martedì 21 ottobre 2008

l’Unità 21.10.08
Antifascista, intransigente. Mai stato comunista


Vittorio Foa lascia un vuoto straordinario in chi scrive come in tutta la sinistra italiana ed europea. È stato, per un tempo assai lungo, una personalità che riusciva ad unire la simpatia umana, la concretezza dell’uomo d’azione con la limpidezza del pensiero e l’ottimismo nell’avvenire.
L’avevo conosciuto più di trent’anni fa e per i settant’anni gli avevo fatto una lunga video-intervista con l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio sugli anni della sua cospirazione antifascista.
Già perché Vittorio (che quest’anno aveva appena compiuto novantotto anni) era stato arrestato a Torino già nel 1935 grazie alla soffiata di un confidente dell’Ovra fascista e fu per dodici anni prigioniero a Regina Coeli e in altri carceri come militante di Giustizia e Libertà, il movimento fondato da Carlo Rosselli ed Emilio Lussu. Liberato nell’agosto 1943 aveva condiviso a lungo la cella con altri noti antifascisti come Ernesto Rossi, Massimo Mila e Riccardo Bauer.
Appena libero fu, con Ugo La Malfa, segretario del Partito di Azione,eletto quindi nel 1946 deputato del Pda e poi, sciolto il Partito di Azione nel 1947, deputato del Partito Socialista Italiano per tre legislature.
Nel 1948 aderì alla Fiom, il sindacato dei metalmeccanici della Cgil di cui divenne, sette anni dopo, segretario nazionale.
A metà degli anni sessanta aderì al Partito Socialista di Unità Proletaria di cui divenne uno dei maggiori dirigenti nazionali e nel 1992,dopo esser stato senatore indipendente nelle liste del Pci nella legislatura precedente, decise di lasciare la politica attiva.
Si dedicò a scrivere libri in gran parte autobiografici. Tra i tanti che ha pubblicato voglio ricordare in particolare Il Cavallo e la Torre (Einaudi, 1991)che raccoglie una sorta di personalissima e godibile autobiografia, Questo Novecento (Einaudi, 1996) che ci restituisce la sua visione problematica e acuta del secolo ventesimo e le sue Lettere della Giovinezza (1935-1943) pubblicate sempre da Einaudi nel 1998.
Tra queste ultime che portano il lettore nelle carceri fasciste, ricordo sempre quella scritta subito dopo la caduta del fascismo il 25 luglio del 1943: «Al mutamento radicale nella situazione politica del paese non corrisponde purtroppo un adeguato mutamento nella situazione interna del carcere. Qui tutto è sostanzialmente immutato, ossia fascista». Parole profetiche per la crisi italiana, potremmo dire.
Le idee essenziali che hanno caratterizzato in vari momenti la riflessione dell’uomo politico torinese mi paiono oggi più che mai attuali. Foa era, dagli anni trenta, un europeista convinto che aveva visto assai presto la necessità storica dell’unione dei popoli e degli stati europei dopo la catastrofe fascista, almeno in parte dovuta ai nazionalismi che avevano prevalso dopo la prima guerra mondiale nel vecchio continente.
Il secondo punto forte delle sue idee era quello delle autonomie locali e delle comunità umane più piccole mortificate dal centralismo francese , come da quello italiano, negli anni del liberalismo e, ancor più, del regime fascista.
Infine Foa si preoccupava della frammentazione politica che aveva caratterizzato, nel periodo liberale,come in quello repubblicano,la partecipazione politica ed elettorale e si pronunciò più volte per un sistema elettorale maggioritario che mettesse insieme le forze affini e rendesse più efficiente il sistema politico.
Non era mai stato comunista ma collaborò nella Cgil, come nei partiti di sinistra, con i comunisti italiani e riuscì sempre a mantenere la sua autonomia di pensiero e di azione.
Il suo antifascismo nacque e rimase sotto il segno della intransigenza sui valori di fondo che erano le libertà civili dei cittadini e la solidarietà sociale. In questo senso militò nel movimento sindacale con grande passione ed ebbe per Giuseppe Di Vittorio una particolare amicizia e venerazione soprattutto per la sua umanità e la capacità di difendere gli interessi dei lavoratori, senza dogmatismi né rigidità.
Intervistato l’anno scorso da un telegiornale italiano, Foa disse, non a caso: «Bisogna guardare la concretezza dei fatti... Dobbiamo vedere non le idee generiche, ma come si possono realizzare le cose». Sono del tutto d’accordo con lui.
La politica italiana, purtroppo, è sempre stata,anche a sinistra, piena di idee astratte e scarsa di fatti concreti. Di qui l’importanza di una personalità come quella di Vittorio Foa che ha dimostrato,in tutta la sua vita, di privilegiare l’esperienza concreta rispetto alle discussioni fumose che piacciono tanto a molti politici e intellettuali del nostro tempo.
In questo senso, essendo quasi centenario, Vittorio restava un uomo giovane e vivo per il suo tempo.

l’Unità 21.10.08
Le speranze e le paure delle grandi rivoluzioni
di Vittorio Foa


Penso molto alle parole della politica, alla loro capacità o incapacità di comunicare, e penso al carattere plurale di queste parole, alla molteplicità di significati, e anche di contraddizioni, che esse possono raccogliere: solo leggendo la loro interna contraddizione, la loro polarità, riusciamo a capirle. La parola «lavoro», ad esempio, mi ha accompagnato per una parte della mia vita: mi sono occupato del lavoro umano e della sua organizzazione. Quando facevo l’organizzatore sindacale mi era chiaro che lo sviluppo, la crescita dell’economia d’insieme era una necessità per andare avanti e, al tempo stesso, una radice di difficoltà e d’infelicità. Le due cose, camminare e soffrire, vanno avanti insieme. (...)
Perché il comunismo è completamente scomparso mentre L’anticomunismo, come cultura e come politica, continua ancora a esercitare un suo ruolo non indifferente?
Si potranno trovare molte risposte nell’analisi storica del comunismo, dei suoi meriti e dei suoi orrori, delle memorie staliniste che hanno costituito un pezzo terribilmente importante della violenza del Novecento, ma mi limito qui a un’osservazione piuttosto semplicistica. Il comunismo di cui si constata la scomparsa è un insieme di dottrine e di esperienze, mentre ciò di cui si constata la sopravvivenza è un insieme di nostalgie e paure, che non si identificano con il comunismo ma hanno un altro nome: rivoluzione. Di rivoluzioni ce ne sono state tante, e a mio giudizio son tutte fallite, ma le nostalgie e le paure che hanno creato non si cancelleranno mai. Esse rispondono a un atteggiamento mentale degli uomini verso la realtà che può assumere forme diverse nelle esperienze pratiche. Queste forme però hanno sempre qualcosa in comune tra loro anche se distanti nei secoli: si tratta dell’idea, che in certi momenti molti esseri umani hanno manifestato, di poter cambiare il mondo senza esserne costretti dal tempo e dallo spazio. Il tempo ha sempre frenato la volontà di cambiamento con l’argomento che bisogna appunto lasciar maturare i tempi, aspettare che la società crei le condizioni favorevoli al mutamento. Lo spazio ha sempre frenato i cambiamenti con l’argomento che le cose possono mutare altrove, ma non da noi. In certi momenti alcuni gruppi umani hanno pensato che mettendosi insieme era possibile superare lo spazio e il tempo e quindi cambiare il mondo senza attese: sono stati momenti di entusiasmo e anche di paura, che hanno investito milioni di persone.
Io penso all’esperienza rivoluzionaria nell’Europa mediterranea e soprattutto in Italia. Penso anche a due episodi specifici. Uno da me non vissuto, ma studiato con profonda partecipazione, è la Rivoluzione francese; l’altro, più recente, da me non vissuto con partecipazione, ma studiato con rispetto, è il 1968 in Europa e non solo in Europa.
La Rivoluzione francese ha vissuto il suo apogeo e la sua sconfitta nel 1793-94, pur cambiando il mondo in maniera diversa da quella prevista e voluta. Il 1968 mi è parso un movimento rivoluzionario quando l’idea di autonomia, maturata come diritto di decidere il proprio futuro senza dipendere dagli altri, si è poi affermata , oltre che nell’organizzazione del lavoro anche negli altri aspetti della vita, come rifiuto delle discipline imposte e come affermazione della libertà. Anche il Sessantotto non ha adempiuto alle sue speranze, ma ha cambiato molte cose nella società; anche il Sessantotto è stato battuto lasciando dietro di sé a cute nostalgie e diffuse paure.
La rivoluzione è vissuta come episodio in varie forme, in vari tempi e in vari paesi; ma come idea di fattibilità del cambiamento attraverso l’azione collettiva degli esseri umani sopravvive a tutte le sue sconfitte episodiche. Per questo penso che bisogna tenere ben chiara la distinzione tra episodi rivoluzionari legati alla storia e la rivoluzione come atteggiamento umano, che si verifica solo in certi momenti e sembra conferire all’umanità una potenza fino allora inesplorata.
Il comunismo è stato in Italia un’esperienza importantissima. Io non ho fatto parte di quell’esperienza dottrinaria e di quella pratica, ma ho sempre cercato di comprenderne il senso e anche i limiti: oggi vedo ancora intorno a me sopravvivenze nostalgiche e non me ne scandalizzo. Penso veramente che la rivoluzione come idea di fattibilità del cambiamento è un’idea che vivrà.
* tratto da «Le parole della Politica» di Vittorio Foa e Federica Montevecchi, Einaudi, 2008

Repubblica 21.10.08
Sale la protesta anti-riforma "Giovedì picchetti nei licei"
Annuncio degli studenti di sinistra. Contestata la Gelmini
di Mario Reggio


A Milano bruciata una copia della riforma. A Prato un preside chiede lo sgombero

ROMA - La mobilitazione degli studenti contro il ministro Mariastella Gelmini non si ferma. Anzi, cresce con il passare dei giorni. Anche ieri assemblee e cortei in molte città. E la temperatura sale anche negli atenei. Ieri migliaia di giovani in piazza davanti al rettorato dell´università di Palermo. Assemblea di ateneo a Padova, fiaccolata e corteo a Ferrara, mobilitazione e sit-in all´università di Ancona.
Il ministro Gelmini continua a ribadire il suo stupore: «Sono polemiche strumentali visto che il mio decreto non riguarda l´università». Glissa sul fatto che la manovra finanziaria del suo collega Tremonti, che riguarda un dicastero di sua competenza, prevede tagli al Fondo ordinario di funzionamento degli atenei per un miliardo e mezzo in cinque anni, due assunzioni ogni dieci docenti che andranno in pensione fino al 2013 e la possibilità di far entrare i privati nella gestione delle università attraverso la creazione di Fondazioni.
«Il 23 ottobre - promette la Rete degli studenti - occuperemo le entrate delle nostre scuole in tutte le città per sbarrare la strada alla riforma e ai tagli con tutta la nostra creatività e voglia di cambiamento». Sulla stessa linea l´Unione degli studenti che al grido "Provate a fermarci" intende bloccare le scuole di tutta Italia e non si fermerà - assicura - «fin quando questo governo non tornerà indietro sulle scelte che mirano a mettere in ginocchio il sistema nazionale d´istruzione». Alternativa studentesca, organizzazione della destra, accusa: «Ora arrivano anche le minacce dei picchetti, un binario antidemocratico».
La rabbia degli studenti è palpabile. Ieri mattina una copia del decreto Gelmini è stata bruciata davanti Palazzo Marino, sede del Comune di Milano, dove oltre 200 studenti delle superiori hanno dato vita a un sit-in. Contestazioni anche a Napoli: gli alunni del liceo classico Genovesi, dopo aver tentato un´occupazione dell´istituto, hanno indetto, in piazza del Gesù, un´assemblea pubblica. A Livorno almeno 8 mila studenti hanno partecipato a una manifestazione che ha attraversato le vie del centro, mentre a Prato il preside del liceo classico Cicognini e del liceo psicopedagogico Rodari, Luigi Nespoli, ha chiesto l´intervento delle forze dell´ordine e ha inviato un fax al prefetto affinché vengano sgomberati i due istituti dagli studenti che li stanno occupando da ieri mattina.
E nelle stesse ore, il ministro Gelmini, che aveva rinunciato alla sua visita programmata all´ateneo di Palermo, ha preferito l´Istituto professionale di Carate Brianza, praticamente un ritorno alle origini. Fuori dalla scuola è stata accolta da una salva di fischi, mentre all´interno è stata salutata da un applauso di studenti e genitori arrivati anche da altri istituti.
Torniamo all´università. La manovra finanziaria del ministro Tremonti è molto chiara: meno soldi per gli atenei, blocco quasi totale del turn over, l´auspicio che i privati investano nelle università statali. Una speranza che non si è mai trasformata in realtà. E i rettori? Enrico Decleva, magnifico della Statale di Milano, e presidente della Conferenza dei rettori non nasconde la sua preoccupazione: «Nel 2010 la situazione finanziaria degli atenei diventerà insostenibile e investirà tutte le università, anche quelle più virtuose, nessuno poi dice che la parte più consistente dei tagli - afferma Decleva - 471 milioni su 661 andrà a coprire i costi dell´abolizione dell´Ici».

Repubblica 21.10.08
E piazza Montecitorio diventa l'aula di fisica "L'Italia abbandona studenti e ricercatori"
"Pure gli studenti secchioni, quelli che stanno sempre sui libri, si stanno arrabbiando"
Domani a Firenze l´iniziativa sarà replicata anche dall´astrofisica Margherita Hack
di Marina Cavallieri


ROMA - «Sono tempi di tenebre e rabbia per gli scienziati italiani che si devono confrontare con un governo che sta ponendo in essere una filosofia di tagli alle spese...». Il professor Omar Benhar legge a bassa voce un documento, è un po´ impacciato, si capisce che preferirebbe stare in aula più che in piazza, in cattedra piuttosto che su questa insolita barricata, lui non è un agitatore ma solo un fisico. Mentre parla senza microfono seduti in terra duecento ragazzi prendono appunti. In silenzio. Sullo sfondo di una giornata luminosa c´è Montecitorio.
Strana protesta, è la lezione-sit in dei fisici della Sapienza, la rivolta dei «secchioni», quelli che non rinunciano a studiare anche se devono scendere in piazza, dissertare di «campi elettromagnetici» e «natura delle sorgenti» davanti al Parlamento è il loro modo di dire no ai tagli all´università e alla ricerca. «Vede, anche loro, i secchioni, quelli che stanno tutto il giorno sui libri, s´incazzano», dice sorridendo il professor Giovanni Amelino Camelia, che di secchioni e fisica dovrebbe intendersene, visto che è stato definito uno dei cinque nuovi Einstein dalla rivista statunitense "Discover magazine". «È una grossolana esagerazione...», precisa con modestia.
Anche lui è qui per fare lezione in piazza, sembra uno studente, con lo zainetto in spalla, se non fosse per i capelli un po´ brizzolati. Il suo impegno di fisico è quello di costruire «un´unica teoria che comprenda sia la relatività generale che la meccanica quantistica», ma per un momento i misteri dell´universo possono attendere. «Sono tornato in Italia dopo essere stato negli Stati Uniti, Inghilterra, Svizzera, speravo che con l´entrata in Europa ci fosse lo sforzo di raggiungere anche nella ricerca gli standard degli altri paesi. Sono stato ingenuo. È insopportabile l´idea che si possano risparmiare i soldi là dove si formano i giovani. Va detto che tutti i governi tagliano, la sinistra ci va di fioretto, la destra di sciabola. Ma ora mi sembra che a livello generale ci sia un messaggio chiaro: questa non è una scelta contingente, noi ricercatori siamo inutili per il paese, è una visione molto nitida». Il professor Antonio Davide Polosa, anche lui qui a fare lezione, aggiunge: «Si parla tanto di meritocrazia e poi i tagli vengono fatti a pioggia e gli investimenti a pioggia, la ricerca non è un costo pubblico è l´unico investimento, non si può tagliare il futuro di questi giovani, voglio anche precisare che a Fisica non c´è mai stato il blocco della didattica».
Intanto i ragazzi continuano a prendere appunti, le lavagne si riempiono di formule misteriose per chi non conosce i segreti della materia. Strana protesta, senza slogan e senza rabbia. Solo un silenzio grave, preoccupato. E un cartello: «Adotta uno studente italiano». «Sono contento - ha detto il professor Carlo Cosmelli - perché in trent´anni di università ho visto gli studenti contestare per ciò che gli interessava nell´immediato, adesso invece combattono per ciò che accadrà tra dieci anni».
Lezione universitaria all´aperto anche a Genova, sui gradini della Chiesa dell´Annunziata, coinvolti gli studenti del corso di Storia della Russia. A Firenze invece sarà l´astrofisica Margherita Hack a tenere una lezione domani pomeriggio in piazza della Signoria. A Roma i fisici torneranno nei prossimi giorni con le loro equazioni al Campidoglio e a piazza Navona mentre oggi pomeriggio alla Sapienza è previsto un sit-in per chiedere il blocco dell´anno accademico.

Repubblica Firenze 21.10.08
Università tutta occupata
Manifestazione regionale a Firenze contro il ministro Gelmini
Domani Margherita Hack farà lezione in piazza
di Gaia Rau


Da Architettura al plesso Morgagni: la protesta conquista altre facoltà
Occupazioni a raffica l´ateneo s´infiamma
Firenze, Pisa, Siena: oggi tutti in corteo
Partenza da San Marco. Signoria

Dalle scuole superiori all´università: le occupazioni non si fermano. Da ieri a Firenze la protesta, che già sta infiammando diverse facoltà tra cui Scienze, Agraria, Matematica, si è estesa anche ad Architettura, a Scienze della Formazione, al plesso di viale Morgagni (dove l´occupazione è passata non senza polemiche da parte dei giovani di Forza Italia). Un fronte sempre più compatto, in vista della manifestazione regionale di oggi che vedrà sfilare insieme, qui nel capoluogo toscano, i tre atenei di Firenze, Pisa e Siena, ai quali si aggiungeranno anche gli studenti delle superiori: in piazza San Marco, alle 9.30, sono attese migliaia di persone. «Non tagliateci il futuro» è lo slogan della protesta; altrimenti, mandano a dire i ricercatori, saremo costretti ad andare all´estero: che è anche il messaggio della performance-provocazione andata in scena ieri nel centro fiorentino: ricercatori travestiti da cervelli in fuga da piazza Signoria a piazza Repubblica. Ma intanto a Prato, l´occupazione del liceo Cicognini manda su tutte le furie il preside che sollecita l´intervento delle forze dell´ordine.

Finita le occupazioni nelle scuole superiori, la protesta si allarga alle facoltà: dopo Scienze, Agraria, Scienze Politiche e Matematica, sono da ieri occupate anche Architettura (sede di Santa Verdiana), Scienze della Formazione in via del Parione e il plesso didattico di viale Morgagni, che ospita aule di Ingegneria, Farmacia, Scienze e Medicina. Gli studenti di Psicologia hanno invece stabilito di non interrompere le lezioni ma di autogestire l´aula 12 trasformandola in un laboratorio permanente contro la legge 133.
E´ il risultato di una serie di assemblee che si sono svolte nelle varie facoltà, non senza alcune polemiche. In viale Morgagni il blocco della didattica è stato infatti deciso non a votazione ma «ad acclamazione». «Al termine di una serie di interventi tutti a sostegno della protesta, il moderatore ha ritenuto che l´orientamento generale dell´assemblea fosse a favore dell´occupazione, e il suo annuncio è stato accolto da un lunghissimo applauso», spiegano rappresentanti degli Studenti di Sinistra. Mentre i Giovani di Forza Italia parlano di «occupazione imposta»: «Durante l´assemblea l´intervento di un nostro rappresentante, contrario alla protesta, è stato accolto da applausi, segno che non tutti volevano occupare».
Dovrebbe invece finire oggi l´occupazione negli istituti fiorentini che sabato avevano deciso di posticipare il ritorno sui banchi. La Procura, intanto, ha affidato ai Carabinieri l´indagine per occupazione e interruzione di pubblico servizio aperta dopo la segnalazione di sei presidi. «Ma la nostra protesta non finisce qui, e insieme agli universitari, ai docenti e ai genitori studieremo altre forme di lotta contro la 133 e il decreto Gelmini», ribadiscono i ragazzi del coordinamento. A cominciare da oggi, quando anche gli studenti medi parteciperanno alla manifestazione regionale indetta da Flc-Cgil, Cisl Università, Fir Cisl, Uil Pa Ur insieme a lavoratori dell´Università, degli Enti di Ricerca e dell´Afam. Il corteo, che partirà alle 10 da piazza San Marco, passerà sotto le sedi di Ateneo, Provincia, Regione e Comune, per terminare con un´assemblea in piazza Santissima Annunziata. «Il percorso rappresenta simbolicamente la richiesta che il mondo della ricerca toscano rivolge alle proprie istituzioni locali, affinché ci sia una netta presa di posizione in difesa del ruolo pubblico della ricerca e della formazione». Contro i tagli scenderà in campo anche l´astrofisica Margherita Hack, che domani terrà in piazza della Signoria una lezione organizzata dagli Studenti di sinistra per poi partecipare, giovedì, a un dibattito al Polo di Sesto.
A Livorno e a Pistoia si sono svolte ieri manifestazioni che hanno visto sfilare rispettivamente 8 mila e 2 mila persone. A Pisa, gli studenti di Lettere hanno occupato l´aula multimediale di Palazzo Ricci. A Siena, infine, giovedì sera fiaccolata per la scuola e l´università.

Repubblica Milano 21.10.08
Il filosofo della scienza: "Riconosco la stessa impazienza della mia generazione"
Giorello: "Sarà un vero Sessantotto se non vince il ribellismo sterile"
di Anna Cirillo


Milano deve essere orgogliosa della sua qualità e varietà di atenei. Un patrimonio che non va sprecato

Giulio Giorello, professore di Filosofia della scienza alla Statale, manifestazioni dalle elementari all´università: è un nuovo �68?
«Ho partecipato al �68 e non me ne vergogno, ha ottenuto grandi conquiste sul lungo periodo per quel che riguarda la definizione di diritti di donne e uomini. Però non vorrei mettere una griglia vecchia sopra una realtà nuova, in crescita ed effervescente, che può esplodere o abortire. Stiamo a vedere. Non è che la storia si ripeta sempre, anzi. La storia spesso ci sorprende. Ma riconosco nei giovani di oggi la stessa impazienza che avevo io».
Sono solo contestazioni verso il ministro Gelmini o c´è dell´altro?
«Trovo poco interessante ridurre tutto alla Gelmini. Il disinteresse dei politici per la scuola, lo scarso peso dato alla formazione scientifica, il carattere burocratico dell´istituzione anche universitaria, la mancanza di strutture adeguate, il trattamento economico non sempre soddisfacente, sono mali molto più vecchi della Gelmini. E i tanto lodati ministri della sinistra non hanno fatto meglio della Moratti. Mi interessa la voglia di lottare di questi giovani, che non ne vogliono saperne dei partiti, dei dinosauri della sinistra. E i partiti dovrebbero prendere atto delle sonore lezioni che, a cominciare dai giovani con le loro proteste, la società civile sta dando loro».
Qual è il ruolo di Milano in questa protesta che dilaga?
«Milano deve essere orgogliosa di avere una concentrazione di università e di esperienze diverse che ci viene invidiata. Questa ricchezza e pluralità è un bene preziosissimo e non deve essere sprecato. Se gli studenti capiscono che sono sulla stessa barca dei docenti, se non si abbandonano a forme di luddismo, di ribellismo e di sterile e miope protesta come fu per la Pantera, allora questo non sarà un fuoco di paglia, un´occasione perduta. E il fatto che non ci sia la mano dei partiti su di loro è una opportunità».
Che cosa si sente di dire agli studenti?
«Devono essere i primi a capire che un´università efficiente e meritocratica è un vantaggio soprattutto per loro».
Che cosa dovrebbero fare?
«Quello che gli detta la coscienza».
Hanno ragione?
«Non c´è mai una parte che abbia tutte le ragioni, ma sui punti che ho citato prima hanno non poche ragioni».
Oggi stati generali alla Statale, sindacati e studenti insieme per trovare una linea comune: come la vede?
«Non do giudizi a priori. Alcuni anni fa avrei visto la presenza del sindacato in modo molto positivo, ma recentemente i sindacati sono passati a lotte di tipo corporativo, quindi tendo al pessimismo».
In che modo viene vissuta dai professori questa fase?
«Non bisogna fare l´errore di pensare che le proteste sono catastrofi, possono essere anche occasioni per crescere».

Repubblica 21.10.08
Cosa dare agli studenti
di Adriano Prosperi


Dobbiamo prendere atto di una realtà: l´analfabetismo civile della società italiana è un fenomeno gravissimo. E non è per caso che lo scontro sociale si sta riaccendendo intorno alla scuola. I giovani, le famiglie, gli insegnanti stanno prendendo coscienza di quello che li aspetta: una scuola pubblica pesantemente impoverita nei servizi, nel personale, negli edifici e nelle attrezzature.
A cui si aggiunge una università di infimo livello, fabbrica di lauree ridicole e di docenti senza qualità. Il tempo è giudicato maturo da chi comanda per liquidare la pesante struttura della scuola pubblica e per affiancare all´università pubblica in via di smantellamento fondazioni private capaci di velocizzare la fornitura del personale tecnicamente preparato e civilmente incolto richiesto dal sistema produttivo. La giustificazione che regge la proposta è quella dello stato di crisi delle finanze pubbliche, aggravato oggi dalla tempesta mondiale delle banche. Ma la voce che si leva dalle piazze e che trova la via dei fax e delle mail per raggiungere il Quirinale dice che, accanto alle banche, prima e più delle banche, c´è ancora chi vuole salvare la formazione dei giovani e la qualità del nostro sistema della ricerca universitaria. È urgente affermare che qui si gioca una partita strategica essenziale. Prenderne coscienza è fondamentale. Lo stanno facendo le famiglie, gli studenti, i docenti, con proteste e richieste di interessi diversi, non sempre componibili tra di loro. Alle famiglie la riforma minacciata per decreto renderà più complicato raggiungere scuole accorpate, più ridotto il tempo dell´affidamento dei figli, più povera l´offerta culturale. Agli scolari e agli studenti toccherà in sorte un luogo di rafforzata disciplina esteriore negli abiti, nella condotta, e di inadeguata offerta per la crescita civile e culturale. Queste economie tagliate con l´accetta sul sistema scolastico ricordano quel Procuste che segava le gambe ai clienti per adattarli alla dimensione dei suoi letti.
La scuola è il pilastro fondamentale della società civile in una democrazia vitale, il luogo della socializzazione e dell´avvio a una cittadinanza consapevole, l´unico mezzo efficace per eliminare le discriminazioni di religione e di etnia, per assorbire l´impatto dei flussi migratori mondiali abituando a crescere negli stessi ambienti coloro che, da adulti, si troveranno fuori dalla scuola a convivere nella stessa società. La rivelazione della stupefacente crescita numerica della popolazione italiana ci ha fornito i numeri di quel che è accaduto negli ultimi anni, ma ha fatto anche di più: ha dimostrato implicitamente quello che i risentimenti, le chiusure, i pregiudizi e le paure seminate a piene mani cercano di nascondere, il fatto cioè che ciascuno di noi conta per uno e che tutti insieme facciamo la somma paese. Democrazia e demografia debbono andare di pari passo. L´idea di istituire classi differenziate è sorella di quell´altra balorda idea delle impronte digitali da prendere ai bambini rom.
Riuscirà la protesta degli studenti a frenare la deriva italiana? La giovinezza e la speranza di cambiare in meglio il mondo sono sorelle. Speriamo, dunque. Quanto ai compagni di strada che i giovani in agitazione e le loro famiglie stanno incontrando, la loro solidarietà non potrà esimerli da qualche esame di coscienza. Sulla protesta dei sindacati gravano quei limiti corporativi che tanto hanno pesato in passato nell´ostacolare l´avanzata dei docenti migliori e la rimozione dei peggiori e nel sostituire pressioni e contrattazioni alla logica del concorso pubblico senza limitazioni, senza fasce protette o categorie riservate. Ma è ai docenti e al sistema che governa l´università come luogo di insegnamento e di ricerca che oggi si chiede una prova speciale di credibilità. Ne saranno, ne saremo capaci? C´è da dubitarne. Un fatto recente rafforza i dubbi.
Se il clan dei casalesi compie una strage in un centro abitato in pieno giorno, nessuno vede, nessuno denunzia, nessuno testimonia. Precisiamo: nessun italiano. La "vittoria dello Stato" di cui nel caso di Castel Volturno si è gloriato il ministro dell´Interno è dovuta a un immigrato, l´unico salvatosi dalla strage. Un uomo solo, terrorizzato, sfuggito alla morte, ma capace di un atto di coraggio elementare, di una domanda di giustizia che non è giunta da nessun´altra parte. Ma parliamo dell´università. Qui le stragi ci sono ma non si vedono. Sono stragi di speranze e di intelligenze. Ogni anno in questa stagione il saldo demografico dell´università si chiude in negativo: i giovani migliori vanno all´estero, i pochi che vengono in Italia da fuori vi arrivano da paesi più poveri e più incolti del nostro. Anche qui è stato un immigrato, un raro esempio di "ritorno dei cervelli" a fare una radiografia impietosa e documentata del sistema universitario. Il professor Roberto Perotti, già docente alla Columbia University di New York, oggi alla Bocconi, ne L´Università truccata (edizioni Einaudi) ha denunziato le malattie dell´Università e ha avanzato proposte. Pagina dopo pagina leggiamo nomi e cognomi. Una tabella a pagina 22 ricostruisce il sistema di parentela che domina la facoltà di economia dell´Università di Bari come pure quelle di Medicina e Chirurgia di Bari e della Sapienza di Roma. E una tabella fittissima di ben cinque pagine illustra il meccanismo dei "concorsi dei rampolli". Le regole della parentela sono elementari nelle popolazioni primitive studiate dal grande antropologo Claude Levi-Strauss. Lo sono anche nelle tribù accademiche italiane. Qui basta un padre Magnifico Rettore a determinare l´irresistibile entrata dei membri della sua famiglia nell´università che governa e nel suo stesso dipartimento. Naturalmente il problema non è la consanguineità dei professori ma il blocco degli studi e la penalizzazione dei giovani migliori che la logica mafiosa dominante nei concorsi ha prodotto con la scomparsa tendenziale delle università italiane dalla parte alta della comunità scientifica internazionale. Le pagine di Perotti fitte di nomi e cognomi potevano scatenare una tempesta di querele e di proteste, riempire le aule dei tribunali di dignità offese. Non è accaduto niente. Le toghe infangate e svergognate hanno continuano a coprire magnificenze fasulle abbarbicate a cattedre e rettorati. Si diceva una volta: "Calunniate, calunniate, qualcosa resterà". Viene voglia di dire oggi: criticate, criticate, niente resterà. Resta solo uno stato d´animo di invidia e di rancore, diffuso tra le famiglie soccombenti e nella poltiglia umana che dallo spettacolo dell´ignoranza trionfante e prevaricante ricava solo una spinta alla maldicenza anonima e indifferenziata e può consolarsi così delle proprie frustrazioni. Ma lo scandalo vero è la sordità delle istituzioni e dei poteri. In un´altra cultura avremmo visto probabilmente manifestazioni pubbliche, esibizioni delle vergogne su lenzuolate di nomi, proteste di associazioni e di sindacati, inchieste di magistrati, interrogazioni parlamentari. Nel libro di Perotti c´è quanto basterebbe in un paese dotato di un vero governo e di una vera opposizione per mettere in movimento almeno una inchiesta parlamentare. Anche perché gli intrecci osceni che avvengono nei concorsi non sono fatti solo di dinastie familiari. Come tutti sanno, il vigente principio dello "ius loci" affida al potere delle cosche accademiche localmente prevalenti la selezione delle nuove leve di docenti attraverso il paravento di finti concorsi. Su questa materia è stato detto tutto. Non è stato fatto nulla. Quel che è stato fatto è un disastro bipartisan che negli ultimi anni, col sistema del tre per due e con la regola concorsuale dello "ius loci" ha svenduto le residue energie dell´università italiana, ha riempito le scuole di ignoranti e ha moltiplicato le etichette di fantasia per fare posto agli asini obbedienti al potere del capocosca locale.
Ora siamo arrivati al rendiconto finale. Lo sforzo degli studenti in agitazione per coinvolgere i docenti e di riceverne pacche sulle spalle è patetico. Ci fa misurare la distanza dalle aspre e irridenti satire del ´68, quando l´apparizione di un professore in un´assemblea studentesca faceva scattare cori di derisione. I giovani di allora oggi sono vecchi. Molti di quelli che allora dominarono le assemblee studentesche occupano o hanno occupato cattedre, ministeri seggi parlamentari. Pesa sulle loro spalle un fallimento che non hanno saputo evitare, che hanno spesso contribuito ad accelerare. Il loro eventuale appoggio andrebbe esorcizzato come una minaccia da chi vuole veramente che la scuola e l´università italiana riprendano la loro funzione di cuore pulsante della società. Lo tengano presente i giovani che oggi, timidamente, cominciano a uscire dal torpore di un paese gravemente malato.

Corriere della Sera Milano 21.10.08
Effetto Gelmini Gli istituti paritari prevedono il 20 per cento di iscritti in più
Tempo pieno a rischio, assalto alle private. Le mamme: garantiscono il tempo pieno
Porte aperte I principali istituti paritari organizzano open day. I rettori: da noi ambiente sicuro e strutture solide


«Meglio giocare d'anticipo se in ballo c'è il futuro dei propri figli». Ecco perché i genitori milanesi stanno prendendo d'assalto i centralini delle scuole private. Obiettivo, riuscire a iscrivere per l'anno prossimo i figli nelle strutture private della città.
Boom delle paritarie: per settembre 2009 si prevede un incremento di alunni tra il 10 e il 20 per cento. Motivo? Stabilità (i docenti precari sono pochissimi), continuità didattica, rapporti costanti con le famiglie. E tempo pieno: dopo gli annunci dei tagli all'istruzione pubblica, meglio rifugiarsi nelle scuole che rimangono aperte fino al tardo pomeriggio.
La presidente del Faes, dove le classi sono separate per sesso e gli alunni portano la divisa: attività fino alle 18
È solo ottobre, ma i centralini sono roventi al Gonzaga. «Scusi, vorrei iscrivere mio figlio per l'anno prossimo. Si può?». Non proprio, è troppo presto. «Possiamo accettare una pre-richiesta», dicono dalle segreterie. Stesse telefonate al San Carlo, al Leone XIII, alle scuole Faes. E in tutti gli istituti privati (paritari) della città. Perché il boom c'è, per settembre 2009 si prevede un incremento di alunni tra il 10 e il 20 per cento. Effetto Gelmini? Anche. «Mamme e papà — spiegano i presidi — si informano soprattutti su tempo pieno e maestro unico».
Questione di stabilità (i docenti precari sono pochissimi nelle paritarie), di continuità didattica, di attività che continuano per tutto il pomeriggio «in un ambiente sano e sicuro », di rapporti costanti con le famiglie. Ecco perché i genitori di Milano iniziano a posare lo sguardo su elementari, medie e licei gestiti da privati. Anche le mamme più «laiche» e anti-gelminiane si stanno orientando verso quella direzione. «La mia bambina più grande — spiega Federica, libera professionista — va alla pubblica, fa il tempo pieno. La piccola entrerà in prima l'anno prossimo e per lei sto pensando a una scelta diversa».
E poco importa se tutti i più importanti istituti privati hanno da sempre il maestro prevalente (quindi in piena linea governativa). Perché il nodo è un altro: il monte ore. In tempo di tagli agli orari (smentiti dal ministro del-l'Istruzione), le mamme-acrobate chiedono una mano a preti e suore. E questi rispondono.
Leone XIII, l'open day di elementari e medie è in programma per sabato. Durante le lezioni. «Vogliamo far conoscere la scuola mentre la si fa», precisa il rettore, Gabriella Tona. Porte aperte e una lunghissima lista di attesa. Il motivo: «Di fronte all'incertezza della scuola pubblica, pagano solidità e classicità». Punta sull'innovazione (classi bilingue e laboratori di avanguardia) il Collegio San Carlo di corso Magenta. Il rettore, don Aldo Geranzani, dice: «Le famiglie possono contare sull'affidabilità del nostro progetto educativo. Con rammarico devo rifiutare decine di iscritti».
Maestro prevalente e «specialisti » per le lingue, l'educazione musicale, le attività motorie. E — argomento ancora più convincente — la possibilità di rimanere a scuola fino a tardi. Succede così alle scuole Faes, quelle con classi separate per sesso e la divisa. Carmen Pontieri, il presidente, racconta: «Le lezioni terminano alle 15.35 ma si possono seguire alcune attività fino alle 18». Analisi: «I genitori sono preoccupati. La scuola statale non dà sicurezza, le classifiche parlano chiaro. Nemmeno il bullismo va sottovalutato: molti ragazzi si rifugiano da noi dopo esperienze di questo genere».
Travaso dal pubblico al privato anche al Gonzaga. Il direttore Roberto Zappalà (il primo laico nella storia dell'istituto) conferma: «Riceviamo molte richieste di passaggi in itinere. Sì, quest'anno è cresciuta la curiosità nei nostri confronti».

Il Giornale 21.10.08
«Studenti in piazza trascinati dai partiti e dai loro docenti»
Il ministro della Gioventù: «Da ex contestatrice dico ai ragazzi: non siate pappagalli dei politici»
di Adalberto Signore


Sabato i cortei contro la riforma della scuola e il 25 ottobre la manifestazione del Pd. Ministro Meloni, ha la sensazione che ci sia un ritorno alla piazza da parte del centrosinistra?
«Credo che si tratti di fenomeni diversi e che uniscono spinte diverse. Sulla scuola, per esempio, c’è sì una comprensibile opposizione di docenti e sindacati ma c’è anche il coinvolgimento dei bambini che ho trovato non solo indegno, ma anche illecito».
Si riferisce alle foto dei bambini delle elementari che hanno manifestato contro la Gelmini?
«Usarli per gridare slogan di cui non capiscono neanche il significato è inqualificabile e denota un vero e proprio terrorismo psicologico verso le famiglie da parte di docenti e sindacati. Si sono prestati a una strumentalizzazione bella e buona».
Esclude che possano essere proteste spontanee?
«Mi scusi, ma che senso ha per studenti e famiglie difendere lo status quo ante del corpo docenti e delle baronie universitarie? La riforma prevede di razionalizzare i costi e reinvestire parte dei risparmi per migliorare le strutture scolastiche costruendo, per esempio, palestre dove non ce ne sono. Non capisco perché gli studenti dovrebbero essere contrari».
Un’idea se la sarà fatta?
«Ho l’impressione che il movimento studentesco si stia facendo trascinare».
Da chi?
«Dai docenti e dalle strutture di riferimento del movimento che sono, come è giusto che sia, i partiti e i sindacati».
La Cgil?
«Certamente nella piazza di sabato c’era una forte componente della Cgil».
Insomma, una protesta eterodiretta...
«Io sono una che ne ha fatte tante, finanche contro governi di centrodestra perché quando le cose non vanno bisogna avere il coraggio di dirlo. E sono una che crede fortemente che la partecipazione sia un dato positivo, un arricchimento per tutti».
Però?
«Però il tema della credibilità è altrettanto importante. Che le posizioni di studenti e docenti convergano è una cosa mai capitata prima, una contraddizione in termini visto che hanno obiettivi diversi».
Insomma, quella contro la Gelmini non le è sembrata una piazza credibile...
«Ho avuto la sensazione di un alto tasso di ideologicizzazione, di manifestazioni organizzate non dal movimento ma dalle sue strutture di riferimento».
Prima non accadeva?
«Il tentativo di strumentalizzare il movimento studentesco c’è sempre stato, ma negli anni passati la partecipazione era più ampia e si dialogava alla pari con i partiti riuscendo ad anestetizzarne gli eccessi. Non a caso, i protagonisti delle proteste sono sempre stati i Coordinamenti degli studenti e mai i partiti o i sindacati».
E oggi?
«Oggi i manifestanti ripetono a pappagallo quello che gli dice il partito di riferimento. Manca, per esempio, la parte di proposizione. Non sono d’accordo su come reinvestire i risparmi? Ce lo dicano, né io né la Gelmini avremmo problemi a discuterne. Invece non so neanche se hanno chiesto un incontro con il ministro dell’Istruzione».
Il 25 ottobre tocca al Pd e qualcuno già parla di un nuovo ’68...
«Non mi pare che la situazione sia cambiata rispetto a qualche anno fa. Subito dopo la vittoria di Prodi fummo noi a portare in piazza milioni di persone, ora tocca a loro. D’altra parte, la partecipazione popolare è sempre un elemento positivo».
Quella di Veltroni, insomma, è una scelta giusta...
«Questo credo dipenderà dal grado di partecipazione. Sabato sapremo se davvero l’Italia crede a un rischio putinizzazione, se pensa che il governo abbia lavorato male e se è convinta che la sinistra offra un’alternativa valida. Noi ne portammo in piazza due milioni, vediamo se - pure con l’aiuto del sindacato - ci sarà davvero una risposta compatta. Sarà un buon termometro anche per noi».

Repubblica 21.10.08
Centomila firme in difesa di Saviano


Sono centomila le firme in calce all´appello "Lottiamo per Saviano", firmato ieri da sei premi Nobel in difesa dello scrittore napoletano minacciato dalla camorra. Dario Fo, Mikhail Gorbaciov, Günter Grass, Rita Levi Montalcini, Orhan Pamuk e Desmond Tutu, hanno scritto: "...Un giovane scrittore, colpevole di aver indagato il crimine organizzato svelando le sue tecniche e la sua struttura, è costretto a una vita clandestina, nascosta, mentre i capi della camorra dal carcere continuano a inviare messaggi di morte...Lo Stato deve fare ogni sforzo per proteggerlo, ma il caso Saviano non è solo un problema di polizia...Con questa firma vogliamo farcene carico".
A quell´invito ieri si sono aggiunti i centomila che lo hanno sottoscritto sul nostro sito (www.repubblica.it, che continua a raccogliere adesioni e su cui potete leggere il testo integrale dell´appello) e anche molte personalità del mondo della cultura, fra cui dieci scrittori di fama internazionale.

l’Unità 21.10.08
Oggi dalle 15 alle 18 con lettori noti e non al programma «Fahrenheit»
Tutto «Gomorra» parola per parola
sulle onde di RadioTre


Sono già centinaia gli ascoltatori di Fahrenheit che da mercoledì scorso si sono prenotati per la staffetta di lettura integrale del libro di Roberto Saviano Gomorra, nel corso del programma di Marino Sinibaldi in diretta su Radio3 oggi dalle 15 alle 18. Una testimonianza di solidarietà per lo scrittore minacciato di morte dalla camorra che culminerà nello speciale di oggi, interamente dedicato a Gomorra e al suo autore: in diretta dalla Sala A di via Asiago a Roma, ascoltatori, scrittori, attori e studenti leggeranno passi del romanzo-denuncia. Fra i tanti che hanno aderito figurano Massimiliano Fuksas, Dacia Maraini, Enrico Mentana, Concita De Gregorio, Ascanio Celestini, Massimo Popolizio, Leo Gullotta, David Riondino, Giovanna Marini, Paola Pitagora.
Iniziativa analoga si svolge oggi a Roma, presso la Casa della Memoria e della Storia (via san Francesco di Sales 5): qui si svolgerà una lettura corale ad alta voce di Gomorra per «dare forza alla resistenza di Roberto Saviano contro gli “uomini di niente”». Tutti i cittadini sono invitati a partecipare: ciascuno leggerà una pagina e lascerà il proprio nome come simbolo di coraggio e di impegno civile.
E sempre a difesa di Saviano si schiera l’appello di Articolo 21 che invita ad aggiungere simbolicamente la nostra firma a quella dello scrittore sul libro-denuncia. Una firma per dire: io so e condivido. Per far sapere a Saviano che non è solo nella sua lotta. Solidarietà che si estende a quanti - intellettuali, scrittori, giornalisti e politici - che rischiano la vita e vivono sotto scorta. Tra i primi a firmare: Alberto Spampinato, Giuseppe Giulietti, Ottavia Piccolo, Davide Sassoli.

Repubblica 21.10.08
Alcol, allarme ragazzini ubriachi iniziano a bere tra gli 11 e i 15 anni
Nove milioni di italiani a rischio, in sessantamila sono seguiti dal servizio sanitario
di Alberto Custodero


ROMA - È l´Italia, in Europa, a detenere il record negativo dell´età più bassa del primo contatto con le bevande alcoliche: iniziano a bere vino birra e liquori a soli 11 anni, tra la quinta elementare e la prima media, poco più che bambini. Tra gli 11 e i 15 anni, un ragazzino su cinque inizia a bere, mentre tra i 16 e i 17 anni questa abitudine riguarda un adolescente su due. Ma è fra le ragazze che negli ultimi anni s´è registrato il maggior incremento di abuso di alcol: la percentuale di bevitrici adolescenti, fra il 1994 e il 2006, è più che raddoppiata, passando dall´8 al 16,8 per cento. Un trend preoccupante anche fra i coetanei maschi, passati dal 13,4 per cento al 24,2 per cento. Complessivamente, i minori considerati dalle statistiche «consumatori a rischio» - quelli che praticano l´extreme drinking, bere per ubriacarsi - sono oltre 740 mila: 470mila ragazzi e 270mila ragazze. È un vero «allarme alcol» quello lanciato ieri, a Roma, alla prima Conferenza nazionale sull´abuso di sostanze alcoliche organizzata dal ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali. Non a caso, nel 2006 sono più di 61 mila le persone in cura presso i servizi pubblici per l´alcoldipendenza - soprattutto giovani sotto i 30 anni - con un aumento del 9,6 per cento rispetto al 2005. «Come primo obiettivo immediato per far fronte all´emergenza alcol fra gli under 18 - ha dichiarato il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella - vieteremo la vendita di alcol ai minori, come avviene in Europa e in America. Ma la repressione non basta, ci sarà anche una campagna educativa». A questo proposito sarà presentato oggi il videogioco street-rider che il ministero del Welfare, con quello dell´Istruzione, distribuirà nelle scuole per fare conoscere agli studenti, attraverso una simulazione virtuale, i rischi del guidare ubriachi. «L´alcol - ha aggiunto il sottosegretario - è in Europa al terzo posto tra i fattori di rischio per la salute, subito dopo tabacco e ipertensione». Sarebbero 25 mila, secondo Emanuele Scafato, direttore dell´Osservatorio nazionale alcol dell´Istituto superiore di sanità, , «le morti evitabili ogni anno in Italia a fronte di un consumo moderato di bevande alcoliche». «Nel nostro Paese - ha aggiunto Roccella - paghiamo ancora un prezzo troppo alto per la mortalità a causa di cirrosi epatiche e malattie croniche del fegato. Così come per gli incidenti stradali che in alcune province sono attribuibili nel 57 per cento dei casi all´abuso di alcol». Secondo l´Istat, gli incidenti da «alterato stato psicofisico del conducente» (malore, sonno, alcol, droga), sono nel 2006 il 2 per cento del totale. Di questa percentuale, «l´ebbrezza alcolica rappresenta il 70,1 per cento, 4246 incidenti».
Il sottosegretario del Welfare ricorda come «il 70 per cento degli italiani non abbia idea di come si arrivi al limite di legge previsto per l´idoneità alla guida. Oltre al fatto che ancora il 50 per cento delle donne continua a bere in gravidanza». Al di là dell´allarme giovani, sono inquietanti anche i dati complessivi del fenomeno alcoldipendenze che riguarda tutte le età. Sono oltre 9 milioni, infatti, le persone che in Italia consumano vino, birra e liquori in modo rischioso. Allarmanti anche i dati per gli over 65: un anziano maschio su due è a rischio (una su dieci tra le donne), e stavolta per l´abuso di vino. Si tratta di un esercito di oltre 3 milioni e 100.000 persone con enormi costi sociosanitari. Ieri, intanto, l´associazione Assobirra ha annunciato una campagna educativa dal titolo «o bevi o guidi» con la proposta di «far rientrare nei quiz per la patente l´educazione al consumo responsabile di alcol».

Repubblica 21.10.08
Le vere cause del crac
di Luciano Gallino


Durante la conferenza stampa che ha concluso il vertice europeo della scorsa settimana sulla crisi finanziaria, Nicolas Sarkozy ha affermato che i dirigenti delle banche che hanno provocato lo sconquasso finanziario dovranno pagarla. Vaste programme, avrebbe detto il suo predecessore Charles De Gaulle. A cominciare dai numeri in gioco. Lo sconquasso è stato infatti provocato dalle strategie di mercato d´alcune migliaia di istituzioni finanziarie americane, europee e asiatiche. L´elenco comprende banche di deposito e banche d´affari (sebbene non sempre sia facile distinguerle), fondi speculativi, fondi comuni di investimento, compagnie di assicurazione, buon numero di fondi pensione che negli anni 2000 hanno scoperto il fascino dei mercati dei titoli, e vari altri tipi di enti privati e pubblici. Supponendo che i top manager siano una dozzina per ente, si arriva a una quantità di persone su cui fare indagini fiscali e contabili, civili e penali, dell´ordine di decine di migliaia. Aspettiamo di vedere chi e come ci metterà mano, a tali indagini.
Vastità del programma a parte, accusare della crisi i dirigenti delle istituzioni finanziarie, come han fatto autorevoli personaggi anche prima di Sarkozy, è del tutto fuorviante per cercar di capire le cause del disastro, quando non si tratti di un vero e proprio depistaggio. Non c´è dubbio che tra i dirigenti delle istituzioni finanziarie vi siano stati dei disonesti, e che sarà giusto colpirli. Ma bisognerebbe cercar di evitare di ripetere la commedia del 2000-2003, quando in Usa crollarono Enron e WorldCom, Adelphia Communications e Tyco International, e in Europa, tra gli altri, Vivendi e Parmalat. Il presidente Bush definì "mele marce" i dirigenti coinvolti, presto condannati a pene severe, e fece passare di corsa la legge Sarbanes-Oxley del 2002, che accresceva le responsabilità dei manager e doveva restaurare la fiducia nel sistema. Il fatto è che il marcio stava nella legislazione fino ad allora in vigore, assai più che nelle persone. Alcuni dirigenti avevano sì commesso delle frodi, ma fino a qualche giorno avanti erano stati oggetto di lodi iperboliche per le loro capacità manageriali. Da esse, si diceva, era nato un nuovo modello di impresa giuridico-telematica, un nesso iperflessibile di contratti e comunicazioni che generava profitti fantasmagorici. Un modello che nel caso Enron si fondava, tra l´altro, sulla modifica per dubbie vie della legislazione di una ventina di stati Usa al fine di consentirle di operare come un fulmine senza freni sul mercato dell´energia.
La situazione odierna è molto simile. Chi ha deviato tra i dirigenti va colpito. Ma incomparabilmente più grave è il guasto insito nelle leggi che hanno favorito, incentivato, premiato il comportamento di decine di migliaia di dirigenti che si sono limitati ad applicarle e, comprensibilmente, a sfruttarne ogni remota piega. Sono in primo luogo leggi Usa, e visto che perfino il presidente Bush ha ammesso che la crisi è partita da loro, su di esse occorre soffermarsi. Il cammino verso il disastro odierno è segnato da due principali leggi. La prima, la legge Gramm-Leach-Bliley del 1999, aboliva la legge Glass-Steagall del ´33 e permetteva da capo ogni sorta di attività speculative tanto alle banche commerciali che alle banche di investimento – una delle cause del crollo del ´29. Il primo firmatario, il senatore Phil Gramm, che avrebbe lasciato il Senato nel 2003 ed è oggi consigliere economico di McCain, era considerato uno dei più attivi portavoce degli interessi di Wall Street che si siano mai visti nel Congresso Usa. Un anno dopo Gramm colpiva ancora. Poco prima della pausa natalizia, con il presidente uscente Clinton ormai privo di effettivo potere, il Congresso stava discutendo una legge finanziaria che distribuiva tra un´infinità di soggetti quasi 400 miliardi di dollari. Il testo della legge era smisurato: circa 10.000 pagine. Il senatore Gramm riuscì all´ultimo momento a introdurre un emendamento di 262 pagine denominato Commodity Futures Modernization Act (Cfma). Il presidente Clinton lo firmava, trasformandolo in legge, il 21 dicembre 2000.
Il Cfma sottraeva quasi per intero i prodotti finanziari derivati alla regolazione ed alla sorveglianza sia della Commissione Titoli e Borsa (la famosa Sec), sia della meno nota Commissione per il Commercio dei Titoli Future. In tal modo apriva la porta alla demenziale moltiplicazione dei derivati finanziari trattati al di fuori delle borse. Dal 2000 a fine 2007, va ricordato, essi sono balzati, come valore nominale ovvero di sottoscrizione, da 100 trilioni a 600 trilioni di dollari, una cifra equivalente a 11 volte il Pil mondiale. Al riguardo, il presidente (1987-2006) della Federal Reserve Alain Greenspan ebbe a dichiarare in più di un´occasione che si era dinanzi a un nuovo sistema finanziario, che da un lato migliorava in misura super il livello di vita dei paesi che lo adottavano, dall´altra rendeva evidente che per raggiungere sicurezza e solidità la regolazione finanziaria doveva ormai affidarsi all´auto-sorveglianza delle istituzioni private. Come più di un commentatore ha scritto, in tal modo la custodia del pollaio veniva affidata alle volpi.
Ci si può chiedere perché mai dovremmo preoccuparci, noi della Ue, di un paio di leggi Usa. Due semplici risposte vengono alla mente. Anzitutto il sistema finanziario sortito da quelle leggi, ora sconvolto da una crisi senza precedenti, è stato magnificato per anni, sino ad un paio di mesi fa, come un modello di straordinaria modernità ed efficienza, che si doveva assolutamente trasferire nei nostri paesi. In tal senso si sono adoperati politici e imprenditori, associazioni di categoria ed economisti, quotidiani economici e banchieri. Non sembra, per fortuna, che vi siano riusciti del tutto. Ma resta vero che la legislazione e la normativa delle autorità di sorveglianza hanno fatto in questi anni, seppur con differenze di rilievo da un paese all´altro, lunghi passi in direzione d´una estesa adozione di quel modello. Per evitarlo, e imboccare la strada inversa, bisogna conoscerlo.
La risposta numero due è che un certo numero di trilioni di dollari di derivati non registrati dal mercato borsistico e quindi invisibili alle autorità di sorveglianza, sono stati presumibilmente acquistati anche da istituti finanziari della Ue, Italia compresa, per essere poi scambiati e rivenduti attraverso mille canali. Fino a ieri sono stati anch´essi glorificati quali capolavori di gestione del rischio, parti geniali della matematica finanziaria. V´è da sperare che il loro peso di mele marce non si riveli eccessivo per gli istituti finanziari e i risparmiatori. Ma forse potrebbe bastare per convincere qualche attore in più, in sede politica ed economica, che cacciare qualche dirigente va pure bene, ma solo una radicale reimpostazione delle regole del sistema finanziario mondiale ci porranno al riparo da catastrofi anche peggiori di quella attuale.

l’Unità 21.10.08
«Propaganda razzista»: condannato Tosi
Sentenza della Corte d’Appello di Venezia: due anni di reclusione per il sindaco leghista di Verona
di Luigina Venturelli


CROCIATA Una condanna per «propaganda di idee razziste» non dev’essere una tragedia per chi ci ha costruito sopra un’intera carriera politica. Il sindaco di Verona Flavio Tosi è stato condannato a due mesi di reclusione dalla Corte d’Appello di Venezia che, confermando la precedente sentenza del gennaio 2007, gli ha addebitato la violazione della legge Mancino.
I fatti contestati risalgono al 2001, quando il giovane e rampante leghista - all’epoca consigliere regionale del Carroccio - guidò una campagna contro alcuni insediamenti rom in riva all’Adige al grido di «gli zingari devono essere mandati via perché dove arrivano ci sono furti». Uno slogan abbastanza chiaro, nelle sue implicazioni discriminatorie, da giustificare il rinvio a giudizio deciso dal procuratore di Verona, Guido Papalia, e poi le successive condanne dei giudici di primo e secondo grado.
Con il procedere della causa giudiziaria, però, è cresciuta anche la fama politica di Tosi. Le crociate Gentilini-style hanno rafforzato il suo potere di segretario nella Lega provinciale, gli hanno regalato nel 2005 la rielezione nel Consiglio regionale veneto con il record assoluto di preferenze, gli hanno portato in dote l’assessorato alla sanità nel 2007. Infine, l’hanno incoronato sindaco di una Verona impaurita dallo straniero e assillata dalla supposta emergenza sicurezza. Non a caso, il suo primo atto da sindaco (oltre alla scelta di togliere dal suo ufficio il ritratto del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano) è stato lo sgombero del campo nomadi di Boscomantico, alla periferia nord della città, dove vivevano circa 120 persone di cui 70 bambini.
Insomma, Tosi ha pagato il suo pegno politico. Probabilmente il peso di una condanna per propaganda razzista era stato messo in conto. Il primo cittadino di Verona ha comunque annunciato un nuovo ricorso alla Suprema Corte: «Era ben difficile che una sezione della Corte d’Appello smentisse un’altra».
Il primo tentativo, del resto, era stato fortunato. La Cassazione stabilì che le dichiarazioni di Tosi sulla necessità di «cacciare gli zingari perché rubano» non configuravano un’istigazione all’odio razziale, perchè «la discriminazione per l’altrui diversità è cosa diversa da quella per l’altrui criminosità». E che il processo d’appello andava rifatto. Flavio Tosi si meritò pure una telefonata dell’avvocato personale di Silvio Berlusconi, Niccolò Ghedini, incaricato di esprimergli le più vive congratulazioni del presidente del Consiglio per il felice verdetto.
Ieri, infine, la penultima puntata della vicenda. Tosi - inutile dirlo - non ha dubbi sulla correttezza giuridica del proprio operato. «Rifarei tutto ciò che ho fatto per difendere i miei concittadini. Purtroppo devo constatare come nella magistratura ci sia ancora chi non sa distinguere fra chi delinque e chi difende le persone oneste». Chissà quali altri successi gli riservano le sue invettive contro gli stranieri.

il Riformista 21.10.08
Sabato 25 ottobre, rito religioso o marcia politica?
di Andrea Romano


La storia del Pci è piena di manifestazioni di piazza, ma ho l'impressione che il vertice del Pd abbia deciso di prescindere del tutto dall'indicare ai suoi militanti un autentico obiettivo di mobilitazione per il 25 ottobre

Predispormi quindi a una posa penitenziale, per la porzione sempre piccola che mi compete, come in una processione religiosa che si rispetti. Poi meditare su cosa ho fatto e soprattutto su cosa non ho fatto per evitare all'Italia una tale condizione. E infine riconoscere all'officiante e ai suoi assistenti - Veltroni, D'Alema, Rutelli e gli altri nuovi e soprattutto vecchi che troveranno posto sul palco - un ruolo di intermediazione tra me e il santo Pd.
Fuori di metafora, può darsi che quella del 25 ottobre sia l'evoluzione naturale dell'oggetto storico che abbiamo conosciuto come "manifestazione politica italiana". Ma ho l'impressione che il vertice del Partito democratico abbia deciso di prescindere del tutto dall'indicare ai suoi militanti un autentico obiettivo di mobilitazione.
E che il vero modello del 25 ottobre sia quello, altrettanto religioso, dell'ultima grande manifestazione di piazza organizzata da Berlusconi nel dicembre 2006.
La storia del Pci è piena di manifestazioni di piazza. Possenti e disciplinate espressioni di protesta contro questa iniziativa governativa o quella emergenza internazionale, grandiose adunate di un popolo che veniva chiamato a ritrovarsi attorno ad un singolo e concreto obiettivo politico. Forme di socialità politica che nell'Italia repubblicana sono state dominate dai contenuti e del linguaggio della sinistra, ma che si ricollegavano ad una tradizione in cui avevano avuto parte rilevante anche altre culture politiche: quella irridentista, quella patriottico-reazionaria, quella fascista. Nel caso del Pci la manifestazione di piazza non fu mai soltanto celebrazione di sé ma sempre una particolare modalità di partecipazione alla vita politica dell'Italia centrista. Dall'esterno ma su temi specifici - oggi diremmo su singole issues - facendo pesare la forza dei propri numeri su un sistema politico dall'apparenza immobile.
Non è un caso che nei sistemi aperti e bipolari, dove è normalmente prevista l'alternanza, la manifestazione di piazza sia uno strumento praticato solo di rado dai partiti politici. Non per moderazione di linguaggio o rifiuto della mobilitazione, ma perché la piazza dei cittadini o dei lavoratori è lasciata ai soggetti trasversali come i sindacati e le associazioni di opinione che si mobilitano su temi per l'appunto trasversali come il lavoro, la pace, la scuola. Vado a memoria, ma l'ultima volta che il Labour Party ha fatto ricorso a manifestazioni di piazza organizzate in proprio - senza dunque dare il proprio sostegno a iniziative già promosse dai sindacati o da altre associazioni - è stato negli anni più bui del thatcherismo. Quando il ciclo di "Red Wedge", il "cuneo rosso" che avrebbe dovuto spezzare l'accerchiamento conservatore, vide il partito far marciare i propri militanti verso memorabili concerti rock a cui presero parte tra gli altri Billy Bragg, gli Style Council e gli Smiths. Grande musica e buone vibrazioni, che tuttavia non poterono evitare la terza vittoria consecutiva di Margaret Thatcher nel 1987.
In Italia, al contrario, la tradizione della piazza di partito è proseguita ben oltre la fine del sistema bloccato della prima repubblica. A sinistra come a destra, con il polo berlusconiano da subito ben attrezzato a esibire la propria capacità di organizzazione e mobilitazione di popolo. L'ultima volta il 2 dicembre 2006, pochi mesi dopo la vittoria di Prodi, con Berlusconi e Fini a Piazza San Giovanni «Contro il regime e per le libertà». Anche quello uno slogan immateriale e salvifico, di sonorità religiosa. E anche quella un'occasione per radunare fedeli disorientati intorno a una leadership scossa dalla sconfitta, in una processione di popolo che aveva il solo obiettivo di ritrovarsi. Chissà che non sia questa la vera fonte di ispirazione per il 25 ottobre. Forse lo spero. Processione per processione, preferirei partecipare a una marcia politica che a un rito religioso.

il Riformista 21.10.08
Questa crisi è dei maschi e nessuno lo dice
di Ritanna Armeni


I volti di questo collasso sono volti di uomini. L'illusione di onnipotenza è degli uomini. È degli uomini l'avidità fine a sé stessa

Nel mondo c'è oggi una grande e rimossa questione: la questione maschile. Sì, la questione maschile, giacché quella femminile, non risolta, o malamente affrontata, rimossa non è più da qualche decina di anni.
Oggi - si dice - è in crisi la politica, è in crisi la finanza e l'economia. Forse è finito il liberismo e forse il capitalismo, questo capitalismo. Oggi - si ripete con qualche monotonia - il sistema non regge.
Ma nessuno dice che è in crisi il maschile. È in crisi cioè quel mondo costruito nella politica, nell'economia e nella finanza dagli uomini e secondo modelli maschili.
Eppure basterebbe riflettere sulla ormai non recente crisi della politica e su quella, attualissima, della finanza e dell'economia per rendersene pienamente conto. Abbiamo riempito milioni di pagine di giornali. Abbiamo usato molte parole e abbiamo fatto tante analisi. E nessuno si è accorto che quei guai irreparabili sono provocati da uomini. Nessuno ha voluto notare che i volti della crisi finanziaria sono esclusivamente maschili. Che coloro che pensano poi di porre rimedio alla catastrofe sono ancora uomini. E sono maschili i modelli in crisi, i poteri in questi giorni brutalmente crollati, le ricette che - di fronte alle crisi che squassano il pianeta - mostrano ogni giorno la loro inefficacia. Sono maschili le illusioni di potenza infinita, l'avidità fine a sé stessa, la proiezione della propria esistenza nei flussi di denaro. Così come è determinata dagli uomini la crisi della politica, la difficoltà della rappresentanza, la sfiducia diffusa nel futuro.
C'è un intero mondo che non regge più, che si avvita su se stesso, che non risolve i problemi, che constata ogni giorno di non avere gli strumenti giusti. Un mondo (di uomini e di donne) che soffre e perde e tuttavia tenacemente rimuove quella che forse non è la sola ma sicuramente è una delle più forti cause del disastro. La predominante e pressoché esclusiva presenza di un solo sesso nelle sfere del potere, lì dove si decide in che direzione deve andare il mondo. Nessuno si chiede, a nessuno viene il dubbio più ovvio: e se tutti questi guai, se questo collasso del sistema, se questa incapacità di tenere insieme i pezzi del nostro vivere civile dipendessero anche dal fatto che il comando è in mano quasi esclusivamente agli uomini. Se i loro modelli non reggessero più? Se non fossero più in grado di governare il pianeta? Se si fosse esaurita una fase della storia dell'umanità e fosse necessario iniziarne un'altra?
La rimozione è grande. Forse nessuna questione è messa da parte con maggiore disinvoltura e leggerezza. Forse nessuna domanda fa più paura di quella che mette in discussione ciò che finora è stato indiscusso e indiscutibile. Colpisce che non vi sia nessun tentativo di farla emergere nel dibattito culturale e questo sia presente tra donne solo in ristrette cerchie femministe. Che non venga assunta almeno come ipotesi in una delle migliaia di analisi che sono state fatte sulla crisi della politica e sul crollo del sistema finanziario. Che non ci sia un osservatore che abbia pensato ad essa. Il dibattito pur interessante che ha impegnato i giornali internazionali (meno i giornali italiani) sulla crisi dei modelli liberisti o del modello capitalista tout court, si è fermato qui. Non ha cercato di vedere se c'era qualcos'altro accanto e oltre. I maschi - amici e nemici del sistema - sono apparsi inconsapevolmente, ma incrollabilmente uniti nella difesa di sé stessi come l'unico sesso che può decidere le sorti del mondo e che può permettersi ogni errore perché, comunque, insostituibile. La catastrofe del modello maschile a molti e molte appare come quella provocata dai terremoti o dai grandi uragani. Inevitabile perché naturale.
Fino a quando? Quante catastrofi dovranno caderci sulla testa prima di avviare una riflessione? In quali baratri dovremo precipitare prima che qualcuno sollevi il dubbio, ponga almeno una domanda? E chi - uomo o donna - riuscirà a superare la paura che l'apertura di un dibattito di questo tipo inevitabilmente provoca?
Fare emergere la questione maschile dalla rimozione non significa, ovviamente, risolverla. Nominarla non porta automaticamente a una piena presa di coscienza e a un dibattito indolore. La fine della rimozione genera inevitabilmente un conflitto e cancella un vecchio equilibrio. Ma il conflitto per quanto doloroso è comunque produttore di nuove idee, comporta scelte, suggerisce comportamenti diversi. Metterebbe in connessione e a confronto modelli maschili sperimentati e modelli femminili ancora incerti, creerebbe una connessione fra la questione maschile non risolta ma finalmente emersa con l'altrettanto non risolta questione femminile. Che oggi non è rimossa, ma è afasica. E non perché le manchino le parole, ma perché non ci sono gli interlocutori.

Repubblica 21.10.08
Giovanni Bellini
La grande voce di un inventore rinascimentale
di Pietro Citati


Un artista influenzato a modo suo da Mantegna, i fiamminghi, Antonello da Messina, Giorgione, forse persino da Dürer
Alle Scuderie del Quirinale di Roma sono esposti sessantadue suoi dipinti provenienti da musei di tutto il mondo
Senza stancarsi mai, senza interruzioni, continuò a dipingere sino alla fine amando il paesaggio sempre più intensamente
Nelle sue "Madonne" colpisce l´intreccio delle mani: il mondo terrestre e il celeste s´incontrano e non possono essere sciolti
C´è un capolavoro come la "Pala di Pesaro" ma anche opere sconosciute e il primo quadro conservato al County Museum di Los Angeles
Non è stato soltanto "pittore per pittori" ma un maestro discreto che sa parlare anche alle persone più semplici

Da qualche giorno è aperta, alle Scuderie del Quirinale di Roma, una mostra di Giovanni Bellini. Tutto è bello: i 62 meravigliosi quadri, che comprendono alcuni capolavori ricostituiti, come la Pala di Pesaro, e molte opere sconosciute, che vengono dagli Stati Uniti, dalla Germania, dall´Inghilterra, da collezioni pubbliche e private: la scenografia e l´illuminazione, studiate con raro talento: il catalogo, a cura di Mauro Lucco e Giovanni Carlo Villa (Silvana editrice, pagg. 384, euro 35), con una preziosa appendice, curata da Manuela Barausse, di documenti in parte inediti. La mostra è aperta fino all´11 gennaio 2009; e attirerà moltissimi visitatori, giacché Giovanni Bellini è sia, come si dice, «pittore per pittori», sia un artista che parla a tutti, anche alle persone più semplici, con voce discreta, tenera e affabile.
Non sappiamo quando Giovanni Bellini sia nato: se attorno al 1430 o al 1440; sebbene gli studiosi preferiscano oggi la seconda data, credo a ragione. Apparteneva a una famiglia di artisti: il padre Jacopo e il fratello Gentile. Probabilmente era figlio naturale, visto che il padre non lo nomina nel testamento. Mentre il fratello Gentile raggiunse Costantinopoli, invitato dal sultano Mehmet II, Giovanni visse sempre, o quasi sempre, a Venezia, tra Rialto e san Zanipolo: i suoi viaggi sono ipotetici, inventati dai critici per spiegare affinità e influenze. Nel febbraio 1483, venne nominato pittore ufficiale della Repubblica, ed esentato dalle tasse. Ma la sua famiglia si estendeva oltre i canali di Venezia. A Padova, nel 1453, Andrea Mantegna aveva sposato sua sorella Nicolosia: Bellini ne aveva visto i quadri e le stampe, meditandoli a lungo.
Se dovessi indicare con un termine il talento di Giovanni Bellini, parlerei di pieghevolezza. Non era una parola di Bellini; e nemmeno mia, ma apparteneva a Giacomo Leopardi, quando voleva indicare il segno di un grande scrittore. Pieghevolezza è il dono di uno scrittore e di un artista, la cui mente ha molte forme: che tenta ipotesi diverse fra loro; ed ha bisogno di subire ogni specie di influenza e di echi per diventare sé stesso. Questo era appunto il caso di Giacomo Leopardi e di Giovanni Bellini. Leopardi scrisse le Memorie del primo amore, il Discorso intorno alla poesia romantica, gli Idilli, le Canzoni, le Operette morali, lo Zibaldone, il Risorgimento, e Le Ricordanze, i cosiddetti Canti fiorentini, la Ginestra: ogni poesia e prosa era un´ipotesi e un tentativo diverso. Giovanni Bellini imitò (se è possibile usare questa parola) Mantegna, i fiamminghi, Antonello da Messina, Giorgione, forse persino Dürer; e, per quanto si trasformasse, rimase sé stesso, obbedendo, avrebbe detto Goethe, alla sua Originalnatur.
E´ bello immaginare Andrea Mantegna (nato nel 1430 o 1431) e Giovanni Bellini (nato qualche anno più tardi) l´uno accanto all´altro, come in una coppia di Vite di Plutarco. Il viso bronzeo di Mantegna, nella chiesa di S. Andrea a Mantova, era eroico, fosco, austero, corrucciato, con capelli che scendevano a folte ciocche, e la corona d´alloro sul capo: lo sguardo, che ora è intensissimo, doveva essere sfolgorante nel 1507, quando il marchese Gonzaga fece incastonare due diamanti nelle pupille; e ancora oggi si percepisce la compiacenza con la quale Mantegna modellò questa proiezione di sé. Tiziano dipinse un ritratto di Bellini (probabilmente dopo la sua morte), che avremmo voluto vedere in questa mostra. Giovanni Bellini, ovvero, come diceva Marco Boschini, «la primavera del mondo in atto di pittura», era rappresentato di traverso, con la testa inclinata verso destra: stava invecchiando, mi sembra senza rimpianto: con occhi che guardavano fissi lontano, e insieme qui, l´albero o il cespuglio o il prato o la lepre o Maria o gli angeli che suonavano davanti a lui. Al contrario di Mantegna, non inseguiva nessuna immagine fantastica di sé stesso e della propria pittura.
Nei quadri di Mantegna, «l´uomo abita - così si usa dire - un universo di pietra»: con un furore indemoniato Mantegna assale la pietra, la frantuma, la spezza, la scheggia, la trasforma in apostoli o soldati romani: colpisce san Sebastiano con decine di aguzze frecce mortali; e la capigliatura dei suoi eroi, diceva Proust, «ha l´aria insieme di una nidiata di colombe, di una fascia di giacinti e di una treccia di serpenti». Giovanni Bellini fu sempre intimorito e pauroso, fino ai suoi ultimi anni, davanti a quella violenza crudele, che avrebbe potuto sconvolgere il suo regno di riflessi e lontane montagne azzurre. Proprio per questo cercò di imitarla, e di assimilarla. All´improvviso, nei quadri di Bellini, i volti diventarono fragili e freddi come ceramica: il gelo fece rabbrividire il suo mondo: i mantelli ricevettero pieghe innaturali come fossero stati segnati da colpi di frusta: le rocce dei monti assunsero forme scandite, squadrate, spezzate, geometrizzate: le figure furono viste di scorcio; mentre piccoli cherubini rossi indossarono ali rosse attorno al collo invisibile. Ma gli occhi di diamante di Mantegna erano lontani; e a poco a poco, con una accorta diplomazia di piccoli tocchi, Bellini insinuò la dolcezza nel mondo di Mantegna, che aveva sempre ignorato o ucciso la dolcezza.
[***]
Il primo quadro di Giovanni Bellini è, forse, una Madonna con bambino, conservato al County Museum di Los Angeles. L´abbraccio tra il figlio e la madre è tenerissimo: ma gli occhi di Maria non guardano il bambino, mentre quelli del figlio contemplano il vuoto; come se l´assenza apparente di rapporti fosse la forma più stretta di rapporto. Ciò che colpisce sempre, nelle Madonne di Bellini, è l´intreccio delle mani: Maria stringe con le mani il bambino, il quale gioca, a sua volta, con il pollice della mano destra della madre: lo stesso gioco si ripete tra le mani di Maria piangente, quelle di Maddalena e quelle del Cristo morto; i diversi mondi, terrestre e celeste, si incontrano, fino a non poter venire più sciolti, per mezzo di queste bellissime mani. Tutto attorno ci sono angeli: angeli lieti e sorridenti con rosse o rosee o celesti ali da farfalla, che suonano flauti o lire o mandole, e non si rattristano nemmeno se Cristo muore: in alto, stanno gruppi di piccoli cherubini rossi, senza corpo, e con germogli di ali rosse, attaccate al collo. Talvolta gli angeli vengono degradati a bambini, che nuotano arditamente nelle acque; e forse hanno un rapporto segreto con le moltitudini di lepri e conigli, che brucano lietamente le erbe, corrono tra i cespugli e le colline, e si fiutano a vicenda, come dovessero comunicarsi qualcosa.
I temi di Giovanni Bellini sono, quasi sempre, di una semplicità estrema: Maria, il bambino, qualche santo, Cristo sofferente, Cristo morto. Il Compianto su Cristo morto, una grande tela nel Palazzo ducale di Venezia, contiene un´immensa violenza dolorosa: col volto magrissimo del Cristo, gli occhi vuoti, il corpo esile ridotto alle ossa, con gli occhi chiusi e il grido disperato di Maria, e la luce che colpisce tremendamente da destra. Allora, Bellini aveva poco più di trent´anni. Nei decenni successivi, sembra che la tragedia, qui intollerabile, venga accettata: nemmeno i terribili Cristi moribondi o morti di Antonello, che probabilmente Bellini conobbe, lo influenzarono. Nella famosa pala di Brera, Cristo non soffre: altrove, assopito, abita nel luogo sconosciuto dove entriamo dopo la morte: o a metà strada, fermo tra terra e cielo, sopra le lepri e i conigli che scappano, davanti alle strisce di nuvole grigie e rosa.
Il paesaggio, che col trascorrere degli anni Bellini amò sempre più intensamente, diminuiva la tragedia della Crocefissione, del sangue e della morte, e qualsiasi tensione drammatica. La luce brillava, scintillava: giungeva contemporaneamente da due parti; riconosciamo la luce dell´alba, quella del mezzogiorno, quella del pomeriggio, quella del tramonto; come se un quadro fosse, in primo luogo, l´eco fedele dei momenti che passano. La luce produce riflessi: gli alberi si riflettono nelle acque del fiume; e, soprattutto, in un punto prodigioso del Battesimo di Cristo a Vicenza, la veste rossa di Cristo, tenuta in mano dalla Fede, si riflette nelle acque del Giordano, e il riflesso del Giordano si riflette, a sua volta, sul perizoma bianco di Cristo battezzato, trasformandosi in un lilla delicatissimo; e non importa se ciò non accada mai in natura, perché Bellini coltivava soltanto la natura trasfigurata. Sullo sfondo del paesaggio, specie nelle opere mature o tarde, si innalzano montagne azzurre; e città composte da edifici che stavano in città diverse: il San Ciriaco di Ancona, il campanile di Santa Fosca in Cannaregio a Venezia: città elette; mai la Gerusalemme celeste, che possiede una iconografia esclusiva.
A Venezia, Bellini conosceva benissimo i pittori fiamminghi, molto prima che arrivasse Antonello da Messina: Jan van Eyck, Dirk Bouts, Petrus Christus, Roger Van der Weyden. I suoi paesaggi erano pieni di echi fiamminghi: piante minuziosissime, crepitanti di vitalità come in Van Eyck, delle quali in un solo quadro, sono state riconosciute trenta specie diverse. La mano lasciava la tempera per la pittura ad olio fiamminga: o alternava, secondo le parti del quadro, la tempera e l´olio. Lo spazio si allargava: sembrava che non ci fossero più differenza tra erbe, montagne, case, acque, alberi, nuvole, Maria, e il bambino. Eppure, mentre tutto si avvicinava e fondeva, Bellini alzava una tenda colorata, sempre più vasta, tra Maria, il bambino e il paesaggio, come se non volesse che l´ultima comunione tra divino e natura, si realizzasse compiutamente.
Mentre fissava tutto ciò che è molecolare nella natura, Giovanni Bellini veniva ispirato da una grandiosa immaginazione architettonica. Non abbiamo, alle Scuderie del Quirinale, la Pala di san Giobbe, il Trittico dei Frari, la Pala di san Zaccaria: ma la Pala di Pesaro, che è forse la più bella ed è stata ricongiunta all´Imbalsamazione di Cristo dei Musei Vaticani. La cornice con fogliami dorati venne ideata da Bellini: la spalliera di marmo dietro Gesù e la Madonna è stranamente forata, così che si intravede un paesaggio di castelli, boschi e montagne, con un arboscello alto contro il vento: mentre la colomba dello Spirito Santo e i piccoli cherubini rossi, rosei e scuri occupano la parte superiore del cielo; il dipinto non è visto di fronte, ma da qualcuno che sta in basso, ai piedi del quadro, e guarda in alto, verso il Cristo assopito, che porge la mano sinistra alle mani della Maddalena. Quale respiro, quale spazio, quale riposo. Niente, nemmeno i cavalli e le crocifissioni delle predelle, disturba la quiete. Oltre alla grandezza, Bellini amava la frivolezza: come nelle piccole allegorie disposte nel restelo, un mobile della toilette; non disdegnava niente, e dipingeva con lo stesso piacere erbe, lepri, angeli, bambini, allegorie, decorazioni, Madonne, mantelli, riflessi.
Quando entrò nel sedicesimo secolo, nel quale visse ancora sedici anni, dipingendo «per excellentia», Bellini semplificò la propria tecnica. Ora, dipingeva sopratutto ad olio, e lavorava anche col palmo e i polpastrelli, così da alleggerire i tocchi del pennello, e impegnare tutto il corpo nell´amata fatica. Non smise di essere pieghevole: subì l´influenza di Giorgione, che era stato suo allievo, e che influenzava a sua volta.
[* * *]
Nel febbraio 1490, lasciando la corte di Ferrara, Isabella d´Este entrò nel palazzo ducale di Mantova, come sposa di Francesco Gonzaga. Aveva sedici anni, e sapeva a memoria le Bucoliche di Virgilio. Era intelligente, colta, ambiziosa, altera, arrogante: amava la letteratura e la pittura; e coltivava l´amicizia dei più famosi poeti ed artisti della sua epoca, specialmente quella di Pietro Bembo. Cantava benissimo. Quando muoveva le belle labbra nel canto - diceva Giangiorgio Trissino - , dal cielo scendeva una tale dolcezza che «l´aria si rallegrava e il vento si arrestava per ascoltarla». Nel 1498 le vennero assegnate le stanze con la Camera degli Sposi: ma Isabella amava soprattutto lo studiolo di sua invenzione, dove Mantegna dispose, uno di fronte all´altro, il Parnaso e il Trionfo della virtù.
Qualche anno dopo, nel 1501, Isabella chiese a Giovanni Bellini di dipingere per il suo studiolo «qualche Historia o una Fabula antiqua». Gentilissimo ma inflessibile coi committenti, Bellini prese tempo: non aveva voglia di dipingere una pittura allegorica: «non era omo per fare istorie»; e sopratutto non voleva che il suo quadro fosse messo «a paragone» con le allegorie del Mantegna, che gli incuteva ancora timore e reverenza. Poi decise di fare un Presepio: nell´ottobre 1503 disse che lo avrebbe consegnato in un mese e mezzo: mentì perché nel gennaio 1504 pretese un altro mese e mezzo, affermando che d´inverno i colori si asciugavano lentamente; Isabella gli avrebbe consegnato 50 ducati invece dei 100 promessi, perché una Madonna col bambino valeva la metà di una storia allegorica. Il 16 luglio 1504 il quadro era finito. Giovanni si scusò: sperava che Isabella fosse rimasta contenta del quadro, ma se non era soddisfatta, doveva attribuire la colpa «a la tenuità del saper mio»; Lorenzo da Padova aggiungeva che il quadro era bello, ma non possedeva l´invenzione meravigliosa di Andrea Mantegna. «Ben è vero che de inventione non se po´ andare apreso di Andrea eccellentissimo».
Isabella non era sazia. Lo studiolo, che avrebbe dovuto rivaleggiare e superare quello, a Urbino, di Federico da Monfeltro, aveva ancora lacune. Il 18 ottobre 1505 Isabella scrisse al Bellini che il Presepio era bello, ma lei non l´aveva messo nello studiolo: ora voleva avere, al più presto, «un quadro dipincto ad Historia da mettere nel nostro studio presso quelli del Mantegna vostro cognato»; e chiese a Pietro Bembo di inventarne il tema e le figure. Bembo rispose con prudenza che l´«invenzione» andava lasciata al Bellini, perché egli non tollerava di dipingere entro «signato termine», ma preferiva «sempre vagare a sua voglia nella pittura»: espressione bellissima. Poi la corrispondenza fra Isabella e Giovanni Bellini si interruppe, non so per quale ragione. Qualche anno dopo, Bellini dipinse una grande «Fabula antiqua», il Festino degli dei, ora a Washington: non per Isabella ma per Alfonso I d´Este, che lo destinò al suo camerino d´alabastro nel Castello Estense.
Intanto a Venezia era giunto alla fine del 1505 (forse per la seconda volta), il più grande pittore dell´epoca: Albrecht Dürer, che a trentaquattro anni aveva già dipinto capolavori: due autoritratti, il ritratto del padre, l´Adorazione dei magi, I Quattro cavalieri dell´Apocalisse, acquarelli con rocce, iris, Trento. Adorava soprattutto il Mantegna, che in quei mesi stava morendo a Mantova e che egli non riuscì a vedere. Come scrisse in una lettera famosa, viveva volentieri a Venezia: «Vorrei foste qui a Venezia. Ci sono tanti compagni gentili tra gli italiani, che sempre più si accompagnano a me, cosa che ad uno, poi, dovrebbe intenerire il cuore: studiosi, intelligenti, buoni suonatori di liuto, flautisti, intenditori di pittura, e molte menti nobili, gente di vera virtù e mi dimostrano molto amore ed amicizia». Avvolto dai quei suoni di flauto e di liuto, Dürer dipinse in cinque mesi la grande pala della Festa del Rosario, e Cristo fra i dottori, Un giovane e una veneziana.
Un giorno conobbe Giovanni Bellini, che lo lodò «davanti a molti gentiluomini». Dürer visitò il suo studio, dove scorse un angelo musicante, che trasferì in parte nella sua Festa del Rosario. Bellini ricambiò la visita: ammirò i quadri di Dürer; e lo pregò di dipingerne uno per lui; «lo avrebbe ben pagato». Poi - se l´aneddoto narrato dal Cammerarius è vero - gli chiese di prestargli o di regalargli uno dei suoi pennelli, perché Dürer dipingeva le capigliature fuse e compatte come a lui non riusciva. Allora Dürer gli mostrò il suo pennello: era normalissimo. Non so se Bellini abbia imitato anche Dürer, come sostiene Vasari.
Senza stancarsi mai, senza un attimo di dubbio o di interruzione, Giovanni Bellini continuò a dipingere sino alla fine. Era vecchio: aveva non sappiamo se settantasei o ottantasei anni. Pochi mesi prima della morte si fece prestare per due giorni, dai domenicani del Convento di san Giovanni e Paolo, una corona d´argento, che voleva imitare in un quadro. Morì il 29 novembre 1516: probabilmente senza dolore e rimpianto, come capita a tutti gli uomini, artisti o contadini o vagabondi, che compiono sino in fondo il lieve destino che qualcuno ha affidato loro.

step1.it 21.10.08
"In fondo è stato sempre un socialista"
di Vincenzo Bonaccorsi


Quando muore un grande uomo come Vittorio Foa credo sia naturale l’esigenza di sentirne parlare, di avere subito testimonianze, ricordi, sintesi di una biografia di tale valore; del resto credo che questa sia l’essenza di una “ritualità laica”, per chi, nel momento dell’abbandono, cerca il rapporto con la persona viva tramite la testimonianza di quelli che l’hanno conosciuta; per questo stamattina, sono corso a comprare i giornali: l’Unità e la Repubblica. Ho letto tante parole che comunicavano commozione, affetto, grande stima, eppure devo confessare di aver provato anche un senso di delusione. In particolare leggendo l’Unità. Concita De Gregorio, nel suo editoriale commemorativo, ci dice “come funziona la memoria: seleziona gerarchie segrete” (Unità del 21 ottobre pag. 28), ma a me sembra che nel modo in cui l’Unità ha selezionato la memoria non ci sia nemmeno una gerarchia bensì la manifesta sparizione di quanto la moglie di Vittorio Foa, Sesa Tatò, ha detto ieri con limpida chiarezza (vedi la Repubblica, “Cravatta rossa per l’addio, l’ultimo tifo per Obama” di Alessandra Longo, p. 48): “in fondo è sempre stato un socialista”; del Socialismo di Foa non c’è traccia nell’Unità, nemmeno nelle parole di Veltroni, riportate a p.3: con buona pace del segretario del PD, di cui non metto in dubbio il sincero cordoglio, Foa non è vissuto nell’Atene di Pericle e non ha fatto politica a Washington D.C., e quindi non è sufficiente definirlo un “militante democratico”.
Di fronte a una grande personalità come quella di Foa io credo sia importante dare risalto alle sue volontà riguardo al rito funebre, ma bisogna leggere attentamente sino in fondo l’articolo dell’Unità di Simone Collini (p. 3) per trovare: “secondo le sue volontà Foa sarà cremato” e il piccolo riquadro: “camera ardente alla Cgil”, e aggiungervi quanto dice Alessandra Longo, nell’articolo già citato: “ – noi vogliamo esequie laiche [è la moglie che parla]- Così aveva chiesto lui [prosegue la Longo]”. Dunque niente chiese né sinagoghe e c’è da restare stupefatti leggendo la commemorazione di Nello Ajello su Repubblica (“Foa, una vita per la sinistra”, p. 47): “Ebreo, era esente da ogni settarismo confessionale”, la frase suona come “cattolico, o induista, o musulmano, esente ecc.”; cioè Foa sarebbe stato credente, seguace dei precetti della Thorà, ma, bontà di Ajello, “senza settarismi confessionali”! Per fortuna, nello stesso giornale, ad arrivare in fondo all’articolo di Simonetta Fiori (“Un uomo allergico ai miti” p. 49) leggiamo: “Una inesauribile curiosità per la vita, che lo teneva lontano da umori notturni: «Da sempre mi accorgo di non pensare alla morte, e un poco me ne vergogno». Quando però ne parlava, era capace di trovare – forse lui soltanto – spunti di vitalità anche nel trapasso. «La questione su cui ci si concentra solitamente» mi disse «è il passaggio. Ecco, a me di quel passaggio interessa soltanto il venir meno di quella cosa straordinaria che è la vita, non il qualcosa che deve ancora arrivare, perché non arriva proprio niente”. Dice la De Gregorio: “[...] e nelle parole un dubbio, sempre”. Invece Foa ci lascia in eredità anche qualche solida certezza, e innanzitutto questa, che è morta una gran bella persona, senza alcun dubbio.

lunedì 20 ottobre 2008

l’Unità 20.10.08
L’allarme di Mussi. L’ecatombe dei ricercatori
di Maristella Iervasi


Settantamila ricercatori in Italia: oltre la metà è precario. Il rischio più imminente è che perdano il posto a migliaia a causa del decreto 133 della Gelmini che ha chiuso il rubinetto delle stabilizzazioni. La denuncia arriva dall’ex ministro dell’Università, Fabio Mussi, che svela i retroscena di una riforma che intende uccidere la scienza nel nostro Paese. «La scure Tremonti si è abbattuta pure sugli atenei. Che fine hanno fatto i soldi del fondo per la ricerca?».
Anche Fabio Mussi come ministro dell’Università è stato contestato dagli studenti. Ma è con la Gelmini che la Pantera è tornata in libertà, a «ruggire» rabbiosamente in tutti gli Atenei italiani. La ministra di Forza Italia in compagnia del duo Tremonti-Brunetta ha messo letteralmente la ricerca «in mutande» - come recita lo slogan del movimento anti-Gelmini. E Mussi ne svela i retroscena. «Il ministro ha detto che l’Università rischia la fine di Alitalia? Lo dice - sottolinea l’esponente di Sinistra democratica - per nascondere altri fatti ancor più gravi: la liquidazione di un’intera generazione di ricercatori. È in atto un olocausto di migliaia e migliaia di persone».
I ricercatori in Italia sono circa 70mila tra pubblico e privato. E oltre la metà di questi è precario. In tutti i campi: dalla ricerca medica e farmacologica all’Aids; dal campo sociologio a quello chimico e matematico. Il decreto 133 non solo ha ridotto il turn over del 20% e ha tagliato con l’accetta il finanziamento pubblico di un miliardo e mezzo ma ha anche «chiuso» il rubinetto già risicato delle stabilizzazioni e ha scritto la parola fine sui contratti flessibili. Risultato: «Stiamo perdendo la meglio gioventù - sottolinea Mussi -. E francamente non so proprio come potrà continuare a reggersi la nostra ricerca scientifica in queste condizioni. Nonostante i bassi investimenti finora si erano mantenuti livelli d’eccellenza, ma adesso... Addirittura i finanziamenti specifici per enti di ricerca sono stati trasferiti pari pari sull’operazione Ici. Che disastro!».
Andiamo con ordine e leggiamo per benino il contestatissimo 133. L’articolo 49 del decreto norma il lavoro flessibile nelle pubbliche amministrazioni. Di fatto è stato scritto ex novo per sostituire l’art.36 del decreto 165 del 2001, quello che introduceva il lavoro atipico ed estendeva quello flessibile in tutte le amministrazioni pubbliche. La «correzione» di questo norma stabilisce che le pubbliche amministrazioni «non possono ricorrere all’utilizzo del medesimo lavoratore» nell’arco di un quinquennio. «Il che vuol dire - precisa Mussi - che i precari di tutti gli ambiti lavorativi restano a spasso. Non possono più essere impiegati come lavoratori flessibili e non verranno neppure stabilizzati».
L’ultima Finanziaria Prodi conteneva una regola analoga ma consentiva per l’Università e la ricerca delle eccezioni. Ad esempio: se i contratti attingevano da fondi europei o per aree sottosviluppate si potevano rinnovare. La legge di bilancio 2007, all’articolo 519, consentiva inoltre la stabilizzazione di un certo numero di precari nelle pubbliche amministrazioni o il finanziamento per un piano straordinario di assunzione di ricercatori nelle Università ed enti di ricerca. Ed infine era stato istituito un fondo di 20-40 e 80 milioni di euro in 3 anni per l’Università e la ricerca. Le Università potevano quindi indire bandi di concorso per nuove assunzioni, circa 4mila. In pratica, Stato e gli Atenei co-finanziavano i posti. «Un regolamento innovativo - sottolinea l’esponente di Sinistra democratica -, ma la bocciatura della Corte dei Conti arrivò a crisi di governo aperta...». Il governo Prodi aumentò lievemente anche i fondi ordinari. «Da ministro mi battei in maniera furibonda, - ricorda Mussi, tuttavia un aumento ci fu.».
Tutto questo oggi con trio Tremonti-Gelmini-Brunetta è letteralmente sparito. Niente più norme per le stabilizzazioni dei precari, i contratti flessibili non si possono rinnovare per legge, la scure Tremonti si è abbattuta oltre che sulla scuola anche sugli Atenei, tagliando un miliardo e mezzo nei prossimi 3 anni. «Per migliaia e migliaia di giovani ricercatori precari - precisa Mussi - non c’è alcuna aspettativa di un futuro: è stato messo uno stop al rinnovo dei contratti a tempo determinato o flessibile. E per queste persone non c’è alcuna possibilità di concorso».
Tanti i quesiti aperti. «Che fine hanno fatto i soldi del fondo per i ricercatori che sono ancora a bilancio? si domanda Mussi -. Perchè si è scelto di buttare fuori un’intera generazione di giovani»?. E ancora: «Chi farà ricerca in Italia? I vecchi prof e i neo laureati a gratis?».
Per l’Università e la ricerca, pubblica e privata, l’Italia spende meno del 2% del Pil. Lo Stato spende il 20-30% in meno dei paesi europei, del Nord America e anche dell’Asia. Le imprese italiane in ricerca e innovazione spendono mediamente meno della metà delle loro consorelle europee. Nonostante tutto i nostri ricercatori a livello internazionale sono valutati terzi al mondo per produttività procapite. Insomma, fino ad oggi l’Italia spende una miseria (è 32esima nella classifica mondiale per formazione superiore e ricerca) e tuttavia ottiene risultati brillanti. La politica del centrodestra sembra voler chiudere le porte del futuro.

l’Unità 20.10.08
Nel vortice di Tremonti
Gelmini, Bondi, Prestigiacomo: quando i ministri fanno harakiri


I ministri si fanno del male, sono in opposizione con i loro ministeri, smontano anziché costruire, finiscono in vortici negativi da cui non sanno esattamente come si fa a uscire. Negli ultimi giorni il governo Berlusconi può vantare una serie di autogol abbastanza rilevanti, e piuttosto curiosi. Il primo fra tutti è quello di Mariastella Gelmini, ministro della Pubblica Istruzione. Non è tanto la protesta degli studenti in tutta Italia il punto, quanto il fatto che la sua riforma va a tagliare, ridimensionare e sminuire l’importanza proprio della scuola. Un tempo nelle vecchie logiche democristiane, anche i ministri peggiori si inventavano qualcosa per dimostrare che i loro ministeri erano importanti, che tutto doveva essere in espansione (anche quando non poteva esserlo), che se c’erano tagli, questi tagli venivano compensati da altro. Ma ora tutto è cambiato. Sembrano, più che dei ministri, dei commissari liquidatori.
Gelmini ha dato il meglio si sé con tutta una serie di tagli che riducono anche il suo ruolo, e che dimostrano quanto poco importi a questo governo di scuola e istruzione: adozione del maestro unico, la revoca del tempo pieno, il taglio agli organici e agli orari di lezione, il blocco del turnover, la chiusura dei plessi scolastici nei piccoli centri. Soprattutto la chiusura dei plessi e i tagli a orari e agli organici sono un ridimensionamento che un tempo un ministro, per il proprio ministero, non avrebbe mai accettato.
E il caso della Gelmini non è isolato. Venerdì Stefania Prestigiacomo, ministro dell’Ambiente, ha rilasciato un’intervista dal Corriere della sera che sembrava abbastanza surreale. Di fronte alle critiche di Stavros Dimas, il ministro per l’Ambiente europeo, che ha ritenuto inattendibili le stime delle ricadute economiche sulle industrie italiane del «Pacchetto clima energia» proposto dalla Commissione europea, Stefania Prestigiacomo non ha esitato ad ammettere una sorta di impossibilità a fare il proprio mestiere di ministro dell’Ambiente e ha detto: «le stime presentate dal nostro Paese non sono “pessimistiche” bensì “le più realiste”. Non ce la facciamo ad arrivare in tempo per il pacchetto clima». Aggiungendo poi che comunque: «Non ha senso che ci si faccia carico noi dell’inquinamento del mondo, quando a sfilarsi da Kyoto sono stati Paesi come Stati Uniti, India e Cina». Tutto questo è un autogol strepitoso e inquietante. Un ministro che in fondo dice che, vista l’aria generale, meglio non preoccuparsi troppo dell’Ambiente, e aggiunge di non essere in grado di arrivare in tempo per rispettare i parametri del pacchetto-clima. Ovvero, siamo pronti a fallire nei nostri obiettivi, certo, ma non è colpa nostra. Perché è colpa, a quanto si può capire, del solito ministro predecessore Alfonso Pecoraro Scanio.
Nell’elenco degli autogol in soli due giorni, c’è anche un terzo caso, quello del ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi, che non trova di meglio che dare sferzate a iniziative culturali, celebri, consolidate, e famose nel mondo. Un caso per tutti quello del Maggio Musicale Fiorentino. Due giorni fa Bondi interviene a un convegno sulla «Cultura e il Made in Italy». E a proposito dei tagli che la finanziaria impone agli enti lirici, se ne esce con una frase bizzarra: «In Italia nella musica abbiamo due punte di eccellenza, il teatro alla Scala di Milano e l’orchestra sinfonica Santa Cecilia di Roma. Ebbene concentriamo il grosso delle risorse su di loro. Possibile che lo Stato debba ripianare sempre i loro debiti? Cambiamo sistema: concentriamo il grosso delle risorse su Roma e Milano. Se poi altre importanti città d’Italia vogliono un loro teatro d’Opera, allora il Comune o la Regione dimostrino il loro amore per il teatro, ne facciano un vanto per la loro città e facciano dunque uno sforzo conseguente, perché, secondo me, lo Stato potrà pure fare la sua parte, ma non è giusto che paghi sempre tutto». L’attacco indiretto di Bondi a una celebre istituzione musicale, conosciuta in tutto il mondo, ha qualcosa di autenticamente autolesionista. Le proteste a Firenze si sono fatte sentire, ma il problema serio è che queste parole suonano più come un attacco al comune di Firenze, che è di centro-sinistra (contro Roma e Milano che non lo sono), piuttosto che una vera preoccupazione per i bilanci del Maggio Musicale Fiorentino. E ancora una volta un ministro è pronto a rinunciare e a dichiarare una incapacità del proprio dicastero: che sia di bilancio, che sia tempo perso, che sia di cecità ideologica, poco importa. Importa che i tre ministri del governo Berlusconi hanno fatto, e stanno facendo harakiri come se non fossero i veri responsabili dei loro ministeri. Ma soprattutto dimostrando uno zelo autentico nell’osservare, come sentinelle impaurite, regole e tagli di Giulio Tremonti.

l’Unità 20.10.08
Omicidi bianchi: dal governo è già controriforma
Controlli più difficili, subappalti più facili. Proprio come vuole Confindustria
di Felicia Masocco


SCELTE In Italia ci sono più morti sul lavoro che vittime della malavita. Lo dice il Censis e nessuno smentisce. Eppure la battaglia per la sicurezza nel lavoro sembra l’ultimo dei pensieri del governo. A ogni occasione il Capo dello Stato la riporta all’attenzione. I media volenterosi recepiscono, il governo no. Se si esclude una campagna di informazione diretta ai lavoratori che serve sempre, gli interventi fin qui adottati dall’esecutivo sono tutti in peggio. Non per il governo, ovviamente, che li spiega con la volontà di «semplificare», di togliere «lacci e lacciuoli» alle imprese, a cominciare dalle sanzioni da pagare in caso di violazione delle norme. La convinzione del ministro del Lavoro è infatti che troppe regole o troppe sanzioni, «distolgono l’attenzione dallo sforzo di aumentare la sicurezza». Maurizio Sacconi lo disse ai primi di giugno, alla vigilia di un «piano straordinario» annunciato sulla scia dei sei morti di Mineo (Catania). Un piano di cui s’è persa traccia, se si esclude la Pubblicità progresso. Il ministro parlò di sinergie tra Stato e Regioni sulla vigilanza, di un tavolo tecnico per creare un sistema di monitoraggio, di un piano, disse, da definire con le parti sociali, visto che «quindici organizzazioni imprenditoriali hanno criticato il Testo Unico varato dal precedente governo». E questo governo non muove paglia se non piace a Confindustria.
Tutto da rifare, dunque. Solo due giorni fa, sulla scia di un’altra strage - ben otto morti in un giorno - Sacconi ha annunciato che l’esecutivo intende creare un’unica Agenzia per la salute e la sicurezza dei lavoratori, integrando quelle che già ci sono all’Inail e dall’Ispesl». Serve proprio?
Per i sindacati e per l’opposizione no. Le norme ci sono, sono racchiuse nel Testo Unico varato dal governo Prodi. «Sono buone leggi che vanno applicate integralmente e rese operative nei territori e nei luoghi di lavoro con il concorso delle parti sociali, delle istituzioni, delle forze della cultura», sostiene l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano (Pd) che della sicurezza fece un tratto distintivo della legislatura. Quello di oggi è la battaglia contro i “fannulloni”. Sono leggi che il governo ha riscritto o intende riscrivere. Intanto passa il tempo e passa un messaggio: perché rispettare le leggi se già si sa che verranno cambiate? La guardia si abbassa. Senza contare che qualcosa è già cambiato. È stata spostata all’inizio del 2009 la data di presentazione del Durc, cioè del documento che certifica la regolarità dei contributi versati dai datori di lavoro ai dipendenti. È necessario tanto negli appalti pubblici, quanto nei lavori di edilizia privata, perché è noto che nella piramide dei subappalti i primi ad essere tagliati sono proprio i costi della sicurezza. Sono stati poi soppressi i libri matricola, il libro presenze e il libro paga, sostituiti dal cosiddetto “libro unico del lavoro” che rende più difficili le funzioni ispettive. Sempre sugli appalti è stata abolita la responsabilità solidale a carico del committente che aveva l’obiettivo di una maggiore trasparenza contributiva, perché si sa che l’insicurezza aumenta con il lavoro nero. Per non parlare del tentativo, fatto rientrare dall’opposizione, di abrogare la norma che imponeva la comunicazione delle assunzioni il giorno prima dell’inizio del rapporto di lavoro. Tutti «formalismi inutili», per il governo. Che li riscrive, li allenta, li abolisce. Mentre si adopera per aumentare le ore di straordinario e il lavoro precario.

l’Unità 20.10.08
Pio XII? Non vide l’orrore nazista e fascista
di Luigi Cancrini


Beatificare Pio XII? Perché? Papa Ratzinger ha giustificato questa proposta, autorevolmente da lui avallata, dicendo che Pio XII ha difeso gli ebrei dalla persecuzione nazista e fascista. Lei che ne pensa?
Lettera firmata

«Questo è un libro anticlericale, scrive Ernesto Rossi presentando Il sillabo e dopo (Kaos edizioni, aprile 2000), lo hanno scritto otto pontefici». Io, per rispondere, seguirò il suo esempio. Citerò solo Pio XII che parla in qualità di pontefice aggiungendo un breve commento e chiedendo a chi legge di dare una risposta al suo quesito.
Chiesa e nazismo d’accordo con vantaggio delle due parti (lettera personale ad Hitler del 6 maggio 1939). «Desideriamo, fin dall’inizio del nostro pontificato, rimanere legati da intima benevolenza al popolo tedesco affidato alle sue cure, e invocargli paternamente da Dio Onnipotente quella vera felicità a cui provengono dalla religione nutrimento e forza. In spirito di pronta collaborazione a vantaggio delle due parti (Chiesa e Stato) indirizziamo al raggiungimento di tale scopo l’ardente aspirazione che la responsabilità del nostro ufficio ci conferiscono e rendono possibile» (pagg.95,96). Quando questa lettera fu scritta, nota Rossi, «Hitler aveva già da un pezzo programmato la “religione del sangue” contro la religione di Cristo, aveva dichiarato l’incompatibilità fra l’appartenenza alle organizzazioni cattoliche e l’appartenenza alle organizzazioni naziste, aveva sciolto le organizzazioni dei giovani esploratori cattolici, aveva inviato nei campi di concentramento parecchi esponenti del clero che non si adeguavano alle posizioni dei nazisti, aveva proibito i matrimoni dei cattolici con gli ebrei e, soprattutto, aveva iniziato la più spietata campagna contro gli ebrei, rinchiudendoli nei ghetti, obbligandoli a portare sugli abiti un distintivo, sequestrando i loro beni, facendo incendiare e devastare le sinagoghe e negozi ebraici, scatenando i pogroms e inviando a morire di stenti e sotto le torture decine di migliaia di innocenti. Di tutte queste criminali efferatezze e di queste aperte violazioni del Concordato non si trova alcun cenno nella lettera riportata nel testo» (nota n.6, pag 96).
La pace di Cristo restituita all’Italia (Encliclica Summi pontificatus, 20 ottobre 1939). «A particolare letizia si eleva il nostro cuore nel potere in questa prima Enciclica, indirizzata a tutto il popolo cristiano sparso nel mondo, porre in tal novero la diletta Italia, fecondo giardino della fede piantata dai Prìncipi degli Apostoli, la quale, mercé la provvidenza operata dei Patti Lateranensi, occupa ora un posto d’onore nel rango degli stati ufficialmente rappresentati presso la Sede Apostolica. Da quei patti ebbe felice inizio la “pace di Cristo restituita all’Italia”» (pagg 96, 97).
I nobilissimi sentimenti cristiani di Franco (Radio messaggio alla Spagna, 16 aprile 1939). «I disegni della Provvidenza, amatissimi figlioli, si sono manifestati una volta ancora sopra l’eroica Spagna. La Nazione eletta da Dio come principale istrumento di evangelizzazione del Nuovo Mondo e come baluardo inespugnabile della fede cattolica, ha testé dato ai proseliti dell’ateismo materialista del nostro secolo la più elevata prova che, al di sopra di ogni cosa, stanno i valori eterni della religione e dello spirito. Esortiamo pertanto i Governanti e i Pastori della cattolica Spagna ad illuminare la mente di coloro che sono stati ingannati, additando loro con amore le radici del materialismo e del laicismo. Non dubitiamo che ciò avverrà, e di questa nostra ferma speranza sono garanti nobilissimi i sentimenti cristiani di cui hanno dato sicure prove il Capo dello Stato e tanti suoi fedeli collaboratori» (pagg. 97,98) . Proprio in quei giorni, nota Rossi, «i “nobilissimi sentimenti cristiani” del gen. Franco e dei suoi collaboratori sono messi bene in luce da Galeazzo Ciano che scrive a Mussolini (19 Luglio 1939): i detenuti politici sono ancora 200.000 ma i processi si “svolgono ogni giorno con rapidità che può ben dirsi sommaria e le fucilazioni sono ancora numerosissime. Nella sola Madrid dalle 200 alle 250 al giorno, a Barcellona 150 e 80 a Siviglia, città che non fu mai nelle mani dei rossi”» (nota n. 7 pagg 98,99).
Sono esempi, mi pare, del tutto chiari. In essi il papa di cui oggi si propone la beatificazione dimostra di dare un riconoscimento e un appoggio entusiasta ai tre regimi, alle tre dittature fasciste che stanno insanguinando l’Europa e l’Africa. Lo fa, per di più, parlando ex cathedra, non a titolo personale, con messaggi pubblici che chiedono ai cattolici di riconoscersi, esaltandoli, in personaggi di cui la storia propone oggi la pochezza un po’ ridicola e avallando di fatto scelte di cui la storia definitivamente ha riconosciuto l’assurdità, la brutalità, la totale irrazionalità.
Quelle che fanno da (tragica) contrapposizione a questa amicizia empatica e mostruosa di papa Pio XII per tre dittatori senza scrupoli sono a questo punto due considerazioni semplici di cui forse l’opinione pubblica (e la riflessione dei cattolici) dovrebbero tenere conto. Vi era una coscienza diffusa, allora, in tutto il mondo del carattere espansionista e profondamente antidemocratico della politica nazista e fascista del disastro cui questa politica stava irreparabilmente portando il mondo. Pio XII non se ne accorgeva (lo Spirito Santo allora non lo illuminò) e non prese posizione in nessun modo contro questi tre grandi paesi di cui sperava forse che avrebbero sconfitto il comunismo «ateo» e imposto a tutto il mondo, se avessero vinto, una religione in cui la Chiesa di Roma avrebbe avuto la possibilità di contare: moltissimo in Spagna e in Italia, molto nel Reich tedesco. Nessuna preoccupazione e nessuna reazione destarono, d’altra parte, in Vaticano le leggi razziste che in quegli anni erano state promulgate in Germania ed in Italia: leggi orribili per tutti oggi ed a cui andarono invece, allora, gli elogi di esponenti importanti della Chiesa (un esempio per tutti è quello di Agostino Gemelli) che nella persecuzione degli ebrei avevano la stoltezza (la crudeltà, il sadismo vendicativo e cretino della persona malata) di riconoscere la mano e il volere di un Dio che di Mussolini e Hitler si sarebbe servito per vendicare la morte di Gesù. Una stoltezza (una crudeltà, un sadismo vendicativo e cretino di persona malata) evidentemente avallata allora dal silenzio del Papa che oggi si propone di beatificare.

l’Unità 20.10.08
Israele gela la Santa Sede: su Pio XII nessuna marcia indietro
Gerusalemme ribadisce l’invito a Benedetto XVI a visitare lo Stato ebraico ma chiede che siano finalmente aperti gli archivi segreti vaticani
di Umberto De Giovannangeli


ISRAELE tiene il punto. Papa Ratzinger resta «un ospite gradito ed amato» ma su Papa Pacelli, lo Stato ebraico non fa marcia indietro.
A ribadirlo è il portavoce del ministero degli Esteri israeliano: «Non si possono chiudere gli occhi di fronte al controverso ruolo storico di papa Pio XII ed al suo comportamento nei giorni in cui migliaia di ebrei venivano quotidianamente mandati al massacro».
Sulla questione della rimozione da parte dello Yad Vashem della targa (fortemente critica verso Pio XII) contestata dalla Santa Sede, il portavoce glissa limitandosi ad osservare che «lo Stato d’Israele non commenta le dichiarazioni di persone (il postulatore della causa di beatificazione di Papa Pacelli, padre Peter Gumpel, ndr.) che non sono state autorizzate a parlare a nome di papa Benedetto XVI». Interpellato dalla radio israeliana padre David Jaegger, un rappresentante del Vaticano in Israele, ha dichiarato: «Padre Gumpel non rappresenta il Papa e quest'ultimo deciderà sovranamente la data del suo arrivo» in Terrasanta.
«L'invito rivolto a papa Benedetto XVI a venire (in Israele) è stato rinnovato e vale sempre (...). Le divergenze (sulla beatificazione) possono essere ridotte, ma la data di questa visita non è ancora stata fissata», puntualizza l'ambasciatore dello Stato ebraico presso la Santa Sede, Motti Levy, ma resta una frase del portavoce del ministero degli Esteri israeliano che più di tante disegna la sensibilità e la prudenza di Israele sul tema: «Fintanto che gli archivi del Vaticano non saranno aperti per i ricercatori, la questione storica (su Pio XII, ndr.) resta aperta e dolorosa». Un concetto, quello dell’apertura degli archivi segreti del Vaticano, su cui ieri ha insistito la direzione dello Yad Vashem.
In una nota fatta pervenire alla sede di Gerusalemme dell’agenzia Ansa, la direzione del Museo dell’Olocausto, si è detta sicuro che l'apertura degli archivi segreti del Vaticano relativi al periodo della Seconda Guerra mondiale sarebbe il modo migliore per fare luce e chiarezza su una questione così importante e delicata come il ruolo di papa Pio XII. Nella nota, fatta pervenire all'Ansa attraverso la portavoce del Museo e centro di documentazione sull'Olocausto, Estee Yaari, riguardo a una possibile visita di papa Ratzinger in Israele, si afferma anche che «una visita del papa Benedetto XVI riveste carattere politico e, come tale, non riguarda come istituzione lo Yad Vashem».
In serata, sul tema interviene Shimon Peres. Il presidente israeliano è entrato in gioco nella polemica tra esponenti religiosi cattolici e alcune istituzioni ebraiche, tra le quali lo Yad Vashem di Gerusalemme, il Museo-memoriale della Shoah, ribadendo che i rapporti fra lo Stato ebraico e la Santa Sede sono buoni e che «una visita di Papa Benedetto XVI in Israele sarebbe assai gradita». Vari giornali israeliani nelle rispettive edizioni online
hanno riferito ieri sera una frase dell'anziano capo di Stato, secondo il quale la targa dello Yad Vashem riguardante il ruolo di Papa Pio XII nei confronti dell'Olocausto non dovrebbe impedire un viaggio di Benedetto XVI in Israele. «Non vedo alcun legame tra la questione su Pio XII e la visita» di Ratzinger, ha detto Peres, che ha ricordato di avere già
incontrato in varie occasioni l'attuale pontefice di Roma, precisando di avere per lui «una stima particolare»

l’Unità 20.10.08
Caro Reichlin, sul capitalismo hai ragione
di Franco Giordano


«Non è scoppiata solo una bolla speculativa. È arrivato al capolinea un ordine economico», ha scritto sull'"Unità" Alfredo Reichlin. Di fronte al suo lucido articolo, non saprei dire se prevalga il compiacimento per un così appassionato sfogo contro lo stupidario ideologico neoliberista che da lustri imperversa nel paese e nel mondo oppure la soddisfazione nel veder confermata , pur da posizioni diverse, un'antica condivisione analitica in merito alle distorsioni dell'economia mondiale.
Le voci di quello stupidario sono tante da riempire un'enciclopedia: l'elogio a priori delle privatizzazioni, sfociato in una vera orgia privatizzatrice; il culto delle magnifiche e progressive sorti del capitalismo finanziario; la derubricazione dell'intervento pubblico a fastidiosa somma di lacci e lacciuoli dai quali liberarsi il prima possibile; l' "arricchitevi" come parola d'ordine imposta al paese quale smagliante collante culturale, glissando sul particolare che ad arricchirsi erano in pochi a danno dei moltissimi; gli stentorei incentivi al trasferimento dei Tfr in fondi privati a danno della previdenza pubblica (ed è facile immaginare cosa ne pensino quanti, negli Usa, a quel sistema han fatto ricorso); la furiosa privatizzazione dei servizi pubblici, estesasi sino a invadere l'area dei beni pubblici per eccellenza, a partire dall'acqua; lo smantellamento progressivo e inarrestabile dello Stato sociale.
Tutto questo altro non era che l'imposizione brutale e miope del modello americano. E il bello è che l'esortazione permanente a imbarcarsi in politiche vieppiù restrittive e rigoriste veniva proprio dal paese più indebitato del mondo, quello che più di ogni altro viveva al di sopra delle proprie possibilità incentivando irresponsabilmente l'indebitamento popolare.
Questo sistema assurdo è effettivamente "arrivato al capolinea", ma è a dir poco clamoroso che proprio chi questa crisi la prodotto venga oggi sorretto pubblicamente e possa mantenere inalterata l'abituale arroganza, nel silenzio assordante della sinistra. Non è un adeguamento al presente del keynesismo: è il suo rovescio.
E allora come ce la caviamo? Con una spruzzata di etica economico-finanziaria? Con qualche predicozzo sulla perversione della rendita? Sbandierando il catartico ritorno al primato della produzione contro la finanziarizzazione, fingendo di non sapere che quelle due forme di capitalismo sono in realtà ormai indissolubilmente integrate?
Non può bastare. E non basta neppure invocare l'intervento pubblico, che negli Usa, peraltro, non è mai venuto meno. Se non vuole essere condannata all'irrilevanza, la sinistra deve saper mettere in campo ben altro tema, e cioè la qualità e la finalità dell'intervento pubblico.
La qualità dell'intervento pubblico in economia torna oggi a chiamare in causa i nodi di fondo. Torna alla necessità di costruire un compromesso di tipo nuovo, perché non ci si può svenare senza che nulla cambi, solo per ripristinare la macchina diabolica che ha determinato questa irrazionalità e queste enormi disparità. Se il pubblico interviene elargendo risorse immense, migliaia di miliardi, la contropartita deve essere l'acquisizione di una quota proprietaria degli istituti salvati, deve essere il ritorno in campo di una parola che per decenni è stata considerata la peggior bestemmia: la programmazione.
Se il pubblico deve intervenire in veste di protagonista, tale deve essere davvero. In cambio dell'elargizione di risorse che sono prima di tutto dei cittadini, devono arrivare nuove tutele sociali, nuovi diritti del lavoro, tali contrastare a fondo la precarietà, un diverso potere contrattuale per le retribuzioni e le pensioni, un'alternativa economica sul terreno ambientale.
Ma tutto ciò non può essere limitato nel perimetro, pur fondamentale, dei dibattiti teorici. Impone scelte politiche cogenti e urgenti. Un esempio per tutti: per poter operare politica retributiva adeguata e difendere l'autonomia sociale del conflitto, "una pratica e un punto di vista autonomi delle forze del lavoro", bisogna opporsi subito, qui e ora, alla modifica del modello contrattuale, sostenendo politicamente con determinazione massima la Cgil.
Dal vicolo cieco la sinistra non uscirà senza mettere a punto una nuova politica socialmente connotata. Ma a tal fine non serve né un soggetto neocentrista, tutto confinato nella logica soffocante di queste compatibilità, né un soggetto minoritario e identitario. Occorre ricostruire, in un contesto radicalmente nuovo, i fondamenti e cultura critica della sinistra.
P.S. Caro Alfredo, ho forse ecceduto nel sollecitare il vecchio comunista che è in te?

l’Unità 20.10.08
A Firenze si è discusso di femminismo e pari opportunità a partire dal pensiero di Simone de Beauvoir
Il «secondo sesso» sessant’anni dopo: siamo punto e a capo
di Valentina Grazzini


Era nata al 101 di boulevard Montparnasse, nella Parigi del 1908. Pensare oggi alle atmosfere che Simone de Beauvoir fendeva, sigaretta in bocca, al fianco dell’amato Sartre, ci riporta indietro, tanto, troppo. Quasi che tutto sia ormai sepolto in un altrove temporale da chiudere in un cassetto della Storia. Eppure a distanza di 100 anni dalla sua nascita e di 60 dal Secondo sesso, la de Beauvoir fa ancora notizia. Forse perché il Castoro (così la chiamava Sartre) continua a rosicchiare le nostre coscienze, soprattutto a farci interrogare su quanto sia accaduto per la condizione femminile negli ultimi decenni. Questa la domanda di fondo che ha costituito il fil rouge del convegno tenutosi a Firenze tra venerdì e sabato, organizzato dall’Istituto Francese di Bernard Micaud con l’assessorato alle pari opportunità. Dopo una prima fase di lavori conclusasi con la proiezione di una delle rare interviste a Sartre e de Beauvoir firmata dall’amica Madeleine Gobeil Noël nel ‘67 per la tv canadese, la tavola rotonda di sabato ha messo l’una accanto all’altra - tra le altre - Rossana Rossanda (che della coppia de Beauvoir - Sartre fu interlocutrice privilegiata in Italia), Dacia Maraini e la ex deputata di Rifondazione Comunista Mercedes Frias. Nella sala i posti a sedere sono esauriti da un pezzo quando la curatrice Sandra Teroni dà il via agli interventi. Ci sono giovani ed anziane, eleganti e meno eleganti, una sparuta rappresentanza maschile. Prende le distanze dal secondo femminismo, quello degli anni 70 in cui la conflittualità dei sessi appariva irrisolvibile, Rossanda. Che a proposito del Secondo sesso smaschera quanto il libro non sia stato in Italia realmente assunto nella lotta per l’emancipazione femminile, sia stato paradossalmente se non misconosciuto quantomeno utilizzato non al massimo delle sue potenzialità, senza «effetto deflagrante». E mette in guardia su come l’oggi sia un «momento di transizione e di crisi culturale che portano con sé una pericolosa affermazione delle identità». «La complicità femminile al dominio maschile è ancora forte». Raccoglie il testimone Anna Scattigno, docente presso l’Ateneo fiorentino, che a proposito della politica delle donne non esita a parlare di «un’anomalia italiana, in cui la presenza delle donne in politica è così bassa da impedire la costruzione di un patrimonio di conoscenza». Con il risultato che i numeri rimangono «sotto la massa critica, impedendo anche solo il pensare a dei contromodelli». Dacia Maraini parte dalla celebre affermazione di de Beauvoir «Donne non si nasce, si diventa», per passare in rassegna i campi del quotidiano, dalla vita in casa al lavoro ai rapporti con i figli, in cui tuttora l’identità della donna non si scrolla di dosso il confronto con il maschile. Cadendo pure in contraddizioni: «Non si può giocare la carta della seduzione dozzinale e stereotipata di stampo televisivo pretendendo poi di essere credibili in ruoli autorevoli - conclude -: la Brambilla fa vedere le mutande? Va bene, poi però non creda di farsi prendere sul serio...». Il dibattito guadagna una nuova via quando a prendere la parola è Mercedes Frias, che sposta l’accento su una diversa categoria di «inferiori»: negri e ebrei. Ma anche sulla condizione femminile la ex deputata dice la sua: «Nella mia vita parlamentare ho visto che proposte o mozioni vengono perlopiù da colleghe di destra... Perché? A sottolineare che la donna è da proteggere, in quanto inferiore, in un paradigma salvifico del tutto aberrante». Le donne in sala applaudono ogni intervento con sempre maggior calore. Ci si lascia con la sensazione che siamo punto e da capo, con 60 anni di ritardo. E non siamo neppure a Parigi, tra Saint Germain de Près e Montparnasse.

Repubblica 20.10.08
Il Papa a Pompei non parla di camorra ma attacca l´anticlericalismo
di Marco Politi


POMPEI - Difendere il «ruolo fondamentale della famiglia», contrastare l´anticlericalismo attivo anche oggi. Benedetto XVI arriva a Pompei e sembra che atterri in un angolo di cielo azzurro, dove si possano esaltare le buone opere dei cristiani ignorando la criminalità organizzata. Trenta giorni fa, in questa regione, due squadre di otto killer hanno sparato centonovanta proiettili di kalashnikov per massacrare a Baia Verde e a Castelvolturno sette extracomunitari e papa Ratzinger in tre diversi interventi non pronuncia mai a Pompei la parola camorra, assassini, crimine.
Eppure il sindaco Claudio D´Alessio gli ha parlato di una terra «bella e martoriata». Il pontefice lo ringrazia per il «deferente benvenuto» e non entra in argomento. Chissà chi lo consiglia nel palazzo apostolico. C´è qualcosa di scoordinato nel lavoro di quanti in Vaticano hanno in cura i dossier preparatori dei discorsi papali. Come quando a Catania dei tifosi uccisero brutalmente l´agente di polizia Raciti e passò tempo prima che il Papa dicesse una parola.
Così succede a Pompei con la camorra. Certo, Benedetto XVI propone il Rosario come arma spirituale nella «lotta contro il male, contro ogni violenza, per la pace nei cuori, nelle famiglie, nella società, nel mondo». Ma sono espressioni senza tempo valide a Sidney come a Colonia, a Parigi, Roma o Varsavia. Il vescovo mons. Carlo Liberati non lo aiuta. Nel suo saluto parla di prodigi che «sbocciano come primule, ciclamini e iris», elenca una serie di importanti iniziative sociali cattoliche e poi, come pericolo principale, indica la «famiglia insidiata da ogni dove».
Due ore dopo la messa, celebrata dal Papa sul sagrato del santuario, il Vaticano si rende conto della situazione paradossale. E per stoppare polemiche emana di corsa una dichiarazione. Nell´omelia e nell´Angelus, spiega il portavoce padre Ciro Benedettini, il pontefice «ha escluso di proposito di pronunciare la parola camorra». Le motivazioni? La visita a Pompei sarebbe un pellegrinaggio a dimensione strettamente spirituale. Poi c´è il fatto che la maggioranza dei campani sono persone oneste e non camorristi e quindi il silenzio del Papa va interpretato come una «questione di rispetto». Infine, Benedetto XVI di criminalità organizzata ha già parlato un anno fa a Napoli.
Spiegazioni poco convincenti tanto più che Avvenire pubblica nella pagina di Caserta una drammatica lettera del vescovo mons. Raffaele Nogaro: «La criminalità organizzata sulle nostre terre sembra onnipotente. Nulla sfugge al suo controllo. Compone vere e proprie bande armate. Non meno inquietante è la camorra praticata dai colletti bianchi. Detengono l´autorità per un profitto illecito, usano la pubblica amministrazione per interessi di parte». Dinanzi a questa coraggiosa denuncia impallidiscono le parole papali, che esortano i credenti a essere «fermento sociale e non cedere ai compromessi», combattendo ogni tipo di violenza. Per padre Benedettini, ad ogni modo, «è meglio accendere una candela che maledire l´oscurità». Proverbio cinese. Quasi 50mila fedeli hanno partecipato alla messa con papa Ratzinger. Per lui personalmente è stato anche composto un inno da mons. Baldassarre Cuomo, per lunghi anni personalità guida del santuario. Durante il rito spuntano striscioni che chiedono di fare santo l´anticlericale Bartolo Longo, poi convertitosi, che nell´Ottocento fondò il santuario della Madonna del Rosario. Benedetto XVI nell´omelia elogia Pompei come esempio di fede che rinnova la società, assiste i poveri e riscatta il territorio. «Non è una cattedrale nel deserto». Prima della conversione, spiega il Papa, Bartolo Longo era «influenzato da filosofi immanentisti e positivisti, si era allontanato dalla fede cristiana diventando un militante anticlericale e dandosi anche a pratiche spiritistiche e superstiziose». Simili tendenze, conclude, «non mancano nei nostri giorni».

Repubblica 20.10.08
Le conseguenze di Heidegger
L’Influenza politica oggi: Un saggio di Victor FarÍas
I suoi eredi messi sotto accusa
di Antonio Gnoli e Franco Volpi


Un pamphlet provocatorio che indaga sulle suggestioni più recenti, fino a coinvolgere perfino Chávez e la corte iraniana del presidente Ahmadinejad
L´infondata accusa a Gianni Vattimo di essere vicino al pensiero antisemita
Dall´Iran islamico all´America Latina le ricadute geopolitiche del filosofo tedesco

Mettiamola così: la filosofia non sposta più niente, non crea più opinione, non incide nelle carni della società, se non in minima parte. Con una sola eccezione: Martin Heidegger. Ma non per le ragioni che di solito gli si vogliono attribuire. Se si parte da questa affermazione, un po´ tranchant, si capirà anche perché molti critici del pensatore della Selva Nera sono oggi sinceramente spaventati. Ma la paura a volte è buffa. Forse perfino singolare. Certo può dar vita a un esercizio provocatorio. Apprendere che Heidegger, attraverso la sua vicenda politica e filosofica, sia diventato un termometro della geopolitica mondiale, un misuratore del grado di ostilità che il resto del mondo nutre verso l´Occidente, è un punto di vista che fino ad oggi mancava nella sterminata letteratura sul più vessato e amato tra i filosofi contemporanei. Che la sua influenza fosse estesa è un fatto incontrovertibile, che lambisse i pensieri dei pasdaram iraniani o il populismo di Chávez, nessuno poteva onestamente immaginarlo. Eppure - dalla ricostruzione che Victor Farías fa del pensiero e del peso che Heidegger ha avuto e continua ad avere nel mondo - proprio ciò emerge con forza.
Quando nel 1987 lo storico cileno pubblicò il suo primo libro di analisi e denuncia, Heidegger et le nazisme, subito tradotto in tutto il mondo e in Italia da Bollati Boringhieri, fu come un colpo di pistola vicino ai timpani degli heideggeriani. Che reagirono scandalizzati, e montarono un´improbabile difesa: Heidegger, sostennero, era stato in realtà il partigiano di una coraggiosa resistenza spirituale al nazismo. Certo, nel libro di Farías c´erano pecche di vario genere e sviste anche gravi. C´era una sistematica sopravvalutazione di alcuni dettagli: per esempio, un paio di conferenze di Heidegger sul predicatore agostiniano Abraham a Sancta Clara spacciate come prova di un antisemitismo che attraverserebbe l´intera sua opera. C´era, insomma, un evidente fumus persecutionis. Eppure il libro ebbe il merito fondamentale di resettare l´intera discussione, svoltasi fino allora seguendo argomentazioni etico-politiche o ideologiche, e di riproporla su nuove basi: vale a dire su un lavoro d´archivio mirante a scovare le fonti e a ricostruire i fatti. È dunque lecito parlare di un "prima" e di un "dopo Farías".
Lo storico cileno ritorna ora alla carica con un libro che le edizioni Medusa manderanno in libreria a fine ottobre in prima mondiale: L´eredità di Heidegger nel neonazismo, nel neofascismo e nel fondamentalismo islamico (trad. di Edoardo Castagna, pagg. 229, 14,80 euro). Un pamphlet ancora più aggressivo del precedente, anche se l´edizione italiana è stata saggiamente asciugata e limata nelle affermazioni più avventate che si leggono nella versione originaria, inedita, messaci a disposizione da Farías. Il bersaglio è sempre l´infausto corto circuito che Heidegger ha provocato tra la filosofia e la politica. Ma questa volta Farías guarda alle conseguenze del suo pensiero, alla sua "eredità". Non a quella squisitamente filosofica e teoretica, nota a tutti, incontestabile e presente ovunque nel mondo, ma a una sotterranea influenza ideologica, meno nota, eppure potente e insidiosa: a Heidegger si rifanno i principali ispiratori della destra radicale, e il suo pensiero è diventato un riferimento ricorrente per i teorici dell´eversione antioccidentale e antisemita in Germania, Francia, America Latina e nell´Iran islamico. Un capitolo dedicato alla situazione italiana è stato prudentemente cassato, in attesa di una elaborazione più solida e convincente.
La parte più scottante è quella sull´Iran islamico. Farías parte da lontano: già Henry Corbin, primo traduttore di Heidegger in francese, avrebbe introdotto a Teheran il pensatore della Selva Nera, come proverebbe una sua intervista intitolata Da Heidegger a Sohravardi. In verità, in quel testo autobiografico, Corbin cerca semplicemente di spiegare la coerenza del proprio percorso intellettuale, raccontando come fosse passato da un iniziale interesse per Heidegger allo studio della teologia protestante e fosse infine approdato al sufismo e alla tradizione islamica. Poco importa. Ciò che incuriosisce è l´influenza dello heideggerismo nell´Iran odierno. Farías mette in risalto come i fondamentalisti iraniani abbiano accolto con favore non solo la critica heideggeriana alla moderna civiltà tecnologica e materialistica, ma anche la tesi geopolitica esposta nel 1935, in pieno nazionalsocialismo, nell´Introduzione alla metafisica: l´Europa sarebbe minacciata e schiacciata, a tenaglia, tra americanismo e bolscevismo, e il compito della grande Germania sarebbe quello di liberarla battendo una terza via. L´analogia con la situazione dell´odierno Iran va da sé, e perfino il presidente Ahmadinejad e i suoi consiglieri culturali sarebbero dei criptoheideggeriani in quanto considerano il maestro della Selva Nera un prezioso alleato e una diga contro l´occidentalizzazione del mondo.
Non meno sorprendente il capitolo sull´America Latina, dove l´heideggeriano mascherato sarebbe nientemeno che Chávez. Farías sostiene che «il movimento politico-sociale che Hugo Chávez cerca di imporre ai venezuelani rivela temi neofascisti caratteristici dell´opera di Heidegger e della Rivoluzione conservatrice». E a dimostrazione cita gli scritti di due consiglieri del caudillo: il sociologo argentino Norberto Ceresole e il nazionalbolscevico Heinz Dieterich. Ma bastano punti di tangenza con la critica heideggeriana dell´Occidente per provare che la loro ideologia politica è ispirata dall´autore di Essere e Tempo? C´è qui un procedere capzioso che diventa palese scorrettezza nel paragrafo seguente, il cui titolo insinua: «Gianni Vattimo, un heideggeriano in difesa dell´antisemita Hugo Chávez». Diciamo la verità: una conferenza di Vattimo a Caracas non dimostra nulla: né che Chávez sia heideggeriano, né che Vattimo sia antisemita.
Anche nelle parti sulla Germania e sulla Francia, bisogna faticosamente separare le notizie interessanti dalle inferenze indebite, le scoperte di Farías dalle sue illazioni. Per esempio, si può rivangare a piacimento intorno alla figura di Hermann Heidegger, il figliastro del pensatore: ma che cosa provano il suo eventuale militarismo e conservatorismo rispetto alla filosofia del padre? Diverso, ma non meno scivoloso, il discorso su Ernst Nolte. Le note tesi dello storico revisionista sulla guerra civile europea, e sul nazionalsocialismo come «ideocrazia» sorta in risposta al bolscevismo, che cosa c´entrano con il fatto che per qualche semestre il giovane Nolte studiò filosofia con Heidegger? Non è tanto Heidegger ad avere influenzato Nolte, bensì piuttosto quest´ultimo che con le sue tesi storiografiche ricolloca Heidegger, e la sua compromissione, in un diverso orizzonte storico. E quanto alla Francia, come è possibile nominare, d´un fiato, Alain de Benoist insieme a Lacan, Foucault e Baudrillard, come se seguissero tutti la medesima linea?
Farías è uno storico, oltre che un simpatico conversatore e un formidabile narratore di aneddoti. Lo incontrammo tempo fa e ci confessò che il suo modo di usare le fonti rovesciava con ironia la celebre sentenza heideggeriana che «il documento è la pietà del pensare». Egli invece non guarda in faccia nessuno, ma così rischia di perdere la vera identità dei volti che critica.
Perché tanto accanimento nel processare Heidegger e lo heideggerismo? Evidentemente Heidegger non è un episodio qualunque della storia filosofica del Novecento, ma un caso esemplare. È stato il massimo pensatore contemporaneo, l´incarnazione del protofilosofo, ma al tempo stesso vittima illustre di un´ottusità politica imperdonabile. Il pensiero che aspira a portare la verità nel cuore del potere, a coniugare la filosofia con la politica, non è forse responsabile delle conseguenze che la sua rischiosa alchimia di teoria e prassi può avere?
La storia di Heidegger è indicativa della complessità del problema. Più che l´abbaglio del filosofo che ha voluto mettere le mani nella ruota della storia universale, rimanendone stritolato, ciò che inquieta è il fatto che la ferita, che il suo caso ha aperto, la lacerazione tra filosofia e politica, non si è ancora rimarginata. Se il più grande pensatore contemporaneo ha potuto scambiare la nascita del più tragico totalitarismo della storia con l´«avvento del nuovo», come sperare che la filosofia possa garantire qualcosa?
Il caso Heidegger porta alla luce qualcosa di profondo, che va al cuore della filosofia e tocca l´essenza stessa del pensiero. Uno di quegli eterni problemi che la filosofia evidentemente non aiuta a risolvere, ma solo a vivere a un certo livello: il difficile rapporto della saggezza con la tirannide, della teoria con la prassi, dell´intellettuale con il potere.

Repubblica 20.10.08
Emil Nolde. Il colore in tempesta


Al Grand Palais una vasta rassegna dedicata al grande pittore espressionista tedescoTra le opereil gigantesco polittico con "La vita di Cristo"

PARIGI. «Come si formano i minerali e le cristallizzazioni, come crescono il muschio e le alghe»: così Emil Nolde voleva che fossero i suoi colori; in disordine, in subbuglio, in crescita cespitosa e ingovernata ma pur aderenti - «coerenti», diceva - alle mille creazioni della natura. Da quando, forse, un fiocco di neve gli cadde per caso sul foglio dove stendeva, più o meno accademicamente, un acquerello d´un paesaggio invernale ritratto en plein air, e quel poco di neve, sciogliendosi, macchiò la carta, vi allargò il colore, e scosse gli assetti prospettici che la composizione s´era ordinatamente data.
Nasce da allora - «in collaborazione con la natura», almeno nella personale mitologia che Nolde s´è creato - il colore in tempesta, sempre debordante oltre il segno che avrebbe dovuto contenerlo, di uno dei maggiori pittori espressionisti dell´avvio del secolo ventesimo.
Lo scopriranno i giovani della "Brecke", il primo gruppo che aveva riunito, a partire dal 1905 in Germania, le tensioni verso una dilacerata espressività che avrebbero durevolmente occupato la pittura del nuovo secolo, almeno fino alla guerra mondiale. Lo scopriranno e, tirandolo fuori quasi a forza dall´isolamento in cui viveva, ne faranno uno dei loro. Con quei giovani Nolde - che aveva allora quarant´anni - starà poco; ma gli rimarrà sempre nell´animo la determinazione a sconquassare territori già riconosciuti dall´arte, e ad ararne di nuovi, che aveva maturato accanto a essi.
Nulla, all´inizio, faceva prevedere che sarebbe stato pittore, e pittore così radicalmente altro rispetto ai suoi anni. Era nato contadino, da una famiglia da sempre dedita esclusivamente all´agricoltura, in una terra del nord, al confine fra Germania e Danimarca. Hansen, si chiamava per l´anagrafe - Nolde venne dopo: un nome che si diede prendendolo dal villaggio natale; e fu una scelta, quella, che attestò fin da allora il suo ostinato legame, che sarebbe sempre rimasto, con la terra d´origine. Dalla sua vocazione a essere diverso, trasse comunque, per allora, solo il permesso del padre d´allocarsi come apprendista intagliatore in una fabbrica di mobili. Poi, sui trent´anni, dopo un lungo soggiorno in Svizzera, ove pone mano a una lunga serie d´acquerelli nel solco della tradizione, comincia il suo tragitto finalmente maturo nella pittura.
Viaggia molto (Monaco, Parigi, Berlino, Copenaghen); è rifiutato da Accademie e mostre ufficiali per la crescente determinazione a cercare un´indipendenza dall´impressionismo attardato di Liebermann e dal simbolismo di Franz von Stuck, allora dominanti in Germania; finalmente ripara con la moglie Ada nella piccola isola di Alsen, dove riatta una casa di pescatori e si costruisce uno studio sulla spiaggia. Le sue predilezioni di allora vanno, distese nei secoli, da Manet a Degas (unici della "nouvelle peinture" ad attrarlo), da Daumier a Goya, da Rembrandt a Tiziano (conoscerà e approfondirà solo più tardi, invece, l´opera di Gauguin, Munch, Ensor).
Di Tiziano copia al Louvre un´opera nella quale ha riconosciuto la libertà che va allora ancora oscuramente cercando. Ma di ritorno al suo Mare del Nord, all´inizio del nuovo secolo, disegna soprattutto, su piccoli fogli, «briganti e taverne, persone che corrono sulla spiaggia, sonnambuli, adoratori del sole, visioni di spettri e di creature fiabesche»: sta nascendo in lui la determinazione a dar figura a una natura insieme «silenziosa e selvaggia», costantemente in bilico fra osservazione del dato reale e sua trasfigurazione in allucinazione e sogno.
Ed è questo, appunto, che Klee, battezzandolo «il demone della regione sotterranea», ammirerà in lui: questo andare e venire sempre rinnovato dalla verità al sogno, «dalla danza e dal gioco fino alla pesantezza e alla solitudine della vecchiaia e alla oscura regione della morte», secondo quanto ha scritto Martin Urban, già direttore della Fondazione Nolde a Seebell, donde oggi provengono larga parte dei materiali della odierna, vastissima antologica che Parigi destina al pittore tedesco al Grand Palais (fino al 19 gennaio 2009, a cura di Sylvain Amic, andrà in seguito al musée Fabre di Montpellier).
Novanta dipinti, settanta fra disegni, incisioni e acquerelli: è la prima rassegna retrospettiva di tale portata che la Francia destina a Nolde. Richiesto di quale sia il prestito d´eccellenza ottenuto dalla mostra, Amic ha indicato il grande polittico con La vita di Cristo, composto da nove tele affiancate, sei metri di larghezza per più di due d´altezza, che è davvero impressionante.
Iniziato nel 1911, fu portato a termine a Berlino nel 1912: memore del grande polittico cinquecentesco di Isenheim di Mathias Grenewald, quello di Nolde è la più compiuta espressione di una sua vocazione singolarmente costante a confrontarsi con i temi religiosi, che occuperanno la sua pittura tanto quanto le storie grottesche, e il paesaggio, adesso sommariamente descritto - a un solo passo dall´astratto - da una materia slabbrata e filante, quasi una premonizione del tachisme che verrà. Cade, il polittico di Nolde, nel momento di più intensa produzione del pittore, che quell´anno espone con il Cavaliere azzurro di Kandinsky e di Marc, e ha alcune importanti personali.
D´altronde, quasi fatalmente, La vita di Cristo è rifiutata più volte a rassegne d´arte religiosa. Troppo esplicito, per le gerarchie ecclesiastiche, quel grido che, in evidente connubio con l´arte primitiva (che, da Gauguin a Picasso, era in quegli anni assillo costante dell´arte occidentale), scuoteva i personaggi sacri, e ne assimilava i volti turbati alle maschere ghignanti care a Nolde, facendone immagini folgoranti di volti bruciati, a mezzo fra una notte invasiva e una dolente deformazione.
Animato di tormentate, scosse figure che Nolde voleva somiglianti a «semplici contadini e pescatori giudei», il grande retablo è costruito dal cozzare di un colore senz´ombra, clamante acceso violento, e dal gestire affannato dei protagonisti, riuniti dall´abbraccio smisurato del Cristo crocifisso. Esposto al ludibrio del pubblico, assieme a molti altri del pittore, dalla mostra nazista d´arte degenerata del 1937, e raramente rivisto al di fuori della Fondazione di Seebell, La vita di Cristo è una vera summa dell´espressionismo di Nolde, e del tanto che egli lasciò alla moderna pittura tedesca.

Repubblica Firenze 20.10.08
"Ragazzi, e ora che facciamo?" Occupazioni avanti in ordine sparso
di Laura Montanari


Dante e Castelnuovo tornano in classe, Gramsci e Michelangelo no

Chi ce la fa andrà avanti con le occupazioni, almeno fino a domani, cioè fino alla manifestazione regionale che partirà da piazza San Marco e che fa salire a quattro i cortei studenteschi in meno di dieci giorni. In piazza Santissima Annunziata ieri, si sono ritrovati in una cinquantina, in una domenica di sole, seduti sui gradini del porticato, per decidere che strada prendere dopo una settimana di stop alle lezioni nelle medie superiori. Erano i ragazzi del coordinamento dei vari licei e degli istituti tecnici e professionali, quelli che ieri si sono incontrati e che hanno deciso di aderire per oggi alle 17 in piazza della Signoria al "flashmob" sulla "fuga dei cervelli" organizzato da alcuni studenti universitari del polo di Scienze. Spiegano gli studenti: «Al segnale prestabilito, un fischietto, un ragazzo indosserà un costume rappresentante un cervello a dimensione umana, mentre altri si metteranno i camici bianchi dei ricercatori. Subito dopo le altre persone che partecipano all´evento cominceranno ad inseguire i vari "cervelli" che scapperanno verso piazza della Repubblica». L´evento è un modo per attirare l´attenzione della gente sulle ragioni della protesta: decreto Gelmini, finanziaria, legge 133, cioè i tagli ai finanziamenti, il blocco del turnover e la possibilità di trasformare gli atenei in fondazioni di diritto privato. «Venti scuole su venticinque - spiega - continueranno oggi e domani ad occupare o l´autogestione, non ha senso chiudere prima che il decreto Gelmini venga esaminato in Senato». Intanto prosegue la raccolta firme contro le università-fondazioni. Ma «come mandare avanti la lotta»? Fermare le lezioni comincia a pesare e qualcuno sta già rientrando in classe, le prime defezioni al liceo classico Dante, ma anche sparse, in altre superiori. Oggi pomeriggio nuovo summit al liceo artistico per valutare meglio dopo le assemblee della mattina cosa fare. Al Michelangelo la notte di sabato c´è stato qualche danneggiamento nei bagni: «Abbiamo già chiamato una ditta, riaggiustiamo tutto a nostre spese» ha spiegato una studentessa.
In università restano occupati il polo didattico di Sesto, il dipartimento di Matematica, Agraria e un´area del complesso di Novoli, la protesta contro la legge 133 va avanti e oggi alle ore 11 si terrà un´assemblea nelle aule di viale Morgagni organizzata dagli Studenti di Sinistra. All´esterno dalle 10 gazebo dei giovani di Forza Italia per distribuire i volantini a favore della manovre Tremonti-Gelmini: «Stiamo anche raccogliendo le firme contro il blocco della didattica e contro ogni forma di occupazione». Sulla stessa linea nei giorni scorsi, Lista Aperta. Gli Studenti di Sinistra spiegano che «a questa crisi dell´università di Firenze» ci «siamo arrivati sia per gravi responsabilità del governo sia per la gestione delle università da parte dei rettori»: «L´università si trova adesso a un bivio: o il commissariamento o la trasformazione in fondazione». Proprio quello che gli studenti non vogliono.

Repubblica Roma 20.10.08
E la Sapienza fa lezione davanti Montecitorio
di Laura Mari


La protesta degli universitari contro il decreto Tremonti arriva davanti a Montecitorio. Questa mattina, a partire dalle 10.30, docenti e studenti di Fisica della Sapienza terranno delle lezioni proprio davanti alla sede della Camera dei Deputati.
Dopo le mobilitazioni della scorsa settimana, che hanno visto migliaia di studenti protestare sotto il ministero dell´Economia e quello dell´Istruzione, oggi l´appuntamento contro i tagli della finanziaria agli atenei pubblici è davanti a Montecitorio. «Mentre in tutte le facoltà della Sapienza questa mattina si terranno assemblee e dibattiti - fanno sapere i collettivi - gli studenti di Fisica coinvolgeranno l´opinione pubblica portando alla luce del sole il loro dissenso contro il decreto 133 e organizzando lezioni all´aperto». Incontri che sono iniziati ieri davanti alla Casa del Cinema di Villa Borghese.
Oggi pomeriggio, presso la facoltà di Lettere della Sapienza, si terrà un´assemblea per decidere le prossime mobilitazioni. «Stiamo pensando - annunciano gli studenti - di scrivere un appello al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano affinché intervenga in difesa del sistema universitario italiano». E domani, in concomitanza con la riunione del senato accademico, gli studenti della Sapienza hanno indetto un presidio davanti al rettorato per invocare l´immediato blocco della didattica.

Corriere della Sera 20.10.08
Scuola Il ministro interviene all'incontro dei giovani leghisti. Sprechi per le supplenze: «Spendiamo 50 milioni in telefonate»
Gelmini: immigrati, no alle classi separate
«Frequenteranno lezioni normali. Per loro corsi aggiuntivi di lingua italiana»
di Marco Cremonesi


L'intervento del ministro dell'Istruzione alla scuola politica della Lega organizzata dai Giovani padani

MILANO — «Forse si sarebbe dovuto usare un termine diverso. Classi ponte fa pensare a luoghi separati, a classi di serie A e di serie B». Quando invece, «gli immigrati frequentano e frequenteranno normalissime classi. A cui bisognerà aggiungere dei corsi di lingua italiana. Così come accade all'estero». Che succede? Marcia indietro di Mariastella Gelmini? Assolutamente no, secondo i comunicatori del ministro alla Pubblica istruzione: il termine «classi ponte», spiegano, appartiene a una mozione leghista e non al lessico del ministro. E lei, proprio ai Giovani padani riuniti a Milano per la «scuola politica» del Carroccio, lo dice chiaro: «Si sarebbe dovuto utilizzare un termine diverso ». Perché «il problema è terminologico e non di sostanza ». Soprattutto, è il messaggio più volte ribadito, «è meglio abbassare i toni, e non fare come questa sinistra tutta ideologia». E il bello è che così dicendo, riesce comunque a strappare diverse ovazioni ai giovani in camicia verde.
Gelmini è preoccupata che la sua riforma della scuola possa tingersi di eccessive suggestioni leghiste che ne potrebbero complicare l'iter. E così, parte conquistando l'uditorio: «Sono completamente d'accordo con Bossi quando dice che la sinistra, perso il proletariato, cerca di innescare un nuovo Sessantotto». Ma questo, aggiunge, «dato che siamo al governo deve farci riflettere sui fatti sociali che possono innescarsi». E tutto l'intervento del ministro è giocato su questo doppio registro: sembra andare incontro agli umori dei Giovani padani, in realtà procede diritta per la sua strada, la gran razionalizzazione: dalla riduzione dei «5500 corsi di laurea che servono più ai professori che agli studenti», ai «900 indirizzi in cui si disperde la formazione professionale ». La territorialità di insegnanti e supplenti? «Io sono d'accordo con voi, ed è semplice buon senso. Il ministero ogni anno spende tra i 45 e i 50 milioni di euro solo per le telefonate di convocazione dei supplenti».
Dato che i dirigenti scolastici si devono attenere a graduatorie, «per una supplenza di quattro giorni a Milano, devono chiamare magari a Palermo. A gente che ovviamente non accetterà».
Quanto al federalismo scolastico, Gelmini rilancia l'autonomia: «I dirigenti devono poter chiamare gli insegnanti, valutarli secondo risultato, aprire le scuole al territorio». Magari, «trasformandole in fondazioni con l'ingresso degli enti locali». Gelmini riesce a farsi applaudire anche quando accenna a novità che a un fanatico del territorio potrebbero non piacere: «In Italia ci sono 300 sedi universitarie distaccate. In un Paese in cui non c'è un euro per il diritto allo studio, le residenze universitarie, le borse di studio, noi i soldi li spendiamo per avere università sotto casa in cui non si può fare ricerca».

Corriere della Sera 20.10.08
Il Pd e i manifesti con la foto della folla
di Alberto Losacco
Responsabile Propaganda Partito Democratico


Ho letto con grande interesse la riflessione che sabato Paolo Franchi ha dedicato, sulle pagine del Corriere, alla polemica nata in seguito alla «scoperta» che la foto che campeggia nei manifesti che pubblicizzano la nostra manifestazione del 25 ottobre, ritrae migliaia di persone in Piazza San Pietro. Al di là dell'inaspettata ondata di popolarità che ha investito il sottoscritto e l'ufficio propaganda del Pd (della quale avremmo fatto volentieri a meno), nella riflessione ci sono un paio di osservazioni alle quali vorrei rispondere. Innanzitutto mi ha molto colpito l'eco che la vicenda ha generato, smisurata rispetto alla vicenda in sé, al punto che un «dietrologo» potrebbe sospettare che l'abbiamo fatto apposta, per recuperare un po' di spazio su media troppo sordi alla voce dell'opposizione (agcom insegna). Nel nostro lavoro, e Franchi lo sa benissimo, è necessario rivolgersi ad agenzie specializzate nel reperimento del materiale fotografico necessario. In questo caso avevamo chiesto di trovare la foto di una folla serena e forte, senza eccessi, senza slogan e bandiere, senza simboli di partito. Non, come immagina Franchi, perché avremmo avuto difficoltà a reperire nel nostro archivio foto che non evidenziassero «le storiche divisioni dell'Unione» o che vedessero rappresentate plasticamente le vecchie appartenenze (Ds, Margherita, ecc...). Non è così. Il Partito Democratico, seppur giovanissimo, è già da tempo andato oltre la sintesi di quelle storie. E il nostro archivio è pieno delle foto della entusiasmante campagna elettorale che Veltroni ha condotto nei mesi scorsi e che ha riempito le piazze di tutte le province italiane di militanti e di bandiere del Pd. Ma — e qui il problema si fa più politico — contesto l'idea di Paolo Franchi che, fra tutte le gaffe e gli errori che potevamo fare, ci accusa di aver fatto il peggiore: quello di scegliere «una piazza altrui. E che piazza». Neanche avessimo utilizzato la foto di una manifestazione della destra o della Lega!
Ecco, su questo proprio non ci siamo. Perché dietro questa osservazione, c'è un'idea un po' vecchiotta della sinistra. Come se fossimo ancora a Don Camillo e Peppone o al Pci anni Cinquanta. Il Partito Democratico è nato perché nel suo dna c'è anche quella piazza, anche quel popolo. Noi non sapevamo che quella folla fosse a San Pietro, ma quella foto di persone senza bandiere, striscioni, cartelli l'abbiamo scelta apposta perché era coerente alla nostra idea di partenza. Ci sono persone, cittadini, una folla, una collezione di volti e di esperienze diverse. Proprio quello che cercavamo. La scelta matura di una grande forza politica, che seppur nata sotto il segno di 3 milioni e mezzo di italiani e capace di raccogliere il consenso di un terzo degli elettori, non si ferma e non si accontenta. E sceglie di farsi rappresentare da una foto nella quale si vedono uomini e donne, ragazze e ragazzi. Tra i quali, magari molti non hanno votato per noi. Perché pure a loro ci rivolgiamo, anche a loro chiediamo impegno e attenzione. Perché questo è ciò che vogliamo sia la manifestazione del 25 ottobre, non un corteo di tifosi ma un Circo Massimo pieno zeppo di uomini e donne. Uomini e donne che sanno voler bene all'Italia.

Lasciamo stare, per cortesia, Peppone e il Pci anni 50. Può darsi che io abbia un'idea «un po' vecchiotta» della sinistra. Ma continuo a non capire a quale idea innovativa della medesima dovrebbe alludere la foto di una folla anonima.
Paolo Franchi

Corriere della Sera 20.10.08
Stato e Chiesa Lo storico Paul Veyne racconta come cristianesimo e paganesimo convissero a Roma
Costantino si convertì per scelta personale: non fu calcolo politico
di Eva Cantarella


«L'Europa è democratica, laica e libera: tutte cose estranee al cattolicesimo»

È il 28 ottobre 312 d.C. Alla periferia di Roma, lungo il Tevere, le truppe di Costantino affrontano quelle dell'usurpatore Massenzio. Costantino, in quel momento, governa una delle quattro parti in cui è diviso l'impero romano: Gallia, Britannia e Spagna. Dovrebbe governare anche l'Italia, ma Massenzio se ne è impadronito. Sull'elmo di Costantino e sugli scudi dei suoi soldati è inciso il crisma, un segno formato dalle prime due lettere greche del nome di Cristo, una X (chi) e una P (rho), sovrapposte e intrecciate. La notte precedente, gli è stato rivelato in sogno: in hoc signo vinces, «sotto questo segno vincerai ». E Costantino vince: è la celebre vittoria di Ponte Milvio. Due giorni dopo entra a Roma, percorrendo la Via Lata (attuale via del Corso). È questo il giorno, dice Paul Veyne, in cui si può fissare il passaggio dall'antichità all'epoca cristiana, uno degli avvenimenti decisivi della storia non solo occidentale, ma mondiale.
Così, da questo racconto, prende le mosse l'ultimo libro di Paul Veyne, lo storico che ci regala, periodicamente, libri stimolanti, affascinanti e coinvolgenti come pochi altri: Quando l'Europa è diventata cristiana (312-394). Costantino, la conversione, l'Impero. Alla profonda dottrina e alla impressionante padronanza delle fonti Veyne unisce, infatti, la rara capacità di fare della storia un racconto, prospettando tesi originali, anticonformiste, spesso formulate in poche, spiazzanti parole (seguite, beninteso, da una amplissima e documentata motivazione). Un esempio: «Senza Costantino il cristianesimo sarebbe rimasto una setta di avanguardia». Riferita a una religione i cui fedeli, oggi, sparsi in tutto il mondo, ammontano a un miliardo e mezzo di persone, un'affermazione sorprendente.
La convinzione di Veyne mal si accorda con quel che siamo abituati a pensare in materia. Ma come, si chiede il lettore, il cristianesimo non era la sola religione capace di dare una prospettiva alle inquietudini del-l'epoca, di soddisfare esigenze personali e sociali che solo in essa potevano trovare risposta? Non è a questo che sono dovuti il suo successo e la sua diffusione?
Veyne, pur ovviamente attento ai complessi meccanismi della storia, prospetta una risposta inedita: se questo accadde fu grazie alla politica rivoluzionaria di Costantino, destinata ad avere un peso gigantesco nella storia dei secoli a venire. Cominciamo dall'inizio: la sua conversione, dice Veyne, fu assolutamente sincera. La tesi ottocentesca secondo la quale, militare e politico senza scrupoli, Costantino si sarebbe convertito per mero calcolo non ha fondamento: i cristiani, allora, erano solo un decimo della popolazione dell'Impero. Troppo pochi per far pensare a una ragione opportunistica. La conversione fu un fatto interiore, una scelta del tutto personale. Ma Costantino ne fece un uso degno di un grande imperatore. La Chiesa, fondatasi e sviluppatasi al di fuori del potere imperiale, avrebbe potuto essere un rivale di questo. Costantino si pose come interlocutore dei vescovi, sul loro stesso livello, presentandosi come il braccio esecutivo delle loro decisioni. Scrive Veyne: «Costantino non ha messo l'altare al servizio del trono, ha fatto il contrario: ha ritenuto che gli affari e i progressi della Chiesa fossero una missione essenziale dello Stato: la novità è che con il cristianesimo ha inizio a tutti gli effetti l'ingresso del sacro in politica e nel potere, che "la mentalità primitiva" si limitava ad avvolgere con un'infinità di superstizioni ». Egli aveva capito l'incredibile potenziale della nuova religione, che non stava in una morale superiore a quella delle altre. Anche gli ebrei, anche i pagani sapevano che non dovevano uccidere e non dovevano rubare. La novità cristiana stava nell'amore che legava tra loro i fedeli e ciascun fedele personalmente al dio. Fu questo il capolavoro della religione cristiana, dice Veyne. Il secondo fu la Chiesa, che Costantino favorì in ogni modo, senza peraltro mai vietare il paganesimo, e tantomeno perseguitare i pagani.
Con Costantino — e a lungo, dopo di lui — paganesimo e cristianesimo convissero. Fino a quando Teodosio vietò i culti pagani, facendo del cristianesimo la religione ufficiale dell'Impero. Le vicende di quei secoli sono tracciate in capitoli che consentono a Veyne di affrontare problemi ai quali qui è possibile solo accennare: cos'è il sentimento religioso? Quale il rapporto tra cristiani, pagani ed ebrei? Quale l'atteggiamento degli imperatori cristiani nei confronti degli altri culti? Per Costantino, se i pagani sono solo «stupidi », gli ebrei sono una «setta nefasta »: quando nasce l'antisemitismo? Qual è la differenza tra questo e il razzismo?
Superfluo insistere sull'interesse di questi capitoli. Per non parlare di quello intitolato: «L'Europa ha radici cristiane?». La risposta di Veyne è negativa: «La nostra Europa attuale — scrive — è democratica, laica, sostenitrice della libertà religiosa, dei diritti dell'uomo, della libertà di pensare, della libertà sessuale, del femminismo e del socialismo o della riduzione delle disuguaglianze. Tutte cose estranee e talvolta in contrasto con il cattolicesimo di ieri e di oggi. La morale cristiana invece predicava l'ascetismo, che non ci appartiene più, l'amore verso il prossimo (un vasto programma, rimasto imprecisato) e insegnava a non uccidere e non rubare, ma lo sapevamo già tutti... Se non potessimo fare a meno di individuare dei padri spirituali, la nostra modernità potrebbe indicare Kant o Spinoza: quando quest'ultimo scrive nell'Etica che "portare aiuto a coloro che ne hanno bisogno va ben oltre le capacità e l'interesse dei singoli. La cura dei poveri si impone, perciò, alla società intera e riguarda l'interesse comune" è più vicino a noi di quanto non lo sia il Vangelo ».
Le tesi di Paul Veyne si possono condividere o non condividere, i suoi libri si possono amare o criticare, ma è difficile leggerli senza essere affascinati dalla mente libera e brillante di chi li ha scritti, da una scrittura che trasforma una sterminata dottrina in un grande affresco storico nel quale si fondono eventi, persone e idee; e da ultimo — solo nell'elencazione — dalla capacità di un grande accademico (oggi professore onorario del Collège de France, dove ha insegnato per anni) di non essere mai accademico. Di essere se stesso, un grande storico e uno spirito libero.
PAUL VEYNE Quando l'Europa è diventata cristiana (312-394) GARZANTI PP. 204, e 23

Corriere della Sera 20.10.08
Set. «L'uomo che verrà» con Maya Sansa e Alba Rohrwacher rievoca la strage nazista dell'autunno '44
Le donne di Marzabotto
Storie di contadine nel film sull'eccidio E recitano anche gli eredi delle vittime
di Paolo Mereghetti


Nell'autunno del '44 fu compiuto dai nazisti l'eccidio di Monte Sole (strage di Marzabotto): assassinati circa 800 civili (nella foto i funerali)

SAN CHIERLO (Bologna) — «I civili ormai non contano. Le loro vite sono solo numeri, quelli che tutti sembrano disposti a pagare in nome del potere. Che si tratti di terroristi o di liberatori, di nemici o di alleati. Per questo mi è venuta voglia di raccontare la strage di Monte Sole, quella che tutti ricordano col nome di Marzabotto, per ricordare gli ottocento e più civili che furono sacrificati alla logica dei numeri. Quella che doveva bonificare il territorio dai possibili ostacoli umani».
Giorgio Diritti parla calmamente. Non si accalora per le polemiche che da un po' di tempo sembrano andare di pari passo con la rievocazione delle stragi nazifasciste nella Seconda guerra mondiale: «La Resistenza è un valore da difendere assolutamente anche se gli uomini, partigiani compresi, di fronte alla morte spesso si sono comportati in modi irrazionali o violenti». Col suo primo film, Il vento fa il suo giro, ha imparato che la calma può essere un'arma vincente. Nessuno voleva finanziare un film su un pastore francese che emigra nella val Maira e lui l'ha fatto lo stesso. Nessuno voleva distribuirlo e lui ha cercato cinema per cinema: a Milano è in programmazione da più di 15 mesi ininterrottamente al Mexico. Un record storico. A Torino l'hanno proiettato per quattro mesi, a Bologna per tre. Adesso lavora al film L'uomo che verrà, quasi un kolossal al confronto: tre milioni e mezzo di budget, coperti in parte da RaiCinema, in parte dal ministero dei Beni culturali. Mancano ancora cinquecentomila euro circa, ma non si potevano più attendere: in due mesi di riprese nelle colline sopra Bologna, a una decina di chilometri dai luoghi reali delle stragi, bisogna ricreare il passaggio delle stagioni e la mancanza di pioggia di questi giorni sta ingiallendo troppo in fretta le foglie. «Forse saremo costretti a qualche ritocco digitale » si lascia scappare l'art director Giancarlo Basili.
Non l'hanno fermato neanche le polemiche sul film di Spike Lee e la sua hollywoodiana ricostruzione della strage di Stazzema, bocciata sonoramente dal pubblico. «Il mio non è un film di guerra. È un film su come la guerra entra nella vita delle persone, di come distrugge le loro speranze e i loro sogni, di come cambia le carte in tavola. E di come lo faccia nel modo più tragico: negando la vita». Le persone che improvvisamente devono fare i conti con questa tragedia sono i Palmieri, contadini già segnati dalla morte di un figlio (trauma che ha tolto la parola alla sorellina Martina) e che sperano nella nuova gravidanza della moglie Lena.
A interpretarla, Maya Sansa, che dopo un lungo periodo in Francia (dove ha interpretato tre film, uno al fianco di Sophie Marceau), si ritrova nella stessa epoca del suo ultimo film italiano,
L'amore ritrovato. «Non volevo essere identificata come l'attrice che fa i film sul fascismo. Anche il film con la Marceau era ambientato nella Seconda guerra mondiale, ma la storia e il regista mi hanno convinto. Sono una donna che, attraverso il matrimonio, entra in una famiglia patriarcale e deve pensare soprattutto a obbedire e lavorare in silenzio. Ho un ruolo fatto di piccole cose quotidiane ma con una sua forte umanità, che risalta proprio nel sacrificio domestico».
Tutto l'opposto della cognata, interpretata da Alba Rohrwacher, che invece non vuole accettare la dura logica contadina e vorrebbe scappare facendo la serva a Bologna: «È vero, il mio ruolo è un po' più mosso: cerco di ribellarmi alla logica della vita di campagna, ma certo non faccio scene madri. Diritti è molto attento alla credibilità, tanto da farci parlare tutti in bolognese stretto. A quei tempi erano tutti di poche parole. E se Maya confessa che le sarebbe piaciuto di più il mio ruolo, io potrei dire lo stesso del suo, fatto tutto di sottintesi e allusioni». E anche da questi complimenti reciproci capisci che per una volta su questo set si respira un'aria diversa, di vera coesione («Tutti hanno accettato di lavorare perché credevano al film non certo per i soldi» dice orgoglioso Diritti). Senti che tutti si sentono coinvolti, accettano gli spostamenti di programma e i prolungamenti d'orario senza mugugni. «Sembra di essere a teatro» si lascia scappare la Sansa.
A fare gruppo, a aggiungere una motivazione in più collaborano anche le comparse, che non sono i soliti aspiranti attori in cerca di un attimo di fama, ma autentici contadini locali, che i fatti del Monte Sole li hanno vissuti sulla loro pelle, o su quella dei loro familiari. Come «donna Vittoria», la suocera di Lena nel film, che si porta dietro un librettino dove sono stigmatizzate le torture che il famigerato capitano Tartarotti infliggeva ai partigiani che catturava, uno dei quali era suo padre. O come Carlo Venturi che fa da «consulente storico» sulle tattiche di combattimento dei partigiani, anche se ogni tanto si scusa «perché la memoria fa brutti scherzi». E con loro ci sono tantissime altre facce così, di quella verità e di quella intensità che il cinema spesso dimentica. «Quando hanno saputo che stavo girando un film su quel massacro si sono presentati in tantissimi. Volevano esserci. Volevano dare il loro piccolo contributo a ricostruire una storia dimenticata » e mentre lo dice capisci che Diritti un po' della sua guerra sente di averla già vinta.

Asca 17.10.08
Mercati: effetto crisi, il Capitale di Marx torna tra i bestseller


Francoforte, 17 ott - Sara' l'effetto della crisi finanziaria globale, ma ''Il Capitale'' di Carlo Marx sta vendendo piu' copie che in passato. A sostenerlo e' Joern Schuetrumpf, capo della casa editrice Karl Dietz Verlag, che pubblica il celebre libro di Marx, uscito per la prima volta nel 1867, ed e' specializzata in letteratuta comunista. ''Nel 2005 ho venduto 500 copie, nel 2006 800 e nel 2007 1.300. Nei primi nove mesi del 2008 sono gia' arrivato a 1.500'', dice Schuetrumpf, dal suo stand alla Fiera del Libro di Francoforte. ''Di sicuro molti di coloro che lo comprano, soprattutto i giovani, non riescono a leggerlo tutto perche' e' davvero una lettura impegnativa, ma comunque una societa' che sente il bisogno di leggere Marx e' una societa' che non si sente molto bene''.

il manifesto 16.10.08
Il diktat Sacconi: vietare gli scioperi
Il ministro del Welfare annuncia una legge delega che blocca le proteste: scioperanti schedati, sanzioni dalla prefettura. Autorizzati solo gli stop «virtuali», con un fazzoletto. La Cgil: «Si viola un diritto costituzionale»
di Antonio Sciotto


ROMA - Tra gli innumerevoli attacchi del governo, non poteva certo mancare quello al diritto di sciopero: ieri il ministro del Welfare Maurizio Sacconi ha spiegato che si provvederà presto, con un apposito disegno di legge delega che «regolerà» le astensioni dal lavoro nei servizi pubblici. Chi sciopererà verrà schedato dall'amministrazione di cui è dipendente, sanzionato dalla prefettura, indotto a sostituire la piazza con un semplice fazzoletto al braccio. In pratica, sarà vietato scioperare. E non basta: viene soppresso un diritto garantito dalla Costituzione, quello di poter protestare individualmente. Per proclamare uno sciopero, bisognerà passare attraverso un referendum a maggioranza. «E' un golpe bianco - commenta Carlo Podda, Fp Cgil - E' la violazione palese di un diritto costituzionale, e segnalo che queste misure vengono minacciate quando i lavoratori della scuola e del pubblico impiego si preparano a scendere in piazza».
La riforma, ha spiegato Sacconi, intende «prevenire il conflitto attraverso forme di conciliazione e arbitrato», mira a rendere «obbligatorio un referendum consultivo preventivo e rendere anche obbligatoria l'adesione individuale allo sciopero dei singoli lavoratori, in modo che gli utenti siano informati circa il livello di adesione allo sciopero». Il ddl intende disciplinare anche la revoca dello sciopero, «perché strumentalmente troppo spesso si annunciano scioperi che poi si revocano all'ultimo minuto facendo in modo che il danno è stato fatto senza pagare il pegno della perdita del salario». La revoca dello sciopero, quindi, «deve essere adeguatamente anticipata per poter evitare la trattenuta, tranne nel caso si faccia, anche all'ultimo momento, un accordo che risolva in via definitiva il problema, non una semplice solo timida intenzione di miglior dialogo». Il governo - ha continuato Sacconi - vuole anche «intervenire sull'esigenza della rarefazione: cioè deve essere più robusto e garantito l'intervallo tra uno sciopero e l'altro, nel senso che pur agendo diversi soggetti, l'intervallo deve essere comunque garantito in modo che ci sia un congruo periodo in cui non ci sono attività di interruzione del servizio».
Secondo il ministro, poi, «bisogna favorire lo sciopero virtuale che si può fare con un fazzoletto al braccio, in modo che io sono in stato di agitazione, perdo il salario però il datore di lavoro paga una cifra congrua per ogni lavoratore che si astiene virtualmente dal lavoro». In sostanza, ha spiegato Sacconi, «la controparte paga ugualmente e queste risorse vanno in un fondo solidaristico che poi decidono come usare. Questo sempre per evitare l'interruzione del servizio pur legittimamente manifestando un disagio». «Le sanzioni - ha concluso il ministro - oggi sono decise dalla commissione, soprattutto quando riguardano l'individuo, e sono applicate dal datore di lavoro, che in genere non lo fa mai. L'ipotesi è di incaricare i Prefetti di applicare la sanzione decisa: in questo modo la sanzione, con il pericolo di omissione di atti di ufficio, è applicata effettivamente».
«Già oggi esistono sufficienti garanzie per tutelare i cittadini utenti - replica Podda - Tanto che per annunciare le prossime date di sciopero devo aspettare il tentativo di conciliazione al ministero del lavoro, e poi badare a non sovrapporle con altre. Ma qui si minaccia di negare alla radice il diritto di sciopero. Il sindacato diventa superfluo: Brunetta nega la contrattazione e eroga aumenti unilaterali, e ora si aggiungono le regole sugli scioperi. Allora sciogliamo tutto e mettiamo su un comitato referendario. Si nega il diritto individuale allo sciopero, si schedano gli scioperanti con l'obbligo di adesione nominale, si fa applicare la sanzione dalle prefetture, come se fosse un problema di ordine pubblico. Questo progetto somiglia tanto alle linee guida sui contratti della Confindustria, dove gli scioperi vengono iper-sanzionati e si pretende di conciliare con gli arbitrati». I lavoratori pubblici, comunque, dopodomani decideranno le date dei prossimi stop regionali - entro metà novembre - e se non avranno risposte si deciderà lo sciopero nazionale.
Proteste contro Sacconi sono venute anche dalla segreteria della Cgil, che parla di «introduzione di tratti autoritari»; la Uil, con Paolo Pirani, dice che «atti unilaterali rischiano di aumentare il conflitto»; la Cisl chiede «un tavolo per regole condivise». Il Pd, con Paolo Nerozzi, si dice «profondamente contrario al progetto Sacconi».

Il Riformista 20.10.08
De profundis a sinistra
di Luca Mastrantonio


Qualcuno era comunista, dice la canzone. La cantava Giorgio Gaber. Nei prossimi giorni la suoneranno in tanti, da Riccardo Barenghi a Luca Telese. Il prossimo libro dell'autore di Cuori neri, che prende il titolo dalla canzone-teatro, è una campana a morto per i «pop-brezneviani». Veltroni, Fassino & co. che, secondo Telese, hanno «perso tutte le passioni e le idealità del comunismo, ma hanno recuperato forme di stalinismo che il Pci non ha mai conosciuto. Sognano l'unanimismo, il loro vero obiettivo perché hanno paura della democrazia».
Secondo Riccardo Barenghi, che uscirà a giorni con Fazi con Eutanasia della sinistra, si sta praticando una dolce morte al corpo elettorale (post)comunista. Forse tanto dolce non è stata, ma va certificata. Quando? Il 14 aprile 2008 o due anni prima? Il dottor Morte è stato Prodi o Veltroni? O Bertinotti? La risposta, forse, è in libreria.
Altri libri di prossima uscita compilano un unico epitaffio con i loro dorsi. A novembre uscirà per Memori Razza comunista. La vita di Luciano Lama, di Giancarlo Feliziani, che prova a rispondere alla domanda: che razza di comunista era Luciano Lama. Un «perdente di successo»? Lama viene descritto come l'uomo che riuscì a trasformare ogni sconfitta del sindacato (dalla Fiat alla scala mobile; dalla svolta dell'Eur alla disfatta all'università di Roma da cui fu costretto a fuggire a bordo di una Mini minor...), in nuove occasioni di identità e appartenenza. Diffidente verso Enrico Berlinguer, ha comunque affiancato il Pci nelle sue battaglie. «Era il marxista più bello - sostiene Feliziani - e forse anche il più simpatico. Uno straordinario oratore capace di far digerire anche il più ostico degli accordi sindacali». Ma poi, il sindacato si dimentica di invitarlo alla festa del 1 maggio.
Per chi non si accontenta - o vuole fare un regalo a Vladimir Luxuria che sull'Isola dei famosi pensa che il Muro sia caduto nel 1985 - c'è il Diario della caduta del comunismo, edizioni Liberal, scritto da Renzo Foa.
Il commiato più ironico dall'era comunista, però, è quello di Sebastiano Vassalli, raccolto in Racconti politici (Einaudi). Narra la storia dell'«Ultimo comunista», un avvocato che ha sfiorato la lotta armata e poi l'ha abbandonata gettando in un fiume le armi che aveva in custodia. Oggi, nel suo biglietto da visita, si presenta come «Ultimo comunista». Senza altre qualifiche.