Antifascista, intransigente. Mai stato comunista
Vittorio Foa lascia un vuoto straordinario in chi scrive come in tutta la sinistra italiana ed europea. È stato, per un tempo assai lungo, una personalità che riusciva ad unire la simpatia umana, la concretezza dell’uomo d’azione con la limpidezza del pensiero e l’ottimismo nell’avvenire.
L’avevo conosciuto più di trent’anni fa e per i settant’anni gli avevo fatto una lunga video-intervista con l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio sugli anni della sua cospirazione antifascista.
Già perché Vittorio (che quest’anno aveva appena compiuto novantotto anni) era stato arrestato a Torino già nel 1935 grazie alla soffiata di un confidente dell’Ovra fascista e fu per dodici anni prigioniero a Regina Coeli e in altri carceri come militante di Giustizia e Libertà, il movimento fondato da Carlo Rosselli ed Emilio Lussu. Liberato nell’agosto 1943 aveva condiviso a lungo la cella con altri noti antifascisti come Ernesto Rossi, Massimo Mila e Riccardo Bauer.
Appena libero fu, con Ugo La Malfa, segretario del Partito di Azione,eletto quindi nel 1946 deputato del Pda e poi, sciolto il Partito di Azione nel 1947, deputato del Partito Socialista Italiano per tre legislature.
Nel 1948 aderì alla Fiom, il sindacato dei metalmeccanici della Cgil di cui divenne, sette anni dopo, segretario nazionale.
A metà degli anni sessanta aderì al Partito Socialista di Unità Proletaria di cui divenne uno dei maggiori dirigenti nazionali e nel 1992,dopo esser stato senatore indipendente nelle liste del Pci nella legislatura precedente, decise di lasciare la politica attiva.
Si dedicò a scrivere libri in gran parte autobiografici. Tra i tanti che ha pubblicato voglio ricordare in particolare Il Cavallo e la Torre (Einaudi, 1991)che raccoglie una sorta di personalissima e godibile autobiografia, Questo Novecento (Einaudi, 1996) che ci restituisce la sua visione problematica e acuta del secolo ventesimo e le sue Lettere della Giovinezza (1935-1943) pubblicate sempre da Einaudi nel 1998.
Tra queste ultime che portano il lettore nelle carceri fasciste, ricordo sempre quella scritta subito dopo la caduta del fascismo il 25 luglio del 1943: «Al mutamento radicale nella situazione politica del paese non corrisponde purtroppo un adeguato mutamento nella situazione interna del carcere. Qui tutto è sostanzialmente immutato, ossia fascista». Parole profetiche per la crisi italiana, potremmo dire.
Le idee essenziali che hanno caratterizzato in vari momenti la riflessione dell’uomo politico torinese mi paiono oggi più che mai attuali. Foa era, dagli anni trenta, un europeista convinto che aveva visto assai presto la necessità storica dell’unione dei popoli e degli stati europei dopo la catastrofe fascista, almeno in parte dovuta ai nazionalismi che avevano prevalso dopo la prima guerra mondiale nel vecchio continente.
Il secondo punto forte delle sue idee era quello delle autonomie locali e delle comunità umane più piccole mortificate dal centralismo francese , come da quello italiano, negli anni del liberalismo e, ancor più, del regime fascista.
Infine Foa si preoccupava della frammentazione politica che aveva caratterizzato, nel periodo liberale,come in quello repubblicano,la partecipazione politica ed elettorale e si pronunciò più volte per un sistema elettorale maggioritario che mettesse insieme le forze affini e rendesse più efficiente il sistema politico.
Non era mai stato comunista ma collaborò nella Cgil, come nei partiti di sinistra, con i comunisti italiani e riuscì sempre a mantenere la sua autonomia di pensiero e di azione.
Il suo antifascismo nacque e rimase sotto il segno della intransigenza sui valori di fondo che erano le libertà civili dei cittadini e la solidarietà sociale. In questo senso militò nel movimento sindacale con grande passione ed ebbe per Giuseppe Di Vittorio una particolare amicizia e venerazione soprattutto per la sua umanità e la capacità di difendere gli interessi dei lavoratori, senza dogmatismi né rigidità.
Intervistato l’anno scorso da un telegiornale italiano, Foa disse, non a caso: «Bisogna guardare la concretezza dei fatti... Dobbiamo vedere non le idee generiche, ma come si possono realizzare le cose». Sono del tutto d’accordo con lui.
La politica italiana, purtroppo, è sempre stata,anche a sinistra, piena di idee astratte e scarsa di fatti concreti. Di qui l’importanza di una personalità come quella di Vittorio Foa che ha dimostrato,in tutta la sua vita, di privilegiare l’esperienza concreta rispetto alle discussioni fumose che piacciono tanto a molti politici e intellettuali del nostro tempo.
In questo senso, essendo quasi centenario, Vittorio restava un uomo giovane e vivo per il suo tempo.
l’Unità 21.10.08
Le speranze e le paure delle grandi rivoluzioni
di Vittorio Foa
Penso molto alle parole della politica, alla loro capacità o incapacità di comunicare, e penso al carattere plurale di queste parole, alla molteplicità di significati, e anche di contraddizioni, che esse possono raccogliere: solo leggendo la loro interna contraddizione, la loro polarità, riusciamo a capirle. La parola «lavoro», ad esempio, mi ha accompagnato per una parte della mia vita: mi sono occupato del lavoro umano e della sua organizzazione. Quando facevo l’organizzatore sindacale mi era chiaro che lo sviluppo, la crescita dell’economia d’insieme era una necessità per andare avanti e, al tempo stesso, una radice di difficoltà e d’infelicità. Le due cose, camminare e soffrire, vanno avanti insieme. (...)
Perché il comunismo è completamente scomparso mentre L’anticomunismo, come cultura e come politica, continua ancora a esercitare un suo ruolo non indifferente?
Si potranno trovare molte risposte nell’analisi storica del comunismo, dei suoi meriti e dei suoi orrori, delle memorie staliniste che hanno costituito un pezzo terribilmente importante della violenza del Novecento, ma mi limito qui a un’osservazione piuttosto semplicistica. Il comunismo di cui si constata la scomparsa è un insieme di dottrine e di esperienze, mentre ciò di cui si constata la sopravvivenza è un insieme di nostalgie e paure, che non si identificano con il comunismo ma hanno un altro nome: rivoluzione. Di rivoluzioni ce ne sono state tante, e a mio giudizio son tutte fallite, ma le nostalgie e le paure che hanno creato non si cancelleranno mai. Esse rispondono a un atteggiamento mentale degli uomini verso la realtà che può assumere forme diverse nelle esperienze pratiche. Queste forme però hanno sempre qualcosa in comune tra loro anche se distanti nei secoli: si tratta dell’idea, che in certi momenti molti esseri umani hanno manifestato, di poter cambiare il mondo senza esserne costretti dal tempo e dallo spazio. Il tempo ha sempre frenato la volontà di cambiamento con l’argomento che bisogna appunto lasciar maturare i tempi, aspettare che la società crei le condizioni favorevoli al mutamento. Lo spazio ha sempre frenato i cambiamenti con l’argomento che le cose possono mutare altrove, ma non da noi. In certi momenti alcuni gruppi umani hanno pensato che mettendosi insieme era possibile superare lo spazio e il tempo e quindi cambiare il mondo senza attese: sono stati momenti di entusiasmo e anche di paura, che hanno investito milioni di persone.
Io penso all’esperienza rivoluzionaria nell’Europa mediterranea e soprattutto in Italia. Penso anche a due episodi specifici. Uno da me non vissuto, ma studiato con profonda partecipazione, è la Rivoluzione francese; l’altro, più recente, da me non vissuto con partecipazione, ma studiato con rispetto, è il 1968 in Europa e non solo in Europa.
La Rivoluzione francese ha vissuto il suo apogeo e la sua sconfitta nel 1793-94, pur cambiando il mondo in maniera diversa da quella prevista e voluta. Il 1968 mi è parso un movimento rivoluzionario quando l’idea di autonomia, maturata come diritto di decidere il proprio futuro senza dipendere dagli altri, si è poi affermata , oltre che nell’organizzazione del lavoro anche negli altri aspetti della vita, come rifiuto delle discipline imposte e come affermazione della libertà. Anche il Sessantotto non ha adempiuto alle sue speranze, ma ha cambiato molte cose nella società; anche il Sessantotto è stato battuto lasciando dietro di sé a cute nostalgie e diffuse paure.
La rivoluzione è vissuta come episodio in varie forme, in vari tempi e in vari paesi; ma come idea di fattibilità del cambiamento attraverso l’azione collettiva degli esseri umani sopravvive a tutte le sue sconfitte episodiche. Per questo penso che bisogna tenere ben chiara la distinzione tra episodi rivoluzionari legati alla storia e la rivoluzione come atteggiamento umano, che si verifica solo in certi momenti e sembra conferire all’umanità una potenza fino allora inesplorata.
Il comunismo è stato in Italia un’esperienza importantissima. Io non ho fatto parte di quell’esperienza dottrinaria e di quella pratica, ma ho sempre cercato di comprenderne il senso e anche i limiti: oggi vedo ancora intorno a me sopravvivenze nostalgiche e non me ne scandalizzo. Penso veramente che la rivoluzione come idea di fattibilità del cambiamento è un’idea che vivrà.
* tratto da «Le parole della Politica» di Vittorio Foa e Federica Montevecchi, Einaudi, 2008
Repubblica 21.10.08
Sale la protesta anti-riforma "Giovedì picchetti nei licei"
Annuncio degli studenti di sinistra. Contestata la Gelmini
di Mario Reggio
A Milano bruciata una copia della riforma. A Prato un preside chiede lo sgombero
ROMA - La mobilitazione degli studenti contro il ministro Mariastella Gelmini non si ferma. Anzi, cresce con il passare dei giorni. Anche ieri assemblee e cortei in molte città. E la temperatura sale anche negli atenei. Ieri migliaia di giovani in piazza davanti al rettorato dell´università di Palermo. Assemblea di ateneo a Padova, fiaccolata e corteo a Ferrara, mobilitazione e sit-in all´università di Ancona.
Il ministro Gelmini continua a ribadire il suo stupore: «Sono polemiche strumentali visto che il mio decreto non riguarda l´università». Glissa sul fatto che la manovra finanziaria del suo collega Tremonti, che riguarda un dicastero di sua competenza, prevede tagli al Fondo ordinario di funzionamento degli atenei per un miliardo e mezzo in cinque anni, due assunzioni ogni dieci docenti che andranno in pensione fino al 2013 e la possibilità di far entrare i privati nella gestione delle università attraverso la creazione di Fondazioni.
«Il 23 ottobre - promette la Rete degli studenti - occuperemo le entrate delle nostre scuole in tutte le città per sbarrare la strada alla riforma e ai tagli con tutta la nostra creatività e voglia di cambiamento». Sulla stessa linea l´Unione degli studenti che al grido "Provate a fermarci" intende bloccare le scuole di tutta Italia e non si fermerà - assicura - «fin quando questo governo non tornerà indietro sulle scelte che mirano a mettere in ginocchio il sistema nazionale d´istruzione». Alternativa studentesca, organizzazione della destra, accusa: «Ora arrivano anche le minacce dei picchetti, un binario antidemocratico».
La rabbia degli studenti è palpabile. Ieri mattina una copia del decreto Gelmini è stata bruciata davanti Palazzo Marino, sede del Comune di Milano, dove oltre 200 studenti delle superiori hanno dato vita a un sit-in. Contestazioni anche a Napoli: gli alunni del liceo classico Genovesi, dopo aver tentato un´occupazione dell´istituto, hanno indetto, in piazza del Gesù, un´assemblea pubblica. A Livorno almeno 8 mila studenti hanno partecipato a una manifestazione che ha attraversato le vie del centro, mentre a Prato il preside del liceo classico Cicognini e del liceo psicopedagogico Rodari, Luigi Nespoli, ha chiesto l´intervento delle forze dell´ordine e ha inviato un fax al prefetto affinché vengano sgomberati i due istituti dagli studenti che li stanno occupando da ieri mattina.
E nelle stesse ore, il ministro Gelmini, che aveva rinunciato alla sua visita programmata all´ateneo di Palermo, ha preferito l´Istituto professionale di Carate Brianza, praticamente un ritorno alle origini. Fuori dalla scuola è stata accolta da una salva di fischi, mentre all´interno è stata salutata da un applauso di studenti e genitori arrivati anche da altri istituti.
Torniamo all´università. La manovra finanziaria del ministro Tremonti è molto chiara: meno soldi per gli atenei, blocco quasi totale del turn over, l´auspicio che i privati investano nelle università statali. Una speranza che non si è mai trasformata in realtà. E i rettori? Enrico Decleva, magnifico della Statale di Milano, e presidente della Conferenza dei rettori non nasconde la sua preoccupazione: «Nel 2010 la situazione finanziaria degli atenei diventerà insostenibile e investirà tutte le università, anche quelle più virtuose, nessuno poi dice che la parte più consistente dei tagli - afferma Decleva - 471 milioni su 661 andrà a coprire i costi dell´abolizione dell´Ici».
Repubblica 21.10.08
E piazza Montecitorio diventa l'aula di fisica "L'Italia abbandona studenti e ricercatori"
"Pure gli studenti secchioni, quelli che stanno sempre sui libri, si stanno arrabbiando"
Domani a Firenze l´iniziativa sarà replicata anche dall´astrofisica Margherita Hack
di Marina Cavallieri
ROMA - «Sono tempi di tenebre e rabbia per gli scienziati italiani che si devono confrontare con un governo che sta ponendo in essere una filosofia di tagli alle spese...». Il professor Omar Benhar legge a bassa voce un documento, è un po´ impacciato, si capisce che preferirebbe stare in aula più che in piazza, in cattedra piuttosto che su questa insolita barricata, lui non è un agitatore ma solo un fisico. Mentre parla senza microfono seduti in terra duecento ragazzi prendono appunti. In silenzio. Sullo sfondo di una giornata luminosa c´è Montecitorio.
Strana protesta, è la lezione-sit in dei fisici della Sapienza, la rivolta dei «secchioni», quelli che non rinunciano a studiare anche se devono scendere in piazza, dissertare di «campi elettromagnetici» e «natura delle sorgenti» davanti al Parlamento è il loro modo di dire no ai tagli all´università e alla ricerca. «Vede, anche loro, i secchioni, quelli che stanno tutto il giorno sui libri, s´incazzano», dice sorridendo il professor Giovanni Amelino Camelia, che di secchioni e fisica dovrebbe intendersene, visto che è stato definito uno dei cinque nuovi Einstein dalla rivista statunitense "Discover magazine". «È una grossolana esagerazione...», precisa con modestia.
Anche lui è qui per fare lezione in piazza, sembra uno studente, con lo zainetto in spalla, se non fosse per i capelli un po´ brizzolati. Il suo impegno di fisico è quello di costruire «un´unica teoria che comprenda sia la relatività generale che la meccanica quantistica», ma per un momento i misteri dell´universo possono attendere. «Sono tornato in Italia dopo essere stato negli Stati Uniti, Inghilterra, Svizzera, speravo che con l´entrata in Europa ci fosse lo sforzo di raggiungere anche nella ricerca gli standard degli altri paesi. Sono stato ingenuo. È insopportabile l´idea che si possano risparmiare i soldi là dove si formano i giovani. Va detto che tutti i governi tagliano, la sinistra ci va di fioretto, la destra di sciabola. Ma ora mi sembra che a livello generale ci sia un messaggio chiaro: questa non è una scelta contingente, noi ricercatori siamo inutili per il paese, è una visione molto nitida». Il professor Antonio Davide Polosa, anche lui qui a fare lezione, aggiunge: «Si parla tanto di meritocrazia e poi i tagli vengono fatti a pioggia e gli investimenti a pioggia, la ricerca non è un costo pubblico è l´unico investimento, non si può tagliare il futuro di questi giovani, voglio anche precisare che a Fisica non c´è mai stato il blocco della didattica».
Intanto i ragazzi continuano a prendere appunti, le lavagne si riempiono di formule misteriose per chi non conosce i segreti della materia. Strana protesta, senza slogan e senza rabbia. Solo un silenzio grave, preoccupato. E un cartello: «Adotta uno studente italiano». «Sono contento - ha detto il professor Carlo Cosmelli - perché in trent´anni di università ho visto gli studenti contestare per ciò che gli interessava nell´immediato, adesso invece combattono per ciò che accadrà tra dieci anni».
Lezione universitaria all´aperto anche a Genova, sui gradini della Chiesa dell´Annunziata, coinvolti gli studenti del corso di Storia della Russia. A Firenze invece sarà l´astrofisica Margherita Hack a tenere una lezione domani pomeriggio in piazza della Signoria. A Roma i fisici torneranno nei prossimi giorni con le loro equazioni al Campidoglio e a piazza Navona mentre oggi pomeriggio alla Sapienza è previsto un sit-in per chiedere il blocco dell´anno accademico.
Repubblica Firenze 21.10.08
Università tutta occupata
Manifestazione regionale a Firenze contro il ministro Gelmini
Domani Margherita Hack farà lezione in piazza
di Gaia Rau
Da Architettura al plesso Morgagni: la protesta conquista altre facoltà
Occupazioni a raffica l´ateneo s´infiamma
Firenze, Pisa, Siena: oggi tutti in corteo
Partenza da San Marco. Signoria
Dalle scuole superiori all´università: le occupazioni non si fermano. Da ieri a Firenze la protesta, che già sta infiammando diverse facoltà tra cui Scienze, Agraria, Matematica, si è estesa anche ad Architettura, a Scienze della Formazione, al plesso di viale Morgagni (dove l´occupazione è passata non senza polemiche da parte dei giovani di Forza Italia). Un fronte sempre più compatto, in vista della manifestazione regionale di oggi che vedrà sfilare insieme, qui nel capoluogo toscano, i tre atenei di Firenze, Pisa e Siena, ai quali si aggiungeranno anche gli studenti delle superiori: in piazza San Marco, alle 9.30, sono attese migliaia di persone. «Non tagliateci il futuro» è lo slogan della protesta; altrimenti, mandano a dire i ricercatori, saremo costretti ad andare all´estero: che è anche il messaggio della performance-provocazione andata in scena ieri nel centro fiorentino: ricercatori travestiti da cervelli in fuga da piazza Signoria a piazza Repubblica. Ma intanto a Prato, l´occupazione del liceo Cicognini manda su tutte le furie il preside che sollecita l´intervento delle forze dell´ordine.
Finita le occupazioni nelle scuole superiori, la protesta si allarga alle facoltà: dopo Scienze, Agraria, Scienze Politiche e Matematica, sono da ieri occupate anche Architettura (sede di Santa Verdiana), Scienze della Formazione in via del Parione e il plesso didattico di viale Morgagni, che ospita aule di Ingegneria, Farmacia, Scienze e Medicina. Gli studenti di Psicologia hanno invece stabilito di non interrompere le lezioni ma di autogestire l´aula 12 trasformandola in un laboratorio permanente contro la legge 133.
E´ il risultato di una serie di assemblee che si sono svolte nelle varie facoltà, non senza alcune polemiche. In viale Morgagni il blocco della didattica è stato infatti deciso non a votazione ma «ad acclamazione». «Al termine di una serie di interventi tutti a sostegno della protesta, il moderatore ha ritenuto che l´orientamento generale dell´assemblea fosse a favore dell´occupazione, e il suo annuncio è stato accolto da un lunghissimo applauso», spiegano rappresentanti degli Studenti di Sinistra. Mentre i Giovani di Forza Italia parlano di «occupazione imposta»: «Durante l´assemblea l´intervento di un nostro rappresentante, contrario alla protesta, è stato accolto da applausi, segno che non tutti volevano occupare».
Dovrebbe invece finire oggi l´occupazione negli istituti fiorentini che sabato avevano deciso di posticipare il ritorno sui banchi. La Procura, intanto, ha affidato ai Carabinieri l´indagine per occupazione e interruzione di pubblico servizio aperta dopo la segnalazione di sei presidi. «Ma la nostra protesta non finisce qui, e insieme agli universitari, ai docenti e ai genitori studieremo altre forme di lotta contro la 133 e il decreto Gelmini», ribadiscono i ragazzi del coordinamento. A cominciare da oggi, quando anche gli studenti medi parteciperanno alla manifestazione regionale indetta da Flc-Cgil, Cisl Università, Fir Cisl, Uil Pa Ur insieme a lavoratori dell´Università, degli Enti di Ricerca e dell´Afam. Il corteo, che partirà alle 10 da piazza San Marco, passerà sotto le sedi di Ateneo, Provincia, Regione e Comune, per terminare con un´assemblea in piazza Santissima Annunziata. «Il percorso rappresenta simbolicamente la richiesta che il mondo della ricerca toscano rivolge alle proprie istituzioni locali, affinché ci sia una netta presa di posizione in difesa del ruolo pubblico della ricerca e della formazione». Contro i tagli scenderà in campo anche l´astrofisica Margherita Hack, che domani terrà in piazza della Signoria una lezione organizzata dagli Studenti di sinistra per poi partecipare, giovedì, a un dibattito al Polo di Sesto.
A Livorno e a Pistoia si sono svolte ieri manifestazioni che hanno visto sfilare rispettivamente 8 mila e 2 mila persone. A Pisa, gli studenti di Lettere hanno occupato l´aula multimediale di Palazzo Ricci. A Siena, infine, giovedì sera fiaccolata per la scuola e l´università.
Repubblica Milano 21.10.08
Il filosofo della scienza: "Riconosco la stessa impazienza della mia generazione"
Giorello: "Sarà un vero Sessantotto se non vince il ribellismo sterile"
di Anna Cirillo
Milano deve essere orgogliosa della sua qualità e varietà di atenei. Un patrimonio che non va sprecato
Giulio Giorello, professore di Filosofia della scienza alla Statale, manifestazioni dalle elementari all´università: è un nuovo �68?
«Ho partecipato al �68 e non me ne vergogno, ha ottenuto grandi conquiste sul lungo periodo per quel che riguarda la definizione di diritti di donne e uomini. Però non vorrei mettere una griglia vecchia sopra una realtà nuova, in crescita ed effervescente, che può esplodere o abortire. Stiamo a vedere. Non è che la storia si ripeta sempre, anzi. La storia spesso ci sorprende. Ma riconosco nei giovani di oggi la stessa impazienza che avevo io».
Sono solo contestazioni verso il ministro Gelmini o c´è dell´altro?
«Trovo poco interessante ridurre tutto alla Gelmini. Il disinteresse dei politici per la scuola, lo scarso peso dato alla formazione scientifica, il carattere burocratico dell´istituzione anche universitaria, la mancanza di strutture adeguate, il trattamento economico non sempre soddisfacente, sono mali molto più vecchi della Gelmini. E i tanto lodati ministri della sinistra non hanno fatto meglio della Moratti. Mi interessa la voglia di lottare di questi giovani, che non ne vogliono saperne dei partiti, dei dinosauri della sinistra. E i partiti dovrebbero prendere atto delle sonore lezioni che, a cominciare dai giovani con le loro proteste, la società civile sta dando loro».
Qual è il ruolo di Milano in questa protesta che dilaga?
«Milano deve essere orgogliosa di avere una concentrazione di università e di esperienze diverse che ci viene invidiata. Questa ricchezza e pluralità è un bene preziosissimo e non deve essere sprecato. Se gli studenti capiscono che sono sulla stessa barca dei docenti, se non si abbandonano a forme di luddismo, di ribellismo e di sterile e miope protesta come fu per la Pantera, allora questo non sarà un fuoco di paglia, un´occasione perduta. E il fatto che non ci sia la mano dei partiti su di loro è una opportunità».
Che cosa si sente di dire agli studenti?
«Devono essere i primi a capire che un´università efficiente e meritocratica è un vantaggio soprattutto per loro».
Che cosa dovrebbero fare?
«Quello che gli detta la coscienza».
Hanno ragione?
«Non c´è mai una parte che abbia tutte le ragioni, ma sui punti che ho citato prima hanno non poche ragioni».
Oggi stati generali alla Statale, sindacati e studenti insieme per trovare una linea comune: come la vede?
«Non do giudizi a priori. Alcuni anni fa avrei visto la presenza del sindacato in modo molto positivo, ma recentemente i sindacati sono passati a lotte di tipo corporativo, quindi tendo al pessimismo».
In che modo viene vissuta dai professori questa fase?
«Non bisogna fare l´errore di pensare che le proteste sono catastrofi, possono essere anche occasioni per crescere».
Repubblica 21.10.08
Cosa dare agli studenti
di Adriano Prosperi
Dobbiamo prendere atto di una realtà: l´analfabetismo civile della società italiana è un fenomeno gravissimo. E non è per caso che lo scontro sociale si sta riaccendendo intorno alla scuola. I giovani, le famiglie, gli insegnanti stanno prendendo coscienza di quello che li aspetta: una scuola pubblica pesantemente impoverita nei servizi, nel personale, negli edifici e nelle attrezzature.
A cui si aggiunge una università di infimo livello, fabbrica di lauree ridicole e di docenti senza qualità. Il tempo è giudicato maturo da chi comanda per liquidare la pesante struttura della scuola pubblica e per affiancare all´università pubblica in via di smantellamento fondazioni private capaci di velocizzare la fornitura del personale tecnicamente preparato e civilmente incolto richiesto dal sistema produttivo. La giustificazione che regge la proposta è quella dello stato di crisi delle finanze pubbliche, aggravato oggi dalla tempesta mondiale delle banche. Ma la voce che si leva dalle piazze e che trova la via dei fax e delle mail per raggiungere il Quirinale dice che, accanto alle banche, prima e più delle banche, c´è ancora chi vuole salvare la formazione dei giovani e la qualità del nostro sistema della ricerca universitaria. È urgente affermare che qui si gioca una partita strategica essenziale. Prenderne coscienza è fondamentale. Lo stanno facendo le famiglie, gli studenti, i docenti, con proteste e richieste di interessi diversi, non sempre componibili tra di loro. Alle famiglie la riforma minacciata per decreto renderà più complicato raggiungere scuole accorpate, più ridotto il tempo dell´affidamento dei figli, più povera l´offerta culturale. Agli scolari e agli studenti toccherà in sorte un luogo di rafforzata disciplina esteriore negli abiti, nella condotta, e di inadeguata offerta per la crescita civile e culturale. Queste economie tagliate con l´accetta sul sistema scolastico ricordano quel Procuste che segava le gambe ai clienti per adattarli alla dimensione dei suoi letti.
La scuola è il pilastro fondamentale della società civile in una democrazia vitale, il luogo della socializzazione e dell´avvio a una cittadinanza consapevole, l´unico mezzo efficace per eliminare le discriminazioni di religione e di etnia, per assorbire l´impatto dei flussi migratori mondiali abituando a crescere negli stessi ambienti coloro che, da adulti, si troveranno fuori dalla scuola a convivere nella stessa società. La rivelazione della stupefacente crescita numerica della popolazione italiana ci ha fornito i numeri di quel che è accaduto negli ultimi anni, ma ha fatto anche di più: ha dimostrato implicitamente quello che i risentimenti, le chiusure, i pregiudizi e le paure seminate a piene mani cercano di nascondere, il fatto cioè che ciascuno di noi conta per uno e che tutti insieme facciamo la somma paese. Democrazia e demografia debbono andare di pari passo. L´idea di istituire classi differenziate è sorella di quell´altra balorda idea delle impronte digitali da prendere ai bambini rom.
Riuscirà la protesta degli studenti a frenare la deriva italiana? La giovinezza e la speranza di cambiare in meglio il mondo sono sorelle. Speriamo, dunque. Quanto ai compagni di strada che i giovani in agitazione e le loro famiglie stanno incontrando, la loro solidarietà non potrà esimerli da qualche esame di coscienza. Sulla protesta dei sindacati gravano quei limiti corporativi che tanto hanno pesato in passato nell´ostacolare l´avanzata dei docenti migliori e la rimozione dei peggiori e nel sostituire pressioni e contrattazioni alla logica del concorso pubblico senza limitazioni, senza fasce protette o categorie riservate. Ma è ai docenti e al sistema che governa l´università come luogo di insegnamento e di ricerca che oggi si chiede una prova speciale di credibilità. Ne saranno, ne saremo capaci? C´è da dubitarne. Un fatto recente rafforza i dubbi.
Se il clan dei casalesi compie una strage in un centro abitato in pieno giorno, nessuno vede, nessuno denunzia, nessuno testimonia. Precisiamo: nessun italiano. La "vittoria dello Stato" di cui nel caso di Castel Volturno si è gloriato il ministro dell´Interno è dovuta a un immigrato, l´unico salvatosi dalla strage. Un uomo solo, terrorizzato, sfuggito alla morte, ma capace di un atto di coraggio elementare, di una domanda di giustizia che non è giunta da nessun´altra parte. Ma parliamo dell´università. Qui le stragi ci sono ma non si vedono. Sono stragi di speranze e di intelligenze. Ogni anno in questa stagione il saldo demografico dell´università si chiude in negativo: i giovani migliori vanno all´estero, i pochi che vengono in Italia da fuori vi arrivano da paesi più poveri e più incolti del nostro. Anche qui è stato un immigrato, un raro esempio di "ritorno dei cervelli" a fare una radiografia impietosa e documentata del sistema universitario. Il professor Roberto Perotti, già docente alla Columbia University di New York, oggi alla Bocconi, ne L´Università truccata (edizioni Einaudi) ha denunziato le malattie dell´Università e ha avanzato proposte. Pagina dopo pagina leggiamo nomi e cognomi. Una tabella a pagina 22 ricostruisce il sistema di parentela che domina la facoltà di economia dell´Università di Bari come pure quelle di Medicina e Chirurgia di Bari e della Sapienza di Roma. E una tabella fittissima di ben cinque pagine illustra il meccanismo dei "concorsi dei rampolli". Le regole della parentela sono elementari nelle popolazioni primitive studiate dal grande antropologo Claude Levi-Strauss. Lo sono anche nelle tribù accademiche italiane. Qui basta un padre Magnifico Rettore a determinare l´irresistibile entrata dei membri della sua famiglia nell´università che governa e nel suo stesso dipartimento. Naturalmente il problema non è la consanguineità dei professori ma il blocco degli studi e la penalizzazione dei giovani migliori che la logica mafiosa dominante nei concorsi ha prodotto con la scomparsa tendenziale delle università italiane dalla parte alta della comunità scientifica internazionale. Le pagine di Perotti fitte di nomi e cognomi potevano scatenare una tempesta di querele e di proteste, riempire le aule dei tribunali di dignità offese. Non è accaduto niente. Le toghe infangate e svergognate hanno continuano a coprire magnificenze fasulle abbarbicate a cattedre e rettorati. Si diceva una volta: "Calunniate, calunniate, qualcosa resterà". Viene voglia di dire oggi: criticate, criticate, niente resterà. Resta solo uno stato d´animo di invidia e di rancore, diffuso tra le famiglie soccombenti e nella poltiglia umana che dallo spettacolo dell´ignoranza trionfante e prevaricante ricava solo una spinta alla maldicenza anonima e indifferenziata e può consolarsi così delle proprie frustrazioni. Ma lo scandalo vero è la sordità delle istituzioni e dei poteri. In un´altra cultura avremmo visto probabilmente manifestazioni pubbliche, esibizioni delle vergogne su lenzuolate di nomi, proteste di associazioni e di sindacati, inchieste di magistrati, interrogazioni parlamentari. Nel libro di Perotti c´è quanto basterebbe in un paese dotato di un vero governo e di una vera opposizione per mettere in movimento almeno una inchiesta parlamentare. Anche perché gli intrecci osceni che avvengono nei concorsi non sono fatti solo di dinastie familiari. Come tutti sanno, il vigente principio dello "ius loci" affida al potere delle cosche accademiche localmente prevalenti la selezione delle nuove leve di docenti attraverso il paravento di finti concorsi. Su questa materia è stato detto tutto. Non è stato fatto nulla. Quel che è stato fatto è un disastro bipartisan che negli ultimi anni, col sistema del tre per due e con la regola concorsuale dello "ius loci" ha svenduto le residue energie dell´università italiana, ha riempito le scuole di ignoranti e ha moltiplicato le etichette di fantasia per fare posto agli asini obbedienti al potere del capocosca locale.
Ora siamo arrivati al rendiconto finale. Lo sforzo degli studenti in agitazione per coinvolgere i docenti e di riceverne pacche sulle spalle è patetico. Ci fa misurare la distanza dalle aspre e irridenti satire del ´68, quando l´apparizione di un professore in un´assemblea studentesca faceva scattare cori di derisione. I giovani di allora oggi sono vecchi. Molti di quelli che allora dominarono le assemblee studentesche occupano o hanno occupato cattedre, ministeri seggi parlamentari. Pesa sulle loro spalle un fallimento che non hanno saputo evitare, che hanno spesso contribuito ad accelerare. Il loro eventuale appoggio andrebbe esorcizzato come una minaccia da chi vuole veramente che la scuola e l´università italiana riprendano la loro funzione di cuore pulsante della società. Lo tengano presente i giovani che oggi, timidamente, cominciano a uscire dal torpore di un paese gravemente malato.
Corriere della Sera Milano 21.10.08
Effetto Gelmini Gli istituti paritari prevedono il 20 per cento di iscritti in più
Tempo pieno a rischio, assalto alle private. Le mamme: garantiscono il tempo pieno
Porte aperte I principali istituti paritari organizzano open day. I rettori: da noi ambiente sicuro e strutture solide
«Meglio giocare d'anticipo se in ballo c'è il futuro dei propri figli». Ecco perché i genitori milanesi stanno prendendo d'assalto i centralini delle scuole private. Obiettivo, riuscire a iscrivere per l'anno prossimo i figli nelle strutture private della città.
Boom delle paritarie: per settembre 2009 si prevede un incremento di alunni tra il 10 e il 20 per cento. Motivo? Stabilità (i docenti precari sono pochissimi), continuità didattica, rapporti costanti con le famiglie. E tempo pieno: dopo gli annunci dei tagli all'istruzione pubblica, meglio rifugiarsi nelle scuole che rimangono aperte fino al tardo pomeriggio.
La presidente del Faes, dove le classi sono separate per sesso e gli alunni portano la divisa: attività fino alle 18
È solo ottobre, ma i centralini sono roventi al Gonzaga. «Scusi, vorrei iscrivere mio figlio per l'anno prossimo. Si può?». Non proprio, è troppo presto. «Possiamo accettare una pre-richiesta», dicono dalle segreterie. Stesse telefonate al San Carlo, al Leone XIII, alle scuole Faes. E in tutti gli istituti privati (paritari) della città. Perché il boom c'è, per settembre 2009 si prevede un incremento di alunni tra il 10 e il 20 per cento. Effetto Gelmini? Anche. «Mamme e papà — spiegano i presidi — si informano soprattutti su tempo pieno e maestro unico».
Questione di stabilità (i docenti precari sono pochissimi nelle paritarie), di continuità didattica, di attività che continuano per tutto il pomeriggio «in un ambiente sano e sicuro », di rapporti costanti con le famiglie. Ecco perché i genitori di Milano iniziano a posare lo sguardo su elementari, medie e licei gestiti da privati. Anche le mamme più «laiche» e anti-gelminiane si stanno orientando verso quella direzione. «La mia bambina più grande — spiega Federica, libera professionista — va alla pubblica, fa il tempo pieno. La piccola entrerà in prima l'anno prossimo e per lei sto pensando a una scelta diversa».
E poco importa se tutti i più importanti istituti privati hanno da sempre il maestro prevalente (quindi in piena linea governativa). Perché il nodo è un altro: il monte ore. In tempo di tagli agli orari (smentiti dal ministro del-l'Istruzione), le mamme-acrobate chiedono una mano a preti e suore. E questi rispondono.
Leone XIII, l'open day di elementari e medie è in programma per sabato. Durante le lezioni. «Vogliamo far conoscere la scuola mentre la si fa», precisa il rettore, Gabriella Tona. Porte aperte e una lunghissima lista di attesa. Il motivo: «Di fronte all'incertezza della scuola pubblica, pagano solidità e classicità». Punta sull'innovazione (classi bilingue e laboratori di avanguardia) il Collegio San Carlo di corso Magenta. Il rettore, don Aldo Geranzani, dice: «Le famiglie possono contare sull'affidabilità del nostro progetto educativo. Con rammarico devo rifiutare decine di iscritti».
Maestro prevalente e «specialisti » per le lingue, l'educazione musicale, le attività motorie. E — argomento ancora più convincente — la possibilità di rimanere a scuola fino a tardi. Succede così alle scuole Faes, quelle con classi separate per sesso e la divisa. Carmen Pontieri, il presidente, racconta: «Le lezioni terminano alle 15.35 ma si possono seguire alcune attività fino alle 18». Analisi: «I genitori sono preoccupati. La scuola statale non dà sicurezza, le classifiche parlano chiaro. Nemmeno il bullismo va sottovalutato: molti ragazzi si rifugiano da noi dopo esperienze di questo genere».
Travaso dal pubblico al privato anche al Gonzaga. Il direttore Roberto Zappalà (il primo laico nella storia dell'istituto) conferma: «Riceviamo molte richieste di passaggi in itinere. Sì, quest'anno è cresciuta la curiosità nei nostri confronti».
Il Giornale 21.10.08
«Studenti in piazza trascinati dai partiti e dai loro docenti»
Il ministro della Gioventù: «Da ex contestatrice dico ai ragazzi: non siate pappagalli dei politici»
di Adalberto Signore
Sabato i cortei contro la riforma della scuola e il 25 ottobre la manifestazione del Pd. Ministro Meloni, ha la sensazione che ci sia un ritorno alla piazza da parte del centrosinistra?
«Credo che si tratti di fenomeni diversi e che uniscono spinte diverse. Sulla scuola, per esempio, c’è sì una comprensibile opposizione di docenti e sindacati ma c’è anche il coinvolgimento dei bambini che ho trovato non solo indegno, ma anche illecito».
Si riferisce alle foto dei bambini delle elementari che hanno manifestato contro la Gelmini?
«Usarli per gridare slogan di cui non capiscono neanche il significato è inqualificabile e denota un vero e proprio terrorismo psicologico verso le famiglie da parte di docenti e sindacati. Si sono prestati a una strumentalizzazione bella e buona».
Esclude che possano essere proteste spontanee?
«Mi scusi, ma che senso ha per studenti e famiglie difendere lo status quo ante del corpo docenti e delle baronie universitarie? La riforma prevede di razionalizzare i costi e reinvestire parte dei risparmi per migliorare le strutture scolastiche costruendo, per esempio, palestre dove non ce ne sono. Non capisco perché gli studenti dovrebbero essere contrari».
Un’idea se la sarà fatta?
«Ho l’impressione che il movimento studentesco si stia facendo trascinare».
Da chi?
«Dai docenti e dalle strutture di riferimento del movimento che sono, come è giusto che sia, i partiti e i sindacati».
La Cgil?
«Certamente nella piazza di sabato c’era una forte componente della Cgil».
Insomma, una protesta eterodiretta...
«Io sono una che ne ha fatte tante, finanche contro governi di centrodestra perché quando le cose non vanno bisogna avere il coraggio di dirlo. E sono una che crede fortemente che la partecipazione sia un dato positivo, un arricchimento per tutti».
Però?
«Però il tema della credibilità è altrettanto importante. Che le posizioni di studenti e docenti convergano è una cosa mai capitata prima, una contraddizione in termini visto che hanno obiettivi diversi».
Insomma, quella contro la Gelmini non le è sembrata una piazza credibile...
«Ho avuto la sensazione di un alto tasso di ideologicizzazione, di manifestazioni organizzate non dal movimento ma dalle sue strutture di riferimento».
Prima non accadeva?
«Il tentativo di strumentalizzare il movimento studentesco c’è sempre stato, ma negli anni passati la partecipazione era più ampia e si dialogava alla pari con i partiti riuscendo ad anestetizzarne gli eccessi. Non a caso, i protagonisti delle proteste sono sempre stati i Coordinamenti degli studenti e mai i partiti o i sindacati».
E oggi?
«Oggi i manifestanti ripetono a pappagallo quello che gli dice il partito di riferimento. Manca, per esempio, la parte di proposizione. Non sono d’accordo su come reinvestire i risparmi? Ce lo dicano, né io né la Gelmini avremmo problemi a discuterne. Invece non so neanche se hanno chiesto un incontro con il ministro dell’Istruzione».
Il 25 ottobre tocca al Pd e qualcuno già parla di un nuovo ’68...
«Non mi pare che la situazione sia cambiata rispetto a qualche anno fa. Subito dopo la vittoria di Prodi fummo noi a portare in piazza milioni di persone, ora tocca a loro. D’altra parte, la partecipazione popolare è sempre un elemento positivo».
Quella di Veltroni, insomma, è una scelta giusta...
«Questo credo dipenderà dal grado di partecipazione. Sabato sapremo se davvero l’Italia crede a un rischio putinizzazione, se pensa che il governo abbia lavorato male e se è convinta che la sinistra offra un’alternativa valida. Noi ne portammo in piazza due milioni, vediamo se - pure con l’aiuto del sindacato - ci sarà davvero una risposta compatta. Sarà un buon termometro anche per noi».
Repubblica 21.10.08
Centomila firme in difesa di Saviano
Sono centomila le firme in calce all´appello "Lottiamo per Saviano", firmato ieri da sei premi Nobel in difesa dello scrittore napoletano minacciato dalla camorra. Dario Fo, Mikhail Gorbaciov, Günter Grass, Rita Levi Montalcini, Orhan Pamuk e Desmond Tutu, hanno scritto: "...Un giovane scrittore, colpevole di aver indagato il crimine organizzato svelando le sue tecniche e la sua struttura, è costretto a una vita clandestina, nascosta, mentre i capi della camorra dal carcere continuano a inviare messaggi di morte...Lo Stato deve fare ogni sforzo per proteggerlo, ma il caso Saviano non è solo un problema di polizia...Con questa firma vogliamo farcene carico".
A quell´invito ieri si sono aggiunti i centomila che lo hanno sottoscritto sul nostro sito (www.repubblica.it, che continua a raccogliere adesioni e su cui potete leggere il testo integrale dell´appello) e anche molte personalità del mondo della cultura, fra cui dieci scrittori di fama internazionale.
l’Unità 21.10.08
Oggi dalle 15 alle 18 con lettori noti e non al programma «Fahrenheit»
Tutto «Gomorra» parola per parola
sulle onde di RadioTre
Sono già centinaia gli ascoltatori di Fahrenheit che da mercoledì scorso si sono prenotati per la staffetta di lettura integrale del libro di Roberto Saviano Gomorra, nel corso del programma di Marino Sinibaldi in diretta su Radio3 oggi dalle 15 alle 18. Una testimonianza di solidarietà per lo scrittore minacciato di morte dalla camorra che culminerà nello speciale di oggi, interamente dedicato a Gomorra e al suo autore: in diretta dalla Sala A di via Asiago a Roma, ascoltatori, scrittori, attori e studenti leggeranno passi del romanzo-denuncia. Fra i tanti che hanno aderito figurano Massimiliano Fuksas, Dacia Maraini, Enrico Mentana, Concita De Gregorio, Ascanio Celestini, Massimo Popolizio, Leo Gullotta, David Riondino, Giovanna Marini, Paola Pitagora.
Iniziativa analoga si svolge oggi a Roma, presso la Casa della Memoria e della Storia (via san Francesco di Sales 5): qui si svolgerà una lettura corale ad alta voce di Gomorra per «dare forza alla resistenza di Roberto Saviano contro gli “uomini di niente”». Tutti i cittadini sono invitati a partecipare: ciascuno leggerà una pagina e lascerà il proprio nome come simbolo di coraggio e di impegno civile.
E sempre a difesa di Saviano si schiera l’appello di Articolo 21 che invita ad aggiungere simbolicamente la nostra firma a quella dello scrittore sul libro-denuncia. Una firma per dire: io so e condivido. Per far sapere a Saviano che non è solo nella sua lotta. Solidarietà che si estende a quanti - intellettuali, scrittori, giornalisti e politici - che rischiano la vita e vivono sotto scorta. Tra i primi a firmare: Alberto Spampinato, Giuseppe Giulietti, Ottavia Piccolo, Davide Sassoli.
Repubblica 21.10.08
Alcol, allarme ragazzini ubriachi iniziano a bere tra gli 11 e i 15 anni
Nove milioni di italiani a rischio, in sessantamila sono seguiti dal servizio sanitario
di Alberto Custodero
ROMA - È l´Italia, in Europa, a detenere il record negativo dell´età più bassa del primo contatto con le bevande alcoliche: iniziano a bere vino birra e liquori a soli 11 anni, tra la quinta elementare e la prima media, poco più che bambini. Tra gli 11 e i 15 anni, un ragazzino su cinque inizia a bere, mentre tra i 16 e i 17 anni questa abitudine riguarda un adolescente su due. Ma è fra le ragazze che negli ultimi anni s´è registrato il maggior incremento di abuso di alcol: la percentuale di bevitrici adolescenti, fra il 1994 e il 2006, è più che raddoppiata, passando dall´8 al 16,8 per cento. Un trend preoccupante anche fra i coetanei maschi, passati dal 13,4 per cento al 24,2 per cento. Complessivamente, i minori considerati dalle statistiche «consumatori a rischio» - quelli che praticano l´extreme drinking, bere per ubriacarsi - sono oltre 740 mila: 470mila ragazzi e 270mila ragazze. È un vero «allarme alcol» quello lanciato ieri, a Roma, alla prima Conferenza nazionale sull´abuso di sostanze alcoliche organizzata dal ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali. Non a caso, nel 2006 sono più di 61 mila le persone in cura presso i servizi pubblici per l´alcoldipendenza - soprattutto giovani sotto i 30 anni - con un aumento del 9,6 per cento rispetto al 2005. «Come primo obiettivo immediato per far fronte all´emergenza alcol fra gli under 18 - ha dichiarato il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella - vieteremo la vendita di alcol ai minori, come avviene in Europa e in America. Ma la repressione non basta, ci sarà anche una campagna educativa». A questo proposito sarà presentato oggi il videogioco street-rider che il ministero del Welfare, con quello dell´Istruzione, distribuirà nelle scuole per fare conoscere agli studenti, attraverso una simulazione virtuale, i rischi del guidare ubriachi. «L´alcol - ha aggiunto il sottosegretario - è in Europa al terzo posto tra i fattori di rischio per la salute, subito dopo tabacco e ipertensione». Sarebbero 25 mila, secondo Emanuele Scafato, direttore dell´Osservatorio nazionale alcol dell´Istituto superiore di sanità, , «le morti evitabili ogni anno in Italia a fronte di un consumo moderato di bevande alcoliche». «Nel nostro Paese - ha aggiunto Roccella - paghiamo ancora un prezzo troppo alto per la mortalità a causa di cirrosi epatiche e malattie croniche del fegato. Così come per gli incidenti stradali che in alcune province sono attribuibili nel 57 per cento dei casi all´abuso di alcol». Secondo l´Istat, gli incidenti da «alterato stato psicofisico del conducente» (malore, sonno, alcol, droga), sono nel 2006 il 2 per cento del totale. Di questa percentuale, «l´ebbrezza alcolica rappresenta il 70,1 per cento, 4246 incidenti».
Il sottosegretario del Welfare ricorda come «il 70 per cento degli italiani non abbia idea di come si arrivi al limite di legge previsto per l´idoneità alla guida. Oltre al fatto che ancora il 50 per cento delle donne continua a bere in gravidanza». Al di là dell´allarme giovani, sono inquietanti anche i dati complessivi del fenomeno alcoldipendenze che riguarda tutte le età. Sono oltre 9 milioni, infatti, le persone che in Italia consumano vino, birra e liquori in modo rischioso. Allarmanti anche i dati per gli over 65: un anziano maschio su due è a rischio (una su dieci tra le donne), e stavolta per l´abuso di vino. Si tratta di un esercito di oltre 3 milioni e 100.000 persone con enormi costi sociosanitari. Ieri, intanto, l´associazione Assobirra ha annunciato una campagna educativa dal titolo «o bevi o guidi» con la proposta di «far rientrare nei quiz per la patente l´educazione al consumo responsabile di alcol».
Repubblica 21.10.08
Le vere cause del crac
di Luciano Gallino
Durante la conferenza stampa che ha concluso il vertice europeo della scorsa settimana sulla crisi finanziaria, Nicolas Sarkozy ha affermato che i dirigenti delle banche che hanno provocato lo sconquasso finanziario dovranno pagarla. Vaste programme, avrebbe detto il suo predecessore Charles De Gaulle. A cominciare dai numeri in gioco. Lo sconquasso è stato infatti provocato dalle strategie di mercato d´alcune migliaia di istituzioni finanziarie americane, europee e asiatiche. L´elenco comprende banche di deposito e banche d´affari (sebbene non sempre sia facile distinguerle), fondi speculativi, fondi comuni di investimento, compagnie di assicurazione, buon numero di fondi pensione che negli anni 2000 hanno scoperto il fascino dei mercati dei titoli, e vari altri tipi di enti privati e pubblici. Supponendo che i top manager siano una dozzina per ente, si arriva a una quantità di persone su cui fare indagini fiscali e contabili, civili e penali, dell´ordine di decine di migliaia. Aspettiamo di vedere chi e come ci metterà mano, a tali indagini.
Vastità del programma a parte, accusare della crisi i dirigenti delle istituzioni finanziarie, come han fatto autorevoli personaggi anche prima di Sarkozy, è del tutto fuorviante per cercar di capire le cause del disastro, quando non si tratti di un vero e proprio depistaggio. Non c´è dubbio che tra i dirigenti delle istituzioni finanziarie vi siano stati dei disonesti, e che sarà giusto colpirli. Ma bisognerebbe cercar di evitare di ripetere la commedia del 2000-2003, quando in Usa crollarono Enron e WorldCom, Adelphia Communications e Tyco International, e in Europa, tra gli altri, Vivendi e Parmalat. Il presidente Bush definì "mele marce" i dirigenti coinvolti, presto condannati a pene severe, e fece passare di corsa la legge Sarbanes-Oxley del 2002, che accresceva le responsabilità dei manager e doveva restaurare la fiducia nel sistema. Il fatto è che il marcio stava nella legislazione fino ad allora in vigore, assai più che nelle persone. Alcuni dirigenti avevano sì commesso delle frodi, ma fino a qualche giorno avanti erano stati oggetto di lodi iperboliche per le loro capacità manageriali. Da esse, si diceva, era nato un nuovo modello di impresa giuridico-telematica, un nesso iperflessibile di contratti e comunicazioni che generava profitti fantasmagorici. Un modello che nel caso Enron si fondava, tra l´altro, sulla modifica per dubbie vie della legislazione di una ventina di stati Usa al fine di consentirle di operare come un fulmine senza freni sul mercato dell´energia.
La situazione odierna è molto simile. Chi ha deviato tra i dirigenti va colpito. Ma incomparabilmente più grave è il guasto insito nelle leggi che hanno favorito, incentivato, premiato il comportamento di decine di migliaia di dirigenti che si sono limitati ad applicarle e, comprensibilmente, a sfruttarne ogni remota piega. Sono in primo luogo leggi Usa, e visto che perfino il presidente Bush ha ammesso che la crisi è partita da loro, su di esse occorre soffermarsi. Il cammino verso il disastro odierno è segnato da due principali leggi. La prima, la legge Gramm-Leach-Bliley del 1999, aboliva la legge Glass-Steagall del ´33 e permetteva da capo ogni sorta di attività speculative tanto alle banche commerciali che alle banche di investimento – una delle cause del crollo del ´29. Il primo firmatario, il senatore Phil Gramm, che avrebbe lasciato il Senato nel 2003 ed è oggi consigliere economico di McCain, era considerato uno dei più attivi portavoce degli interessi di Wall Street che si siano mai visti nel Congresso Usa. Un anno dopo Gramm colpiva ancora. Poco prima della pausa natalizia, con il presidente uscente Clinton ormai privo di effettivo potere, il Congresso stava discutendo una legge finanziaria che distribuiva tra un´infinità di soggetti quasi 400 miliardi di dollari. Il testo della legge era smisurato: circa 10.000 pagine. Il senatore Gramm riuscì all´ultimo momento a introdurre un emendamento di 262 pagine denominato Commodity Futures Modernization Act (Cfma). Il presidente Clinton lo firmava, trasformandolo in legge, il 21 dicembre 2000.
Il Cfma sottraeva quasi per intero i prodotti finanziari derivati alla regolazione ed alla sorveglianza sia della Commissione Titoli e Borsa (la famosa Sec), sia della meno nota Commissione per il Commercio dei Titoli Future. In tal modo apriva la porta alla demenziale moltiplicazione dei derivati finanziari trattati al di fuori delle borse. Dal 2000 a fine 2007, va ricordato, essi sono balzati, come valore nominale ovvero di sottoscrizione, da 100 trilioni a 600 trilioni di dollari, una cifra equivalente a 11 volte il Pil mondiale. Al riguardo, il presidente (1987-2006) della Federal Reserve Alain Greenspan ebbe a dichiarare in più di un´occasione che si era dinanzi a un nuovo sistema finanziario, che da un lato migliorava in misura super il livello di vita dei paesi che lo adottavano, dall´altra rendeva evidente che per raggiungere sicurezza e solidità la regolazione finanziaria doveva ormai affidarsi all´auto-sorveglianza delle istituzioni private. Come più di un commentatore ha scritto, in tal modo la custodia del pollaio veniva affidata alle volpi.
Ci si può chiedere perché mai dovremmo preoccuparci, noi della Ue, di un paio di leggi Usa. Due semplici risposte vengono alla mente. Anzitutto il sistema finanziario sortito da quelle leggi, ora sconvolto da una crisi senza precedenti, è stato magnificato per anni, sino ad un paio di mesi fa, come un modello di straordinaria modernità ed efficienza, che si doveva assolutamente trasferire nei nostri paesi. In tal senso si sono adoperati politici e imprenditori, associazioni di categoria ed economisti, quotidiani economici e banchieri. Non sembra, per fortuna, che vi siano riusciti del tutto. Ma resta vero che la legislazione e la normativa delle autorità di sorveglianza hanno fatto in questi anni, seppur con differenze di rilievo da un paese all´altro, lunghi passi in direzione d´una estesa adozione di quel modello. Per evitarlo, e imboccare la strada inversa, bisogna conoscerlo.
La risposta numero due è che un certo numero di trilioni di dollari di derivati non registrati dal mercato borsistico e quindi invisibili alle autorità di sorveglianza, sono stati presumibilmente acquistati anche da istituti finanziari della Ue, Italia compresa, per essere poi scambiati e rivenduti attraverso mille canali. Fino a ieri sono stati anch´essi glorificati quali capolavori di gestione del rischio, parti geniali della matematica finanziaria. V´è da sperare che il loro peso di mele marce non si riveli eccessivo per gli istituti finanziari e i risparmiatori. Ma forse potrebbe bastare per convincere qualche attore in più, in sede politica ed economica, che cacciare qualche dirigente va pure bene, ma solo una radicale reimpostazione delle regole del sistema finanziario mondiale ci porranno al riparo da catastrofi anche peggiori di quella attuale.
l’Unità 21.10.08
«Propaganda razzista»: condannato Tosi
Sentenza della Corte d’Appello di Venezia: due anni di reclusione per il sindaco leghista di Verona
di Luigina Venturelli
CROCIATA Una condanna per «propaganda di idee razziste» non dev’essere una tragedia per chi ci ha costruito sopra un’intera carriera politica. Il sindaco di Verona Flavio Tosi è stato condannato a due mesi di reclusione dalla Corte d’Appello di Venezia che, confermando la precedente sentenza del gennaio 2007, gli ha addebitato la violazione della legge Mancino.
I fatti contestati risalgono al 2001, quando il giovane e rampante leghista - all’epoca consigliere regionale del Carroccio - guidò una campagna contro alcuni insediamenti rom in riva all’Adige al grido di «gli zingari devono essere mandati via perché dove arrivano ci sono furti». Uno slogan abbastanza chiaro, nelle sue implicazioni discriminatorie, da giustificare il rinvio a giudizio deciso dal procuratore di Verona, Guido Papalia, e poi le successive condanne dei giudici di primo e secondo grado.
Con il procedere della causa giudiziaria, però, è cresciuta anche la fama politica di Tosi. Le crociate Gentilini-style hanno rafforzato il suo potere di segretario nella Lega provinciale, gli hanno regalato nel 2005 la rielezione nel Consiglio regionale veneto con il record assoluto di preferenze, gli hanno portato in dote l’assessorato alla sanità nel 2007. Infine, l’hanno incoronato sindaco di una Verona impaurita dallo straniero e assillata dalla supposta emergenza sicurezza. Non a caso, il suo primo atto da sindaco (oltre alla scelta di togliere dal suo ufficio il ritratto del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano) è stato lo sgombero del campo nomadi di Boscomantico, alla periferia nord della città, dove vivevano circa 120 persone di cui 70 bambini.
Insomma, Tosi ha pagato il suo pegno politico. Probabilmente il peso di una condanna per propaganda razzista era stato messo in conto. Il primo cittadino di Verona ha comunque annunciato un nuovo ricorso alla Suprema Corte: «Era ben difficile che una sezione della Corte d’Appello smentisse un’altra».
Il primo tentativo, del resto, era stato fortunato. La Cassazione stabilì che le dichiarazioni di Tosi sulla necessità di «cacciare gli zingari perché rubano» non configuravano un’istigazione all’odio razziale, perchè «la discriminazione per l’altrui diversità è cosa diversa da quella per l’altrui criminosità». E che il processo d’appello andava rifatto. Flavio Tosi si meritò pure una telefonata dell’avvocato personale di Silvio Berlusconi, Niccolò Ghedini, incaricato di esprimergli le più vive congratulazioni del presidente del Consiglio per il felice verdetto.
Ieri, infine, la penultima puntata della vicenda. Tosi - inutile dirlo - non ha dubbi sulla correttezza giuridica del proprio operato. «Rifarei tutto ciò che ho fatto per difendere i miei concittadini. Purtroppo devo constatare come nella magistratura ci sia ancora chi non sa distinguere fra chi delinque e chi difende le persone oneste». Chissà quali altri successi gli riservano le sue invettive contro gli stranieri.
il Riformista 21.10.08
Sabato 25 ottobre, rito religioso o marcia politica?
di Andrea Romano
La storia del Pci è piena di manifestazioni di piazza, ma ho l'impressione che il vertice del Pd abbia deciso di prescindere del tutto dall'indicare ai suoi militanti un autentico obiettivo di mobilitazione per il 25 ottobre
Predispormi quindi a una posa penitenziale, per la porzione sempre piccola che mi compete, come in una processione religiosa che si rispetti. Poi meditare su cosa ho fatto e soprattutto su cosa non ho fatto per evitare all'Italia una tale condizione. E infine riconoscere all'officiante e ai suoi assistenti - Veltroni, D'Alema, Rutelli e gli altri nuovi e soprattutto vecchi che troveranno posto sul palco - un ruolo di intermediazione tra me e il santo Pd.
Fuori di metafora, può darsi che quella del 25 ottobre sia l'evoluzione naturale dell'oggetto storico che abbiamo conosciuto come "manifestazione politica italiana". Ma ho l'impressione che il vertice del Partito democratico abbia deciso di prescindere del tutto dall'indicare ai suoi militanti un autentico obiettivo di mobilitazione.
E che il vero modello del 25 ottobre sia quello, altrettanto religioso, dell'ultima grande manifestazione di piazza organizzata da Berlusconi nel dicembre 2006.
La storia del Pci è piena di manifestazioni di piazza. Possenti e disciplinate espressioni di protesta contro questa iniziativa governativa o quella emergenza internazionale, grandiose adunate di un popolo che veniva chiamato a ritrovarsi attorno ad un singolo e concreto obiettivo politico. Forme di socialità politica che nell'Italia repubblicana sono state dominate dai contenuti e del linguaggio della sinistra, ma che si ricollegavano ad una tradizione in cui avevano avuto parte rilevante anche altre culture politiche: quella irridentista, quella patriottico-reazionaria, quella fascista. Nel caso del Pci la manifestazione di piazza non fu mai soltanto celebrazione di sé ma sempre una particolare modalità di partecipazione alla vita politica dell'Italia centrista. Dall'esterno ma su temi specifici - oggi diremmo su singole issues - facendo pesare la forza dei propri numeri su un sistema politico dall'apparenza immobile.
Non è un caso che nei sistemi aperti e bipolari, dove è normalmente prevista l'alternanza, la manifestazione di piazza sia uno strumento praticato solo di rado dai partiti politici. Non per moderazione di linguaggio o rifiuto della mobilitazione, ma perché la piazza dei cittadini o dei lavoratori è lasciata ai soggetti trasversali come i sindacati e le associazioni di opinione che si mobilitano su temi per l'appunto trasversali come il lavoro, la pace, la scuola. Vado a memoria, ma l'ultima volta che il Labour Party ha fatto ricorso a manifestazioni di piazza organizzate in proprio - senza dunque dare il proprio sostegno a iniziative già promosse dai sindacati o da altre associazioni - è stato negli anni più bui del thatcherismo. Quando il ciclo di "Red Wedge", il "cuneo rosso" che avrebbe dovuto spezzare l'accerchiamento conservatore, vide il partito far marciare i propri militanti verso memorabili concerti rock a cui presero parte tra gli altri Billy Bragg, gli Style Council e gli Smiths. Grande musica e buone vibrazioni, che tuttavia non poterono evitare la terza vittoria consecutiva di Margaret Thatcher nel 1987.
In Italia, al contrario, la tradizione della piazza di partito è proseguita ben oltre la fine del sistema bloccato della prima repubblica. A sinistra come a destra, con il polo berlusconiano da subito ben attrezzato a esibire la propria capacità di organizzazione e mobilitazione di popolo. L'ultima volta il 2 dicembre 2006, pochi mesi dopo la vittoria di Prodi, con Berlusconi e Fini a Piazza San Giovanni «Contro il regime e per le libertà». Anche quello uno slogan immateriale e salvifico, di sonorità religiosa. E anche quella un'occasione per radunare fedeli disorientati intorno a una leadership scossa dalla sconfitta, in una processione di popolo che aveva il solo obiettivo di ritrovarsi. Chissà che non sia questa la vera fonte di ispirazione per il 25 ottobre. Forse lo spero. Processione per processione, preferirei partecipare a una marcia politica che a un rito religioso.
il Riformista 21.10.08
Questa crisi è dei maschi e nessuno lo dice
di Ritanna Armeni
I volti di questo collasso sono volti di uomini. L'illusione di onnipotenza è degli uomini. È degli uomini l'avidità fine a sé stessa
Nel mondo c'è oggi una grande e rimossa questione: la questione maschile. Sì, la questione maschile, giacché quella femminile, non risolta, o malamente affrontata, rimossa non è più da qualche decina di anni.
Oggi - si dice - è in crisi la politica, è in crisi la finanza e l'economia. Forse è finito il liberismo e forse il capitalismo, questo capitalismo. Oggi - si ripete con qualche monotonia - il sistema non regge.
Ma nessuno dice che è in crisi il maschile. È in crisi cioè quel mondo costruito nella politica, nell'economia e nella finanza dagli uomini e secondo modelli maschili.
Eppure basterebbe riflettere sulla ormai non recente crisi della politica e su quella, attualissima, della finanza e dell'economia per rendersene pienamente conto. Abbiamo riempito milioni di pagine di giornali. Abbiamo usato molte parole e abbiamo fatto tante analisi. E nessuno si è accorto che quei guai irreparabili sono provocati da uomini. Nessuno ha voluto notare che i volti della crisi finanziaria sono esclusivamente maschili. Che coloro che pensano poi di porre rimedio alla catastrofe sono ancora uomini. E sono maschili i modelli in crisi, i poteri in questi giorni brutalmente crollati, le ricette che - di fronte alle crisi che squassano il pianeta - mostrano ogni giorno la loro inefficacia. Sono maschili le illusioni di potenza infinita, l'avidità fine a sé stessa, la proiezione della propria esistenza nei flussi di denaro. Così come è determinata dagli uomini la crisi della politica, la difficoltà della rappresentanza, la sfiducia diffusa nel futuro.
C'è un intero mondo che non regge più, che si avvita su se stesso, che non risolve i problemi, che constata ogni giorno di non avere gli strumenti giusti. Un mondo (di uomini e di donne) che soffre e perde e tuttavia tenacemente rimuove quella che forse non è la sola ma sicuramente è una delle più forti cause del disastro. La predominante e pressoché esclusiva presenza di un solo sesso nelle sfere del potere, lì dove si decide in che direzione deve andare il mondo. Nessuno si chiede, a nessuno viene il dubbio più ovvio: e se tutti questi guai, se questo collasso del sistema, se questa incapacità di tenere insieme i pezzi del nostro vivere civile dipendessero anche dal fatto che il comando è in mano quasi esclusivamente agli uomini. Se i loro modelli non reggessero più? Se non fossero più in grado di governare il pianeta? Se si fosse esaurita una fase della storia dell'umanità e fosse necessario iniziarne un'altra?
La rimozione è grande. Forse nessuna questione è messa da parte con maggiore disinvoltura e leggerezza. Forse nessuna domanda fa più paura di quella che mette in discussione ciò che finora è stato indiscusso e indiscutibile. Colpisce che non vi sia nessun tentativo di farla emergere nel dibattito culturale e questo sia presente tra donne solo in ristrette cerchie femministe. Che non venga assunta almeno come ipotesi in una delle migliaia di analisi che sono state fatte sulla crisi della politica e sul crollo del sistema finanziario. Che non ci sia un osservatore che abbia pensato ad essa. Il dibattito pur interessante che ha impegnato i giornali internazionali (meno i giornali italiani) sulla crisi dei modelli liberisti o del modello capitalista tout court, si è fermato qui. Non ha cercato di vedere se c'era qualcos'altro accanto e oltre. I maschi - amici e nemici del sistema - sono apparsi inconsapevolmente, ma incrollabilmente uniti nella difesa di sé stessi come l'unico sesso che può decidere le sorti del mondo e che può permettersi ogni errore perché, comunque, insostituibile. La catastrofe del modello maschile a molti e molte appare come quella provocata dai terremoti o dai grandi uragani. Inevitabile perché naturale.
Fino a quando? Quante catastrofi dovranno caderci sulla testa prima di avviare una riflessione? In quali baratri dovremo precipitare prima che qualcuno sollevi il dubbio, ponga almeno una domanda? E chi - uomo o donna - riuscirà a superare la paura che l'apertura di un dibattito di questo tipo inevitabilmente provoca?
Fare emergere la questione maschile dalla rimozione non significa, ovviamente, risolverla. Nominarla non porta automaticamente a una piena presa di coscienza e a un dibattito indolore. La fine della rimozione genera inevitabilmente un conflitto e cancella un vecchio equilibrio. Ma il conflitto per quanto doloroso è comunque produttore di nuove idee, comporta scelte, suggerisce comportamenti diversi. Metterebbe in connessione e a confronto modelli maschili sperimentati e modelli femminili ancora incerti, creerebbe una connessione fra la questione maschile non risolta ma finalmente emersa con l'altrettanto non risolta questione femminile. Che oggi non è rimossa, ma è afasica. E non perché le manchino le parole, ma perché non ci sono gli interlocutori.
Repubblica 21.10.08
Giovanni Bellini
La grande voce di un inventore rinascimentale
di Pietro Citati
Un artista influenzato a modo suo da Mantegna, i fiamminghi, Antonello da Messina, Giorgione, forse persino da Dürer
Alle Scuderie del Quirinale di Roma sono esposti sessantadue suoi dipinti provenienti da musei di tutto il mondo
Senza stancarsi mai, senza interruzioni, continuò a dipingere sino alla fine amando il paesaggio sempre più intensamente
Nelle sue "Madonne" colpisce l´intreccio delle mani: il mondo terrestre e il celeste s´incontrano e non possono essere sciolti
C´è un capolavoro come la "Pala di Pesaro" ma anche opere sconosciute e il primo quadro conservato al County Museum di Los Angeles
Non è stato soltanto "pittore per pittori" ma un maestro discreto che sa parlare anche alle persone più semplici
Da qualche giorno è aperta, alle Scuderie del Quirinale di Roma, una mostra di Giovanni Bellini. Tutto è bello: i 62 meravigliosi quadri, che comprendono alcuni capolavori ricostituiti, come la Pala di Pesaro, e molte opere sconosciute, che vengono dagli Stati Uniti, dalla Germania, dall´Inghilterra, da collezioni pubbliche e private: la scenografia e l´illuminazione, studiate con raro talento: il catalogo, a cura di Mauro Lucco e Giovanni Carlo Villa (Silvana editrice, pagg. 384, euro 35), con una preziosa appendice, curata da Manuela Barausse, di documenti in parte inediti. La mostra è aperta fino all´11 gennaio 2009; e attirerà moltissimi visitatori, giacché Giovanni Bellini è sia, come si dice, «pittore per pittori», sia un artista che parla a tutti, anche alle persone più semplici, con voce discreta, tenera e affabile.
Non sappiamo quando Giovanni Bellini sia nato: se attorno al 1430 o al 1440; sebbene gli studiosi preferiscano oggi la seconda data, credo a ragione. Apparteneva a una famiglia di artisti: il padre Jacopo e il fratello Gentile. Probabilmente era figlio naturale, visto che il padre non lo nomina nel testamento. Mentre il fratello Gentile raggiunse Costantinopoli, invitato dal sultano Mehmet II, Giovanni visse sempre, o quasi sempre, a Venezia, tra Rialto e san Zanipolo: i suoi viaggi sono ipotetici, inventati dai critici per spiegare affinità e influenze. Nel febbraio 1483, venne nominato pittore ufficiale della Repubblica, ed esentato dalle tasse. Ma la sua famiglia si estendeva oltre i canali di Venezia. A Padova, nel 1453, Andrea Mantegna aveva sposato sua sorella Nicolosia: Bellini ne aveva visto i quadri e le stampe, meditandoli a lungo.
Se dovessi indicare con un termine il talento di Giovanni Bellini, parlerei di pieghevolezza. Non era una parola di Bellini; e nemmeno mia, ma apparteneva a Giacomo Leopardi, quando voleva indicare il segno di un grande scrittore. Pieghevolezza è il dono di uno scrittore e di un artista, la cui mente ha molte forme: che tenta ipotesi diverse fra loro; ed ha bisogno di subire ogni specie di influenza e di echi per diventare sé stesso. Questo era appunto il caso di Giacomo Leopardi e di Giovanni Bellini. Leopardi scrisse le Memorie del primo amore, il Discorso intorno alla poesia romantica, gli Idilli, le Canzoni, le Operette morali, lo Zibaldone, il Risorgimento, e Le Ricordanze, i cosiddetti Canti fiorentini, la Ginestra: ogni poesia e prosa era un´ipotesi e un tentativo diverso. Giovanni Bellini imitò (se è possibile usare questa parola) Mantegna, i fiamminghi, Antonello da Messina, Giorgione, forse persino Dürer; e, per quanto si trasformasse, rimase sé stesso, obbedendo, avrebbe detto Goethe, alla sua Originalnatur.
E´ bello immaginare Andrea Mantegna (nato nel 1430 o 1431) e Giovanni Bellini (nato qualche anno più tardi) l´uno accanto all´altro, come in una coppia di Vite di Plutarco. Il viso bronzeo di Mantegna, nella chiesa di S. Andrea a Mantova, era eroico, fosco, austero, corrucciato, con capelli che scendevano a folte ciocche, e la corona d´alloro sul capo: lo sguardo, che ora è intensissimo, doveva essere sfolgorante nel 1507, quando il marchese Gonzaga fece incastonare due diamanti nelle pupille; e ancora oggi si percepisce la compiacenza con la quale Mantegna modellò questa proiezione di sé. Tiziano dipinse un ritratto di Bellini (probabilmente dopo la sua morte), che avremmo voluto vedere in questa mostra. Giovanni Bellini, ovvero, come diceva Marco Boschini, «la primavera del mondo in atto di pittura», era rappresentato di traverso, con la testa inclinata verso destra: stava invecchiando, mi sembra senza rimpianto: con occhi che guardavano fissi lontano, e insieme qui, l´albero o il cespuglio o il prato o la lepre o Maria o gli angeli che suonavano davanti a lui. Al contrario di Mantegna, non inseguiva nessuna immagine fantastica di sé stesso e della propria pittura.
Nei quadri di Mantegna, «l´uomo abita - così si usa dire - un universo di pietra»: con un furore indemoniato Mantegna assale la pietra, la frantuma, la spezza, la scheggia, la trasforma in apostoli o soldati romani: colpisce san Sebastiano con decine di aguzze frecce mortali; e la capigliatura dei suoi eroi, diceva Proust, «ha l´aria insieme di una nidiata di colombe, di una fascia di giacinti e di una treccia di serpenti». Giovanni Bellini fu sempre intimorito e pauroso, fino ai suoi ultimi anni, davanti a quella violenza crudele, che avrebbe potuto sconvolgere il suo regno di riflessi e lontane montagne azzurre. Proprio per questo cercò di imitarla, e di assimilarla. All´improvviso, nei quadri di Bellini, i volti diventarono fragili e freddi come ceramica: il gelo fece rabbrividire il suo mondo: i mantelli ricevettero pieghe innaturali come fossero stati segnati da colpi di frusta: le rocce dei monti assunsero forme scandite, squadrate, spezzate, geometrizzate: le figure furono viste di scorcio; mentre piccoli cherubini rossi indossarono ali rosse attorno al collo invisibile. Ma gli occhi di diamante di Mantegna erano lontani; e a poco a poco, con una accorta diplomazia di piccoli tocchi, Bellini insinuò la dolcezza nel mondo di Mantegna, che aveva sempre ignorato o ucciso la dolcezza.
[***]
Il primo quadro di Giovanni Bellini è, forse, una Madonna con bambino, conservato al County Museum di Los Angeles. L´abbraccio tra il figlio e la madre è tenerissimo: ma gli occhi di Maria non guardano il bambino, mentre quelli del figlio contemplano il vuoto; come se l´assenza apparente di rapporti fosse la forma più stretta di rapporto. Ciò che colpisce sempre, nelle Madonne di Bellini, è l´intreccio delle mani: Maria stringe con le mani il bambino, il quale gioca, a sua volta, con il pollice della mano destra della madre: lo stesso gioco si ripete tra le mani di Maria piangente, quelle di Maddalena e quelle del Cristo morto; i diversi mondi, terrestre e celeste, si incontrano, fino a non poter venire più sciolti, per mezzo di queste bellissime mani. Tutto attorno ci sono angeli: angeli lieti e sorridenti con rosse o rosee o celesti ali da farfalla, che suonano flauti o lire o mandole, e non si rattristano nemmeno se Cristo muore: in alto, stanno gruppi di piccoli cherubini rossi, senza corpo, e con germogli di ali rosse, attaccate al collo. Talvolta gli angeli vengono degradati a bambini, che nuotano arditamente nelle acque; e forse hanno un rapporto segreto con le moltitudini di lepri e conigli, che brucano lietamente le erbe, corrono tra i cespugli e le colline, e si fiutano a vicenda, come dovessero comunicarsi qualcosa.I temi di Giovanni Bellini sono, quasi sempre, di una semplicità estrema: Maria, il bambino, qualche santo, Cristo sofferente, Cristo morto. Il Compianto su Cristo morto, una grande tela nel Palazzo ducale di Venezia, contiene un´immensa violenza dolorosa: col volto magrissimo del Cristo, gli occhi vuoti, il corpo esile ridotto alle ossa, con gli occhi chiusi e il grido disperato di Maria, e la luce che colpisce tremendamente da destra. Allora, Bellini aveva poco più di trent´anni. Nei decenni successivi, sembra che la tragedia, qui intollerabile, venga accettata: nemmeno i terribili Cristi moribondi o morti di Antonello, che probabilmente Bellini conobbe, lo influenzarono. Nella famosa pala di Brera, Cristo non soffre: altrove, assopito, abita nel luogo sconosciuto dove entriamo dopo la morte: o a metà strada, fermo tra terra e cielo, sopra le lepri e i conigli che scappano, davanti alle strisce di nuvole grigie e rosa.
Il paesaggio, che col trascorrere degli anni Bellini amò sempre più intensamente, diminuiva la tragedia della Crocefissione, del sangue e della morte, e qualsiasi tensione drammatica. La luce brillava, scintillava: giungeva contemporaneamente da due parti; riconosciamo la luce dell´alba, quella del mezzogiorno, quella del pomeriggio, quella del tramonto; come se un quadro fosse, in primo luogo, l´eco fedele dei momenti che passano. La luce produce riflessi: gli alberi si riflettono nelle acque del fiume; e, soprattutto, in un punto prodigioso del Battesimo di Cristo a Vicenza, la veste rossa di Cristo, tenuta in mano dalla Fede, si riflette nelle acque del Giordano, e il riflesso del Giordano si riflette, a sua volta, sul perizoma bianco di Cristo battezzato, trasformandosi in un lilla delicatissimo; e non importa se ciò non accada mai in natura, perché Bellini coltivava soltanto la natura trasfigurata. Sullo sfondo del paesaggio, specie nelle opere mature o tarde, si innalzano montagne azzurre; e città composte da edifici che stavano in città diverse: il San Ciriaco di Ancona, il campanile di Santa Fosca in Cannaregio a Venezia: città elette; mai la Gerusalemme celeste, che possiede una iconografia esclusiva.
A Venezia, Bellini conosceva benissimo i pittori fiamminghi, molto prima che arrivasse Antonello da Messina: Jan van Eyck, Dirk Bouts, Petrus Christus, Roger Van der Weyden. I suoi paesaggi erano pieni di echi fiamminghi: piante minuziosissime, crepitanti di vitalità come in Van Eyck, delle quali in un solo quadro, sono state riconosciute trenta specie diverse. La mano lasciava la tempera per la pittura ad olio fiamminga: o alternava, secondo le parti del quadro, la tempera e l´olio. Lo spazio si allargava: sembrava che non ci fossero più differenza tra erbe, montagne, case, acque, alberi, nuvole, Maria, e il bambino. Eppure, mentre tutto si avvicinava e fondeva, Bellini alzava una tenda colorata, sempre più vasta, tra Maria, il bambino e il paesaggio, come se non volesse che l´ultima comunione tra divino e natura, si realizzasse compiutamente.
Mentre fissava tutto ciò che è molecolare nella natura, Giovanni Bellini veniva ispirato da una grandiosa immaginazione architettonica. Non abbiamo, alle Scuderie del Quirinale, la Pala di san Giobbe, il Trittico dei Frari, la Pala di san Zaccaria: ma la Pala di Pesaro, che è forse la più bella ed è stata ricongiunta all´Imbalsamazione di Cristo dei Musei Vaticani. La cornice con fogliami dorati venne ideata da Bellini: la spalliera di marmo dietro Gesù e la Madonna è stranamente forata, così che si intravede un paesaggio di castelli, boschi e montagne, con un arboscello alto contro il vento: mentre la colomba dello Spirito Santo e i piccoli cherubini rossi, rosei e scuri occupano la parte superiore del cielo; il dipinto non è visto di fronte, ma da qualcuno che sta in basso, ai piedi del quadro, e guarda in alto, verso il Cristo assopito, che porge la mano sinistra alle mani della Maddalena. Quale respiro, quale spazio, quale riposo. Niente, nemmeno i cavalli e le crocifissioni delle predelle, disturba la quiete. Oltre alla grandezza, Bellini amava la frivolezza: come nelle piccole allegorie disposte nel restelo, un mobile della toilette; non disdegnava niente, e dipingeva con lo stesso piacere erbe, lepri, angeli, bambini, allegorie, decorazioni, Madonne, mantelli, riflessi.
Quando entrò nel sedicesimo secolo, nel quale visse ancora sedici anni, dipingendo «per excellentia», Bellini semplificò la propria tecnica. Ora, dipingeva sopratutto ad olio, e lavorava anche col palmo e i polpastrelli, così da alleggerire i tocchi del pennello, e impegnare tutto il corpo nell´amata fatica. Non smise di essere pieghevole: subì l´influenza di Giorgione, che era stato suo allievo, e che influenzava a sua volta.
[* * *]
Nel febbraio 1490, lasciando la corte di Ferrara, Isabella d´Este entrò nel palazzo ducale di Mantova, come sposa di Francesco Gonzaga. Aveva sedici anni, e sapeva a memoria le Bucoliche di Virgilio. Era intelligente, colta, ambiziosa, altera, arrogante: amava la letteratura e la pittura; e coltivava l´amicizia dei più famosi poeti ed artisti della sua epoca, specialmente quella di Pietro Bembo. Cantava benissimo. Quando muoveva le belle labbra nel canto - diceva Giangiorgio Trissino - , dal cielo scendeva una tale dolcezza che «l´aria si rallegrava e il vento si arrestava per ascoltarla». Nel 1498 le vennero assegnate le stanze con la Camera degli Sposi: ma Isabella amava soprattutto lo studiolo di sua invenzione, dove Mantegna dispose, uno di fronte all´altro, il Parnaso e il Trionfo della virtù.Qualche anno dopo, nel 1501, Isabella chiese a Giovanni Bellini di dipingere per il suo studiolo «qualche Historia o una Fabula antiqua». Gentilissimo ma inflessibile coi committenti, Bellini prese tempo: non aveva voglia di dipingere una pittura allegorica: «non era omo per fare istorie»; e sopratutto non voleva che il suo quadro fosse messo «a paragone» con le allegorie del Mantegna, che gli incuteva ancora timore e reverenza. Poi decise di fare un Presepio: nell´ottobre 1503 disse che lo avrebbe consegnato in un mese e mezzo: mentì perché nel gennaio 1504 pretese un altro mese e mezzo, affermando che d´inverno i colori si asciugavano lentamente; Isabella gli avrebbe consegnato 50 ducati invece dei 100 promessi, perché una Madonna col bambino valeva la metà di una storia allegorica. Il 16 luglio 1504 il quadro era finito. Giovanni si scusò: sperava che Isabella fosse rimasta contenta del quadro, ma se non era soddisfatta, doveva attribuire la colpa «a la tenuità del saper mio»; Lorenzo da Padova aggiungeva che il quadro era bello, ma non possedeva l´invenzione meravigliosa di Andrea Mantegna. «Ben è vero che de inventione non se po´ andare apreso di Andrea eccellentissimo».
Isabella non era sazia. Lo studiolo, che avrebbe dovuto rivaleggiare e superare quello, a Urbino, di Federico da Monfeltro, aveva ancora lacune. Il 18 ottobre 1505 Isabella scrisse al Bellini che il Presepio era bello, ma lei non l´aveva messo nello studiolo: ora voleva avere, al più presto, «un quadro dipincto ad Historia da mettere nel nostro studio presso quelli del Mantegna vostro cognato»; e chiese a Pietro Bembo di inventarne il tema e le figure. Bembo rispose con prudenza che l´«invenzione» andava lasciata al Bellini, perché egli non tollerava di dipingere entro «signato termine», ma preferiva «sempre vagare a sua voglia nella pittura»: espressione bellissima. Poi la corrispondenza fra Isabella e Giovanni Bellini si interruppe, non so per quale ragione. Qualche anno dopo, Bellini dipinse una grande «Fabula antiqua», il Festino degli dei, ora a Washington: non per Isabella ma per Alfonso I d´Este, che lo destinò al suo camerino d´alabastro nel Castello Estense.
Intanto a Venezia era giunto alla fine del 1505 (forse per la seconda volta), il più grande pittore dell´epoca: Albrecht Dürer, che a trentaquattro anni aveva già dipinto capolavori: due autoritratti, il ritratto del padre, l´Adorazione dei magi, I Quattro cavalieri dell´Apocalisse, acquarelli con rocce, iris, Trento. Adorava soprattutto il Mantegna, che in quei mesi stava morendo a Mantova e che egli non riuscì a vedere. Come scrisse in una lettera famosa, viveva volentieri a Venezia: «Vorrei foste qui a Venezia. Ci sono tanti compagni gentili tra gli italiani, che sempre più si accompagnano a me, cosa che ad uno, poi, dovrebbe intenerire il cuore: studiosi, intelligenti, buoni suonatori di liuto, flautisti, intenditori di pittura, e molte menti nobili, gente di vera virtù e mi dimostrano molto amore ed amicizia». Avvolto dai quei suoni di flauto e di liuto, Dürer dipinse in cinque mesi la grande pala della Festa del Rosario, e Cristo fra i dottori, Un giovane e una veneziana.
Un giorno conobbe Giovanni Bellini, che lo lodò «davanti a molti gentiluomini». Dürer visitò il suo studio, dove scorse un angelo musicante, che trasferì in parte nella sua Festa del Rosario. Bellini ricambiò la visita: ammirò i quadri di Dürer; e lo pregò di dipingerne uno per lui; «lo avrebbe ben pagato». Poi - se l´aneddoto narrato dal Cammerarius è vero - gli chiese di prestargli o di regalargli uno dei suoi pennelli, perché Dürer dipingeva le capigliature fuse e compatte come a lui non riusciva. Allora Dürer gli mostrò il suo pennello: era normalissimo. Non so se Bellini abbia imitato anche Dürer, come sostiene Vasari.
Senza stancarsi mai, senza un attimo di dubbio o di interruzione, Giovanni Bellini continuò a dipingere sino alla fine. Era vecchio: aveva non sappiamo se settantasei o ottantasei anni. Pochi mesi prima della morte si fece prestare per due giorni, dai domenicani del Convento di san Giovanni e Paolo, una corona d´argento, che voleva imitare in un quadro. Morì il 29 novembre 1516: probabilmente senza dolore e rimpianto, come capita a tutti gli uomini, artisti o contadini o vagabondi, che compiono sino in fondo il lieve destino che qualcuno ha affidato loro.
step1.it 21.10.08
"In fondo è stato sempre un socialista"
di Vincenzo Bonaccorsi
Quando muore un grande uomo come Vittorio Foa credo sia naturale l’esigenza di sentirne parlare, di avere subito testimonianze, ricordi, sintesi di una biografia di tale valore; del resto credo che questa sia l’essenza di una “ritualità laica”, per chi, nel momento dell’abbandono, cerca il rapporto con la persona viva tramite la testimonianza di quelli che l’hanno conosciuta; per questo stamattina, sono corso a comprare i giornali: l’Unità e la Repubblica. Ho letto tante parole che comunicavano commozione, affetto, grande stima, eppure devo confessare di aver provato anche un senso di delusione. In particolare leggendo l’Unità. Concita De Gregorio, nel suo editoriale commemorativo, ci dice “come funziona la memoria: seleziona gerarchie segrete” (Unità del 21 ottobre pag. 28), ma a me sembra che nel modo in cui l’Unità ha selezionato la memoria non ci sia nemmeno una gerarchia bensì la manifesta sparizione di quanto la moglie di Vittorio Foa, Sesa Tatò, ha detto ieri con limpida chiarezza (vedi la Repubblica, “Cravatta rossa per l’addio, l’ultimo tifo per Obama” di Alessandra Longo, p. 48): “in fondo è sempre stato un socialista”; del Socialismo di Foa non c’è traccia nell’Unità, nemmeno nelle parole di Veltroni, riportate a p.3: con buona pace del segretario del PD, di cui non metto in dubbio il sincero cordoglio, Foa non è vissuto nell’Atene di Pericle e non ha fatto politica a Washington D.C., e quindi non è sufficiente definirlo un “militante democratico”.
Di fronte a una grande personalità come quella di Foa io credo sia importante dare risalto alle sue volontà riguardo al rito funebre, ma bisogna leggere attentamente sino in fondo l’articolo dell’Unità di Simone Collini (p. 3) per trovare: “secondo le sue volontà Foa sarà cremato” e il piccolo riquadro: “camera ardente alla Cgil”, e aggiungervi quanto dice Alessandra Longo, nell’articolo già citato: “ – noi vogliamo esequie laiche [è la moglie che parla]- Così aveva chiesto lui [prosegue la Longo]”. Dunque niente chiese né sinagoghe e c’è da restare stupefatti leggendo la commemorazione di Nello Ajello su Repubblica (“Foa, una vita per la sinistra”, p. 47): “Ebreo, era esente da ogni settarismo confessionale”, la frase suona come “cattolico, o induista, o musulmano, esente ecc.”; cioè Foa sarebbe stato credente, seguace dei precetti della Thorà, ma, bontà di Ajello, “senza settarismi confessionali”! Per fortuna, nello stesso giornale, ad arrivare in fondo all’articolo di Simonetta Fiori (“Un uomo allergico ai miti” p. 49) leggiamo: “Una inesauribile curiosità per la vita, che lo teneva lontano da umori notturni: «Da sempre mi accorgo di non pensare alla morte, e un poco me ne vergogno». Quando però ne parlava, era capace di trovare – forse lui soltanto – spunti di vitalità anche nel trapasso. «La questione su cui ci si concentra solitamente» mi disse «è il passaggio. Ecco, a me di quel passaggio interessa soltanto il venir meno di quella cosa straordinaria che è la vita, non il qualcosa che deve ancora arrivare, perché non arriva proprio niente”. Dice la De Gregorio: “[...] e nelle parole un dubbio, sempre”. Invece Foa ci lascia in eredità anche qualche solida certezza, e innanzitutto questa, che è morta una gran bella persona, senza alcun dubbio.