lunedì 20 ottobre 2008

l’Unità 20.10.08
L’allarme di Mussi. L’ecatombe dei ricercatori
di Maristella Iervasi


Settantamila ricercatori in Italia: oltre la metà è precario. Il rischio più imminente è che perdano il posto a migliaia a causa del decreto 133 della Gelmini che ha chiuso il rubinetto delle stabilizzazioni. La denuncia arriva dall’ex ministro dell’Università, Fabio Mussi, che svela i retroscena di una riforma che intende uccidere la scienza nel nostro Paese. «La scure Tremonti si è abbattuta pure sugli atenei. Che fine hanno fatto i soldi del fondo per la ricerca?».
Anche Fabio Mussi come ministro dell’Università è stato contestato dagli studenti. Ma è con la Gelmini che la Pantera è tornata in libertà, a «ruggire» rabbiosamente in tutti gli Atenei italiani. La ministra di Forza Italia in compagnia del duo Tremonti-Brunetta ha messo letteralmente la ricerca «in mutande» - come recita lo slogan del movimento anti-Gelmini. E Mussi ne svela i retroscena. «Il ministro ha detto che l’Università rischia la fine di Alitalia? Lo dice - sottolinea l’esponente di Sinistra democratica - per nascondere altri fatti ancor più gravi: la liquidazione di un’intera generazione di ricercatori. È in atto un olocausto di migliaia e migliaia di persone».
I ricercatori in Italia sono circa 70mila tra pubblico e privato. E oltre la metà di questi è precario. In tutti i campi: dalla ricerca medica e farmacologica all’Aids; dal campo sociologio a quello chimico e matematico. Il decreto 133 non solo ha ridotto il turn over del 20% e ha tagliato con l’accetta il finanziamento pubblico di un miliardo e mezzo ma ha anche «chiuso» il rubinetto già risicato delle stabilizzazioni e ha scritto la parola fine sui contratti flessibili. Risultato: «Stiamo perdendo la meglio gioventù - sottolinea Mussi -. E francamente non so proprio come potrà continuare a reggersi la nostra ricerca scientifica in queste condizioni. Nonostante i bassi investimenti finora si erano mantenuti livelli d’eccellenza, ma adesso... Addirittura i finanziamenti specifici per enti di ricerca sono stati trasferiti pari pari sull’operazione Ici. Che disastro!».
Andiamo con ordine e leggiamo per benino il contestatissimo 133. L’articolo 49 del decreto norma il lavoro flessibile nelle pubbliche amministrazioni. Di fatto è stato scritto ex novo per sostituire l’art.36 del decreto 165 del 2001, quello che introduceva il lavoro atipico ed estendeva quello flessibile in tutte le amministrazioni pubbliche. La «correzione» di questo norma stabilisce che le pubbliche amministrazioni «non possono ricorrere all’utilizzo del medesimo lavoratore» nell’arco di un quinquennio. «Il che vuol dire - precisa Mussi - che i precari di tutti gli ambiti lavorativi restano a spasso. Non possono più essere impiegati come lavoratori flessibili e non verranno neppure stabilizzati».
L’ultima Finanziaria Prodi conteneva una regola analoga ma consentiva per l’Università e la ricerca delle eccezioni. Ad esempio: se i contratti attingevano da fondi europei o per aree sottosviluppate si potevano rinnovare. La legge di bilancio 2007, all’articolo 519, consentiva inoltre la stabilizzazione di un certo numero di precari nelle pubbliche amministrazioni o il finanziamento per un piano straordinario di assunzione di ricercatori nelle Università ed enti di ricerca. Ed infine era stato istituito un fondo di 20-40 e 80 milioni di euro in 3 anni per l’Università e la ricerca. Le Università potevano quindi indire bandi di concorso per nuove assunzioni, circa 4mila. In pratica, Stato e gli Atenei co-finanziavano i posti. «Un regolamento innovativo - sottolinea l’esponente di Sinistra democratica -, ma la bocciatura della Corte dei Conti arrivò a crisi di governo aperta...». Il governo Prodi aumentò lievemente anche i fondi ordinari. «Da ministro mi battei in maniera furibonda, - ricorda Mussi, tuttavia un aumento ci fu.».
Tutto questo oggi con trio Tremonti-Gelmini-Brunetta è letteralmente sparito. Niente più norme per le stabilizzazioni dei precari, i contratti flessibili non si possono rinnovare per legge, la scure Tremonti si è abbattuta oltre che sulla scuola anche sugli Atenei, tagliando un miliardo e mezzo nei prossimi 3 anni. «Per migliaia e migliaia di giovani ricercatori precari - precisa Mussi - non c’è alcuna aspettativa di un futuro: è stato messo uno stop al rinnovo dei contratti a tempo determinato o flessibile. E per queste persone non c’è alcuna possibilità di concorso».
Tanti i quesiti aperti. «Che fine hanno fatto i soldi del fondo per i ricercatori che sono ancora a bilancio? si domanda Mussi -. Perchè si è scelto di buttare fuori un’intera generazione di giovani»?. E ancora: «Chi farà ricerca in Italia? I vecchi prof e i neo laureati a gratis?».
Per l’Università e la ricerca, pubblica e privata, l’Italia spende meno del 2% del Pil. Lo Stato spende il 20-30% in meno dei paesi europei, del Nord America e anche dell’Asia. Le imprese italiane in ricerca e innovazione spendono mediamente meno della metà delle loro consorelle europee. Nonostante tutto i nostri ricercatori a livello internazionale sono valutati terzi al mondo per produttività procapite. Insomma, fino ad oggi l’Italia spende una miseria (è 32esima nella classifica mondiale per formazione superiore e ricerca) e tuttavia ottiene risultati brillanti. La politica del centrodestra sembra voler chiudere le porte del futuro.

l’Unità 20.10.08
Nel vortice di Tremonti
Gelmini, Bondi, Prestigiacomo: quando i ministri fanno harakiri


I ministri si fanno del male, sono in opposizione con i loro ministeri, smontano anziché costruire, finiscono in vortici negativi da cui non sanno esattamente come si fa a uscire. Negli ultimi giorni il governo Berlusconi può vantare una serie di autogol abbastanza rilevanti, e piuttosto curiosi. Il primo fra tutti è quello di Mariastella Gelmini, ministro della Pubblica Istruzione. Non è tanto la protesta degli studenti in tutta Italia il punto, quanto il fatto che la sua riforma va a tagliare, ridimensionare e sminuire l’importanza proprio della scuola. Un tempo nelle vecchie logiche democristiane, anche i ministri peggiori si inventavano qualcosa per dimostrare che i loro ministeri erano importanti, che tutto doveva essere in espansione (anche quando non poteva esserlo), che se c’erano tagli, questi tagli venivano compensati da altro. Ma ora tutto è cambiato. Sembrano, più che dei ministri, dei commissari liquidatori.
Gelmini ha dato il meglio si sé con tutta una serie di tagli che riducono anche il suo ruolo, e che dimostrano quanto poco importi a questo governo di scuola e istruzione: adozione del maestro unico, la revoca del tempo pieno, il taglio agli organici e agli orari di lezione, il blocco del turnover, la chiusura dei plessi scolastici nei piccoli centri. Soprattutto la chiusura dei plessi e i tagli a orari e agli organici sono un ridimensionamento che un tempo un ministro, per il proprio ministero, non avrebbe mai accettato.
E il caso della Gelmini non è isolato. Venerdì Stefania Prestigiacomo, ministro dell’Ambiente, ha rilasciato un’intervista dal Corriere della sera che sembrava abbastanza surreale. Di fronte alle critiche di Stavros Dimas, il ministro per l’Ambiente europeo, che ha ritenuto inattendibili le stime delle ricadute economiche sulle industrie italiane del «Pacchetto clima energia» proposto dalla Commissione europea, Stefania Prestigiacomo non ha esitato ad ammettere una sorta di impossibilità a fare il proprio mestiere di ministro dell’Ambiente e ha detto: «le stime presentate dal nostro Paese non sono “pessimistiche” bensì “le più realiste”. Non ce la facciamo ad arrivare in tempo per il pacchetto clima». Aggiungendo poi che comunque: «Non ha senso che ci si faccia carico noi dell’inquinamento del mondo, quando a sfilarsi da Kyoto sono stati Paesi come Stati Uniti, India e Cina». Tutto questo è un autogol strepitoso e inquietante. Un ministro che in fondo dice che, vista l’aria generale, meglio non preoccuparsi troppo dell’Ambiente, e aggiunge di non essere in grado di arrivare in tempo per rispettare i parametri del pacchetto-clima. Ovvero, siamo pronti a fallire nei nostri obiettivi, certo, ma non è colpa nostra. Perché è colpa, a quanto si può capire, del solito ministro predecessore Alfonso Pecoraro Scanio.
Nell’elenco degli autogol in soli due giorni, c’è anche un terzo caso, quello del ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi, che non trova di meglio che dare sferzate a iniziative culturali, celebri, consolidate, e famose nel mondo. Un caso per tutti quello del Maggio Musicale Fiorentino. Due giorni fa Bondi interviene a un convegno sulla «Cultura e il Made in Italy». E a proposito dei tagli che la finanziaria impone agli enti lirici, se ne esce con una frase bizzarra: «In Italia nella musica abbiamo due punte di eccellenza, il teatro alla Scala di Milano e l’orchestra sinfonica Santa Cecilia di Roma. Ebbene concentriamo il grosso delle risorse su di loro. Possibile che lo Stato debba ripianare sempre i loro debiti? Cambiamo sistema: concentriamo il grosso delle risorse su Roma e Milano. Se poi altre importanti città d’Italia vogliono un loro teatro d’Opera, allora il Comune o la Regione dimostrino il loro amore per il teatro, ne facciano un vanto per la loro città e facciano dunque uno sforzo conseguente, perché, secondo me, lo Stato potrà pure fare la sua parte, ma non è giusto che paghi sempre tutto». L’attacco indiretto di Bondi a una celebre istituzione musicale, conosciuta in tutto il mondo, ha qualcosa di autenticamente autolesionista. Le proteste a Firenze si sono fatte sentire, ma il problema serio è che queste parole suonano più come un attacco al comune di Firenze, che è di centro-sinistra (contro Roma e Milano che non lo sono), piuttosto che una vera preoccupazione per i bilanci del Maggio Musicale Fiorentino. E ancora una volta un ministro è pronto a rinunciare e a dichiarare una incapacità del proprio dicastero: che sia di bilancio, che sia tempo perso, che sia di cecità ideologica, poco importa. Importa che i tre ministri del governo Berlusconi hanno fatto, e stanno facendo harakiri come se non fossero i veri responsabili dei loro ministeri. Ma soprattutto dimostrando uno zelo autentico nell’osservare, come sentinelle impaurite, regole e tagli di Giulio Tremonti.

l’Unità 20.10.08
Omicidi bianchi: dal governo è già controriforma
Controlli più difficili, subappalti più facili. Proprio come vuole Confindustria
di Felicia Masocco


SCELTE In Italia ci sono più morti sul lavoro che vittime della malavita. Lo dice il Censis e nessuno smentisce. Eppure la battaglia per la sicurezza nel lavoro sembra l’ultimo dei pensieri del governo. A ogni occasione il Capo dello Stato la riporta all’attenzione. I media volenterosi recepiscono, il governo no. Se si esclude una campagna di informazione diretta ai lavoratori che serve sempre, gli interventi fin qui adottati dall’esecutivo sono tutti in peggio. Non per il governo, ovviamente, che li spiega con la volontà di «semplificare», di togliere «lacci e lacciuoli» alle imprese, a cominciare dalle sanzioni da pagare in caso di violazione delle norme. La convinzione del ministro del Lavoro è infatti che troppe regole o troppe sanzioni, «distolgono l’attenzione dallo sforzo di aumentare la sicurezza». Maurizio Sacconi lo disse ai primi di giugno, alla vigilia di un «piano straordinario» annunciato sulla scia dei sei morti di Mineo (Catania). Un piano di cui s’è persa traccia, se si esclude la Pubblicità progresso. Il ministro parlò di sinergie tra Stato e Regioni sulla vigilanza, di un tavolo tecnico per creare un sistema di monitoraggio, di un piano, disse, da definire con le parti sociali, visto che «quindici organizzazioni imprenditoriali hanno criticato il Testo Unico varato dal precedente governo». E questo governo non muove paglia se non piace a Confindustria.
Tutto da rifare, dunque. Solo due giorni fa, sulla scia di un’altra strage - ben otto morti in un giorno - Sacconi ha annunciato che l’esecutivo intende creare un’unica Agenzia per la salute e la sicurezza dei lavoratori, integrando quelle che già ci sono all’Inail e dall’Ispesl». Serve proprio?
Per i sindacati e per l’opposizione no. Le norme ci sono, sono racchiuse nel Testo Unico varato dal governo Prodi. «Sono buone leggi che vanno applicate integralmente e rese operative nei territori e nei luoghi di lavoro con il concorso delle parti sociali, delle istituzioni, delle forze della cultura», sostiene l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano (Pd) che della sicurezza fece un tratto distintivo della legislatura. Quello di oggi è la battaglia contro i “fannulloni”. Sono leggi che il governo ha riscritto o intende riscrivere. Intanto passa il tempo e passa un messaggio: perché rispettare le leggi se già si sa che verranno cambiate? La guardia si abbassa. Senza contare che qualcosa è già cambiato. È stata spostata all’inizio del 2009 la data di presentazione del Durc, cioè del documento che certifica la regolarità dei contributi versati dai datori di lavoro ai dipendenti. È necessario tanto negli appalti pubblici, quanto nei lavori di edilizia privata, perché è noto che nella piramide dei subappalti i primi ad essere tagliati sono proprio i costi della sicurezza. Sono stati poi soppressi i libri matricola, il libro presenze e il libro paga, sostituiti dal cosiddetto “libro unico del lavoro” che rende più difficili le funzioni ispettive. Sempre sugli appalti è stata abolita la responsabilità solidale a carico del committente che aveva l’obiettivo di una maggiore trasparenza contributiva, perché si sa che l’insicurezza aumenta con il lavoro nero. Per non parlare del tentativo, fatto rientrare dall’opposizione, di abrogare la norma che imponeva la comunicazione delle assunzioni il giorno prima dell’inizio del rapporto di lavoro. Tutti «formalismi inutili», per il governo. Che li riscrive, li allenta, li abolisce. Mentre si adopera per aumentare le ore di straordinario e il lavoro precario.

l’Unità 20.10.08
Pio XII? Non vide l’orrore nazista e fascista
di Luigi Cancrini


Beatificare Pio XII? Perché? Papa Ratzinger ha giustificato questa proposta, autorevolmente da lui avallata, dicendo che Pio XII ha difeso gli ebrei dalla persecuzione nazista e fascista. Lei che ne pensa?
Lettera firmata

«Questo è un libro anticlericale, scrive Ernesto Rossi presentando Il sillabo e dopo (Kaos edizioni, aprile 2000), lo hanno scritto otto pontefici». Io, per rispondere, seguirò il suo esempio. Citerò solo Pio XII che parla in qualità di pontefice aggiungendo un breve commento e chiedendo a chi legge di dare una risposta al suo quesito.
Chiesa e nazismo d’accordo con vantaggio delle due parti (lettera personale ad Hitler del 6 maggio 1939). «Desideriamo, fin dall’inizio del nostro pontificato, rimanere legati da intima benevolenza al popolo tedesco affidato alle sue cure, e invocargli paternamente da Dio Onnipotente quella vera felicità a cui provengono dalla religione nutrimento e forza. In spirito di pronta collaborazione a vantaggio delle due parti (Chiesa e Stato) indirizziamo al raggiungimento di tale scopo l’ardente aspirazione che la responsabilità del nostro ufficio ci conferiscono e rendono possibile» (pagg.95,96). Quando questa lettera fu scritta, nota Rossi, «Hitler aveva già da un pezzo programmato la “religione del sangue” contro la religione di Cristo, aveva dichiarato l’incompatibilità fra l’appartenenza alle organizzazioni cattoliche e l’appartenenza alle organizzazioni naziste, aveva sciolto le organizzazioni dei giovani esploratori cattolici, aveva inviato nei campi di concentramento parecchi esponenti del clero che non si adeguavano alle posizioni dei nazisti, aveva proibito i matrimoni dei cattolici con gli ebrei e, soprattutto, aveva iniziato la più spietata campagna contro gli ebrei, rinchiudendoli nei ghetti, obbligandoli a portare sugli abiti un distintivo, sequestrando i loro beni, facendo incendiare e devastare le sinagoghe e negozi ebraici, scatenando i pogroms e inviando a morire di stenti e sotto le torture decine di migliaia di innocenti. Di tutte queste criminali efferatezze e di queste aperte violazioni del Concordato non si trova alcun cenno nella lettera riportata nel testo» (nota n.6, pag 96).
La pace di Cristo restituita all’Italia (Encliclica Summi pontificatus, 20 ottobre 1939). «A particolare letizia si eleva il nostro cuore nel potere in questa prima Enciclica, indirizzata a tutto il popolo cristiano sparso nel mondo, porre in tal novero la diletta Italia, fecondo giardino della fede piantata dai Prìncipi degli Apostoli, la quale, mercé la provvidenza operata dei Patti Lateranensi, occupa ora un posto d’onore nel rango degli stati ufficialmente rappresentati presso la Sede Apostolica. Da quei patti ebbe felice inizio la “pace di Cristo restituita all’Italia”» (pagg 96, 97).
I nobilissimi sentimenti cristiani di Franco (Radio messaggio alla Spagna, 16 aprile 1939). «I disegni della Provvidenza, amatissimi figlioli, si sono manifestati una volta ancora sopra l’eroica Spagna. La Nazione eletta da Dio come principale istrumento di evangelizzazione del Nuovo Mondo e come baluardo inespugnabile della fede cattolica, ha testé dato ai proseliti dell’ateismo materialista del nostro secolo la più elevata prova che, al di sopra di ogni cosa, stanno i valori eterni della religione e dello spirito. Esortiamo pertanto i Governanti e i Pastori della cattolica Spagna ad illuminare la mente di coloro che sono stati ingannati, additando loro con amore le radici del materialismo e del laicismo. Non dubitiamo che ciò avverrà, e di questa nostra ferma speranza sono garanti nobilissimi i sentimenti cristiani di cui hanno dato sicure prove il Capo dello Stato e tanti suoi fedeli collaboratori» (pagg. 97,98) . Proprio in quei giorni, nota Rossi, «i “nobilissimi sentimenti cristiani” del gen. Franco e dei suoi collaboratori sono messi bene in luce da Galeazzo Ciano che scrive a Mussolini (19 Luglio 1939): i detenuti politici sono ancora 200.000 ma i processi si “svolgono ogni giorno con rapidità che può ben dirsi sommaria e le fucilazioni sono ancora numerosissime. Nella sola Madrid dalle 200 alle 250 al giorno, a Barcellona 150 e 80 a Siviglia, città che non fu mai nelle mani dei rossi”» (nota n. 7 pagg 98,99).
Sono esempi, mi pare, del tutto chiari. In essi il papa di cui oggi si propone la beatificazione dimostra di dare un riconoscimento e un appoggio entusiasta ai tre regimi, alle tre dittature fasciste che stanno insanguinando l’Europa e l’Africa. Lo fa, per di più, parlando ex cathedra, non a titolo personale, con messaggi pubblici che chiedono ai cattolici di riconoscersi, esaltandoli, in personaggi di cui la storia propone oggi la pochezza un po’ ridicola e avallando di fatto scelte di cui la storia definitivamente ha riconosciuto l’assurdità, la brutalità, la totale irrazionalità.
Quelle che fanno da (tragica) contrapposizione a questa amicizia empatica e mostruosa di papa Pio XII per tre dittatori senza scrupoli sono a questo punto due considerazioni semplici di cui forse l’opinione pubblica (e la riflessione dei cattolici) dovrebbero tenere conto. Vi era una coscienza diffusa, allora, in tutto il mondo del carattere espansionista e profondamente antidemocratico della politica nazista e fascista del disastro cui questa politica stava irreparabilmente portando il mondo. Pio XII non se ne accorgeva (lo Spirito Santo allora non lo illuminò) e non prese posizione in nessun modo contro questi tre grandi paesi di cui sperava forse che avrebbero sconfitto il comunismo «ateo» e imposto a tutto il mondo, se avessero vinto, una religione in cui la Chiesa di Roma avrebbe avuto la possibilità di contare: moltissimo in Spagna e in Italia, molto nel Reich tedesco. Nessuna preoccupazione e nessuna reazione destarono, d’altra parte, in Vaticano le leggi razziste che in quegli anni erano state promulgate in Germania ed in Italia: leggi orribili per tutti oggi ed a cui andarono invece, allora, gli elogi di esponenti importanti della Chiesa (un esempio per tutti è quello di Agostino Gemelli) che nella persecuzione degli ebrei avevano la stoltezza (la crudeltà, il sadismo vendicativo e cretino della persona malata) di riconoscere la mano e il volere di un Dio che di Mussolini e Hitler si sarebbe servito per vendicare la morte di Gesù. Una stoltezza (una crudeltà, un sadismo vendicativo e cretino di persona malata) evidentemente avallata allora dal silenzio del Papa che oggi si propone di beatificare.

l’Unità 20.10.08
Israele gela la Santa Sede: su Pio XII nessuna marcia indietro
Gerusalemme ribadisce l’invito a Benedetto XVI a visitare lo Stato ebraico ma chiede che siano finalmente aperti gli archivi segreti vaticani
di Umberto De Giovannangeli


ISRAELE tiene il punto. Papa Ratzinger resta «un ospite gradito ed amato» ma su Papa Pacelli, lo Stato ebraico non fa marcia indietro.
A ribadirlo è il portavoce del ministero degli Esteri israeliano: «Non si possono chiudere gli occhi di fronte al controverso ruolo storico di papa Pio XII ed al suo comportamento nei giorni in cui migliaia di ebrei venivano quotidianamente mandati al massacro».
Sulla questione della rimozione da parte dello Yad Vashem della targa (fortemente critica verso Pio XII) contestata dalla Santa Sede, il portavoce glissa limitandosi ad osservare che «lo Stato d’Israele non commenta le dichiarazioni di persone (il postulatore della causa di beatificazione di Papa Pacelli, padre Peter Gumpel, ndr.) che non sono state autorizzate a parlare a nome di papa Benedetto XVI». Interpellato dalla radio israeliana padre David Jaegger, un rappresentante del Vaticano in Israele, ha dichiarato: «Padre Gumpel non rappresenta il Papa e quest'ultimo deciderà sovranamente la data del suo arrivo» in Terrasanta.
«L'invito rivolto a papa Benedetto XVI a venire (in Israele) è stato rinnovato e vale sempre (...). Le divergenze (sulla beatificazione) possono essere ridotte, ma la data di questa visita non è ancora stata fissata», puntualizza l'ambasciatore dello Stato ebraico presso la Santa Sede, Motti Levy, ma resta una frase del portavoce del ministero degli Esteri israeliano che più di tante disegna la sensibilità e la prudenza di Israele sul tema: «Fintanto che gli archivi del Vaticano non saranno aperti per i ricercatori, la questione storica (su Pio XII, ndr.) resta aperta e dolorosa». Un concetto, quello dell’apertura degli archivi segreti del Vaticano, su cui ieri ha insistito la direzione dello Yad Vashem.
In una nota fatta pervenire alla sede di Gerusalemme dell’agenzia Ansa, la direzione del Museo dell’Olocausto, si è detta sicuro che l'apertura degli archivi segreti del Vaticano relativi al periodo della Seconda Guerra mondiale sarebbe il modo migliore per fare luce e chiarezza su una questione così importante e delicata come il ruolo di papa Pio XII. Nella nota, fatta pervenire all'Ansa attraverso la portavoce del Museo e centro di documentazione sull'Olocausto, Estee Yaari, riguardo a una possibile visita di papa Ratzinger in Israele, si afferma anche che «una visita del papa Benedetto XVI riveste carattere politico e, come tale, non riguarda come istituzione lo Yad Vashem».
In serata, sul tema interviene Shimon Peres. Il presidente israeliano è entrato in gioco nella polemica tra esponenti religiosi cattolici e alcune istituzioni ebraiche, tra le quali lo Yad Vashem di Gerusalemme, il Museo-memoriale della Shoah, ribadendo che i rapporti fra lo Stato ebraico e la Santa Sede sono buoni e che «una visita di Papa Benedetto XVI in Israele sarebbe assai gradita». Vari giornali israeliani nelle rispettive edizioni online
hanno riferito ieri sera una frase dell'anziano capo di Stato, secondo il quale la targa dello Yad Vashem riguardante il ruolo di Papa Pio XII nei confronti dell'Olocausto non dovrebbe impedire un viaggio di Benedetto XVI in Israele. «Non vedo alcun legame tra la questione su Pio XII e la visita» di Ratzinger, ha detto Peres, che ha ricordato di avere già
incontrato in varie occasioni l'attuale pontefice di Roma, precisando di avere per lui «una stima particolare»

l’Unità 20.10.08
Caro Reichlin, sul capitalismo hai ragione
di Franco Giordano


«Non è scoppiata solo una bolla speculativa. È arrivato al capolinea un ordine economico», ha scritto sull'"Unità" Alfredo Reichlin. Di fronte al suo lucido articolo, non saprei dire se prevalga il compiacimento per un così appassionato sfogo contro lo stupidario ideologico neoliberista che da lustri imperversa nel paese e nel mondo oppure la soddisfazione nel veder confermata , pur da posizioni diverse, un'antica condivisione analitica in merito alle distorsioni dell'economia mondiale.
Le voci di quello stupidario sono tante da riempire un'enciclopedia: l'elogio a priori delle privatizzazioni, sfociato in una vera orgia privatizzatrice; il culto delle magnifiche e progressive sorti del capitalismo finanziario; la derubricazione dell'intervento pubblico a fastidiosa somma di lacci e lacciuoli dai quali liberarsi il prima possibile; l' "arricchitevi" come parola d'ordine imposta al paese quale smagliante collante culturale, glissando sul particolare che ad arricchirsi erano in pochi a danno dei moltissimi; gli stentorei incentivi al trasferimento dei Tfr in fondi privati a danno della previdenza pubblica (ed è facile immaginare cosa ne pensino quanti, negli Usa, a quel sistema han fatto ricorso); la furiosa privatizzazione dei servizi pubblici, estesasi sino a invadere l'area dei beni pubblici per eccellenza, a partire dall'acqua; lo smantellamento progressivo e inarrestabile dello Stato sociale.
Tutto questo altro non era che l'imposizione brutale e miope del modello americano. E il bello è che l'esortazione permanente a imbarcarsi in politiche vieppiù restrittive e rigoriste veniva proprio dal paese più indebitato del mondo, quello che più di ogni altro viveva al di sopra delle proprie possibilità incentivando irresponsabilmente l'indebitamento popolare.
Questo sistema assurdo è effettivamente "arrivato al capolinea", ma è a dir poco clamoroso che proprio chi questa crisi la prodotto venga oggi sorretto pubblicamente e possa mantenere inalterata l'abituale arroganza, nel silenzio assordante della sinistra. Non è un adeguamento al presente del keynesismo: è il suo rovescio.
E allora come ce la caviamo? Con una spruzzata di etica economico-finanziaria? Con qualche predicozzo sulla perversione della rendita? Sbandierando il catartico ritorno al primato della produzione contro la finanziarizzazione, fingendo di non sapere che quelle due forme di capitalismo sono in realtà ormai indissolubilmente integrate?
Non può bastare. E non basta neppure invocare l'intervento pubblico, che negli Usa, peraltro, non è mai venuto meno. Se non vuole essere condannata all'irrilevanza, la sinistra deve saper mettere in campo ben altro tema, e cioè la qualità e la finalità dell'intervento pubblico.
La qualità dell'intervento pubblico in economia torna oggi a chiamare in causa i nodi di fondo. Torna alla necessità di costruire un compromesso di tipo nuovo, perché non ci si può svenare senza che nulla cambi, solo per ripristinare la macchina diabolica che ha determinato questa irrazionalità e queste enormi disparità. Se il pubblico interviene elargendo risorse immense, migliaia di miliardi, la contropartita deve essere l'acquisizione di una quota proprietaria degli istituti salvati, deve essere il ritorno in campo di una parola che per decenni è stata considerata la peggior bestemmia: la programmazione.
Se il pubblico deve intervenire in veste di protagonista, tale deve essere davvero. In cambio dell'elargizione di risorse che sono prima di tutto dei cittadini, devono arrivare nuove tutele sociali, nuovi diritti del lavoro, tali contrastare a fondo la precarietà, un diverso potere contrattuale per le retribuzioni e le pensioni, un'alternativa economica sul terreno ambientale.
Ma tutto ciò non può essere limitato nel perimetro, pur fondamentale, dei dibattiti teorici. Impone scelte politiche cogenti e urgenti. Un esempio per tutti: per poter operare politica retributiva adeguata e difendere l'autonomia sociale del conflitto, "una pratica e un punto di vista autonomi delle forze del lavoro", bisogna opporsi subito, qui e ora, alla modifica del modello contrattuale, sostenendo politicamente con determinazione massima la Cgil.
Dal vicolo cieco la sinistra non uscirà senza mettere a punto una nuova politica socialmente connotata. Ma a tal fine non serve né un soggetto neocentrista, tutto confinato nella logica soffocante di queste compatibilità, né un soggetto minoritario e identitario. Occorre ricostruire, in un contesto radicalmente nuovo, i fondamenti e cultura critica della sinistra.
P.S. Caro Alfredo, ho forse ecceduto nel sollecitare il vecchio comunista che è in te?

l’Unità 20.10.08
A Firenze si è discusso di femminismo e pari opportunità a partire dal pensiero di Simone de Beauvoir
Il «secondo sesso» sessant’anni dopo: siamo punto e a capo
di Valentina Grazzini


Era nata al 101 di boulevard Montparnasse, nella Parigi del 1908. Pensare oggi alle atmosfere che Simone de Beauvoir fendeva, sigaretta in bocca, al fianco dell’amato Sartre, ci riporta indietro, tanto, troppo. Quasi che tutto sia ormai sepolto in un altrove temporale da chiudere in un cassetto della Storia. Eppure a distanza di 100 anni dalla sua nascita e di 60 dal Secondo sesso, la de Beauvoir fa ancora notizia. Forse perché il Castoro (così la chiamava Sartre) continua a rosicchiare le nostre coscienze, soprattutto a farci interrogare su quanto sia accaduto per la condizione femminile negli ultimi decenni. Questa la domanda di fondo che ha costituito il fil rouge del convegno tenutosi a Firenze tra venerdì e sabato, organizzato dall’Istituto Francese di Bernard Micaud con l’assessorato alle pari opportunità. Dopo una prima fase di lavori conclusasi con la proiezione di una delle rare interviste a Sartre e de Beauvoir firmata dall’amica Madeleine Gobeil Noël nel ‘67 per la tv canadese, la tavola rotonda di sabato ha messo l’una accanto all’altra - tra le altre - Rossana Rossanda (che della coppia de Beauvoir - Sartre fu interlocutrice privilegiata in Italia), Dacia Maraini e la ex deputata di Rifondazione Comunista Mercedes Frias. Nella sala i posti a sedere sono esauriti da un pezzo quando la curatrice Sandra Teroni dà il via agli interventi. Ci sono giovani ed anziane, eleganti e meno eleganti, una sparuta rappresentanza maschile. Prende le distanze dal secondo femminismo, quello degli anni 70 in cui la conflittualità dei sessi appariva irrisolvibile, Rossanda. Che a proposito del Secondo sesso smaschera quanto il libro non sia stato in Italia realmente assunto nella lotta per l’emancipazione femminile, sia stato paradossalmente se non misconosciuto quantomeno utilizzato non al massimo delle sue potenzialità, senza «effetto deflagrante». E mette in guardia su come l’oggi sia un «momento di transizione e di crisi culturale che portano con sé una pericolosa affermazione delle identità». «La complicità femminile al dominio maschile è ancora forte». Raccoglie il testimone Anna Scattigno, docente presso l’Ateneo fiorentino, che a proposito della politica delle donne non esita a parlare di «un’anomalia italiana, in cui la presenza delle donne in politica è così bassa da impedire la costruzione di un patrimonio di conoscenza». Con il risultato che i numeri rimangono «sotto la massa critica, impedendo anche solo il pensare a dei contromodelli». Dacia Maraini parte dalla celebre affermazione di de Beauvoir «Donne non si nasce, si diventa», per passare in rassegna i campi del quotidiano, dalla vita in casa al lavoro ai rapporti con i figli, in cui tuttora l’identità della donna non si scrolla di dosso il confronto con il maschile. Cadendo pure in contraddizioni: «Non si può giocare la carta della seduzione dozzinale e stereotipata di stampo televisivo pretendendo poi di essere credibili in ruoli autorevoli - conclude -: la Brambilla fa vedere le mutande? Va bene, poi però non creda di farsi prendere sul serio...». Il dibattito guadagna una nuova via quando a prendere la parola è Mercedes Frias, che sposta l’accento su una diversa categoria di «inferiori»: negri e ebrei. Ma anche sulla condizione femminile la ex deputata dice la sua: «Nella mia vita parlamentare ho visto che proposte o mozioni vengono perlopiù da colleghe di destra... Perché? A sottolineare che la donna è da proteggere, in quanto inferiore, in un paradigma salvifico del tutto aberrante». Le donne in sala applaudono ogni intervento con sempre maggior calore. Ci si lascia con la sensazione che siamo punto e da capo, con 60 anni di ritardo. E non siamo neppure a Parigi, tra Saint Germain de Près e Montparnasse.

Repubblica 20.10.08
Il Papa a Pompei non parla di camorra ma attacca l´anticlericalismo
di Marco Politi


POMPEI - Difendere il «ruolo fondamentale della famiglia», contrastare l´anticlericalismo attivo anche oggi. Benedetto XVI arriva a Pompei e sembra che atterri in un angolo di cielo azzurro, dove si possano esaltare le buone opere dei cristiani ignorando la criminalità organizzata. Trenta giorni fa, in questa regione, due squadre di otto killer hanno sparato centonovanta proiettili di kalashnikov per massacrare a Baia Verde e a Castelvolturno sette extracomunitari e papa Ratzinger in tre diversi interventi non pronuncia mai a Pompei la parola camorra, assassini, crimine.
Eppure il sindaco Claudio D´Alessio gli ha parlato di una terra «bella e martoriata». Il pontefice lo ringrazia per il «deferente benvenuto» e non entra in argomento. Chissà chi lo consiglia nel palazzo apostolico. C´è qualcosa di scoordinato nel lavoro di quanti in Vaticano hanno in cura i dossier preparatori dei discorsi papali. Come quando a Catania dei tifosi uccisero brutalmente l´agente di polizia Raciti e passò tempo prima che il Papa dicesse una parola.
Così succede a Pompei con la camorra. Certo, Benedetto XVI propone il Rosario come arma spirituale nella «lotta contro il male, contro ogni violenza, per la pace nei cuori, nelle famiglie, nella società, nel mondo». Ma sono espressioni senza tempo valide a Sidney come a Colonia, a Parigi, Roma o Varsavia. Il vescovo mons. Carlo Liberati non lo aiuta. Nel suo saluto parla di prodigi che «sbocciano come primule, ciclamini e iris», elenca una serie di importanti iniziative sociali cattoliche e poi, come pericolo principale, indica la «famiglia insidiata da ogni dove».
Due ore dopo la messa, celebrata dal Papa sul sagrato del santuario, il Vaticano si rende conto della situazione paradossale. E per stoppare polemiche emana di corsa una dichiarazione. Nell´omelia e nell´Angelus, spiega il portavoce padre Ciro Benedettini, il pontefice «ha escluso di proposito di pronunciare la parola camorra». Le motivazioni? La visita a Pompei sarebbe un pellegrinaggio a dimensione strettamente spirituale. Poi c´è il fatto che la maggioranza dei campani sono persone oneste e non camorristi e quindi il silenzio del Papa va interpretato come una «questione di rispetto». Infine, Benedetto XVI di criminalità organizzata ha già parlato un anno fa a Napoli.
Spiegazioni poco convincenti tanto più che Avvenire pubblica nella pagina di Caserta una drammatica lettera del vescovo mons. Raffaele Nogaro: «La criminalità organizzata sulle nostre terre sembra onnipotente. Nulla sfugge al suo controllo. Compone vere e proprie bande armate. Non meno inquietante è la camorra praticata dai colletti bianchi. Detengono l´autorità per un profitto illecito, usano la pubblica amministrazione per interessi di parte». Dinanzi a questa coraggiosa denuncia impallidiscono le parole papali, che esortano i credenti a essere «fermento sociale e non cedere ai compromessi», combattendo ogni tipo di violenza. Per padre Benedettini, ad ogni modo, «è meglio accendere una candela che maledire l´oscurità». Proverbio cinese. Quasi 50mila fedeli hanno partecipato alla messa con papa Ratzinger. Per lui personalmente è stato anche composto un inno da mons. Baldassarre Cuomo, per lunghi anni personalità guida del santuario. Durante il rito spuntano striscioni che chiedono di fare santo l´anticlericale Bartolo Longo, poi convertitosi, che nell´Ottocento fondò il santuario della Madonna del Rosario. Benedetto XVI nell´omelia elogia Pompei come esempio di fede che rinnova la società, assiste i poveri e riscatta il territorio. «Non è una cattedrale nel deserto». Prima della conversione, spiega il Papa, Bartolo Longo era «influenzato da filosofi immanentisti e positivisti, si era allontanato dalla fede cristiana diventando un militante anticlericale e dandosi anche a pratiche spiritistiche e superstiziose». Simili tendenze, conclude, «non mancano nei nostri giorni».

Repubblica 20.10.08
Le conseguenze di Heidegger
L’Influenza politica oggi: Un saggio di Victor FarÍas
I suoi eredi messi sotto accusa
di Antonio Gnoli e Franco Volpi


Un pamphlet provocatorio che indaga sulle suggestioni più recenti, fino a coinvolgere perfino Chávez e la corte iraniana del presidente Ahmadinejad
L´infondata accusa a Gianni Vattimo di essere vicino al pensiero antisemita
Dall´Iran islamico all´America Latina le ricadute geopolitiche del filosofo tedesco

Mettiamola così: la filosofia non sposta più niente, non crea più opinione, non incide nelle carni della società, se non in minima parte. Con una sola eccezione: Martin Heidegger. Ma non per le ragioni che di solito gli si vogliono attribuire. Se si parte da questa affermazione, un po´ tranchant, si capirà anche perché molti critici del pensatore della Selva Nera sono oggi sinceramente spaventati. Ma la paura a volte è buffa. Forse perfino singolare. Certo può dar vita a un esercizio provocatorio. Apprendere che Heidegger, attraverso la sua vicenda politica e filosofica, sia diventato un termometro della geopolitica mondiale, un misuratore del grado di ostilità che il resto del mondo nutre verso l´Occidente, è un punto di vista che fino ad oggi mancava nella sterminata letteratura sul più vessato e amato tra i filosofi contemporanei. Che la sua influenza fosse estesa è un fatto incontrovertibile, che lambisse i pensieri dei pasdaram iraniani o il populismo di Chávez, nessuno poteva onestamente immaginarlo. Eppure - dalla ricostruzione che Victor Farías fa del pensiero e del peso che Heidegger ha avuto e continua ad avere nel mondo - proprio ciò emerge con forza.
Quando nel 1987 lo storico cileno pubblicò il suo primo libro di analisi e denuncia, Heidegger et le nazisme, subito tradotto in tutto il mondo e in Italia da Bollati Boringhieri, fu come un colpo di pistola vicino ai timpani degli heideggeriani. Che reagirono scandalizzati, e montarono un´improbabile difesa: Heidegger, sostennero, era stato in realtà il partigiano di una coraggiosa resistenza spirituale al nazismo. Certo, nel libro di Farías c´erano pecche di vario genere e sviste anche gravi. C´era una sistematica sopravvalutazione di alcuni dettagli: per esempio, un paio di conferenze di Heidegger sul predicatore agostiniano Abraham a Sancta Clara spacciate come prova di un antisemitismo che attraverserebbe l´intera sua opera. C´era, insomma, un evidente fumus persecutionis. Eppure il libro ebbe il merito fondamentale di resettare l´intera discussione, svoltasi fino allora seguendo argomentazioni etico-politiche o ideologiche, e di riproporla su nuove basi: vale a dire su un lavoro d´archivio mirante a scovare le fonti e a ricostruire i fatti. È dunque lecito parlare di un "prima" e di un "dopo Farías".
Lo storico cileno ritorna ora alla carica con un libro che le edizioni Medusa manderanno in libreria a fine ottobre in prima mondiale: L´eredità di Heidegger nel neonazismo, nel neofascismo e nel fondamentalismo islamico (trad. di Edoardo Castagna, pagg. 229, 14,80 euro). Un pamphlet ancora più aggressivo del precedente, anche se l´edizione italiana è stata saggiamente asciugata e limata nelle affermazioni più avventate che si leggono nella versione originaria, inedita, messaci a disposizione da Farías. Il bersaglio è sempre l´infausto corto circuito che Heidegger ha provocato tra la filosofia e la politica. Ma questa volta Farías guarda alle conseguenze del suo pensiero, alla sua "eredità". Non a quella squisitamente filosofica e teoretica, nota a tutti, incontestabile e presente ovunque nel mondo, ma a una sotterranea influenza ideologica, meno nota, eppure potente e insidiosa: a Heidegger si rifanno i principali ispiratori della destra radicale, e il suo pensiero è diventato un riferimento ricorrente per i teorici dell´eversione antioccidentale e antisemita in Germania, Francia, America Latina e nell´Iran islamico. Un capitolo dedicato alla situazione italiana è stato prudentemente cassato, in attesa di una elaborazione più solida e convincente.
La parte più scottante è quella sull´Iran islamico. Farías parte da lontano: già Henry Corbin, primo traduttore di Heidegger in francese, avrebbe introdotto a Teheran il pensatore della Selva Nera, come proverebbe una sua intervista intitolata Da Heidegger a Sohravardi. In verità, in quel testo autobiografico, Corbin cerca semplicemente di spiegare la coerenza del proprio percorso intellettuale, raccontando come fosse passato da un iniziale interesse per Heidegger allo studio della teologia protestante e fosse infine approdato al sufismo e alla tradizione islamica. Poco importa. Ciò che incuriosisce è l´influenza dello heideggerismo nell´Iran odierno. Farías mette in risalto come i fondamentalisti iraniani abbiano accolto con favore non solo la critica heideggeriana alla moderna civiltà tecnologica e materialistica, ma anche la tesi geopolitica esposta nel 1935, in pieno nazionalsocialismo, nell´Introduzione alla metafisica: l´Europa sarebbe minacciata e schiacciata, a tenaglia, tra americanismo e bolscevismo, e il compito della grande Germania sarebbe quello di liberarla battendo una terza via. L´analogia con la situazione dell´odierno Iran va da sé, e perfino il presidente Ahmadinejad e i suoi consiglieri culturali sarebbero dei criptoheideggeriani in quanto considerano il maestro della Selva Nera un prezioso alleato e una diga contro l´occidentalizzazione del mondo.
Non meno sorprendente il capitolo sull´America Latina, dove l´heideggeriano mascherato sarebbe nientemeno che Chávez. Farías sostiene che «il movimento politico-sociale che Hugo Chávez cerca di imporre ai venezuelani rivela temi neofascisti caratteristici dell´opera di Heidegger e della Rivoluzione conservatrice». E a dimostrazione cita gli scritti di due consiglieri del caudillo: il sociologo argentino Norberto Ceresole e il nazionalbolscevico Heinz Dieterich. Ma bastano punti di tangenza con la critica heideggeriana dell´Occidente per provare che la loro ideologia politica è ispirata dall´autore di Essere e Tempo? C´è qui un procedere capzioso che diventa palese scorrettezza nel paragrafo seguente, il cui titolo insinua: «Gianni Vattimo, un heideggeriano in difesa dell´antisemita Hugo Chávez». Diciamo la verità: una conferenza di Vattimo a Caracas non dimostra nulla: né che Chávez sia heideggeriano, né che Vattimo sia antisemita.
Anche nelle parti sulla Germania e sulla Francia, bisogna faticosamente separare le notizie interessanti dalle inferenze indebite, le scoperte di Farías dalle sue illazioni. Per esempio, si può rivangare a piacimento intorno alla figura di Hermann Heidegger, il figliastro del pensatore: ma che cosa provano il suo eventuale militarismo e conservatorismo rispetto alla filosofia del padre? Diverso, ma non meno scivoloso, il discorso su Ernst Nolte. Le note tesi dello storico revisionista sulla guerra civile europea, e sul nazionalsocialismo come «ideocrazia» sorta in risposta al bolscevismo, che cosa c´entrano con il fatto che per qualche semestre il giovane Nolte studiò filosofia con Heidegger? Non è tanto Heidegger ad avere influenzato Nolte, bensì piuttosto quest´ultimo che con le sue tesi storiografiche ricolloca Heidegger, e la sua compromissione, in un diverso orizzonte storico. E quanto alla Francia, come è possibile nominare, d´un fiato, Alain de Benoist insieme a Lacan, Foucault e Baudrillard, come se seguissero tutti la medesima linea?
Farías è uno storico, oltre che un simpatico conversatore e un formidabile narratore di aneddoti. Lo incontrammo tempo fa e ci confessò che il suo modo di usare le fonti rovesciava con ironia la celebre sentenza heideggeriana che «il documento è la pietà del pensare». Egli invece non guarda in faccia nessuno, ma così rischia di perdere la vera identità dei volti che critica.
Perché tanto accanimento nel processare Heidegger e lo heideggerismo? Evidentemente Heidegger non è un episodio qualunque della storia filosofica del Novecento, ma un caso esemplare. È stato il massimo pensatore contemporaneo, l´incarnazione del protofilosofo, ma al tempo stesso vittima illustre di un´ottusità politica imperdonabile. Il pensiero che aspira a portare la verità nel cuore del potere, a coniugare la filosofia con la politica, non è forse responsabile delle conseguenze che la sua rischiosa alchimia di teoria e prassi può avere?
La storia di Heidegger è indicativa della complessità del problema. Più che l´abbaglio del filosofo che ha voluto mettere le mani nella ruota della storia universale, rimanendone stritolato, ciò che inquieta è il fatto che la ferita, che il suo caso ha aperto, la lacerazione tra filosofia e politica, non si è ancora rimarginata. Se il più grande pensatore contemporaneo ha potuto scambiare la nascita del più tragico totalitarismo della storia con l´«avvento del nuovo», come sperare che la filosofia possa garantire qualcosa?
Il caso Heidegger porta alla luce qualcosa di profondo, che va al cuore della filosofia e tocca l´essenza stessa del pensiero. Uno di quegli eterni problemi che la filosofia evidentemente non aiuta a risolvere, ma solo a vivere a un certo livello: il difficile rapporto della saggezza con la tirannide, della teoria con la prassi, dell´intellettuale con il potere.

Repubblica 20.10.08
Emil Nolde. Il colore in tempesta


Al Grand Palais una vasta rassegna dedicata al grande pittore espressionista tedescoTra le opereil gigantesco polittico con "La vita di Cristo"

PARIGI. «Come si formano i minerali e le cristallizzazioni, come crescono il muschio e le alghe»: così Emil Nolde voleva che fossero i suoi colori; in disordine, in subbuglio, in crescita cespitosa e ingovernata ma pur aderenti - «coerenti», diceva - alle mille creazioni della natura. Da quando, forse, un fiocco di neve gli cadde per caso sul foglio dove stendeva, più o meno accademicamente, un acquerello d´un paesaggio invernale ritratto en plein air, e quel poco di neve, sciogliendosi, macchiò la carta, vi allargò il colore, e scosse gli assetti prospettici che la composizione s´era ordinatamente data.
Nasce da allora - «in collaborazione con la natura», almeno nella personale mitologia che Nolde s´è creato - il colore in tempesta, sempre debordante oltre il segno che avrebbe dovuto contenerlo, di uno dei maggiori pittori espressionisti dell´avvio del secolo ventesimo.
Lo scopriranno i giovani della "Brecke", il primo gruppo che aveva riunito, a partire dal 1905 in Germania, le tensioni verso una dilacerata espressività che avrebbero durevolmente occupato la pittura del nuovo secolo, almeno fino alla guerra mondiale. Lo scopriranno e, tirandolo fuori quasi a forza dall´isolamento in cui viveva, ne faranno uno dei loro. Con quei giovani Nolde - che aveva allora quarant´anni - starà poco; ma gli rimarrà sempre nell´animo la determinazione a sconquassare territori già riconosciuti dall´arte, e ad ararne di nuovi, che aveva maturato accanto a essi.
Nulla, all´inizio, faceva prevedere che sarebbe stato pittore, e pittore così radicalmente altro rispetto ai suoi anni. Era nato contadino, da una famiglia da sempre dedita esclusivamente all´agricoltura, in una terra del nord, al confine fra Germania e Danimarca. Hansen, si chiamava per l´anagrafe - Nolde venne dopo: un nome che si diede prendendolo dal villaggio natale; e fu una scelta, quella, che attestò fin da allora il suo ostinato legame, che sarebbe sempre rimasto, con la terra d´origine. Dalla sua vocazione a essere diverso, trasse comunque, per allora, solo il permesso del padre d´allocarsi come apprendista intagliatore in una fabbrica di mobili. Poi, sui trent´anni, dopo un lungo soggiorno in Svizzera, ove pone mano a una lunga serie d´acquerelli nel solco della tradizione, comincia il suo tragitto finalmente maturo nella pittura.
Viaggia molto (Monaco, Parigi, Berlino, Copenaghen); è rifiutato da Accademie e mostre ufficiali per la crescente determinazione a cercare un´indipendenza dall´impressionismo attardato di Liebermann e dal simbolismo di Franz von Stuck, allora dominanti in Germania; finalmente ripara con la moglie Ada nella piccola isola di Alsen, dove riatta una casa di pescatori e si costruisce uno studio sulla spiaggia. Le sue predilezioni di allora vanno, distese nei secoli, da Manet a Degas (unici della "nouvelle peinture" ad attrarlo), da Daumier a Goya, da Rembrandt a Tiziano (conoscerà e approfondirà solo più tardi, invece, l´opera di Gauguin, Munch, Ensor).
Di Tiziano copia al Louvre un´opera nella quale ha riconosciuto la libertà che va allora ancora oscuramente cercando. Ma di ritorno al suo Mare del Nord, all´inizio del nuovo secolo, disegna soprattutto, su piccoli fogli, «briganti e taverne, persone che corrono sulla spiaggia, sonnambuli, adoratori del sole, visioni di spettri e di creature fiabesche»: sta nascendo in lui la determinazione a dar figura a una natura insieme «silenziosa e selvaggia», costantemente in bilico fra osservazione del dato reale e sua trasfigurazione in allucinazione e sogno.
Ed è questo, appunto, che Klee, battezzandolo «il demone della regione sotterranea», ammirerà in lui: questo andare e venire sempre rinnovato dalla verità al sogno, «dalla danza e dal gioco fino alla pesantezza e alla solitudine della vecchiaia e alla oscura regione della morte», secondo quanto ha scritto Martin Urban, già direttore della Fondazione Nolde a Seebell, donde oggi provengono larga parte dei materiali della odierna, vastissima antologica che Parigi destina al pittore tedesco al Grand Palais (fino al 19 gennaio 2009, a cura di Sylvain Amic, andrà in seguito al musée Fabre di Montpellier).
Novanta dipinti, settanta fra disegni, incisioni e acquerelli: è la prima rassegna retrospettiva di tale portata che la Francia destina a Nolde. Richiesto di quale sia il prestito d´eccellenza ottenuto dalla mostra, Amic ha indicato il grande polittico con La vita di Cristo, composto da nove tele affiancate, sei metri di larghezza per più di due d´altezza, che è davvero impressionante.
Iniziato nel 1911, fu portato a termine a Berlino nel 1912: memore del grande polittico cinquecentesco di Isenheim di Mathias Grenewald, quello di Nolde è la più compiuta espressione di una sua vocazione singolarmente costante a confrontarsi con i temi religiosi, che occuperanno la sua pittura tanto quanto le storie grottesche, e il paesaggio, adesso sommariamente descritto - a un solo passo dall´astratto - da una materia slabbrata e filante, quasi una premonizione del tachisme che verrà. Cade, il polittico di Nolde, nel momento di più intensa produzione del pittore, che quell´anno espone con il Cavaliere azzurro di Kandinsky e di Marc, e ha alcune importanti personali.
D´altronde, quasi fatalmente, La vita di Cristo è rifiutata più volte a rassegne d´arte religiosa. Troppo esplicito, per le gerarchie ecclesiastiche, quel grido che, in evidente connubio con l´arte primitiva (che, da Gauguin a Picasso, era in quegli anni assillo costante dell´arte occidentale), scuoteva i personaggi sacri, e ne assimilava i volti turbati alle maschere ghignanti care a Nolde, facendone immagini folgoranti di volti bruciati, a mezzo fra una notte invasiva e una dolente deformazione.
Animato di tormentate, scosse figure che Nolde voleva somiglianti a «semplici contadini e pescatori giudei», il grande retablo è costruito dal cozzare di un colore senz´ombra, clamante acceso violento, e dal gestire affannato dei protagonisti, riuniti dall´abbraccio smisurato del Cristo crocifisso. Esposto al ludibrio del pubblico, assieme a molti altri del pittore, dalla mostra nazista d´arte degenerata del 1937, e raramente rivisto al di fuori della Fondazione di Seebell, La vita di Cristo è una vera summa dell´espressionismo di Nolde, e del tanto che egli lasciò alla moderna pittura tedesca.

Repubblica Firenze 20.10.08
"Ragazzi, e ora che facciamo?" Occupazioni avanti in ordine sparso
di Laura Montanari


Dante e Castelnuovo tornano in classe, Gramsci e Michelangelo no

Chi ce la fa andrà avanti con le occupazioni, almeno fino a domani, cioè fino alla manifestazione regionale che partirà da piazza San Marco e che fa salire a quattro i cortei studenteschi in meno di dieci giorni. In piazza Santissima Annunziata ieri, si sono ritrovati in una cinquantina, in una domenica di sole, seduti sui gradini del porticato, per decidere che strada prendere dopo una settimana di stop alle lezioni nelle medie superiori. Erano i ragazzi del coordinamento dei vari licei e degli istituti tecnici e professionali, quelli che ieri si sono incontrati e che hanno deciso di aderire per oggi alle 17 in piazza della Signoria al "flashmob" sulla "fuga dei cervelli" organizzato da alcuni studenti universitari del polo di Scienze. Spiegano gli studenti: «Al segnale prestabilito, un fischietto, un ragazzo indosserà un costume rappresentante un cervello a dimensione umana, mentre altri si metteranno i camici bianchi dei ricercatori. Subito dopo le altre persone che partecipano all´evento cominceranno ad inseguire i vari "cervelli" che scapperanno verso piazza della Repubblica». L´evento è un modo per attirare l´attenzione della gente sulle ragioni della protesta: decreto Gelmini, finanziaria, legge 133, cioè i tagli ai finanziamenti, il blocco del turnover e la possibilità di trasformare gli atenei in fondazioni di diritto privato. «Venti scuole su venticinque - spiega - continueranno oggi e domani ad occupare o l´autogestione, non ha senso chiudere prima che il decreto Gelmini venga esaminato in Senato». Intanto prosegue la raccolta firme contro le università-fondazioni. Ma «come mandare avanti la lotta»? Fermare le lezioni comincia a pesare e qualcuno sta già rientrando in classe, le prime defezioni al liceo classico Dante, ma anche sparse, in altre superiori. Oggi pomeriggio nuovo summit al liceo artistico per valutare meglio dopo le assemblee della mattina cosa fare. Al Michelangelo la notte di sabato c´è stato qualche danneggiamento nei bagni: «Abbiamo già chiamato una ditta, riaggiustiamo tutto a nostre spese» ha spiegato una studentessa.
In università restano occupati il polo didattico di Sesto, il dipartimento di Matematica, Agraria e un´area del complesso di Novoli, la protesta contro la legge 133 va avanti e oggi alle ore 11 si terrà un´assemblea nelle aule di viale Morgagni organizzata dagli Studenti di Sinistra. All´esterno dalle 10 gazebo dei giovani di Forza Italia per distribuire i volantini a favore della manovre Tremonti-Gelmini: «Stiamo anche raccogliendo le firme contro il blocco della didattica e contro ogni forma di occupazione». Sulla stessa linea nei giorni scorsi, Lista Aperta. Gli Studenti di Sinistra spiegano che «a questa crisi dell´università di Firenze» ci «siamo arrivati sia per gravi responsabilità del governo sia per la gestione delle università da parte dei rettori»: «L´università si trova adesso a un bivio: o il commissariamento o la trasformazione in fondazione». Proprio quello che gli studenti non vogliono.

Repubblica Roma 20.10.08
E la Sapienza fa lezione davanti Montecitorio
di Laura Mari


La protesta degli universitari contro il decreto Tremonti arriva davanti a Montecitorio. Questa mattina, a partire dalle 10.30, docenti e studenti di Fisica della Sapienza terranno delle lezioni proprio davanti alla sede della Camera dei Deputati.
Dopo le mobilitazioni della scorsa settimana, che hanno visto migliaia di studenti protestare sotto il ministero dell´Economia e quello dell´Istruzione, oggi l´appuntamento contro i tagli della finanziaria agli atenei pubblici è davanti a Montecitorio. «Mentre in tutte le facoltà della Sapienza questa mattina si terranno assemblee e dibattiti - fanno sapere i collettivi - gli studenti di Fisica coinvolgeranno l´opinione pubblica portando alla luce del sole il loro dissenso contro il decreto 133 e organizzando lezioni all´aperto». Incontri che sono iniziati ieri davanti alla Casa del Cinema di Villa Borghese.
Oggi pomeriggio, presso la facoltà di Lettere della Sapienza, si terrà un´assemblea per decidere le prossime mobilitazioni. «Stiamo pensando - annunciano gli studenti - di scrivere un appello al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano affinché intervenga in difesa del sistema universitario italiano». E domani, in concomitanza con la riunione del senato accademico, gli studenti della Sapienza hanno indetto un presidio davanti al rettorato per invocare l´immediato blocco della didattica.

Corriere della Sera 20.10.08
Scuola Il ministro interviene all'incontro dei giovani leghisti. Sprechi per le supplenze: «Spendiamo 50 milioni in telefonate»
Gelmini: immigrati, no alle classi separate
«Frequenteranno lezioni normali. Per loro corsi aggiuntivi di lingua italiana»
di Marco Cremonesi


L'intervento del ministro dell'Istruzione alla scuola politica della Lega organizzata dai Giovani padani

MILANO — «Forse si sarebbe dovuto usare un termine diverso. Classi ponte fa pensare a luoghi separati, a classi di serie A e di serie B». Quando invece, «gli immigrati frequentano e frequenteranno normalissime classi. A cui bisognerà aggiungere dei corsi di lingua italiana. Così come accade all'estero». Che succede? Marcia indietro di Mariastella Gelmini? Assolutamente no, secondo i comunicatori del ministro alla Pubblica istruzione: il termine «classi ponte», spiegano, appartiene a una mozione leghista e non al lessico del ministro. E lei, proprio ai Giovani padani riuniti a Milano per la «scuola politica» del Carroccio, lo dice chiaro: «Si sarebbe dovuto utilizzare un termine diverso ». Perché «il problema è terminologico e non di sostanza ». Soprattutto, è il messaggio più volte ribadito, «è meglio abbassare i toni, e non fare come questa sinistra tutta ideologia». E il bello è che così dicendo, riesce comunque a strappare diverse ovazioni ai giovani in camicia verde.
Gelmini è preoccupata che la sua riforma della scuola possa tingersi di eccessive suggestioni leghiste che ne potrebbero complicare l'iter. E così, parte conquistando l'uditorio: «Sono completamente d'accordo con Bossi quando dice che la sinistra, perso il proletariato, cerca di innescare un nuovo Sessantotto». Ma questo, aggiunge, «dato che siamo al governo deve farci riflettere sui fatti sociali che possono innescarsi». E tutto l'intervento del ministro è giocato su questo doppio registro: sembra andare incontro agli umori dei Giovani padani, in realtà procede diritta per la sua strada, la gran razionalizzazione: dalla riduzione dei «5500 corsi di laurea che servono più ai professori che agli studenti», ai «900 indirizzi in cui si disperde la formazione professionale ». La territorialità di insegnanti e supplenti? «Io sono d'accordo con voi, ed è semplice buon senso. Il ministero ogni anno spende tra i 45 e i 50 milioni di euro solo per le telefonate di convocazione dei supplenti».
Dato che i dirigenti scolastici si devono attenere a graduatorie, «per una supplenza di quattro giorni a Milano, devono chiamare magari a Palermo. A gente che ovviamente non accetterà».
Quanto al federalismo scolastico, Gelmini rilancia l'autonomia: «I dirigenti devono poter chiamare gli insegnanti, valutarli secondo risultato, aprire le scuole al territorio». Magari, «trasformandole in fondazioni con l'ingresso degli enti locali». Gelmini riesce a farsi applaudire anche quando accenna a novità che a un fanatico del territorio potrebbero non piacere: «In Italia ci sono 300 sedi universitarie distaccate. In un Paese in cui non c'è un euro per il diritto allo studio, le residenze universitarie, le borse di studio, noi i soldi li spendiamo per avere università sotto casa in cui non si può fare ricerca».

Corriere della Sera 20.10.08
Il Pd e i manifesti con la foto della folla
di Alberto Losacco
Responsabile Propaganda Partito Democratico


Ho letto con grande interesse la riflessione che sabato Paolo Franchi ha dedicato, sulle pagine del Corriere, alla polemica nata in seguito alla «scoperta» che la foto che campeggia nei manifesti che pubblicizzano la nostra manifestazione del 25 ottobre, ritrae migliaia di persone in Piazza San Pietro. Al di là dell'inaspettata ondata di popolarità che ha investito il sottoscritto e l'ufficio propaganda del Pd (della quale avremmo fatto volentieri a meno), nella riflessione ci sono un paio di osservazioni alle quali vorrei rispondere. Innanzitutto mi ha molto colpito l'eco che la vicenda ha generato, smisurata rispetto alla vicenda in sé, al punto che un «dietrologo» potrebbe sospettare che l'abbiamo fatto apposta, per recuperare un po' di spazio su media troppo sordi alla voce dell'opposizione (agcom insegna). Nel nostro lavoro, e Franchi lo sa benissimo, è necessario rivolgersi ad agenzie specializzate nel reperimento del materiale fotografico necessario. In questo caso avevamo chiesto di trovare la foto di una folla serena e forte, senza eccessi, senza slogan e bandiere, senza simboli di partito. Non, come immagina Franchi, perché avremmo avuto difficoltà a reperire nel nostro archivio foto che non evidenziassero «le storiche divisioni dell'Unione» o che vedessero rappresentate plasticamente le vecchie appartenenze (Ds, Margherita, ecc...). Non è così. Il Partito Democratico, seppur giovanissimo, è già da tempo andato oltre la sintesi di quelle storie. E il nostro archivio è pieno delle foto della entusiasmante campagna elettorale che Veltroni ha condotto nei mesi scorsi e che ha riempito le piazze di tutte le province italiane di militanti e di bandiere del Pd. Ma — e qui il problema si fa più politico — contesto l'idea di Paolo Franchi che, fra tutte le gaffe e gli errori che potevamo fare, ci accusa di aver fatto il peggiore: quello di scegliere «una piazza altrui. E che piazza». Neanche avessimo utilizzato la foto di una manifestazione della destra o della Lega!
Ecco, su questo proprio non ci siamo. Perché dietro questa osservazione, c'è un'idea un po' vecchiotta della sinistra. Come se fossimo ancora a Don Camillo e Peppone o al Pci anni Cinquanta. Il Partito Democratico è nato perché nel suo dna c'è anche quella piazza, anche quel popolo. Noi non sapevamo che quella folla fosse a San Pietro, ma quella foto di persone senza bandiere, striscioni, cartelli l'abbiamo scelta apposta perché era coerente alla nostra idea di partenza. Ci sono persone, cittadini, una folla, una collezione di volti e di esperienze diverse. Proprio quello che cercavamo. La scelta matura di una grande forza politica, che seppur nata sotto il segno di 3 milioni e mezzo di italiani e capace di raccogliere il consenso di un terzo degli elettori, non si ferma e non si accontenta. E sceglie di farsi rappresentare da una foto nella quale si vedono uomini e donne, ragazze e ragazzi. Tra i quali, magari molti non hanno votato per noi. Perché pure a loro ci rivolgiamo, anche a loro chiediamo impegno e attenzione. Perché questo è ciò che vogliamo sia la manifestazione del 25 ottobre, non un corteo di tifosi ma un Circo Massimo pieno zeppo di uomini e donne. Uomini e donne che sanno voler bene all'Italia.

Lasciamo stare, per cortesia, Peppone e il Pci anni 50. Può darsi che io abbia un'idea «un po' vecchiotta» della sinistra. Ma continuo a non capire a quale idea innovativa della medesima dovrebbe alludere la foto di una folla anonima.
Paolo Franchi

Corriere della Sera 20.10.08
Stato e Chiesa Lo storico Paul Veyne racconta come cristianesimo e paganesimo convissero a Roma
Costantino si convertì per scelta personale: non fu calcolo politico
di Eva Cantarella


«L'Europa è democratica, laica e libera: tutte cose estranee al cattolicesimo»

È il 28 ottobre 312 d.C. Alla periferia di Roma, lungo il Tevere, le truppe di Costantino affrontano quelle dell'usurpatore Massenzio. Costantino, in quel momento, governa una delle quattro parti in cui è diviso l'impero romano: Gallia, Britannia e Spagna. Dovrebbe governare anche l'Italia, ma Massenzio se ne è impadronito. Sull'elmo di Costantino e sugli scudi dei suoi soldati è inciso il crisma, un segno formato dalle prime due lettere greche del nome di Cristo, una X (chi) e una P (rho), sovrapposte e intrecciate. La notte precedente, gli è stato rivelato in sogno: in hoc signo vinces, «sotto questo segno vincerai ». E Costantino vince: è la celebre vittoria di Ponte Milvio. Due giorni dopo entra a Roma, percorrendo la Via Lata (attuale via del Corso). È questo il giorno, dice Paul Veyne, in cui si può fissare il passaggio dall'antichità all'epoca cristiana, uno degli avvenimenti decisivi della storia non solo occidentale, ma mondiale.
Così, da questo racconto, prende le mosse l'ultimo libro di Paul Veyne, lo storico che ci regala, periodicamente, libri stimolanti, affascinanti e coinvolgenti come pochi altri: Quando l'Europa è diventata cristiana (312-394). Costantino, la conversione, l'Impero. Alla profonda dottrina e alla impressionante padronanza delle fonti Veyne unisce, infatti, la rara capacità di fare della storia un racconto, prospettando tesi originali, anticonformiste, spesso formulate in poche, spiazzanti parole (seguite, beninteso, da una amplissima e documentata motivazione). Un esempio: «Senza Costantino il cristianesimo sarebbe rimasto una setta di avanguardia». Riferita a una religione i cui fedeli, oggi, sparsi in tutto il mondo, ammontano a un miliardo e mezzo di persone, un'affermazione sorprendente.
La convinzione di Veyne mal si accorda con quel che siamo abituati a pensare in materia. Ma come, si chiede il lettore, il cristianesimo non era la sola religione capace di dare una prospettiva alle inquietudini del-l'epoca, di soddisfare esigenze personali e sociali che solo in essa potevano trovare risposta? Non è a questo che sono dovuti il suo successo e la sua diffusione?
Veyne, pur ovviamente attento ai complessi meccanismi della storia, prospetta una risposta inedita: se questo accadde fu grazie alla politica rivoluzionaria di Costantino, destinata ad avere un peso gigantesco nella storia dei secoli a venire. Cominciamo dall'inizio: la sua conversione, dice Veyne, fu assolutamente sincera. La tesi ottocentesca secondo la quale, militare e politico senza scrupoli, Costantino si sarebbe convertito per mero calcolo non ha fondamento: i cristiani, allora, erano solo un decimo della popolazione dell'Impero. Troppo pochi per far pensare a una ragione opportunistica. La conversione fu un fatto interiore, una scelta del tutto personale. Ma Costantino ne fece un uso degno di un grande imperatore. La Chiesa, fondatasi e sviluppatasi al di fuori del potere imperiale, avrebbe potuto essere un rivale di questo. Costantino si pose come interlocutore dei vescovi, sul loro stesso livello, presentandosi come il braccio esecutivo delle loro decisioni. Scrive Veyne: «Costantino non ha messo l'altare al servizio del trono, ha fatto il contrario: ha ritenuto che gli affari e i progressi della Chiesa fossero una missione essenziale dello Stato: la novità è che con il cristianesimo ha inizio a tutti gli effetti l'ingresso del sacro in politica e nel potere, che "la mentalità primitiva" si limitava ad avvolgere con un'infinità di superstizioni ». Egli aveva capito l'incredibile potenziale della nuova religione, che non stava in una morale superiore a quella delle altre. Anche gli ebrei, anche i pagani sapevano che non dovevano uccidere e non dovevano rubare. La novità cristiana stava nell'amore che legava tra loro i fedeli e ciascun fedele personalmente al dio. Fu questo il capolavoro della religione cristiana, dice Veyne. Il secondo fu la Chiesa, che Costantino favorì in ogni modo, senza peraltro mai vietare il paganesimo, e tantomeno perseguitare i pagani.
Con Costantino — e a lungo, dopo di lui — paganesimo e cristianesimo convissero. Fino a quando Teodosio vietò i culti pagani, facendo del cristianesimo la religione ufficiale dell'Impero. Le vicende di quei secoli sono tracciate in capitoli che consentono a Veyne di affrontare problemi ai quali qui è possibile solo accennare: cos'è il sentimento religioso? Quale il rapporto tra cristiani, pagani ed ebrei? Quale l'atteggiamento degli imperatori cristiani nei confronti degli altri culti? Per Costantino, se i pagani sono solo «stupidi », gli ebrei sono una «setta nefasta »: quando nasce l'antisemitismo? Qual è la differenza tra questo e il razzismo?
Superfluo insistere sull'interesse di questi capitoli. Per non parlare di quello intitolato: «L'Europa ha radici cristiane?». La risposta di Veyne è negativa: «La nostra Europa attuale — scrive — è democratica, laica, sostenitrice della libertà religiosa, dei diritti dell'uomo, della libertà di pensare, della libertà sessuale, del femminismo e del socialismo o della riduzione delle disuguaglianze. Tutte cose estranee e talvolta in contrasto con il cattolicesimo di ieri e di oggi. La morale cristiana invece predicava l'ascetismo, che non ci appartiene più, l'amore verso il prossimo (un vasto programma, rimasto imprecisato) e insegnava a non uccidere e non rubare, ma lo sapevamo già tutti... Se non potessimo fare a meno di individuare dei padri spirituali, la nostra modernità potrebbe indicare Kant o Spinoza: quando quest'ultimo scrive nell'Etica che "portare aiuto a coloro che ne hanno bisogno va ben oltre le capacità e l'interesse dei singoli. La cura dei poveri si impone, perciò, alla società intera e riguarda l'interesse comune" è più vicino a noi di quanto non lo sia il Vangelo ».
Le tesi di Paul Veyne si possono condividere o non condividere, i suoi libri si possono amare o criticare, ma è difficile leggerli senza essere affascinati dalla mente libera e brillante di chi li ha scritti, da una scrittura che trasforma una sterminata dottrina in un grande affresco storico nel quale si fondono eventi, persone e idee; e da ultimo — solo nell'elencazione — dalla capacità di un grande accademico (oggi professore onorario del Collège de France, dove ha insegnato per anni) di non essere mai accademico. Di essere se stesso, un grande storico e uno spirito libero.
PAUL VEYNE Quando l'Europa è diventata cristiana (312-394) GARZANTI PP. 204, e 23

Corriere della Sera 20.10.08
Set. «L'uomo che verrà» con Maya Sansa e Alba Rohrwacher rievoca la strage nazista dell'autunno '44
Le donne di Marzabotto
Storie di contadine nel film sull'eccidio E recitano anche gli eredi delle vittime
di Paolo Mereghetti


Nell'autunno del '44 fu compiuto dai nazisti l'eccidio di Monte Sole (strage di Marzabotto): assassinati circa 800 civili (nella foto i funerali)

SAN CHIERLO (Bologna) — «I civili ormai non contano. Le loro vite sono solo numeri, quelli che tutti sembrano disposti a pagare in nome del potere. Che si tratti di terroristi o di liberatori, di nemici o di alleati. Per questo mi è venuta voglia di raccontare la strage di Monte Sole, quella che tutti ricordano col nome di Marzabotto, per ricordare gli ottocento e più civili che furono sacrificati alla logica dei numeri. Quella che doveva bonificare il territorio dai possibili ostacoli umani».
Giorgio Diritti parla calmamente. Non si accalora per le polemiche che da un po' di tempo sembrano andare di pari passo con la rievocazione delle stragi nazifasciste nella Seconda guerra mondiale: «La Resistenza è un valore da difendere assolutamente anche se gli uomini, partigiani compresi, di fronte alla morte spesso si sono comportati in modi irrazionali o violenti». Col suo primo film, Il vento fa il suo giro, ha imparato che la calma può essere un'arma vincente. Nessuno voleva finanziare un film su un pastore francese che emigra nella val Maira e lui l'ha fatto lo stesso. Nessuno voleva distribuirlo e lui ha cercato cinema per cinema: a Milano è in programmazione da più di 15 mesi ininterrottamente al Mexico. Un record storico. A Torino l'hanno proiettato per quattro mesi, a Bologna per tre. Adesso lavora al film L'uomo che verrà, quasi un kolossal al confronto: tre milioni e mezzo di budget, coperti in parte da RaiCinema, in parte dal ministero dei Beni culturali. Mancano ancora cinquecentomila euro circa, ma non si potevano più attendere: in due mesi di riprese nelle colline sopra Bologna, a una decina di chilometri dai luoghi reali delle stragi, bisogna ricreare il passaggio delle stagioni e la mancanza di pioggia di questi giorni sta ingiallendo troppo in fretta le foglie. «Forse saremo costretti a qualche ritocco digitale » si lascia scappare l'art director Giancarlo Basili.
Non l'hanno fermato neanche le polemiche sul film di Spike Lee e la sua hollywoodiana ricostruzione della strage di Stazzema, bocciata sonoramente dal pubblico. «Il mio non è un film di guerra. È un film su come la guerra entra nella vita delle persone, di come distrugge le loro speranze e i loro sogni, di come cambia le carte in tavola. E di come lo faccia nel modo più tragico: negando la vita». Le persone che improvvisamente devono fare i conti con questa tragedia sono i Palmieri, contadini già segnati dalla morte di un figlio (trauma che ha tolto la parola alla sorellina Martina) e che sperano nella nuova gravidanza della moglie Lena.
A interpretarla, Maya Sansa, che dopo un lungo periodo in Francia (dove ha interpretato tre film, uno al fianco di Sophie Marceau), si ritrova nella stessa epoca del suo ultimo film italiano,
L'amore ritrovato. «Non volevo essere identificata come l'attrice che fa i film sul fascismo. Anche il film con la Marceau era ambientato nella Seconda guerra mondiale, ma la storia e il regista mi hanno convinto. Sono una donna che, attraverso il matrimonio, entra in una famiglia patriarcale e deve pensare soprattutto a obbedire e lavorare in silenzio. Ho un ruolo fatto di piccole cose quotidiane ma con una sua forte umanità, che risalta proprio nel sacrificio domestico».
Tutto l'opposto della cognata, interpretata da Alba Rohrwacher, che invece non vuole accettare la dura logica contadina e vorrebbe scappare facendo la serva a Bologna: «È vero, il mio ruolo è un po' più mosso: cerco di ribellarmi alla logica della vita di campagna, ma certo non faccio scene madri. Diritti è molto attento alla credibilità, tanto da farci parlare tutti in bolognese stretto. A quei tempi erano tutti di poche parole. E se Maya confessa che le sarebbe piaciuto di più il mio ruolo, io potrei dire lo stesso del suo, fatto tutto di sottintesi e allusioni». E anche da questi complimenti reciproci capisci che per una volta su questo set si respira un'aria diversa, di vera coesione («Tutti hanno accettato di lavorare perché credevano al film non certo per i soldi» dice orgoglioso Diritti). Senti che tutti si sentono coinvolti, accettano gli spostamenti di programma e i prolungamenti d'orario senza mugugni. «Sembra di essere a teatro» si lascia scappare la Sansa.
A fare gruppo, a aggiungere una motivazione in più collaborano anche le comparse, che non sono i soliti aspiranti attori in cerca di un attimo di fama, ma autentici contadini locali, che i fatti del Monte Sole li hanno vissuti sulla loro pelle, o su quella dei loro familiari. Come «donna Vittoria», la suocera di Lena nel film, che si porta dietro un librettino dove sono stigmatizzate le torture che il famigerato capitano Tartarotti infliggeva ai partigiani che catturava, uno dei quali era suo padre. O come Carlo Venturi che fa da «consulente storico» sulle tattiche di combattimento dei partigiani, anche se ogni tanto si scusa «perché la memoria fa brutti scherzi». E con loro ci sono tantissime altre facce così, di quella verità e di quella intensità che il cinema spesso dimentica. «Quando hanno saputo che stavo girando un film su quel massacro si sono presentati in tantissimi. Volevano esserci. Volevano dare il loro piccolo contributo a ricostruire una storia dimenticata » e mentre lo dice capisci che Diritti un po' della sua guerra sente di averla già vinta.

Asca 17.10.08
Mercati: effetto crisi, il Capitale di Marx torna tra i bestseller


Francoforte, 17 ott - Sara' l'effetto della crisi finanziaria globale, ma ''Il Capitale'' di Carlo Marx sta vendendo piu' copie che in passato. A sostenerlo e' Joern Schuetrumpf, capo della casa editrice Karl Dietz Verlag, che pubblica il celebre libro di Marx, uscito per la prima volta nel 1867, ed e' specializzata in letteratuta comunista. ''Nel 2005 ho venduto 500 copie, nel 2006 800 e nel 2007 1.300. Nei primi nove mesi del 2008 sono gia' arrivato a 1.500'', dice Schuetrumpf, dal suo stand alla Fiera del Libro di Francoforte. ''Di sicuro molti di coloro che lo comprano, soprattutto i giovani, non riescono a leggerlo tutto perche' e' davvero una lettura impegnativa, ma comunque una societa' che sente il bisogno di leggere Marx e' una societa' che non si sente molto bene''.

il manifesto 16.10.08
Il diktat Sacconi: vietare gli scioperi
Il ministro del Welfare annuncia una legge delega che blocca le proteste: scioperanti schedati, sanzioni dalla prefettura. Autorizzati solo gli stop «virtuali», con un fazzoletto. La Cgil: «Si viola un diritto costituzionale»
di Antonio Sciotto


ROMA - Tra gli innumerevoli attacchi del governo, non poteva certo mancare quello al diritto di sciopero: ieri il ministro del Welfare Maurizio Sacconi ha spiegato che si provvederà presto, con un apposito disegno di legge delega che «regolerà» le astensioni dal lavoro nei servizi pubblici. Chi sciopererà verrà schedato dall'amministrazione di cui è dipendente, sanzionato dalla prefettura, indotto a sostituire la piazza con un semplice fazzoletto al braccio. In pratica, sarà vietato scioperare. E non basta: viene soppresso un diritto garantito dalla Costituzione, quello di poter protestare individualmente. Per proclamare uno sciopero, bisognerà passare attraverso un referendum a maggioranza. «E' un golpe bianco - commenta Carlo Podda, Fp Cgil - E' la violazione palese di un diritto costituzionale, e segnalo che queste misure vengono minacciate quando i lavoratori della scuola e del pubblico impiego si preparano a scendere in piazza».
La riforma, ha spiegato Sacconi, intende «prevenire il conflitto attraverso forme di conciliazione e arbitrato», mira a rendere «obbligatorio un referendum consultivo preventivo e rendere anche obbligatoria l'adesione individuale allo sciopero dei singoli lavoratori, in modo che gli utenti siano informati circa il livello di adesione allo sciopero». Il ddl intende disciplinare anche la revoca dello sciopero, «perché strumentalmente troppo spesso si annunciano scioperi che poi si revocano all'ultimo minuto facendo in modo che il danno è stato fatto senza pagare il pegno della perdita del salario». La revoca dello sciopero, quindi, «deve essere adeguatamente anticipata per poter evitare la trattenuta, tranne nel caso si faccia, anche all'ultimo momento, un accordo che risolva in via definitiva il problema, non una semplice solo timida intenzione di miglior dialogo». Il governo - ha continuato Sacconi - vuole anche «intervenire sull'esigenza della rarefazione: cioè deve essere più robusto e garantito l'intervallo tra uno sciopero e l'altro, nel senso che pur agendo diversi soggetti, l'intervallo deve essere comunque garantito in modo che ci sia un congruo periodo in cui non ci sono attività di interruzione del servizio».
Secondo il ministro, poi, «bisogna favorire lo sciopero virtuale che si può fare con un fazzoletto al braccio, in modo che io sono in stato di agitazione, perdo il salario però il datore di lavoro paga una cifra congrua per ogni lavoratore che si astiene virtualmente dal lavoro». In sostanza, ha spiegato Sacconi, «la controparte paga ugualmente e queste risorse vanno in un fondo solidaristico che poi decidono come usare. Questo sempre per evitare l'interruzione del servizio pur legittimamente manifestando un disagio». «Le sanzioni - ha concluso il ministro - oggi sono decise dalla commissione, soprattutto quando riguardano l'individuo, e sono applicate dal datore di lavoro, che in genere non lo fa mai. L'ipotesi è di incaricare i Prefetti di applicare la sanzione decisa: in questo modo la sanzione, con il pericolo di omissione di atti di ufficio, è applicata effettivamente».
«Già oggi esistono sufficienti garanzie per tutelare i cittadini utenti - replica Podda - Tanto che per annunciare le prossime date di sciopero devo aspettare il tentativo di conciliazione al ministero del lavoro, e poi badare a non sovrapporle con altre. Ma qui si minaccia di negare alla radice il diritto di sciopero. Il sindacato diventa superfluo: Brunetta nega la contrattazione e eroga aumenti unilaterali, e ora si aggiungono le regole sugli scioperi. Allora sciogliamo tutto e mettiamo su un comitato referendario. Si nega il diritto individuale allo sciopero, si schedano gli scioperanti con l'obbligo di adesione nominale, si fa applicare la sanzione dalle prefetture, come se fosse un problema di ordine pubblico. Questo progetto somiglia tanto alle linee guida sui contratti della Confindustria, dove gli scioperi vengono iper-sanzionati e si pretende di conciliare con gli arbitrati». I lavoratori pubblici, comunque, dopodomani decideranno le date dei prossimi stop regionali - entro metà novembre - e se non avranno risposte si deciderà lo sciopero nazionale.
Proteste contro Sacconi sono venute anche dalla segreteria della Cgil, che parla di «introduzione di tratti autoritari»; la Uil, con Paolo Pirani, dice che «atti unilaterali rischiano di aumentare il conflitto»; la Cisl chiede «un tavolo per regole condivise». Il Pd, con Paolo Nerozzi, si dice «profondamente contrario al progetto Sacconi».

Il Riformista 20.10.08
De profundis a sinistra
di Luca Mastrantonio


Qualcuno era comunista, dice la canzone. La cantava Giorgio Gaber. Nei prossimi giorni la suoneranno in tanti, da Riccardo Barenghi a Luca Telese. Il prossimo libro dell'autore di Cuori neri, che prende il titolo dalla canzone-teatro, è una campana a morto per i «pop-brezneviani». Veltroni, Fassino & co. che, secondo Telese, hanno «perso tutte le passioni e le idealità del comunismo, ma hanno recuperato forme di stalinismo che il Pci non ha mai conosciuto. Sognano l'unanimismo, il loro vero obiettivo perché hanno paura della democrazia».
Secondo Riccardo Barenghi, che uscirà a giorni con Fazi con Eutanasia della sinistra, si sta praticando una dolce morte al corpo elettorale (post)comunista. Forse tanto dolce non è stata, ma va certificata. Quando? Il 14 aprile 2008 o due anni prima? Il dottor Morte è stato Prodi o Veltroni? O Bertinotti? La risposta, forse, è in libreria.
Altri libri di prossima uscita compilano un unico epitaffio con i loro dorsi. A novembre uscirà per Memori Razza comunista. La vita di Luciano Lama, di Giancarlo Feliziani, che prova a rispondere alla domanda: che razza di comunista era Luciano Lama. Un «perdente di successo»? Lama viene descritto come l'uomo che riuscì a trasformare ogni sconfitta del sindacato (dalla Fiat alla scala mobile; dalla svolta dell'Eur alla disfatta all'università di Roma da cui fu costretto a fuggire a bordo di una Mini minor...), in nuove occasioni di identità e appartenenza. Diffidente verso Enrico Berlinguer, ha comunque affiancato il Pci nelle sue battaglie. «Era il marxista più bello - sostiene Feliziani - e forse anche il più simpatico. Uno straordinario oratore capace di far digerire anche il più ostico degli accordi sindacali». Ma poi, il sindacato si dimentica di invitarlo alla festa del 1 maggio.
Per chi non si accontenta - o vuole fare un regalo a Vladimir Luxuria che sull'Isola dei famosi pensa che il Muro sia caduto nel 1985 - c'è il Diario della caduta del comunismo, edizioni Liberal, scritto da Renzo Foa.
Il commiato più ironico dall'era comunista, però, è quello di Sebastiano Vassalli, raccolto in Racconti politici (Einaudi). Narra la storia dell'«Ultimo comunista», un avvocato che ha sfiorato la lotta armata e poi l'ha abbandonata gettando in un fiume le armi che aveva in custodia. Oggi, nel suo biglietto da visita, si presenta come «Ultimo comunista». Senza altre qualifiche.

domenica 19 ottobre 2008

l’Unità 19.10.08
Scuola e immigrati
Il giorno dell’Apartheid
di Furio Colombo


«Non posso condividere - e come me altri deputati della maggioranza - il contenuto della mozione presentata dalla Lega Nord. Per cui abbandono l’aula e insieme a me alcuni altri deputati

L’idea che i bambini che hanno difficoltà nella lingua italiana vadano segregati e rinchiusi tra loro è una delle più assurde non solo in termini di pedagogia ma di buon senso. Non parlano, non ascoltano, non imparano

Un evento triste e squallido è avvenuto nella Camera dei Deputati nei giorni 8 e 9 ottobre quando la maggioranza di governo, guidata dalla Lega, ha proposto e fatto approvare una odiosa mozione che chiede la separazione e segregazione dei bambini immigrati nelle scuole italiane. È giusto che ci sia memoria di questo tragico evento e perciò trascrivo qui alcune parti dei verbali d’Aula di quelle sedute.
On. Niccolò Cristaldi (Pdl-An): «Signor Presidente, onorevoli colleghi, io non parteciperò a questa votazione (mozione Cota, Lega nord, sulla segregazione dei bambini immigrati nelle scuole italiane, ndr) perché non ne condivido le ragioni politiche. Non condivido il contenuto della mozione della maggioranza perché sono nato e cresciuto in una città, Mazara del Vallo, nella quale il venti per cento della popolazione è musulmana».
«La mia è una città dove l’integrazione non si è decisa con una legge né con mozioni come questa. Si è decisa attraverso il rispetto delle diverse culture, attraverso l’amicizia tra i popoli, che si è instaurata partendo da situazioni drammatiche che hanno visto tanta gente venire nella mia città per cercare lavoro. Abbiamo scambiato attività culturali, insegnando molte cose della nostra cultura occidentale, imparando a inginocchiarci davanti ai grandi musei che ci sono in Tunisia, in Marocco, nei Paesi del Maghreb e in tutto quel mondo. Non posso condividere - e come me altri deputati della maggioranza - il contenuto della mozione presentata dalla Lega Nord. Per cui abbandono l’aula e insieme a me alcuni altri deputati». (Camera dei deputati, 9 ottobre ore 19.05, applausi dei deputati del Partito democratico).
On. Mario Pepe (Pdl): «Signor Presidente, vorrei ricordare agli amici della Lega che il Duca d’Aosta, quando era Governatore della Somalia emise un editto che impediva ai bambini indigeni di frequentare le scuole italiane, se prima non avevano imparato l’italiano. Oggi il popolo somalo si divide in due categorie: quelli che hanno un fucile e quelli che non ce l’hanno. Mi auguro che questo non sia il futuro dell’Italia. Per questo io voterò contro questa mozione». (Camera dei deputati, 9 ottobre ore 19.09, applausi dei deputati del Partito democratico).
Emanuele Fiano, (Pd): «Signor Presidente, nella mia famiglia abbiamo saputo sessant’anni fa che cosa significa essere scacciati dalle classi delle scuole del regno, in quanto ebrei. Non userò questo argomento per rispondere agli argomenti della Lega Nord Padania. (Urla dei deputati della Lega Nord Padania). Parlo di oggi, di voi. Penso che sia profondamente sbagliato proporre una separazione dei bambini per risolvere il problema della integrazione, spezzare una comunità che vive e cresce insieme. Le «classi differenziate» sono la risposta sbagliata. L’integrazione si fa insieme. (Camera dei deputati, 9 ottobre ore 19.15, applausi dei deputati del Partito democratico, grida e urla della Lega Nord e del Pdl).
On. Piero Fassino (Pd): «Signor presidente, mi rivolgo all’onorevole Cota (capogruppo Lega Nord Padania alla Camera dei deputati, ndr) e a tutti i colleghi. Vi voglio raccontare un episodio vero che ci può illuminare. Un mio amico ha un bambino di sette anni che frequenta una seconda elementare per metà costituita da bambini extracomunitari. Il suo compagno di banco è il suo amico del cuore. A casa racconta ai genitori che «con Emanuel abbiamo fatto questo, abbiamo fatto quello, siamo andati qui e siamo andati là». Un giorno il padre del bambino italiano lo va a prendere a scuola e quando i bambini escono chiede per curiosità al figlio: chi è Emanuel? Il figlio si volta e indica: “eccolo là, quello col maglione rosso”. Non gli viene in mente di dire: «Quello con la pelle scura».
«Con il provvedimento che vi apprestate a farci votare voi state producendo una regressione culturale che mette in discussione i principi di uguaglianza tra gli uomini. E fate una cosa ancora più grave: introducete la discriminazione, quella moralmente più abbietta: discriminate tra i bambini, tra i più piccoli». (Camera dei deputati, 9 ottobre ore 19.20, prolungati applausi dei deputati del Partito democratico, di Italia dei Valori, del gruppo di Unione di Centro).
On Gianluca Galletti (Udc): «Signor presidente, devo dire che chi ha redatto la mozione, ne ha dato l’interpretazione autentica (si riferisce al deputato Cota, capogruppo Lega Nord Padania, che ha illustrato la mozione in aula, ndr). Dopo averlo ascoltato, noi siamo certi di non voler avere nelle nostre scuole, allievi di serie A e allievi di serie B. Ci sembra, invece, che l’obiettivo della mozione in esame sia proprio questo. Per tale ragione, dichiaro il voto contrario del nostro gruppo». (Camera dei deputati, 9 ottobre ore 19.30, applausi dei deputati dei gruppi Unione di Centro e Partito democratico).
On. Valentina Aprea (Pdl): «Signor presidente, vi assicuro che questa mozione è attesa dai docenti della scuola italiana, da quei docenti, onorevole Fassino, dove l’inserimento degli alunni stranieri avviene in modo selvaggio. (Camera dei deputati, 9 ottobre ore 20.00, proteste del Partito democratico, applausi dei deputati del gruppi Pdl, ovazioni dei deputati Lega Nord Padania).
«No, no, no!» (Furio Colombo, Pd, Camera dei deputati, 9 ottobre ore 20.05 grida e urla dei deputati del gruppo Lega Nord Padania).
***
Testo della mozione per la apartheid nelle scuole italiane presentato dalla Lega Nord alla Camera dei Deputati con l’assenso e il sostegno della maggioranza di governo:
«La Lega Nord Padania impegna il governo:
- a rivedere il sistema di accesso degli studenti stranieri alla scuola di ogni ordine e grado, autorizzando il loro ingresso previo superamento di test e di specifiche prove di valutazione.
- istituire classi ponte (classi separate, ndr) che consentano agli studenti stranieri che non superano le prove e i test sopra menzionati di frequentare cori di apprendimento della lingua italiana, propedeutiche (obbligatorie e separate, ndr) all’ingresso degli studenti nelle classi permanenti.
- a non consentire in ogni caso l’ingresso nelle classi ordinarie oltre il 31 dicembre di ciascun anno, al fine di un razionale (traduzione: limitato o impedito, ndr) inserimento degli studenti stranieri nelle nostre scuole, e a provvedere a una distribuzione degli stessi in proporzione al numero complessivo degli alunni per classe.
- a favorire l’elaborazione di un curricolo che tenga conto di lealtà e rispetto alla legge del paese accogliente, del rispetto di tradizioni territoriali e regionali del paese accogliente, del rispetto per la diversità morale e culturale (traduzione: superiorità, ndr) del Paese accogliente (prime firme: Cota, Goisis, Grimoldi, Rivolta, Aprea, Carlucci, Farina, Mazzucca, Garagnani, Rampelli)».
***
Furio Colombo: «Signor presidente, devo dirle a nome dei miei colleghi (spero di parlare a nome di tanti miei colleghi) che sono contento di intervenire in questo momento, in quest’aula vuota. Evito agli altri deputati di provare l’umiliazione che provo io ascoltando la presentazione di questa mozione della Lega Nord Padania che intende istituire scuole segregate per bambini immigrati, le scuole contro cui si è battuto Martin Luther King in Mississippi e Alabama 45 anni fa. Si è battuto, e ha vinto. Ma i miei colleghi si sono risparmiati l’angoscia di guardare verso i banchi della Lega e di domandarsi, dopo aver ascoltato l’elogio della scuola segregata: «Ma questi sono i miei colleghi? Facciamo lo stesso lavoro? Condividiamo lo stesso Parlamento? Siamo stati eletti dallo stesso popolo?».
Presidente: «Onorevole Colombo, in questa Camera tutti sono altrettanto onorevoli».
Colombo: «No, presidente. Devo esprimere il mio sentimento di umiliazione».
Presidente: «A termini di regolamento lei non può offendere un suo collega».
Colombo: «Mi dica, presidente, qual è l’espressione offensiva?».
Presidente: «L’espressione offensiva è quando lei dice che si vergogna di...».
Colombo: «Ho detto che mi sento umiliato nel giorno della apartheid della scuola italiana e ho diritto di dirlo perché è il mio sentimento».
Presidente: «Mi pare che tale espressione sia l’equivalente di “mi vergogno”».
Colombo: «Signor presidente, Matteotti si è sentito umiliato di fronte a ciò che aveva ascoltato in quest’aula. Ripensi per un momento al dibattito al quale oggi in questa Camera abbiamo assistito. Viviamo in un mondo in cui sta per essere eletto presidente degli Stati Uniti un nero, figlio di un immigrato di origine kenyota, educato nelle scuole americane dove nessuno lo ha separato (non più, dopo il movimento per i diritti civili di Martin Luther King) dagli altri bambini. Ed è diventato uno dei più brillanti giuristi, poi uno dei più importanti senatori, poi uno dei più carismatici candidati alla presidenza degli Stati Uniti che quel paese abbia mai avuto.
Ma lei pensi - presidente - ad un altro Paese, il nostro, nelle mani della cultura di Borghezio e di Gentilini e mi dica: quale sarebbe oggi, qui, da noi, in questa Italia occupata dalla Lega, il destino di un piccolo Obama? Forse lo aspetterebbero le sprangate e la morte in una strada di Milano dove - ci assicura il ministro dell’Interno Maroni - le sprangate che hanno ucciso il diciannovenne Abdul erano la punizione per un furto, non lo sfogo di un sentimento razzista. L’idea che i bambini che hanno difficoltà nella lingua italiana vadano prontamente segregati e rinchiusi tra loro è una delle più assurde non solo in termini di pedagogia e di psicologia ma di comune buon senso. Non parlano, non ascoltano, non imparano. L’ottusa idea leghista è il 41 bis dei bambini immigrati. Ad essi per giunta, viene imposto di imparare «le tradizioni», “l’identità”, la religione del paese ospitante. Il concetto è bene espresso dalle alte parole del pro-sindaco leghista di Treviso: “Che vadano a pisciare nelle loro moschee”. Sono parole memorabili per la loro qualità morale, umana, politica che la Lega da oggi dovrebbe scrivere sulle proprie bandiere.
Alexander Hamilton, uno dei padri della Costituzione americana, ha detto ai coloni immigrati che si accingevano a fondare la nuova Repubblica degli Stati Uniti: “C’è qualcosa di unico nel nostro destino. Noi, che veniamo dai quattro angoli del mondo e fino a questo momento non abbiamo niente in comune, d’ora in poi avremo in comune il nostro futuro. Questo è il nostro destino eccezionale. Siamo i soli al mondo ad avere questo privilegio”.
Era il 1788. Qui, oggi, nell’anno 2008, si propone di isolare i bambini immigrati in corridoi chiusi come se fossero portatori di malattie infettive. Prevedo e temo che questa ignobile mozione non sarà respinta. Perciò mi unisco alla umiliazione di molti colleghi di Alleanza nazionale e di ciò che resta di Forza Italia che dovranno votare questa mozione fondata su separazione, apartheid, xenofobia, razzismo» (Camera dei deputati, 8 ottobre 2008, ore 22; presiedeva il vice presidente della Camera Buttiglione).

Nota.
La mozione di apartheid per i bambini immigrati è stata votata la sera del 9 ottobre 2008 e ha ottenuto l’approvazione della Camera dei Deputati con soli venti voti in più per la maggioranza. Il margine di differenza fra maggioranza e opposizione alla Camera è di settanta voti.
È utile ricordare che una mozione non è una legge ma un «indirizzo» o suggerimento al governo. La sua votazione non significa automaticamente accettazione ed esecuzione da parte del governo. Perciò è necessario che l’opposizione contro l’apartheid continui in tutte le occasioni, in tutte le sedi, a tutti i livelli. Le manifestazioni di protesta nella scuola in questi giorni sono il luogo e il momento giusto: studenti e docenti contro l’apartheid di Bossi-Cota-Borghezio-Maroni. Tutta la scuola italiana in difesa dei bambini immigrati.
furiocolombo@unita.it

l’Unità 19.10.08
Gelmini favorevole alle classi differenziali
«I bimbi immigrati non conoscono l’italiano e la Costituzione». Veltroni: si instilla il seme dell’odio
di Maristella Iervasi


QUANDO VELTRONI PARLA bisognerebbe sempre ascoltarlo. «C’è un brutto clima nel paese - ha detto il segretario del Pd parlando in un circolo democratico di Roma -. Cosa vuol dire che un immigrato non può stare nelle classi con gli altri italiani? Si vuole instillare il seme dell’odio», osserva. La Gelmini, maestra unica, è a Norcia e dal convegno su Educazione e libertà, organizzato dalla fondazione Magna Carta, difende a spada tratta le classi d’ingresso per i bambini immigrati. E da ministro dell’Istruzione spiega anche perché il governo ha deciso di adottare questo provvedimento: «Non si può parlare di integrazione quando ci sono bambini immigrati che non conoscono la lingua e la Costituzione repubblicana».
È per via dell’ignoranza della Carta costituzione che i bimbi migranti devono essere divisi dagli altri studenti? Ma chi conosce la Costituzione? Per Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione Comunista, «è la Gelmini in primis a non conoscerla». A partire dall’articolo 2, i diritti inviolabili della persona. Un principio che rappresenta una grande protezione per tutte le persone che, anche se lontane geograficamente e culturalmente si ritrovano a vivere sullo stesso territorio.
È giusto far conoscere la Costituzione a tutti, ma separare i bimbi immigrati dagli altri solo per questo «è creare classi apartheid», sottolinea Ferrero. È nell’infanzia, infatti, che si superano i pregiudizi. Non a caso nell’anno scolastico scorso fu proprio l’ex ministro della Solidarietà Sociale in collaborazione con l’Arci a far stampare e distribuire la Costituzione italiana in tutte le lingue parlate dai migranti. E la stessa iniziativa fu portata avanti da moltissimi comuni. Ma la ministra dell’Istruzione questo non lo dice. Lei punta a «rinchiudere» i bimbi immigrati in classi speciali solo perchè non conoscono la Costituzione repubblicana, visto che non parlano l’italiano. E i nostri bambini, e gli italiani adulti? Un sondaggio effettuato in occasione dei sessant’anni della Carta costituzionale rivelò che il 51 per cento degli italiani non l’ha mai letta una volta in vita sua; solo l’11% ne ricorda per sommi capi i contenuti.
Eppure a sentire la Gelmini, le classi d’ingresso sono necessarie per l’integrazione ed «è fuorviante» evocare lo «spettro» del razzismo. «Ci troviamo invece - sottolinea - di fronte a un problema esclusivamente didattico». E snocciala la sua lezioncina al riguardo: «I ragazzi di dieci, undici anni, da poco arrivati in Italia e con una famiglia che non parla la lingua italiana, senza il passaggio nelle classi d’ingresso si troverebbero proiettati direttamente nelle classi normali». Di conseguenza, precisa il ministro, avranno problemi di apprendimento e quindi non riuscirano a portare avanti un progetto formativo per la loro vita. Abbandonarli a se stessi è di fatto un atto contro l’integrazione nella scuola». Poi «bacchetta» la definizione del Carroccio: «È sbagliato chiamarle classi ponte perché danno il senso della divisione tra studenti di serie A e studenti di serie B». Quella stessa Lega che bloccò i 100milioni di euro stanziati da Ferrero per il fondo sull’integrazione dei migranti a colpi di ricorsi. E che l’attuale governo non ha riconfermato.
Ha proprio ragione Veltroni nel ribadire: «Si vuole instillare il seme dell’odio».

l’Unità 19.10.08
Angelique Kidjo: «La scuola salverà il mondo»
«La scuola è il seme del cambiamento»
di Enrico Rotelli


«Oggi, con la crisi è vitale che ribaltiamo il concetto che non è il denaro a creare l’uomo, ma è l’uomo che crea la ricchezza»

INTERVISTA con Angelique Kidjo: musicista di fama e ambasciatrice Unicef, ha creato la fondazione «Batonga» per garantire un’istruzione alle ragazze africane altrimenti costrette a lavorare: «È la chiave di volta per cambiare il nostro futuro»

Il suo logo è una farfalla, nella cui livrea vive il profilo del continente africano. Un logo che dalle classifiche musicali internazionali è volato sulla Fondazione da lei creata, «Batonga» (www.batongafoundation.org), per dare un’istruzione secondaria o universitaria alle giovani donne di Camerun, Benin, Etiopia, Sierra Leone, perché possano diventare, «le madri del cambiamento» in Africa. Il logo di Angelique Kidjo. Musicista beninese di origine, ma la sua vita si divide tra Parigi e New York, alterna alla musica delle sue radici ai ritmi afroamericani e al jazz, seguendo un filo conduttore: l’impegno per colmare le distanze, attraverso le note, tra sud e nord del mondo, tra donne e uomini del suo continente. Contaminazioni, molte in questo suo viaggio che sembra ripercorrere le rotte degli schiavi, dalla nativa Cotonou ai suoni dei luoghi degli approdi della tratta, affiancata da musicisti come Peter Gabriel, Carlos Santana, Branford Marsalis. Sia nella sua produzione discografica sia nei numerosi eventi concertistici che costellano l’impegno sociale nell’ultimo decennio: Cape Town nel 2003, per la Nelson Mandela Foundation, We are the Future, Roma 2004 al Circo Massimo, il Cd Instant Karma di Amnesty International per il Darfur, nel 2007.
È scesa a Rimini, per le Giornate internazionali del centro Pio Manzù, dove è stata premiata con la Medaglia d’oro del Presidente della Repubblica italiana, per il suo impegno, come Ambasciatrice Unicef (incarico attribuitole nel 2002), al quale ha affiancato la propria fondazione non governativa. Batonga, è una parola che ha inventato lei stessa, molto prima che diventasse il titolo di una delle sue canzoni più note, con le quali è arrivata a ottenere il Grammy Award. I ragazzi del suo Paese non potevano comprenderne il significato, ma per lei simboleggiava il diritto delle donne ad un’educazione. La chiave di volta per innescare un cambiamento profondo nella propria società, il seme di una tradizione che le donne, poi madri, avrebbero «trasferito e fatto crescere da famiglia a famiglia, da generazione a generazione, una tradizione che va a cambiare il futuro per l’Africa».
Lei ha trovato una propria via per sfidare le differenze tra Nord e Sud, per aiutare a crescere il suo Paese. Ce ne parla?
«Ho vissuto in una famiglia povera, dieci figli e papà era l’unico a lavorare. Ho vissuto circondata da persone ancora più povere di noi, ma ricche di saggezza. Con loro ho imparato che si può essere poveri ma ricchi di dignità. E che non è detto che si possa essere poveri e non aiutare gli altri.
Questa infanzia e questa educazione mi ha trasformato in quella che sono oggi. Mia madre mi ha donato questa visione del mondo, che no penso sia mia. Non esistono il terzo o il quarto mondo, ne esiste uno solo, e la razza umana è una. Non ho inventato io questo ma le persone che vivevano con me.
I musicisti tradizionali facevano da ponte tra la società rurale e il mondo politico. Grazie a loro ho capito che potevo fare qualcosa senza avere paura delle conseguenze. E mamma e papà sono esempi perfetti: nonostante 10 figli non so quanti bambini hanno aiutato e mantenuto agli studi. È la musica il collegamento e il legame tra tutto questo».
Quando ha presentato la Fondazione Batonga e i progetti educativi alle ragazze per un’istruzione secondaria e universitaria che sviluppa in diversi paesi africani, ha detto che «educare le ragazze in Africa dà loro la forza e gli strumenti che servono ad essere madri del cambiamento». Ci può spiegare cosa intendeva?
«Mio padre e mia madre hanno sempre insistito perché fossi istruita. Ma a un certo punto con la musica ho cominciato a fare soldi. E sono andata da mio padre dicendogli che avrei proseguito con la musica, lasciando la scuola. Non esiste mi disse: tu non canti più e vai a scuola.
Una madre istruita si batte fino alla morte perché i figli vadano a scuola. Eravamo tre figlie a studiare e i parenti di papà venivano in continuazione a dire “perché le mandi a scuola?, è uno spreco di soldi. Daccele a noi e le faremo guadagnare”. E mia madre controbatteva: “Assolutamente no, se togli le ragazze dalla scuola non avrai più nulla, non avrai più famiglia”.
Ecco perché diventano la madre del cambiamento. Un africano tende a considerare di più il bestiame che la donna. È fondamentale che le donne capiscano l’importanza dell’istruzione, perché domani le madri potranno poi insegnare ai figli e alle figlie, e fare in modo che la cultura diventi merce di scambio.
Anche la mortalità infantile è molto legata all’istruzione. Ho visto madri che per colpa dell’ignoranza restavano impotenti di fronte al figlio malato. Una madre istruita invece può aiutare il suo bambino, è in grado di conoscere le medicine, leggere i foglietti e usarle nel modo giusto, informarsi. L’ignoranza può esser pericolosa».
Con la sua musica, hanno detto, lei getta un’ancora ai più deboli...
«Questo fatto di essere circondata da persone comuni mi ha dato la necessità di credere nell’uomo. Perché non ci sono alternative. Da quando ho cominciato a fare musica i miei ispiratori sono stati uomini, donne e bambini. Ci troviamo in un periodo di totale destabilizzazione. Perché? Perché ci siamo allontanati gli uni dagli altri. Noi stessi abbiamo infilato il lupo nell’ovile. Noi abbiamo creato i soldi per poter scambiare le merci, per mangiare. E questo lupo, il denaro, lo abbiamo fatto crescere fino a distruggerci. Madri, padri e figli. Finché non sarà nella giusta prospettiva l’idolo denaro non troveremo soluzione e sacrificheremo molte generazioni. Oggi, con la crisi, se non riusciamo a capovolgere il concetto che non è il denaro che crea l’uomo, ma è l’uomo che crea la ricchezza, non avremo nessuna chances.
Per decenni i paesi ricchi hanno destabilizzato i paesi poveri. Difficilmente con questo passato è possibile cambiare. E abbiamo destabilizzato su false credenze: che i poveri restassero a casa loro. Ma purtroppo per loro, il povero si muove.
Quando le persone venivano ridotte in schiavitù, con un lavaggio del cervello si cancellavano i ricordi delle origini. Ma la musica opera come un’impronta genetica, la musica è uno specchio fedele del Dna, perché i ricordi non si cancellano. Sta a noi prendere in mano la sfida e i problemi dell’umanità, della quale siamo causa e soluzione. La soluzione per salvarci è dentro di noi».
Per questo la sua ricerca artistica l’ha portata nei paesi mete della rotta degli schiavi, per contaminarla con ritmi afroamericani?
«Esatto. I vecchi musicisti tradizionali mi hanno insegnato che la musica non ha colori, non ha lingua, perché il cuore dell’uomo non ha colore. Lo vedo ogni volta, mi vengono a vedere gruppi sociali diversi, con background diversi. Ma con la musica si riesce ad affratellare persone così diverse. La musica non uccide ma riunisce, salva e può far arrivare a liberare qualcuno come Nelson Mandela. Sono questi i motivi della bellezza della musica. E per questo l’amerò fino alla fine dei miei giorni».
Lei ha dichiarato che «i Paesi forti devono rispettare i popoli. Altrimenti la globalizzazione diventerà la più forte alleata del terrorismo». E ha aggiunto che la musica serve anche a chiedersi come possiamo fermarla, tutta questa violenza. Quella dei ricchi verso i poveri e quella di chi ha fame e vuole cibo. In che modo?
«Questo è già vero: non si vincerà la guerra al terrorismo se non si accorcerà il gap tra ricchi e poveri. Chi ha le fonti di reddito che permettono di fare delle cose non vorrà mai che qualcuno gliele tolga. Mentre qualcuno che cerca di riuscire nella vita, e non ci riesce, pensa che la risposta sia nella violenza, nel terrorismo. I paesi ricchi non si chiedono perché certa gente lascia il proprio paese per andare all’estero? Se avessero potuto non l’avrebbero lasciato mai. Se fossi stato uomo, avrei potuto magari avere un mercato nel mio paese, ma essendo donna non ho potuto, sono dovuta andare via. In Africa tanti ragazzi sono così, maschi e femmine, che vogliono studiare, farsi una cultura e non se ne andrebbero mai. E quando faccio sessioni musicali, e gli dico che c’è la miseria anche in Europa, e non mi credono. Guardano la tv e pensano a un mondo diverso. Inutile porre i problemi, vedono solo l’aspetto positivo.
La risposta sta dentro di noi. Se prendiamo in mano questa risposta, possiamo cambiare. Appena ho cominciato a fare musica, i musicisti tradizionali mi dicevano sempre che dovevo amare me stessa, e rispettarmi, e potevo così fare questo agli altri, perché tutti hanno bisogno di amore e rispetto. Amore e rispetto. Con cultura ed educazione servono a cambiare la propria vita e la vita degli altri. E a risolvere i problemi».

l’Unità 19.10.08
Firenze. La bella giornata degli studenti
Diecimila in strada a Firenze insieme ai professori. A Sesto sfilano universitari e genitori
Metà delle occupazioni prosegue fino a martedì, giorno della manifestazione regionale
di Tommaso Galgani


Tre cortei hanno coronato una settimana di mobilitazione da parte di tutto il mondo della scuola contro le scelte del governo. A Firenze gli studenti medi hanno sfilato in una manifestazione autogestita. A Sesto Fiorentino due cortei: universitari la mattina e genitori il pomeriggio. Ma non finisce qui.
In barba alle previsioni, quasi la metà degli istituti superiori fiorentini domani proseguiranno con la protesta contro i tagli a scuola e università. Se gli studenti del Da Vinci e Newton domani torneranno sicuramente tra i banchi, Castelnuovo, Rodolico, Ginori-Conti, Elsa Morante e Alberti sono fra quelli in cui è già stato stabilito di proseguire con l’occupazione almeno fino a martedì, giorno della manifestazione organizzata dagli universitari di tutta la Toscana. In altri istituti, come il Gobetti e il Volta, si passerà a forme di autogestione, ma le assemblee andranno avanti anche lì fino a martedì. All’Istituto d’Arte non solo continua l’autogestione, ma martedì si deciderà se occupare la sede della succursale. In tanti altri licei e istituti superiori, come per esempio al Gramsci, al Michelangiolo e al Galileo, la forma da dare al futuro della propria protesta verrà stabilita oggi. Fissato per oggi pomeriggio anche un incontro-assemblea alle 14.30 in SS. Annunziata, promosso da alcuni studenti delle scuole superiori, per studiare un modo condiviso con cui far proseguire le mobilitazioni. Intanto, in questi giorni, alcuni presidi hanno segnalato in procura le occupazioni degli istituti, «come atto dovuto».
Intanto il comitato docenti del liceo Il Pontormo di Empoli invita tutti a un’assemblea domani sera alle 21.30 al PalaEsposizioni, mentre mercoledì il segretario regionale del Pd Andrea Manciulli, incontrerà alcuni rappresentanti del movimento studentesco universitario, professori e ricercatori toscani.
Per quanto riguarda la manifestazione regionale di martedì, il ritrovo è fissato per le 9:45 in piazza San Marco. Il corteo che proseguirà per le vie del centro storico, toccando simbolicamente la sede della Prefettura, per consegnare il documento della manifestazione affinché venga trasmesso ai ministri competenti. Lo stesso documento sarà recapitato anche alle sedi di Provincia e Regione in via Cavour e del Comune in Piazza della Signoria.

l’Unità 19.10.08
Firenze. La manifestazione autogestita dei liceali
Migliaia in corteo. «Abbiamo fatto tutto da soli. Non siamo burattini manovrati da qualche burattinaio»
di Silvia Casagrande


CONTINUA la protesta nei licei e negli istituti cittadini, che si preparano a riscendere in piazza dopodomani a fianco degli universitari di tutta la Toscana

UNA MOLTITUDINE colorata e rumorosa ha riempito le strade del centro di Firenze ieri mattina. Quasi 10mila (7mila per le forze dell’ordine) fra studenti, genitori, professori e simpatizzanti sono riscesi in piazza a solo otto giorni di distanza dall’ultima manifestazione studentesca. In testa al corteo stavolta non c’erano bare o segni di lutto per la morte scuola pubblica, ma un gruppo di ragazzi e ragazze dell’artistico che sbandieravano colorati stendardi a ritmo di tamburi. Sul volto dei ragazzi che camminavano cantando, c’erano sorrisi pieni di speranza. È l’effetto dell’intensa settimana di mobilitazione appena trascorsa: «L’esperienza dell’autogestione e della democrazia diretta - come la chiama un professore del Russell-Newton - deve rimanere dentro di voi anche se le occupazioni si fermeranno. L’esercizio del pensiero critico: è quello che avete fatto questa settimana, studiando e analizzando i testi di legge contro cui vi battete, ed è anche quello che la riforma Gelmini vi vuole togliere».
«È facile governare un popolo di ignoranti», recita uno degli striscioni. «Maestro unico vuol dire pensiero unico», urlano dai microfoni i liceali: «non siamo qui solo per difendere il nostro futuro, ma quello di tutto il Paese». Ecco spiegato perché gli studenti medi si battono per la scuola elementare e l’università, anche se «sono marginalmente toccati dal provvedimento», come ha commentato il ministro Gelmini in un intervista.
«Non siamo burattini nelle mani di nessuno», rispondono gli studenti a chi li accusa di essere manipolati da partiti di sinistra e sindacati: «chiunque voglia partecipare è il ben venuto, ma questa manifestazione l’abbiamo messa in piedi noi e da soli, anzi stiamo facendo colletta per pagare il noleggio del furgoncino (e una multa), aiutateci!». Quando il corteo raggiunge il Duomo, i partecipanti si siedono «per far vedere quanti siamo» e l’invasione di via Cavour è completa. Passanti, bottegai e turisti sono costretti a fermarsi e a guardarli, il volantinaggio si infittisce: c’è chi si congratula, chi li incoraggia ad «andare avanti così», ma anche chi si indispettisce scuotendo la testa e perfino chi ancora si stupisce, chi ancora non si era accorto di quello che succedeva in città.
Sono venuti anche da Pisa, da Pistoia, da Prato e saranno di nuovo qui martedì, a fianco agli universitari di tutta la Toscana, per un altro corteo nel giorno della discussione al Senato del decreto 137. Dopo la conclusione del corteo in piazza Santa Croce, la mobilitazione si è spostata al polo universitario di Novoli, dove, nel corso di un’affollata assemblea, è stato stilato il programma dei prossimi giorni di occupazione: oggi pomeriggio alle 15 «giornata ludico ricreativa» dedicata ai bambini delle elementari e genitori, con burattinaio e giocolieri e stasera alle 22.30 proiezioni di film, documentari e musica (forse dal vivo). Domani alle 14 il ricercatore Duccio Basosi terrà presso il lampredottaio accanto al polo una lezione dal titolo «la civiltà della trippa». Alle 16 sarà la volta del professor Turi in una lezione su «governance della ricerca e potere accademico» che si svolgerà nell’edificio occupato D5.

l’Unità 19.10.08
Da Dante a Ligabue nel corteo dei diecimila
I volti e i simboli della manifestazione di ieri a Firenze: magliette dell’Anpi, canzoni e slogan contro il governo
di M.V. Giannotti


Chi sono i 10mila partecipanti alla manifestazione di ieri a Firenze contro il ministro Gelmini? Professori, genitori e studenti universitari, certo. Ma di sicuro, la stragrande maggioranza sono studenti delle scuole superiori della città. Una mobilitazione che per numeri e impatto non si vedeva da anni.
LE MAGLIETTE Per la maggiore vanno t-shirt autoprodotte con scritte contro il decreto Gelmini. Così come quelle che chiamano direttamente in causa il ministro e il governo. Non mancavano magliette con la scritta «Ezln» (esercito zapatista di liberazione nazionale, che si rifà alla lotta dei militanti messicani del Chiapas), quelle dell’Anpi e di gruppi rock.
LE CANZONI Il furgoncino con tanto di casse che apriva il corteo offriva una play list di canzoni che vanno da quelle storiche delle militanza di sinistra («Contessa» e «Rebel Rebel» di Bowie) fino a quelle più recenti dei Modena City Ramblers della Bandabardò. Senza dimenticare quelle che si rifanno alla tradizione dei partigiani («Fischia il vento», interrotta però a metà perché qualcuno non voleva creare polemiche) e quelle a favore della liberalizzazione delle droghe leggere («Canapa» dei Punkreas). Ma si sentivano anche i System of a Down, must del rock alternativo. Oltre agli immancabili Ligabue, Manu Chao, Bob Marley e i brani evergreen «Sweet home Alabama» e «Il mio nome è mai più», inciso dal trio Jovanotti-Liga-Pelù.
GLI SLOGAN Urlati o cantati, scritti su striscioni o sparati col megafono, gli slogan sono uno dei protagonisti principali della protesta. Si va da «Gelmini e Tremonti state attenti, la scuola è solo degli studenti» a «Contro la scuola dell’obbedienza l’unica risposta è la resistenza». Uno striscione, quello più oggetto dei flash dei fotografi, raffigurava Dante Alighieri che dice «questa legge è un inferno». Un altro esibito da un gruppo di genitori recava la scritta «Giù le mani dal futuro dei nostri figli». t.gal.

l’Unità 19.10.08
«Pio XII non è santo per colpa degli ebrei»
L’accusa del «postulatore», padre Gumpel. Il direttore della sala stampa vaticana smorza la polemica
di Roberto Monteforte


È QUELLA TARGA che blocca tutto. Colpa del mondo ebraico e delle resistenze di Israele se Papa Ratzinger non ha ancora firmato il decreto con la quale si dichiarerebbe beato Pio XII, il pontefice che traghettò la Chiesa oltre il secondo conflitto mondiale e la «guerra fredda». Non ha usato perifrasi il postulatore della causa per la santificazione di papa Pacelli, padre Peter Gumpel. Se la prende con quell’accusa - lo precisa - «di una parte del mondo ebraico» di aver taciuto sulla Shoah. Di non aver fatto tutto il possibile per fermare la razzia degli Ebrei anche al ghetto di Roma deportati nei campi di sterminio. La pietra dello scandalo sarebbe la didascalia che accompagna la foto del pontefice esposta nel nuovo museo, visitatissimo, di Yad Vashem a Gerusalemme, quello sulla Shoah inaugurato nel 2005. «Pio XII eletto nel 1939 - vi si legge - il Papa mise da parte una lettera contro l'antisemitismo e il razzismo preparata dal suo predecessore. Anche quando i resoconti sulle stragi degli ebrei raggiunsero il Vaticano, non reagì con proteste scritte o verbali. Nel 1942, non si associò alla condanna espressa dagli Alleati per l'uccisione degli ebrei. Quando vennero deportati da Roma ad Auschwitz, Pio XII non intervenne». Dieci righe che suonano come staffillata per la Chiesa di Roma. Dopo le proteste formali della Santa Sede, ieri, si è scagliato il padre «postulatore». «La causa di beatificazione di Pio XII, ormai conclusa e su cui manca solo la firma di Benedetto XVI - confida all’Ansa -, non si sblocca perché il Papa vuole avere buoni rapporti con gli ebrei». Che papa Pacelli abbia effettivamente esercitato le virtù cristiane a un grado «eroico» sarebbe oramai indubbio per la Curia romana. Ma manca l’ultimo passaggio, la firma del Papa tedesco per la quale ha chiesto tempo. Questione di opportunità «politica», di buoni rapporti tra Chiesa e Stato d’Israele, visto che in numerose occasioni autorità politiche e religiose, da ultimo il rabbino capo di Haifa intervenuto al Sinodo dei vescovi, hanno chiesto di non procedere. Di attendere che i loro studiosi abbiano accesso a quegli archivi segreti vaticani successivi al 1939, ancora non «aperti». Padre Gumpel le carte, anche quelle ancora coperte da segreto che danno conto del rapporto tra la Santa Sede e la Germania dal 1930 al 1950, le conosce bene e ricorda i numerosi attestati di riconoscenza di parte ebraica a Pio XII. Infine aggiunge un’altra considerazione. Il Papa «vuole andare in Israele al più presto» ma ciò è «impossibile fino a quando la didascalia sotto la fotografia di Pio XII al museo dello Yad Vashem, evidente falsificazione storica non sarà rimossa». Conclude: «Sarebbe uno scandalo per i cattolici».
Su questo punto arriva in serata la smentita del direttore della sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi. «La targa su Pio XII nel museo di Gerusalemme dello Yad Vashem, per quanto “rilevante”, non è un fatto “determinante” nella decisione di un eventuale viaggio del Papa in Israele». Da parte israeliana prende posizione il portavoce del ministero degli Esteri,Yossi Levy. «Papa Benedetto XVI resta per Israele un ospite gradito ed amato». Sulla «targa» contestata il portavoce si limita ad osservare che «lo Stato di Israele non commenta le dichiarazioni di persone che non sono state autorizzate a parlare a nome di papa Benedetto XVI».

l’Unità 19.10.08
Allo Yad Vashem: «Quell’uomo per noi non ha mosso un dito»
I commenti al Museo dell’Olocausto di Gerusalemme. Una ferita aperta e gli inviti alla prudenza verso la Santa Sede
di Umberto De Giovannangeli


«Mise da parte una lettera contro antisemitismo e razzismo preparata dal suo predecessore»
Shear Yesuv Cohen: «Crediamo che non dovrebbe essere beatificato o preso
a modello»

I RAGAZZI e le ragazze in divisa militare visitano attenti, in silenzio, le sale dello Yad Vashem, il Museo dell’Olocausto nel cuore della Gerusalemme ebraica. Mi
affianco al gruppo, che si ferma a leggere la didascalia che accompagna la foto di Pio XII. Un ragazzo occhialuto dice alla bionda ragazza in divisa: «Quell’uomo poteva salvare tanti ebrei, ma non ha mosso un dito...». E’ una testimonianza diretta. Che dà conto di un sentire comune che unisce molti dei sopravvissuti dai lager nazisti con le giovani generazioni di Israele: il giudizio negativo sul comportamento di Papa Pio XII. Un sentimento profondamente radicato, tanto da influenzare la stessa diplomazia dello stato ebraico nei confronti della Santa Sede. Israele ambirebbe alla visita ufficiale di Benedetto XVI ma non al prezzo della rimozione di quella didascalia che recita: «Eletto nel 1939, il Papa (Pio XII) mise da parte una lettera contro l’antisemitismo e il razzismo preparata dal suo predecessore. Anche quando i resoconti sulle stragi degli ebrei raggiunsero il Vaticano, non reagì con proteste scritte o verbali. Nel 1942, non si associò alla condanna espressa dagli Alleati per l’uccisione degli ebrei. Quando vennero deportati da Roma ad Auschwitz, Pio XII non intervenne». Una decina di righe: più che una didascalia, quelle righe hanno il contenuto e il tono di una requisitoria. Per Israele, Pio XII resta il «Papa dei silenzi». Silenzi pesanti. Pesanti come la morte. Come pesante è stato il silenzio del governo di Gerusalemme, e della direzione dello Yad Vashem, di fronte alla dichiarata volontà di Papa Ratzinger di avviare il processo di beatificazione di Papa Pacelli. A parlare, in quell’occasione è stato il direttore per gli Affari interreligiosi dell’American Jewish Committee, rabbino David Rosen, che ha invitato il Vaticano a tener conto delle "sensibilità" dei sopravvissuti alla deportazione e a "rinviare" qualsiasi decisione almeno fino all’apertura degli archivi ufficiali, tra cinque anni. Più dure le parole pronunciate dal rabbino capo di Haifa, Shear Yesuv Cohen, in occasione del recente Sinodo dei vescovi: «Crediamo che non dovrebbe essere beatificato o preso a modello, perché ha mancato di salvarci o di levare la sua voce, anche se ha cercato segretamente di aiutare». Affermazioni tanto più significative per il contesto e l’occasione in cui sono state svolte: era la primissima volta che un esponente ebraico veniva invitato al Sinodo dei vescovi.
«Ratzinger lo celebra? Se lo sapevo non venivo al Sinodo. Non siamo contenti dei tentativi nella Chiesa di dimenticare questo triste capitolo», aveva sottolineato il rabbino Cohen. «La verità storica non può essere piegata alle ragioni della diplomazia», dice a l’Unità una fonte autorevole vicina alla direzione dello Yad Vashem. In un Paese che fa della memoria della Shoah un elemento fondante della propria identità nazionale, la beatificazione di Pio XII verrebbe vista come un affronto. Peggio: come un oltraggio alla memoria dei milioni di ebrei sterminati nei lager nazisti. Per questo sarà molto difficile che quella didascalia venga rimossa. Perché Israele non può, non vuole dimenticare i silenzi di un Papa.

Repubblica 19.10.08
Un rapporto segreto del britannico Osborne su Pio XII
L’ambasciatore scrisse "Ho visto il pontefice parla bene dei tedeschi"
Il diplomatico nazista "Il Papa si augura che manteniamo le posizioni in Urss contro i comunisti"
di Francesco Bei


ROMA - Sarà pure, come dice padre Gumpel (il gesuita che lo vorrebbe beato), tutta «una montatura». Ma certo i nuovi documenti su Pio XII, scoperti dagli studiosi Giuseppe Casarrubea e Mario J. Cereghino negli archivi americani e inglesi, non solo sembrano confermare i giudizi degli ebrei sul Pontefice ma ci restituiscono un Pacelli schierato con i nazisti in funzione anticomunista. Si tratta in particolare di due documenti segreti, che saranno pubblicati dai ricercatori in un volume di prossima uscita presso Bompiani. Il primo dà conto dell´incontro tra Pio XII e Sir d´Arcy Osborne, inviato straordinario inglese, che si svolge in Vaticano due giorni dopo il brutale rastrellamento di mille ebrei romani.
I due si vedono il 18 ottobre, mentre alla stazione Tiburtina le SS stanno ancora facendo salire gli ebrei sui carri bestiame, destinazione Auschwitz. L´inviato della Gran Bretagna, che trasmetterà poi a Londra il resoconto dell´udienza, fa notare al Papa come Roma sia «alla mercé dei tedeschi, che sistematicamente la privano di tutti i rifornimenti e della manodopera, che arrestano ufficiali italiani, giovani e carabinieri e che applicano metodi spietati nella persecuzione degli ebrei. (...) Io ho affermato che Egli dovrebbe fare tutto il possibile per salvaguardare lo Stato del Vaticano e i suoi diritti alla neutralità. Egli ha replicato che, in tal senso e fino a questo momento, i tedeschi si sono sempre comportati correttamente».
Insomma, dal documento inglese sembra che il Papa sorvoli sul rastrellamento del ghetto, sottolineando invece la «correttezza» dei tedeschi con la Chiesa. L´altro rapporto segreto è quello che l´ambasciatore tedesco presso il Vaticano, von Weiszaecker, invia a Berlino il 13 dicembre del �43. «Il Papa - scrive il diplomatico a Ribbentrop - si augura che i nazisti mantengano le posizioni militari sul fronte russo e spera che la pace arrivi il prima possibile. In caso contrario il comunismo sarà l´unico vincitore in grado di emergere dalla devastazione bellica. Egli sogna l´unione delle antiche nazioni civilizzate dell´Occidente per isolare il bolscevismo a Oriente. Così come fece papa Innocenzo XI, che unificò l´Europa contro i Musulmani».
Cereghino, il ricercatore d´archivio che ha trovato queste carte e le ha lette in originale, è convinto della loro importanza: «Sono un atto d´accusa non indifferente del quale non si potrà non tener conto in futuro. I documenti confermano i dubbi che gli ebrei, soprattutto quelli italiani, hanno sempre avuto su Pio XII».

l’Unità 19.10.08
Su Berlusconi l’affondo del «Financial Times»
«Silvio adulato a livelli nordcoreani»
In linea con l’Agcom: nei tg si parla solo del governo
di Roberto Brunelli


L’Authority: nei tg Mediaset il tempo di parola lasciato all’esecutivo arriva all’80%
Grandi squilibri anche in Rai: al Tg2 il 65% va alla destra

SILVIO COME IL «CARO LEADER», al secolo Kim Jong-Il. Lo dice, in pratica, il Financial Times: l’inquilino di Palazzo Chigi riceve dai media italiani «un’adulazione vicina ai livelli nordcoreani», scrive l’autorevole quotidiano britannico in una corrispondenza da Roma firmata Guy Dinmore, e non è esattamente un complimento. L’osservazione - che appare non su un noto foglio comunista, ma sulla bibbia del liberismo occidentale - fa il paio con i dati diffusi ieri l’altro dall’Autorità per le telecomunicazioni, che denuncia lo spaventoso sbilanciamento nei telegiornali nostrani a favore del governo e dei partiti della maggioranza.
Il monitoraggio effettuato dall’Agcom copre il periodo da aprile a settembre: nelle testate Mediaset il tempo di parole a favore dell’esecutivo raggiunge punte tra il 60 e il 75% del totale, e le cose non vanno poi tanto meglio in Rai. Nello specifico, Studio aperto riesce addirittura a battere il Tg4, offrendo al governo l’82,2% del proprio spazio, mentre il Tg4 si «ferma» all’80,8%: quel che resta dell’opposizione sono briciole. Il Tg1 lascia invece il 48,16% al governo e il 27,6 all’opposizione, nel Tg2 lo sbilanciamento arriva al 65,7% contro il 18,8%, mentre il Tg3 si ferma, per l’esecutivo, al 50,1% con l’opposizione rappresentata al 35,8%. Divertente la dichiarazione di difesa di Mauro Mazza, direttore del Tg2: «In periodi di emergenza il governo parla, dice, rassicura, prende provvedimenti. È normale che sia così».
Hai voglia poi a dire che il premier è popolarissimo in Italia, come sostiene ancora il Financial Times, che riferisce di un sondaggio Ipr Marketing che dà la «quota di fiducia» data al premier dagli italiani al 62%. «Gli italiani stanno celebrenado il ruolo dello Stato salvatore», scrive Dinmore, e l’esempio-chiave è Alitalia. Certo, non è tutto l’oro quel che luccica, e i nodi prima o poi potranno venire al pettine visto che, come dice (sempre citato dall’Ft) Ilvo Diamanti, «il nuovo Stato salva banche e mercati, ma non la scuola e il welfare», iniziando a riempire le piazze. Dinmore non è tenero: «La luna di miele potrebbe accorciarsi: a Milano il processo a carico di David Mills, un avvocato inglese accusato di esser stato corrotto da mr. Berlusconi, è ripartito ieri».
Intanto però le fanfare di Re Silvio suonano più forti e colorite che mai: venerdì sera Rete4 ed Emilio Fede hanno brillato con uno speciale da antologia sulla visita del premier dall’amico George a Washington. Un’ode, punteggiata di vibrante entusiasmo, dove si narra alatamente dei due amici «che si intendono a colpo d’occhio» e che culmina nell’integrale del discorso dell’uomo di Arcore nel giardinetto della Casa Bianca: ebbene sì, il celebre discorso per il quale la Storia riserverà a Bush un posto di «grande, grandissimo presidente degli Stati Uniti d’America».
Insomma, l’emergenza media c’è, eccome. «Anche il Financial Times si occupa dell’anomalia italiana», dice Vinicio Peluffo, Pd, membro della Commissione di Vigilanza Rai. E aggiunge il senatore Vincenzo Vita, che «la lettura attenta dei dati forniti dall’Agcom non solo dà ragione al commento amaro del quotidiano britannico, ma fa riflettere sull’inaudita presenza del presidente del consiglio sugli schermi. La stessa Autorità avrà il compito di trarre le dovute conseguenze sulle violazioni del pluralismo e sulla necessità di un urgente riequilibrio comunicativo. Per esempio, invitando i contenitori domenicali a interrompere la prassi assai discutibile di chiamare in trasmissione ministri in carica. Il caso si ripeterà anche domani (oggi, ndr), con l’annunciata presenza a Canale 5 della ministra Mara Carfagna».
PS. «Ufficialmente il governo nordcoreano si presenta come uno Stato multipartitico guidato secondo l’ideologia politica della “Juche”, ovverosia dell’autosufficienza, ma molti osservatori occidentali lo considerano sottoposto ad un duro regime dittatoriale» (dalla voce “Corea del Nord”, Wikipedia).

l’Unità 19.10.08
Palladio, geometria e invenzione del Moderno
di Renato Barilli


ARCHITETTURA A Vicenza omaggio al grande artefice che con Leon Battista Alberti schiuse le vie della modernità architettonica. Soluzioni semplici e geniali con figure geometriche rielaborate ed essenziali

È più che giusto che per protagonisti d’eccezione si colgano a volo le occasioni dei centenari dalla nascita o dalla morte per metterne in scena grandiose celebrazioni. Questa volta l’onore tocca all’architetto Andrea Palladio (1508-1580), per il quale Vicenza, sua città d’elezione, ha predisposto un’ampia rassegna, in Palazzo Barbaran da Porto (a cura di Guido Beltramini e Howard Burn, fino al 6 gennaio, poi alla Royal Academy di Londra). Il Palladio fu uno dei principali fondatori di una linea che potremmo legare al concetto del moderno, in sé alquanto usurato, ma in questo caso esso va preso nel senso secondo cui negli anni Venti del Novecento si ebbe appunto un fondamentale Movimento Moderno, avente tra i vari membri anche il francese Le Corbusier, che molto opportunamente, in mostra, è menzionato come uno degli ultimi eredi dell’insegnamento da lui partito. In realtà, occorrerebbe fare un passo indietro di circa altri cento anni e venire a Leon Battista Alberti, nato nel 1406, cui, in occasione del relativo centenario, si sono tributati omaggi a dire il vero alquanto caotici, non nitidi e concentrati come questo riservato al Palladio. E dunque l’erede diretto risulta meglio trattato rispetto al progenitore. Ma appunto dall’Alberti al Palladio parte una tendenza irresistibile che altra volta mi è piaciuto siglare con un’etichetta scandalosamente anacronistica, quella di Minimalismo. Infatti essi hanno insegnato all’intero Occidente che l’architettura poggia su un numero ridottissimo di elementi primari, il pilastro, che sostiene l’architrave, con spigoloso e rigido angolo retto; o in luogo del pilastro può entrare anche la colonna, ma già meno bene; e certo vi sta pure l’arco, dono prezioso proveniente dall’arte romana. Attraverso una oculata distribuzione spaziale di questi pochi dati strutturali può venir fuori qualsivoglia edificio, ecco la grande lezione congiunta proveniente dai due. Che però, ovviamente, l’hanno applicata in modi alquanto diversi. L’Alberti non poteva non essere ligio ai canoni dell’Umanesimo, e dunque, questa sua concezione della scatola elementare doveva essere rapportata alle misure dell’uomo, venir concepita in modi raccolti e unitari. Il Palladio invece, per questo verso più lanciato verso traguardi ulteriori della modernità, non si sente vincolato al rispetto di quelle auree misure, e dunque tende a prolungare senza limite la scatola, facendone una stecca, per così dire, un edificio pronto a ospitare le complesse funzioni della burocrazia o dell’industria, gli alveari in cui l’individuo deve rassegnarsi ad essere racchiuso. Ma in entrambi i casi alla base di tutto c’è una griglia, una scansione implacabile di orizzontali-verticali.
Naturalmente una mostra dedicata a un architetto non può esibire le sue realizzazioni tridimensionali, deve limitarsi a schizzi e abbozzi, possibilmente autografi, ed è quanto la rassegna vicentina fa con abbondanza. Così, riesce perfettamente possibile seguire la marcia risoluta del Palladio verso il moderno, che qui potremo puntualizzare attraverso alcune tappe. Iniziando con Villa Pisani a Bagnolo, se ne veda in particolare il retro, dove compare appunto la scatola, a pareti lisce, sgombrate di ogni ornamento, anche Gropius avrebbe potuto firmare un progetto del genere. Palazzo Chiericati, poco dopo, segna un passo più avanti, a favore della nudità di una griglia strutturale, al punto che nelle ali dell’edificio scompare la riempitura muraria, il pretesto di continuare il corpo centrale dell’edificio con due verande aperte consente all’architetto di lasciar cadere appunto il riempitivo, e l’ossatura dell’edificio può apparire a nudo, quasi che egli potesse già valersi di pilastri in cemento armato. Un altro dei tratti che il Vicentino eredita dall’Alberti, ed è di nuovo un segno di avanzante modernità, di quella modernità che arriverà a condannare l’ornamento «come un delitto», sta proprio nella riduzione del ricorso a statue ornamentali. Queste ci sono, nella cimasa di Palazzo Chiericati, ma come prolungamenti dello slancio verticale delle strutture portanti, per ribadirlo, piuttosto che per nasconderlo. Ma veniamo alle modalità con cui il Palladio affronta il tema vincolante delle facciate delle chiese, portatrici di esigenze di culto da cui non è facile svincolarsi. Eppure anche in questo caso egli parte da una sorta di scatola essenziale, magari scandita lungo l’intera sua superficie dal motivo di colonne, però agili, simili a putrelle metalliche. E poi, per ricavare sia il timpano della navata centrale, sia quelli delle navate laterali, ovvero per interrompere il dominio dell’angolo retto, il nostro grande progettista inserisce un dimezzamento, un motivo in diagonale, il quadrato insomma viene diviso in due, ma mentalmente l’osservatore può effettuarne un raddoppio, e restituire la totalità dell’insieme. Questo il ritmo di scomposizione e immediata ricomposizione che il Palladio applica ai due gioielli veneziani, S. Giorgio Maggiore e il Redentore. Ma se si vuole ammirare la sua genialità all’opera, senza vincoli utilitari, si vadano a vedere i suoi disegni per illustrare i campi di battaglia, per esempio il dispiegamento delle legioni con cui Cesare andò alla conquista della Gallia. Sono davvero composizioni allo stato puro, estensioni illimitate di tanti moduli minimali che si associano in una grammatica al tempo stesso libera e vincolante.
Andrea Palladio 500 Vicenza Palazzo Barbaran da Porto Fino al 6 gennaio Catalogo Marsilio

Repubblica 19.10.08
De Benedetti: "Dopo quello di Berlino è crollato anche il muro di Wall Street"


ROMA - «Quello che è successo e succederà è un fatto storico che ricorderemo. Così come la crisi del ´29, passerà nella storia dell´economia». Lo ha detto il presidente di Cir e Gruppo Espresso, Carlo De Benedetti, durante la trasmissione Che tempo che fa condotta da Fabio Fazio, a proposito della crisi finanziaria. De Benedetti ha ricordato che ci sono state «due grandi cadute di muri: quello di Berlino ha fatto credere agli Usa di poter gestire il mondo da soli. Poi c´è stato il crollo del muro di Wall Street. Vi sembra poco?». La parte più acuta della crisi è stata risolta con un intervento da 2.000 miliardi, che De Benedetti considera giusto. «Ma ormai è chiaro - ha aggiunto - che siamo in recessione e la discussione è quale sarà il prossimo step. Penso che arriveremo alla deflazione. Praticamente è il consumatore a decidere di non comprare più perché aspetta che un prodotto costi meno». De Benedetti si augura che «ognuno di noi conquisti padronanza del proprio destino. La riforma siamo noi, io non credo alle riforme dall´alto, credo a quelle dal basso. L´Italia dopo la guerra era distrutta. I nostri padri hanno saputo guadagnare 23 punti di Pil rispetto alla Germania». De Benedetti ha definito, infine, quella italiana una «democrazia a scartamento ridotto se chi siede in Parlamento non è stato eletto ma nominato». Non si può «certo parlare di regime, però, se la libertà di espressione è totale».

Repubblica 19.10.08
La Lega: niente assistenza medica ai clandestini
di Vladimiro Polchi


Emendamento al Senato. E Maroni attacca la Libia: rispetti gli accordi sugli immigrati
È polemica per l´emendamento del Carroccio I sanitari: non siamo delatori

ROMA - Medici delatori per la polizia. Immigrati irregolari privi di cure mediche gratuite. Monta la protesta contro un emendamento al ddl sicurezza presentato dalla Lega Nord. «Salta il diritto alla salute per gli stranieri», denunciano Medici senza Frontiere, Asgi e Società italiana di medicina delle migrazioni. Su altro fronte il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, accusa: «Le classi differenziate per bambini italiani e stranieri rischiano di far nascere delle banlieu». Ma il ministro dell´Interno, Roberto Maroni, è di ben altra opinione: «L´Italia è uno dei Paesi che integrano di più». Poi, rivolto alla Libia: «Spero che il governo libico, oltre a pensare a Unicredit, nei prossimi mesi si convinca ad attuare gli accordi sul controllo dell´immigrazione già sottoscritti».
Al centro delle polemiche è un emendamento presentato dal Carroccio in Senato, che mira a modificare l´articolo 35 del Testo unico sull´immigrazione. In particolare si vuole cancellare il comma 5, in base al quale «l´accesso alle strutture sanitarie da parte dello straniero non in regola con le norme sul soggiorno non può comportare alcun tipo di segnalazione all´autorità». Quale è la logica di questa norma? «Non solo quella di curare l´immigrato irregolare - spiega Salvatore Geraci, presidente della Società italiana di medicina delle migrazioni - ma di tutelare la collettività: il rischio di denuncia contestuale alla prestazione sanitaria spingerebbe infatti a una clandestinità sanitaria pericolosa per l´individuo, ma anche per la popolazione italiana in caso di malattie trasmissibili». Insomma, si rischia di trasformare i medici in delatori. Non è tutto. L´emendamento leghista mira anche a eliminare la gratuita delle cure per gli stranieri. Critica l´Asgi (Associazione studi giuridici sull´immigrazione): «La previsione di sopprimere la gratuità della prestazione urgente o essenziale erogata agli stranieri non iscritti al servizio sanitario nazionale e privi di risorse economiche sufficienti, cozza con l´articolo 32 della Costituzione, che tutela la salute come fondamentale diritto dell´individuo, garantendo cure gratuite agli indigenti». Sul piede di guerra anche Medici senza Frontiere, che dal 2003 a oggi ha attivato in Italia 35 ambulatori per stranieri privi di permesso di soggiorno, visitando 18mila pazienti. «Con questo emendamento leghista - denuncia Antonio Virgilio, capo missione dei progetti italiani di Msf - si mette in seria discussione uno dei diritti fondamentali dell´uomo, quello alla salute».
Sul fronte immigrazione si registra poi lo scontro tra Maroni e Chiamparino, intervenuti ieri a Saint Vincent, al convegno di studi della Fondazione Donat-Cattin. A dare fuoco alle polveri è il sindaco di Torino: «Il provvedimento del governo che prevede classi differenziate per bambini italiani e stranieri rischia di essere la base per un fenomeno banlieue». Il ministro Roberto Maroni replica: «L´Italia è tra i primi Paesi europei per la qualità dell´integrazione. Siamo al settimo posto su 25 paesi dell´Unione e se si considerano i cinque Paesi con il più alto tasso di immigrazione (Italia, Regno Unito, Spagna, Germania, Francia), il nostro è al primo posto». Poi aggiunge: «L´Italia dà asilo politico a oltre 8 mila persone all´anno». E infine: «Per risolvere il problema dell´immigrazione dalla Libia c´è un modo, occorre che il governo libico attui un accordo che già c´è».

Corriere della Sera 19.10.08
La ricerca Presi in esame gli abitanti di 90 Paesi. I cittadini intervistati anche sul benessere, legato alle condizioni economiche
I risultati Il primo studio è stato fatto nel 1981. «Nell'ultimo quarto di secolo c'è stato un miglioramento per l'umanità»
La classifica mondiale della felicità
In testa i Paesi dell'Est europeo. Italia in calo «Dove aumentano le libertà, l'indice sale»
di Federico Fubini


C'è una foto che rischia di passare alla storia dei crolli di questi mesi, come i bronzi di Lenin rovesciati sul selciato simboleggiarono la caduta del comunismo. È stata scattata a New York il mese scorso. Una ragazza in un elegante, costoso tailleur, accovacciata sul marciapiede, scrive a pennarello un insulto su un poster buttato per strada. Il volto nel quadro è quello di Richard Fuld, il capo di Lehman Brothers. Gli impiegati passano davanti a quell'icona abbattuta mentre escono dal grattacielo della banca fallita, e a turno vi lasciano una frase. Spesso sono sarcastici «grazie Dick!».
La ragazza, neo-disoccupata, sorride mentre scrive. E ora che esce a pezzi il mito della ricchezza smodata, dell'aumento dei consumi come misura principale della felicità, quel Fuld abbattuto potrebbe essere la copertina di uno studio che prova a ribaltare alcune presunte certezze di questi anni di crescita globale vertiginosa. L'articolo su «Sviluppo, libertà e felicità crescente» è appena stato pubblicato sul prestigioso Perspectives on Psychological Science. Uno dei quattro autori è Roberto Foa, studente italo-inglese di PhD di scienze politiche a Harvard e associato di ricerca della World Value Survey, il progetto mondiale di sondaggi. Gli altri sono politologi e psicologi delle Università del Michigan e di Brema.
La conclusione dei quattro studiosi è che l'umanità ha conosciuto nell'ultimo quarto di secolo «un enorme aumento della felicità». Ma un simile balzo sarebbe da collegare più al progresso delle libertà personali e politiche in quasi tutti i Paesi del mondo, che al miglioramento delle condizioni materiali. Se questo è vero, resterebbero allora da approfondire i risultati dello studio relativi all'Italia, dove ad esempio la quota di popolazione che si definisce «molto felice» è in calo e resta più bassa che in quasi tutti gli altri Paesi europei.
Ma Roberto Foa e i suoi tre colleghi non si soffermano troppo sui singoli casi dell'Europa occidentale. Il loro studio è globale, su un campione di 90 Paesi che coprono i nove decimi della popolazione mondiale e basato su 350 mila interviste della World Value Survey. Le domande, sempre le stesse dall'Ucraina alla Cina, dall'Africa subsahariana agli Stati Uniti, spingono gli intervistati a valutare il proprio livello di «felicità» e di «soddisfazione nella vita» (o benessere). La prima è intesa come espressione degli stati d'animo, la seconda viene legata alle condizioni di sviluppo economico. Esattamente il tipo di domande di cui nell'Occidente agiato, o minacciato dall'impoverimento dei ceti medi, si occupano guru, santoni e medici che a pagamento offrono consolazione di vario tipo.
La differenza qui è che il prodotto sono tabelle sorprendenti. Quella più originale mostra come nei 52 Paesi per i quali sono disponibili dati su almeno un decennio (ma per molti il sondaggio va dall'81 al 2007), il senso di benessere individuale è aumentato in 40 casi ed è diminuito solo in 12. In media, la quota globale di coloro che si definiscono «molto felici» sale del 7%. In Italia, passa dal 10% dell'81 al 18% del '99 per ricadere poi al 16% del 2007; in Francia, invece, si va dal 19% dell'81 a un picco del 36%, per poi ricadere al 31% del 2007. Ma, appunto, non si tratta solo di una fotografia delle condizioni materiali di vita perché ad esempio anche l'Ungheria, un caso di transizione difficile dal comunismo al mercato, «batte» l'Italia salendo dall'11% al 17% di popolazione che si dichiara «molto felice». E nei punteggi della World Value Survey persino la Russia scavalca l'Italia in fatto di «felicità», benché resti nettamente indietro sui dati più economici di benessere o «soddisfazione nella vita».
Possibile? Gli autori ricordano la conclusione di Tucidide, lo storico aristocratico ma esiliato dall'Atene del quinto secolo avanti Cristo: «Il segreto della felicità è la libertà». E credono di trovarne le prove nei loro dati. Da un lato c'è quella che chiamano «la legge dei rendimenti calanti», ossia l'assuefazione: una volta risolto il problema della sussistenza e raggiunto un certo benessere materiale, l'aumento del reddito contribuisce via via sempre di meno a quella strana condizione che chiamiamo «felicità».
Insomma i soldi non fanno, o non farebbero, la felicità. Dirlo suona banale o peggio ipocrita, eppure gli autori ne indicano un riscontro nell'evoluzione della galassia dei Paesi dell'ex blocco sovietico da quando è caduto il comunismo. Il collasso del sistema ha creato crisi economica e catastrofi sociali ovunque oltre l'ex cortina di ferro, ma l'aprirsi di nuove possibilità di scelta ha avuto lo stesso un effetto psicologico benefico sulle persone. Non è un caso se i Paesi che nello studio mostrano il coefficiente più elevato di «felicità» sono Moldova (2.52), Romania (2.44), Bulgaria (2.40). Osservano Foa e soci: «Negli anni dopo l'81 la Russia ha vissuto una liberalizzazione politica e un trauma economico. Mentre i livelli di felicità personale salivano, quelli di soddisfazione (materiale,
ndr) nella vita cadevano bruscamente». Altro esempio simile è quello degli ungheresi, meno soddisfatti del loro tenore di vita ma più «felici», mentre la Bielorussia sembra la riprova all'opposto: con la Serbia, è l'unico Paese ex socialista in cui coloro che si dichiarano «molto felici» non aumentano. Ma il governo di Minsk è anche l'unico rimasto una dittatura totalitaria.
Insomma se i soldi non fanno la felicità globale, questa sarebbe favorita da quelle che Foa e colleghi chiamano «istituzioni»: democrazia, Stato di diritto, tolleranza. Poco importa se queste siano garantite da una socialdemocrazia alla scandinava o dal superliberismo all'australiana. «Lasciate alla propria autodeterminazione, le persone sono perfettamente capaci di organizzare la propria felicità», concludono gli autori. Essa sarebbe insomma sinonimo di possibilità di scelta, di espressione e di affermazione anche per le minoranze etniche o sessuali.
Ovvio che le disuguaglianze sociali complicano gli equilibri comunque. Ma non stupisce se nella World Value Survey la Cina iper-autoritaria emerge con uno dei maggiori cali al mondo nella quota dei cittadini che si dicono «molto felici», anche dopo vent'anni di crescita economica a doppia cifra. Né meraviglia che dopo otto anni di Vladimir Putin i russi siano più «soddisfatti della vita», ma meno «felici», che ai tempi disastrati di Boris Eltsin. Perché la sfida è qui: dagli anni '80 in poi, l'Occidente era riuscito almeno a essere (a volte) credibile nel produrre libertà. A patto, ovviamente, che il crollo dell'icona di Fuld, con il ritorno del paternalismo di Stato in Occidente, non porti anche effetti collaterali indesiderati.

Corriere della Sera 19.10.08
I ricercatori spiegano cosa c'è dietro il sentirsi meno felici nel nostro Paese
«Gli italiani? Hanno poche opzioni»
«E spesso si sentono perdenti nel confronto internazionale»
di F. Fub.


Come si faccia a lavorare a un sondaggio sul 90% dell'umanità, a Roberto Foa non va neppure chiesto: per lui è normale. A 26 anni lo fa da tempo come associato di ricerca della World Value Survey, l'organizzazione internazionale che segue le principali tendenze nell'opinione pubblica internazionale. E a forza di raccogliere quei dati, il giovane studioso italo-inglese di Harvard ha capito che, nell'era della globalizzazione, neppure lo sviluppo economico da solo può bastare. Non se non si accompagna a nuove possibilità di decidere come esprimersi nella vita personale e civile, quale stile di vita seguire.
Foa lo ha notato in aree del mondo dove il reddito è bassissimo, ma anche quei dati aiutano a spiegare il paradosso italiano. «In Mali, Burkina Faso, Tanzania e in altri Paesi democratici del-l'Africa subsahariana — dice Foa — le persone intervistate tendono a dichiararsi nel corso degli anni meno soddisfatte, ma più felici». La «soddisfazione » deriva dal confronto dei propri beni materiali con quelli del vicino, spiega Foa. La «felicità » riguarda invece l'eterna domanda sul «chi vuoi essere» o l'obiettivo che vuoi raggiungere, rispetto a ciò che sei. Quegli africani meno soddisfatti, ma più felici, non indicano che il denaro non conta: fanno capire che esiste anche un benessere impossibile da monetizzare.
Se questo è vero resta da capire perché l'Italia, la terra della qualità della vita, sia relativamente indietro nelle classifiche della World Value Survey.
È vero che dall'81 al 2007 nel Paese il «benessere soggettivo» (la somma di soddisfazione materiale e felicità) è aumentato più che in Germania, Danimarca o negli Stati Uniti. Ma è cresciuto meno che in Ucraina, Moldova, Bulgaria o Spagna. E soprattutto, in base ai sondaggi, nella graduatoria in termini assoluti gli italiani emergono fra i più in ritardo in Occidente e indietro anche rispetto a Paesi più poveri (ma non più liberi) come Nigeria, Guatemala, Ghana, Colombia.
La cucina e la bellezza artistica o naturale sembrano non bastare più agli italiani. Anche l'impressione che il tenore di vita sia minacciato dalla nuova concorrenza internazionale fa la sua parte. Foa propende però per una una spiegazione psicologica. «L'Italia registra un forte aumento della felicità negli anni '60 e '70, mentre la trasformazione sociale dagli anni '80 in poi non è stata così forte come in Spagna o in Irlanda», osserva. In altri termini, è ormai da una generazione che gli italiani non vivono più «un aumento nella libertà di scelta personale rapido come quello di altri Paesi europei, e ciò contribuisce a diffondere l'impressione nelle persone di avere opzioni più limitate nella vita».
Ma benessere mentale ed economico non si separano facilmente, ed è qui che si fa sentire la stagnazione prolungata del potere d'acquisto. Il confronto internazionale demoralizza, sostiene Foa: «Negli anni '80 all'Italia riuscì il famoso sorpasso sulla Gran Bretagna in termini di prodotto interno lordo — ricorda il ricercatore —. Ma da almeno un decennio l'aumento del reddito per abitante è fra i più bassi d'Europa e l'essere rimasti indietro rispetto alla Spagna nella classifica nel potere d'acquisto colpisce l'amor proprio». Come dire che le forme contemporanee di «patriottismo e orgoglio nazionale» non si limitano affatto al tifo alle Olimpiadi o ai Mondiali: filtrano giù giù, fino all'autostima degli italiani in carne ed ossa.

Corriere della Sera 19.10.08
L'iniziativa Il progetto Unitalia e una crescita senza paragoni: da 104 matricole universitarie nel nostro Paese nel 2003 a 1.800 nel 2007
Tutor e software: gli atenei italiani puntano alla Cina
di Marco Del Corona


3.204 gli studenti cinesi che hanno studiato nelle università italiane durante lo scorso anno accademico

PECHINO — Vengono da Shanghai, dalla capitale, dai centri avanzati della costa come Dalian o Xiamen, da metropoli dell'interno come Chongqing: rappresentano una Cina tutta diversa da quella dell'immigrazione di chi arriva per lavorare. Sono ragazzi, per studiare scelgono le università italiane. Sempre di più, e sono una risorsa: «L'Italia sta cercando di recuperare posizioni rispetto alla Cina, riusciamo a farlo anche grazie all'accoglienza dei loro studenti», secondo la chiave di lettura dell'ambasciatore a Pechino, Riccardo Sessa. Le cifre rivelano una crescita che non ha paragoni: se nel 2003 le matricole universitarie cinesi in Italia erano 104, nel 2006 erano decuplicate (mille) e lo scorso anno sono diventate 1800. Nel 2007 erano 3204 i cittadini della Repubblica Popolare impegnati in attività di studio in nostre istituzioni.
La capacità di attrazione esercitata dalle università italiane è considerata un investimento. I grandi Paesi europei, Usa, Canada, coltivano con speciale cura gli allievi asiatici, e ieri alla China Education Exhibition di Pechino — una fiera che tocca le maggiori città — i loro padiglioni mostravano una disinvolta consuetudine con il mercato cinese. Tuttavia, qui per la prima volta un gruppo di istituzioni italiane (18) ha partecipato in modo coordinato: è il segno visibile del progetto Unitalia, lanciato quest'anno proprio per valorizzare e rendere più fluido l'accesso degli studenti cinesi al sistema universitario italiano.
Promossa e gestita dalla Fondazione Italia-Cina (presidente è Cesare Romiti) e finanziata con 2 milioni di euro dalla Fondazione Cariplo, Unitalia è nata in febbraio, sostenuta dall'ambasciata, integrandosi con i consolati e l'Istituto italiano di Cultura. Vi aderiscono università e istituzioni, la Regione Lazio, e nelle sue prospettive include «borse di studio di aziende italiane per giovani cinesi che poi — spiega il direttore del progetto, Alberto Ortolani — diventeranno ambasciatori del sistema Italia in Cina».
L'impianto di Unitalia copre il percorso degli studenti dalla Cina fino all'accoglienza in Italia. L'informazione sul-l'offerta di facoltà e corsi e la possibilità di avvicinarsi alla lingua, vengono garantiti dal sostegno agli istituti di italianistica esistenti e dall'invio in Cina di nove tutor. Cruciale il nodo dei visti. La cui procedura è stata semplificata. Unitalia funge da raccordo fra le università e il consolato in modo che la concessione del visto vada di pari passo con l'iter dell'iscrizione. Tempi brevi: una domanda presentata ai primi di luglio viene accolta a metà agosto e il primo settembre lo studente può partire per l'Italia. Rigoroso — assicurano — il controllo sull'autenticità dei titoli di studio cinesi, anche grazie al coinvolgimento delle autorità di Pechino: delle ultime 1.620 domande, solo 10 avevano diplomi contraffatti. Approdati in Italia, gli studenti cinesi trovano un sistema di accoglienza gestita da Ital.co.ser. (stanze e appartamenti), un software per l'apprendimento della lingua (Didael), una rete di tutor- mediatori in 5 città e negli atenei.
In Cina, intanto, si dissoda il terreno. Si lavora per intercettare chi cerca in un'università italiana «eccellenze che non si trovano altrove» e non chi ci considera un ripiego. E si pensa al prossimo obiettivo: il coinvolgimento delle imprese e l'insegnamento dell'italiano nelle superiori.

Corriere della Sera 19.10.08
Epurazioni. Giovanni Sedita ricostruisce su «Nuova storia contemporanea» i processi a Nicola Pende e Sabato Visco
Manifesto della razza: perché nessuno pagò
di Dino Messina


Uno dei tanti misteri italiani è perché gli intellettuali che appoggiarono la politica razziale del fascismo nel dopoguerra non pagarono pegno. In un interessante saggio in uscita sul prossimo numero di Nuova storia contemporanea, Giovanni Sedita, allievo di Mauro Canali, indaga sull'«epurazione mancata dei firmatari del Manifesto della razza».
La scena d'inizio del saggio sono le proteste di alcuni studenti di medicina dell'ateneo romano La Sapienza nel dicembre 1948 per il ritorno sulla cattedra di patologia di Nicola Pende. La stessa scena si ripetè un mese dopo, nel gennaio 1949 per un altro grande ritorno, quello del fisiologo Sabato Visco, ex capo dell'ufficio razza al ministero della Cultura popolare. Ma già nel '46 alla Sapienza erano stati reintegrati lo zoologo Edoardo Zavattari e il demografo Franco Savorgnan. Quanto agli altri firmatari, non c'era modo di procedere, perché lo psichiatra Arturo Donaggio era morto e gli assistenti Guido Landra, il vero e unico estensore del manifesto, Lidio Cipriani, Lino Businco, Leone Franzi e Marcello Ricci erano usciti dall'accademia, quindi non erano «epurabili».
Sedita ricostruisce i tre gradi di giudizio attraverso cui passarono i quattro cattedratici e attraverso le requisitorie dei commissari per l'epurazione sostenitori dell'accusa e i ricorsi degli imputati giunge alla conclusione che se tecnicamente gli scienziati sotto accusa non firmarono il manifesto razzista pubblicato nel luglio 1938, tuttavia con i loro scritti contribuirono alla costruzione dell'ideologia razzista e antisemita.
Dopo l'epurazione di 23 professori, tra cui Pende, Visco, Savorgnan e Zavattari, decisa nel giugno 1944 dal colonnello americano Charles Poletti, il governo provvisorio italiano si fece carico della questione con un testo meno duro di quello alleato. Una prima sentenza nel dicembre 1944 respinse le accuse del commissario Mauro Scoccimarro e accolse la linea difensiva degli imputati: in difesa di Pende erano intervenuti testimoni ebrei come il rabbino capo di Roma, Israel Zolli; Visco aveva esibito addirittura una «certificazione di combattente per la libertà ». Per tutti e quattro gli imputati era stata accettata la versione del dottor Marcello Ricci, ex assistente di Zavattari, il quale aveva dimostrato che nessuno degli accusati aveva firmato il manifesto.
Nel secondo grado di giudizio le cose furono più difficili per gli imputati, perché il nuovo commissario Ruggiero Grieco citò un articolo di Nicola Pende pubblicato nell'ottobre 1938 da Vita universitaria, ricco di affermazioni razziste, oltre a una sua conferenza a Taranto nel 31 maggio 1940 in cui difendeva «le leggi antisemitiche ». Tuttavia queste non furono considerate prove di razzismo ma soltanto di testimonianze di adesione all'ideologia fascista: per Pende si decise soltanto una sospensione di sei mesi dal servizio.
Il terzo grado si svolse in sede politica, dopo un nuovo decreto emesso «per rimediare alle iniquità sino allora commesse », nel Consiglio dei ministri del 20 gennaio 1946. Le posizioni in discussione erano soprattutto quelle di Pende e Visco. Alla fine 8 ministri su 12 votarono contro il loro reinserimento (tra gli innocentisti Alcide De Gasperi e Mario Scelba, favorevoli alla messa a riposo Manlio Brosio, Emilio Lussu, Palmiro Togliatti). A nulla servì la testimonianza di Giuseppe Nathan, capo delle comunità israelitiche, il quale ribadiva il gesto «eroico» di Pende verso «23 israeliti». Ma dopo la «messa a riposo » firmata da De Gasperi e da Enrico De Nicola, il Consiglio di Stato nel giugno 1947 accolse i ricorsi degli accusati a causa di un vizio di forma.
Fu così che la politica razziale del regime risultò senza razzisti.

Corriere della Sera Salute 19.10.08
Fitoterapia Gli studi confermano l'efficacia dell'iperico
Depressione grave: funziona la cura verde
Come i farmaci, meno effetti collaterali
di Antonella Sparvoli


Già si sapeva che l'iperico è efficace per depressioni lievi e moderate, la sorpresa è che funzioni anche in quelle gravi
Pastiglie addio, cureremo anche la depressione grave con un'erba? Che l'iperico, o erba di San Giovanni (una pianta erbacea perenne) fosse utile nei casi di depressione lievi o di modesta entità già si sapeva, ma ora una rassegna della Cochrane Library su ben 29 studi clinici dimostrerebbe l'efficacia dell'iperico anche nei casi di depressione grave. Negli studi l'erba di San Giovanni è stata confrontata sia con placebo (farmaco inattivo), sia con farmaci antidepressivi di prima generazione (triciclici) e di più recente introduzione (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, Ssri). I dati ottenuti su più di 5000 pazienti indicano che questa pianta medicinale non avrebbe nulla da invidiare a triciclici e Ssri, con il vantaggio di essere meglio tollerata e comportare minori effetti collaterali.
«L'estratto di iperico contiene sostanze farmacologicamente attive che agiscono sul sistema nervoso — commenta Giovanni Biggio, presidente della Società italiana di neuropsicofarmacologia —. Si tratta di un rimedio di derivazione naturale, ma non per questo "innocuo". Fatta questa precisazione, non mi sorprende che questa erba possa funzionare anche nelle depressioni più gravi. Verosimilmente, ha effetto in pazienti nei quali avrebbero funzionato, forse anche meglio, i farmaci tradizionali. Noi oggi sappiamo che gli antidepressivi non sono efficaci in tutti: ci sono infatti individui che, probabilmente per ragioni genetiche, non rispondono alle terapie. Purtroppo in questi casi né iperico, né farmaci possono molto».
Che si ricorra all'erba di San Giovanni o ai farmaci, il segreto del successo delle cure sta nell'intervenire precocemente e evitare ricadute. «Fatta la diagnosi di depressione, la sfida è "azzeccare" il farmaco più adatto, somministrarlo nelle dosi appropriate e per il tempo necessario — fa notare Biggio —. Oggi sappiamo che nelle forme di depressione lievi la cura va protratta per almeno sei mesi, anche se già dopo poche settimane il paziente sta meglio. Nelle forme importanti, il trattamento deve invece durare almeno due anni. Gli studi su pazienti con depressione maggiore mostrano infatti che le ricadute sono circa il 10% se il paziente è curato a lungo, mentre salgono al 60-70% se la terapia viene troncata dopo sei mesi. E riprendersi dalle ricadute è difficile perché le cellule nervose tendono ad atrofizzarsi e non riescono più a recuperare ».
Più scettico è Carlo Altamura, direttore della Clinica psichiatrica del Policlinico di Milano: «Indubbiamente l'iperico ha un'attività psicostimolante che in alcuni casi può giovare, ma non nella depressione maggiore. Noi sappiamo che nelle forme gravi di depressione il trattamento farmacologico deve essere prolungato, ma non abbiamo dati sull'uso dell'iperico per lunghi periodi. Non sappiamo inoltre se questo genere di farmaco può portare a una remissione completa».

Corriere della Sera Salute 19.10.08
Attenti agli incroci pericolosi

Nella medicina popolare l'iperico è stato utilizzato per vari disturbi: dalla bronchite all'insonnia.
Oggi è impiegato quasi solo come antidepressivo e richiede la prescrizione medica. Spiega Fabio Firenzuoli, direttore del Centro di medicina naturale dell'ospedale San Giuseppe di Empoli: «Il suo estratto inibisce la ricaptazione della serotonina e aumenta la disponibilità di dopamina e noradrenalina: non agisce come una singola classe di antidepressivi, ma ha un effetto misto.
Ha un ottimo profilo di sicurezza. Si possono però avere problemi quando viene preso con altre medicine (digitale, anticoagulanti, ciclosporina, inibitori della pompa protonica, pillola contraccettiva e tamoxifene) di cui può potenziare o ridurre l'azione. Può interferire anche sull'azione degli antidepressivi convenzionali. Va usato quindi sotto stretto controllo medico».

Corriere della Sera Salute 19.10.08
Approvato in Usa. Contro la tristezza anche lo stimolatore «magnetico»
di Cesare Peccarisi


Col nuovo millennio, nei casi di depressione maggiore dove i farmaci non riescono a funzionare o procurano più effetti collaterali che benefici, la Fda, la Food and Drug Administration statunitense, ha imboccato la strada dei trattamenti non farmacologici. La prima metodica di questo tipo, approvata nel 2001, è la Vns, la stimolazione vagale che "resetta" i neuroni cerebrali con microimpulsi elettrici che risalgono al cervello lungo il nervo vago del collo.
Adesso la Fda ha approvato anche la rTMS (repetitive Transcranial Magnetic Stimulation), la stimolazione magnetica transcranica: ogni impulso elettrico genera anche un campo magnetico e questo, adeguatamente indirizzato e pulsato, può influenzare i circuiti nervosi, il cui funzionamento si basa su processi elettrochimici. Lo studio che ha convinto la Fda è stato condotto da Phil Janicak, della Rush University di Chicago, che ha trattato i pazienti per 4-6 settimane con sedute quotidiane di 40 minuti.
La TMS è diventata trattamento quasi per caso. Era nata per osservare l'attività del cervello attraverso i campi magnetici generati dai suoi circuiti, ma negli anni 90 ci si accorse che quando a fare questo esame erano pazienti depressi, ne uscivano più sereni e tranquilli. Con piccole modifiche, la macchina fu trasformata in rTMS che invia impulsi su particolari aree del cervello ed è proprio questo modello che la Fda ha approvato con alcune limitazioni, fra cui: non essere gravide, in trattamento con triciclici o neurolettici, avere meno di 14 anni, soffrire di cardiopatie e, soprattutto, avere familiarità per epilessia. Gli stimoli ad alta frequenza della rTMS sembrano bloccare l'eccitabilità neuronale: indirizzandoli verso la zona da cui originerebbe la depressione (lobo frontale sinistro) si possono ridurre le crisi con cicli di 5 applicazioni di mezz'ora (il paziente avverte solo un gran rumore) per 5 giorni consecutivi.
Qualche anno fa il New York Times, sull'onda di un mai dimostrato impiego della TMS per memoria e resistenza al sonno, auspicava autostimolatori "casalinghi", ma un utilizzo non guidato da mani esperte potrebbe teoricamente favorire la formazione di circuiti nervosi anomali inducendo manifestazioni psicopatologiche gravi.
Il problema della rTMS è infatti l'indeterminatezza: nessuno sa dove un impulso magnetico "va a parare". Stanno cercando di capirlo Giovanni Bersani della Sapienza di Roma, Carlo Miniussi del Fatebenefratelli di Brescia, Antonio Petralia e Vincenzo Rapisarda dell'Università di Catania e Paolo Maria Rossini dell'Università Campus Bio-Medico di Roma, centri dove la TMS viene usata per trattare anche psicosi, disturbo ossessivo e bipolare o demenza di Alzheimer.