L’allarme di Mussi. L’ecatombe dei ricercatori
di Maristella Iervasi
Settantamila ricercatori in Italia: oltre la metà è precario. Il rischio più imminente è che perdano il posto a migliaia a causa del decreto 133 della Gelmini che ha chiuso il rubinetto delle stabilizzazioni. La denuncia arriva dall’ex ministro dell’Università, Fabio Mussi, che svela i retroscena di una riforma che intende uccidere la scienza nel nostro Paese. «La scure Tremonti si è abbattuta pure sugli atenei. Che fine hanno fatto i soldi del fondo per la ricerca?».
Anche Fabio Mussi come ministro dell’Università è stato contestato dagli studenti. Ma è con la Gelmini che la Pantera è tornata in libertà, a «ruggire» rabbiosamente in tutti gli Atenei italiani. La ministra di Forza Italia in compagnia del duo Tremonti-Brunetta ha messo letteralmente la ricerca «in mutande» - come recita lo slogan del movimento anti-Gelmini. E Mussi ne svela i retroscena. «Il ministro ha detto che l’Università rischia la fine di Alitalia? Lo dice - sottolinea l’esponente di Sinistra democratica - per nascondere altri fatti ancor più gravi: la liquidazione di un’intera generazione di ricercatori. È in atto un olocausto di migliaia e migliaia di persone».
I ricercatori in Italia sono circa 70mila tra pubblico e privato. E oltre la metà di questi è precario. In tutti i campi: dalla ricerca medica e farmacologica all’Aids; dal campo sociologio a quello chimico e matematico. Il decreto 133 non solo ha ridotto il turn over del 20% e ha tagliato con l’accetta il finanziamento pubblico di un miliardo e mezzo ma ha anche «chiuso» il rubinetto già risicato delle stabilizzazioni e ha scritto la parola fine sui contratti flessibili. Risultato: «Stiamo perdendo la meglio gioventù - sottolinea Mussi -. E francamente non so proprio come potrà continuare a reggersi la nostra ricerca scientifica in queste condizioni. Nonostante i bassi investimenti finora si erano mantenuti livelli d’eccellenza, ma adesso... Addirittura i finanziamenti specifici per enti di ricerca sono stati trasferiti pari pari sull’operazione Ici. Che disastro!».
Andiamo con ordine e leggiamo per benino il contestatissimo 133. L’articolo 49 del decreto norma il lavoro flessibile nelle pubbliche amministrazioni. Di fatto è stato scritto ex novo per sostituire l’art.36 del decreto 165 del 2001, quello che introduceva il lavoro atipico ed estendeva quello flessibile in tutte le amministrazioni pubbliche. La «correzione» di questo norma stabilisce che le pubbliche amministrazioni «non possono ricorrere all’utilizzo del medesimo lavoratore» nell’arco di un quinquennio. «Il che vuol dire - precisa Mussi - che i precari di tutti gli ambiti lavorativi restano a spasso. Non possono più essere impiegati come lavoratori flessibili e non verranno neppure stabilizzati».
L’ultima Finanziaria Prodi conteneva una regola analoga ma consentiva per l’Università e la ricerca delle eccezioni. Ad esempio: se i contratti attingevano da fondi europei o per aree sottosviluppate si potevano rinnovare. La legge di bilancio 2007, all’articolo 519, consentiva inoltre la stabilizzazione di un certo numero di precari nelle pubbliche amministrazioni o il finanziamento per un piano straordinario di assunzione di ricercatori nelle Università ed enti di ricerca. Ed infine era stato istituito un fondo di 20-40 e 80 milioni di euro in 3 anni per l’Università e la ricerca. Le Università potevano quindi indire bandi di concorso per nuove assunzioni, circa 4mila. In pratica, Stato e gli Atenei co-finanziavano i posti. «Un regolamento innovativo - sottolinea l’esponente di Sinistra democratica -, ma la bocciatura della Corte dei Conti arrivò a crisi di governo aperta...». Il governo Prodi aumentò lievemente anche i fondi ordinari. «Da ministro mi battei in maniera furibonda, - ricorda Mussi, tuttavia un aumento ci fu.».
Tutto questo oggi con trio Tremonti-Gelmini-Brunetta è letteralmente sparito. Niente più norme per le stabilizzazioni dei precari, i contratti flessibili non si possono rinnovare per legge, la scure Tremonti si è abbattuta oltre che sulla scuola anche sugli Atenei, tagliando un miliardo e mezzo nei prossimi 3 anni. «Per migliaia e migliaia di giovani ricercatori precari - precisa Mussi - non c’è alcuna aspettativa di un futuro: è stato messo uno stop al rinnovo dei contratti a tempo determinato o flessibile. E per queste persone non c’è alcuna possibilità di concorso».
Tanti i quesiti aperti. «Che fine hanno fatto i soldi del fondo per i ricercatori che sono ancora a bilancio? si domanda Mussi -. Perchè si è scelto di buttare fuori un’intera generazione di giovani»?. E ancora: «Chi farà ricerca in Italia? I vecchi prof e i neo laureati a gratis?».
Per l’Università e la ricerca, pubblica e privata, l’Italia spende meno del 2% del Pil. Lo Stato spende il 20-30% in meno dei paesi europei, del Nord America e anche dell’Asia. Le imprese italiane in ricerca e innovazione spendono mediamente meno della metà delle loro consorelle europee. Nonostante tutto i nostri ricercatori a livello internazionale sono valutati terzi al mondo per produttività procapite. Insomma, fino ad oggi l’Italia spende una miseria (è 32esima nella classifica mondiale per formazione superiore e ricerca) e tuttavia ottiene risultati brillanti. La politica del centrodestra sembra voler chiudere le porte del futuro.
l’Unità 20.10.08
Nel vortice di Tremonti
Gelmini, Bondi, Prestigiacomo: quando i ministri fanno harakiri
I ministri si fanno del male, sono in opposizione con i loro ministeri, smontano anziché costruire, finiscono in vortici negativi da cui non sanno esattamente come si fa a uscire. Negli ultimi giorni il governo Berlusconi può vantare una serie di autogol abbastanza rilevanti, e piuttosto curiosi. Il primo fra tutti è quello di Mariastella Gelmini, ministro della Pubblica Istruzione. Non è tanto la protesta degli studenti in tutta Italia il punto, quanto il fatto che la sua riforma va a tagliare, ridimensionare e sminuire l’importanza proprio della scuola. Un tempo nelle vecchie logiche democristiane, anche i ministri peggiori si inventavano qualcosa per dimostrare che i loro ministeri erano importanti, che tutto doveva essere in espansione (anche quando non poteva esserlo), che se c’erano tagli, questi tagli venivano compensati da altro. Ma ora tutto è cambiato. Sembrano, più che dei ministri, dei commissari liquidatori.
Gelmini ha dato il meglio si sé con tutta una serie di tagli che riducono anche il suo ruolo, e che dimostrano quanto poco importi a questo governo di scuola e istruzione: adozione del maestro unico, la revoca del tempo pieno, il taglio agli organici e agli orari di lezione, il blocco del turnover, la chiusura dei plessi scolastici nei piccoli centri. Soprattutto la chiusura dei plessi e i tagli a orari e agli organici sono un ridimensionamento che un tempo un ministro, per il proprio ministero, non avrebbe mai accettato.
E il caso della Gelmini non è isolato. Venerdì Stefania Prestigiacomo, ministro dell’Ambiente, ha rilasciato un’intervista dal Corriere della sera che sembrava abbastanza surreale. Di fronte alle critiche di Stavros Dimas, il ministro per l’Ambiente europeo, che ha ritenuto inattendibili le stime delle ricadute economiche sulle industrie italiane del «Pacchetto clima energia» proposto dalla Commissione europea, Stefania Prestigiacomo non ha esitato ad ammettere una sorta di impossibilità a fare il proprio mestiere di ministro dell’Ambiente e ha detto: «le stime presentate dal nostro Paese non sono “pessimistiche” bensì “le più realiste”. Non ce la facciamo ad arrivare in tempo per il pacchetto clima». Aggiungendo poi che comunque: «Non ha senso che ci si faccia carico noi dell’inquinamento del mondo, quando a sfilarsi da Kyoto sono stati Paesi come Stati Uniti, India e Cina». Tutto questo è un autogol strepitoso e inquietante. Un ministro che in fondo dice che, vista l’aria generale, meglio non preoccuparsi troppo dell’Ambiente, e aggiunge di non essere in grado di arrivare in tempo per rispettare i parametri del pacchetto-clima. Ovvero, siamo pronti a fallire nei nostri obiettivi, certo, ma non è colpa nostra. Perché è colpa, a quanto si può capire, del solito ministro predecessore Alfonso Pecoraro Scanio.
Nell’elenco degli autogol in soli due giorni, c’è anche un terzo caso, quello del ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi, che non trova di meglio che dare sferzate a iniziative culturali, celebri, consolidate, e famose nel mondo. Un caso per tutti quello del Maggio Musicale Fiorentino. Due giorni fa Bondi interviene a un convegno sulla «Cultura e il Made in Italy». E a proposito dei tagli che la finanziaria impone agli enti lirici, se ne esce con una frase bizzarra: «In Italia nella musica abbiamo due punte di eccellenza, il teatro alla Scala di Milano e l’orchestra sinfonica Santa Cecilia di Roma. Ebbene concentriamo il grosso delle risorse su di loro. Possibile che lo Stato debba ripianare sempre i loro debiti? Cambiamo sistema: concentriamo il grosso delle risorse su Roma e Milano. Se poi altre importanti città d’Italia vogliono un loro teatro d’Opera, allora il Comune o la Regione dimostrino il loro amore per il teatro, ne facciano un vanto per la loro città e facciano dunque uno sforzo conseguente, perché, secondo me, lo Stato potrà pure fare la sua parte, ma non è giusto che paghi sempre tutto». L’attacco indiretto di Bondi a una celebre istituzione musicale, conosciuta in tutto il mondo, ha qualcosa di autenticamente autolesionista. Le proteste a Firenze si sono fatte sentire, ma il problema serio è che queste parole suonano più come un attacco al comune di Firenze, che è di centro-sinistra (contro Roma e Milano che non lo sono), piuttosto che una vera preoccupazione per i bilanci del Maggio Musicale Fiorentino. E ancora una volta un ministro è pronto a rinunciare e a dichiarare una incapacità del proprio dicastero: che sia di bilancio, che sia tempo perso, che sia di cecità ideologica, poco importa. Importa che i tre ministri del governo Berlusconi hanno fatto, e stanno facendo harakiri come se non fossero i veri responsabili dei loro ministeri. Ma soprattutto dimostrando uno zelo autentico nell’osservare, come sentinelle impaurite, regole e tagli di Giulio Tremonti.
l’Unità 20.10.08
Omicidi bianchi: dal governo è già controriforma
Controlli più difficili, subappalti più facili. Proprio come vuole Confindustria
di Felicia Masocco
SCELTE In Italia ci sono più morti sul lavoro che vittime della malavita. Lo dice il Censis e nessuno smentisce. Eppure la battaglia per la sicurezza nel lavoro sembra l’ultimo dei pensieri del governo. A ogni occasione il Capo dello Stato la riporta all’attenzione. I media volenterosi recepiscono, il governo no. Se si esclude una campagna di informazione diretta ai lavoratori che serve sempre, gli interventi fin qui adottati dall’esecutivo sono tutti in peggio. Non per il governo, ovviamente, che li spiega con la volontà di «semplificare», di togliere «lacci e lacciuoli» alle imprese, a cominciare dalle sanzioni da pagare in caso di violazione delle norme. La convinzione del ministro del Lavoro è infatti che troppe regole o troppe sanzioni, «distolgono l’attenzione dallo sforzo di aumentare la sicurezza». Maurizio Sacconi lo disse ai primi di giugno, alla vigilia di un «piano straordinario» annunciato sulla scia dei sei morti di Mineo (Catania). Un piano di cui s’è persa traccia, se si esclude la Pubblicità progresso. Il ministro parlò di sinergie tra Stato e Regioni sulla vigilanza, di un tavolo tecnico per creare un sistema di monitoraggio, di un piano, disse, da definire con le parti sociali, visto che «quindici organizzazioni imprenditoriali hanno criticato il Testo Unico varato dal precedente governo». E questo governo non muove paglia se non piace a Confindustria.
Tutto da rifare, dunque. Solo due giorni fa, sulla scia di un’altra strage - ben otto morti in un giorno - Sacconi ha annunciato che l’esecutivo intende creare un’unica Agenzia per la salute e la sicurezza dei lavoratori, integrando quelle che già ci sono all’Inail e dall’Ispesl». Serve proprio?
Per i sindacati e per l’opposizione no. Le norme ci sono, sono racchiuse nel Testo Unico varato dal governo Prodi. «Sono buone leggi che vanno applicate integralmente e rese operative nei territori e nei luoghi di lavoro con il concorso delle parti sociali, delle istituzioni, delle forze della cultura», sostiene l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano (Pd) che della sicurezza fece un tratto distintivo della legislatura. Quello di oggi è la battaglia contro i “fannulloni”. Sono leggi che il governo ha riscritto o intende riscrivere. Intanto passa il tempo e passa un messaggio: perché rispettare le leggi se già si sa che verranno cambiate? La guardia si abbassa. Senza contare che qualcosa è già cambiato. È stata spostata all’inizio del 2009 la data di presentazione del Durc, cioè del documento che certifica la regolarità dei contributi versati dai datori di lavoro ai dipendenti. È necessario tanto negli appalti pubblici, quanto nei lavori di edilizia privata, perché è noto che nella piramide dei subappalti i primi ad essere tagliati sono proprio i costi della sicurezza. Sono stati poi soppressi i libri matricola, il libro presenze e il libro paga, sostituiti dal cosiddetto “libro unico del lavoro” che rende più difficili le funzioni ispettive. Sempre sugli appalti è stata abolita la responsabilità solidale a carico del committente che aveva l’obiettivo di una maggiore trasparenza contributiva, perché si sa che l’insicurezza aumenta con il lavoro nero. Per non parlare del tentativo, fatto rientrare dall’opposizione, di abrogare la norma che imponeva la comunicazione delle assunzioni il giorno prima dell’inizio del rapporto di lavoro. Tutti «formalismi inutili», per il governo. Che li riscrive, li allenta, li abolisce. Mentre si adopera per aumentare le ore di straordinario e il lavoro precario.
l’Unità 20.10.08
Pio XII? Non vide l’orrore nazista e fascista
di Luigi Cancrini
Beatificare Pio XII? Perché? Papa Ratzinger ha giustificato questa proposta, autorevolmente da lui avallata, dicendo che Pio XII ha difeso gli ebrei dalla persecuzione nazista e fascista. Lei che ne pensa?
Lettera firmata
«Questo è un libro anticlericale, scrive Ernesto Rossi presentando Il sillabo e dopo (Kaos edizioni, aprile 2000), lo hanno scritto otto pontefici». Io, per rispondere, seguirò il suo esempio. Citerò solo Pio XII che parla in qualità di pontefice aggiungendo un breve commento e chiedendo a chi legge di dare una risposta al suo quesito.
Chiesa e nazismo d’accordo con vantaggio delle due parti (lettera personale ad Hitler del 6 maggio 1939). «Desideriamo, fin dall’inizio del nostro pontificato, rimanere legati da intima benevolenza al popolo tedesco affidato alle sue cure, e invocargli paternamente da Dio Onnipotente quella vera felicità a cui provengono dalla religione nutrimento e forza. In spirito di pronta collaborazione a vantaggio delle due parti (Chiesa e Stato) indirizziamo al raggiungimento di tale scopo l’ardente aspirazione che la responsabilità del nostro ufficio ci conferiscono e rendono possibile» (pagg.95,96). Quando questa lettera fu scritta, nota Rossi, «Hitler aveva già da un pezzo programmato la “religione del sangue” contro la religione di Cristo, aveva dichiarato l’incompatibilità fra l’appartenenza alle organizzazioni cattoliche e l’appartenenza alle organizzazioni naziste, aveva sciolto le organizzazioni dei giovani esploratori cattolici, aveva inviato nei campi di concentramento parecchi esponenti del clero che non si adeguavano alle posizioni dei nazisti, aveva proibito i matrimoni dei cattolici con gli ebrei e, soprattutto, aveva iniziato la più spietata campagna contro gli ebrei, rinchiudendoli nei ghetti, obbligandoli a portare sugli abiti un distintivo, sequestrando i loro beni, facendo incendiare e devastare le sinagoghe e negozi ebraici, scatenando i pogroms e inviando a morire di stenti e sotto le torture decine di migliaia di innocenti. Di tutte queste criminali efferatezze e di queste aperte violazioni del Concordato non si trova alcun cenno nella lettera riportata nel testo» (nota n.6, pag 96).
La pace di Cristo restituita all’Italia (Encliclica Summi pontificatus, 20 ottobre 1939). «A particolare letizia si eleva il nostro cuore nel potere in questa prima Enciclica, indirizzata a tutto il popolo cristiano sparso nel mondo, porre in tal novero la diletta Italia, fecondo giardino della fede piantata dai Prìncipi degli Apostoli, la quale, mercé la provvidenza operata dei Patti Lateranensi, occupa ora un posto d’onore nel rango degli stati ufficialmente rappresentati presso la Sede Apostolica. Da quei patti ebbe felice inizio la “pace di Cristo restituita all’Italia”» (pagg 96, 97).
I nobilissimi sentimenti cristiani di Franco (Radio messaggio alla Spagna, 16 aprile 1939). «I disegni della Provvidenza, amatissimi figlioli, si sono manifestati una volta ancora sopra l’eroica Spagna. La Nazione eletta da Dio come principale istrumento di evangelizzazione del Nuovo Mondo e come baluardo inespugnabile della fede cattolica, ha testé dato ai proseliti dell’ateismo materialista del nostro secolo la più elevata prova che, al di sopra di ogni cosa, stanno i valori eterni della religione e dello spirito. Esortiamo pertanto i Governanti e i Pastori della cattolica Spagna ad illuminare la mente di coloro che sono stati ingannati, additando loro con amore le radici del materialismo e del laicismo. Non dubitiamo che ciò avverrà, e di questa nostra ferma speranza sono garanti nobilissimi i sentimenti cristiani di cui hanno dato sicure prove il Capo dello Stato e tanti suoi fedeli collaboratori» (pagg. 97,98) . Proprio in quei giorni, nota Rossi, «i “nobilissimi sentimenti cristiani” del gen. Franco e dei suoi collaboratori sono messi bene in luce da Galeazzo Ciano che scrive a Mussolini (19 Luglio 1939): i detenuti politici sono ancora 200.000 ma i processi si “svolgono ogni giorno con rapidità che può ben dirsi sommaria e le fucilazioni sono ancora numerosissime. Nella sola Madrid dalle 200 alle 250 al giorno, a Barcellona 150 e 80 a Siviglia, città che non fu mai nelle mani dei rossi”» (nota n. 7 pagg 98,99).
Sono esempi, mi pare, del tutto chiari. In essi il papa di cui oggi si propone la beatificazione dimostra di dare un riconoscimento e un appoggio entusiasta ai tre regimi, alle tre dittature fasciste che stanno insanguinando l’Europa e l’Africa. Lo fa, per di più, parlando ex cathedra, non a titolo personale, con messaggi pubblici che chiedono ai cattolici di riconoscersi, esaltandoli, in personaggi di cui la storia propone oggi la pochezza un po’ ridicola e avallando di fatto scelte di cui la storia definitivamente ha riconosciuto l’assurdità, la brutalità, la totale irrazionalità.
Quelle che fanno da (tragica) contrapposizione a questa amicizia empatica e mostruosa di papa Pio XII per tre dittatori senza scrupoli sono a questo punto due considerazioni semplici di cui forse l’opinione pubblica (e la riflessione dei cattolici) dovrebbero tenere conto. Vi era una coscienza diffusa, allora, in tutto il mondo del carattere espansionista e profondamente antidemocratico della politica nazista e fascista del disastro cui questa politica stava irreparabilmente portando il mondo. Pio XII non se ne accorgeva (lo Spirito Santo allora non lo illuminò) e non prese posizione in nessun modo contro questi tre grandi paesi di cui sperava forse che avrebbero sconfitto il comunismo «ateo» e imposto a tutto il mondo, se avessero vinto, una religione in cui la Chiesa di Roma avrebbe avuto la possibilità di contare: moltissimo in Spagna e in Italia, molto nel Reich tedesco. Nessuna preoccupazione e nessuna reazione destarono, d’altra parte, in Vaticano le leggi razziste che in quegli anni erano state promulgate in Germania ed in Italia: leggi orribili per tutti oggi ed a cui andarono invece, allora, gli elogi di esponenti importanti della Chiesa (un esempio per tutti è quello di Agostino Gemelli) che nella persecuzione degli ebrei avevano la stoltezza (la crudeltà, il sadismo vendicativo e cretino della persona malata) di riconoscere la mano e il volere di un Dio che di Mussolini e Hitler si sarebbe servito per vendicare la morte di Gesù. Una stoltezza (una crudeltà, un sadismo vendicativo e cretino di persona malata) evidentemente avallata allora dal silenzio del Papa che oggi si propone di beatificare.
l’Unità 20.10.08
Israele gela la Santa Sede: su Pio XII nessuna marcia indietro
Gerusalemme ribadisce l’invito a Benedetto XVI a visitare lo Stato ebraico ma chiede che siano finalmente aperti gli archivi segreti vaticani
di Umberto De Giovannangeli
ISRAELE tiene il punto. Papa Ratzinger resta «un ospite gradito ed amato» ma su Papa Pacelli, lo Stato ebraico non fa marcia indietro.
A ribadirlo è il portavoce del ministero degli Esteri israeliano: «Non si possono chiudere gli occhi di fronte al controverso ruolo storico di papa Pio XII ed al suo comportamento nei giorni in cui migliaia di ebrei venivano quotidianamente mandati al massacro».
Sulla questione della rimozione da parte dello Yad Vashem della targa (fortemente critica verso Pio XII) contestata dalla Santa Sede, il portavoce glissa limitandosi ad osservare che «lo Stato d’Israele non commenta le dichiarazioni di persone (il postulatore della causa di beatificazione di Papa Pacelli, padre Peter Gumpel, ndr.) che non sono state autorizzate a parlare a nome di papa Benedetto XVI». Interpellato dalla radio israeliana padre David Jaegger, un rappresentante del Vaticano in Israele, ha dichiarato: «Padre Gumpel non rappresenta il Papa e quest'ultimo deciderà sovranamente la data del suo arrivo» in Terrasanta.
«L'invito rivolto a papa Benedetto XVI a venire (in Israele) è stato rinnovato e vale sempre (...). Le divergenze (sulla beatificazione) possono essere ridotte, ma la data di questa visita non è ancora stata fissata», puntualizza l'ambasciatore dello Stato ebraico presso la Santa Sede, Motti Levy, ma resta una frase del portavoce del ministero degli Esteri israeliano che più di tante disegna la sensibilità e la prudenza di Israele sul tema: «Fintanto che gli archivi del Vaticano non saranno aperti per i ricercatori, la questione storica (su Pio XII, ndr.) resta aperta e dolorosa». Un concetto, quello dell’apertura degli archivi segreti del Vaticano, su cui ieri ha insistito la direzione dello Yad Vashem.
In una nota fatta pervenire alla sede di Gerusalemme dell’agenzia Ansa, la direzione del Museo dell’Olocausto, si è detta sicuro che l'apertura degli archivi segreti del Vaticano relativi al periodo della Seconda Guerra mondiale sarebbe il modo migliore per fare luce e chiarezza su una questione così importante e delicata come il ruolo di papa Pio XII. Nella nota, fatta pervenire all'Ansa attraverso la portavoce del Museo e centro di documentazione sull'Olocausto, Estee Yaari, riguardo a una possibile visita di papa Ratzinger in Israele, si afferma anche che «una visita del papa Benedetto XVI riveste carattere politico e, come tale, non riguarda come istituzione lo Yad Vashem».
In serata, sul tema interviene Shimon Peres. Il presidente israeliano è entrato in gioco nella polemica tra esponenti religiosi cattolici e alcune istituzioni ebraiche, tra le quali lo Yad Vashem di Gerusalemme, il Museo-memoriale della Shoah, ribadendo che i rapporti fra lo Stato ebraico e la Santa Sede sono buoni e che «una visita di Papa Benedetto XVI in Israele sarebbe assai gradita». Vari giornali israeliani nelle rispettive edizioni online
hanno riferito ieri sera una frase dell'anziano capo di Stato, secondo il quale la targa dello Yad Vashem riguardante il ruolo di Papa Pio XII nei confronti dell'Olocausto non dovrebbe impedire un viaggio di Benedetto XVI in Israele. «Non vedo alcun legame tra la questione su Pio XII e la visita» di Ratzinger, ha detto Peres, che ha ricordato di avere già
incontrato in varie occasioni l'attuale pontefice di Roma, precisando di avere per lui «una stima particolare»
l’Unità 20.10.08
Caro Reichlin, sul capitalismo hai ragione
di Franco Giordano
«Non è scoppiata solo una bolla speculativa. È arrivato al capolinea un ordine economico», ha scritto sull'"Unità" Alfredo Reichlin. Di fronte al suo lucido articolo, non saprei dire se prevalga il compiacimento per un così appassionato sfogo contro lo stupidario ideologico neoliberista che da lustri imperversa nel paese e nel mondo oppure la soddisfazione nel veder confermata , pur da posizioni diverse, un'antica condivisione analitica in merito alle distorsioni dell'economia mondiale.
Le voci di quello stupidario sono tante da riempire un'enciclopedia: l'elogio a priori delle privatizzazioni, sfociato in una vera orgia privatizzatrice; il culto delle magnifiche e progressive sorti del capitalismo finanziario; la derubricazione dell'intervento pubblico a fastidiosa somma di lacci e lacciuoli dai quali liberarsi il prima possibile; l' "arricchitevi" come parola d'ordine imposta al paese quale smagliante collante culturale, glissando sul particolare che ad arricchirsi erano in pochi a danno dei moltissimi; gli stentorei incentivi al trasferimento dei Tfr in fondi privati a danno della previdenza pubblica (ed è facile immaginare cosa ne pensino quanti, negli Usa, a quel sistema han fatto ricorso); la furiosa privatizzazione dei servizi pubblici, estesasi sino a invadere l'area dei beni pubblici per eccellenza, a partire dall'acqua; lo smantellamento progressivo e inarrestabile dello Stato sociale.
Tutto questo altro non era che l'imposizione brutale e miope del modello americano. E il bello è che l'esortazione permanente a imbarcarsi in politiche vieppiù restrittive e rigoriste veniva proprio dal paese più indebitato del mondo, quello che più di ogni altro viveva al di sopra delle proprie possibilità incentivando irresponsabilmente l'indebitamento popolare.
Questo sistema assurdo è effettivamente "arrivato al capolinea", ma è a dir poco clamoroso che proprio chi questa crisi la prodotto venga oggi sorretto pubblicamente e possa mantenere inalterata l'abituale arroganza, nel silenzio assordante della sinistra. Non è un adeguamento al presente del keynesismo: è il suo rovescio.
E allora come ce la caviamo? Con una spruzzata di etica economico-finanziaria? Con qualche predicozzo sulla perversione della rendita? Sbandierando il catartico ritorno al primato della produzione contro la finanziarizzazione, fingendo di non sapere che quelle due forme di capitalismo sono in realtà ormai indissolubilmente integrate?
Non può bastare. E non basta neppure invocare l'intervento pubblico, che negli Usa, peraltro, non è mai venuto meno. Se non vuole essere condannata all'irrilevanza, la sinistra deve saper mettere in campo ben altro tema, e cioè la qualità e la finalità dell'intervento pubblico.
La qualità dell'intervento pubblico in economia torna oggi a chiamare in causa i nodi di fondo. Torna alla necessità di costruire un compromesso di tipo nuovo, perché non ci si può svenare senza che nulla cambi, solo per ripristinare la macchina diabolica che ha determinato questa irrazionalità e queste enormi disparità. Se il pubblico interviene elargendo risorse immense, migliaia di miliardi, la contropartita deve essere l'acquisizione di una quota proprietaria degli istituti salvati, deve essere il ritorno in campo di una parola che per decenni è stata considerata la peggior bestemmia: la programmazione.
Se il pubblico deve intervenire in veste di protagonista, tale deve essere davvero. In cambio dell'elargizione di risorse che sono prima di tutto dei cittadini, devono arrivare nuove tutele sociali, nuovi diritti del lavoro, tali contrastare a fondo la precarietà, un diverso potere contrattuale per le retribuzioni e le pensioni, un'alternativa economica sul terreno ambientale.
Ma tutto ciò non può essere limitato nel perimetro, pur fondamentale, dei dibattiti teorici. Impone scelte politiche cogenti e urgenti. Un esempio per tutti: per poter operare politica retributiva adeguata e difendere l'autonomia sociale del conflitto, "una pratica e un punto di vista autonomi delle forze del lavoro", bisogna opporsi subito, qui e ora, alla modifica del modello contrattuale, sostenendo politicamente con determinazione massima la Cgil.
Dal vicolo cieco la sinistra non uscirà senza mettere a punto una nuova politica socialmente connotata. Ma a tal fine non serve né un soggetto neocentrista, tutto confinato nella logica soffocante di queste compatibilità, né un soggetto minoritario e identitario. Occorre ricostruire, in un contesto radicalmente nuovo, i fondamenti e cultura critica della sinistra.
P.S. Caro Alfredo, ho forse ecceduto nel sollecitare il vecchio comunista che è in te?
l’Unità 20.10.08
A Firenze si è discusso di femminismo e pari opportunità a partire dal pensiero di Simone de Beauvoir
Il «secondo sesso» sessant’anni dopo: siamo punto e a capo
di Valentina Grazzini
Era nata al 101 di boulevard Montparnasse, nella Parigi del 1908. Pensare oggi alle atmosfere che Simone de Beauvoir fendeva, sigaretta in bocca, al fianco dell’amato Sartre, ci riporta indietro, tanto, troppo. Quasi che tutto sia ormai sepolto in un altrove temporale da chiudere in un cassetto della Storia. Eppure a distanza di 100 anni dalla sua nascita e di 60 dal Secondo sesso, la de Beauvoir fa ancora notizia. Forse perché il Castoro (così la chiamava Sartre) continua a rosicchiare le nostre coscienze, soprattutto a farci interrogare su quanto sia accaduto per la condizione femminile negli ultimi decenni. Questa la domanda di fondo che ha costituito il fil rouge del convegno tenutosi a Firenze tra venerdì e sabato, organizzato dall’Istituto Francese di Bernard Micaud con l’assessorato alle pari opportunità. Dopo una prima fase di lavori conclusasi con la proiezione di una delle rare interviste a Sartre e de Beauvoir firmata dall’amica Madeleine Gobeil Noël nel ‘67 per la tv canadese, la tavola rotonda di sabato ha messo l’una accanto all’altra - tra le altre - Rossana Rossanda (che della coppia de Beauvoir - Sartre fu interlocutrice privilegiata in Italia), Dacia Maraini e la ex deputata di Rifondazione Comunista Mercedes Frias. Nella sala i posti a sedere sono esauriti da un pezzo quando la curatrice Sandra Teroni dà il via agli interventi. Ci sono giovani ed anziane, eleganti e meno eleganti, una sparuta rappresentanza maschile. Prende le distanze dal secondo femminismo, quello degli anni 70 in cui la conflittualità dei sessi appariva irrisolvibile, Rossanda. Che a proposito del Secondo sesso smaschera quanto il libro non sia stato in Italia realmente assunto nella lotta per l’emancipazione femminile, sia stato paradossalmente se non misconosciuto quantomeno utilizzato non al massimo delle sue potenzialità, senza «effetto deflagrante». E mette in guardia su come l’oggi sia un «momento di transizione e di crisi culturale che portano con sé una pericolosa affermazione delle identità». «La complicità femminile al dominio maschile è ancora forte». Raccoglie il testimone Anna Scattigno, docente presso l’Ateneo fiorentino, che a proposito della politica delle donne non esita a parlare di «un’anomalia italiana, in cui la presenza delle donne in politica è così bassa da impedire la costruzione di un patrimonio di conoscenza». Con il risultato che i numeri rimangono «sotto la massa critica, impedendo anche solo il pensare a dei contromodelli». Dacia Maraini parte dalla celebre affermazione di de Beauvoir «Donne non si nasce, si diventa», per passare in rassegna i campi del quotidiano, dalla vita in casa al lavoro ai rapporti con i figli, in cui tuttora l’identità della donna non si scrolla di dosso il confronto con il maschile. Cadendo pure in contraddizioni: «Non si può giocare la carta della seduzione dozzinale e stereotipata di stampo televisivo pretendendo poi di essere credibili in ruoli autorevoli - conclude -: la Brambilla fa vedere le mutande? Va bene, poi però non creda di farsi prendere sul serio...». Il dibattito guadagna una nuova via quando a prendere la parola è Mercedes Frias, che sposta l’accento su una diversa categoria di «inferiori»: negri e ebrei. Ma anche sulla condizione femminile la ex deputata dice la sua: «Nella mia vita parlamentare ho visto che proposte o mozioni vengono perlopiù da colleghe di destra... Perché? A sottolineare che la donna è da proteggere, in quanto inferiore, in un paradigma salvifico del tutto aberrante». Le donne in sala applaudono ogni intervento con sempre maggior calore. Ci si lascia con la sensazione che siamo punto e da capo, con 60 anni di ritardo. E non siamo neppure a Parigi, tra Saint Germain de Près e Montparnasse.
Repubblica 20.10.08
Il Papa a Pompei non parla di camorra ma attacca l´anticlericalismo
di Marco Politi
POMPEI - Difendere il «ruolo fondamentale della famiglia», contrastare l´anticlericalismo attivo anche oggi. Benedetto XVI arriva a Pompei e sembra che atterri in un angolo di cielo azzurro, dove si possano esaltare le buone opere dei cristiani ignorando la criminalità organizzata. Trenta giorni fa, in questa regione, due squadre di otto killer hanno sparato centonovanta proiettili di kalashnikov per massacrare a Baia Verde e a Castelvolturno sette extracomunitari e papa Ratzinger in tre diversi interventi non pronuncia mai a Pompei la parola camorra, assassini, crimine.
Eppure il sindaco Claudio D´Alessio gli ha parlato di una terra «bella e martoriata». Il pontefice lo ringrazia per il «deferente benvenuto» e non entra in argomento. Chissà chi lo consiglia nel palazzo apostolico. C´è qualcosa di scoordinato nel lavoro di quanti in Vaticano hanno in cura i dossier preparatori dei discorsi papali. Come quando a Catania dei tifosi uccisero brutalmente l´agente di polizia Raciti e passò tempo prima che il Papa dicesse una parola.
Così succede a Pompei con la camorra. Certo, Benedetto XVI propone il Rosario come arma spirituale nella «lotta contro il male, contro ogni violenza, per la pace nei cuori, nelle famiglie, nella società, nel mondo». Ma sono espressioni senza tempo valide a Sidney come a Colonia, a Parigi, Roma o Varsavia. Il vescovo mons. Carlo Liberati non lo aiuta. Nel suo saluto parla di prodigi che «sbocciano come primule, ciclamini e iris», elenca una serie di importanti iniziative sociali cattoliche e poi, come pericolo principale, indica la «famiglia insidiata da ogni dove».
Due ore dopo la messa, celebrata dal Papa sul sagrato del santuario, il Vaticano si rende conto della situazione paradossale. E per stoppare polemiche emana di corsa una dichiarazione. Nell´omelia e nell´Angelus, spiega il portavoce padre Ciro Benedettini, il pontefice «ha escluso di proposito di pronunciare la parola camorra». Le motivazioni? La visita a Pompei sarebbe un pellegrinaggio a dimensione strettamente spirituale. Poi c´è il fatto che la maggioranza dei campani sono persone oneste e non camorristi e quindi il silenzio del Papa va interpretato come una «questione di rispetto». Infine, Benedetto XVI di criminalità organizzata ha già parlato un anno fa a Napoli.
Spiegazioni poco convincenti tanto più che Avvenire pubblica nella pagina di Caserta una drammatica lettera del vescovo mons. Raffaele Nogaro: «La criminalità organizzata sulle nostre terre sembra onnipotente. Nulla sfugge al suo controllo. Compone vere e proprie bande armate. Non meno inquietante è la camorra praticata dai colletti bianchi. Detengono l´autorità per un profitto illecito, usano la pubblica amministrazione per interessi di parte». Dinanzi a questa coraggiosa denuncia impallidiscono le parole papali, che esortano i credenti a essere «fermento sociale e non cedere ai compromessi», combattendo ogni tipo di violenza. Per padre Benedettini, ad ogni modo, «è meglio accendere una candela che maledire l´oscurità». Proverbio cinese. Quasi 50mila fedeli hanno partecipato alla messa con papa Ratzinger. Per lui personalmente è stato anche composto un inno da mons. Baldassarre Cuomo, per lunghi anni personalità guida del santuario. Durante il rito spuntano striscioni che chiedono di fare santo l´anticlericale Bartolo Longo, poi convertitosi, che nell´Ottocento fondò il santuario della Madonna del Rosario. Benedetto XVI nell´omelia elogia Pompei come esempio di fede che rinnova la società, assiste i poveri e riscatta il territorio. «Non è una cattedrale nel deserto». Prima della conversione, spiega il Papa, Bartolo Longo era «influenzato da filosofi immanentisti e positivisti, si era allontanato dalla fede cristiana diventando un militante anticlericale e dandosi anche a pratiche spiritistiche e superstiziose». Simili tendenze, conclude, «non mancano nei nostri giorni».
Repubblica 20.10.08
Le conseguenze di Heidegger
L’Influenza politica oggi: Un saggio di Victor FarÍas
I suoi eredi messi sotto accusa
di Antonio Gnoli e Franco Volpi
Un pamphlet provocatorio che indaga sulle suggestioni più recenti, fino a coinvolgere perfino Chávez e la corte iraniana del presidente Ahmadinejad
L´infondata accusa a Gianni Vattimo di essere vicino al pensiero antisemita
Dall´Iran islamico all´America Latina le ricadute geopolitiche del filosofo tedesco
Mettiamola così: la filosofia non sposta più niente, non crea più opinione, non incide nelle carni della società, se non in minima parte. Con una sola eccezione: Martin Heidegger. Ma non per le ragioni che di solito gli si vogliono attribuire. Se si parte da questa affermazione, un po´ tranchant, si capirà anche perché molti critici del pensatore della Selva Nera sono oggi sinceramente spaventati. Ma la paura a volte è buffa. Forse perfino singolare. Certo può dar vita a un esercizio provocatorio. Apprendere che Heidegger, attraverso la sua vicenda politica e filosofica, sia diventato un termometro della geopolitica mondiale, un misuratore del grado di ostilità che il resto del mondo nutre verso l´Occidente, è un punto di vista che fino ad oggi mancava nella sterminata letteratura sul più vessato e amato tra i filosofi contemporanei. Che la sua influenza fosse estesa è un fatto incontrovertibile, che lambisse i pensieri dei pasdaram iraniani o il populismo di Chávez, nessuno poteva onestamente immaginarlo. Eppure - dalla ricostruzione che Victor Farías fa del pensiero e del peso che Heidegger ha avuto e continua ad avere nel mondo - proprio ciò emerge con forza.
Quando nel 1987 lo storico cileno pubblicò il suo primo libro di analisi e denuncia, Heidegger et le nazisme, subito tradotto in tutto il mondo e in Italia da Bollati Boringhieri, fu come un colpo di pistola vicino ai timpani degli heideggeriani. Che reagirono scandalizzati, e montarono un´improbabile difesa: Heidegger, sostennero, era stato in realtà il partigiano di una coraggiosa resistenza spirituale al nazismo. Certo, nel libro di Farías c´erano pecche di vario genere e sviste anche gravi. C´era una sistematica sopravvalutazione di alcuni dettagli: per esempio, un paio di conferenze di Heidegger sul predicatore agostiniano Abraham a Sancta Clara spacciate come prova di un antisemitismo che attraverserebbe l´intera sua opera. C´era, insomma, un evidente fumus persecutionis. Eppure il libro ebbe il merito fondamentale di resettare l´intera discussione, svoltasi fino allora seguendo argomentazioni etico-politiche o ideologiche, e di riproporla su nuove basi: vale a dire su un lavoro d´archivio mirante a scovare le fonti e a ricostruire i fatti. È dunque lecito parlare di un "prima" e di un "dopo Farías".
Lo storico cileno ritorna ora alla carica con un libro che le edizioni Medusa manderanno in libreria a fine ottobre in prima mondiale: L´eredità di Heidegger nel neonazismo, nel neofascismo e nel fondamentalismo islamico (trad. di Edoardo Castagna, pagg. 229, 14,80 euro). Un pamphlet ancora più aggressivo del precedente, anche se l´edizione italiana è stata saggiamente asciugata e limata nelle affermazioni più avventate che si leggono nella versione originaria, inedita, messaci a disposizione da Farías. Il bersaglio è sempre l´infausto corto circuito che Heidegger ha provocato tra la filosofia e la politica. Ma questa volta Farías guarda alle conseguenze del suo pensiero, alla sua "eredità". Non a quella squisitamente filosofica e teoretica, nota a tutti, incontestabile e presente ovunque nel mondo, ma a una sotterranea influenza ideologica, meno nota, eppure potente e insidiosa: a Heidegger si rifanno i principali ispiratori della destra radicale, e il suo pensiero è diventato un riferimento ricorrente per i teorici dell´eversione antioccidentale e antisemita in Germania, Francia, America Latina e nell´Iran islamico. Un capitolo dedicato alla situazione italiana è stato prudentemente cassato, in attesa di una elaborazione più solida e convincente.
La parte più scottante è quella sull´Iran islamico. Farías parte da lontano: già Henry Corbin, primo traduttore di Heidegger in francese, avrebbe introdotto a Teheran il pensatore della Selva Nera, come proverebbe una sua intervista intitolata Da Heidegger a Sohravardi. In verità, in quel testo autobiografico, Corbin cerca semplicemente di spiegare la coerenza del proprio percorso intellettuale, raccontando come fosse passato da un iniziale interesse per Heidegger allo studio della teologia protestante e fosse infine approdato al sufismo e alla tradizione islamica. Poco importa. Ciò che incuriosisce è l´influenza dello heideggerismo nell´Iran odierno. Farías mette in risalto come i fondamentalisti iraniani abbiano accolto con favore non solo la critica heideggeriana alla moderna civiltà tecnologica e materialistica, ma anche la tesi geopolitica esposta nel 1935, in pieno nazionalsocialismo, nell´Introduzione alla metafisica: l´Europa sarebbe minacciata e schiacciata, a tenaglia, tra americanismo e bolscevismo, e il compito della grande Germania sarebbe quello di liberarla battendo una terza via. L´analogia con la situazione dell´odierno Iran va da sé, e perfino il presidente Ahmadinejad e i suoi consiglieri culturali sarebbero dei criptoheideggeriani in quanto considerano il maestro della Selva Nera un prezioso alleato e una diga contro l´occidentalizzazione del mondo.
Non meno sorprendente il capitolo sull´America Latina, dove l´heideggeriano mascherato sarebbe nientemeno che Chávez. Farías sostiene che «il movimento politico-sociale che Hugo Chávez cerca di imporre ai venezuelani rivela temi neofascisti caratteristici dell´opera di Heidegger e della Rivoluzione conservatrice». E a dimostrazione cita gli scritti di due consiglieri del caudillo: il sociologo argentino Norberto Ceresole e il nazionalbolscevico Heinz Dieterich. Ma bastano punti di tangenza con la critica heideggeriana dell´Occidente per provare che la loro ideologia politica è ispirata dall´autore di Essere e Tempo? C´è qui un procedere capzioso che diventa palese scorrettezza nel paragrafo seguente, il cui titolo insinua: «Gianni Vattimo, un heideggeriano in difesa dell´antisemita Hugo Chávez». Diciamo la verità: una conferenza di Vattimo a Caracas non dimostra nulla: né che Chávez sia heideggeriano, né che Vattimo sia antisemita.
Anche nelle parti sulla Germania e sulla Francia, bisogna faticosamente separare le notizie interessanti dalle inferenze indebite, le scoperte di Farías dalle sue illazioni. Per esempio, si può rivangare a piacimento intorno alla figura di Hermann Heidegger, il figliastro del pensatore: ma che cosa provano il suo eventuale militarismo e conservatorismo rispetto alla filosofia del padre? Diverso, ma non meno scivoloso, il discorso su Ernst Nolte. Le note tesi dello storico revisionista sulla guerra civile europea, e sul nazionalsocialismo come «ideocrazia» sorta in risposta al bolscevismo, che cosa c´entrano con il fatto che per qualche semestre il giovane Nolte studiò filosofia con Heidegger? Non è tanto Heidegger ad avere influenzato Nolte, bensì piuttosto quest´ultimo che con le sue tesi storiografiche ricolloca Heidegger, e la sua compromissione, in un diverso orizzonte storico. E quanto alla Francia, come è possibile nominare, d´un fiato, Alain de Benoist insieme a Lacan, Foucault e Baudrillard, come se seguissero tutti la medesima linea?
Farías è uno storico, oltre che un simpatico conversatore e un formidabile narratore di aneddoti. Lo incontrammo tempo fa e ci confessò che il suo modo di usare le fonti rovesciava con ironia la celebre sentenza heideggeriana che «il documento è la pietà del pensare». Egli invece non guarda in faccia nessuno, ma così rischia di perdere la vera identità dei volti che critica.
Perché tanto accanimento nel processare Heidegger e lo heideggerismo? Evidentemente Heidegger non è un episodio qualunque della storia filosofica del Novecento, ma un caso esemplare. È stato il massimo pensatore contemporaneo, l´incarnazione del protofilosofo, ma al tempo stesso vittima illustre di un´ottusità politica imperdonabile. Il pensiero che aspira a portare la verità nel cuore del potere, a coniugare la filosofia con la politica, non è forse responsabile delle conseguenze che la sua rischiosa alchimia di teoria e prassi può avere?
La storia di Heidegger è indicativa della complessità del problema. Più che l´abbaglio del filosofo che ha voluto mettere le mani nella ruota della storia universale, rimanendone stritolato, ciò che inquieta è il fatto che la ferita, che il suo caso ha aperto, la lacerazione tra filosofia e politica, non si è ancora rimarginata. Se il più grande pensatore contemporaneo ha potuto scambiare la nascita del più tragico totalitarismo della storia con l´«avvento del nuovo», come sperare che la filosofia possa garantire qualcosa?
Il caso Heidegger porta alla luce qualcosa di profondo, che va al cuore della filosofia e tocca l´essenza stessa del pensiero. Uno di quegli eterni problemi che la filosofia evidentemente non aiuta a risolvere, ma solo a vivere a un certo livello: il difficile rapporto della saggezza con la tirannide, della teoria con la prassi, dell´intellettuale con il potere.
Repubblica 20.10.08
Emil Nolde. Il colore in tempesta
Al Grand Palais una vasta rassegna dedicata al grande pittore espressionista tedescoTra le opereil gigantesco polittico con "La vita di Cristo"
PARIGI. «Come si formano i minerali e le cristallizzazioni, come crescono il muschio e le alghe»: così Emil Nolde voleva che fossero i suoi colori; in disordine, in subbuglio, in crescita cespitosa e ingovernata ma pur aderenti - «coerenti», diceva - alle mille creazioni della natura. Da quando, forse, un fiocco di neve gli cadde per caso sul foglio dove stendeva, più o meno accademicamente, un acquerello d´un paesaggio invernale ritratto en plein air, e quel poco di neve, sciogliendosi, macchiò la carta, vi allargò il colore, e scosse gli assetti prospettici che la composizione s´era ordinatamente data.
Nasce da allora - «in collaborazione con la natura», almeno nella personale mitologia che Nolde s´è creato - il colore in tempesta, sempre debordante oltre il segno che avrebbe dovuto contenerlo, di uno dei maggiori pittori espressionisti dell´avvio del secolo ventesimo.
Lo scopriranno i giovani della "Brecke", il primo gruppo che aveva riunito, a partire dal 1905 in Germania, le tensioni verso una dilacerata espressività che avrebbero durevolmente occupato la pittura del nuovo secolo, almeno fino alla guerra mondiale. Lo scopriranno e, tirandolo fuori quasi a forza dall´isolamento in cui viveva, ne faranno uno dei loro. Con quei giovani Nolde - che aveva allora quarant´anni - starà poco; ma gli rimarrà sempre nell´animo la determinazione a sconquassare territori già riconosciuti dall´arte, e ad ararne di nuovi, che aveva maturato accanto a essi.
Nulla, all´inizio, faceva prevedere che sarebbe stato pittore, e pittore così radicalmente altro rispetto ai suoi anni. Era nato contadino, da una famiglia da sempre dedita esclusivamente all´agricoltura, in una terra del nord, al confine fra Germania e Danimarca. Hansen, si chiamava per l´anagrafe - Nolde venne dopo: un nome che si diede prendendolo dal villaggio natale; e fu una scelta, quella, che attestò fin da allora il suo ostinato legame, che sarebbe sempre rimasto, con la terra d´origine. Dalla sua vocazione a essere diverso, trasse comunque, per allora, solo il permesso del padre d´allocarsi come apprendista intagliatore in una fabbrica di mobili. Poi, sui trent´anni, dopo un lungo soggiorno in Svizzera, ove pone mano a una lunga serie d´acquerelli nel solco della tradizione, comincia il suo tragitto finalmente maturo nella pittura.
Viaggia molto (Monaco, Parigi, Berlino, Copenaghen); è rifiutato da Accademie e mostre ufficiali per la crescente determinazione a cercare un´indipendenza dall´impressionismo attardato di Liebermann e dal simbolismo di Franz von Stuck, allora dominanti in Germania; finalmente ripara con la moglie Ada nella piccola isola di Alsen, dove riatta una casa di pescatori e si costruisce uno studio sulla spiaggia. Le sue predilezioni di allora vanno, distese nei secoli, da Manet a Degas (unici della "nouvelle peinture" ad attrarlo), da Daumier a Goya, da Rembrandt a Tiziano (conoscerà e approfondirà solo più tardi, invece, l´opera di Gauguin, Munch, Ensor).
Di Tiziano copia al Louvre un´opera nella quale ha riconosciuto la libertà che va allora ancora oscuramente cercando. Ma di ritorno al suo Mare del Nord, all´inizio del nuovo secolo, disegna soprattutto, su piccoli fogli, «briganti e taverne, persone che corrono sulla spiaggia, sonnambuli, adoratori del sole, visioni di spettri e di creature fiabesche»: sta nascendo in lui la determinazione a dar figura a una natura insieme «silenziosa e selvaggia», costantemente in bilico fra osservazione del dato reale e sua trasfigurazione in allucinazione e sogno.
Ed è questo, appunto, che Klee, battezzandolo «il demone della regione sotterranea», ammirerà in lui: questo andare e venire sempre rinnovato dalla verità al sogno, «dalla danza e dal gioco fino alla pesantezza e alla solitudine della vecchiaia e alla oscura regione della morte», secondo quanto ha scritto Martin Urban, già direttore della Fondazione Nolde a Seebell, donde oggi provengono larga parte dei materiali della odierna, vastissima antologica che Parigi destina al pittore tedesco al Grand Palais (fino al 19 gennaio 2009, a cura di Sylvain Amic, andrà in seguito al musée Fabre di Montpellier).
Novanta dipinti, settanta fra disegni, incisioni e acquerelli: è la prima rassegna retrospettiva di tale portata che la Francia destina a Nolde. Richiesto di quale sia il prestito d´eccellenza ottenuto dalla mostra, Amic ha indicato il grande polittico con La vita di Cristo, composto da nove tele affiancate, sei metri di larghezza per più di due d´altezza, che è davvero impressionante.
Iniziato nel 1911, fu portato a termine a Berlino nel 1912: memore del grande polittico cinquecentesco di Isenheim di Mathias Grenewald, quello di Nolde è la più compiuta espressione di una sua vocazione singolarmente costante a confrontarsi con i temi religiosi, che occuperanno la sua pittura tanto quanto le storie grottesche, e il paesaggio, adesso sommariamente descritto - a un solo passo dall´astratto - da una materia slabbrata e filante, quasi una premonizione del tachisme che verrà. Cade, il polittico di Nolde, nel momento di più intensa produzione del pittore, che quell´anno espone con il Cavaliere azzurro di Kandinsky e di Marc, e ha alcune importanti personali.
D´altronde, quasi fatalmente, La vita di Cristo è rifiutata più volte a rassegne d´arte religiosa. Troppo esplicito, per le gerarchie ecclesiastiche, quel grido che, in evidente connubio con l´arte primitiva (che, da Gauguin a Picasso, era in quegli anni assillo costante dell´arte occidentale), scuoteva i personaggi sacri, e ne assimilava i volti turbati alle maschere ghignanti care a Nolde, facendone immagini folgoranti di volti bruciati, a mezzo fra una notte invasiva e una dolente deformazione.
Animato di tormentate, scosse figure che Nolde voleva somiglianti a «semplici contadini e pescatori giudei», il grande retablo è costruito dal cozzare di un colore senz´ombra, clamante acceso violento, e dal gestire affannato dei protagonisti, riuniti dall´abbraccio smisurato del Cristo crocifisso. Esposto al ludibrio del pubblico, assieme a molti altri del pittore, dalla mostra nazista d´arte degenerata del 1937, e raramente rivisto al di fuori della Fondazione di Seebell, La vita di Cristo è una vera summa dell´espressionismo di Nolde, e del tanto che egli lasciò alla moderna pittura tedesca.
Repubblica Firenze 20.10.08
"Ragazzi, e ora che facciamo?" Occupazioni avanti in ordine sparso
di Laura Montanari
Dante e Castelnuovo tornano in classe, Gramsci e Michelangelo no
Chi ce la fa andrà avanti con le occupazioni, almeno fino a domani, cioè fino alla manifestazione regionale che partirà da piazza San Marco e che fa salire a quattro i cortei studenteschi in meno di dieci giorni. In piazza Santissima Annunziata ieri, si sono ritrovati in una cinquantina, in una domenica di sole, seduti sui gradini del porticato, per decidere che strada prendere dopo una settimana di stop alle lezioni nelle medie superiori. Erano i ragazzi del coordinamento dei vari licei e degli istituti tecnici e professionali, quelli che ieri si sono incontrati e che hanno deciso di aderire per oggi alle 17 in piazza della Signoria al "flashmob" sulla "fuga dei cervelli" organizzato da alcuni studenti universitari del polo di Scienze. Spiegano gli studenti: «Al segnale prestabilito, un fischietto, un ragazzo indosserà un costume rappresentante un cervello a dimensione umana, mentre altri si metteranno i camici bianchi dei ricercatori. Subito dopo le altre persone che partecipano all´evento cominceranno ad inseguire i vari "cervelli" che scapperanno verso piazza della Repubblica». L´evento è un modo per attirare l´attenzione della gente sulle ragioni della protesta: decreto Gelmini, finanziaria, legge 133, cioè i tagli ai finanziamenti, il blocco del turnover e la possibilità di trasformare gli atenei in fondazioni di diritto privato. «Venti scuole su venticinque - spiega - continueranno oggi e domani ad occupare o l´autogestione, non ha senso chiudere prima che il decreto Gelmini venga esaminato in Senato». Intanto prosegue la raccolta firme contro le università-fondazioni. Ma «come mandare avanti la lotta»? Fermare le lezioni comincia a pesare e qualcuno sta già rientrando in classe, le prime defezioni al liceo classico Dante, ma anche sparse, in altre superiori. Oggi pomeriggio nuovo summit al liceo artistico per valutare meglio dopo le assemblee della mattina cosa fare. Al Michelangelo la notte di sabato c´è stato qualche danneggiamento nei bagni: «Abbiamo già chiamato una ditta, riaggiustiamo tutto a nostre spese» ha spiegato una studentessa.
In università restano occupati il polo didattico di Sesto, il dipartimento di Matematica, Agraria e un´area del complesso di Novoli, la protesta contro la legge 133 va avanti e oggi alle ore 11 si terrà un´assemblea nelle aule di viale Morgagni organizzata dagli Studenti di Sinistra. All´esterno dalle 10 gazebo dei giovani di Forza Italia per distribuire i volantini a favore della manovre Tremonti-Gelmini: «Stiamo anche raccogliendo le firme contro il blocco della didattica e contro ogni forma di occupazione». Sulla stessa linea nei giorni scorsi, Lista Aperta. Gli Studenti di Sinistra spiegano che «a questa crisi dell´università di Firenze» ci «siamo arrivati sia per gravi responsabilità del governo sia per la gestione delle università da parte dei rettori»: «L´università si trova adesso a un bivio: o il commissariamento o la trasformazione in fondazione». Proprio quello che gli studenti non vogliono.
Repubblica Roma 20.10.08
E la Sapienza fa lezione davanti Montecitorio
di Laura Mari
La protesta degli universitari contro il decreto Tremonti arriva davanti a Montecitorio. Questa mattina, a partire dalle 10.30, docenti e studenti di Fisica della Sapienza terranno delle lezioni proprio davanti alla sede della Camera dei Deputati.
Dopo le mobilitazioni della scorsa settimana, che hanno visto migliaia di studenti protestare sotto il ministero dell´Economia e quello dell´Istruzione, oggi l´appuntamento contro i tagli della finanziaria agli atenei pubblici è davanti a Montecitorio. «Mentre in tutte le facoltà della Sapienza questa mattina si terranno assemblee e dibattiti - fanno sapere i collettivi - gli studenti di Fisica coinvolgeranno l´opinione pubblica portando alla luce del sole il loro dissenso contro il decreto 133 e organizzando lezioni all´aperto». Incontri che sono iniziati ieri davanti alla Casa del Cinema di Villa Borghese.
Oggi pomeriggio, presso la facoltà di Lettere della Sapienza, si terrà un´assemblea per decidere le prossime mobilitazioni. «Stiamo pensando - annunciano gli studenti - di scrivere un appello al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano affinché intervenga in difesa del sistema universitario italiano». E domani, in concomitanza con la riunione del senato accademico, gli studenti della Sapienza hanno indetto un presidio davanti al rettorato per invocare l´immediato blocco della didattica.
Corriere della Sera 20.10.08
Scuola Il ministro interviene all'incontro dei giovani leghisti. Sprechi per le supplenze: «Spendiamo 50 milioni in telefonate»
Gelmini: immigrati, no alle classi separate
«Frequenteranno lezioni normali. Per loro corsi aggiuntivi di lingua italiana»
di Marco Cremonesi
L'intervento del ministro dell'Istruzione alla scuola politica della Lega organizzata dai Giovani padani
MILANO — «Forse si sarebbe dovuto usare un termine diverso. Classi ponte fa pensare a luoghi separati, a classi di serie A e di serie B». Quando invece, «gli immigrati frequentano e frequenteranno normalissime classi. A cui bisognerà aggiungere dei corsi di lingua italiana. Così come accade all'estero». Che succede? Marcia indietro di Mariastella Gelmini? Assolutamente no, secondo i comunicatori del ministro alla Pubblica istruzione: il termine «classi ponte», spiegano, appartiene a una mozione leghista e non al lessico del ministro. E lei, proprio ai Giovani padani riuniti a Milano per la «scuola politica» del Carroccio, lo dice chiaro: «Si sarebbe dovuto utilizzare un termine diverso ». Perché «il problema è terminologico e non di sostanza ». Soprattutto, è il messaggio più volte ribadito, «è meglio abbassare i toni, e non fare come questa sinistra tutta ideologia». E il bello è che così dicendo, riesce comunque a strappare diverse ovazioni ai giovani in camicia verde.
Gelmini è preoccupata che la sua riforma della scuola possa tingersi di eccessive suggestioni leghiste che ne potrebbero complicare l'iter. E così, parte conquistando l'uditorio: «Sono completamente d'accordo con Bossi quando dice che la sinistra, perso il proletariato, cerca di innescare un nuovo Sessantotto». Ma questo, aggiunge, «dato che siamo al governo deve farci riflettere sui fatti sociali che possono innescarsi». E tutto l'intervento del ministro è giocato su questo doppio registro: sembra andare incontro agli umori dei Giovani padani, in realtà procede diritta per la sua strada, la gran razionalizzazione: dalla riduzione dei «5500 corsi di laurea che servono più ai professori che agli studenti», ai «900 indirizzi in cui si disperde la formazione professionale ». La territorialità di insegnanti e supplenti? «Io sono d'accordo con voi, ed è semplice buon senso. Il ministero ogni anno spende tra i 45 e i 50 milioni di euro solo per le telefonate di convocazione dei supplenti».
Dato che i dirigenti scolastici si devono attenere a graduatorie, «per una supplenza di quattro giorni a Milano, devono chiamare magari a Palermo. A gente che ovviamente non accetterà».
Quanto al federalismo scolastico, Gelmini rilancia l'autonomia: «I dirigenti devono poter chiamare gli insegnanti, valutarli secondo risultato, aprire le scuole al territorio». Magari, «trasformandole in fondazioni con l'ingresso degli enti locali». Gelmini riesce a farsi applaudire anche quando accenna a novità che a un fanatico del territorio potrebbero non piacere: «In Italia ci sono 300 sedi universitarie distaccate. In un Paese in cui non c'è un euro per il diritto allo studio, le residenze universitarie, le borse di studio, noi i soldi li spendiamo per avere università sotto casa in cui non si può fare ricerca».
Corriere della Sera 20.10.08
Il Pd e i manifesti con la foto della folla
di Alberto Losacco
Responsabile Propaganda Partito Democratico
Ho letto con grande interesse la riflessione che sabato Paolo Franchi ha dedicato, sulle pagine del Corriere, alla polemica nata in seguito alla «scoperta» che la foto che campeggia nei manifesti che pubblicizzano la nostra manifestazione del 25 ottobre, ritrae migliaia di persone in Piazza San Pietro. Al di là dell'inaspettata ondata di popolarità che ha investito il sottoscritto e l'ufficio propaganda del Pd (della quale avremmo fatto volentieri a meno), nella riflessione ci sono un paio di osservazioni alle quali vorrei rispondere. Innanzitutto mi ha molto colpito l'eco che la vicenda ha generato, smisurata rispetto alla vicenda in sé, al punto che un «dietrologo» potrebbe sospettare che l'abbiamo fatto apposta, per recuperare un po' di spazio su media troppo sordi alla voce dell'opposizione (agcom insegna). Nel nostro lavoro, e Franchi lo sa benissimo, è necessario rivolgersi ad agenzie specializzate nel reperimento del materiale fotografico necessario. In questo caso avevamo chiesto di trovare la foto di una folla serena e forte, senza eccessi, senza slogan e bandiere, senza simboli di partito. Non, come immagina Franchi, perché avremmo avuto difficoltà a reperire nel nostro archivio foto che non evidenziassero «le storiche divisioni dell'Unione» o che vedessero rappresentate plasticamente le vecchie appartenenze (Ds, Margherita, ecc...). Non è così. Il Partito Democratico, seppur giovanissimo, è già da tempo andato oltre la sintesi di quelle storie. E il nostro archivio è pieno delle foto della entusiasmante campagna elettorale che Veltroni ha condotto nei mesi scorsi e che ha riempito le piazze di tutte le province italiane di militanti e di bandiere del Pd. Ma — e qui il problema si fa più politico — contesto l'idea di Paolo Franchi che, fra tutte le gaffe e gli errori che potevamo fare, ci accusa di aver fatto il peggiore: quello di scegliere «una piazza altrui. E che piazza». Neanche avessimo utilizzato la foto di una manifestazione della destra o della Lega!
Ecco, su questo proprio non ci siamo. Perché dietro questa osservazione, c'è un'idea un po' vecchiotta della sinistra. Come se fossimo ancora a Don Camillo e Peppone o al Pci anni Cinquanta. Il Partito Democratico è nato perché nel suo dna c'è anche quella piazza, anche quel popolo. Noi non sapevamo che quella folla fosse a San Pietro, ma quella foto di persone senza bandiere, striscioni, cartelli l'abbiamo scelta apposta perché era coerente alla nostra idea di partenza. Ci sono persone, cittadini, una folla, una collezione di volti e di esperienze diverse. Proprio quello che cercavamo. La scelta matura di una grande forza politica, che seppur nata sotto il segno di 3 milioni e mezzo di italiani e capace di raccogliere il consenso di un terzo degli elettori, non si ferma e non si accontenta. E sceglie di farsi rappresentare da una foto nella quale si vedono uomini e donne, ragazze e ragazzi. Tra i quali, magari molti non hanno votato per noi. Perché pure a loro ci rivolgiamo, anche a loro chiediamo impegno e attenzione. Perché questo è ciò che vogliamo sia la manifestazione del 25 ottobre, non un corteo di tifosi ma un Circo Massimo pieno zeppo di uomini e donne. Uomini e donne che sanno voler bene all'Italia.
Lasciamo stare, per cortesia, Peppone e il Pci anni 50. Può darsi che io abbia un'idea «un po' vecchiotta» della sinistra. Ma continuo a non capire a quale idea innovativa della medesima dovrebbe alludere la foto di una folla anonima.
Paolo Franchi
Corriere della Sera 20.10.08
Stato e Chiesa Lo storico Paul Veyne racconta come cristianesimo e paganesimo convissero a Roma
Costantino si convertì per scelta personale: non fu calcolo politico
di Eva Cantarella
«L'Europa è democratica, laica e libera: tutte cose estranee al cattolicesimo»
È il 28 ottobre 312 d.C. Alla periferia di Roma, lungo il Tevere, le truppe di Costantino affrontano quelle dell'usurpatore Massenzio. Costantino, in quel momento, governa una delle quattro parti in cui è diviso l'impero romano: Gallia, Britannia e Spagna. Dovrebbe governare anche l'Italia, ma Massenzio se ne è impadronito. Sull'elmo di Costantino e sugli scudi dei suoi soldati è inciso il crisma, un segno formato dalle prime due lettere greche del nome di Cristo, una X (chi) e una P (rho), sovrapposte e intrecciate. La notte precedente, gli è stato rivelato in sogno: in hoc signo vinces, «sotto questo segno vincerai ». E Costantino vince: è la celebre vittoria di Ponte Milvio. Due giorni dopo entra a Roma, percorrendo la Via Lata (attuale via del Corso). È questo il giorno, dice Paul Veyne, in cui si può fissare il passaggio dall'antichità all'epoca cristiana, uno degli avvenimenti decisivi della storia non solo occidentale, ma mondiale.
Così, da questo racconto, prende le mosse l'ultimo libro di Paul Veyne, lo storico che ci regala, periodicamente, libri stimolanti, affascinanti e coinvolgenti come pochi altri: Quando l'Europa è diventata cristiana (312-394). Costantino, la conversione, l'Impero. Alla profonda dottrina e alla impressionante padronanza delle fonti Veyne unisce, infatti, la rara capacità di fare della storia un racconto, prospettando tesi originali, anticonformiste, spesso formulate in poche, spiazzanti parole (seguite, beninteso, da una amplissima e documentata motivazione). Un esempio: «Senza Costantino il cristianesimo sarebbe rimasto una setta di avanguardia». Riferita a una religione i cui fedeli, oggi, sparsi in tutto il mondo, ammontano a un miliardo e mezzo di persone, un'affermazione sorprendente.
La convinzione di Veyne mal si accorda con quel che siamo abituati a pensare in materia. Ma come, si chiede il lettore, il cristianesimo non era la sola religione capace di dare una prospettiva alle inquietudini del-l'epoca, di soddisfare esigenze personali e sociali che solo in essa potevano trovare risposta? Non è a questo che sono dovuti il suo successo e la sua diffusione?
Veyne, pur ovviamente attento ai complessi meccanismi della storia, prospetta una risposta inedita: se questo accadde fu grazie alla politica rivoluzionaria di Costantino, destinata ad avere un peso gigantesco nella storia dei secoli a venire. Cominciamo dall'inizio: la sua conversione, dice Veyne, fu assolutamente sincera. La tesi ottocentesca secondo la quale, militare e politico senza scrupoli, Costantino si sarebbe convertito per mero calcolo non ha fondamento: i cristiani, allora, erano solo un decimo della popolazione dell'Impero. Troppo pochi per far pensare a una ragione opportunistica. La conversione fu un fatto interiore, una scelta del tutto personale. Ma Costantino ne fece un uso degno di un grande imperatore. La Chiesa, fondatasi e sviluppatasi al di fuori del potere imperiale, avrebbe potuto essere un rivale di questo. Costantino si pose come interlocutore dei vescovi, sul loro stesso livello, presentandosi come il braccio esecutivo delle loro decisioni. Scrive Veyne: «Costantino non ha messo l'altare al servizio del trono, ha fatto il contrario: ha ritenuto che gli affari e i progressi della Chiesa fossero una missione essenziale dello Stato: la novità è che con il cristianesimo ha inizio a tutti gli effetti l'ingresso del sacro in politica e nel potere, che "la mentalità primitiva" si limitava ad avvolgere con un'infinità di superstizioni ». Egli aveva capito l'incredibile potenziale della nuova religione, che non stava in una morale superiore a quella delle altre. Anche gli ebrei, anche i pagani sapevano che non dovevano uccidere e non dovevano rubare. La novità cristiana stava nell'amore che legava tra loro i fedeli e ciascun fedele personalmente al dio. Fu questo il capolavoro della religione cristiana, dice Veyne. Il secondo fu la Chiesa, che Costantino favorì in ogni modo, senza peraltro mai vietare il paganesimo, e tantomeno perseguitare i pagani.
Con Costantino — e a lungo, dopo di lui — paganesimo e cristianesimo convissero. Fino a quando Teodosio vietò i culti pagani, facendo del cristianesimo la religione ufficiale dell'Impero. Le vicende di quei secoli sono tracciate in capitoli che consentono a Veyne di affrontare problemi ai quali qui è possibile solo accennare: cos'è il sentimento religioso? Quale il rapporto tra cristiani, pagani ed ebrei? Quale l'atteggiamento degli imperatori cristiani nei confronti degli altri culti? Per Costantino, se i pagani sono solo «stupidi », gli ebrei sono una «setta nefasta »: quando nasce l'antisemitismo? Qual è la differenza tra questo e il razzismo?
Superfluo insistere sull'interesse di questi capitoli. Per non parlare di quello intitolato: «L'Europa ha radici cristiane?». La risposta di Veyne è negativa: «La nostra Europa attuale — scrive — è democratica, laica, sostenitrice della libertà religiosa, dei diritti dell'uomo, della libertà di pensare, della libertà sessuale, del femminismo e del socialismo o della riduzione delle disuguaglianze. Tutte cose estranee e talvolta in contrasto con il cattolicesimo di ieri e di oggi. La morale cristiana invece predicava l'ascetismo, che non ci appartiene più, l'amore verso il prossimo (un vasto programma, rimasto imprecisato) e insegnava a non uccidere e non rubare, ma lo sapevamo già tutti... Se non potessimo fare a meno di individuare dei padri spirituali, la nostra modernità potrebbe indicare Kant o Spinoza: quando quest'ultimo scrive nell'Etica che "portare aiuto a coloro che ne hanno bisogno va ben oltre le capacità e l'interesse dei singoli. La cura dei poveri si impone, perciò, alla società intera e riguarda l'interesse comune" è più vicino a noi di quanto non lo sia il Vangelo ».
Le tesi di Paul Veyne si possono condividere o non condividere, i suoi libri si possono amare o criticare, ma è difficile leggerli senza essere affascinati dalla mente libera e brillante di chi li ha scritti, da una scrittura che trasforma una sterminata dottrina in un grande affresco storico nel quale si fondono eventi, persone e idee; e da ultimo — solo nell'elencazione — dalla capacità di un grande accademico (oggi professore onorario del Collège de France, dove ha insegnato per anni) di non essere mai accademico. Di essere se stesso, un grande storico e uno spirito libero.
PAUL VEYNE Quando l'Europa è diventata cristiana (312-394) GARZANTI PP. 204, e 23
Corriere della Sera 20.10.08
Set. «L'uomo che verrà» con Maya Sansa e Alba Rohrwacher rievoca la strage nazista dell'autunno '44
Le donne di Marzabotto
Storie di contadine nel film sull'eccidio E recitano anche gli eredi delle vittime
di Paolo Mereghetti
Nell'autunno del '44 fu compiuto dai nazisti l'eccidio di Monte Sole (strage di Marzabotto): assassinati circa 800 civili (nella foto i funerali)
SAN CHIERLO (Bologna) — «I civili ormai non contano. Le loro vite sono solo numeri, quelli che tutti sembrano disposti a pagare in nome del potere. Che si tratti di terroristi o di liberatori, di nemici o di alleati. Per questo mi è venuta voglia di raccontare la strage di Monte Sole, quella che tutti ricordano col nome di Marzabotto, per ricordare gli ottocento e più civili che furono sacrificati alla logica dei numeri. Quella che doveva bonificare il territorio dai possibili ostacoli umani».
Giorgio Diritti parla calmamente. Non si accalora per le polemiche che da un po' di tempo sembrano andare di pari passo con la rievocazione delle stragi nazifasciste nella Seconda guerra mondiale: «La Resistenza è un valore da difendere assolutamente anche se gli uomini, partigiani compresi, di fronte alla morte spesso si sono comportati in modi irrazionali o violenti». Col suo primo film, Il vento fa il suo giro, ha imparato che la calma può essere un'arma vincente. Nessuno voleva finanziare un film su un pastore francese che emigra nella val Maira e lui l'ha fatto lo stesso. Nessuno voleva distribuirlo e lui ha cercato cinema per cinema: a Milano è in programmazione da più di 15 mesi ininterrottamente al Mexico. Un record storico. A Torino l'hanno proiettato per quattro mesi, a Bologna per tre. Adesso lavora al film L'uomo che verrà, quasi un kolossal al confronto: tre milioni e mezzo di budget, coperti in parte da RaiCinema, in parte dal ministero dei Beni culturali. Mancano ancora cinquecentomila euro circa, ma non si potevano più attendere: in due mesi di riprese nelle colline sopra Bologna, a una decina di chilometri dai luoghi reali delle stragi, bisogna ricreare il passaggio delle stagioni e la mancanza di pioggia di questi giorni sta ingiallendo troppo in fretta le foglie. «Forse saremo costretti a qualche ritocco digitale » si lascia scappare l'art director Giancarlo Basili.
Non l'hanno fermato neanche le polemiche sul film di Spike Lee e la sua hollywoodiana ricostruzione della strage di Stazzema, bocciata sonoramente dal pubblico. «Il mio non è un film di guerra. È un film su come la guerra entra nella vita delle persone, di come distrugge le loro speranze e i loro sogni, di come cambia le carte in tavola. E di come lo faccia nel modo più tragico: negando la vita». Le persone che improvvisamente devono fare i conti con questa tragedia sono i Palmieri, contadini già segnati dalla morte di un figlio (trauma che ha tolto la parola alla sorellina Martina) e che sperano nella nuova gravidanza della moglie Lena.
A interpretarla, Maya Sansa, che dopo un lungo periodo in Francia (dove ha interpretato tre film, uno al fianco di Sophie Marceau), si ritrova nella stessa epoca del suo ultimo film italiano,
L'amore ritrovato. «Non volevo essere identificata come l'attrice che fa i film sul fascismo. Anche il film con la Marceau era ambientato nella Seconda guerra mondiale, ma la storia e il regista mi hanno convinto. Sono una donna che, attraverso il matrimonio, entra in una famiglia patriarcale e deve pensare soprattutto a obbedire e lavorare in silenzio. Ho un ruolo fatto di piccole cose quotidiane ma con una sua forte umanità, che risalta proprio nel sacrificio domestico».
Tutto l'opposto della cognata, interpretata da Alba Rohrwacher, che invece non vuole accettare la dura logica contadina e vorrebbe scappare facendo la serva a Bologna: «È vero, il mio ruolo è un po' più mosso: cerco di ribellarmi alla logica della vita di campagna, ma certo non faccio scene madri. Diritti è molto attento alla credibilità, tanto da farci parlare tutti in bolognese stretto. A quei tempi erano tutti di poche parole. E se Maya confessa che le sarebbe piaciuto di più il mio ruolo, io potrei dire lo stesso del suo, fatto tutto di sottintesi e allusioni». E anche da questi complimenti reciproci capisci che per una volta su questo set si respira un'aria diversa, di vera coesione («Tutti hanno accettato di lavorare perché credevano al film non certo per i soldi» dice orgoglioso Diritti). Senti che tutti si sentono coinvolti, accettano gli spostamenti di programma e i prolungamenti d'orario senza mugugni. «Sembra di essere a teatro» si lascia scappare la Sansa.
A fare gruppo, a aggiungere una motivazione in più collaborano anche le comparse, che non sono i soliti aspiranti attori in cerca di un attimo di fama, ma autentici contadini locali, che i fatti del Monte Sole li hanno vissuti sulla loro pelle, o su quella dei loro familiari. Come «donna Vittoria», la suocera di Lena nel film, che si porta dietro un librettino dove sono stigmatizzate le torture che il famigerato capitano Tartarotti infliggeva ai partigiani che catturava, uno dei quali era suo padre. O come Carlo Venturi che fa da «consulente storico» sulle tattiche di combattimento dei partigiani, anche se ogni tanto si scusa «perché la memoria fa brutti scherzi». E con loro ci sono tantissime altre facce così, di quella verità e di quella intensità che il cinema spesso dimentica. «Quando hanno saputo che stavo girando un film su quel massacro si sono presentati in tantissimi. Volevano esserci. Volevano dare il loro piccolo contributo a ricostruire una storia dimenticata » e mentre lo dice capisci che Diritti un po' della sua guerra sente di averla già vinta.
Asca 17.10.08
Mercati: effetto crisi, il Capitale di Marx torna tra i bestseller
Francoforte, 17 ott - Sara' l'effetto della crisi finanziaria globale, ma ''Il Capitale'' di Carlo Marx sta vendendo piu' copie che in passato. A sostenerlo e' Joern Schuetrumpf, capo della casa editrice Karl Dietz Verlag, che pubblica il celebre libro di Marx, uscito per la prima volta nel 1867, ed e' specializzata in letteratuta comunista. ''Nel 2005 ho venduto 500 copie, nel 2006 800 e nel 2007 1.300. Nei primi nove mesi del 2008 sono gia' arrivato a 1.500'', dice Schuetrumpf, dal suo stand alla Fiera del Libro di Francoforte. ''Di sicuro molti di coloro che lo comprano, soprattutto i giovani, non riescono a leggerlo tutto perche' e' davvero una lettura impegnativa, ma comunque una societa' che sente il bisogno di leggere Marx e' una societa' che non si sente molto bene''.
il manifesto 16.10.08
Il diktat Sacconi: vietare gli scioperi
Il ministro del Welfare annuncia una legge delega che blocca le proteste: scioperanti schedati, sanzioni dalla prefettura. Autorizzati solo gli stop «virtuali», con un fazzoletto. La Cgil: «Si viola un diritto costituzionale»
di Antonio Sciotto
ROMA - Tra gli innumerevoli attacchi del governo, non poteva certo mancare quello al diritto di sciopero: ieri il ministro del Welfare Maurizio Sacconi ha spiegato che si provvederà presto, con un apposito disegno di legge delega che «regolerà» le astensioni dal lavoro nei servizi pubblici. Chi sciopererà verrà schedato dall'amministrazione di cui è dipendente, sanzionato dalla prefettura, indotto a sostituire la piazza con un semplice fazzoletto al braccio. In pratica, sarà vietato scioperare. E non basta: viene soppresso un diritto garantito dalla Costituzione, quello di poter protestare individualmente. Per proclamare uno sciopero, bisognerà passare attraverso un referendum a maggioranza. «E' un golpe bianco - commenta Carlo Podda, Fp Cgil - E' la violazione palese di un diritto costituzionale, e segnalo che queste misure vengono minacciate quando i lavoratori della scuola e del pubblico impiego si preparano a scendere in piazza».
La riforma, ha spiegato Sacconi, intende «prevenire il conflitto attraverso forme di conciliazione e arbitrato», mira a rendere «obbligatorio un referendum consultivo preventivo e rendere anche obbligatoria l'adesione individuale allo sciopero dei singoli lavoratori, in modo che gli utenti siano informati circa il livello di adesione allo sciopero». Il ddl intende disciplinare anche la revoca dello sciopero, «perché strumentalmente troppo spesso si annunciano scioperi che poi si revocano all'ultimo minuto facendo in modo che il danno è stato fatto senza pagare il pegno della perdita del salario». La revoca dello sciopero, quindi, «deve essere adeguatamente anticipata per poter evitare la trattenuta, tranne nel caso si faccia, anche all'ultimo momento, un accordo che risolva in via definitiva il problema, non una semplice solo timida intenzione di miglior dialogo». Il governo - ha continuato Sacconi - vuole anche «intervenire sull'esigenza della rarefazione: cioè deve essere più robusto e garantito l'intervallo tra uno sciopero e l'altro, nel senso che pur agendo diversi soggetti, l'intervallo deve essere comunque garantito in modo che ci sia un congruo periodo in cui non ci sono attività di interruzione del servizio».
Secondo il ministro, poi, «bisogna favorire lo sciopero virtuale che si può fare con un fazzoletto al braccio, in modo che io sono in stato di agitazione, perdo il salario però il datore di lavoro paga una cifra congrua per ogni lavoratore che si astiene virtualmente dal lavoro». In sostanza, ha spiegato Sacconi, «la controparte paga ugualmente e queste risorse vanno in un fondo solidaristico che poi decidono come usare. Questo sempre per evitare l'interruzione del servizio pur legittimamente manifestando un disagio». «Le sanzioni - ha concluso il ministro - oggi sono decise dalla commissione, soprattutto quando riguardano l'individuo, e sono applicate dal datore di lavoro, che in genere non lo fa mai. L'ipotesi è di incaricare i Prefetti di applicare la sanzione decisa: in questo modo la sanzione, con il pericolo di omissione di atti di ufficio, è applicata effettivamente».
«Già oggi esistono sufficienti garanzie per tutelare i cittadini utenti - replica Podda - Tanto che per annunciare le prossime date di sciopero devo aspettare il tentativo di conciliazione al ministero del lavoro, e poi badare a non sovrapporle con altre. Ma qui si minaccia di negare alla radice il diritto di sciopero. Il sindacato diventa superfluo: Brunetta nega la contrattazione e eroga aumenti unilaterali, e ora si aggiungono le regole sugli scioperi. Allora sciogliamo tutto e mettiamo su un comitato referendario. Si nega il diritto individuale allo sciopero, si schedano gli scioperanti con l'obbligo di adesione nominale, si fa applicare la sanzione dalle prefetture, come se fosse un problema di ordine pubblico. Questo progetto somiglia tanto alle linee guida sui contratti della Confindustria, dove gli scioperi vengono iper-sanzionati e si pretende di conciliare con gli arbitrati». I lavoratori pubblici, comunque, dopodomani decideranno le date dei prossimi stop regionali - entro metà novembre - e se non avranno risposte si deciderà lo sciopero nazionale.
Proteste contro Sacconi sono venute anche dalla segreteria della Cgil, che parla di «introduzione di tratti autoritari»; la Uil, con Paolo Pirani, dice che «atti unilaterali rischiano di aumentare il conflitto»; la Cisl chiede «un tavolo per regole condivise». Il Pd, con Paolo Nerozzi, si dice «profondamente contrario al progetto Sacconi».
Il Riformista 20.10.08
De profundis a sinistra
di Luca Mastrantonio
Qualcuno era comunista, dice la canzone. La cantava Giorgio Gaber. Nei prossimi giorni la suoneranno in tanti, da Riccardo Barenghi a Luca Telese. Il prossimo libro dell'autore di Cuori neri, che prende il titolo dalla canzone-teatro, è una campana a morto per i «pop-brezneviani». Veltroni, Fassino & co. che, secondo Telese, hanno «perso tutte le passioni e le idealità del comunismo, ma hanno recuperato forme di stalinismo che il Pci non ha mai conosciuto. Sognano l'unanimismo, il loro vero obiettivo perché hanno paura della democrazia».
Secondo Riccardo Barenghi, che uscirà a giorni con Fazi con Eutanasia della sinistra, si sta praticando una dolce morte al corpo elettorale (post)comunista. Forse tanto dolce non è stata, ma va certificata. Quando? Il 14 aprile 2008 o due anni prima? Il dottor Morte è stato Prodi o Veltroni? O Bertinotti? La risposta, forse, è in libreria.
Altri libri di prossima uscita compilano un unico epitaffio con i loro dorsi. A novembre uscirà per Memori Razza comunista. La vita di Luciano Lama, di Giancarlo Feliziani, che prova a rispondere alla domanda: che razza di comunista era Luciano Lama. Un «perdente di successo»? Lama viene descritto come l'uomo che riuscì a trasformare ogni sconfitta del sindacato (dalla Fiat alla scala mobile; dalla svolta dell'Eur alla disfatta all'università di Roma da cui fu costretto a fuggire a bordo di una Mini minor...), in nuove occasioni di identità e appartenenza. Diffidente verso Enrico Berlinguer, ha comunque affiancato il Pci nelle sue battaglie. «Era il marxista più bello - sostiene Feliziani - e forse anche il più simpatico. Uno straordinario oratore capace di far digerire anche il più ostico degli accordi sindacali». Ma poi, il sindacato si dimentica di invitarlo alla festa del 1 maggio.
Per chi non si accontenta - o vuole fare un regalo a Vladimir Luxuria che sull'Isola dei famosi pensa che il Muro sia caduto nel 1985 - c'è il Diario della caduta del comunismo, edizioni Liberal, scritto da Renzo Foa.
Il commiato più ironico dall'era comunista, però, è quello di Sebastiano Vassalli, raccolto in Racconti politici (Einaudi). Narra la storia dell'«Ultimo comunista», un avvocato che ha sfiorato la lotta armata e poi l'ha abbandonata gettando in un fiume le armi che aveva in custodia. Oggi, nel suo biglietto da visita, si presenta come «Ultimo comunista». Senza altre qualifiche.