondo. Riusciamo a farlo solo col favore della notte.
E anche la tecnologia, che alla luce del sole trasformiamo in feticcio, in oggetto di culto, nel sogno si rovescia nel proprio contrario. Serve a difenderci dai rapporti con gli altri. Gli strumenti del comunicare diventano gli interruttori della comunicazione. Così l´I-pod ci appare come una invisibile e provvidenziale pellicola isolante, una barriera trasparente, impalpabile quanto inviolabile. Mentre il cellulare più che a chiamare serve a tenerci fuori campo, a rendere il nostro io non al momento raggiungibile.
E l´auto, da ecomostro diurno, drago che vomita smog, nelle nostre visioni notturne si tramuta in guscio protettivo. Intercapedine fra noi e la dura realtà. Alcova, scrigno, fortezza, tank. E soprattutto scafandro dal quale guardare il mondo e guardarsi dagli altri, come palombari impauriti.
Al riparo dalle onde anomale alimentate dall´oceano tempestoso del presente che sconvolgono la tranquillità del nostro orizzonte quotidiano. Non a caso lo tsunami è un simbolo ricorrente nei sogni e negli incubi contemporanei. Una parola nuova che è entrata nel nostro vocabolario e nel nostro immaginario con la violenza imprevedibile di uno schiaffo della natura, o con la dismisura inarrestabile di un crack finanziario. Di un terremoto delle borse che stravolge le nostre esistenze, come uno di quei cataclismi che fanno tanta paura. Per quello che sono e per quello che significano. Per gli uomini di oggi come per quelli di ieri. Che affidano al linguaggio dei sogni il compito di dare volto alle paure, alle speranze, alle inquietudini, ai desideri. Un volto nuovo e antico al tempo stesso. Soprattutto nei momenti di crisi, di mutamento sociale, di smarrimento collettivo. Come se ad ogni grande tornante della storia l´immaginario voltasse pagina. E il processore che comanda i sogni si resettasse. Traducendo in figure condivise e comprensibili i cambiamenti del comune sentire. Oggi come ieri dunque i libri dei sogni si aggiornano. Anche se certi simboli restano, con una capacità di riadattamento che buca le pareti del tempo, le passa letteralmente da parte a parte. Lo dimostra il più antico libro dei sogni di tutto l´Occidente, l´Onirocritica di Artemidoro, scritta nel secondo secolo dopo Cristo, quasi due millenni prima dell´Interpretazione dei sogni di Freud. Allora come al tempo del grande Sigmund, e come adesso, si era in un momento di crisi mondiale, di spinte e controspinte della storia. Gli uomini vissuti tra Antonino Pio e Marco Aurelio, che proprio come noi vivevano la crisi dell´impero, facevano sogni che assomigliano ai nostri e, quel che è sorprendente, ricorrendo agli stessi simboli. Anche per loro il comunicare era un problema tant´è che Ermes, dio degli scambi e della comunicazione affollava i loro incubi. E, proprio come per noi, la forza scatenata della natura significava inquietudine, insicurezza e addirittura imminente disoccupazione. In effetti i sogni non sono che segni. Basta saperli illuminare. O meglio basta lasciarsi illuminare da loro, da queste fantasie che sembrano chimere. Ma in realtà sono l´ombra della nostra saggezza. Quella che riconosce tutto a occhi chiusi.

Repubblica 18.10.08
L’uomo cantava come un fringuello
La nascita del linguaggio
di Robert C. Berwick


Pubblichiamo l´intervento "I canti dell´Eden e il linguaggio dei geni" che Robert C. Berwick, membro del Mit di Boston terrà oggi alle 21 a "BergamoScienza" nell´ Auditorium; la rassegna, arrivata alla VI edizione, alla quale hanno partecipato tra gli altri Marcello Coradini, Vincenzo Balzani, Luciano Maiani, Mark Clampin, John Banville, Leslie Robertson, si conclude domani con James Turrel che parlerà di "Scienza e Arte" nel Centro Congressi.

Era un´abilità usata nel corteggiamento e avrebbe poi influenzato la parola
Per Darwin i nostri avi utilizzavano la voce per produrre cadenze musicali ovvero un canto

Come si è evoluto il linguaggio umano? Dare risposta a questa domanda è un´ardua impresa. Sin dai tempi di Darwin, i teorici dell´evoluzionismo hanno fatto ricorso ad un parallelismo per dare una spiegazione dei fatti. A cosa può essere paragonato il linguaggio? Nessuna altra specie animale è dotata di linguaggio, malgrado il tentativo fatto dai film di Walt Disney. Altre specie animali ricorrono a sistemi di comunicazione diversi dal linguaggio umano. Il linguaggio può essere utilizzato per comunicare, proprio come ogni altro aspetto del nostro agire: lo stile nel vestire, la gestualità e via dicendo. Tuttavia, l´uso del linguaggio ha, per lo più, una connotazione «interna», ovvero è al servizio del nostro pensiero. E´ alquanto difficile, infatti, trattenersi dal parlare tra sé e sé in ogni momento di veglia e, persino, di sonno. Solo gli esseri umani possono fare con le parole cose stupefacenti: «Cosa quasi inconcepibile, la pistola che ora fissava era impugnata da un enorme albino dai lunghi capelli bianchi». Questo componimento non avrebbe mai potuto essere l´opera di primati intenti a battere sui tasti di una macchina da scrivere. E´ tratto da Il Codice da Vinci di Dan Brown. Se poi vogliamo definirlo un buon linguaggio, è un´altra storia.
E´ interessante notare come quanto scritto da Darwin più di cento anni fa sull´origine del linguaggio in L´origine dell´Uomo e la Selezione Sessuale sia corretto e confermato da due recentissime scoperte; la prima di carattere genetico condotta sull´uomo e sui fringuelli e la seconda, di carattere linguistico, attinente il linguaggio e il ritmo.
Darwin sosteneva che: «qualche antico progenitore dell´uomo. utilizzava la voce in larga misura per produrre vere e proprie cadenze musicali, ovvero un canto. Questa abilità, per lo più impiegata durante il corteggiamento, avrebbe influenzato il linguaggio... e il suo reiterato utilizzo avrebbe agito sul cervello... la formulazione di un pensiero lungo e complesso non può più prescindere dall´ausilio delle parole, siano essere pronunciate o taciute, proprio come una lunga equazione non può prescindere dall´utilizzo dei numeri». Come apparirà chiaro a tutti coloro che hanno una goccia di sangue italiano nelle vene, Darwin intendeva proporre l´idea che l´Opera stesse all´origine del linguaggio. Nell´Atto Primo darwiniano, le «cadenze musicali» attiravano la femmina verso il maschio. Quanto più piacevole il canto, quanto più numerosa la prole: il Bel Canto portava ad una migliore. ehm sapete cosa intendo! La «cadenza musicale» formava il sistema linguistico di «input e output», proprio come la stampante di un computer ci consente di visualizzare ciò che abbiamo scritto. Nel Secondo Atto darwiniano, questa «stampante del linguaggio» ha dato impeto allo «sviluppo del cervello» in relazione all´utilizzo delle parole per la formazione di «lunghe e complesse serie di pensieri».
Cosa possiede l´uomo che gli altri animali non hanno? Consideriamo un ingrediente come il controllo vocale, benché alcuni fringuelli siano degli eccellenti cantori. Un secondo ingrediente potrebbe essere l´intelligenza. Nuove evidenze suggeriscono che gli uccelli siano molto più intelligenti di quanto non si pensasse in passato. Un esempio, a tal riguardo, è quello della cornacchia nera che a Tokio porta le noci in corrispondenza degli incroci pedonali in attesa che il semaforo diventi «verde» e che le autovetture, schiacciandole, ne rompano il guscio.
Dopodiché, la cornacchia attende che il semaforo ritorni nuovamente «rosso» e che il traffico si fermi per raccogliere in tutta sicurezza i gustosi frutti. (Questa strategia non funziona ovunque, tutte le cornacchie che hanno provato ad imitare l´esempio a Napoli non sono sopravvissute). Dunque, gli uccelli possiedono il senso del ritmo. Gli uccelli sono intelligenti, ma non hanno il dono del linguaggio perché non dispongono di parole. Alcuni animali sono molto bravi ad assegnare nomi a determinati oggetti. Gli scimpanzé pigmei sono noti per questa abilità in quanto sono in grado di riconoscere svariate centinaia di simboli con diversi colori, forme e dimensioni proprio come i tasselli di un puzzle. Questi scimpanzé sanno assegnare nomi diversi ad oggetti diversi, proprio come noi ricorriamo a nomi diversi per identificare diversi tipi di pasta. Ma questi scimpanzé non sono dotati di linguaggio perché sono pressoché muti. Non possono cantare per salvare la loro anima. Quindi, gli uccelli sono dotati di quelle che Darwin chiamava «cadenze musicali», ma non di parole, mentre i nostri più vicini antenati possono assegnare nomi a oggetti e simboli, ma non possono cantare. Solo l´uomo possiede entrambe queste abilità, ovvero il canto e la parola. Il risultato? Il linguaggio umano.
Che entrino ora le recenti scoperte! In un modo o nell´altro, prendiamo le parole presenti nella nostra testa e le pronunciamo ad alta voce. Tuttavia, questa meccanica può incepparsi. Alcune persone, infatti, sono affette da disordini del linguaggio ereditari. Pertanto, sebbene riescano a comprendere alla perfezione una domanda come: «Dove abiti?», avranno difficoltà nel cercare di rispondere.
All´interno del loro DNA si è verificata una rottura. I ricercatori hanno riscontrato che un´anomalia genetica impedisce il normale sviluppo del cervello. Ciò danneggia il linguaggio in quanto i nervi che governano i muscoli deputati alla produzione della corretta sequenza fonica non espletano la proprio funzione. Il danno, in questo caso, non riguarda il sistema che funge da «collante» e che accorpa le parole nella nostra mente prima che esse vengano pronunciate, in altre parole il computer centrale, ma bensì la «stampante» del linguaggio. Esperimenti condotti sui fringuelli danno conferma di tutto ciò. Al termine dello scorso anno, gli scienziati sono riusciti a «simulare» in via sperimentale le problematiche dell´uomo sugli uccelli.
Per fare ciò, hanno inserito copie danneggiate di un gene chiave in uccelli neonati prima che imparassero a cantare, con l´intento di perturbare il loro canto, proprio come nell´uomo.
Il linguaggio umano è anch´esso dotato di ritmo, basti pensare alla cantilena che accompagna una strofa poetica come: «Non mi dire, in tristi cifre, che la vita è un sogno vuoto» (Longfellow) o dai toni più familiari: «Voi ch´ascoltate in rime sparse il suono/di quei sospiri ond´io nutriva ‘l core/in sul mio primo giovenile errore». Se analizziamo la purezza ritmica del testo poetico ecco che udiremo una serie di «accenti ritmici», uno per ciascuna sillaba. Analogamente, la parola «rima» è composta da due sillabe: ri-ma. Come si formano gli accenti ritmici? Ed ora entri la scoperta linguistica dell´MIT: tutti gli accenti ritmici delle lingue del mondo possono formarsi «incollando» le sillabe tra di loro in modo tale da formare nuove unità.
I fringuelli possiedono la medesima «struttura ritmica».
Proprio come quando battiamo il tempo con il piede a ritmo di musica, così l´uomo o gli uccelli parlano o cantano senza incespicare. Questa è l´origine del linguaggio. Tutti gli animali esposti ad un apprendimento vocale ricorrono a questo sistema per formare ritmi in assenza di parole, contrariamente a quello che fanno «discenti» privi di apprendimento vocale come gli scimpanzé. Gli scimpanzé possono fare ricorso alle parole, ma non hanno ritmo e non dispongono di un «collante». In assenza di quest´ultimo ingrediente, pertanto, non possono sviluppare il linguaggio in quanto incapaci di generare nuove frasi, o parti di esse, utilizzando frammenti di parole. Per generare un vero linguaggio occorrono parole, ritmo e un «collante». In questa prospettiva, la vera essenza della specie umana si è caratterizzata attraverso il canto e le parole, ovvero con l´Opera. Ma gli italiani lo sapevano già da tempo!

Repubblica 18.10.08
Nel nome di Piero Gobetti
Un pensiero che non muore
di Riccardo Di Donato


Nel luglio del 1999, le soffitte della casa londinese di Arnaldo Momigliano hanno restituito manoscritti e dattiloscritti di trenta interventi dello storico dell´antichità esule a Oxford, composti tra il 1941 e il 1945, per le trasmissioni di propaganda di Radio Londra, cui collaboravano gli esponenti del movimento antifascista Free Italy - Libera Italia, in cui erano attivi, tra gli altri, Umberto Calosso, Elio Nissim, Ruggero Orlando e i fratelli Paolo e Piero Treves.
Di questi trenta testi, tre soltanto erano noti, in quanto conservati negli Archivi della BBC, compresi nell´inventario reso pubblico nel 1976 e quindi pubblicati in Belfagor con il titolo Conversazioni sul nazismo, subito dopo la morte di Momigliano, alla fine del 1987.
I testi permettono di apprezzare un aspetto non conosciuto della personalità dello storico piemontese e ci fanno leggere in forma diretta l´espressione di quei pensieri sul presente, che andavano finora cercati in filigrana entro gli scritti di storia antica, in particolare in quelli composti nel medesimo periodo, pervenuti in modo frammentario e in massima parte concentrati intorno al tema del libro che Momigliano non arrivò a scrivere, negli anni dell´esilio, su Pace e libertà nel mondo antico.
L´insieme degli interventi a Radio Londra viene presentato per la prima volta nella celebrazione pisana del centenario dello storico, presso la Scuola Normale Superiore, come contributo alla comprensione della progressiva maturazione del suo pensiero sul presente e sul reale.
Qui si sceglie di pubblicare per intero il discorso letto a Radio Londra il 16 febbraio del 1943, nel giorno anniversario della morte di Piero Gobetti, di cui resta un dattiloscritto su carta velina, con due correzioni a mano dell´autore. Il testo contiene un richiamo alle emozioni vissute da Arnaldo Momigliano negli anni trascorsi come studente all´Università di Torino, accanto ai suoi compagni di studi tra cui furono subito il gobettiano Aldo Garosci e Aldo Bertini, già attivamente impegnati nella cospirazione antifascista, e poi Carlo Dionisotti, che dei sentimenti del giovane storico ha recato fino all´estremo convinta testimonianza.

Repubblica 18.10.08
Aspettando la rivoluzione liberale
di Arnaldo Momigliano


Il 16 febbraio 1926 moriva esule a Parigi Piero Gobetti appena venticinquenne. Qualche tempo prima, in un ordine che fu scoperto e pubblicato in fac-simile, Mussolini aveva ordinato alle autorità fasciste di Torino di «rendere la vita impossibile a Piero Gobetti». L´onore di un´attenzione da parte del Duce era meritato: Gobetti era non solo uno dei più vigorosi critici del Fascismo. Egli opponeva al Fascismo una fede positiva. Egli era un esempio di quella società morale e intellettuale che i gerarchi temono sopra ogni altra cosa.
Gobetti si era laureato in lettere alla Università di Torino. Aveva passione per la filosofia e la critica d´arte; e l´amore per il vecchio Piemonte dov´era nato assumeva in lui tono di rievocazione appassionata. Nessuno ha saputo più di Gobetti far rivivere quei Piemontesi del buon tempo antico, testardi e magnanimi, tra cui crescevano Alfieri, Massimo d´Azeglio, Cavour. Ma in Gobetti filosofia e amore per la tradizione, lungi dal farsi accademici, erano forze con cui egli cercava di intendere e di combattere quella grave crisi della vita italiana che si chiama Fascismo. Gobetti sapeva che il Fascismo non è un fenomeno superficiale della vita italiana, ma è anzi il risultato di talune insufficienze del Risorgimento. Il Risorgimento infatti diede una coscienza politica solo a una piccola minoranza: non educò alla libertà le masse. Perciò dopo la guerra del 1915-18, che aveva esaurito l´Italia, fu facile organizzare un triste carnevale reazionario e demagogico. Ma il rimedio contro il Fascismo può essere solo di completare e perfezionare il Risorgimento: conservare la tradizione del Risorgimento italiano e armonizzarla con le esigenze della vita economica moderna e con le rivendicazioni delle classi lavoratrici.
Per questo Gobetti soleva dire in una forma apparentemente paradossale che l´Italia non ha mai avuto, ma deve ancora avere un vero regime liberale, che l´Italia deve ancora fare la sua vera rivoluzione: la rivoluzione liberale. Rivoluzione liberale fu il motto di Gobetti - e Rivoluzione liberale fu il titolo del periodico che egli cominciò a pubblicare nel febbraio 1922. Chi è stato giovane vent´anni or sono ricorda la lieta sorpresa e l´entusiasmo suscitati dall´apparizione di questo giornale che parlava della tradizione liberale italiana con tanta novità e freschezza. Scriveva allora Gobetti: «L´abolizione della lotta politica nell´esaltata unanimità delle folle è un regresso evidente perché non si possono elaborare idee politiche quando gli uomini che le pensano sono soffocati. D´altra parte il fallimento desolante di tutti i partiti attuali sembra proporre con allarmante urgenza la necessità di rifarsi ai principii. La cultura politica e la lotta politica nel mondo moderno ha una sua premessa necessaria nella libertà». Nel 1924 Gobetti riassumeva le sue idee politiche con grande limpidezza e vigoria in un volume egualmente intitolato Rivoluzione liberale, che deve essere letto ancora oggi. Intanto egli approfondiva la storia del Risorgimento in alcuni studi raccolti nel volume Risorgimento senza eroi; sentiva il dovere di studiare la rivoluzione russa e i suoi presupposti nel volume Paradosso dello spirito russo e dava giustamente grande importanza ai problemi della scuola che il Fascismo stava per soffocare.
Il regime di terrore instaurato da Mussolini dopo l´assassinio Matteotti venne presto a troncare l´attività di Gobetti e la speranza che egli potesse sviluppare il suo movimento in un partito di giovani liberali italiani. Ma il valore del suo insegnamento non è perduto dopo circa vent´anni. Questi vent´anni sono stati di tragica decadenza per l´Italia e hanno confermato solo l´esattezza della diagnosi di Gobetti che bisogna attuare in pieno la rivoluzione liberale iniziata ma non compiuta del Risorgimento. Il problema allora posto da Gobetti di conciliare la libertà politica con il rinnovamento sociale è oggi non solo più un problema italiano, ma un problema mondiale; ed è interessante osservare come in Inghilterra oggi viene discusso su linee che sono molto affini a quelle di Gobetti. Perciò commemorare Gobetti non è solo rendere omaggio alla memoria di una delle più nobili delle giovani vite che il Fascismo ha stroncato. Commemorare Piero Gobetti è oggi ricordare ai giovani d´Italia che uno di loro vent´anni or sono trovò la risposta dei giovani alla falsa Giovinezza del Fascismo. L´insegnamento di Gobetti, italiano e liberale, non ha perso il suo valore ancora oggi.
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l’Unità 18.10.08
Il romanzo popolare del Pci nato a Trastevere
di Bruno Gravagnuolo


BIOGRAFIE La storia di una generazione divenuta comunista nel dopoguerra nel racconto di Renato Venditti, giornalista de l’Unità dal 1946 agli anni 80. Un racconto semplice e incisivo senza omissioni

In tempi in cui prendersela col Pci e aggredirne la memoria è divenuto un dovere di buona creanza - vedasi il trattamento che torna a riservargli Mirella Serri nel suo ultimo libro su Pannunzio e il suo mondo (I profeti disarmati, Il Corbaccio) - arriva la biografia di un giornalista de l’Unità a fare un po’ di pulizia. Senza oltranze. Con la modestia di un racconto semplice e popolare, niente affatto elusivo e a tratti toccante: Renato Venditti, La Cricca. Vita di famiglia nella dittatura (Nutrimenti, Roma, pagg. 189, euro 17).
Lo ha scritto un comunista romano, a lungo attivo in questo nostro giornale come giornalista parlamentare, e poi a Paese sera (oggi collabora con i locali del gruppo Espresso). E lo ha scritto col cuore e con la mente, come uno zibaldone autobiografico, intramezzato però dagli eventi storici che plamarono la sua vita e le sue scelte. Il delitto Matteotti, il fascismo nella capitale, la Resistenza a Roma, Togliatti, l’Ungheria, le spie dentro il Pci nel 1954 dopo la fuga di Seniga con la cassa e la lotta interna di Secchia, seguita dalla sua estromissione. Il libro oltre che vero e appassionante, è in certo senso una «fonte». Fonte orale, come fosse l’autointervista di chi fa un rendiconto ad alta voce, e rende onore a un mondo quasi scomparso. Tesimonianza a nome di quel mondo: il comunismo romano. Visto però non dall’alto, dalle scelte di vita di quegli antenati intellettuali famosi che ben conosciamo: i Bufalini, gli Ingrao, Giorgio e Pietro Amendola, Alicata, Natoli. Che pure in qualche modo, da chierici, seppero farsi popolo. No, stavolta lo sguardo viene da altrove. Da Trastevere, dalle sue botteghe artigiane. Insomma dal popolo della Roma democratica e antifascista che incontra via via il Pci togliattiano e si fonde con esso. Mescolandosi al contempo, ecco il dato straordinario, con quegli intellettuali che per altre strade arrivano in quello stesso Pci.
Ecco, la storia che Renato ci racconta - lo chiamiamo così senza conoscerlo come un fratello maggiore - viene dalle viuzze di Trastevere e da piazza in Piscinula. E da un librone polveroso che l’autore tira giù a fatica da un archivio militare, per ricostruire l’immagine di un padre falegname morto nel 1924 per i postumi della Grande Guerra a cui aveva partecipato da soldato. E spirato dopo aver nascosto, dietro una Madonna del letto, una fotografia di Matteotti. Che starà lì a fare da sentinella tra diverse generazioni di antifascisti. La prima, quella della famiglia abbruzzese dell’autore immigrata a Roma. E la seconda, quella maturata durante il regime sotto lo sguardo di Zio Alfredo, che diffidava i nipoti dal mostrarsi in camicia nera: «Nun ve fate vede vestiti da pupazzi...».
Dunque, negozi di barbiere, laboratori di tintoria, ragazzi tirati su con dignità e con vestiti rivoltati (ma a volte lo zio portava i ragazzi dal sarto). E grammofoni e radio da fissare assorti, quando cantava il Trio Lescano durante il ventennio. Ma poi, nel 1943 gli ebrei deporati al ghetto, come fratelli strappati dal cortile di casa, e la Resistenza, via Rasella, i volantini. E e qualche bomba mai esplosa, la pistola mai usata. Trepidando per quelli più grandi, che le bombe le mettevano davvero, a via Rasella, o all’Adriano (inesplose quelle contro Graziani). Insomma è la Roma popolare e democratica che si risveglia, vista dai ragazzi di Roma città aperta. Che prima che film neorealista di Rossellini, fu realtà neorealista, magari senza epica ma autentica. Lo «snodo» sono degli articoli battuti a macchina da Renato Venditti. E affissi su un menabò autoprodotto vicino all’Osteria del Comparone a Piazza in Piscinula, dove si dice che il Tevere arrivasse a fare da piscina per i bagni. Qualcuno li vede quegli articoli, e così Venditti si ritrova cronista all’Unità, in una con una vocazione di attore al Centro Sperimentale che il duro lavoro del giornale gli farà abbondonare (17 e poi 45mila lire al mese, questo eravamo!). Ma qui comincia un’altra storia.
La storia di Renato giornalista che s’affina, diventa «organico» tra lealtà e dubbi verso quel partitone che gli ha consentito di dare un senso alla sua saga familiare, coi suoi semplici principi di dignità e fraternità generosa, contro i prepotenti di ogni risma. Eccolo l’essere comunisti in Italia, a Roma: slargare la percezione del mondo, diventare cittadini, amare Di Vittorio e i suoi cafoni, assieme al cinema di Luchino Visconti. O a quello di Elio Petri, comunista indocile e «transfuga» senza tradire, amico di Venditti, come del resto Ugo Attardi, Trombadori, De Santis, Bentivegna, la Capponi Aggeo e Arminio Savioli (straordinari colleghi viventi). Tanta gente diversa, più o meno importante. A comporre l’affresco di quel quarto stato pensante, intellettuale e popolare, che fu il Pci, nato tra L’Ordine Nuovo di Torino e le botteghe di Trastevere, passando per i braccianti di Foggia. Tutto bello e magnifico? No, perché alla fine nel 1954 anche Venditti subisce senza saperlo l’inquisizione della spia Cicalini, che denuncia in segreto «La Cricca Venditti», in odore d’eresia (fratello e cognato di Renato lavoravano a l’Unità). E poi c’è l’Ungheria, il trauma al giornale e tante altre cose. Ma una cosa resta, tra luci e ombre, meschinità e atti coraggiosi. Resta la memoria di quel Pci che anche grazie a quelli come Renato e a l’Unità ci ha fatto più liberi e civili.

l’Unità 18.10.08
Il dramma di Eluana, la lezione della Corte
di Tania Groppi


La preoccupazione per la sorte di Eluana Englaro dopo i drammatici eventi degli ultimi giorni ha riportato al centro dell’attenzione il suo corpo conteso, facendo apparire sbiadite e remote le dispute giuridiche di cui è stato oggetto.
Ciò è certamente comprensibile. Tuttavia, non si può ignorare l’importanza della ordinanza emessa, qualche giorno or sono, dalla Corte costituzionale, chiamata anch’essa a pronunciarsi, dopo la Corte d’appello di Milano e la Corte di cassazione.
Le Corti costituzionali, e tra esse quella italiana, una delle più antiche ed autorevoli, sono organi all’antica. In un mondo in preda alla frenesia dell’effimero e al culto dell’apparire, si muovono caute con passi felpati, cercando di far parlare di sé il meno possibile. I giudici costituzionali rifuggono le interviste, i talk show, i titoli e finanche le lettere ai giornali. Essi parlano soltanto se interpellati, attraverso le loro pronunce, per di più ammantate dalla copertura della collegialità
A volte una tale riservatezza può far dubitare della loro capacità di comunicare e persino di mantenere un contatto con la realtà del proprio tempo. Ma questo silenzio è ben lontano dall’assenza. Esso è segno di una presenza vigile e tenace, che non alza la guardia quando si tratta di difendere la Costituzione.
Di ciò ci ha appena offerto un esempio la nostra Corte costituzionale, che nel breve volgere di un paio di mesi ha sgombrato il campo da uno dei più inquietanti atti con cui mai un parlamento si sia contrapposto al potere giudiziario: il conflitto sollevato da Camera e Senato a difesa, si è detto, della propria sfera legislativa, ritenuta invasa dalla sentenza con cui la Corte di cassazione aveva reputato legittimo sospendere i trattamenti che permettono di mantenere Eluana Englaro artificialmente in vita.
Un conflitto che ha fatto sgranare gli occhi ai costituzionalisti di tutto il mondo: mai, nella tensione che di sovente attraversa i rapporti tra potere politico e giudici, si era giunti al punto di negare al potere giudiziario la possibilità, in assenza di una legge, di decidere un caso applicando direttamente i principi costituzionali.
Ciò significa infatti negare l’essenza stessa della forma di Stato costituzionale. Nel quale il ruolo del giudice non è quello di mero applicatore della legge, come accadeva nello stato legislativo ottocentesco. Egli è chiamato a far valere a supremazia della Costituzione, nelle forme previste dall’ordinamento. Ciò che comporta, quando una legge da applicare non vi sia, il diretto richiamo ai principi costituzionali.
La Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta inammissibilità del ricorso, in camera di consiglio e con ordinanza, affermando che non vi è materia per un conflitto di attribuzione: la Cassazione non ha indebitamente legiferato, ma si è limitata a fare quel che spetta ad ogni giudice, ovvero decidere un caso concreto; e il parlamento si lamenta semplicemente del contenuto di questa pronuncia, che gli risulta sgradita. E’ sufficiente alla Corte richiamare la sua consolidata giurisprudenza, secondo la quale il conflitto di attribuzione «non può essere trasformato in un atipico mezzo di gravame avverso le pronunce dei giudici». Ed è agevole concludere che «d’altra parte, il Parlamento può in qualsiasi momento adottare una specifica normativa della materia, fondata su adeguati punti di equilibrio fra i fondamentali beni costituzionali coinvolti».
Al di là delle conseguenze sul drammatico caso di Eluana, ancora lontano dall’essere concluso (la Corte di cassazione si dovrà pronunciare di nuovo, ad inizio novembre), la sintetica e chiara ordinanza della Corte costituzionale assume suo malgrado una portata storica nella definizione dei rapporti tra i poteri. Altro che decisione pilatesca, come è stato incredibilmente e sfacciatamente commentato a caldo dagli esponenti politici della maggioranza. La Corte, affermando che, qualora il parlamento non legiferi su una materia, non può sollevare conflitto di attribuzione contro un giudice che applichi direttamente i principi costituzionali, riafferma l’essenza dello Stato costituzionale: ovvero la supremazia della costituzione e la sua capacità di pervadere ogni aspetto dell’ordinamento, senza la necessaria intermediazione del legislatore. Ci sembrava una ovvietà, insita già nella prima, celebre sentenza della Corte costituzionale, adottata più di 50 anni fa, ma evidentemente niente può essere dato per scontato nei tempi e nel clima politico in cui viviamo. Un clima nel quale diventa ancora più importante la difesa dell’indipendenza della Corte: l’ambiguità nella quale il Parlamento sta procedendo, dopo mesi e mesi di inadempienza, ad eleggere il quindicesimo giudice, non pare di buon auspicio per il futuro.

Corriere della Sera 18.10.08
La locandina della manifestazione del 25 ottobre
Il Pd, la foto e una folla senza volto


Non è il caso di farne un dramma. Può succedere.
Può succedere, vogliamo dire, che il Pd acquisti una foto per un manifesto in vista della manifestazione del 25 ottobre senza controllare al microscopio la folla che ritrae.
Può succedere pure che a controllare siano invece giornali di parte avversa, scoprendo, con grande gaudio, che la folla della foto non è fatta di militanti, ma di pellegrini convenuti in piazza San Pietro per rendere omaggio al Santo Padre, preti e monache ovviamente compresi. E può anche succedere — anzi, è inevitabile che succeda — che i suddetti quotidiani, per un paio di giorni, indossino i panni del gabibbo, e ci sguazzino. Di gaffes simili è lastricata, e non soltanto da noi, la vita politica: quasi mai i loro effetti superano le quarantott'ore.
Se ci torniamo su è perché questa gaffe, ci perdoni il responsabile della propaganda democratica Alberto Losacco, ha un sapore tutto particolare. Ci parla, cioè, di qualcosa di più interessante della lentezza dei riflessi politici di questo o quel dirigente del Pd che, preposto a vagliare delle foto per un manifesto, reputa da matti la sola idea di cercare di capire che cosa mai ritraggano. In fondo, devono aver pensato in via del Nazareno, visto che il 25 ottobre si tratta di portare in piazza un milione di persone o giù di lì, l'importante è che sul manifesto ci sia una bella folla compatta, una siepe fittissima di testoline. Una piazza è una piazza, una folla è una folla: a chi appartengano le testoline in questione, e dove e quando e perché si siano date convegno, in fondo, ma nemmeno tanto in fondo, non è poi così importante.
Fondamentale, semmai, è che non ci siano simboli, bandiere o cartelli, tutti destinati, inevitabilmente, a creare gratuiti imbarazzi. E, in questo senso, la foto di cui ci stiamo occupando va benissimo. Anzi, è perfetta. Forse unica nel suo genere.
Niente bandiere rosse o bianche che possano richiamare non diremo il Pci o la Dc, ma nemmeno, si parva licet, il Pds, i Ds, i popolari o la Margherita.
Niente simboli che possano ricordare i partiti grandi e piccini della disciolta Unione, compresi gli ex alleati della cosiddetta sinistra radicale. Niente cartelli che possano riportare alla memoria slogan del passato e meno recente, o far sospettare qualche recondita tentazione degli organizzatori di dar sfogo a pulsioni bassamente antiberlusconiane. Niente di niente. O meglio: testoline e solo testoline. E se qualche solerte redattore del Giornale individua, ingrandendo il tutto al microscopio, una certa qual sovrabbondanza di religiose e di religiose, poco male: se il 25 ottobre in piazza ce ne fosse anche solo la metà, per il Pd sarebbe una bella notizia, e per il centrodestra un motivo di preoccupazione.
Qualche motivo deve pure esserci, se si considera normale, quasi scontata, l'idea di affidare a una folla che (oltretutto a torto) si immagina rigorosamente anonima il compito di fungere da richiamo, su un manifesto, per convocare una folla di uomini e donne in carne ed ossa. E il primo motivo che viene in mente è che il Partito Democratico, un po' per scelta e un po' per necessità, è un partito che, faticando oltremisura a fare i conti con i molti passati che (a dire il vero sempre più stancamente) convivono al suo interno, preferisce glissare e, per quanto possibile, provarsi a resettarli, a rischio di rendere vago e indistinto anche il suo presente. Pure nella comunicazione.
Pure nella scelta della foto per un manifesto. L'obiezione è scontata.
Questa, si dirà, è la prima manifestazione nazionale del Pd, una grande manifestazione cui è affidato il compito di disegnare il profilo del nuovo partito, della qualità della sua opposizione oggi, delle sue ambizioni di governo domani: è naturale, quindi, che negli archivi non ci siano immagini particolarmente utili per anticiparne il messaggio. Può darsi.
Ma non è un buon motivo per farsi rifilare, nel frattempo, la foto di una folla «qualsiasi» pescata in una piazza altrui. E che piazza.

Corriere della Sera 18.10.08
Parla Morris Halle, l'ideatore della fonologia moderna che ha appena terminato un saggio con Nigel Fabb sull'universalità della lirica
Così funziona la mente dei poeti
Le strutture basilari della metrica sono comuni a tutte le lingue
di Massimo Piattelli Palmarini


Quando iniziai a studiare l'inglese a scuola, la professoressa ci disse che ogni parola dell'inglese ha la sua particolare pronuncia e che bisognava impararla parola per parola. C'era in questo una certa saggezza pratica, ma anche il riflesso di un antico modo di studiare la fonologia che Morris Halle e Noam Chomsky hanno sbaragliato nel 1968 con il loro monumentale saggio The Sound Pattern of English (ormai abbreviato da anni tra i linguisti con la sigla Spe). Non più regole e regolette, ma eleganti principi di livello molto astratto. Su questa base si è sviluppata la fonologia moderna. Si sono, infatti, scoperte delle scansioni mentali distinte, un po' come dei conta-secondi, attivi nella nostra mente, che ritmano in tempo reale un tic tac per le sillabe, uno per i fonemi, uno per la metrica, uno per i morfemi (in italiano, parti delle parole come «ndo», «ito», «ato» ecc). Come le pecorelle, questi suoni vanno a due a due o a tre a tre, a seconda della lingua. Poi questi gruppi sono a loro volta ulteriormente, mentalmente, raggruppati a due a due, o a tre a tre. Si noti, non a quattro a quattro o a cinque a cinque. In astratto la mente potrebbe fare anche questo, ma non lo può fare in concreto, non la mente umana così com'è costruita.
L'importanza di questo lavoro la lascio valutare da Marina Nespor, fonologa internazionalmente nota, docente all'Università di Milano Bicocca: «Quel libro, sul sistema che determina la forma sonora delle parole inglesi, ha più di ogni altro cambiato la concezione di come i suoni sono organizzati nelle lingue naturali». Di Morris Halle mi dice: «È a buon diritto considerato l'ideatore della fonologia moderna».
Prima di dare la parola allo stesso Halle, di cui mi professo discepolo e di cui mi onoro di essere amico, voglio riportare un consiglio che per anni dava ai migliori studenti di linguistica del Mit Samuel Jay Keyser, allora capo del dipartimento di cui Halle e Chomsky erano i membri più prominenti: «Cercate di essere come Morris». Halle, che fece assumere al Mit l'allora giovanissimo Chomsky, non si offendeva affatto quando Keyser poi aggiungeva: «Soprattutto non cercate di essere come Noam, perche nessuno può essere come Noam».
Con un ex allievo del Mit, Nigel Fabb, ora professore a Glasgow, Halle ha appena pubblicato alla Cambridge University Press un altro approfondito lavoro, Meter in Poetry,
sulla metrica nella poesia. Passando ad un attento setaccio poesie in ben 15 lingue, dall'italiano all'arabo, dall'inglese al greco, di poeti che spaziano da Dante a Montale, da Verlaine ad Aristofane, senza omettere i salmi dell'Antico Testamento, Halle e Fabb hanno messo in evidenza le strutture comuni, ciò che le poesie ci rivelano sull'organizzazione della mente umana. «In tutte le lingue e le culture — mi dice Halle — troviamo la poesia metricamente organizzata. E troviamo che ogni metrica è basata su gruppi di due o di tre sillabe, cioè in ciò che tradizionalmente si chiamano "piedi", con variazioni che vengono ampiamente sviluppate nel nostro libro. Semplificando un po', i piedi sono a loro volta raggruppati in coppie o in triplette, chiamate "metra" e questi di nuovo in coppie o triplette chiamate "cola"» (in italiano tradotto dalla Nespor come «diastichi»). In tanta uniformità, esistono anche vari gradi di libertà, e così le metriche variano nel tempo e nelle lingue. Halle mi spiega che, essenzialmente, oltre alla scelta tra gruppi di due e gruppi di tre, i gradi di libertà ulteriori sono di due tipi: il bordo ( edge) del verso dal quale far partire il raggruppamento (da destra o da sinistra) e la posizione di un elemento principale, la «testa», di nuovo dall'estremo destro o dall'estremo sinistro. In sostanza, ogni poeta, in ogni epoca ed in ogni lingua, ha cinque opzioni possibili per ogni unità, cinque per le sillabe, cinque per i piedi e così via per i metra e i cola. Qualche scoperta inattesa? «Sì, nella poesia delle lingue neo-latine (italiano, francese, spagnolo, portoghese) le sillabe sono sempre e solo raggruppate a due a due, partendo dal bordo destro del verso e la testa del piede è sempre a destra. In inglese, russo e tedesco, invece, si hanno più variazioni. Oltre alle coppie si hanno triplette, si parte anche da sinistra, oltre che da destra ». Molte interessanti similitudini sussistono tra l'organizzazione della metrica in poesia e il modo in cui le diverse lingue assegnano l'accento tonico. Di nuovo coppie e triplette e di nuovo «teste» posizionate verso destra o verso sinistra. Nessuna eccezione? Halle è molto fiero di aver trovato un'eccezione in alcuni salmi dell'Antico Testamento. «In essi si ha una conta diretta del numero di sillabe, non un raggruppamento in coppie o triplette. Il Salmo 137, per esempio, ha i seguenti numeri di versi: sette ripetuto cinque volte, poi cinque, sei, sette, otto, poi otto e cinque che si alternano quattro volte, poi in decrescendo otto, sette, sei, cinque, poi infine di nuovo sette ripetuto cinque volte. Ho pensato che questo corrispondesse a una struttura visiva, in particolare architettonica. E ho scoperto che il secondo Tempio di Gerusalemme, distrutto dai romani sotto Vespasiano, aveva due ali, un tetto, e un porticato con quattro colonne. La stessa struttura del salmo» (vedi figura).
Due domandine finali. Cosa ci insegna tutto questo sulla mente umana? «La capacità di raggruppare in coppie e triplette e poi, di nuovo, ricorsivamente, raggruppare il risultato in altre coppie o triplette è una proprietà universale della nostra mente. E così la capacità di designare elementi prominenti, le teste, e poi mantenere questa prominenza di nuovo ricorsivamente. Questa ricorsività è fondamentale anche in sintassi, come da anni sottolineato da Chomsky. Qualunque buona teoria della mente umana dovrà spiegare questi fatti». Trattare la poesia in questo modo non è un po' riduttivo? Halle risponde piuttosto seccato: «Quando Pitagora dimostrò il suo teorema non "ridusse" l'ipotenusa ai cateti, ma capì una proprietà vera dei triangoli rettangoli che nessuno aveva prima notato. Quando noi ora mostriamo che ogni metrica poetica consiste in questi raggruppamenti ripetuti in coppie o in triplette non "riduciamo" i versi a niente altro. Rendiamo esplicita una proprietà che era rimasta fino ad ora implicita».
Proprio da Halle ho imparato perché in inglese l'accento della parola comparable è sulla o, non sulla prima a, e di Arabic è sulla prima a, non sulla seconda, e perché noi italiani sbagliamo sempre, molto prevedibilmente, tanti accenti delle parole inglesi. Come per la poesia, il segreto sta nella sillabificazione e nel raggruppamento delle sillabe. Per questo la mia professoressa delle medie aveva torto come fonologa, ma ragione come praticona della lingua.

Le vendite del Capitale sono triplicate, ha annunciato alla Buchmesse Joern Schuetrumpf, direttore della casa editrice berlinese Karl-Dietz.
Repubblica 18.10.08
La Buchmesse si avvia alla conclusione: Marx si vende molto
E Günter grass critica la stampa


Il Nobel tedesco ha presentato ieri alla Fiera la seconda parte della sua autobiografia "Die Box" e ha raccontato che l´ha riscritta ascoltando le critiche dei figli

FRANCOFORTE. «Il crash americano è straordinario e tutt´altro che finito» scriveva Karl Marx al suo amico Friedrich Engels. «Quando i capitalisti scambiano solo denaro contro denaro le cose finiscono male». Era il 1857. Da allora è passato un po´ di tempo, ma opinionisti e accademici sembrano concordare oggi con lui. Il più classico dei classici tra i critici del capitalismo gode di un´inaspettata rinascita in Germania come guida per capire la crisi finanziaria globale. Le vendite del Capitale sono triplicate, ha annunciato alla Buchmesse Joern Schuetrumpf, direttore della casa editrice berlinese Karl-Dietz. Da 500 copie vendute l´anno scorso, il primo dei tre volumi del Capitale ha già venduto quest´anno 1500 copie. Perfino il nuovo vescovo di Monaco pubblica un libro dal titolo Marx e io. Il vescovo, che prima di arrivare a Monaco era - appunto! - a Treviri, è un omologo di Marx e scherza volentieri sul proprio nome. Professore di etica sociale, Reinhard Marx è noto per le sue prese di posizione politiche (in Germania molto meno consuete che in Italia da parte di un alto prelato): sulla guerra in Iraq, sulle riforme sociali, sulla globalizzazione.
Anche Günter Grass, che ieri era alla Buchmesse a presentare la seconda parte della sua autobiografia, Die Box, non ha risparmiato parole ironiche sull´improvviso «cambiamento di tono dei politici e dei giornali più conservatori, da Guido Westerwelle alla Frankfurter Allgemeine». Mai avevano criticato prima la politica di Bush, per anni hanno chiesto più deregulation e liberalizzazioni, ha detto, e all´improvviso sono diventati convinti sostenitori dell´intervento dello Stato. Su Die Box, Grass ha raccontato di aver scritto quattro o cinque versioni, accogliendo ogni volta le critiche dei figli (ne ha otto, da quattro madri diverse). L´ultima versione non è riuscita a eliminare completamente le loro riserve, ha ammesso: «alcuni borbottii sono rimasti, ma ne parliamo».
Quale è stato, ci si chiede come sempre in chiusura, il vero tema della Buchmesse - oltre a quello della Turchia, ospite d´onore, dominato dalle scrittrici, le più coraggiose nel denunciare il fanatismo e l´oppressione nella società anatolica. La crisi finanziaria? I libri elettronici? I giovani autori? L´applauso più sentito è andato a Roberto Saviano, al quale la Buchmesse ha assegnato, insieme a Matteo Garrone, il premio per il miglior film tratto da un libro. «E´ incredibile che in un paese europeo un autore rischi la vita per quel che scrive» ha commentato il telegiornale della ZDF.
Quanto alla crisi, gli editori alla Buchmesse non sembrano essere troppo preoccupati. L´esperienza dimostra, dicono, che quando le cose vanno male, si leggono più libri. La lettura rimane il divertimento più a buon mercato. L´anno scorso in Germania il fatturato delle case editrici è aumentato del 3,4 per cento. In Italia, tuttavia, i 24 milioni di lettori di libri sono diminuiti nel 2007 dell´uno per cento. Per oltre la metà degli italiani la lettura è un´attività sconosciuta e tra quanti leggono, solo il 46 per cento arriva ad aprire tre libri l´anno. Per promuovere la lettura dovrebbe nascere ora il Centro del libro: il sottosegretario ai Beni culturali Francesco Giro, presente alla Fiera, ha promesso che il governo varerà entro l´anno il regolamento per attuarlo, e lo doterà di un fondo di 3 milioni di euro.
Il caso di Firmino, il topo che si salva mangiando i libri in biblioteca, edito in Italia da Einaudi e che ha già venduto 400.000 copie, è stato lodato alla Buchmesse come un caso particolare, perché era stato un editore spagnolo a scoprirlo quando ancora in America, pubblicato dalla piccola casa editrice Coffee House Press, vendeva poche copie e ne aveva acquistato i diritti internazionali poi rivenduti in tutto il mondo. Bompiani ha comprato uno dei libri di cui alla Fiera si parla come di un nuovo «giovane Holden»: Mathilda Savic dell´americano Victor Lodato, la storia di una ragazzina tredicenne che cerca gli amici della sorella maggiore morta; e ha comprato anche La Torre di Uwe Tellkamp, vincitore del Bücherpreis: un romanzo di mille pagine in cui si racconta la vita nella DDR di un gruppo di borghesi che abitavano nelle ville sulle colline di Dresda ignorando il regime. Tra i romanzi italiani venduti, oltre a Veronesi e De Carlo, anche Giovanni Maria Bellu. Mondadori ha comprato una storia al femminile, Losing Charlotte di Heather Clay; e per la saggistica un libro sull´architettura, Conversazioni con Frank O´Gehry e Le sette età di Roma di Robert Hughes.