giovedì 23 ottobre 2008

Repubblica 23.10.08
"Polizia contro le occupazioni"
Scuola, linea dura di Berlusconi. Gli studenti: non ci fermerà
di Carmelo Lopapa


ROMA - Manda un avviso ai «naviganti». Che poi sarebbero studenti, famiglie, insegnanti e anche ai mezzi di informazione. «L´ordine deve essere garantito, lo Stato deve fare lo Stato». Le proteste e le occupazioni di questi giorni contro il decreto Gelmini e la riforma della scuola, frutto della strumentalizzazione «della sinistra e dei centri sociali», devono cessare. E il provvedimento del governo non sarà ritirato, tutt´altro. Silvio Berlusconi prova a liberarsi dall´assedio della piazza, dei coertei, delle assemblee e delle lezioni per strada. E trasforma la contestazione del mondo della scuola in un problema di ordine pubblico.
Poche ore prima di imbarcarsi sul volo che lo porterà per alcuni giorni in Cina, convoca il ministro dell´Interno Roberto Maroni. Con lui vorrebbe concordare le modalità di utilizzo delle forze di polizia per sgomberare scuole e atenei, girargli «istruzioni dettagliate su come intervenire». Poi, nel faccia a faccia pomeridiano col capo del Viminale per un´ora a Palazzo Grazioli, le cose andranno diversamente. Nessun piano di sgomberi, per ora. Sta di fatto che l´annuncio - fatto in conferenza stampa al fianco della ministra nel mirino Mariastella Gelmini - ha l´effetto di una carica di dinamite. Cortei e proteste anche non autorizzate da Roma a Milano. Altre occupazioni annunciate per oggi in mezza Italia. L´opposizione che si mobilita e accusa il premier di agire da «provocatore», di «soffiare sul fuoco», di meditare una «strategia della tensione». Il clima politico si surriscalda al punto da indurre il Quirinale a intervenire e lo stesso fa il presidente dei vescovi Angelo Bagnasco: «I problemi complessi non si risolvono con soluzioni semplici, servono moderazione ed equilibrio».
All´incontro con la stampa organizzato nel giro di poche ore per porre un argine al dilagare della protesta, Berlusconi si presenta con un minidossier di undici pagine sulla scuola e «tutte le bugie della sinistra». Lui, ex «studente modello e diligentissimo» che certo non avrebbe «mai occupato» una scuola, giudica semplicemente «falsi i messaggi dei leader della sinistra che sgambettano in tv» e che starebbe dietro la protesta coi centri sociali. E siccome «la realtà di questi giorni è ben altra di quella raccontata dai mezzi di informazione, ma è fatta di aule piene di ragazzi che intendono studiare», ecco la stretta, la svolta rigorista. «Non consentirò l´occupazione di università e di scuole, perché non è dimostrazione di libertà e democrazia, ma pura violenza nei confronti degli altri studenti, delle famiglie e nei confronti dello Stato». E preannuncia l´incontro che di lì a qualche ora avrebbe avuto a Palazzo Grazioli col ministro dell´Interno Maroni: «Gli darò istruzioni dettagliate su come intervenire attraverso le forze dell´ordine». Polizia in azione, dunque, anche se dall´altra parte della barricata dovessero esserci, come ci sono, gli insegnanti. Linea dura anche sul decreto: «Sulla riforma della scuola andremo avanti», avverte in risposta a Veltroni che lo aveva invitato a ritirarlo. «Non retrocederò di un centimetro, avete 4 anni e mezzo per farci il callo». Alla Gelmini rimprovera sorridendo di aver sbagliato a parlare di maestro unico, «meglio dire prevalente», poi elenca una per una le «bugie» di sinistra e occupanti e pregi della riforma. Che intanto procede a gonfie vele in Parlamento. Respinte ieri al Senato dalla maggioranza le otto pregiudiziali costituzionali sollevate dalle opposizioni, la riforma viaggia verso il voto finale previsto per mercoledì prossimo.
L´ultima parola del premier è per la manifestazione del Pd del 25 ottobre. «È una possibilità della democrazia ed anche noi ne usufruimmo - riconosce a distanza al Veltroni che più volte glielo ha ricordato in questi giorni - Ma noi manifestammo contro la pressione fiscale del governo Prodi. La loro è solo contro il governo e non ha proposte».

l’Unità 23.10.08
«Resistiamo, la militarizzazione non passerà»
A La Sapienza la risposta degli studenti. E da Roma a Torino i rettori dicono: no ad azioni di forza
di Federica Fantozzi


UNA STUDENTESSA del primo anno, schiacciata tra la folla, libera la mano intrecciata a quella dell’amica per non perdersi, e risponde al cellulare: «Era mio padre. Ha paura che ci picchino». Sui gradini dell’aula magna de La Sapienza, molte matricole con la faccia da liceali, lontane dai megafoni e certe che si tratti di «un fermento spontaneo e apolitico». Anche i ragazzi dei collettivi - Dario, Francesco, Aliosha - fiutano la trappola: «Nessuno volantini per partiti e sindacati - gridano - Questo movimento rifiuta le bandiere. Chi è venuto a mettere il cappello se ne vada».
Eppure l’avvertimento del premier sigilla insieme le anime dell’occupazione, e la giornata cambia segno. Addio workshop e riunioni: scatta l’assemblea congiunta di tutte le facoltà. Non solo Lettere, Scienze Politiche, Fisica e Chimica, quelle occupate. I ragazzi, all’aperto, ascoltano e chiacchierano di altro. Valentina frequenta Psicologia, ha le treccine e la spilla arcobaleno: «Il governo risponde con militarizzazione e sgombero. Non lo accetteremo».
«Non diciamo solo no - spiega una rossa con lentiggini e occhi acquamarina, secondo anno di Lettere - Faremo proposte». Per esempio? «Più ricerca, basta con i cervelli che all’estero fanno carriera. Più elasticità nei piani di studio. No ai manuali dei titolari di cattedra: non vogliamo venerare un prof, vogliamo imparare». Mai manifestato prima? «Al liceo, contro la guerra in Iraq». Antipolitici? «Fino a un certo punto» ammette un’altra.
Il primo punto dell’assemblea è Berlusconi, con Sacconi anti-scioperi e Brunetta anti-fannulloni. La richiesta è che il rettore Guarini neghi l’ingresso alle forze dell’ordine. Lui li accontenterà: «Rispettare la libertà di espressione e l’autonomia dell’università. Qui non si è mai ricorso ad azioni di forza e non lo faremo mai». Anche da Padova e Torino arriva lo stop dei rettori alle «prove muscolari del governo».
Francesco, aria da bravo ragazzo: «È un governo illegittimo e criminale. Non abbiamo paura». Giorgio rivela con orgoglio che a Fisica hanno fatto trovare i dipartimenti «serrati con la catena» perché «occupare significa bloccare laboratori, uffici, tutto». Aiuole piene di zaini, caschi, bottigliette d’acqua. Una ragazza beve da un biberon decorato. Perché occupate? Gli stessi motivi corrono di bocca in bocca: le tasse universitarie più alte, i tagli devastanti, le università in mano alle imprese private. Come lo avete saputo? Soprattutto dai Tg e grazie al passaparola. Ora le cose vanno bene? «No, ma così andranno peggio».
Al microfono «un papà delle elementari» sommerso di applausi: «Anche noi abbiamo occupato, dormito sui tappetini per una settimana, non abbiamo retto di più con i bimbi. Ogni notte pensavamo: speriamo che parta l’università. Tolgono il futuro ai nostri figli, ai vostri fratellini». Giorgio di Ingegneria è accolto da fischi di sorpresa: «Non partecipano mai». Il più lucido è Matteo Pacini di Studi Orientali: «Vogliono che reagiamo per screditarci davanti all’opinione pubblica. Dobbiamo essere determinati e intelligenti». Propone di portare la protesta al Festival del Cinema, alla Farnesina, davanti al Senato. Si impappina: «Non intendo ma... Mi spiace dirlo... Non possiamo essere faziosi».
Raggiante Dario da Psicologia: «La mia facoltà immobile da anni si è scossa». Entusiasmo per l’annuncio che Economia ha disturbando l’inaugurazione dell’anno accademico. Emiliano partecipa da lavoratore: «Lo studio è l’unica forma di liberazione della mente». Cori di «La Sapienza/Non ha più pazienza» e «Gente come noi/Non molla mai». Un isolato petardo al grido di «noi bruciamo tutto». Dario è uno dei leader: «Preoccupati? Indignati. Parole così non si sentivano dagli anni ‘60 e qualificano l’atteggiamento del governo».

Corriere della Sera 23.10.08
Il rettore: niente agenti alla Sapienza
Occupazioni e cortei in tutta Italia. Lo slogan dei romani: io non ho paura
Traffico bloccato da sit-in improvvisati a Roma, Trieste e Milano. Occupazioni a Torino e all'Orientale di Napoli
di Alessandro Capponi


ROMA — «Bloccare tutto, le università e le scuole, e anche le stazioni, e le città, e ovunque, davanti ad ogni portone d'ingresso delle facoltà, dobbiamo affiggere la scritta "Io non ho paura"». L'applauso, per lo studente di Fisica Giorgio Sestili, che parla alla Sapienza, ecco, l'applauso: dura minuti. «Io non ho paura», lo slogan nasce così. E in serata ecco la presa di posizione del rettore: Renato Guarini dice, semplicemente, che non autorizzerà l'ingresso della polizia perché «La Sapienza, anche nei momenti più drammatici e di maggiore tensione, non ha mai fatto ricorso ad azioni di forza».
Ma ciò che accade a Roma — nelle tre università romane — non è che un aspetto della protesta studentesca: in tutta Italia, da ieri, da quando Berlusconi ha promesso l'arrivo della polizia per sgomberare gli atenei, occupazioni e cortei si moltiplicano. Traffico bloccato da sit in improvvisati: nella Capitale, a Trieste, a Milano. A Napoli l'«Orientale è occupata », come spiega lo striscione all'ingresso. Le assemblee e i cortei non si contano. Milano, Torino, Firenze, Cagliari, Bari, Palermo, Napoli, Catania: ovunque, gli studenti si organizzano, fanno lezione all'aperto, sfilano. A Genova oggi ci sarà il funerale dell'università. Contro la legge 133, certo, ma anche per «resistere » alle «minacce del premier ». I rettori, come quello della Sapienza e quello dell'Aquila, dicono chiaramente una cosa: no alla polizia nell'università. Il 14 novembre, a Roma, manifestazione nazionale con studenti «universitari, medi e — spiega un altro dei leader della protesta, Francesco Raparelli — dell'intero mondo della formazione». L'appello è per gli studenti di tutta Italia: «Occupate tutto». «Protestiamo in modo intelligente, come ha detto Napolitano — dice Sestili — facciamo cortei da giorni e non è successo nulla. È un movimento trasversale, qui parlano ragazzi di destra e di centro. Questa è la dismissione dell'università, ed è grave per tutti». Cartelli intorno a lui: «Blocchiamo le ferrovie», «né sapientini né manichini». Francesco, di Scienze politiche, dice che «questo governo è criminale ». A Milano cinquecento studenti fanno lezione in piazza Duomo e poi bloccano il traffico, un corteo a Trieste, un altro a Roma, uno a Bari. Il rettore della Sapienza, Renato Guarini, risponde così alle parole di Berlusconi: «Le criticità devono essere affrontate con un dialogo costruttivo, concordo con quanto detto da Napolitano.
Nella tradizione delle università europee l'ingresso delle forze dell'ordine viene autorizzato dai rettori». Lui, come detto, non ha intenzione di farlo. Per il Magnifico dell'Aquila, Ferdinando Di Iorio, le dichiarazioni del premier «sono gravissime. Non si rende conto su quale terreno si muove». La polizia dentro le università? «Qui non accadrà mai». A Firenze, in piazza della Signoria, lezione dell'astrofisica Margherita Hack che dedica poche parole al proposito di Berlusconi: «È una vergogna».

Repubblica 23.10.08
Se il dissenso è un reato
di Ezio Mauro


Davanti a una protesta per la riforma della scuola che si allarga in tutt´Italia e coinvolge studenti, professori, presidi e anche rettori, il Presidente del Consiglio ha reagito annunciando che spedirà la polizia nelle Università, per impedire le occupazioni. La capacità berlusconiana di criminalizzare ogni forma di opposizione alla sua leadership è dunque arrivata fin qui, a militarizzare un progetto di riforma scolastica, a trasformare la nascita di un movimento in reato, a far diventare la questione universitaria un problema di ordine pubblico, riportando quarant´anni dopo le forze dell´ordine negli atenei senza che siano successi incidenti e scontri: ma quasi prefigurandoli.
Qualcuno dovrebbe spiegare al Premier che la pubblica discussione e il dissenso sono invece elementi propri di una società democratica, non attentati al totem della potestà suprema di decidere senza alcun limite e alcun condizionamento, che trasforma la legittima autonomia del governo in comando ed arbitrio. Come se il governo del Paese fosse anche l´unico soggetto deputato a "fare" politica nell´Italia del 2008, con un contorno di sudditi. E come se gli studenti fossero clienti, e non attori, di una scuola dove l´istruzione è un servizio e non un diritto.
Se ci fosse un calcolo, le frasi di Berlusconi sembrerebbero pensate apposta per incendiare le Università, confondendo in un falò antagonista i ragazzi delle scuole (magari con il diversivo mediatico di qualche disordine) e i manifestanti del Pd, sabato. Ma più che il calcolo, conta l´istinto, e soprattutto la vera cifra del potere berlusconiano, cioè l´insofferenza per il dissenso.
Lo testimonia l´attacco ai giornali e alla Rai fatto da un Premier editore, proprietario di tre reti televisive private e col controllo politico delle tre reti pubbliche, dunque senza il senso della decenza, visto che a settembre lo spazio dedicato dai sei telegiornali maggiori al governo, al suo leader e alla maggioranza varia dal 50,17 per cento all´82,25. Forse Berlusconi vuol militarizzare anche la libera stampa residua. O forse "salvarla", come farà con le banche.

Repubblica 23.10.08
La repressione
di Michele Serra


In presenza di un movimento inedito, molto composito e fino adesso pacifico, il premier non sa opporre altro che un goffo proposito repressivo

Neanche il più acerrimo detrattore del presidente del Consiglio poteva mettere in conto le desolanti dichiarazioni di ieri a proposito di scuola e ordine pubblico. L´uso della forza per reprimere i movimenti di piazza - e specialmente l´intervento della polizia nei licei e nelle università - è in democrazia materia delicatissima.
E lo è rimasta perfino negli anni di fuoco delle rivolte studentesche, quando l´ultima parola, in materia di ingresso della forza pubblica dentro i luoghi dello studio, quasi sempre spettava a rettori e presidi prima che ai questori.
Oggi, in presenza di un movimento inedito, molto composito (studenti, docenti, ricercatori, genitori: nella totalità utenti e dipendenti di un servizio pubblico) e fino adesso pacifico, il premier non sa opporre altro che un minaccioso e goffo proposito repressivo. In perfetta sintonia con la schietta invocazione di una soluzione poliziesca, Berlusconi ha snocciolato molto in breve (non ha tempo da perdere) un´analisi dei fatti di una pochezza desolante, riassumibile nella vecchia idea padronale "qui si lavora e non si parla di politica". Dimostranti e occupanti come impiccio sedizioso al corretto esercizio dello studio e di quant´altro, come se una società democratica non fosse il luogo naturale dei conflitti e della loro composizione politica, ma un´azienda di vecchio anzi vecchissimo stampo nella quale si lavora, si obbedisce e si tace. Eloquente il contrappunto del sottosegretario Sacconi, che denuncia allarmato la presenza nei cortei di studenti "politicizzati": ecco un politico che considera l´impegno politico come un´aggravante.
Si intende che Berlusconi abbia assunto queste posizioni frontali, e destinate ad accendere gli animi, perché si sente forte di un mandato popolare che, nella sua personalissima interpretazione, lo autorizza a portare a compimento i suoi propositi politici costi quello che costi, tagliando corto con le lungaggini, le esitazioni, le pratiche "consociative" e quant´altro minacci di attardare o contrastare le decisioni del governo. Ma anche ammesso che davvero l´aspettativa "popolare" predominante sia così brutale e sbrigativa, e che davvero il sessanta per cento degli italiani auspichi modi bruschi, il governo di un paese democratico ha il compito di rispettare e fare rispettare i diritti di tutti, non solo della sua claque per quanto vasta e agguerrita essa sia. Che fare di chi si oppone, come trattare quel buon quaranta per cento di italiani che ancora non ha appaltato il proprio destino, le proprie aspirazioni, il proprio modo di pensare a Silvio Berlusconi e ai suoi ministri?
E se poi il dissenso ha dimensioni di massa, e si dispiega � come in questo caso � sul terreno appassionato e vulnerabile della protesta giovanile, suscettibile di infiltrazioni di frange di violenti che non vedono l´ora di trovare un contesto favorevole, con quale smisurata irresponsabilità un presidente del Consiglio che se la passa da statista sventola per prima cosa il vecchio drappo reazionario della repressione? Gli "opposti estremismi", teoria semplificatrice ma dolorosamente verificata in passato da questo paese dai nervi poco saldi, mai avevano trovato uno dei propri espliciti agganci proprio nelle istituzioni. La vecchia ipocrisia democristiana conteneva al suo interno anche una salutare componente di senso dello Stato, e i lavori sporchi, e le maniere forti, procedevano per vie losche e sotterranee. E´ davvero un progresso scoprire, nel 2008, che è il premier in persona a invocare la maniere forti, in una sorta di glasnost della repressione? In un paese che ha pagato un prezzo spaventoso alla violenza politica e all´odio ideologico, con ancora la fresca memoria dei fatti di Genova, mentre già i titoli dei giornali di destra e alcuni slogan dei cortei di sinistra buttano benzina sul fuoco, che cosa si deve pensare di un presidente del Consiglio che divide la società in due tronconi, uno buono che lo applaude e l´altro cattivo da sgomberare con gli autoblindo?
E´ la prima volta, questa, che una delle puerili retromarce del premier ("mi hanno frainteso, non ho detto questo, sono loro che mentono") sarebbe accolta con sollievo.

Repubblica 23.10.08
I ragazzi e il potere
di Filippo Ceccarelli


TRE squilli di tromba davanti ai cancelli e il commissario di Ps che pronuncia la frase di rito: «In nome della legge, uscite!». Studenti e Palazzo: troppi ricordi impediscono di prendere alla leggera il monito del presidente Berlusconi. Memorie che riemergono alla rinfusa.
I lunghi cappotti grigioverde dentro cui inciampavano i celerini durante la carica. Pertini che va incontro ai contestatori, «Bravi, anch´io sono stato in galera!». Una scritta ormai scolorita dalle parti del ministero della Pubblica Istruzione: «Pedini scemo anvedi quanti semo».
Giovani corpi sollevati di peso. Pestaggi. Il golfetto di lana lavorato a maglia di Franca Falcucci, l´unica che abbia mai capito e forse anche amato il mondo aggrovigliatissimo della scuola. Infuocati dibattiti in Parlamento, funerali strazianti. Il camion di Lama distrutto dagli autonomi, Almirante sulle gradinate di Lettere con assortimento di bastonatori al fianco.
Le polemiche di «Giorgione» Amendola contro le «barricate di latta», il suo appello tonante a favore dello studio duro, «a tavolino». Era il ´77. Nove anni prima Luigi Longo aveva aperto al movimento. Scalzone, Piperno e Sergio Petruccioli andavano a trovare all´Unità Maurizio Ferrara, si sedevano davanti a lui e appoggiavano i piedi sul tavolo, lui si alzava e glieli toglieva. In una poesia giovanile e movimentista del figliolo di Maurizio, Giuliano, l´odierno direttore del Foglio, si legge: «Longo ci venne incontro/ contro Giorgione./ Quando penso a me/ ringrazio Longo,/ Giorgione/ quando penso a Scalzone».
E comunque: come passa il tempo – ma come rischia anche di ritornare. Michele Placido, che fu poliziotto ai tempi della battaglia di Valle Giulia, ha appena finito di girare un film sul Sessantotto. E il mondo dell´arte non si sorprende a rimpiangere certi murales che furono dipinti sui muri dell´università di Bologna durante l´occupazione, e poi cancellati: un Berlinguer in bilico sul totem del comunismo e un Moro in camicia, tragicamente profetico.
Dunque, Bologna. Nel giorno in cui Berlusconi apre un problema di ordine pubblico segnalare ciò che dopo tanti anni l´allora ministro dell´Interno Francesco Cossiga ha raccontato a Claudio Sabelli Fioretti ne L´uomo che non c´è (Aliberti, 2007): «Quando ci fu l´insurrezione e occuparono l´università, distrussero la sede del Pci e cercarono di dare l´assalto al Comune, io dissi: "Mandiamo le autoblindo dei carabinieri e chiamiamo il battaglione dei paracadutisti". Il capo della polizia rispose: "Ma no, le autoblindo è meglio di no". Io insistetti: "Voglio le autoblinde con le mitragliatrici sopra". Poi dissi al vicequestore di di andare ad avvertire gli studenti che la mattina dopo io avrei voluto passare alla storia, che l´avevo presa come una sfida personale, che essendo sardo ero anche un po´ bandito, e che avevo dato l´ordine di sparare a chiunque si opponesse con la forza. E gli dissi anche di dire – così si conclude il ricordo di Cossiga – che secondo lui io ero ormai ammattito».
Eppure, mattane a parte, per farsi un´idea del rapporto tra studenti e potere dc occorre combinare la cruda testimonianza di Cossiga con la più ardente e mite disponilità dimostrata da Aldo Moro nei confronti del mondo giovanile, a partire dal sessantotto: «Tempi nuovi si annunciano – quasi gridò ispirato in un famoso discorso – e avanzano in fretta come non mai». Moro adorava gli studenti, era curiosissimo delle loro assemblee e a qualsiasi impegno di partito o di governo preferiva far lezione all´università. Una mattina, era il 1974, gliela occuparono con lui dentro, c´era anche Pannella che quel giorno compiva gli anni e gli volle stringere la mano. In questi casi le lezioni continuavano, per chi voleva, in un istituto privato da quelle parti. Alcuni studenti poi ritornavano in assemblea. Che poi proprio Moro abbia fatto quella fine, è un dato che fa riflettere, ma al tempo stesso pone la questione su di un altro, misterioso e tenero orizzonte individuale, ma anche collettivo.
E però anche Berlinguer diceva, a quei tempi: «Quando un partito cessa di interessarsi con freschezza di pensiero e ricchezza di iniziative ai giovani, vuol dire che diventa vecchio». Lo si apprende, insieme a una valanga di sorvegliatissime citazioni togliattiane, da uno dei primi testi prodotti dal giovane ex responsabile studenti della Fgci romana, Walter Veltroni, Il Pci e la questione giovanile (Newton Compton, 1977).
Difficile dire quando i partiti hanno perso definitivamente i loro legami, diventando vecchi. Per estremo paradosso si può credere che sia accaduto non appena la generazione che si era fatta strada nei partitini della politica universitaria, i Craxi, gli Occhetto e gli altri dell´Unuri, sono arrivati al potere. Per il Palazzo, scuole e università cessarono allora di essere un effervescente laboratorio di futuro; e i giovani divennero il classico oggetto misterioso.
Ogni tanto fanno entrare qualche studente nell´aula di Montecitorio per una cerimonia che si conclude con la consegna di un depliant e talvolta con piccoli incidenti (quando ad esempio dal cassetto dell´onorevole Rizzi sparì una preziosa penna). In sostanza la politica si disinteressa dei giovani e viceversa. Una volta, nell´ottobre 2005, un rumoroso corteo accolse con malgarbo la visione dell´onorevole Santanché sugli scalini della Camera. Lei rispose sollevando graziosamente il dito medio. Meglio questo, comunque, che la polizia.

Repubblica 23.10.08
Colloquio teso a palazzo Grazioli. Poi la nota del Viminale: "Garantire la legalità nel rispetto della libertà di manifestare"
Maroni non ci sta: "Queste decisioni spettano a me niente irruzioni a catena, valuterò caso per caso"
Quando il ministro ha letto le dichiarazioni è trasecolato: "Non ci credo"
di Claudio Tito


ROMA - «Questa è competenza mia e non tua». Che Roberto Maroni non abbia gradito l´esternazione di Silvio Berlusconi sulle Università occupate, è dir poco. Il ministro degli Interni ieri pomeriggio era veramente irritato. E non ha usato mezzi termini rivolgendosi al presidente del consiglio. Ha vissuto quel «darò istruzioni dettagliate al ministro degli Interni» come una invasione di campo. Non solo. L´inquilino del Quirinale non ha alcuna intenzione di ricorrere alle maniere forti nelle università e nelle scuole occupate dagli studenti.
Così, mentre Maroni pranzava a Montecitorio con Gianfranco Fini e Umberto Bossi ha letto sulle agenzie le dichiarazioni del Cavaliere. E ne è rimasto stupefatto: «Ma guardate che dice. Non ci posso credere. Ora andrò da lui e cercherò di capire». E in effetti poco dopo, il faccia a faccia a Via del Plebiscito non è stato affatto sereno. «Non voglio usare la polizia per silenziare la protesta - ha spiegato Berlusconi - ma voglio solo garantire il diritto costituzionale allo studio». Secondo il premier, infatti, non è accettabile che una «minoranza blocchi una maggioranza». E che si tratti di una «minoranza» ne è convinto in base ad un sondaggio commissionato nelle ultime ore. Quindi, ha ripetuto, «non voglio violenza ma pretendo che tutti possano studiare. Vedi tu come, trova tu la soluzione».
I chiarimenti del presidente del consiglio, però, non sono bastati a ridimensionare l´attrito con il ministro. «Queste - ha allora avvertito - sono mie competenze. Anche io voglio tutelare il diritto allo studio, ma dobbiamo vedere come. Certo così non si può fare. Ti rendi conto cosa accadrebbe?». Secondo Maroni, le situazioni andranno valutate caso per caso e comunque senza irruzioni a catena negli istituti. Ieri poi ha voluto discutere la vicenda con il capo della Polizia, Antonio Manganelli. E il concetto che si è sentito riferire dai vertici delle forze delle ordine è stato netto: «gli agenti entrano in una università o in una scuola solo se chiamati da un rettore o da un preside». Non è allora solo un caso che oggi pomeriggio, la riunione convocata ad hoc al Viminale, sia presieduta dal sottosegretario Mantovano e non dal ministro. E che la nota ufficiale del dicastero si chiuda ricordando che l´obiettivo è «garantire, nel rispetto della libertà di manifestazione del pensiero e quindi anche del dissenso, la tutela dei diritti di tutti in un quadro di assoluta legalità».

l’Unità 23.10.08
Movimento, dichiarare subito la non violenza
di Giovanni Maria Bellu


«Un vecchio film già visto», scriveva ieri uno dei giornali che il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi gestisce per interposta persona. In effetti, alcuni dei fotogrammi sono inconfondibili. Quelli degli scontri a Milano, per esempio. Poliziotti che agitano il manganello, manifestanti che inveiscono. Se fosse veramente l’inizio del «film già visto», alla fine della bobina dovrebbe esserci un bel po’ di sangue. Infatti, come molti ricorderanno, si trattava di un film dell’orrore.
Sempre ieri, uno specialista è riuscito a mettere le mani sulla sceneggiatura e ne ha dato un’anticipazione: «Prima - ha scritto Renato Farina su "Libero" - i carabinieri chiedano a chi ottura (sic) l’ingresso degli istituti superiori di sgomberare. Non obbediscono? Qualche calcio nelle parti molli sarà un prezzo giusto per ripristinare la legalità democratica».
Ma la «convocazione di Maroni» annunciata poco dopo dal presidente del Consiglio, non va vista come una conseguenza di quel suggerimento. Non c’è niente da ridere, purtroppo. La «convocazione» del ministro dell’Interno è stata accompagnata da un proclama - «Non permetteremo l’occupazione delle scuole e delle università» - che suona come l’irresponsabile e compiaciuto ciak di un sinistro remake di quell’orribile film.
Il nuovo regista non è un politico della Prima Repubblica, a volte balbettante, a volte ambiguo, ma comunque dotato di prudenza e di memoria. Il nuovo regista è un uomo che ancora non ha risposto alla domanda: «Lei è antifascista?». Anzi, in fondo, indirettamente ha risposto quando, sempre ieri, ha intimato ai giornalisti: «Dite ai vostri direttori che saremmo molto indignati se la conferenza stampa di oggi sulla scuola non avesse seguito».
Non c’è niente da ridere per molti altri motivi. Perché il regista del malaugurato remake è lo stesso presidente del Consiglio che nella precedente legislatura inaugurò il suo mandato col massacro del G8 di Genova. Perché è un tipo di regista molto speciale: può diffondere il suo film in tutte le sale e, se gli va, trasmetterlo su tutte le televisioni del paese. Quelle televisioni che, come ha scritto pochi giorni fa il «Financial Times», gli riservano «un trattamento vicino a livelli di adulazione nordcoreani».
Il nuovo regista controlla molte altre cose nel nostro paese, e tutte assieme: oltre alle televisioni e a una serie di giornali, controlla la polizia, i carabinieri, i servizi segreti, e in più ha un patrimonio personale immenso che gli consente di circondarsi di un elevato numero di collaboratori, e a volte di servi, di alta professionalità. C’è una sola cosa che non controlla, a parte i suoi nervi: circa la metà del cast. Non controlla noi.
Allora - mentre ancora risuona l’eco del sinistro ciak - rivediamo il vecchio film e guardiamo, fotogramma per fotogramma, senza indulgenze e senza pietà, quale fu la nostra parte. A cominciare da quelle discussioni interminabili e a volte surreali sulle manifestazioni che dovevano essere «pacifiche ma non pacifiste», dall’organizzazione dei servizi d’ordine. Fino al momento in cui un bel numero di quelli che erano al nostro fianco credette di poter opporre la violenza organizzata alla «violenza di Stato».
Riapriamo qualcuno degli innumerevoli libri che raccontano l’inizio del film. Scopriremo che la «strategia della tensione» aveva come principio base l’idea che per «stabilizzare» si dovesse «destabilizzare». In parole povere ma purtroppo molto attuali, «bloccare il processo democratico del paese con la paura». E una volta conclusa la lettura, trasferiamone immediatamente i contenuti e la memoria agli studenti che oggi scendono in piazza.
C’è un solo modo per restare fuori controllo. C’è un solo modo per non entrare nel cast del remake. Questo modo si chiama "non violenza". Che non è uno slogan ma una pratica sperimentata da autorevolissimi maestri. È una pratica faticosa, che richiede studio e dedizione. Richiede tempo e pazienza. Ma c’è qualcosa che si può fare subito: dichiarare il carattere non violento del movimento degli studenti, ribadirlo in tutte le occasioni. Votarlo nelle assemblee, praticarlo nei cortei. E allontanare immediatamente quelli - non ci vuole molto, all’inizio del vecchio film erano pochissimi - che vogliono a ogni costo fare le comparse.

l’Unità 23.10.08
La Gelmini raccontata dalla Mastrocola
di Marina Boscaino


Tra le voci degli insegnanti della scuola superiore - poco propensi, per il momento, a reagire all'attacco sferrato alla scuola pubblica - l'unica che circola con una certa continuità è quella di Paola Mastrocola, docente in un liceo classico torinese e autrice di La scuola raccontata al mio cane. Prima intervista Gelmini, poi viene intervistata da "Repubblica", fornendo in entrambi i casi un punto di vista che - questa è l'impressione - non coincide con il parere di molti insegnanti. «Dispiaciuta, intristita» dall' «odio e dalla contrapposizione continua che la sinistra sta generando» sulla scuola. «Mai un dubbio, mai una crepa. È un ministro diritto». Non è lusinghiero, nonostante le ipotizzabili intenzioni, il ritratto di Gelmini che emerge dall'intervista che la Mastrocola le ha fatto su "La Stampa " qualche tempo fa; fatta per verificare se è vero, "come dicono", che Gelmini non abbia alcuna idea di scuola. Assunto erroneo; Gelmini un'idea di scuola ce l'ha, eccome: banale, obsoleta, completamente scollata dalla realtà; un'idea inadatta e pericolosa, pertanto, intrisa di spiriti mercantilistici e di efficientismo da fabbrichetta del nord. Mastrocola - dopo aver conversato con il ministro di Dante, Shakespeare, di latino e greco: quanta cultura in chi è dovuta espatriare in Calabria per vincere il concorso da procuratore! -, si limita ad interloquire con Gelmini sulle sue "personalissime ossessioni sulla scuola d'oggi": ritorno dei programmi, con limitazione dell'autonomia didattica; identikit del bravo insegnante; il senso del recupero scolastico così com'è. Noto tra parentesi, che nel desolante panorama della scuola italiana, il fatto che un'insegnante abbia proprio questi tre rovelli rappresenta un'opzione quanto meno singolare, eccessivamente ottimista o smisuratamente lontana dalla realtà. L'opzione - confermata anche nell'intervista rilasciata da Mastrocola a "Repubblica" - di chi individua nella scuola superiore - e, in essa, nel liceo - l'unica unità di misura. Ma forse proprio la scuola di classe e lo snobismo culturale che dietro quell'idea si nasconde marcano la mancanza di senso di tante riflessioni e analisi sulla scuola di oggi e sulle sue prospettive.
Insomma, Mastrocola chiede autonomia didattica, per tornare ai sospirati "programmi", quasi una panacea contro il relativismo minaccioso di una parte della scuola (quella non liceale, appunto; quella che non interagisce con i figli della selezione sociale; quella piccola parte che non ha ancora deciso di gettare la spugna, che ha ancora voglia di combattere per il rinnovamento e per l'emancipazione) che quotidianamente tenta di scomporre e ricomporre paradigmi per trovare strategie educative; che investe nella relazione per salvare dalla dispersione; che rivede i contenuti delle discipline non per abbassare il livello o evadere la coercizione al programma, ma per individuare strumenti di coinvolgimento. E mentre Mastrocola chiede autonomia didattica, l'altra risponde - dimostrando, da bravo ministro dell'Istruzione, di aver ben inteso la domanda - con questa agghiacciante dichiarazione: "Sono per un'autonomia che rappresenti un recupero di efficienza nella gestione delle risorse e anche dal punto di vista operativo e gestionale". Dove la triste teoria di termini "marketing oriented" fa pensare più a una joint venture, ad una ottimizzazione del "capitale umano" che all'idea di scuola dello Stato sancita dalla Costituzione. Alla soppressione dell'inutile provvedimento sul recupero dei debiti, poi, il ministro si oppone per nobili motivazioni didattiche e pedagogiche "Le famiglie direbbero: questa Gelmini obbliga le famiglie a pagarsi fior di lezioni private!".
Ma la parte più interessante del colloquio è quello dedicato a definire il bravo insegnante: per Gelmini quello che assicura "presenza, continuità didattica, disponibilità all'aggiornamento e" - last, but non least - "le performance (SIC!)dei ragazzi". Interessanti indicatori: demagogiche etichette per corroborare un'idea di scuola (e Mastrocola aveva pure dubbi che Gelmini ne avesse una!) che perde definitivamente i connotati di un luogo in cui (oltre al "premio per il ritorno dell'investimento", parole del ministro) si individui una cultura della valutazione meno pedestre, scontata e frettolosa. Meno monetabilizzabile. È il solito revival della "guerra tra poveri" - versione meritocratica - che si tenta di riproporre. Il problema è che la demotivazione degli insegnanti oggi rischia di far riuscire l'operazione. Chi l'ha detto, ad esempio, che un precario - che ogni anno è sottoposto a un penalizzante cambiamento di sede - non possa essere un buon insegnante? O che chi insegna in scuole socio-culturalmente selezionate (ottenendo pertanto risultati apparentemente migliori) sia più meritevole di chi combatte quotidianemente in ambienti deprivati? O, senza tornare su tante legittime argomentazioni contrapposte alle "crociate" di Brunetta, che un insegnante che si assenta per motivi legittimi sia meno capace di uno assiduo?
Dulcis in fundo: la Tv alleata numero uno della scuola. Anche in questo le due signore sembrano concordare. Peccato che Gelmini abbia certamente dimenticato di parlarne con il suo capo; che continua a iniettare nelle teste dei ragazzi massicce dosi di droga finalizzata alla totale atrofia dei cervelli.

l’Unità 23.10.08
«La polizia rispetta la legge»
I funzionari frenano: garantiamo la libertà di manifestare


«L’AZIONE delle forze dell’ordine dovrà essere equilibrata, imparziale e rispettosa delle leggi per salvaguardare tutte le libertà delle parti in gioco». Così l’associazione Funzionari di polizia interviene dopo le parole del presidente Berlusconi che ha annunciato indicazioni a Maroni per come far intervenire le forze dell’ordine contro le occupazioni nelle scuole e nelle università.
«La polizia - aggiunge Letizia - è chiamata a tutelare l’ordine e la sicurezza pubblica garantendo a chi manifesta la libertà di riunirsi per esprimere pacificamente il proprio dissenso ed agli altri cittadini l’esercizio dei propri diritti e la fruizione dei servizi che lo Stato mette loro a disposizione». E «per meglio esplicare questa delicatissima funzione, la polizia di stato sta istituendo una specifica scuola per l’ordine pubblico».
Alle manifestazioni di questi giorni , conclude Enzo Maria Letizia «la polizia era preparata perchè sempre, in periodi di crisi economica si evidenziano contestazioni sociali attraverso manifestazioni di piazza, come quelle che in questi giorni riguardano la scuola».
«È evidente che le forze di polizia rispettano la legge e applicano le direttive del governo». È la premessa con la quale il segretario generale del sindacato di Polizia Silp-Cgil, Cludio Giardullo, commenta l’ipotesi di intervento delle forze di polizia negli Atenei e negli istituti scolastici in caso di occupazioni da parte degli studenti, così come annunciato oggi dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.
«Consideriamo un grave errore - afferma Guiardullo intepellato da Apcom - inasprire lo scontro sociale nel Paese specie quando sono in discussione riforme che riguardano diritti fondamentali come lo studio e il lavoro. In questi casi - ha aggiunto il segretario generale del Silp-Cgil - il dialogo è il metodo per garantire che la democrazia non tradisca sè stessa».
Non si può non tenere conto - prosegue Giardullo - del ruolo che il nostro ordinamento riconosce ai Rettori e ai presidi degli istituti scolastici sull’impiego delle forze di polizia all’interno degli Atenei e delle scuole.
«Pensare di impiegare le forze di polizia a prescindere dalle valutazioni dei Rettori e dei presidi a proposito dei rischi sulla incolumità delle persone e dei luoghi - conclude Giardullo - sarebbe una cosa discutibile dal punto di vista della legittimità ma anche dal punto di vista del buon senso»

Repubblica 23.10.08
Torino, la trincea dove partì il ‘68 "Vengano ad arrestarci, siamo più di loro"
"Comunque qui la polizia non entra senza l´ok del rettore. E lui non la chiamerà"
di Paolo Griseri


TORINO - La ragazza con il maglione viola afferra il microfono e grida: «Vengano pure a prenderci, siamo molti più di loro». La tv ha appena rilanciato il proclama di Berlusconi: «Se occuperanno le università, manderemo la polizia». Nel cortile del rettorato si radunano centinaia di persone, un´assemblea convocata in poche ore. E i più scatenati sono i professori. Angelo D´Orsi insegna storia del pensiero politico. È un allievo di Norberto Bobbio. Prende la parola di fronte a centinaia di persone. D´Orsi si scaglia contro «il modernismo reazionario che sta dietro questa riforma» e miete gli applausi degli studenti.
L´atmosfera è tesa perché a Torino l´Università è già occupata. Terzo giorno di attività autogestite, concerti e seminari. Che cosa accadrà se davvero arriveranno i poliziotti con il manganello? «Non succederà nulla - dice Luigi, 23 anni, studente a lettere - perché la polizia non può entrare all´Università se non la chiama il Rettore. E il nostro Rettore non la chiamerà».
L´aspetto più originale degli anti-Gelmini è che la protesta supera antichi steccati. Nell´atrio di Palazzo Nuovo, la sede delle facoltà umanistiche, Valentine sgrana gli occhi quando le chiedi: «Non è strano trovarsi dalla stessa parte della barricata con i professori?». «Perché strano? Siamo tutti sulla stessa barca. L´attacco è a tutta la scuola pubblica e coinvolge studenti, professori e genitori». Un minestrone sociale che si vede nei cortei: ricercatori in camice bianco a braccetto con i ragazzi dei centri sociali e le mamme con i figli sul passeggino. Tutto il mondo sta esplodendo, dall´asilo al dottorato. Torna il �68? La protesta riparte da Torino come era accaduto quarant´anni fa con l´occupazione dell´ateneo. Al quarto piano di Palazzo Nuovo c´è l´ufficio del titolare della cattedra di Storia contemporanea alla facoltà di Scienze della Formazione: è Giovanni De Luna, uno dei protagonisti dell´occupazione dell´università torinese nel �68. Professore, si ricomincia? De Luna sorride e fa gli scongiuri: «Ma per carità. Il primo invito che rivolgo a chi oggi protesta è di dimenticarsi i paragoni con il �68. Il �68 fu un episodio del Novecento. Quel secolo si è chiuso, per fortuna». Che cosa è cambiato da allora? «Ricordo bene la mattina del 10 gennaio 1968, quando occupammo Palazzo Campana, allora sede dell´Università. C´era un clima quasi spensierato, ben lontano da quello plumbeo di qualche mese dopo. Occupavamo perché imitavamo i movimenti americani. Facevamo i sit-in e la polizia ci portava fuori a braccia. Pensavamo che il nostro sciopero fosse un antipasto della vera rivolta, quella che doveva partire dalle fabbriche. Chi occupa oggi Palazzo Nuovo non pensa certo di suscitare la rivolta degli operai Fiat. È meglio che non inseguano miti oggi inutili».
Basta scendere al piano terreno per capire che il rischio paventato da De Luna non si corre. Nell´atrio Davide è reduce da una riunione organizzativa: «Noi e il �68 siamo lontanissimi. Per noi il �68 è un´etichetta che ci appiccicano gli altri. Abbiamo obiettivi molto concreti, non inseguiamo storie vecchie. Chiediamo che non si smantelli la scuola pubblica, da tempo promuoviamo corsi di autoformazione alternativi a quelli dell´Università ufficiale. Siamo contro i tagli alla ricerca e alla riduzione del numero di docenti. Vogliamo che l´università sia accessibile a tutti e non una scuola di élite gestita dai privati».
Il calendario della protesta è già fissato. Marta spunta dietro il megafono appoggiato sul tavolo: «Il primo appuntamento è la visita della Gelmini a Torino il 28 ottobre. Arriverà all´Unione industriale e noi vogliamo preparale una bella accoglienza e qualche sorpresa. Il 30 c´è lo sciopero generale della scuola e pensiamo di organizzare una manifestazione a Torino con gli studenti medi e il coordinamento genitori. Per questo chiediamo al Rettore di bloccare le didattica il 28, il 29 e il 30». Ecco un altro segno del superamento di vecchie ruggini. Quando mai gli studenti in rivolta hanno chiesto il permesso al Rettore per bloccare le lezioni? Accade anche questo nel pomeriggio, all´assemblea che si tiene nel cortile del Rettorato. Il prorettore, Sergio Roda, non può, ovviamente, accettare la richiesta. Riceve una delegazione di studenti e risponde con una formula sibillina: «Vedo difficile immaginare un blocco della didattica deciso dal Rettore. Credo però che tutti, salvo rare e schierate eccezioni, siano d´accordo sulla necessità di contrastare la riforma». Come dire che non sarà necessario bloccare le lezioni perché i professori sciopereranno spontaneamente. L´"assemblea anti-Gelmini", quella che firma tutti i manifesti e le iniziative di protesta di questi giorni a Torino, sembra aver raggiunto un elevato grado di consenso. Ma sarà davvero cosi nella società? L´opinione pubblica starà con la protesta o con la polizia? Davide risponde con una battuta: «Non ci muoviamo in base ai sondaggi». Poi torna serio: «La scuola siamo tutti. Ognuno ha figli che la frequentano, ha parenti che insegnano. Tutti sanno come si studia e con quali difficoltà. Non credo che riusciranno a far credere che siamo tutti un esercito di fannulloni».

Repubblica 23.10.08
Non solo tra i contestatori ma anche in Parlamento la destra spiazzata dall’offensiva del governo
An contesta il diktat di Berlusconi "Noi occupavamo, sì al dialogo"
Bertinotti: "La scuola è la crepa in un regime-soft di un Paese senza opposizione"
Natale: affermazioni gravissime. Colombo: parole golpiste
di Francesco Bei


ROMA - «È evidente che nessuno può negare agli studenti il diritto di manifestare». Gianni Alemanno lo dice senza tanti giri di parole. Non è che improvvisamente il sindaco di Roma si sia scoperto di sinistra. Così come Ignazio La Russa: «Abbiamo avuto tutti vent´anni, e nella mia natura sono tollerante purché non ci sia violenza». La verità è che, anche a destra, la minaccia di Berlusconi di usare il pugno di ferro contro chi occupa scuole e università è vissuta con grande imbarazzo.
Molti dei protagonisti di An vengono proprio da lì, dalle manifestazioni di piazza e - perché no? - anche dalle occupazioni. «Nel 1990 - ricorda Fabio Rampelli - con Alemanno, Marsilio e Augello a Roma occupammo Economia e Commercio durante "la Pantera". Io ero subentrato ad Alemanno alla guida del Fronte della gioventù e posso vantarmi di aver fatto rientrare i ragazzi di destra nell´Università dopo la frattura del ‘68». Rampelli si riferisce al 16 marzo del ‘68, quando il raid di Almirante e Caradonna per «ripulire» la Sapienza dagli «stracci rossi» mise bruscamente fine alle illusioni dei giovani missini di far parte del Movimento. Una ferita che i quaranta-cinquantenni di An ricordano ancora molto bene. Certo, le occupazioni dei missini non erano "okkupazioni", avevano un tratto meno rivoluzionario: «Noi occupavamo 2 o 3 aule - racconta il ministro Giorgia Meloni - , la notte ci dormivamo pure, ma nel resto della facoltà proseguivano le lezioni. Ecco, va bene occupare, è un diritto manifestare il proprio dissenso, basta però non fermare la didattica».
Comunque, didattica o non didattica, l´idea di mandare la Celere dentro le aule piace davvero a pochi. «Siamo perplessi - ammette il responsabile cultura di An, Fabio Granata, che pure difende il decreto Gelmini - , perché con gli studenti bisogna interloquire. Non è un problema di ordine pubblico». «E poi qui dentro - ride Granata guardando il Transatlantico pieno - c´è gente che ha fatto di tutto, altro che occupazioni!». Sempre a destra si agita persino Alessandra Mussolini. A modo suo, certo: «A Berlusconi direi che è sbagliato mandare i poliziotti contro gli studenti, meglio prendersela con i professori». E «pazienza e prudenza» consiglia al Cavaliere il segretario del Pri, Francesco Nucara, perché «bisogna evitare la scintilla che possa scatenare l´incendio».
Anche dentro Forza Italia sono in molti a mugugnare, ma il dissenso ovviamente scompare non appena si aprono i taccuini. E tuttavia non è un caso se la forzista Valentina Aprea, presidente della commissione cultura della Camera, invita a «riaprire il dialogo» sul decreto Gelmini per «introdurre eventuali correzioni». Chi invece non si fa problemi a parlare fuori dai denti è Paolo Guzzanti, che con il Berlusconi filo-Putin ha un conto in sospeso: «Usare la polizia per far sospendere le occupazioni è un´assoluta sciocchezza. È dal Medio Evo che l´università gode di particolari guarentigie e di diritti non scritti». Le università «sono delle terre franche e dire "vi mando la polizia" - insiste Guzzanti - è la gaffe più grande che Berlusconi poteva commettere per dimostrare di avere le palle».

Repubblica 23.10.08
E invita i direttori dei quotidiani a dare spazio alla sua conferenza stampa: "Se no ci indigniamo". La Fnsi: gravissime dichiarazioni
E il Cavaliere attacca giornali e tg "Diffondono ansia"
di Silvio Buzzanca


ROMA - Studenti e professori vanno in piazza perché sono informati male. Dalla televisione pubblica e dai giornali. Che fra le altre cose gonfiano anche le cifre di quelli che scelgono di manifestare contro il decreto del ministro Gelmini. Silvio Berlusconi non trova altra giustificazione alle proteste che vengono dal mondo della scuola e dell´università. E´ tutta colpa della disinformazione. «I giornali italiani hanno trascurato di raccontare la realtà sulla riforma della scuola e la tv pubblica diffonde ansia e diffonde solo situazioni di protesta, ci preoccupa il divorzio di molti mezzi di comunicazione dalla realtà», ha detto il Cavaliere durante la conferenza stampa che ha tenuto ieri a Palazzo Chigi in compagnia del ministro dell´Istruzione.
«Ho visto delle fotografie di trenta cartelli e in piazza - ha spiegato Berlusconi - non ce ne era uno che non chiedesse una cosa che è già consentita e prevista. Questo è dato anche dalla cattiva informazione». A questo punto il Cavaliere si è voluto togliere un sassolino dalle scarpe. «Con il ministro Gelmini abbiamo fatto già una conferenza stampa sulla scuola, e sui giornali non c´è stata traccia», ha detto. E ha invitato i giornalisti presenti a portare un messaggio nelle loro redazioni: «Portate i nostri saluti ai vostri direttori e dite loro che saremo molto preoccupati e indignati se la conferenza stampa di oggi non avesse seguito».
Preoccupate le reazioni del mondo dell´informazione. «Giudichiamo gravissime le dichiarazioni del presidente del Consiglio», ha detto Roberto Natale. Il presidente della Federazione nazionale della Stampa punta il dito «anzitutto a quel riferimento, che forse voleva essere ironico, ai direttori di testata: non è mai successo in questi anni che Berlusconi sia stato oscurato. Le sue parole oggi suonano minacciose». Per il Partito democratico, Roberto Cuillo, responsabile Industria culturale, commenta: «L´invito del Presidente del consiglio ai direttori delle testate giornalistiche ha il tono inqualificabile di una minaccia, neanche tanto velata, alla libertà di stampa».
Secondo il parlamentare del Pd Furio Colombo, siamo invece al colpo di stato. «Sono affermazioni golpiste, un altro tassello nell´applicazione del programma della P2», ha accusato l´ex direttore dell´Unità. E Roberto Zaccaria, sempre del Pd, sostiene: «Non siamo disposti a fare il callo ai suoi violenti attacchi contro coloro che esprimono un libero dissenso sulle proposte del governo e contro chi fa il proprio lavoro informando i cittadini». Infine Articolo21 chiederà a tutti i tg e alle forze di opposizione «di cedere parte dei loro tempi televisivi agli studenti, ai genitori e agli insegnanti che stanno difendendo un grande patrimonio pubblico e sono sottoposti in queste ore, anche da parte del medesimo premier, ad una campagna di diffamazione senza precedenti a reti semiunificate».

Repubblica 23.10.08
Il sottosegretario Pizza risponde ad una interrogazione sugli istituti bolognesi: manderò gli ispettori
E il governo vieta i manifesti anti-Gelmini
No all´affissione di striscioni di "propaganda politica, dentro e fuori le scuole"
di Goffredo De Marchis


ROMA - Niente manifesti contro la riforma Gelmini a Bologna e provincia, sentenzia il governo. Nemmeno garbati. Dentro le scuole, ma anche fuori. E contro i trasgressori «è attivato un incarico ispettivo di vigilanza, assistenza, consulenza e supporto alle istituzioni scolastiche». Una specie di "ronda" anti-striscione.
Il sottosegretario all´Istruzione Giuseppe Pizza, segretario della rinata ma piccola Dc, risponde per iscritto all´interrogazione di Fabio Garagnani, deputato del Pdl, da un mese impegnato a tutto campo (esposti, polemiche e atti parlamentari) contro l´occupazione della scuola elementare XXI aprile a Bologna. E lo rassicura. L´ispezione, come si legge da ieri sul bollettino della commissione Cultura della Camera, serve a «garantire il corretto svolgimento delle attività scolastiche in presenza di abusi o comportamenti come l´affissione di manifesti fuori e dentro gli edifici scolastici contenenti propaganda politica contro il governo». Non si potrà più scrivere "no alla riforma Gelmini" oppure "il decreto mi piace così così". Nelle bacheche della scuola, dove pure sindacati, studenti, docenti potrebbero criticare, spiegare senza offendere nessuno. Ma neanche all´esterno e non si capisce a quale distanza dalle classi si possa liberamente affiggere innocenti tazebao.
Berlusconi autorizza interventi della polizia contro le occupazioni, ma il governo, fra le righe di una risposta scritta a un´interrogazione, fa anche altro: proibisce o comunque vigila sulla «propaganda» anti-governativa. Lo stesso Pizza "intima": «La scuola non può essere usata per attività politiche di contestazione di provvedimenti votati dal Parlamento». Adesso però sono le deputate del Pd Manuela Ghizzoni, Donata Lenzi e Sandra Zampa che interrogano la Gelmini per capire il senso delle affermazioni del suo ministero e se ci sia ancora la libertà «di confronto e di critica».

Repubblica 23.10.08
Quarant´anni dopo la primavera cecoslovacca. "I giovani del ‘68 non fecero tutto ciò che era necessario"
Bertinotti fa autocritica: non capimmo il dramma di Praga


ROMA - Pavel Dubcek parla della testardaggine del padre Alexander. Anche di questo si è nutrita la Primavera di Praga. Quarant´anni dopo quel 1968, nella sala della Lupa di Montecitorio l´ex presidente della Camera e "lider maximo" della sinistra antagonista, Fausto Bertinotti, e l´attuale presidente di Montecitorio ed ex presidente di An, Gianfranco Fini, aprono il convegno sul socialismo dal volto umano e sull´invasione dei carri armati sovietici che lo repressero. C´è anche il presidente Giorgio Napolitano che ricorda «la figura di Dubcek esemplare per il coraggio delle proprie idee e per l´attaccamento ai valori di libertà e per il magistero morale che ha espresso».
La requisitoria di Bertinotti lascia pochi alibi alla sinistra: «Praga fu lasciata sola non solo dal Pci che non seppe rompere drasticamente con l´Urss ma anche dai sessantottini che allora avevano lo sguardo troppo rivolto a Oriente». I giovani europei insomma, coloro che costituirono il movimento studentesco del ‘68, «non riconobbero come fratelli nella libertà i giovani di Praga, c´era una vicenda che parlava del nostro futuro nel cuore dell´Europa e loro non se accorsero». Sposarono il mito di Mao e della rivoluzione cinese, presero lucciole per lanterne. Un errore storico. Due i colpevoli: i partiti comunisti europei, tra i quali il Pci, e il movimento studentesco. Per dirla con il titolo del manifesto, allora mensile, attorno al quale si riunirono i dissidenti del Pci: "Praga è sola". Ribadisce Bertinotti: «Era necessaria di fronte all´irriformabilità del sistema socialista una rottura drastica con chi aveva prodotto quella violenza, viene alla luce l´irriformabilità del sistema economico e sociale dell´Est europeo. Invece la sinistra fece morire le speranze».
Visto da destra. Fini pone l´accento su quella lezione perché diede il senso dell´irriformabilità del socialismo reale. Invita: «Quella cecoslovacca non sia più una rivoluzione dimenticata, il monito di ieri serva a superare le divisioni di oggi». La lezione della storia è ricca e complessa. Ne rende testimonianza Enzo Bettiza. E Ivan Leluha, che fu accanto a Dubcek fino alla fine, racconta della «rivoluzione dei pigiami» degli studenti, prologo della Primavera di Praga. Ma è soprattutto lo storico Victor Zaslavsky a fornire un´analisi storica inedita sui rapporti tra il Pci e il Pcus, il ricatto dei finanziamenti e infine l´incontro tra il rappresentante del Pci Armando Cossutta e Boris Ponomarev, responsabile per il Politburo dei rapporti con i partiti comunisti occidentali. È qui che Ponomarev disse: «Le nostre tasche non sono inesauribili e in questo momento vengono in prima fila gli aiuti al Vietnam, a Cuba, ai paesi arabi. Nel 1969 i finanziamenti diretti, stanziati nella misura di 7 milioni di dollari, furono congelati e bloccati a 3,7 milioni». Ad ascoltarlo anche Piero Fassino, l´ultimo segretario del partito erede del Pci, i Ds, che mette l´accento sulla condanna dell´invasione sovietica da parte dei dirigenti comunisti e sull´incontro di Longo con Dubcek: l´inizio di una traiettoria - afferma - che porterà poi all´allontanamento compiuto da Enrico Berlinguer.
(g. c.)

l’Unità 23.10.08
ANNIVERSARI. Insieme a Fini a parlare della «primavera» l’ex leader di Rc duro con i comunisti di allora
Bertinotti: «Praga nel ’68 fu lasciata sola»
di Andrea Carugati


Praga e la primavera del 1968. L’attualità di quei giorni, la lezione di democrazia e libertà che ha contaminato tutta la successiva storia dell’Europa. Ieri alla Camera ne hanno discusso Gianfranco Fini e Fausto Bertinotti, alla presenza del presidente Napolitano e del figlio di Alexander Dubcek, Pavol, in un convegno sull’eredità e l’attualità di quella primavera. «Sarà sempre di più impressa nella coscienza europea come un formidabile monito di fede nella libertà e di coraggio nel sacrificio», ha detto Fini. E Bertinotti ha spiegato che quell’esperienza «straordinaria ci interroga acutamente anche oggi: c’è una lezione universale che va oltre il Novecento e accomuna uomini di fede politica diversa ed è la lotta della democrazia contro l’autoritarismo, della libertà contro l’oppressione, della partecipazione contro l’oligarchia, della indipendenza nazionale contro la dominazione straniera». Diverso il giudizio dei due leader sul ruolo del Pci e della sinistra italiana. E paradossalmente il giudizio più duro è quello di Bertinotti. Fini, infatti, ha ricordato come «il fatto nuovo fu che anche il Pci assunse una posizione assai critica nei confronti dell’Urss, da allora ebbe inizio quel processo di graduale ma inarrestabile presa di distanza dai modelli del socialismo reale che ha condotto nei decenni successivi la sinistra italiana a ripudiarne la intrinseca vocazione totalitaria». Fini ha ricordato il ruolo del presidente Napolitano, «tra i più lucidi protagonisti di quella svolta storica». Bertinotti invece non ha fatto sconti alla sua parte politica: «Non si è fatto tutto quello che si poteva fare, Praga è stata lasciata sola». Sul banco degli imputati i «comunisti riformatori» che, pur credendo in una riforma del socialismo, «hanno peccato di realpolitik e commesso un errore nel credere che il regime sovietico fosse durevole». «Il Pci fu reticente nei confronti degli esuli cecoslovacchi che hanno bussato alla sua porta, come Jiri Pelikan, che poi fu eletto europarlamentare nel Psi». «Ma anche il movimento del ‘68 - dice Bertinotti - non ha capito, guardava a Mao e Castro, si è lasciato distrarre dalla apparente non radicalità anticapitalista della primavera di Praga». «I giovani che manifestavano nelle piazze non riconobbero come fratelli nella libertà i giovani di Praga, non si accorsero di quella vicenda nel cuore dell’Europa che parlava del nostro futuro». Secondo Bertinotti Praga segna la fine «della storia iniziata nell’ottobre 1917, lì viene alla luce l’irriformabilità dei sistemi politici e sociali dell’est europeo» e tramontano anche «le speranze suscitate dal disgelo Kennedy-Kruscev e dalla destalinizzazione». «Di fronte a questo- ha concluso - serviva una rottura drastica con chi aveva prodotto quella invasione». A margine del convegno, il presidente Napolitano ha ricordato la figura di Dubcek: «Rimane esemplare per il coraggio delle proprie idee, per l’attaccamento ai valori di libertà e per il magistero morale che ha espresso». Napolitano ha conferito l’onorificenza di commendatore dell’Omri (onore al merito della Repubblica) alla moglie di Jiri Pelikan, Jitka Frantova.

Corriere della Sera 23.10.08
Il caso Nell'istituto milanese celle di 3 metri per 2 con 6 detenuti che non possono stare tutti in piedi contemporaneamente
Gli insetti Monza: uno su tre dorme su materassi in terra, tra gli scarafaggi. Interviene il presidente del Tribunale di Sorveglianza
«Carceri disumane. E fuorilegge»
Rapporto choc dell'Asl su San Vittore e Monza Il giudice al ministro: la pena non si fa espiare così
di Luigi Ferrarella


Almeno in alcuni reparti del carcere di San Vittore a Milano e della casa circondariale di Monza «le condizioni igieniche e di vivibilità », documentate da due rapporti riservati dell'Asl, «sono pessime» al punto tale da violare «l'articolo 32 della Costituzione che tutela la salute come diritto fondamentale dell'individuo e interesse della collettività », e l'articolo 27 per il quale «in nessun caso » la legge può determinare come pene «trattamenti contrari al senso di umanità». E poiché queste condizioni di invivibilità sono «non rimediabili con l'indiscusso impegno del personale», il neopresidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, Pasquale Nobile De Santis, ricorre a una norma dell'ordinamento penitenziario del 1975, e cioè all'articolo 69, per rappresentare per iscritto e direttamente al Guardasigilli Angelino Alfano una necessità da ultima spiaggia: «Assoluta l'esigenza che vengano a cessare le suddette modalità di esecuzione della pena e di custodia dei detenuti». Come dire: che vi sia da dare finalmente corso alle ristrutturazioni di padiglioni in attesa di lavori finanziati o da sgomberare questo o quel raggio trasferendo altrove i detenuti che vi sono pigiati, almeno in alcuni reparti di queste due carceri la legge è violata, non si può continuare a far finta di non vedere che sia così, e soprattutto non si può continuare a far espiare in questo modo la pena. L'iniziativa di Nobile De Santis, ex presidente di una sezione del dibattimento penale, da pochi mesi al timone del Tribunale di Sorveglianza che da Milano ha la responsabilità (anche sotto il profilo delle condizioni di vita) sugli 8.311 reclusi in 12 carceri lombarde, nasce da un giro che il neodirigente ha cominciato a fare in estate, e intende via via proseguire, nei vari penitenziari. Di fronte alle prime impressioni, ben note a tutti gli operatori del settore di solito però assuefatti a una litania di doglianze che periodicamente si ripetono spesso senza ascolto e quasi sempre senza costrutto, Nobile De Santis ha chiesto all'Asl una più dettagliata documentazione sul campo. E l'esito è stato per certi versi choc.
A Busto Arsizio, a Varese, a Monza, e a Milano- San Vittore (dove l'altro giorno la Direzione ha contato 1.424 detenuti nello spazio che al massimo ne potrebbe contenere 900) non vengono segnalate soltanto le «gravi disfunzioni» collegate al «superamento anche ampio» sia della capienza regolamentare sia perfino «della capienza tollerabile»: convenzione burocratica per la quale, sebbene in Italia i posti regolamentari nel totale delle 205 carceri siano 43.084, si ritengono «tollerabili» (da chi legifera sulle carceri, non da chi vi è detenuto) fino a 63.544 presenze (e il bello è che a fine 2007 anche i posti effettivamente disponibili erano in realtà molti meno, e cioè 37.748).
Data dunque quasi per scontata una dose standard di sovraffollamento, il Dipartimento di Prevenzione dell'Asl indica però anche due situazioni di particolare criticità. A Monza per «infiltrazioni d'acqua », e più ancora per la «presenza di scarafaggi» nelle celle dove «1 detenuto su 3 dorme su materassi direttamente adagiati sul pavimento», cioè proprio su quella terra solcata dagli insetti che - ricorda l'Asl - possono «fungere da veicolo per parassiti e agenti patogeni pericolosi per l'uomo».
A San Vittore, invece, la situazione è molto differenziata. Nei reparti terzo (detenuti lavoranti) e quinto (nuovi arrivati), che sono stati ristrutturati, le condizioni sono «molto buone» sia nelle celle sia negli spazi comuni. Ma altri due reparti, il secondo e il quarto, sono chiusi senza prospettive d'inizio dei lavori, né come date né come finanziamenti deliberati. E, di conseguenza, il sovraffollamento si scarica altrove, soprattutto sul sesto raggio, «prevalentemente » occupato da extracomunitari, dove l'Asl descrive «nei casi più gravi» una situazione a tratti surreale: «celle di 3 metri per 2 metri con doppio letto a castello a tre piani», sicché le 6 persone detenute «non possono stare contemporaneamente tutte in piedi» perché non c'è lo spazio fisico per stare in piedi tutti insieme, e qualcuno a turno deve sempre restare appollaiato nel suo letto a castello per far muovere due passi (letteralmente) ai compagni di cella. Inoltre, sempre in base ai due rapporti dell'Asl posti alla valutazione anche della Regione Lombardia e del Ministero della Salute, «i servizi igienici sono inadeguati», «le docce sono insufficienti per un uso quotidiano per tutti», «nessuno spazio esiste per la socialità».
Rispetto a queste punte di criticità, per i miracoli delle Direzioni e dei 700 agenti di custodia (altri 200 sono assorbiti dalle traduzioni) non c'è più spazio: fanno e hanno già fatto (come d'estate l'autoclave recuperata per sopperire a un picco di carenza d'acqua in pieno agosto) tutti i miracoli possibili, ormai queste situazioni sono «non rimediabili con l'indiscusso impegno del personale». E se non possono fare più niente di utile loro, neppure può il magistrato di sorveglianza, che pure tra le proprie funzioni ha quella di «vigilare sulla organizzazione degli istituti di prevenzione e di pena».
E allora Nobile De Santis si aggrappa proprio alla seconda parte del primo comma dell'articolo 69 dell'ordinamento penitenziario del 1975, che tra le competenze del magistrato di sorveglianza contempla anche quella di «prospettare al ministro le esigenze dei vari servizi, con particolare riguardo alla attuazione del trattamento rieducativo». Ed è sulla base di questo spunto, un poco forzato nel porre a rigore non un problema di «trattamento rieducativo» (quasi un lusso) ma ormai una questione di sopravvivenza pratica nelle celle, che il presidente del Tribunale di Sorveglianza milanese rivolge ad Alfano l'ultimo Sos in una lettera datata 8 ottobre. Un Sos che il presidente della Corte d'Appello, Giuseppe Grechi, pure destinatario della missiva, e a Pasqua già protagonista di un brusco monito («le condizioni del carcere sono un'autentica vergogna, il cardinale Tettamanzi l'ha visitato e all'uscita mi ha detto: "sono inorridito" »), traduce in un commento tanto pubblico quanto crudo: «Ora anche l'Asl dice che siamo sotto il limite di umanità. Che la situazione è insopportabile. Che noi stiamo attuando una specie di tortura. A 500 metri dal Duomo».

Repubblica 23.10.08
"Dio non c´è, spassatevela" e l´ateismo diventa uno spot
L´idea lanciata da un blog, in un giorno raccolte quasi 50mila sterline
L´arcivescovo di Westminster: "Ma i cristiani conoscono la gioia della fede"
di Enrico Franceschini


Londra. La pubblicità, diceva Karl Marx, è l´anima del commercio. Ma può anche servire a smentire che l´uomo abbia un´anima. L´idea lanciata da un blog del quotidiano Guardian ha attecchito come fuoco in un´arida prateria: in meno di 24 ore sono state raccolte donazioni per quasi 50 mila sterline (60 mila euro), che serviranno a mettere dei cartelloni a favore del secolarismo sugli autobus di Londra. Gli organizzatori della campagna si sarebbero accontentati di raccogliere 5 mila sterline, cifra sufficiente per riprodurre sulla fiancata di trenta bus, per quattro settimane, nelle strade della capitale, la seguente ironica scritta: «Probabilmente Dio non esiste. Dunque smettete di preoccuparvi (sottinteso: dell´aldilà) e godetevi la vita (sottinteso: sulla terra)». Un tram, parafrasando Tennessee Williams, che si chiama ateismo. Avendo raccolto dieci volte tanto, adesso i promotori pensano di ampliare la campagna su tutto il territorio nazionale, variando gli slogan e mettendoli non solo sugli autobus ma anche in metropolitana. «A questo punto il nostro limite è il cielo», dice Ariane Sherine, la scrittrice che ha ideato l´iniziativa, aggiungendo: «Con la consapevolezza, tuttavia, che lassù non c´è niente».
Lo scopo della campagna è fornire un «contro-messaggio rassicurante» a chi si sente minacciato dal fervore religioso, ovvero contro predicatori e chiese che ricordano ardentemente ai non-cristiani cosa li aspetta dopo la morte: l´inferno e la dannazione eterna. «La nostra è una protesta ammorbidita da un pizzico di umorismo, ma con un argomento di fondo assai serio», spiega Sherine sul Guardian. «Noi ateisti vogliamo un paese secolarista, un governo secolarista, una scuola secolarista. Il fatto che siamo stati inondati di donazioni rivela quanto sia forte questo sentimento nel nostro paese». Nella somma finora raccolta, oltretutto, non sono incluse le 5 mila sterline donate da Richard Dawkins, il docente della London School of Economics autore di un saggio diventato un best-seller internazionale, pubblicato anche in Italia, da Mondadori, col titolo: L´illusione di Dio - le ragioni per non credere. Dawkins si era detto pronto a finanziare da solo l´iniziativa, donando l´intera somma minima per tappezzare trenta bus di pubblicità per un mese, se la colletta non avesse prodotto i risultati sperati. Ma adesso farà la sua donazione lo stesso.
La Gran Bretagna, bisogna dire, è un paese profondamente laico, in cui anche la Chiesa rispetta una netta separazione tra religione e stato. La conferma viene dalle reazioni delle autorità ecclesiastica alla campagna ateista. La Chiesa Metodista britannica ha accolto favorevolmente l´iniziativa, ringraziando in particolare il professor Dawkins per il suo «continuo interesse in Dio»: il suo libro, afferma un comunicato, incoraggia la gente a pensare al problema dell´esistenza o meno del creatore, e questo è di per sé positivo. Quanto alla Chiesa Anglicana, ha reso noto che essa difende sempre e comunque qualsiasi gruppo che rappresenti una posizione religiosa «o filosofica», promuovendo il proprio punto di vista attraverso canali appropriati. Un portavoce dell´arcivescovo di Westminster si è limitato a precisare: «La fede cristiana non predica la preoccupazione o il divieto di godersi la vita. Al contrario, la nostra fede ci libera dai timori, mettendo la vita nella prospettiva giusta. Sette persone su dieci in questo paese si descrivono come `cristiani´, e conoscono la gioia che la fede può portare».
Senza per questo vietare a chi la pensa diversamente di pubblicizzare le proprie idee: anche su un tram.

Repubblica 23.10.08
Il grande fratello del perfetto nazista
Schermi nei negozi e fiction "ariane" Un progetto del Führer spazzato dalla guerra
Il Reich voleva lanciare la prima televisione via cavo. Scoperti i documenti segreti
di Andrea Tarquini


Fu Adolf Hitler il primo capo di governo a pensare alla televisione come media per influenzare e condizionare le masse, in una sua potenziale funzione da big brother. Documenti segreti che nel 1945 a Berlino caduta erano finiti in mano ai soldati russi, e che ora il Daily Telegraph e The Independent hanno pubblicato, ne forniscono le prove. Tutto era pronto per lanciare programmi tv diffondibili su megaschermi grazie a cavi a banda larga Berlino-Norimberga, i piani erano stati già approntati per installare grandi tv nelle lavanderie e nelle piazze. Poi scoppiò la guerra e vennero meno i soldi.
Il futuristico piano nazista portava la firma dello scienziato Walter Burch, uno degli enfant prodige della tecnologia che vendette l´anima al terzo Reich. Prevedeva appunto l´installazione di un cavo a banda larga e di punti di visione e ascolto nelle piazze, nelle lavanderie pubbliche dove le casalinghe perfette avrebbero assistito ai programmi della "Hitler-Tv" mentre provvedevano al bucato, e in altri luoghi di pubblico incontro. "Trasmettitori e ricevitori per il popolo", si chiamavano gli apparati nel linguaggio del regime.
Il progetto aveva avuto il via decisivo del ministro della Propaganda Goebbels, il genio malefico del terzo Reich. «L´audiovisivo – scrisse in appunti riservati, ora resi noti - ha un vantaggio determinante sulla radio: la semplice notizia trasmessa via audio lascia spazio per la sua interpretazione all´immaginazione dell´ascoltatore, che noi non possiamo controllare. Le immagini col sonoro sono molto meglio».
Persino il palinsesto della tv di Hitler era già pronto: furono anche realizzati programmi sperimentali. Notiziari, programmi di istruzione sportiva ed educazione fisica, e anche un serial sulla vita di una perfetta famiglia ariana. Avrebbe dovuto chiamarsi "Una sera da Hans e Gelli". Hans e Gelli erano appunto marito e moglie perfetti del terzo Reich, lui lavoratore e convinto nazista, lei docile casalinga e devota al Führer, entrambi impegnati ogni giorno a educare i loro figli nella fedeltà al Nuovo Ordine. La preparazione del piano fu aperta a suggerimenti: Heinrich Himmler, capo delle Ss e numero tre del regime, propose di inserire nel palinsesto le riprese girate dai cameramen della Gestapo che mostravano un parente di Eva Braun, l´amante di Hitler, ucciso dalla polizia segreta mentre cercava di fuggire all´estero. «L´inserimento di queste immagini nel palinsesto sarebbe nel supremo interesse personale e politico del Führer», annotò Himmler. Nei programmi erano previste anche riprese in diretta delle esecuzioni capitali dei nemici del regime.
La Tv nacque, tecnicamente, nel Regno Unito con i primi esperimenti della BBc. Subito copiati dai nazisti grazie a Walter Burch. La guerra impedì al Reich di lanciare il programma, e poi il primo paese al mondo a diffondere notizie via tv fu l´odiato nemico, l´America di Roosevelt e Truman. I primi programmi tv per la gente comune furono infatti trasmessi negli Usa negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale, quando il "Reich millenario" era già a un passo dalla disfatta.

Repubblica 23.10.08
L'outing del successore di Haider "È stato l´uomo della mia vita"
di Andrea Tarquini


Berlino - Joerg Haider viveva una doppia vita, da bisessuale: padre di famiglia per la moglie Claudia e le figlie Ulrike e Cornelia, ma soprattutto amante appassionato per Stefan Petzner, suo vice nel suo partito e ora pretendente alla successione. E´quanto i media austriaci deducono dalla confessione di Petzner a una radio locale, che invano la Bzoe, il partito di Haider appunto, ha cercato di vietare di trasmettere.
«Abbiamo avuto una relazione speciale», racconta l´atletico, biondo Stefan Petzner nell´intervista radiofonica. «E´stata una relazione che andava oltre l´amicizia, Joerg e io eravamo legati da una relazione che aveva qualcosa di davvero speciale, lui era l´uomo della mia vita». Sono passate meno di due settimane dal tragico incidente d´auto in cui Haider ha perso la vita, al volante della potentissima Volkswagen Phaeton di servizio in eccesso di velocità e in stato di estrema ebbrezza alcolica, e sono trascorsi pochi giorni dal grande funerale di Stato in suo onore a Klagenfurt, la capitale della Carinzia di cui lui era governatore. E le rivelazioni di Stefan Petzner gettano una luce del tutto nuova sulla vita e sulla morte del leader più carismatico che la destra radicale europea abbia mai avuto dopo l´olandese Pim Fortuyn, omosessuale dichiarato ucciso da un ambientalista.
«Ci vedevamo spessissimo, lui era l´uomo della mia vita», ha insistito Stefan Petzner nella sua confessione in diretta alla radio. E ha aggiunto: «Sua moglie, Claudia, non si era opposta a questa nostra realtà. Lei lo amava come una donna, lui la amava come un uomo, io lo amavo in un modo completamente diverso e personale, e Claudia comprendeva tutto ciò».
Christiane Petzner, sorella di Stefan, rincara la dose con le sue confessioni personali gettate in pasto al pubblico adesso, dopo il funerale che ha commosso in diretta tutta l´Austria. «Loro due passavano insieme almeno i tre quarti del tempo libero, non soltanto la sera ma anche nei fine-settimana e nelle vacanze». Alcune volte Claudia non resisteva alla gelosia e al risentimento, era ferita perché Stefan poteva avere da Joerg più tempo di quanto Joerg non concedesse a lei». E non è finita: «Stefan e Joerg erano i migliori amici possibili, i legami tra loro erano molto stretti, a modo loro si sono amati».
Le rivelazioni sono un secondo shock per l´Austria, dopo la morte del suo politico più famoso, e per l´intera destra radicale europea. Joerg Haider, che amava darsi un´immagine pubblica di supersportivo, di elegante uomo iperattivo, e teneva incontri con i veterani austriaci delle SS (i corpi speciali dell´apparato repressivo nazista, le punte di lancia dell´Ufficio centrale per la sicurezza del Terzo Reich) elogiandoli quali veri degni uomini, se bisogna credere a queste rivelazioni delle ultime ore sarebbe stato a lungo un gay o un bisessuale che non aveva avuto il coraggio di fare outing, di rivelare cioè la sua natura. Come invece molti politici europei hanno fatto, dal sindaco di Parigi Delanoe ai governatori tedeschi di Berlino Klaus Wowereit (socialdemocratico) e di Amburgo ole von Beust (democristiano), fino al leader del partito liberale tedesco (Fdp), Guido Westerwelle.
Il sospetto che avanza, come scrive il quotidiano viennese Die Presse, è che una crisi terminale del rapporto con Petzner (magari una litigata notturna tra i due) non sia estraneo alla morte di Haider. Petzner aveva infatti dichiarato a caldo che aveva salutato Haider all´uscita dal locale "Cabaret", quella sera, e che si era preoccupato per lui, ma che Haider aveva rifiutato l´autista ufficiale o qualsiasi accompagnamento. Poi pare che Haider si sia recato in un bar di gay. Ieri Bild in Germania ha pubblicato una foto in cui Haider è ritratto mentre bacia un giovane in un locale. Petzner annunciò a caldo, piangendo a dirotto, la morte di Haider. «Adesso - scrive Die Presse - Petzner deve dire la verità, oppure rinunciare a giocare in pubblico due ruoli insieme, quello del successore e quello della seconda vedova».

Corriere della Sera 23.10.08
Dibattiti Dopo l'appello di «Liberté pour l'histoire» apparso su «Le Monde» si riapre la controversia sui vincoli allo studio del passato
Leggi della memoria, il fronte del no
Pierre Nora: «In un Paese libero, nessuno ha l'autorità politica per definire la verità»
di Dino Messina


Per fare quell'intervista al maggiore studioso occidentale dell'Islam e delle questioni mediorientali, il direttore di Le Monde aveva voluto che fossero in due, Jean-Pierre Langellier e Jean-Pierre Péroncel Hugoz. Il testo del colloquio era stato pubblicato a tutta pagina il 16 novembre 1993 sotto un titolo che se lo proponi a un caporedattore italiano ti mette alla porta: «Un entretien avec Bernard Lewis». Eppure dieci righe contenute in quella grigia paginata avrebbero scatenato una tempesta politica e sarebbero state citate a esempio di storiografia politicamente scorretta, sino a meritare la condanna di un tribunale per l'accusa di negazionismo con un'ammenda simbolica di un franco. Quel franco costituisce il discrimine fra ieri e l'oggi. E anche l'onta che ha spinto un gruppo di storici capeggiati prima da René Rémond (1918-2007), ora dall'accademico di Francia Pierre Nora ad animare il movimento contro le cosiddette leggi memoriali, quei provvedimenti che sanzionano non soltanto negazionisti screditati come l'inglese David Irving o il francese Robert Faurisson, ma anche ricercatori che esprimono una posizione diversa da quella «politicamente corretta».
Che cosa aveva detto di tanto scandaloso Bernard Lewis? Aveva affermato che «durante la deportazione verso la Siria, centinaia di migliaia di armeni sono morti di fame e di freddo. Ma se si parla di genocidio, ciò implica che ci sia una politica deliberata, una decisione di annientare sistematicamente la nazione armena. Cosa che è molto dubbia. Documenti turchi provano una voltà di deportazione, non di sterminio». La comunità armena denunciò lo studioso.
Un po' meglio andò a un altro valente storico, Olivier Pétré-Grenouilleau, autore del saggio La tratta degli schiavi, pubblicato in Italia dal Mulino nel 2006. Poiché il rigoroso libro non condannava come crimine contro l'umanità ma semplicemente descriveva la tratta degli schiavi e il traffico delle navi negriere che salpavano soprattutto da Nantes, un gruppo di parlamentari delle terre d'oltremare querelò l'autore. Pétré-Grenouilleau contravveniva a una delle tante leggi memoriali, approvata nel 2001, sotto il nome della rappresentante originaria della Guyana che l'aveva proposta nel 1998 e fatta approvare nel 2001, Christiane Taubira-Delannon. Fortunatamente quella denuncia finì in nulla.
Questa materia, incandescente per chi di mestiere fa lo storico, è tornata d'attualità dopo la pubblicazione su Le Monde di sabato 11 ottobre di un nuovo appello di «Liberté pour l'histoire». L'appello, di cui primo firmatario è Nora, ormai ha raccolto adesioni in tutta Europa da storici di notevole livello e di orientamento diverso che vanno dagli italiani Enzo Traverso e Sergio Romano ai britannici Timothy Garton Ash ed Eric Hobsbawm ai francesi Jacques Le Goff e Marie-Anne Matard Bonucci. La normativa francese contempla una serie di leggi memoriali, a volte contraddittorie. La legge Gayssot del luglio 1990 considera come delitto la negazione di crimini contro l'umanità; alla «Taubira », del maggio 2001, che raccomandava ai ricercatori di considerare lo schiavismo come crimine contro l'umanità, è seguita nel febbraio 2005 una legge che invece invita gli storici a riconoscere il ruolo positivo avuto dai francesi nei territori nordafricani. Del 2006 è la proposta di legge votata dall'assemblea nazionale per sanzionare chi contesta il genocidio degli armeni. Ma quel che ha indotto Nora a dare un respiro internazionale alla protesta è il progetto di legge per indirizzare la ricerca storica in base ai principi della lotta al razzismo e alla xenofobia votato per iniziativa del ministro tedesco Brigitte Zypries dal Parlamento di Strasburgo, ma non ancora approvato dal Consiglio europeo per la giustizia e gli affari interni. «In uno Stato libero — ha scritto Nora — non appartiene ad alcuna autorità politica il compito di definire la verità storica e restringere la libertà dello storico sotto la minaccia dell'azione penale».
Parole come queste non stonano forse in Spagna, Paese che pure ha approvato l'anno scorso una legge che promuove la ricerca sulla Guerra civile, invita a rimuovere le targhe del periodo franchista dai luoghi pubblici, ma non indica quel che è giusto o sbagliato scrivere.
Certo, basta navigare in Internet e sostare per esempio sul sito della Sissco, la Società italiana per lo studio della storia contemporanea, per scoprire la realtà poco rosea della legislazione europea: si va dagli aggiornamenti al codice penale svizzero in base al quale martedì scorso sono stati condannati a pagare una multa tre cittadini turchi che hanno negato l'olocausto armeno, all'iniziativa presa nel 2006 in Ucraina. Il 2 ottobre 2006 il presidente Viktor Yushenko ha fatto approvare una legge secondo cui tutti i cittadini ucraini, quindi anche gli storici, vengono condannati a una multa sino al 15 per cento dello stipendio, se negano la definizione di olocausto all'holodomor, la terribile carestia del 1932-33 provocata da Stalin. Con buona pace della storiografia che la pensa diversamente.
Un'immagine emblematica di una giovane donna rinchiusa nel campo di concentramento di Auschwitz Pierre Nora Bernard Lewis e David Irving

il Riformista 23.10.08
«Solo due cattolici al governo. Nel Pdl regna la massoneria»
Parla Cossiga. «Ho votato Pd ma oggi non so più che cos'è. Veltroni dura perché non sanno chi mettere al suo posto». E su Berlusconi: «L'unico a potergli succedere è Tremonti». L'errore di Letta il giorno del voto.
di Fabrizio d'Esposito


Francesco Cossiga ha ottant'anni e un piccone come simbolo esistenziale. Il Riformista festeggia oggi il suo sesto compleanno ed è munito di solo cannocchiale. Il gigante e il bambino.
Presidente lei è giornalista?
Sì, sono un pubblicista dell'ordine del Lazio e Molise. Mi consegnò il tesserino quel giornalista di Repubblica che rapirono... come si chiama?
Mastrogiacomo.
Sì, lui. Era il segretario dell'ordine. Io sono diventato giornalista grazie al Riformista.
A dire il vero, presidente, non è facile ricostruire la sua carriera da pubblicista: lei usa pseudonimi a iosa.
Quando ho iniziato con voi e Libero ho scelto Franco Mauri per il centrodestra e Mauro Franchi per il centrosinistra. Mauri è figlio di un maresciallo dei carabinieri che è riuscito a laurearsi in filosofia. Franchi è un mio allievo universitario.
Poi c'è il teologo.
Sì, Jansenius e anche altri che non ricordo. Io scrivo da quando avevo 15 anni. Il primo articolo lo feci per una rivista della mia città, Sassari. Un saggio sul realismo cinematografico sovietico di Eisenstein. Mi vergognavo di firmare col mio nome, usai Franco Mauri. Lei deve sapere che io mio chiamo Francesco Maurizio Cossiga.
Perché si vergognava?
Ero il più bravo a scuola in tutta Sassari. Non stava bene scrivere articoli.
Il Riformista fa sei anni.
Lei sa dove è nata l'idea di fare un giornale del genere?
No.
È stato qui, in questa casa. Eravamo nel salotto io, Polito e il suo editore di allora, Velardi. E sa pure chi ha inventato l'arancione?
No. Ma l'intervista la sta facendo lei, presidente.
Sono stato io. Suggerii questo colore perché era inusuale, non era mai stato adoperato da nessuno.
Erano i tempi di Cofferati in piazza San Giovanni. Poi è finito a piazza Grande, nel centro di Bologna dove non si perde neanche un bambino.
E adesso è in Liguria a fare il papà. Mi sembra tutto naturale.
Naturale?
Cofferati è diventato un legalitario assoluto dopo essere stato un leader rivoluzionario. E adesso in Genova si troverà bene. I liguri sono stati fedeli sudditi del Regno di Sardegna, hanno il senso dell'ordine.
L'opposizione torna in piazza sabato prossimo. Anche sei anni fa era lo stesso. Sembra il gioco dell'oca.
Questo paese diventerà una democrazia normale quando Berlusconi non sarà più accusato di essere il mandante degli omicidi di Cesare e Lincoln.
Andrà al Quirinale?
No. E poi oggi si è completamente innamorato della politica estera. Ma non deve esagerare.
In che senso?
Dare del tu a Putin e Bush non implica considerarli amici.
Lei ha votato Pd. È ancora il suo partito?
Per rispondere dovrei sapere che cos'è il Pd. Ma non lo so. Doveva essere un partito riformista anche a costo di non vincere le elezioni. Oggi invece ha rispolverato l'antiberlusconismo. Allora aveva ragione Prodi: che senso aveva rompere con la sinistra radicale?
Poi c'è Di Pietro.
Non si capisce che c'entrino i riformisti con lui. Di Pietro è un fascista. Appartiene alla grande famiglia dei fascisti italiani.
Veltroni dura?
Sì. Per un semplice motivo: non sanno chi mettere al posto suo. In verità, un leader ci sarebbe.
Scommettiamo che è D'Alema.
Sì è lui. Io ero in aula quando alla Camera Togliatti difese Giolitti da Salvemini. D'Alema è l'unico vero antigiustizialista del centrosinistra. In questo è il vero erede di Togliatti. Uno che ha frequentato le Frattocchie non avrebbe mai comprato una casa a New York.
A proposito di successione: chi dopo Berlusconi?
Nessuno. Non vedo nessuno. L'unico in grado sarebbe Tremonti, ma al sud si scatenerebbe la rivoluzione. Mi faccia però parlare ancora di D'Alema e della sua intelligenza.
Ma non è una notizia.
No, le devo raccontare una cosa.
Prego.
Riguarda le elezioni di quest'anno. Mancava un quarto d'ora alla chiusura delle urne e chiamai Gianni Letta. Era preoccupato. Mi disse: «Vinceremo con uno scarto minimo, tra l'uno e il due per cento. Al Senato sarà dura». Poi telefonai a D'Alema. Aveva già tutto chiaro: «Prenderemo una di quelle legnate che non dimenticheremo».
Dopo sei mesi il governo ha un consenso alle stelle. Almeno così dicono i sondaggi.
Da perfetto uomo di spettacolo, Berlusconi ha messo su una magnifica e grande compagnia di teatro, in cui mi colpisce soprattutto una cosa.
Quale?
Per la prima volta in questo paese ci sono solo due ministri cattolici di peso, Gelmini e Scajola.
A che cosa vuole alludere?
Per esempio, alla mole di voti che il centrodestra ha preso in posti come la Toscana.
Massoneria?
Sì. Nella maggioranza ci sono eminenti figure della massoneria. Ma di più non dico.

mercoledì 22 ottobre 2008

l’Unità 22.10-08
La protesta è una marea: 60mila a Firenze, poi Roma


A La Sapienza 4 facoltà in mobilitazione. A Bologna sfilano in 4mila
Un corteo di quasi 60mila persone ha sfilato ieri a Firenze in difesa della scuola e dell’università pubblica. Arrivati da tutta la Toscana, studenti, docenti e ricercatori hanno dato vita alla quarta grande agitazione in città in soli dieci giorni. Se la settimana scorsa gli studenti medi avevano occupato praticamente tutti gli istituti superiori, questa settimana tocca agli universitari. Ieri, ultima in ordine cronologico, è stata occupata anche la facoltà di lettere e filosofia, e, se nel frattempo non si fosse conclusa l’occupazione ad architettura, tutte la facoltà sarebbero ora nelle mani degli studenti.
Anche a Roma sono state occupate le sedi di fisica e scienze politiche, oltre a un’aula della facoltà di chimica. La decisione dei collettivi è stata presa in seguito alla decisione del senato accademico di dedicare la sola giornata di venerdì 24 alla mobilitazione, ritenuta poco incisiva. Ieri mattina si è verificato anche qualche momento di tensione a Roma Tre, durante un’assemblea studentesca, quando una quindicina di attivisti del gruppo di estrema destra, Blocco Studentesco, ha chiesto la parola. Dopo fischi e spintoni, è intervenuta la polizia a rimettere ordine.
A Bologna prosegue l’occupazione della facoltà di lettere, di due aule di scienze politiche, una di giurisprudenza e una di scienze della formazione. Ieri 4mila persone hanno partecipato a un corteo di protesta, irrompendo con fischietti e tamburi nella sede del Rettorato. Il corteo è proseguito verso la stazione, dove sono stati occupati due binari per circa un quarto d’ora, causando ritardi tra i 5 e i 10 minuti per tre treni. La polizia sta procedendo all’identificazione dei partecipanti, che rischiano di dover rispondere, oltre che al reato di manifestazione non autorizzata, a quelli di interruzione di pubblico servizio, danneggiamento aggravato di palazzi storici e resistenza aggravata.
Un corteo di circa 5mila studenti ha sfilato anche a Napoli al grido «Noi la crisi non la paghiamo!». Proseguono le proteste anche a Palermo, dove, dopo il corteo degli oltre 10mila giovani di ieri, oggi un altra manifestazione è partita dalla facoltà di ingegneria e ha raggiunto la Prefettura. A Torino è stato occupato Palazzo Nuovo, sede delle facoltà umanistiche ed è stato chiesto il blocco della didattica in occasione della visita del ministro Gelmini, il 28 ottobre, e dello sciopero generale della scuola del 30 ottobre. Altre assemblee e occupazioni si registrano anche a Trieste, Gorizia, Genova, Grosseto, Carrara, Brindisi, Cagliari, Parma, Pavia e Perugia.

l’Unità Firenze 22.10-08
Sessantamila «no» alla Gelmini. Ed è solo l’inizio
Ieri a Firenze sono arrivati da tutta la Toscana al corteo contro i decreti sulla scuola. Agli studenti medi e universitari si sono aggiunti sindacati, professori, ricercatori e personale tecnico. Il 30 sciopero generale
di Tommaso Galgani


Sindacati, studenti delle superiori e delle università, genitori con bambini, docenti, ricercatori, personale Ata e tecnico amministrativo, ma anche tanti cittadini. Erano in 60mila (40mila per le forze dell’ordine) ieri alla manifestazione a Firenze, arrivati da tutta la Toscana (ben 3mila da Pistoia con un treno all’alba), per protestare contro i decreti del ministro Gelmini.
«La più grande manifestazione nel settore della scuola che si ricordi in regione», fa notare la Cgil. Si tratta della quarta grande agitazione fiorentina negli ultimi dieci giorni: ma la novità è stata la grande trasversalità sociale e generazionale tra i protagonisti. Il corteo è partito alle 10 da piazza San Marco, è passato per via Cavour e, passando per il centro, è culminato in Santissima Annunziata, tra cori, musica, sit in, slogan, giochi e manifesti (anche a tinte forti) contro il governo e per l’istruzione pubblica.
Unico partito presente con alcune bandiere è stato Prc, ma alla manifestazione è arrivato l’appoggio di Pd (in piazza c’erano esponenti della giovanile dei democratici, mentre oggi il segretario regionale Andrea Manciulli incontrerà studenti e professori) e Sd. Presenti il presidente del consiglio comunale fiorentino Eros Cruccolini e l’assessore regionale Eugenio Baronti.
A guidare il corteo, Alessio Gramolati, segretario regionale della Cgil, e Daniela Lastri, assessore alla scuola del comune di Firenze. Gramolati cita un episodio per mettere in risalto «la maturità e la responsabilità del movimento»: «L’altro giorno gli occupanti del liceo Michelangelo si sono autotassati per fare la pulizia della scuola e riparare un vetro rotto durante l’occupazione». Il segretario della Cgil evidenzia come «l’unità dei vari soggetti che manifestano sia la garanzia della continuità dell’agitazione». Gramolati attacca il governo: «Non capisce che questo paese dà il meglio di sé quando riesce ad abbinare solidarietà e diritti, come sta facendo questo movimento: lo dimostrano gli universitari che protestano anche per i tagli alle elementari. Ma i problemi che la Gelmini apre non si chiuderanno per decreto». Il 27 le donne della Cgil faranno un’iniziativa sui temi della scuola, mentre il 30 nel settore sarà sciopero generale.
Anche Lastri, che in questi giorni ha partecipato a varie assemblee nelle scuole fiorentine, è convinta che la protesta debba continuare: «Tra i giovani c’è grande voglia di partecipazione e informazione, sollecitando anche le istituzioni: se il governo andrà avanti a decreti, presenteremo una legge d’iniziativa popolare. Per ora registriamo che è nata una nuova generazione che vuole prendersi il proprio futuro».
«Almeno il governo tagli solo gli atenei meno virtuosi», spiega Luca, ricercatore precario di Pisa. Marco Iacoboni, della Rsu del personale tecnico dell’università di Siena (dove domani ci sarà una manifestazione cittadina di tutti i soggetti della scuola) ricorda che «da noi la situazione è aggravata anche dal buco nelle casse dell’ateneo».
Lunedì a Firenze c’è una riunione dei rettori degli atenei toscani con una rappresentanza bipartisan di parlamentari della regione. Per il rettore fiorentino Augusto Marinelli «le manifestazioni in atto hanno cause totalmente condivisibili, occorre andare oltre e individuare soluzioni ad una situazione insostenibile. La mobilitazione si svolga con responsabilità, permettendo la fruizione delle attività didattiche».

l’Unità 22.10-08
La protesta continua: a Firenze occupa anche Lettere
Ritorno sui banchi per la maggioranza delle scuole superiori, dove comunque l’agitazione si svilupperà con altre forme
Oggi gli studenti si vestiranno a lutto in Santissima Annunziata: alle 15 lezione di Margherita Hack in piazza Signoria
di Silvia Casagrande


Lettere e Filosofia è occupata. Piazza Brunelleschi si aggiunge così alla lunga lista delle sedi universitarie fiorentine in mobilitazione: il polo di Sesto, agraria, matematica, scienze politiche (Novoli), scienze della formazione, il plesso didattico di viale Morgagni e psicologia, dove prosegue l’autogestione. Ad architettura invece si è già conclusa l’occupazione simbolica iniziata l’altro ieri, nel corso della quale sono stati preparati gli striscioni per la manifestazione. È attesa per domani la decisione del consiglio di facoltà in merito all’ufficializzazione della proposta degli studenti di dedicare un giorno alla settimana alla didattica alternativa.
All’Ulisse Dini proseguono le lezioni aperte alla cittadinanza: alle 10 il professor Buiatti parlerà dell’economia degli Ogm, mentre alle 21 sarà la volta della dottoressa Rubei in un corso dal titolo «matrici magiche». Anche a Novoli, tempo permettendo, verranno svolte alcune lezioni all’aperto durante la mattinata. Alle 12.30 in via delle Pandesse, gli studenti di scienze politiche si esibiranno in una «scritta umana», che, naturalmente, reciterà l’immancabile «No alla 133». Sempre a Novoli, nel pomeriggio sarà ospitata la parlamentare afgana Malalay Joya. Contemporaneamente a queste iniziative, gli «studenti per la libertà», universitari vicini a Forza Italia, distribuiranno penne per «firmare contro l’occupazione», al motto di «basta giocare, vogliamo studiare».
Studenti medi vestiti a lutto, si sono dati appuntamento invece alle 15 in piazza SS. Annunziata per andare insieme ad assistere alla lezione in piazza Signoria di Margherita Hack, che domani andrà al polo di Sesto. L’appuntamento alle prime ore del pomeriggio non è casuale, visto che da stamattina molti studenti sono tornati tra i banchi. È successo agli allievi del Rodolico, Gramsci, Castelnuovo, Gobetti, Michelangiolo, mentre al Galileo si torna in aula di domani. Continua invece la protesta all’Istituto d’arte, ed è probabile, anche se non confermato, il proseguimento dell’occupazione al Ginori-Conti, Peano, Macchiavelli-Capponi, Alberti e Da Vinci. Occupanti o ex-occupanti, tutti gli studenti medi annunciano comunque nuove iniziative di protesta, anche pomeridiane, tra cui assemblee, cineforum e laboratori di educazione civica autogestiti.

l’Unità Roma 22.10-08
Alla Sapienza quattro facoltà occupate
Nel mirino della protesta la legge 133. Così in 2mila contestano il rettore Frati per la scelta di non fermare l’anno accademico. Poi bloccano Chimica, Scienze Politiche, Fisica e Lettere
di Greta Filippini


Blocco dell’anno a la Sapienza? Il Senato, riunito in seduta straordinaria, ha detto “no”. Ad attendere la presa di posizione istituzionale contro la legge 133, si sono riuniti in 2mila. Studenti provenienti da tutte le facoltà, in piedi sulle scale del rettorato, megafoni alla mano, hanno urlato la loro protesta contro i tagli all’istruzione e la privatizzazione della scuola. «L’Università Spa noi non la vogliamo», hanno scritto gli universitari su uno striscione srotolato per il sit-in. Niente blocco, dunque, ma un’unica giornata di stop alle lezioni, fissata per venerdì 24. La decisione non ha colto di sorpresa gli studenti che, al “totoblocco” davano quasi certo il rifiuto del Rettore Frati e dei colleghi. «Buffoni, buffoni», hanno urlato in coro gli universitari all’annuncio della decisione e subito si sono riuniti in assemblea nelle varie facoltà. In serata, poi, la notizia: occupazione a Chimica e a Scienze Politiche, seguite a ruota da Fisica e Lettere. A nulla è valsa la lettera aperta consegnata in mattinata nelle mani del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in visita alla Sapienza per la cerimonia in onore dello storico Giuliano Procacci. “Ci auguriamo che anche lei decida da che parte stare e non abbandoni a se stessa la scuola”, era l’appello finale contenuto nel comunicato degli studenti. «Con il Presidente abbiamo avuto un colloquio di 20 minuti - ha raccontato Sestili -. Napolitano si è detto preoccupato per le sorti della scuola pubblica e ci ha assicurato che risponderà pubblicamente alla lettera». Oggi, altra giornata calda all’ateneo capitolino. In programma, infatti, l’inaugurazione dell’anno accademico della facoltà di Economia. «Una festa senza brindisi - promette Fabiola -. Apriremo l’anno, portando davanti a presidi, docenti e studenti la criticità di questa legge».
Acque agitate anche all’Università Roma3. Ieri mattina, in 700 hanno partecipato all’assemblea organizzata dagli studenti della facoltà di Lettere e Filosofia per chiedere la sospensione della didattica. Durante l’incontro, una quindicina di ragazzi del Blocco Studentesco, gruppo attivista di estrema destra, hanno preso la parola e sono stati fischiati dagli studenti dei collettivi universitari. Spintoni ed insulti si sono susseguiti da una parte e dall’altra fino all’intervento della Polizia. Fissata per martedì prossimo una nuova assemblea per discutere le ulteriori mobilitazioni.
Assemblee, cortei e occupazioni, ieri, anche in numerosi licei capitolini. Dopo il blocco spontaneo delle lezioni al Liceo Ettore Majorana, in mattinata hanno abbandonato i banchi anche gli studenti del Liceo Scientifico Pasteur. Nel IV Municipio, intanto, i ragazzi della scuola Giordano Bruno si sono aggregati al corteo dell’Istituto Nomentano, che nel primo pomeriggio era stato occupato dal Blocco Studentesco. «Domani saremo ancora qui - hanno dichiarto quelli del Blocco - e non escludiamo di occupare nei prossimi giorni anche il Giordano Bruno».

l’Unità 22.10-08
Il simbolo è ancora oggi quello scelto dagli studenti del ’90. Allora si comunicava con il fax
La Pantera è tornata. E graffia anche su internet
di Fabio Luppino


Introvabile, libera, inafferrabile. È sempre la pantera il simbolo degli studenti in lotta. Un simbolo nato per caso alla fine del 1989: vicino Roma furono segnalati i neri felini perduti e selvaggi. Divennero leggende metropolitane, non furono mai trovati, nessuno si è più curato di loro. La Pantera era il movimento studentesco che occupò pacificamente per tre mesi scuole e università. La Pantera è ancora oggi, se si apre il sito www.uniriot. org.
«Siamo inafferrabili e irrappresentabili», citiamo dal documento principale di Uniriot. Informati su una legge, la 133, che apre la strada alla privatizzazione delle università. Ora, come allora. Internet per evitare di essere rappresentati da altri. Diffidenti con i media. Diciotto anni fa lo strumento era il fax o l’incipit «a titolo personale», per evitare sovraesposizioni non decise democraticamente. Anni novanta: non c’erano i cellulari, comunicazioni digitali. Internet.
La rete oggi è tempo reale. Si parla, si discute con altri e tra il movimento in trasparenza. Quel che è accaduto in ogni luogo è notizia un istante dopo. E così si rinnova l’arte di fare movimento contro «la non misurabilità della produzione di conoscenza», echi di quel passato, padre. Ieri: «Stiamo bloccando l’Italia, non ci fermate più».
Un argine a politiche regressive, confuse. Obiezioni soprattutto concrete di chi sente di perdere occasioni di futuro: culturale, lavorativo. «Non pagheremo noi la crisi», l’attuale parola d’ordine.
I soloni non sono ancora scesi in campo nell’opera di riduzione e sottovalutazione. In diciotto anni è cambiato il mondo: non c’era ancora stata Tangentopoli, in quel tempo dominava il craxismo, il pentapartito, lo yuppismo. La società sembrava immobile e un movimento studentesco era mal tollerato o maldestramente accostato a fenomeni precedenti. E, invece, era ben altro.
Gelmini... I’m coming, sussurra la Pantera su www.uniriot.org

l’Unità 22.10-08
Prof e studenti in piazza, poi i tafferugli
Milano, occupazioni alla Statale. Il corteo devia per un blitz alla stazione Cadorna: la polizia carica, 6 contusi
di Giuseppe Caruso


PROTESTA Parole e manganellate. Le prime pronunciate nell’assemblea mattutina della Statale, le seconde date agli studenti da poliziotti in assetto antisommossa. Manganellate che hanno provocato tre feriti e tre contusi tra i manifestanti che volevano entrare alla stazione ferroviaria di Cadorna.
Quella di ieri è stata una giornata di passione per Milano, che si è trovata, quasi improvvisamente, gettata dentro l’onda della protesta universitaria. Tutto è partito al mattino, dall’aula magna della Statale, dove si sono tenuti gli stati generali dell’Ateneo. Tutto gremito, più di duemila persone tra studenti, rappresentanti sindacali dei lavoratori, docenti e ricercatori.
Microfono aperto dalle dieci del mattino e molta voglia di parlare, tanto che per più di due ore si è andati avanti senza soluzione di continuità. Nel mirino, ovviamente, la riforma voluta dalla Gelmini, definita «sfascia università». In tutti gli interventi il filo conduttore era lo stesso: la mobilitazione generale finirà soltanto quando il governo ritirerà quella proposta di riforma, in caso contrario «si deve andare avanti, senza alcuna esitazione».
A mezzogiorno e mezzo viene deciso di votare una mozione d’ordine per sfilare in corteo fino alla prefettura. Ma si vota anche per occupare le aule delle facoltà, con blocco della didattica e autogestione, e per organizzare comitati che preparino lo sciopero generale dell'università del 14 novembre prossimo e per affiancarsi a quello indetto dai sindacati della scuola, in programma il 30 ottobre. Tutte le proposte passano all’unanimità o quasi.
A mezzogiorno e mezzo, dietro uno striscione che recita «Contro la legge 133 occupiamo l'università. La vostra crisi non la pagheremo noi», si radunano più di mille persone tra studenti, ricercatori e lavoratori dell’università. Si decide che il corteo, non autorizzato, dovrà raggiungere la sede dalla Prefettura, dove ieri era in visita il ministro degli Interni, Roberto Maroni . Dal corteo improvvisato sale alto il coro «La Gelmini non la vogliamo», mentre il traffico del centro va letteralmente in tilt. Paola, una studentessa della Facoltà di Lettere e Filosofia, ci spiega che «il governo non ha ancora capito in che guaio si è andato ad infilare. Non passerà mai la loro idea di privatizzazione dell’università».
In piazza della Scala, davanti alla sede del consiglio comunale, ci sono i primi momenti di tensione, perché la polizia impedisce al corteo di raggiungere la Prefettura. I manifestanti a quel punto decidono di cambiare obbiettivo e si dirigono verso le Ferrovie Nord, in piazza Cadorna. A quel punto si defilano i lavoratori universitari, che poi definiranno il corteo «selvaggio e imprevedibile». L’idea è quella di stendersi sui binari, bloccando il traffico. Ma davanti all’ingresso della stazione trovano ad attenderli gli agenti. Gli studenti provano ad entrare lo stesso, ma partono le manganellate. Lo scontro dura poco più un minuto. Per protestare contro l’aggressione gli studenti improvvisano un sit-in in piazza Cadorna, con tanto di manifestazione pubblica, bloccando la circolazione.

Repubblica 22.10.08
Scuola, cortei e assemblee in tutta Italia scontri a Milano, occupazioni a Roma
In 60 mila sfilano a Firenze. La Gelmini: "So fare autocritica"
A Bologna fumogeni nel rettorato e poi un mini-blocco dei treni
di Roberto Bianchin


MILANO - Si accende la rivolta nelle scuole italiane. Istituti e atenei bloccati, occupati, autogestiti. Assemblee, cortei, lezioni per la strada. Scontri e feriti a Milano. Dilaga in tutto il paese, dalle elementari alle università, la protesta degli studenti, e in alcuni casi anche dei docenti, scesi in piazza insieme ai loro alunni, contro la riforma del ministro dell´istruzione Mariastella Gelmini. Che ora minimizza: «So fare autocritica. Mi va bene il confronto anche quando è aspro. Sono una donna determinata, non una panzer ottusa».
La protesta più dura, finita con un bilancio di tre studenti feriti (due alla testa, uno al volto) e tre contusi, dopo uno scontro con la polizia, è andata in scena a Milano. Erano in duemila ad affollare l´aula magna dell´università Statale per dire no alla legge 133. Al termine dell´assemblea i collettivi studenteschi hanno dato vita a un corteo spontaneo, non autorizzato, che ha attraversato piazza Duomo e si è diretto verso la Prefettura. Ma i manifestanti, che urlavano slogan come «La Gelmini non la vogliamo» e «La vostra crisi non la pagheremo noi», è stato bloccato dalle forze dell´ordine. Allora gli studenti hanno proseguito fino a piazzale Cadorna e hanno cercato di entrare in stazione per bloccare i binari. La polizia li ha respinti con fumogeni e manganelli, sono volati pugni e calci, ci sono stati feriti e contusi. «Abbiamo filmato un carabiniere che ha colpito un ragazzo caduto a terra con un calcio e una manganellata», accusano gli studenti. «E´ stato un assalto alla città», contrattacca il vicesindaco Riccardo De Corato, secondo il quale dietro la protesta «si nasconde un´unica regia, ovvero la longa mano dei centri sociali e di una certa sinistra estrema e radicale».
A Bologna invece i ragazzi dei collettivi universitari, dopo aver fatto irruzione nel rettorato con fumogeni e sacchetti di vernice rossa, mettendo in fuga il rettore, Pier Ugo Calzolari, sono riusciti a entrare in stazione e a bloccare i treni sui primi due binari. A Roma gli studenti della Sapienza hanno occupato quattro facoltà (Lettere, Scienze politiche, Fisica e Chimica) mentre il Senato accademico ha indetto per il 24 ottobre una giornata «di riflessione e mobilitazione» con assemblee in tutte le facoltà, per chiedere «il potenziamento della ricerca, concentrando le risorse sulle università e sui dipartimenti che siano maggiormente in grado di competere a livello internazionale». Nella capitale, assemblee, occupazioni e autogestioni anche nei licei Archimede, Majorana, Pasteur, Bruno, Nomentano, Virgilio, De Chirico, Marco Polo. Un migliaio di studenti in corteo anche a Napoli, dov´è stato occupato il liceo Genovesi, e lezioni sospese all´ateneo di Bari, mentre l´università di Torino è stata listata a lutto.
Ma il corteo più affollato è stato quello di Firenze, 40mila secondo la polizia, 60mila per gli organizzatori. Studenti arrivati da tutta la Toscana, con striscioni del tipo «Gelmini sei, sei, sei rimandata», hanno attraversato la città fino a piazza Santissima Annunziata dove molti ragazzi hanno preso la parola «in difesa dell´istruzione pubblica». A Genova e a Palermo i rettori delle università sono scesi in piazza insieme agli studenti. A Genova hanno fatto lezione all´aperto sui gradini di una chiesa.

Repubblica 22.10.08
Rotondi: "Voglio che ricevano una buona educazione cattolica". Giovanardi: "Purtroppo a Modena il liceo salesiano ha chiuso"
La ministra: "I miei figli a scuola pubblica" ma i suoi colleghi preferiscono il privato
di Carmelo Lopapa


ROMA - Si fa presto a dire scuola pubblica. Ministri e onorevoli poi ci pensano due volte prima spedirvi i propri, di pargoli. Dice: «Voglio avere figli in futuro. E li iscriverò a una scuola pubblica di qualità». Nei giorni dell´assedio, il ministro Mariastella Gelmini decide di giocare la carta dei sentimenti e in un´intervista molto personale al settimanale Donna moderna assicura che, sebbene per adesso solo fidanzata, se e quando avrà figli li manderà negli istituti statali. Ora, si vedrà se l´annuncio-promessa farà cambiare idea al milione e passa di operatori della scuola pubblica che si ritengono vittime dei suoi tagli e della sua riforma.
Quel che è certo è che l´outing sull´istruzione dei figli (potenziali) non è affatto in linea con il trend, diciamo così, dei suoi colleghi di governo. Perché in tanti hanno preferito spedirli dai privati, specie se scuole cattoliche. Chi per le elementari, chi per le medie, chi soprattutto per le superiori. È storia ormai archiviata di quest´estate la bocciatura del maturando Renzo Bossi proveniente dall´istituto religioso e imbattutosi nella commissione inflessibile del liceo scientifico pubblico Bentivoglio di Tradate, salvo ripescaggio dal Tar. «Io li manderei pure nella scuola pubblica - spiega Gianfranco Rotondi, ministro per i Rapporti col Parlamento e padre di tre bimbe - L´anno prossimo Mariangela di 5 anni, la più grande, dovrà iniziare il suo percorso, ma mia moglie teme che nella scuola pubblica difficilmente riceverebbe l´educazione cattolica che io e lei abbiamo ricevuto. Perché, checché ne pensino in Vaticano dopo il mio ddl sulle coppie di fatto, io i precetti della Chiesa faccio di tutto per seguirli». Come d´altronde il sottosegretario alla Presidenza, Carlo Giovanardi, scuole elementari dalle suore della Casa Famiglia di Modena e medie dai Salesiani. Ai suoi tre figli ha fatto frequentare la medesima elementare cattolica. «Ma poi medie e superiori in istituti pubblici, anche perché a Modena i salesiani hanno dovuto chiudere, vittime delle difficoltà che in questo Paese incontrano le scuole cattoliche, col conseguente monopolio e impoverimento della scelta formativa». Pubbliche fino alle medie e poi superiori dai privati per Dario e Pietro, i due figli di 26 e 28 anni del sottosegretario allo Sviluppo economico Adolfo Urso: «Perché sono due modelli validi entrambi. L´importante è che si possa scegliere in base alle proprie esigenze, senza pregiudizi».
Qualche pregiudizio lo ha la senatrice radicale Donatella Poretti. Alice, due anni e mezzo, una battaglia per l´asilo nido a Montecitorio già alle spalle nella passata legislatura, frequenta appunto un nido privato, «ma ho dovuto girare non poco per evitare che finisse in uno gestito dalle suore. Non confessionale ma nel quartiere Prati, purtroppo non in centro dove io lavoro. Sono per il pubblico, ma spesso si è costretti ad altro». «Scuoletta Arcobaleno di impostazione steineriana» (come quelle scelte per i loro figli da Veronica e Silvio Berlusconi), per la piccola dell´ex ministro Pd Giovanna Melandri. Opzione privata, per ora, nel quartiere romano di residenza. All´istituto San Giuseppe vanno da generazioni in famiglia Tajani. Ma Antonio, commissario Ue ai Trasporti, dopo le scuole medie ha spedito il figlio in un liceo statale ai Parioli. Pubblico e solo pubblico per Miranda di 20 anni e Costanza di 15 in casa Finocchiaro. La capogruppo Pd al Senato non ha mai tentennato: «Scelta dettata da tradizione di famiglia».

Repubblica 22.10.08
I ragazzi del 2008 archiviano la kefiah "Basta politica, saremo imprevedibili"
Dietro la vecchia guardia i volti nuovi della protesta anti-tagli
Finita l´era del no logo, tornano i jeans firmati. Sfila anche Carlotta nipote di Cossutta
di Franco Vanni


Milano - «Siete sempre gli stessi, vi conosciamo, preparatevi alle denunce»: il funzionario di polizia urla, sovrasta gli insulti del corteo. Per terra bruciano i candelotti da stadio lanciati dai manifestanti agli agenti, schierati per evitare l´occupazione della stazione di Cadorna. In prima fila, a prendere manganellate, i leader di questa protesta senza nome. Matteo, 23 anni, già nel collettivo che occupò la Statale nel 2005 ai tempi della Moratti ministro. Colpito al volto e medicato in ambulanza. Luca, iscritto a Scienze politiche e animatore dell´assemblea in facoltà. Un taglio al naso e tanta voglia di parlare: «L´episodio di oggi non deve distrarre l´attenzione da quello che sta nascendo - dice tranquillo - la nostra è la protesta di tutti gli studenti, una protesta imprevedibile, che non finirà fino a quando il decreto Gelmini non sarà ritirato».
La polizia li conosce. Sono sempre i soliti. Ma un passo indietro rispetto ai veterani da collettivo ci sono le facce nuove della protesta. Ragazzi che ieri mattina hanno affollato l´aula magna dell´università Statale, per molti la prima assemblea della vita, e che già al pomeriggio hanno conosciuto l´altra faccia della medaglia: i cori cattivi scanditi al megafono e ripetuti in maniera automatica, le manganellate, la paura. Sono ricercatori trentenni «in piazza per non dovere finire a lavorare in azienda» e ragazze fresche di maturità, che mille persone in un´aula non le avevano mai viste. Moderati della Sinistra universitaria e qualche duro, che alle telecamere dei tg urla il suo odio contro i giornali, dicendosi «pronto a occupare la città». Lavoratori precari dell´università «in piazza per difendere il posto di lavoro» e aspiranti filosofi che hanno studiato la riforma dell´istruzione per discuterla in una delle tante assemblee politiche della Statale: Demos, Pantera, Asso. Sigle che fino a un mese fa raccoglievano cinquanta persone in tutto e ora che la protesta monta non hanno più senso: «L´assemblea adesso è in cortile, è alla macchinetta del caffè, è dappertutto», dice Fabio, 21 anni, media del 29 a Fisica e faccia da bambino. «Abbiamo coinvolto anche i lavoratori. Solo insieme possiamo dare forza alla protesta», dice Carlotta Cossutta, nipote dell´ex senatore Armando, al primo anno di Filisofia.
In corteo non sfila nessuna kefiah, si vede qualche sciarpa da stadio. Rare felpe col cappuccio «da tirare su se le cose si mettono male e ci si deve coprire» e fiori nei capelli «perché gli hippie sono l´unica cosa da salvare degli anni Settanta». Oppure, a pensarci meglio, «perché mi piace così». Sparito il look terzomondista da corteo anni Novanta: poncho, Clark´s consumate e abiti a brandelli. Finita anche l´era del No Logo a tutti i costi, tornano i jeans firmati e le felpe streetstyle.
Chi, come il vicesindaco di Milano Riccardo Decorato, ripete fino alla noia che «sono i centri sociali a guidare la protesta» sbaglia mira. I «ragazzi del 2008», aspettando un´etichetta che li definisca, hanno in tasca il libretto universitario. Sono studenti e manifestano contro i tagli nelle università. Per i centri sociali molti di loro sono passati solo per ascoltare musica o non ci hanno mai messo piede. La «vecchia guardia» dell´ultrasinistra, compagine decimata dagli sgomberi e dall´età che avanza, resta a guardare, non capisce, non è roba sua. Gli studenti in protesta si riconoscono «in Roberto Saviano più che in Guevara». Non credono nei partiti, la buona politica «è quella di Emergency e dell´associazione Libera».
Ma ieri hanno provocato la polizia per tutto il giorno e lo sanno. Sono partiti senza autorizzazione per andare in Prefettura, hanno ripiegato su Palazzo Marino, a quel punto hanno scelto Cadorna. Un gioco al gatto e al topo pianificato con scienza. «Vogliamo essere imprevedibili - dice Leon, iscritto a Scienze politiche - faremo occupazioni selvagge, blitz di poche ore e lezioni nelle piazze, non bivacchi di giorni e giorni nelle università». Le hanno prese, ma non si fermano. «Sarò di nuovo in piazza fino a quando l´università non sarà un posto migliore», dice concitata Francesca, 19 anni, occhi blu troppo truccati e sorriso color latte. Non ha più voce. L´ha persa in corteo cantando contro la Gelmini e contro Tremonti, poi contro la polizia.

Corriere della Sera 22.10.08
L'architetto Fuksas: come i ragazzi del '68 hanno capito i veri problemi
di Paolo Conti


ROMA — «Non è un altro '68 perché ogni epoca ha una propria connotazione. Ma il dato in comune con queste proteste, rispetto ad allora, è che tutto comincia dai giovani, dotati di una naturale chiarezza nel comprendere i problemi e nell'intuire l'evoluzione della società. Altro che ragazzi alcolizzati, intontiti dallo sballo. Qui c'è vitalità, capacità di reazione critica». Parola di Massimiliano Fuksas, architetto e urbanista, ai tempi uno dei protagonisti del Sessantotto romano.
Lei valuta positivamente queste proteste, architetto Fuksas.
«Gran parte degli italiani sostengono che la politica non ha più un ruolo, la sfiducia nei partiti di tutti i colori cresce. I giovani danno corpo a una protesta che ignora i discorsi sterili della crisi dell'economia reale. L'aspetto più interessante è che stavolta tutto nasce dall'interno del mondo dell'istruzione, addirittura dalle scuole elementari saldando il disagio di più generazioni: genitori, bambini, insegnanti. Da noi si avverte una gran voglia di privatizzare la scuola in ogni suo ordine e grado. Invece in tutta Europa, dalla Germania alla Francia, la scuola è pubblica».
Come sintetizzerebbe la protesta 2008?
«Io direi, da parte mia: "Il loro futuro è il nostro futuro". Perché la protesta dei giovani ci riguarda direttamente ».
Vede altre differenze rispetto a quarant'anni fa?
«Figuriamoci, noi protestavamo nel '68 per la riforma Gui. Che sicuramente non ci piaceva, ma almeno aveva la dignità di un progetto complessivo. Il piano Gelmini, un ministro che sembra uscito da un cappello a cilindro, significa solo tagli: tempo pieno, università, mondo della ricerca, il precariato».
Come pensa che potrà evolvere questa protesta?
«Fossi nel governo presterei la massima attenzione».
Perché, Fuksas?
«La nostra società è più complessa di ciò che pensiamo. Qui non c'è alcun movimento eversivo ma un malessere "di base" che sta attraversando tutta l'istruzione. Per ora non è un fenomeno di massa. Ma se dovesse saldarsi col disagio sociale più ampio ed esteso che si sta profilando, allora saranno dolori. Potrebbe nascere una protesta ben più complessa e difficile da gestire di quella del nostro '68».

l’Unità 22.10-08
«Gomorra», l’Italia legge alla radio
di Rosella Battisti


RADIO Dai microfoni di «Fahrenheit» a gruppi di tre voci per ore è proseguita la lettura del libro di Saviano condannato dalle cosche. È un paese che non si rassegna...

Un’onda sonora che non si ferma. Già prima delle parole scritte dai Nobel, dell’appello firmato e pubblicato sulla prima pagina dei giornali per sostenere Roberto Saviano, l’autore di Gomorra minacciato di morte dalla criminalità organizzata, sono arrivate le voci dei radioascoltatori. Centinaia di telefonate giunte a Fahrenheit, trasmissione Rai di Radio3, fin da mercoledì scorso - da quando cioè si era già diffusa la notizia della fatwa camorrista lanciata sullo scrittore. Centinaia di richieste per prenotarsi per la lettura integrale del libro-denuncia, del libro che scotta, del libro «proibito» che è andato a frugare tra i miasmi della Campania, ricostruendo con cronaca spietata il volto nuovo delle cosche. Che - come racconta Saviano - non sono più quelle di Raffaele Cutolo e delle logiche mafiose che portarono a far saltare le autostrade e uccidere magistrati, sono totalmente diverse. «Oggi tutto è mutato - sottolinea lo scrittore - tranne gli occhi degli osservatori, esperti e meno esperti». Senza attenzione costante, la camorra è diventata altro e i «calibri di analisi» che la guardano oggi sono «vecchi, vecchissimi», un «cervello ibernato vent’anni fa e scongelato ora». Ecco perché il suo libro, rinforzato dall’eco dello spettacolo teatrale che ne è stato tratto, e ancora più dal film di Matteo Garrone che lo ha portato al festival di Cannes davanti a mezzo mondo e corre per gli Oscar per l’Italia, è diventato scomodo. E il suo autore un importuno da far fuori. Uno sgarbato imperdonabile a cui togliere la vita prima di Natale. Così era stata pronunciata la sentenza, come una pratica da sbrigare, un «pezzo» da fare, un morto cioè da aggiungere alla lista.
È a questo punto che è nata per reazione, invece, inarrestabile e contagiosa, quell’inattesa presa di coscienza collettiva, come l’ha definita un giornalista della Stampa. Un movimento di massa che si fa sotto per leggere pubblicamente Gomorra, pagina dopo pagina. Dai microfoni di Fahrenheit su Radio3, appunto, che ieri pomeriggio la proponeva ieri in una maratona di tre ore, alternando letture di studenti dei licei romani a scrittori come Andrea Camilleri, Dacia Maraini, De Cataldo... L’impiegata venuta apposta da Foggia e un vetraio accanto a conduttori rodati - Lilli Gruber, Enrico Mentana, Bianca Berlinguer. Uno stuolo di attori, da Sonia Bergamasco a Maria Paiato, da Roberto Latini ad Ascanio Celestini. Tutti immersi in un flusso di coscienza civile, unendo idealmente la loro voce a quella di Saviano. Con nome e cognome.
Voci salde, chiare e forti. Messaggeri moltiplicati delle cronache di Gomorra. Marino Sinibaldi regola il flusso delle voci, a tre alla volta, cadenzate dalla musica dei Têtes des Bois che con le loro canzoni testimoniano la solidarietà per Saviano. Concerto etico per un’Italia pronta ad avere e volere una coscienza morale. Si arriva solo fino a pagina 131 ma non importa: non è solo qui l’incontro, le voci si danno appuntamento da un capo all’altro del paese. Si diffondono, passano il testimone come Giovanna Marini che presenzia in radio e poi corre alla Casa della Cultura e della Memoria, sempre a Roma, dove si sta tenendo un’analoga maratona di lettura collettiva. È la riscoperta di un sentire comune, di stringersi attorno a un ideale, condividendone lettura, pensiero ed emozione. Lo si è fatto giorni fa per la Bibbia. A maggior ragione lo si propone e lo si attua per un testo che è la nostra Apocalisse. Qui, oggi, in Italia.

Repubblica 22.10.08
Ogni voce che resiste mi rende meno solo
"Grazie a chi in questi giorni ha sentito che il mio dolore era anche il suo dolore"
di Roberto Saviano


Su Repubblica.it oltre 150mila firme aderiscono altri premi Nobel

Grazie per tutto quanto state facendo. È difficile dimostrare quanto sia importante per me quello che è successo in questi giorni. Quanto mi abbia colpito e rincuorato, commosso e sbalordito sino a lasciarmi quasi senza parole. Non avrei mai immaginato che potesse accadere niente di simile, mai mi sarei sognato una tale reazione a catena di affetto e solidarietà.
Grazie al Presidente della Repubblica, che, come già in passato, mi ha espresso una vicinanza in cui non ho sentito solo l´appoggio della più alta carica di questo paese, ma la sincera partecipazione di un uomo che viene dalla mia terra.
Grazie al presidente del Consiglio e a quei ministri che hanno voluto dimostrarmi la loro solidarietà sottolineando che la mia lotta non dev´essere vista disgiunta dall´operato delle forze che rappresentano lo Stato e anche dall´impegno di tutti coloro che hanno il coraggio di non piegarsi al predominio della criminalità organizzata. Grazie allo sforzo intensificato nel territorio del clan dei Casalesi, con la speranza che si vada avanti sino a quando i due latitanti Michele Zagaria e Antonio Iovine � i boss-manager che investono a Roma come a Parma e Milano � possano essere finalmente arrestati.
Grazie all´opposizione e ai ministri ombra che hanno appoggiato il mio impegno e quanto il governo ha fatto per la mia sicurezza. Scorgendo nella mia lotta una lotta al di là di ogni parte.
Le letture delle mie parole che sono state fatte in questi giorni nelle piazze mi hanno fatto un piacere immenso. Come avrei voluto essere lì, in ogni piazza, ad ascoltare. A vedere ogni viso. A ringraziare ogni persona, a dirgli quanto era importante per me il suo gesto.
Perché ora quelle parole non sono più le mie parole. Hanno smesso di avere un autore, sono divenute la voce di tutti. Un grande, infinito coro che risuona da ogni parte d´Italia. Un libro che ha smesso di essere fatto di carta e di simboli stampati nero su bianco ed è divenuto voce e carne. Grazie a chi ha sentito che il mio dolore era il suo dolore e ha provato a immaginare i morsi della solitudine.
Grazie a tutti coloro che hanno ricordato le persone che vivono nella mia stessa condizione rendendole così un po´ meno sole, un po´ meno invisibili e dimenticate.
Grazie a tutti coloro che mi hanno difeso dalle accuse di aver offeso e diffamato la mia terra e a tutti coloro che mi hanno offerto una casa non facendomi sentire come uno che si è messo nei guai da solo e ora è giusto che si arrangi. Grazie a chi mi ha difeso dall´accusa di essere un fenomeno mediatico, mostrando che i media possono essere utilizzati come strumento per mutare la consapevolezza delle persone e non solo per intrattenere telespettatori.
Grazie alle trasmissioni televisive che hanno dato spazio alla mia vicenda, che hanno fatto luce su quel che accade, grazie ai telegiornali che hanno seguito momento per momento mutando spesso la scaletta solita dando attenzione a storie prima ignorate.
Grazie alle radio che hanno aperto i loro microfoni a dibattiti e commenti, grazie specialmente a Fahrenheit (Radio 3) che ha organizzato una maratona di letture di Gomorra in cui si sono alternati personaggi della cultura, dell´informazione, dello spettacolo e della società civile. Voci che si suturano ad altre voci.
Grazie a chi, in questi giorni, dai quotidiani, alle agenzie stampa, alle testate online, ai blog, ha diffuso notizie e dato spazio a riflessioni e approfondimenti.
Da questo Sud spesso dimenticato si può vedere meglio che altrove quanto i media possano avere talora un ruolo davvero determinante. Grazie per aver permesso, nonostante il solito cinismo degli scettici, che si formasse una nuova sensibilità verso tematiche per troppo tempo relegate ai margini. Perché raccontare significa resistere e resistere significa preparare le condizioni per un cambiamento.
Grazie ai social network Facebook e Myspace, da cui ho ricevuto migliaia di messaggi e gesti di vicinanza, che hanno creato una comunity dove la virtualità era il preludio più immediato per le iniziative poi organizzate in piazza da persone in carne e ossa.
Grazie ai professori delle scuole che hanno parlato con i ragazzi, grazie a tutti coloro che hanno fatto leggere e commentare brani del mio libro in classe. Grazie alle scuole che hanno sentito queste storie le loro storie.
Grazie a tutte le città che mi hanno offerto la cittadinanza onoraria, a queste chiedo di avere altrettanta attenzione a chi concedono gli appalti e a non considerare estranei i loro imprenditori e i loro affari dagli intrecci della criminalità organizzata.
E grazie al mio quotidiano e ai premi Nobel e ai colleghi scrittori di tante nazionalità che hanno scritto e firmato un appello in mio appoggio, scorgendo nella vicenda che mi ha riguardato qualcosa che travalica le problematiche di questo paese e facendomi sentire a pieno titolo un cittadino del mondo.
Eppure Cesare Pavese scrive che "un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c´è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti". Io spesso in questi anni ho pensato che la cosa più dura era che nessuno fosse lì ad aspettarmi. Ora so, grazie alle firme di migliaia di cittadini, che non è più così, che qualcosa di mio è diventato qualcosa di nostro. E che paese non è più - dopo questa esperienza - un´entità geografica, ma che il mio paese è quell´insieme di donne e uomini che hanno deciso di resistere, di mutare e di partecipare, ciascuno facendo bene le cose che sa fare. Grazie.

l’Unità 22.10-08
Con l’Unità un film imperdibile: la vera storia della resistenza ungherese contro Mosca
Nagy, così lo stalinismo uccise il comunismo
di Alberto Crespi


Jan Nowicki è polacco. È uno dei più grandi attori di quel paese, che ha regalato al cinema interpreti e registi (da Polanski a Wajda) in quantità industriale. Ma avendo sposato Marta Meszaros, Nowicki è diventato ungherese d’adozione e negli ultimi anni ha lavorato più in Ungheria che nel suo paese natale. Ha assimilato l’anima, che diciamo?, la fisiognomica ungherese al punto da assomigliare in modo impressionante, nel film L’uomo di Budapest, in edicola da domani con l’Unità, al personaggio storico che interpreta. E che personaggio! Parliamo di Imre Nagy, il grande dirigente comunista nato nel 1896 e morto giustiziato nel 1958, dopo che i sovietici avevano represso nel sangue la rivolta magiara per la democrazia. Una rivolta che avrebbe potuto cambiare la storia del comunismo, dell’Europa dell’Est e del mondo tutto quanto, se da Mosca non fosse arrivato l’ordine di «normalizzare» l’Ungheria con la violenza.
Marta Meszaros, nata a Kispest nel 1931, è una testimone oculare di quei giorni: era già una regista, perché i suoi primi lavori datano al 1955. Quando il cinema ungherese, negli anni ’60, divenne uno dei più innovativi ed importanti d’Europa Marta era in prima fila: come regista in proprio, e come moglie del genio Miklos Jancso. I cineasti di Budapest, in quegli anni, insegnarono a tutti (anche ai sovietici!) uno dei più grandi trucchi della storia del cinema: l’uso della metafora per parlare della realtà. Attraverso i «balletti» e i piani-sequenza dei suoi film più misteriosi, Jancso compose una sottile critica al sistema di potere che i burocrati non comprendevano e che il pubblico capiva, invece, benissimo! Anche Marta realizzò in quegli anni film importanti, ma trovò la sua vena più felice negli anni ’80 con una trilogia autobiografica (Diario per i miei figli, Diario per i miei amori, Diario per mio padre e mia madre) che rimane il suo capolavoro. Anche parlando di sé, la regista parlava dell’Ungheria, della sua storia, delle dinamiche di potere e sopraffazione che hanno insanguinato quel paese e l’hanno reso unico: in Ungheria è inevitabile, anche i film di genere erano riflessioni politiche, e non è azzardato affermare che TUTTI i film ungheresi dal ’56 in poi hanno parlato indirettamente di Imre Nagy e degli altri personaggi (Rakosi, Hegedus, Kadar) succedutisi alla testa del partito.
Nagy era un militante comunista della prima ora. Nell’Armata Rossa era con Jurovskij nel gruppo che eliminò la famiglia dello Zar. Conosceva l’Urss e i sovietici come pochi, aveva visto Stalin in azione e ciò nonostante, o proprio per questo, al ritorno in Ungheria dopo la seconda guerra mondiale divenne un riformatore, e un aspro critico della politica sovietica - prima nel campo agricolo, del quale era responsabile come ministro, poi da segretario generale. Fu l’uomo della rivoluzione del ’56, e divenne una leggenda per tutti coloro - da Dubcek a Gorbaciov - che tentarono di riformare quel mondo. Questo racconta il film di Marta Meszaros, e può farlo senza usare le metafore, facendo nomi e cognomi, mettendo in scena la realtà. Ne è dovuto passare, di tempo…

l’Unità 22.10-08
Marramao: «Il tempo? È triste e senza tempo»
di Beppe Sebaste


PARLA LO STUDIOSO DI FILOSOFIA Si chiama La passione del presente il suo ultimo saggio, che rielabora tutte le sue riflessioni di questi ultimi anni sulla temporalità. La tesi: il senso dell’accadere è svanito, inghiottito dall’«indifferenziazione»

Le vacanze? «Sono come il nostro presente, un misto di agitazione e tristezza, un tempo contratto, frutto di una riduzione del tempo». La politica? «Sembra un retaggio del passato: viviamo una divisione schizoide tra cattiva amministrazione delle cose e antipolitica». Essere up to date «significa cogliere il battito temporale del presente, non la sua faccia effimera, né quella eternizzata, ma l’istante gravido di passato e futuro. In quello stare in bilico stiamo tutti noi...».
Sono scampoli di una conversazione col filosofo Giacomo Marramao, seduti al tavolino di un bar. Di cosa parliamo? Del tempo, naturalmente: il tempo che passa, il tempo che fa. È dedicato al tempo il suo ultimo libro, La passione del presente, due edizioni in tre mesi (assai notevole per un libro di filosofia), non a caso segnalato da Fabio Fazio nella sua trasmissione. Anche un suo libro precedente, Kairós, era sul tempo. Nell’edizione spagnola di quest’ultimo, Marramao precisa ulteriormente il senso e l’etimologia del latino tempus: prima ancora dell’aspetto climatico del tempo («tempesta»), riguarda il suo aspetto «pulsologico»: tempus, tempora, verrebbe da «tempie», cioè dal battito (del cuore) che si percepisce nelle tempie. Lo spunto viene da uno scritto minore di Émile Benveniste, in cui il grande linguista si chiedeva come mai noi neolatini usiamo un solo termine per dire il tempo cronologico e quello atmosferico. Tempus è dunque un’astrazione del verbo «temperare», col senso anche di «tagliare», «mescolare», come si fa col vino.
Ma il tempo della filosofia che viene dai Romani - continua Marramao mentre beviamo il caffé - è sempre «tempo debito», non è mai astratto. «Non è il tempo newtoniano, non è il tempo trascendentale kantiano, e neppure il tempo interiore, ma qualcosa che scandisce il nostro essere-tempo, la nostra esperienza». Così, per esempio, la nostra conversazione ai tavolini di Piazza Farnese, Roma, mentre inquieti guardiamo i piccioni, scandisce il tempo in un certo modo, ci mette in gioco soggettivamente in un certo modo - e se parlassimo d’altro che non di filosofia il ritmo del tempo risulterebbe diverso. Il tempo è il ritmo non interiore, ma della congiuntura, ed è sempre impuro (a differenza che in molti filosofi, come Bergson o Sant’Agostino).
Poi viene immancabilmente il momento in cui due persone al bar parlano dell’oggi. Dico a Giacomo Marramao la mia angosciosa impressione di essere immersi in un presente perpetuo, dove sparisce ogni altra declinazione temporale: come una televisione che non viene mai spenta, di cui è insieme causa ed effetto una certa politica, un certo regime del tempo, la cosiddetta precarietà. «È un tempo doppio, eternizzato ed effimero, ambivalente come il volto di Giano», risponde Marramao. «In questo suo duplice statuto, insieme futile e plumbeo, ci esclude ogni possibilità di fare esperienze. È un tempo della narcosi, della indifferenziazione. L’indifferenza di cui spesso si accusano i ragazzi d’età scolare è l’effetto del sistema tutt’intorno, senza gerarchie né priorità in ciò che accade. Le Twin Towers sono state presto rimpiazzate da avvenimenti frivoli e banali, come l’esclusione della squadra di calcio da un torneo o lo scandalo sessuale di un attore o un’attrice. L’effetto di narcosi, o di ignoranza (è la stessa cosa) è prodotto dall’inflazione di notizie invertebrate, prive di gerarchie di senso. Per neutralizzare il senso non c’è bisogno di grandi strategie: basta alternare notizie importanti con notizie futili».
La passione del presente di Marramao parla anche di questo. È un libro agile e succoso, una circumnavigazione concettuale del presente attraverso una serie di parole chiave, ognuna in grado di offrire una prospettiva totale del presente da una visuale determinata. Un’ontologia del contingente, con un recupero della Storia (attraverso Walter Benjamin e il suo messianismo materialistico), e una lucidità improntata alla passione del disincanto che ricorda l’ultimo Baudrillard. «Sì, è un tentativo di porre le basi di un’ontologia del presente, ma non dell’attualità. Michel Foucault erroneamente li usò come sinonimi, ma il presente attuale mi pare piuttosto prossimo allo scenario descritto da Jean Baudrillard. Il mio studio si occupa della piega inattuale, intempestiva, del presente: dove il contingente è però una modalità ontologica più alta dell’attuale». «Jean Baudrillard, nell’ultima tragica fase del suo pensiero, parlava dell’annullamento dell’esperienza prodotto dal “virtuale”, che espunge il possibile dal reale: la tv perennemente accesa di cui parli tu esclude appunto la facoltà di percepire il possibile, perché il “reale”, cioè lo zapping, satura tutto. Il fatto è, diceva Baudrillard, che il virtuale è la realtà integrale».
Il nostro compito, dice Marramao, sarebbe usare il presente con una sfasatura anticipatrice, vedere i segni dei tempi, lottare contro l’indifferenziazione, l’indiscernibilità tra virtuale ed esperienza effettiva.
Ma è inevitabile che alla fine parliamo di politica, quella che si legge sui giornali. «L’unico tratto che unifica l’attuale temperie in Italia è la propensione malinconica - dice Marramao - come se il futuro fosse davvero alle spalle. E questa sindrome del “futuro passato” e delle “passioni tristi” sembra trovare un ulteriore riscontro nel collasso della finanza globale: che non è affatto una semplice patologia finanziaria separata dall’economia reale ma un venir meno del fattore-fiducia che mina in radice la logica spontanea di un mercato privo di regole. Anche Berlusconi e il Pdl hanno messo da parte la proverbiale attitudine euforica per l’innovazione e sembrano aver abdicato a qualunque idea di futuro e di promessa. È un tempo imploso. E questo per via di un’ossessione per la necessità e l’identità. La realtà obiettiva è vista come un sistema di vincoli necessitanti, i soggetti sono concepiti unicamente come identità rigide. Destra e sinistra sono prigioniere di una sindrome securitaria e identitaria, incapaci di cogliere i veri segni dei tempi - che si possono decifrare solo se spostiamo il fuoco sui soggetti, su noi stessi, su ciò che veramente è cambiato nelle nostre vite». Quanto all’opposizione, «è un arcipelago di isole che non comunicano tra loro, e soprattutto quella di sinistra è in preda a una sindrome fin troppo nota: quanto più è inessenziale, tanto più è fratricida. La fraternité si è trasformata in una fraguernité (rapporto di guerra, guerre)».

l’Unità 22.10-08
Borsa? Sentire il Dott. Marx
di Bruno Gravagnuolo


Lo svarione di Samuelson. Anche al grande Nobel può capitare di dire una sciocchezza: «Marx, Lenin e Stalin erano degli sprovveduti in materia di economia» (Corsera di lunedì). Valga per Lenin e Stalin (benché il primo non fosse così a digiuno). Ma Marx no! È stato il primo a fare un’analisi moderna del modo di produzione capitalistico. E a registrare il nesso logico-storico tra «sistema di mercato» e modo di produzione. E poi Marx, nonché profeta del mondo globale, ha anche descritto in anticipo la crisi ricorrente del «ciclo», su cui oggi tanti pigmei si affannano. Crisi multiple: di realizzo, sovrapproduzione, sottoconsumo, finanziarie, etc. E quanto alla finanza, fu lui a parlare 150 anni fa, di «sistema di truffe e imbrogli». Che distorceva il valore reale a beneficio di una percezione stregata dell’economia. A sua volta gonfiata dal capitale finanziario, da cui l’industria diveniva dipendente nel segno delle grandi Spa, dei manager etc. Fin quando i nodi venivano al pettine... Altro che sprovveduto il Dott. Marx!
E la filippica di Sartori. Che se la prende con gli economisti, sempre sul Corsera. A suo dire incapaci di prevedere crisi e guasti delle «diavolerie finanziarie». Come a dire: viva i politologi, abbasso gli economisti e la loro povera scienza. E invece no. A parte il Paul A. Samuelson di cui sopra (e il Marx di cui sopra...), sono stati in tanti a suonare l’allarme. Con un argomento di fondo: l’economia Usa cresce a debito. A spese del resto del mondo. E delle banche che rastrellano e pompano liquidità sul mercato a beneficio del consumo (a credito). Mentre il deficit federale sale a dismisura... Lo hanno scritto Stieglitz, Sen, Krugman, Gallino, Napoleone Colajanni e tanti altri. Bastava leggerli. Ma il «mood» era un altro. Evidentemente anche per l’ottimo Sartori. Che oggi rampogna e cade dalle nuvole.
Repetita juvant? Quante storie per l’ennesimo libro di V. Farias contro Heidegger, reo di populismo, fascismo, islamismo (!). Giuste le messe a punto di Gnoli e Volpi su Repubblica. Però è roba nota. Heidegger in politica fu un anticapitalista romantico. Ma resta un grande maestro di decostruzione filosofica e analisi dell’esistenza. Punto.

l’Unità 22.10-08
La rivincita di Keynes
di Loretta Napoleoni


L’America ha scoperto un nuovo autore da cassetta, Hyman Minsky, l’economista neo-keynesiano che negli anni Settanta ha sviluppato l’«Ipotesi dell’Instabilità Finanziaria», una teoria che spiega l’attuale crisi del credito. I suoi libri vanno letteralmente a ruba. Tutte le reti televisive vorrebbero intervistarlo, ma nessun giornalista ci riuscirà, Minsky è morto nel 1996, a settantasette anni. La sua teoria può essere riassunta in una frase: se abbandonato a se stesso, il sistema capitalista è endemicamente fragile.
La psicosi dei mercati, insaziabili nonostante le quotidiane e massicce iniezioni di contante (quasi 3 mila miliardi di dollari fino ad oggi), mette a nudo la profonda instabilità di un sistema ormai incapace di gestire se stesso. Ci avviciniamo pericolosamente verso una nazionalizzazione a tappeto, manovra che né i governi né i mercati vogliono. Forse la strategia da seguire è proprio nascosta negli scritti di Minsky, pagine che Gordon Brown sta sicuramente rileggendo. È lui che ha preso le redini del piano di salvataggio del sistema bancario internazionale, un progetto che poggia sull’Ipotesi dell’Instabilità Finanziaria.
Per Minsky a rendere endemicamente fragile il capitalismo è l’accumulazione del debito. Nei periodi di espansione economica sale l’indebitamento. Più ci si indebita più si guadagna e dal momento che l’economia cresce le banche, definite da lui mercanti del debito, sono ben disposte a concedere prestiti. Negli Stati Uniti, fino a un anno fa, bastava avere un lavoro per contrarre un mutuo e comprare una casa. Anche negli anni Venti la crescita economica fu accompagnata dall’ascesa del debito. A ridosso della crisi del ’29 il tasso di crescita dell’indebitamento superava di gran lunga quello della restituzione del debito. È a questo punto che secondo Minsky inizia il preludio della crisi. Nel 2006, negli Stati Uniti, il tasso di crescita della bancarotta personale supera quello del Pil, è però un campanello d’allarme che solo una manciata di operatori finanziari riconosce. Pochi infatti hanno liquidano i pacchetti azionari prima dell’agosto del 2007 quando scoppia la crisi dei mutui americani.
Oggi giorno l’attenzione è però sulla creazione della bolla. Secondo l’economista esistono tre tipi di prestiti. Il primo è quello che copre il rischio, chi lo contrae lo ripaga attraverso i flussi di cassa. È questo il caso di un agricoltore che alla semina contrae un’opzione di acquisto di sementi per proteggersi dalle variazioni del prezzo l’anno dopo. Se esercita l’opzione, paga il prodotto con il ricavato della vendita del raccolto. Poi c’è il prestito speculativo dove si è in grado di pagare solo gli interessi del debito. Alcuni mutui subprime sono strutturati in questo modo, chi li contrare conta di vendere l’abitazione prima che il mutuo maturi a un prezzo più alto del capitale ed estinguere così il mutuo.
L’ultimo gruppo, quello che più interessa Gordon Brown, è il cosidetto prestito Ponzi dove non si dispone di contante per ripagare interessi e capitale. È l’apprezzamento del valore dei beni acquistati indebitandosi che finanzia il debito. Negli anni 20 le società di brokeraggio acquistarono pacchetti azionari grazie alle linee di credito delle banche, ogni volta che il valore delle azioni saliva accendevano altri debiti per comprarne di più. Lo stesso principio ha fatto fallire la Lehman Brother, quando il valore dei mutui in portafoglio ha iniziato a crollare, la banca si è ritrovata con un debito 22 volte più grande del capitale sociale.
La fragilità descritta da Minsky sta nel libero accesso delle banche al prestito Ponzi. Tre istituti di credito islandesi accumulano un debito di circa 61 miliardi di dollari, dodici volte il Pil dell’Islanda. Come ha fatto un Paese con una popolazione di appena 320.000 abitanti, circa la metà dei residenti di Las Vegas, a indebitarsi così tanto? È semplice, dal 2004 al 2008 il valore dei beni in portafoglio, tra cui i mutui americani, si è quintuplicato e le banche lo hanno usato per accendere ulteriori linee di credito. Nell’euforia creata dall’ascesa degli indici di borsa, gli operatori finanziari pompano la bolla invece di prevenire il crollo: si indebitano eccessivamente. L’anno scorso, Merrill Lynch ha pagato un bonus di 15,9 miliardi di dollari contro una perdita di 8 miliardi di dollari. Si pensava di poter coprire la perdita con profitti da record l’anno dopo!
La fragilità del sistema è nella gestione, dunque, ecco perché la proposta di Gordon Brown penalizza gestori e azionisti. Niente dividendi né bonus miliardari fino a quando il debito con lo stato sarà tutto pagato. Ma c’è resistenza e molti liquidano i portafogli e vanno oltreoceano dove le regole sono meno rigide. Per far funzionare il piano tutti devono applicare la linea dura che sicuramente calmerà anche la rabbia del contribuente. Come diceva Keynes: il bravo banchiere non è quello che evita la bancarotta ma quello che quando è rovinato lo è insieme ai suoi clienti, così che nessuno possa attribuirgli la responsabilità dell’accaduto.

Repubblica 22.10.08
Desmond Morris racconta da etologo il mondo del bambino
Perché sanno sorridere i cuccioli dell´uomo
di Desmond Morris


Dallo shock della nascita al tepore del primo abbraccio materno, dal ruolo del Dna nella definizione del carattere, a quello dell´ambiente familiare per stimolare la creatività Dai primi passi al linguaggio del corpo Il grande etologo racconta "il sorprendente viaggio intrapreso" dal cucciolo d´uomo

Sul minuscolo corpicino del bebè gravano milioni di anni di evoluzione umana, che consente alle diverse caratteristiche di svilupparsi. Tutto ciò di cui il piccolo ha bisogno alla nascita è un ambiente accogliente in cui questo possa accadere. L´evoluzione ha dotato il neonato di un fascino irresistibile grazie al quale i genitori non possono fare a meno di occuparsi di lui.

Dal tepore del primo abbraccio al linguaggio del corpo. Il grande etologo in un libro ci guida alla scoperta dell´universo di un neonato

Sul minuscolo corpicino del bebè gravano milioni di anni di evoluzione umana, che consente alle diverse caratteristiche di svilupparsi in una sequenza specifica. Tutto ciò di cui il piccolo ha bisogno alla nascita è un ambiente accogliente in cui questo possa accadere. L´evoluzione ha dotato il neonato di un fascino irresistibile grazie al quale i genitori non possono fare a meno di occuparsi di lui, accudirlo, nutrirlo e mantenerlo pulito e al caldo. Anche gli adulti più distaccati diventano protettivi e premurosi quando si trovano a stringere fra le braccia quella piccola creatura indifesa, che li fissa con occhi grandi e interrogativi.

Ma oltre a questo non bisogna trascurare la quantità di tempo e lo sforzo che vengono profusi per accudire un neonato. Per gli esseri umani diventare genitori comporta un onere enorme, che dura circa una ventina di anni per figlio e che tuttavia può rivelarsi fonte di grandi gioie. E i bambini sono molto più che semplici cuccioli. Rappresentano anche l´unica nostra via per l´immortalità, nel senso che portano avanti la nostra linea genetica, assicurando la sopravvivenza dei nostri geni anche dopo che la nostra vita sarà giunta al termine. I primi due anni di vita sono di importanza fondamentale per il bebè. Molte delle qualità acquisite in questa delicata fase dello sviluppo lo caratterizzeranno per tutta la sua esistenza. Un piccolo a cui venga offerto un ambiente ricco, vario e stimolante in cui sia incoraggiato a esplorare, e che sia trattato amorevolmente da genitori affidabili, ha le opportunità migliori di sviluppare una sana curiosità, un senso di meraviglia creativa e un´intelligenza attiva nella vita futura. La fragile testolina di un neonato è fornita di tutto ciò di cui avrà bisogno nella vita: è un patrimonio che gli è stato trasmesso geneticamente. Tutto quello che i genitori devono fare per lui è offrirgli il terreno adatto in cui questo patrimonio possa entrare in azione, permettendogli di esprimere appieno il suo potenziale umano. Il segreto è semplicemente lasciare che il vostro amore si esprima liberamente per sfruttare al meglio le proprie potenzialità un bambino ha bisogno di molto affetto e di poter fare completo affidamento su chi si prende cura di lui.
I bambini presentano anche notevoli differenze di personalità, alcune delle quali sono innate e non dipendono dalle condizioni ambientali. Quasi tutti i genitori di una prole numerosa potranno testimoniare che, con loro stessa sorpresa, ciascun figlio ha sviluppato una personalità nettamente distinta da quella dei fratelli. Uno sarà tranquillo e placido, l´altro vivace e socievole e un altro ancora diligente e intraprendente. Uno diventerà l´altruista, l´altro il ribelle e l´altro ancora l´intellettuale. E anche se i bambini sono stati allevati più o meno nello stesso modo e in un ambiente domestico simile, mostreranno comunque questa differenza in maniera piuttosto evidente. Le differenze fisiche e caratteriali derivano dal fatto che ognuno di noi possiede un Dna esclusivo ed è geneticamente diverso da tutti gli altri sei miliardi di uomini che vivono sulla Terra. È questo che ci rende così diversi dagli umanoidi prodotti in serie che popolano certi inquietanti romanzi di fantascienza. Ed è questo che rende così varia la vita sul nostro Pianeta. Eppure benché vi siano migliaia di piccoli dettagli che ci rendono diversi l´uno dall´altro, ve ne sono altrettanti che ci accomunano. Alle caratteristiche innate di ogni bambino che si affaccia alla vita si sommano le influenze provenienti dall´ambiente in cui si trova a crescere, in primo luogo la casa dove trascorre la prima infanzia. Tutti i bambini sono geneticamente programmati per svilupparsi più o meno alla stessa velocità, tuttavia una vita familiare serena può consentire di accelerare alcuni di questi processi di crescita, mentre un ambiente ostile o troppo permissivo può rallentarli. Un bambino ha maggiori possibilità di sviluppare le proprie capacità mentali se vive in un mondo ricco di stimoli piuttosto che in un ambiente monotono o rigido.

I primi attimi
L´ambiente in cui il piccolo nasce è tradizionalmente quello dell´ospedale, dove deve regnare l´efficienza e si deve agire con rapidità, rispettando determinate norme igieniche. Il più celermente possibile il personale medico deve recidere il cordone ombelicale ed esaminare il neonato per individuare eventuali problemi; il piccolo viene poi pesato e avvolto in una coperta calda. Per tutti i neonati che nascono in buone condizioni di salute, un´atmosfera più rilassata e calma contribuisce in maniera molto efficace ad attenuare lo shock della nascita. In base a studi e osservazioni recenti è emerso che i neonati risentono del trauma della nascita in maniera nettamente inferiore se ad accoglierli è un ambiente calmo, immerso in una luce soffusa, in cui non vi sono concitazione ed eccessivi rumori. La luce intensa è sicuramente utile nelle fasi decisive del parto, ma dopo che il bimbo è venuto al mondo e tutto è sotto controllo, abbassare l´illuminazione della sala consente ai suoi occhi di adattarsi in maniera graduale alla loro nuova funzione.
Lasciare che il piccolo rimanga a stretto contatto con il corpo materno, anziché prelevarlo ed esaminarlo immediatamente, contribuisce a ridurre considerevolmente il senso di sofferenza dovuto alla perdita dell´avvolgente bozzolo in cui era stato ospitato fino a pochi istanti prima. Adagiato sul corpo della madre, fra le sue braccia, il bebè percepisce una sorta di continuità con la calda intimità corporea che l´ha accompagnato per nove mesi. Il neonato accolto in un´atmosfera ovattata sembra patire meno il passaggio alla nuova vita. Le urla e gli atteggiamenti di panico tendono a placarsi più rapidamente (...) Verrà poi il tempo di recidere il cordone e di prendere il bambino per lavarlo, pesarlo e coprirlo. Ma se avrà avuto la possibilità di trascorrere alcuni minuti di serena tranquillità stretto nell´abbraccio materno vivrà la separazione in modo meno traumatico. Una volta lavato, il neonato dovrebbe tornare subito fra le braccia della madre e nei giorni successivi mamma e figlio dovrebbero essere separati il meno possibile.
Quando il neonato comincia ad alimentarsi al seno in genere chiude gli occhi e si concentra sulle sensazioni piacevoli date dal sapore e dalla deglutizione del latte. Dopo qualche mese apre gli occhi sempre più spesso ed è in questa fase che avviene un cambiamento: il suo sguardo incontra quello della madre, favorendo ulteriormente il consolidamento del legame affettivo fra i due (...) Per le mamme che non possono allattare i propri figli al seno, il latte artificiale costituisce una valida alternativa. Tuttavia non si può dimenticare che l´alimento materno ha attraversato milioni di anni di evoluzione per soddisfare esattamente le necessità del piccolo: oltre a veicolare anticorpi nei primi giorni di vita, è perfettamente bilanciato dal punto di vista nutrizionale. Il contatto corporeo diretto e l´intimità che l´allattamento al seno comporta contribuiscono a cementare il legame madre-bambino.

Scoprire la vita
Nel giorno della nascita i cuccioli di alcuni animali corrono già in lungo e in largo, mentre quello dell´uomo deve attendere diversi mesi prima di adottare qualsiasi forma di locomozione. Le sue capacità motorie si affinano in maniera molto lenta e graduale, in una sequenza stabilita (...) Fra i 5 e gli otto mesi di vita la maggior parte dei bambini impara a gattonare: la prima vera attività motoria che consente di spostarsi in maniera autonoma. Altri metodi più precoci. come il rotolamento o il trascinamento del corpo con le braccia non consentono spostamenti rapidi, ma muoversi sulle "quattro zampe" può risultare sorprendentemente veloce e permette un´esplorazione del mondo circostante del tutto inedita ed eccitante (...) La possibilità di camminare sugli arti inferiori distingue il cucciolo d´uomo da quelli degli altri animali. Attualmente esistono 4000mila specie di mammiferi al mondo, ma solo una di queste è una vera "camminatrice bipede". Il canguro può essere considerato bipede, ma non cammina, salta. Le scimmie antropomorfe e gli orsi possono procedere per qualche passo reggendosi sugli arti inferiori, ma solo gli esseri umani trascorrono quasi l´intera esistenza in posizione eretta ponendo un piede dietro l´altro (...) I cuccioli d´uomo sono gli unici fra i primati a sorridere ai propri genitori, e questo perché fisicamente sono del tutto inermi. Il piccolo di scimmia si tiene stretto alla madre aggrappandosi al suo pelo, quello umano non è in grado di fare altrettanto e ha disperatamente bisogno di trovare una maniera tutta sua per trattenere la mamma: la soluzione è il sorriso. La mamma, infatti, ha una reazione innata verso questa espressione del viso: non può sottrarsi e si sente appagata quando la vede comparire sul volto di suo figlio. In capo ad un anno questi comincerà a pronunciare le prime parole e a utilizzare un nuovo sistema di comunicazione, ma non smetterà certo di sorridere: si tratta di una caratteristica che lo accompagnerà tutta la vita (...)

Lo sviluppo dell´intelligenza
L´intelligenza è stata definita come la capacità di rielaborare esperienze passate per risolvere problemi nuovi. Perciò un neonato senza esperienza del mondo non può essere definito intelligente nel senso stretto del termine. Ma è comunque vigile, reattivo e ansioso di apprendere: è dotato di un cervello straordinario, costituito da 10 miliardi di neuroni e possiede pertanto il potenziale per diventare, con il tempo, molto intelligente (...) Durante la crescita le cellule del cervello di un bambino sono sottoposte ad un´attività molto più intensa rispetto a quelle di un adulto. Si comportano come una carta assorbente, costantemente impegnate ad assimilare qualsiasi frammento di informazione che possa essere in qualche modo utile. Per organizzare questo flusso cognitivo i neuroni comunicano tra loro attraverso speciali connessioni chiamate sinapsi. Nel cervello di un neonato ognuno dei 10 miliardi di neuroni è collegato a circa 2500 sinapsi. A due anni le sinapsi sono 15.000, più di quante ve ne siano nell´adulto. Il fatto è che nel tempo molte connessioni si perdono: quelle utilizzate più spesso si fortificano, mentre quelle "trascurate" si indeboliscono fino a scomparire (...) Anche se i fattori genetici rivestono grande importanza sembra accertato che un ambiente ricco e vario durante l´infanzia assicuri un livello elevato di intelligenza nella vita futura, fornendo al bambino un enorme vantaggio su un coetaneo inserito in un ambiente meno stimolante. Più il piccolo prova nuove esperienze linguistiche, musicali e visive, nonché interazioni sociali, stimoli mentali e attività fisiche, maggiori saranno le sue possibilità di crescere e diventare un adulto vivace, intelligente, sensibile e perspicace. E quanto più la sua vita quotidiana risulta ricca di esperienze ludiche ed esplorative, tanto maggiori saranno le sue possibilità di diventare un adulto creativo e pieno di fantasia (...) Chiunque, che sia genitore o no, osservi attentamente il sorprendente viaggio intrapreso dal neonato che cresce da un piccolo uovo fertilizzato fino a diventare un incantevole e vivace bambino di due anni, non può che provare meraviglia per l´incredibile complessità dello sviluppo dell´essere umano (la forma di vita più straordinaria che abbia mai respirato sul nostro Pianeta). Non è esagerato asserire che il futuro dell´umanità è nelle mani di chi, con amorevole cura, assicura alle future generazioni di bambini, la possibilità di prosperare in un ambiente che assecondi lo svelarsi e il fiorire delle loro strabilianti qualità naturali.

Repubblica 22.10.08
Viaggio intorno a un bambino
Inno alla gioia di uno scrittore disincantato
di Maria Novella De Luca


Un inno alla vita che è anche un inno alla gioia. In tempi avari di bambini, di acrobazie scientifiche per concepirli e di corse ad ostacoli per allevarli, alla soglia degli ottant´anni, Desmond Morris, il più grande etologo vivente, ci racconta perché di fronte a quel "piccolo uovo fertilizzato" che diventa neonato e poi bambino, e un giorno a sorpresa dice ma-ma, pa-pà, dobbiamo ancora e sempre stupirci. Autore disincantato del saggio cult degli anni Sessanta "La scimmia nuda", in cui provocatoriamente affermava che l´uomo altro non è che un primate in crisi e senza pelliccia, Desmond Morris nel saggio "Bebè" torna indietro, al grande mistero della nascita e della prima infanzia.
Con una differenza radicale però. I primi due anni di vita del bambino (sempre inteso come cucciolo d´uomo, spesso confrontato con i cuccioli delle specie animali) sono descritti da un´angolazione diversa, e cioè quella del neonato stesso. Pur basandosi su rigorosi criteri scientifici, ed in particolare sui metodi di osservazione della sua esperienza di zoologo con le scimmie, Desmond Morris descrive nel dettaglio che cosa prova un neonato quando viene tirato fuori dall´utero materno, il suo fastidio alla luce, il suo bisogno di tepore, il suo dolore, anche, quando il cordone ombelicale viene reciso. "Bebè", (in libreria da oggi, edito da De Agostini), spiega lo shock e la magia del venire al mondo, il big bang della vita con gli occhi di un minuscolo essere sul cui corpicino «gravano milioni di anni di evoluzione umana». Molto però si compie in 48 preziosissimi mesi, e infatti il viaggio di Morris tra i cuccioli d´uomo «gli unici primati a sorridere ai propri genitori», dura due anni, quelli in cui tutto si compie, e il magazzino intellettivo ed emotivo del bambino si forma. Scrive l´etologo inglese: «Durante la crescita le cellule del cervello di un bambino sono sottoposte a un´attività molto più intensa rispetto a quella di un adulto, si comportano come una carta assorbente, costantemente impegnata ad assimilare qualsiasi frammento di informazione che possa essere utile».
E infatti, pur coniugando tra similitudini e differenze i piccoli umani ai piccoli animali, spiegando ad esempio che un bebè si diversifica da una scimmia antropomorfa per la sua capacità di raggiungere e mantenere una posizione eretta, Desmond Morris decodifica anche l´universo non scritto degli stati d´animo, dal sorriso alla paura, dal riso al pianto. Se pensiamo che il primo suono che il feto percepisce nel grembo materno è il battito del cuore della madre, e il ritmo che gli giunge è quello del suo ventre mentre cammina, ecco perché molte madri, scrive Morris «nel tentativo di far addormentare i loro piccoli, inconsciamente iniziano a camminare avanti e indietro stringendoli a sé». Un abbraccio ritmico, dolce «che rievoca l´esperienza della vita nell´utero e infonde un senso di tranquillità che concilia il sonno». Al di là poi di ogni teoria evoluzionistica, e del tono provocatorio e ironico di molti dei suoi saggi, dallo "Zoo umano" a "L´animale donna", in "Bebè", Desmond Morris, non solo etologo, ma anche pittore e nonno di tre nipotini, sembra abbandonare vis polemica e battaglie di pensiero. Come quelle che lo contrapposero alla Chiesa, che nel saggio "La scimmia nuda", lo accusarono di aver ignorato l´esistenza dell´anima umana. «Io sostenni - scrive Morris - che la sola speranza di immortalità per gli esseri umani si trovava nei loro organi riproduttivi...».
Una speranza che adesso invece sembra riporre nei più piccoli, ed infatti è all´intelligenza emotiva dei bambini, al loro sviluppo psicologico, che Morris dedica alcuni tra i capitoli più belli di "Bebè". «... E poi c´è il mondo delle relazioni sociali, che devono essere apprese dai genitori. Se il piccolo ha la fortuna di essere molto amato, è assai probabile che diventerà un adulto capace di affetto». Così le paure, alcune delle quali sono codificate da decenni di studi, ma se vengono ignorate potranno poi creare instabilità: dai rumori al timore di cadere, dall´ansia di perdersi all´angoscia del buio e degli sconosciuti, i cuccioli d´uomo piangono e devono trovare un abbraccio che li consoli. Sono gli anni questi in cui i bambini costruiscono le tabe e giocano a nascondersi, per essere, sempre, ritrovati... Alla fine è proprio con un inno alla vita che Desmond Morris conclude il suo viaggio nella prima infanzia: «In un mondo ideale questa fase della vita dovrebbe essere la più idilliaca in assoluto. Dal rapporto intimo con la madre (...) alle prime esplorazioni nel mondo dei giocattoli (...) i bambini fortunati possono entrare nella vita nel modo più soddisfacente e stimolante».

Repubblica 22.10.08
Se la Chiesa ha paura
Perché non piacciono gli studi sul cristianesimo
Gesù diviso tra fede e storia
di Marco Politi


Il Sinodo dei vescovi dedicato alla Bibbia si è aperto con una messa in guardia contro le "analisi unilaterali" cioè contro il metodo storico-critico
La parola d´ordine è il ritorno all´interpretazione spirituale che evita nodi irrisolti
L´inchiesta di Corrado Augias e Remo Cacitti è stata sottoposta a feroci attacchi

Città del Vaticano. Il Sinodo dei vescovi, dedicato alla Bibbia e la missione della Chiesa, si è aperto con una messa in guardia. Va rifiutata, ha detto William Levada prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, ogni interpretazione soggettiva o «frutto di un´analisi unilaterale». Un clima di tensione spesso malsano, ha incalzato il relatore ufficiale cardinale Marc Ouellet del Quebec, si è instaurato tra la teologia universitaria e il magistero ecclesiale. Le scoperte storiche, filosofiche e scientifiche, ha soggiunto, hanno attizzato polemiche. Colpa suprema degli studiosi è l´aver «aumentato il divario tra il Gesù della storia e il Cristo della fede».
Dalle battute iniziali del Sinodo in corso si è compreso che il pontificato ratzingeriano è deciso a dare un giro di vite a oltre un secolo di ricerca teologica basata sul metodo storico-critico.
Perché, più proseguono gli studi più cresce il gap tra l´immagine di Gesù dei catechismi tradizionali e la realtà complessa degli eventi relativi alla sua predicazione e alla sua eredità. Lo stesso terremoto ha investito l´Antico Testamento. Si sa ormai che la Terra Promessa non è mai stata conquistata da Giosuè così com´è descritto nella Bibbia né gli ebrei sono stati monoteisti dall´inizio.
La Chiesa ha paura. E´ allarmata che sotto l´influsso dei mass media entrino in circolazione acquisizioni che per decenni sono rimaste limitate ai circoli accademici. Tutti gli addetti ai lavori sanno che la famosa frase, che campeggia sotto la cupola della basilica vaticana «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa», è una frase tardiva e comunque non preannuncia né il papato onnipotente e teocratico come si è strutturato da Gregorio VII e Innocenzo III in poi né tantomeno prefigura la Chiesa-istituzione formatasi secoli dopo la crocifissione. Chi setaccia le opere degli specialisti tutto questo tra le pieghe lo trova, ma un conto è dirlo al riparo di volumi ponderosi un conto è portarlo in pubblico. C´è voluto Giovanni Paolo II per informare ufficialmente i fedeli che Natale non è affatto il giorno di nascita di Gesù, ma nell´antica Roma era il «giorno natale del Sole». E sempre Wojtyla ha spiegato con delicatezza che la tradizione ortodossa della Dormizione di Maria era legittima. Senza bisogno - si può aggiungere - di immaginarsi un´Assunzione come se la Madonna salisse in cielo su un immaginario ascensore.
«La Chiesa si è spaventata degli studi esegetici di carattere storico - commenta il professor Mauro Pesce, che con Corrado Augias ha pubblicato nel 2006 il bestseller Inchiesta su Gesù - e teme che mettano in pericolo la fede della gente». Al Sinodo la parola d´ordine è il ritorno all´interpretazione «spirituale».
Certo un approccio possibile e anche giusto dal punto di vista religioso, ma che non può rimuovere i nodi che la ricerca storica ha portato alla luce. I nodi stanno lì. Aggrovigliati. Difficili a sciogliersi. E sono almeno cinque. Il parto verginale di Maria ha un sapore mitologico: lo sapeva bene Joseph Ratzinger quando era ancora un teologo senza porpora cardinalizia e scriveva nel suo libro Introduzione al cristianesimo (pubblicato in Italia dalla Queriniana nel 1969) che «la dottrina affermante la divinità di Gesù non verrebbe minimamente inficiata, quand´anche Gesù fosse nato da un normale matrimonio umano. No, perché la filiazione divina di cui parla la fede, non è un fatto biologico bensì ontologico». E se i Vangeli riferiscono dei fratelli di Gesù ed è stiracchiato voler piegare la parola a «cugini».
Gesù non ha mai predicato la sua divinità. Si è sentito umano sino in fondo come emerge dal grido disperato sulla croce «Dio mio, perché mi hai abbandonato». Gesù, inserito nel clima apocalittico dell´ebraismo a lui contemporaneo, ha preannunciato un suo «ritorno» imminente che non è avvenuto. La Trinità è un´elaborazione teologica del cristianesimo, inconcepibile per l´ebraismo in cui è nato Cristo. La Chiesa non era sin dall´inizio nella mente di Cristo, ma è il prodotto di trasformazioni storiche. Affascinanti, straordinarie, ma umane.
Tutto ciò che la storia ha portato alla luce, demitizzando, in realtà non incrina quell´impulso indescrivibile che è il rapporto con il Mistero-oltre-l´uomo e oltre la realtà tangibile: chiamiamola fede. Ma può mettere in crisi l´istituzione e le autorità che si ritengono infallibilmente preposte ad annunciare la Verità. Il problema alla fine è l´origine trascendente dell´istituzione ecclesiastica. «Gesù mette in crisi l´assetto della Chiesa attuale, ma succede sempre così quando si va direttamente alla Bibbia», soggiunge lo storico Pesce. Per l´istituzione ecclesiastica è difficile spiegare l´evoluzione da Gesù al cristianesimo antico fino alla Chiesa attuale.
Con lo storico Remo Cacitti, Corrado Augias ha pubblicato recentemente un altro libro Inchiesta sul cristianesimo, sottotitolato provocatoriamente «Come si costruisce una religione». L´Avvenire, il giornale dei vescovi, lo ha criticato.
Ma c´è stato un risvolto curioso. Una prima volta è stata pubblicata una recensione di normale critica. Appena il libro ha avuto successo, l´Avvenire è tornato sull´argomento con una pagina di feroce attacco. Il problema, naturalmente, non è Augias che viene difeso dai lettori che comprano i suoi libri. La questione è la virulenza della reazione, appena una serie di dati storici viene portata in pubblico. «Con papa Ratzinger - ne è convinto lo storico Giovanni Filoramo - stiamo assistendo ad un ritorno alla tradizione, lo si vede anche dal suo discorso su Pio XII. Già prima dell´elezione papale Ratzinger contestava l´esegesi storico-critica. La domanda è se, come ha fatto nel suo libro su Gesù, si limiti a proporre un´interpretazione alternativa o se la sua linea mette in discussione la libertà di coscienza e di ricerca degli studiosi cattolici». Nelle facoltà pontificie, continua Filoramo, si avverte la difficoltà degli esegeti ad esprimersi con piena libertà. Una prima risposta viene direttamente da Benedetto XVI.
Intervenendo a braccio al Sinodo, il Papa ha reso omaggio al metodo storico-critico per i suoi contributi di «altissimo livello», che aiutano a capire che il «testo sacro non è mitologia». Ma poi ha evocato i rischi di un´interpretazione positivista o secolarista, che non offre spazio all´apparizione del divino nella storia. Al Sinodo il pontefice è già stato invitato a scrivere un´enciclica sull´interpretazione biblica. Con gli esiti che si possono immaginare.
«La grande preoccupazione della Chiesa - dice il professor Cacitti - è di mantenere il controllo sulla ricerca scientifica per paura che vi siano esiti difformi dal dogma».
Pesce ricorda un episodio molto istruttivo. «Paolo VI aveva chiesto alla Commissione biblica di fare uno studio per vedere se nelle Scritture c´erano ostacoli al sacerdozio delle donne». La conclusione delle ricerche? «La Commissione affermò che non c´erano argomenti di carattere biblico che facessero da impedimento al sacerdozio femminile. Il testo non fu pubblicato. Paolo VI escluse poi ufficialmente ogni possibilità».
Che vi siano stati dei veri e propri salti nella costruzione della Chiesa lo dimostra la vicenda del grande scrittore cristiano Lattanzio. Prima dell´editto di Costantino Lattanzio è violentemente anti-imperiale e totalmente contrario al servizio militare. Appena il cristianesimo diventa religione ufficiale, cambia linea e scrive che la guerra per la patria romana «bonum est».

Repubblica 22.10.08
La perdita delle certezze e l´ideologia del berlusconismo
L’Italia nostalgica di Peppone e don Camillo
di Curzio Maltese


Di fronte alle nuove sfide il paese ha scelto la paura del futuro, l´illusione di poter rimandare all´infinito l´impatto con la globalizzazione

Plitica format, xenofobia, anticomunismo in morte del comunismo, revisionismo, voglia di autarchia, semplificazione dei linguaggi, gerontocrazia, ritorno a dio-patria-famiglia, critica del mercato, paura dell´altro, di tutti, di tutto. C´è un filo rosso che lega questi fenomeni e li fonde nella lingua del berlusconismo, ormai l´ideologia italiana. È la paura del futuro. Paura del mondo fuori che si muove e non sta fermo mai. Si può essere contro la globalizzazione? È come essere contro la scoperta dell´America o contro la scoperta che la terra gira intorno al sole. Ma è già successo. L´Italia è stata "contro" la scoperta dell´America, pure compiuta da italiani, e ha processato Galileo. Con la Controriforma è corsa in braccio al passato invece di affrontare il futuro e ha pagato con due secoli di decadenza. Da vent´anni il Paese è in preda a un panico che si dirige di volta in volta contro obiettivi "alla moda". Cento alibi per declinare una paura sola, quella della globalizzazione, cui il berlusconismo ha dato la forma compiuta di un´ideologia.
È facile comprenderne le origini. Poche nazioni hanno perso, tutte insieme, tante certezze. Con la caduta del Muro di Berlino, in Italia si sono sciolti vincoli interni ed esterni che avevano retto per mezzo secolo la crescita del paese. Eravamo la più protetta delle potenze occidentali, la più stabile politicamente, la meno esposta ai rischi della concorrenza internazionale, l´unica immune dalla mina sociale delle migrazioni, risolte con la deportazione interna. Di colpo ci siamo trovati da solida «portaerei americana nel Mediterraneo» a navicella allo sbando fra Europa e Africa. Una nave oltretutto carica di zavorre che rendono problematica la competizione: poche e vecchie infrastrutture, ritardo tecnologico, bassa scolarizzazione, un immenso debito pubblico, fragilità della grande impresa, incapacità di attrarre capitali stranieri, scarsa meritocrazia, natalità zero.
È vero che nella sfida globale si sarebbe potuto puntare sulle molte eccellenze: il prestigio del «made in Italy», la formidabile rete di piccole e medie imprese, la massa di risparmio, il rilancio del ruolo nel Mediterraneo e la più straordinaria dote di paesaggi e ricchezze artistiche del pianeta. Si trattava di fare una scelta fra sfida e paura. Alla fine l´Italia ha scelto la paura. Nell´analisi che Berselli fa della politica format berlusconiana c´è tutto, tranne forse un aggettivo: vecchio. È un format vecchio, con risposte e linguaggi tutti rivolti al passato.
In questi giorni di grave crisi dei mercati internazionali, il format dà il suo meglio. L´Italia è l´unico paese occidentale dove la crisi accresce i consensi del governo. Perché il governo, guidato dai no global Berlusconi e Tremonti, ha buon gioco nell´esaltare di fronte al cataclisma i paradossali vantaggi dell´arretratezza del sistema nazione, l´autarchia della finanza e delle banche, la chiusura ai capitali stranieri. Quando la crisi passerà, si aprirà una seconda e probabilmente più estesa fase di internazionalizzazione. Ma intanto l´italiano medio, come in un racconto di Kafka, aspetta alla finestra il messaggio dell´imperatore e si consola.
La vernice di modernità con cui Berlusconi ha presentato la sua discesa in campo nel ‘94 non deve ingannare. A rivedere oggi, a distanza di quindici anni, quel messaggio filmato, si può cogliere bene come l´intero immaginario visivo, politico, antropologico del berlusconismo trovasse le sue radici negli anni Cinquanta. Il ricco commendatore brianzolo, dotato di un patriottismo di maniera ultra retorico, col mito americano del self made man, l´anticomunismo viscerale, il qualunquismo spudorato, il doppiopetto e la Dolce Vita, la bella moglie attrice e la villona alle spalle. Era fin dal principio uno stereotipo da commedia all´italiana, un rimando all´Italia pre-sessantottina. Molto più che pre-sessantottina. Era la nostalgia dell´Italia di Peppone e Don Camillo, non a caso la serie cinematografica preferita dal leader, strapaesana e arcitaliana.
Non c´è alcuna novità linguistica nel berlusconismo. Negli slogan, nella lingua semplificata e tanto invidiata dalla sinistra in quanto «moderna», nel buonsensimo reazionario che Berlusconi in prima persona e la sua corte giornalistica e televisiva spargono nel Paese da quindici anni si possono rintracciare tutti, ma proprio tutti, i luoghi comuni, le formule della vecchia stampa reazionaria, la raccolta completa de Il Borghese, gli articoli di Giovannino Guareschi, gli slogan di Giannini. L´epos berlusconiano ruota da sempre intorno al 1948, l´anno più citato nei discorsi del premier, l´anno dello scontro fatidico fra comunismo e anticomunismo. L´anno del «piano Marshall», che Berlusconi ossessivamente ripropone da quindici anni nei vertici internazionali come panacea di tutti i mali, dal conflitto israelo-palestinese alla crisi dei mutui. Le ultime posizioni del governo, favorevole ai tagli sull´ambiente e la scuola, sono un´altra controtendenza rispetto al resto del mondo. In tutte le democrazie occidentali i premier promettono (anche se non mantengono) d´investire di più in difesa dell´ambiente, ricerca di fonti alternative d´energia e istruzione. Qui come altrove, osserva lo scrittore Rifkin, «Berlusconi rivela una concezione archeologica della produzione industriale». Ancora più arretrata è la concezione dello Stato. Il ritorno all´intervento pubblico è caldeggiato soltanto nella versione di aiuti di stato alle imprese. È uno stato sociale senza società: meno scuola, meno sanità, ma più incentivi alle aziende, rottamazioni, fondi pubblici per le banche. È un salto all´indietro dallo stato sociale del ‘900 all´ottocentesco «comitato d´affari della borghesia».
D´altra parte la stessa carriera di imprenditore televisivo di Berlusconi era fondata su un´abile riverniciatura di stereotipi. L´epopea di Canale 5 è stata in definitiva un allargamento a dismisura di Carosello e una cooptazione in massa di pensionati Rai, da Mike Bongiorno a Corrado a Emilio Fede, più la pioggia di vecchi film italiani e telefilm americani. Una vetero tv generalista che non riuscirà infatti mai a sbarcare nel resto d´Europa. Berlusconi rimane l´unico fra i grandi imprenditori mondiali di questi ultimi trent´anni a disporre di un impero autarchico. E´ l´eroe di un capitalismo che funziona in un paese solo.
Eppur l´Italia si muove, Il ruolo dell´ideologia italiana diventa dunque di combattere le novità, soprattutto se positive. A cominciare dall´immigrazione, di gran lunga il fattore economico più positivo di questi quindici anni. Senza gli immigrati, saremmo in recessione da dieci anni. Altre novità positive dell´epoca sono l´integrazione europea, l´abolizione degli aiuti di stato, l´arrivo di capitali stranieri, l´accresciuta sensibilità ai temi dell´ambiente e dell´investimento in ricerca e istruzione. Insomma l´apertura al mondo, tanto più necessaria in un paese dove l´indice di internazionalità è perfino più bassa che in Portogallo e Grecia.
Su tutti questi fronti decisivi per la conquista di un futuro migliore, il berlusconismo conduce una furibonda battaglia, nel nome di un´italianità retorica che cela gli interessi di un´oligarchia. Con grande successo, per ora, nonostante le contraddizioni. Smessi i panni del modernizzatore, Berlusconi ha vestito quelli del Grande Rassicuratore, come lo chiama Ilvo Diamanti. Un esempio per tutti, la scuola, dove si è passati dalle velleità delle tre «i», Internet, inglese e impresa, alla certezza del ritorno al grembiule, alla maestra unica e al cinque in condotta. Il premier, con i suoi lifting, trapianti, leggende sessuali e puntate in discoteca a settant´anni, è ormai l´incarnazione di un paese in piena sindrome di Dorian Gray. Fra qualche anno, quando arriverà il conto di questa mediocre utopia, i discorsi di oggi ci sembreranno ridicoli e assurdi come la pretesa d´ignorare la scoperta dell´America. Oppure, per rimanere vicini, come le sballate profezie dei neocons di Bush. La questione è: non sarà troppo tardi?
Nel dibattito "Politica Format" sono intervenuti su queste pagine Edmondo Berselli (18/9), Michele Serra (24/9), Marino Niola (24/9), Giuseppe D´Avanzo (11/10)

l'Unità Lettere 20.10.08
I soliti vecchi imbrogli
di Fabio Della Pergola


Cara Direttrice,
oggi è domenica e pigramente posso leggere un po’ di giornali, con calma. Ma subito sobbalzo: su Repubblica il Ministro Gelmini dice "noi abbiamo così a cuore i bisogni della gente che sembriamo un governo di sinistra". Ohibò! Sorridendo passo al Domenicale del Sole 24 ore e Gianfranco Ravasi mi informa che attraverso l’idea di Incarnazione (quella del Cristo per intendersi) che "trascina con sé l’esaltazione del corpo" (sic!) la Cristianità non si è mai macchiata di oppressione sessuale; solo luoghi comuni, stereotipi. Complice la calda giornata primaverile e una birra fresca mi cullo nell’illusione: la sinistra è al governo e si preoccupa dei nostri bisogni materiali e la Cristianità non ha mai devastato la sessualità umana negli ultimi venti secoli; anche le esigenze umane più profonde sono salve. Che giornata meravigliosa! Che felicità ! Poi la (leggera) ubriacatura piano piano sfuma ed il sole tramonta. Era un sogno, mi accorgo, un’illusione; o forse, sono imbrogli, i soliti vecchi imbrogli...
Fabio Della Pergola

Corriere della Sera 22.10.08
Anticipazione Il libro di Calasso dedicato al poeta dei «Fleurs du mal»
Opera Un altro tassello del retablo iniziato con «La rovina di Kasch»
Charles Baudelaire la metafisica di un peccatore
Dal dagherrotipo del dipinto (perduto) di Ingres agli incontri clandestini con la madre: il genio che rivoluzionò Parigi
di Roberto Calasso


Inclinazioni
La potenza del poeta risiede nella sua sensibilità, nella capacità di cogliere tutto ciò che appare, che è nuovo, che sfugge

Proponeva alla madre Caroline incontri clandestini al Louvre: «Non c'è posto a Parigi dove si possa chiacchierare meglio; è riscaldato, si può rimanere in attesa senza annoiarsi, e d'altra parte per una donna è il luogo d'incontro più decente».
La paura del freddo, il terrore della noia, la madre trattata come un'amante, la clandestinità e la decenza congiunte nel luogo dell'arte: soltanto Baudelaire poteva combinare questi elementi quasi senza accorgersene, con piena naturalezza.
Era un invito irresistibile, che si estende a chiunque lo legga. E chiunque potrà rispondergli vagando in Baudelaire come in uno dei Salons di cui ha scritto — o anche in una Esposizione Universale. Trovandovi di tutto, il memorabile e l'effimero, il sublime e la paccottiglia; e passando continuamente da una sala all'altra. Ma se allora il fluido unificante era l'impura aria del tempo, ora lo sarà una nube oppiacea, in cui nascondersi e corroborarsi prima di tornare all'aperto, nelle vaste distese, letali e pullulanti, del secolo ventunesimo.
«Tutto ciò che non è immediato è nullo» (Cioran, una volta, parlando). Pur non facendo alcuna concessione al culto dell'espressione brada, Baudelaire ha avuto come rari altri il dono dell'immediatezza, la capacità di lasciar filtrare parole che subito scorrono nella circolazione mentale di chi le incontra e vi rimangono, talvolta allo stato latente, finché un giorno tornano a risuonare intatte, dolorose e incantate. «A bassa voce, ora conversa con ciascuno di noi» scrisse Gide nella sua introduzione alle Fleurs du mal del 1917. Frase che deve aver colpito Benjamin, se la troviamo isolata nei materiali per il libro sui passages.
C'è qualcosa in Baudelaire (come poi in Nietzsche) di così intimo da annidarsi in quella foresta che è la psiche di chiunque, senza più uscirne. È una voce «smorzata come il rumore delle carrozze nella notte dei
boudoirs ovattati», dice Barrès, ricalcando le parole di un occulto suggeritore che è Baudelaire stesso: «Non si sente altro che il rumore di qualche fiacre attardato e sfibrato». È un tono che sorprende «come una parola detta in un orecchio in un momento in cui non la si aspettava», secondo Rivière. Negli anni intorno alla prima guerra mondiale quella parola sembrava essere diventata un ospite indispensabile. Rintoccava in un cervello febbricitante, mentre Proust scriveva il suo saggio su Baudelaire inanellando citazioni a memoria come fossero filastrocche infantili.
Per chi è avvolto e quasi intormentito dalla desolazione e dalla spossatezza, è difficile trovare di meglio che aprire una pagina di Baudelaire. Prosa, poesia, poemetti in prosa, lettere, frammenti: tutto va bene. Ma, se possibile, prosa. E, nella prosa, quella sui pittori. Talvolta su pittori oggi ignoti, dei quali ormai si conoscono soltanto il nome e le poche parole che Baudelaire gli ha dedicato. Lo osserviamo nella sua flânerie, mescolato a una folla sciamante — e abbiamo l'impressione che un nuovo sistema nervoso si stia sovrapponendo al nostro e lo sottoponga a frequenti, minime scosse e trafitture. Così un sensorio torpido e arido viene costretto a risvegliarsi.
C'è un'onda Baudelaire che attraversa tutto. Ha origine prima di lui e si propaga di là da ogni ostacolo. Fra i picchi e i cavi di quell'onda si riconoscono Chateaubriand, Stendhal, Ingres, Delacroix, Sainte-Beuve, Nietzsche, Flaubert, Manet, Degas, Rimbaud, Lautréamont, Mallarmé, Laforgue, Proust e altri, come se da quell'onda fossero investiti e per qualche momento sommersi. O come se fossero loro a urtare l'onda. Spinte che si incrociano, divergono, si diramano. Risucchi, gorghi improvvisi. Poi il corso riprende. L'onda continua a viaggiare, punta sempre verso il «fondo dell'Ignoto» da cui proveniva.
Sentimento di gratitudine e di esultanza, quando si leggono queste righe di Baudelaire su Millet: «Lo stile gli porta male. I suoi contadini sono dei pedanti che hanno un'opinione troppo alta di se stessi. Esibiscono una specie di abbrutimento tetro e fatale che mi fa venire voglia di odiarli. Che si dedichino al raccolto o alla semina, che pascolino le mucche o tosino gli animali, hanno sempre l'aria di dire: "Però siamo noi, poveri diseredati di questo mondo, a fecondarlo! Noi compiamo una missione, esercitiamo un sacerdozio!"».
Il pubblico circolava nei Salons provvisto di un libretto che indicava il soggetto dei singoli quadri. Giudicare un quadro consisteva nel valutare l'adeguatezza della rappresentazione visiva all'argomento illustrato. Che generalmente era storico (o mitologico). Per il resto paesaggi, ritratti o quadri di genere. Il nudo si insinuava sfruttando qualsiasi opportunità offerta da episodi mitologici o storici o biblici (così la Esther di Chassériau, archetipo regale di ogni pin-up).
O altrimenti era protetto dall'etichetta del genere orientalista. Baudelaire osservò un giorno due soldati che visitavano il Salon. Erano in «contemplazione perplessa davanti a un interno di cucina: "Ma allora dov'è Napoleone?" diceva uno (il catalogo si era sbagliato di numero, e la cucina era contrassegnata dalla cifra che corrispondeva legittimamente a una battaglia celebre). "Imbecille!" disse l'altro "non vedi che preparano la minestra per il suo ritorno?". E se ne andarono contenti del pittore e contenti di se stessi». Nel momento in cui appare la fotografia — e il mondo si apprestava a riprodursi indefinite volte più del consueto —, già era pronta ad accoglierla una concupiscentia oculorum in cui alcuni esseri si riconoscevano con la complicità immediata dei perversi. «Questo peccato è il nostro peccato... Mai occhio fu più avido del nostro » precisò Gautier. E la voce di Baudelaire si confondeva con la sua: «giovanissimi, i miei occhi colmi di immagini dipinte o incise non avevano mai potuto saziarsi, e credo che i mondi potrebbero finire, impavidum ferient, prima che io diventi iconoclasta». Invece si era formata una piccola tribù di iconolatri. Che esploravano i meandri delle grandi città, immergendosi nelle «delizie del caos e dell'immensità», traboccanti di simulacri.
L'avidità degli occhi, nutrita dagli innumerevoli oggetti d'arte setacciati e scrutati, fu uno stimolo potente per la prosa di Baudelaire. Addestrava la sua penna a «lottare contro le rappresentazioni plastiche». Ed era una hypnerotomachia,
una «lotta d'amore in sogno», più che una guerra. Baudelaire non si appassionava a inventare dal nulla. Sempre aveva bisogno di elaborare un materiale preesistente, un qualche fantasma intravisto in una galleria o in un libro o per la strada, come se la scrittura fosse innanzitutto un'opera di trasposizione da un registro all'altro delle forme. Così sono nate alcune delle sue frasi perfette, che si lasciano contemplare a lungo, e lasciano dimenticare presto che potevano anche essere la descrizione di un acquerello: «La carrozza porta via al gran trotto, in un viale zebrato d'ombra e di luce, le bellezze adagiate come in una navicella, indolenti, mentre ascoltano vagamente le galanterie che cadono nel loro orecchio e si abbandonano con pigrizia al vento della passeggiata». Ben poco potrà cogliere di Baudelaire chi non partecipi in qualche misura alla sua unica devozione, che è rivolta alle immagini. Se una sua confessione va intesa alla lettera, e in tutte le sue conseguenze, è quella che si dichiara in una frase di Mon coeur mis à nu:
«Glorificare il culto delle immagini (la mia grande, la mia unica, la mia primitiva passione)».
Quando Baudelaire entrò nel paesaggio della poesia francese, i punti cardinali si chiamavano Hugo, Lamartine, Musset, Vigny. Ogni posizione poteva essere definita in rapporto a loro. Ovunque si guardasse, lo spazio era già occupato, osservò SainteBeuve. Ma soltanto in orizzontale. Baudelaire scelse la verticalità. Occorreva immettere nella lingua una stilla di metafisica, che sino allora mancava. E Baudelaire la secerneva in sé, ben prima di incontrare Poe e Joseph de Maistre, che gli insegnarono a pensare, per suo riconoscimento. Come John Donne, Baudelaire era un poeta naturalmente metafisico. Non già perché frequentasse molto i filosofi (nel complesso li ignorava). Né perché fosse incline a costruire audaci speculazioni, se non per sprazzi e accessi, che si bruciavano in poche righe, per lo più in scritti con destinazione giornalistica. Baudelaire aveva qualcosa di cui erano sprovvisti i suoi contemporanei parigini — e che mancava persino a Chateaubriand: l'antenna metafisica. Quando Nietzsche scriveva che Baudelaire era «già totalmente tedesco, a parte una certa morbosità ipererotica, che sa di Parigi », intendeva questo. Gli altri, intorno a lui, potevano anche avere prodigiose doti inventive, come Hugo. Baudelaire aveva la capacità folgorante di percepire ciò che è. Come John Donne, di qualsiasi cosa scrivesse, faceva risuonare nel suo verso, nella sua prosa, una vibrazione che invadeva ogni angolo — e presto spariva. Preliminare a ogni pensiero, metafisica è in Baudelaire la sensazione, la pura apprensione dell'istante, la congenita inclinazione a sorprendersi in certe occasioni in cui la vita, come srotolando un lungo tappeto, rivela la profondità indefinita dei suoi piani. E questo può anche aiutare a spiegare l'intatta potenza totemica di Baudelaire di fronte a ciò che appare, che è nuovo, che sfugge. Centocinquant'anni non sono bastati per attenuare quel potere. E nessun altro scrittore del tempo è ancora in grado di esercitarlo. È un fatto che non riguarda la potenza o la perfezione della forma. Riguarda la sensibilità. Nel senso preciso che Baudelaire dava alla parola («Non disprezzate la sensibilità di nessuno. La sensibilità di ciascuno è il suo genio»). Una volta sfilata quella camicia di forza che è qualsiasi sistema, che cosa sarebbe accaduto? Baudelaire lo descrisse partendo dall'ironia e approdando alla massima gravità: «Condannato di continuo all'umiliazione di una nuova conversione, ho preso una grande decisione. Per sfuggire all'orrore di queste apostasie filosofiche, mi sono orgogliosamente rassegnato alla modestia: mi sono accontentato di sentire; sono tornato a cercare un asilo nell'impeccabile ingenuità». Rare volte Baudelaire aveva rivelato altrettanto di sé. «Mi sono accontentato di sentire»: potrebbe essere il suo motto — e anche la spiegazione di quel senso di indubitabilità che spesso promana dalle sue parole.
© Roberto Calasso Charles Baudelaire in una fotografia di Nadar (pseudonimo di Gaspard-Félix Tournachon, 1820-1910). Il poeta nacque a Parigi nel 1821 e morì nel 1867. Per «Les fleurs du mal» fu processato insieme all'editore Poulet-Malassis con l'accusa di pubblicazione oscena.

il Riformista 22.10.08
Salvate il Pd. Sabato in piazza
Appello agli italiani. Lo sappiamo, è gracile e incerto. Ma la democrazia ha bisogno di un'opposizione. Perciò, per favore, andate in piazza sabato.
di Antonio Polito


Italiani, salvate il Pd. Può sembrare un appello insensato: perché mai gli italiani, due terzi dei quali non votano il Pd, dovrebbero avere a cuore il Pd? Ma il fatto è che ieri ho letto una dichiarazione di Massimo Cacciari sulla manifestazione del 25 ottobre: «Io non ci sarò, ci vadano i demagoghi». Poi ho letto che Guazzaloca si ricandida a Bologna. Poi ho letto che Berlusconi corteggia Gianni Lettieri, imprenditore napoletano, per prendersi il Comune o la Regione. Poi ho letto che Del Turco, dopo il carcere, preferisce Berlusconi a Veltroni. E non ce l'ho fatta più: qui si rischia che il Pd non ce la faccia a sopravvivere al percorso di guerra che l'attende. Qui bisogna fare qualcosa. Perché va bene criticare, ma buttare il bambino solo perché non è venuto bello e forte come si sperava, equivale a un omicidio.
Il gioco a sparare contro il Pd è diventato un passatempo nazionale. Naturalmente, il Riformista vi ha preso parte, direi anzi che l'ha iniziato, quando tutti i critici di oggi non erano vergini di servo encomio. Restano intatte le nostre critiche. Sulla conduzione della campagna elettorale e sulla qualità della leadership, sulla linea ondivaga, sulle divisioni interne.
Segue dalla prima pagina
Resta la nostra critica alla manifestazione del 25 ottobre: indetta troppi mesi fa, ha una parola d'ordine oggi inutilizzabile: salva l'Italia dal governo Berlusconi. Oggi l'Italia, che resta da salvare, combatte contro nemici ben più pericolosi del governo: la crisi finanziaria globale, l'imminente recessione, e il suo inarrestabile declino. La verità è che sabato più che salvare l'Italia, il Pd chiama i suoi militanti in piazza per salvare se stesso. Salvarsi dal rischio dell'irrilevanza, salvarsi dal pericolo che alle prossime amministrative perda per esempio Bologna, salvarsi dall'incubo che una partenza così tempestosa spezzi la scialuppa prima ancora di prendere il largo. E questo, secondo me, sarebbe un problema per tutti gli italiani, anche per quelli che non votano Pd.
Per le deficienze dell'opposizione, per il magic moment di Berlusconi, per la crisi che spinge gli elettorati di tutta Europa a raccogliersi intorno al governo che c'è, si è determinata in Italia una situazione di grave squilibrio. Troppo potere a chi governa, troppo poco a chi controlla. Non è indice di salute in una democrazia. Un presidenzialismo di fatto senza i check and balances che in America costringono persino Bush a contrattare il voto del Congresso.
Salvare il Pd, salvare cioè l'esistenza di un'opposizione autorevole e rispettata, è dunque nell'interesse della democrazia italiana. Se si sfascia, chi ci guadagna? Sarebbe migliore un'Italia in cui da un lato c'è un solo uomo al comando e dall'altro un nuovo arcipelago di forze frammentate, deboli, e in lotta l'una con l'altra?
Una delle ultime occasioni per salvare il Pd arriva sabato. Consiglio ai suoi militanti di non ascoltare i professorini alla Cacciari, che ormai sembra Gino Bartali, e ripete solo «l'è tutto sbagliato, l'è tutto da rifare». Se questo Pd non vi piace, avete molte ragioni. Ma sabato è il caso di turarsi il naso e andare in piazza. E' un rito trito, lo so; ma ad oggi è l'unico ricostituente che possa essere inoculato d'urgenza nel corpo flebile di questo partito sofferente. Poi deve comincire un'altra storia. Perché senza di quella non basterà un milione di persone in piazza per rianimare l'unica opposizione che abbiamo.

il Riformista 22.10.08
P
arla l'ex presidente della Camera e boccia l'ansia da manifestazione
Un altro Fausto è possibile
«Non può essere la piazza a resuscitare la sinistra»
Regime dolce. «La destra vuole cancellare ciò che resta del '68». E sulla sinistra: «Non ha capito il movimento sulla scuola».
di Alessandro De Angelis


Per Fausto Bertinotti le piazze non bastano, né per il Pd né per la sinistra radicale. E di fronte alla «rivoluzione conservatrice della destra» lancia l'allarme: «Mai come oggi è necessaria la sinistra».
Siamo in un regime?
«Non ho mai usato questa parola neanche nei momenti più acuti del berlusconismo, perché segnati comunque da un forte conflitto sociale, dal movimento no-global a quello sull'articolo 18. Ora però siamo ad un passaggio di fase. Si assiste a una progressiva evaporazione democratica sia pur nella continuità formale: abuso della decretazione, del voto di fiducia, sostituzione del Parlamento col governo. È un "regime dolce", possibile anche perché non c'è opposizione».
In Parlamento c'è il Pd.
«È un'opposizione solo emendativa rispetto al governo che non si manifesta affatto sul terreno dell'alternativa di società. Infatti invece di uno scontro sulla politica economica e sociale c'è una dialettica tra governo e governo ombra in cui la discriminate programmatica forte non è visibile».
Non ha speranze?
«In questo assetto si aprono delle crepe. Quello sulla scuola è un movimento inedito, che si manifesta su un'idea di società».
Perché dice: inedito?
«La sua specificità è che non ha nessun rapporto con la sinistra. Non è la nuova "pantera", ma un pezzo di società che chiede il riconoscimento di sé. Chi scende in piazza sulla scuola si identifica come "no". E la sinistra non l'ha ancora intercettato».
Perché la scuola è così importante?
«Perché il senso della riforma Gelmini è una rivincita sul '68. Questo è il tratto che caratterizza la nuova destra europea da Sarkozy a Tremonti alla Gelmini. Ci si chiederà: perché te la prendi con un cane morto come il '68? Semplice: perché non è morto. Bernard Lévy ha detto a Sarkozy: non ti voto non tanto per un dissenso programmatico ma perché io appartengo a un'altra famiglia: la sinistra. E tra i valori di famiglia ha indicato anche il '68 inteso come stagione della libertà. Per la destra la demolizione di ciò che resta di quella stagione è necessaria per il suo disegno: non una semplice restaurazione ma una "rivoluzione conservatrice"».
In che consiste?
«Avviene su due piani. Il primo è quello culturale, dove la destra propone il massimo dell'ideologia. Perché il maestro unico al posto di tre? Perché uno è l'autorità. Per non parlare delle classi per gli immigrati. Che si facciano o no, vale l'annuncio, l'effetto simbolico».
E il secondo?
«Al massimo dell'ideologia sul piano culturale corrisponde il massimo di deideologizzazione sul piano delle politiche economiche che vengono fatte apparire come naturali. Sull'economia, a dispetto di quello che molti dicono, vale ancora il motto "è il mercato, bellezza". L'intervento pubblico viene infatti invocato perché il mercato torni a funzionare, un nuovo servo per un vecchio signore. Non c'è da stupirsi: il neoliberismo è disinvolto, non è mica una dottrina rigida. Le misure che ha preso il governo, e non solo quello italiano, non c'entrano nulla col keynesismo: sono "salva finanza", non "salva impresa"».
E sul piano sociale?
«Stesso schema di deidelogizzazione: da un lato si mira a ridurre il conflitto a patologia, come con le misure di Sacconi sullo sciopero; dall'altro con la riforma del modello contrattuale si vuole la riduzione dell'autonomia del sindacato. Ovvero la sua possibilità di far valere il proprio punto si vista rispetto all'impresa».
Come giudica il documento di Confindustria sui contratti?
«Confindustria dice: con il sistema centrale si coprono i salari "quasi", è scritto proprio così, dell'aumento dell'inflazione. Significa che la perdita del potere d'acquisto è sistematica. Come compensazione invece c'è il salario legato alla produttività, un metro su cui i lavoratori non possono incidere e che riguarda qualcuno e non qualcun altro. È ovvio che non va, perché si lega il salario a parametri esterni. E la retribuzione del reddito viene rinviata alle politiche del governo nelle forme di agevolazione fiscale».
L'obiettivo?
«Si vuole uccidere il sindacato, negando la sua autonomia nell'impresa. Noto che la Cisl, insieme al Confindustria, è la locomotiva di questo processo. Ma non credo che Confindustria voglia andare a un accordo separato. Un conto è firmare separatamente i contratti, un conto è riformare il modello contrattuale. La situazione diventerebbe ingovernabile, anche perché la recessione è già in atto».
E la sinistra?
«Oggi guardando a tutto campo non c'è una sinistra politica. Come dice Rossana Rossanda: se non ha una proposta alternativa alla crisi del capitalismo finanziario la sinistra non esiste. E infatti oggi non è riconoscibile in una narrazione storica, in una forma di opposizione e in un'iniziativa programmatica. Basta vedere le piazze: quella dell'11 ottobre ha dato sì l'idea di una fisicità ma è stata una manifestazione identitaria, di arroccamento. Lo stesso vale per quella del Pd del 25 ottobre. Sono manifestazioni che dicono "io ci sono", ma non dicono "io cosa faccio"».
Un giudizio pessimistico.
«Guardi il presente è segnato da una contraddizione che non ho mai avvertito come così acuta tra l'inesistenza della sinistra e la sua necessità storica. Ma la scomparsa della sinistra, mi lasci dire una nota di ottimismo, non è una condanna necessitata. Michael Rochard su Le Monde ha scritto: "È l'ora della lotta ideologica". Aggiungo: è ora di farla su un'idea di società alternativa a quella che ci viene proposta».

il Riformista 22.10.08
Fu sinistra
Barenghi, una iena col senno del poi


La prima scena dell'ultimo libro di Riccardo Barenghi, "L'eutanasia della sinistra", a breve in libreria per Fazi, è fantozziana. Protagonista è Giovanni, il "militante ignoto", il prototipo elettore di sinistra. Siamo in primavera 2006, e davanti alla tv si prepara il suo piatto di spaghetti per godersi la vittoria del centrosinistra. Non riesce però a digerire l'aglio «passato, un po' vecchio, ingiallito e secco», come la vittoria.
La vittoria viene annunciata da un Fassino più "alto e magro" che mai. Giovanni ripete la parola "vittoria" tre volte, come Nando Martinelli, ma non sortisce alcun effetto. Come i medicinali che Giovanni e i suoi compagni prenderanno per combattere il virus che si è impossessato di loro. Il virus della divisione, delle scissioni, delle correnti, delle svolte capovolte. Ormai è un aut-aut: "Vivere una vita senza senso oppure scrivere la parola fine"?. Giovanni sceglie la seconda, «insieme a quei milioni di persone che vivevano dentro di lui ha preferito l'eutanasia. L'eutanasia della sinistra».
Ma è un'eutanasia apparente, finta, retorica. Dalla morte non si torna, mentre da un coma ci si può risvegliare. Barenghi spera che la sinistra riesca a costruire una "casa degna di questo nome, o quantomeno due o tre appartamenti decenti", per sperare che torni il "famoso Lassie". Ma chi è il padrone di Lassie? Per Barenghi non c'è, al momento. «Da Occhetto e passando per D'Alema, Veltroni, Bertinotti, Napoletano, Prodi, Ciampi (…) nessuno di loro è stato capace di dare un senso al concetto di sinistra tra la fine del Novecento e l'inizio del nuovo Millennio».
Barenghi, d'altronde, è noto come Jena, in onore del protagonista di "Fuga da New York". È un escapista. Un artista della fuga - come dal "manifesto" alla "Stampa" - e le fughe migliori sono quelle in cui si cancellano le tracce. Leggendo "L'eutanasia della sinistra" sembra quasi che appoggiasse D'Alema e il suo progetto di riforme, che considerasse la Bolognina una svolta tardiva. Tutte cose vere, col senno del poi. Ma Barenghi si retrodata quel senno.
Il libro è godibile, e scritto bene. Idealmente è il cugino cattivo, e più a sinistra, di "Compagni di scuola" di Andrea Romano. Barenghi, rispetto a Veltroni, Fassino e D'Alema, appare come compagno di strada, di ascensore, di vela. Due episodi spiccano per "golosità". Nel primo, Barenghi ricorda la reazione di Veltroni a una prima pagina cattivissima del "manifesto", «un giorno di dieci anni fa». C'era la scritta «Facevamo schifo» sulla foto di D'Alema e Veltroni. Veltroni, incontrando Guido Monteldo, non protesto per il "facevamo schifo", ma perché in foto era stato messo vicino a D'Alema.
L'altro episodio, anch'esso vagamente fantozziano, nel secondo tempo, riguarda il '95. Siamo a Gallipoli. Qualcuno doveva issare la drizza sull'albero maestro, e D'Alema si offrì volontario e venne issato a 20 metri di altezza con il coltello tra i denti. «Avrei pagato qualsiasi cifra per una macchina fotografica», scrive Barenghi. Il giorno dopo, fecero un giro in mare, Barenghi issa il fiocco e perde il portafoglio in mare. «Costrinsi il leader del Pds a percorrere quel tratto di mare in lungo e in largo per mezz'ora, ma del portafoglio nessuna traccia. Persi tutto, soldi, documenti, biglietto aereo di ritorno». D'Alema gli presta i soldi e "il manifesto" costrinse Barenghi «a dividere le spese: praticamente persi in quel mare metà del mio stipendio».
La conclusione? Onesta nel riconoscere che il vero interprete delle categorie gramsciane, l'egemonia culturale su tutte, è Silvio Berlusconi. Lui è il «più fedele interprete di Gramsci». La sinistra non è riuscita a creare nulla di concretamente alternativo. Il "ma anche" di Veltroni ha fallito. Serve un'idea forte, suggestiva ma concreta, berlusconiana nel metodo ma antiberlusconiana nel merito". Un lifting?