lunedì 27 ottobre 2008

Repubblica 27.10.08
La protesta degli studenti condivisa da un italiano su due
di Ilvo Diamanti


Genitori, professori, studenti. Ma non solo: un italiano su due condivide la protesta anti-Gelmini. Ecco l´indagine Demos & Pi
Il malessere dei giovani nasce soprattutto dal furto di futuro, di cui sono vittime
Molti favorevoli al grembiule, al voto in condotta e agli esami di riparazione
Non attecchisce l´idea degli sprechi e degli insegnanti fannulloni

Ciò che sorprende maggiormente, nell´indagine condotta da Demos nei giorni scorsi, è il grado di consenso per la scuola pubblica: ampio e perfino in crescita rispetto a un anno fa. Nonostante l´ondata di discredito che - da anni e tanto più in questi tempi - sta sommergendo le istituzioni scolastiche. Ma soprattutto quei "maledetti professori"… Pretendono di insegnare in una società che non sopporta i "maestri" - figuriamoci i professori. Nonostante l´ondata di risentimento contro tutto ciò che è pubblico e statale. Scuola compresa.
Perché oggi lo Stato è rivalutato, ma come barelliere della finanza ammalata; come pronto soccorso del mercato ferito. Nonostante il conseguente calo dei fondi pubblici, che si ripete da anni, con ogni governo, di ogni colore. Perché, per risparmiare, si riducono le spese improduttive. Come vengono ritenute, evidentemente, quelle sostenute per la scuola, la formazione e la ricerca. Nonostante il contributo offerto dal sistema scolastico stesso al proprio discredito. Per le resistenze opposte dagli insegnanti ai progetti di riforma volti a valutarne il rendimento e a premiarne il merito.
Per le degenerazioni del reclutamento universitario, i concorsi pilotati, a favore di amici e parenti fino al terzo grado. Nonostante le interferenze dei genitori, pronti a chiedere rigore e autorità ai professori. Pronti a difendere i propri figli contro i professori (lo ammettono 7 italiani su 10).
Nonostante tutto questo, la scuola, i maestri, i professori "del sistema pubblico" godono ancora di stima e considerazione fra i cittadini. In particolare:
a) il 60% e oltre degli italiani si dice soddisfatto (molto o moltissimo) della scuola pubblica di ogni ordine e tipo. E, nel caso delle scuole elementari, il gradimento sfiora il 70% degli intervistati, senza grandi differenze di età, genere, ceto; ma neppure di orientamento politico.
b) Parallelamente, il 64% dei cittadini manifesta (molta o moltissima) fiducia negli insegnanti della scuola "pubblica". Penalizzati, secondo il 40% degli intervistati, da stipendi troppo bassi.
In entrambi i casi - scuola pubblica e insegnanti - il giudizio appare migliorato rispetto a un anno fa. In evidente contrasto con la rappresentazione dominante, al cui centro campeggiano l´insegnante fannullone e incapace, la scuola inefficiente e sprecona. Argomenti politici e mediatici di successo, che fra i cittadini non sembrano, tuttavia, attecchire. La scuola e gli insegnanti godono, al contrario, di buona reputazione. E non per "ideologia" o per pregiudizio politico. Fra gli intervistati, infatti, appare ampia la consapevolezza dei problemi che la affliggono. Il distacco nei confronti del mercato del lavoro, la violenza, l´incapacità di ridurre le diseguaglianze, la preparazione inadeguata degli insegnanti. Ancora: lo scarso rilievo attribuito al merito, sia per gli studenti che per i loro insegnanti. Infine, anzi, in testa a tutto: la penosa penuria di risorse.
I provvedimenti della ministra Mariastella Gelmini, peraltro, non sono catalogati attraverso pre-giudizi generalizzati. Vengono, invece, valutati in modo distinto, caso per caso. Una larghissima maggioranza degli intervistati si dice favorevole: al ritorno del voto in condotta, dei grembiulini, degli esami di riparazione. Novità antiche che piacciono perché propongono soluzioni semplici a problemi complessi. Evocano la tradizione e la nostalgia per curare i mali odierni. Si rivolgono, in particolare, alla domanda d´ordine e di autorità, che oggi appare diffusa.
Il giudizio, però, cambia sensibilmente quando entrano in gioco temi che richiamano l´organizzazione didattica e il modello educativo. In primo luogo: il ritorno del "maestro" unico alle elementari. Un provvedimento che divide gli italiani. Non piace, anzi, a una maggioranza, per quanto non larghissima. Mentre è nettissimo, plebiscitario il dissenso verso la chiusura degli istituti con meno di 50 studenti (in un Paese di piccoli paesi, come il nostro, si tratta di una diffusa reazione di autodifesa). Ma anche verso la scelta di differenziare (per quanto transitoriamente) le classi per gli studenti stranieri e italiani. Perché, al di là del merito, il provvedimento sembra dettato da preoccupazioni di consenso più che di inserimento. Mentre fra gli italiani, anche i più insicuri, è ampia la convinzione che famiglia e scuola siano i principali canali di integrazione (e di controllo sociale).
Semmai, appare più ideologica la base del consenso per le politiche del governo, che ottengono il massimo grado di sostegno fra le persone più lontane dalla scuola, per esperienza personale e familiare: gli anziani, le famiglie dove non vi sono né studenti né docenti. Al contrario, le resistenze crescono nelle famiglie dove vi sono insegnanti o studenti. Ma soprattutto nei confronti dei provvedimenti meno popolari: maestro unico e classi differenziate per stranieri. Ciò suggerisce che l´opposizione alle politiche della scuola, elaborate dalla ministra Gelmini, sia dettata, in buona misura, dall´esperienza delle famiglie e delle persone. Da ciò un giudizio complessivamente negativo nei confronti della riforma, ma anche verso l´azione della ministra. Rimandate entrambe, non bocciate senza appello. In altri termini: gran parte degli italiani è d´accordo sulla necessità di riformare la scuola.
Tuttavia, alla fine sul giudizio dei cittadini e degli utenti gli aspetti concreti pesano assai più di quelli simbolici. E il ritorno dei grembiulini e del voto in condotta non giustificano, agli occhi dei più, il taglio dei finanziamenti, il maestro unico, le classi "dedicate" per gli stranieri. C´è difficoltà a immaginare la possibilità di curare la scuola amputandone gli organi vitali. Riducendo ancora risorse ritenute oggi largamente inadeguate. Ciò spiega il consenso largamente maggioritario a sostegno delle proteste contro la riforma, che da qualche settimana agitano le scuole e affollano le piazze. Coinvolgendo, insieme, studenti, professori e genitori.
A differenza del mitico Sessantotto, evocato spesso, a sproposito, in questi giorni - per "colpa" dell´anniversario (40 anni) e per pigrizia analitica. In quel tempo gli studenti contestavano il passato che ingombrava, pesantemente, la società, la cultura, le istituzioni. Zavorrava le loro aspettative di vita e di lavoro. Per cui manifestavano e protestavano "contro" la società adulta. "Contro" i professori e i loro stessi genitori. Oggi, al contrario, il malessere degli studenti nasce dal furto del futuro, di cui sono vittime. La loro rivolta "generazionale" incrocia la protesta "professionale" dei professori e la solidarietà dei genitori, a cui li lega un rapporto di reciproca dipendenza, divenuto sempre più stretto, negli ultimi anni. Da ciò un problema rilevante per i giovani, i figli e gli studenti. Magari sconfiggeranno la Gelmini. Ma come riusciranno a "liberarsi" davvero con la complicità degli adulti, il permesso dei genitori, e il consenso dei professori?

Repubblica 27.10.08
Si apre una settimana cruciale per il movimento anti-Gelmini. Sindacati uniti
Ma gli scioperi non si fermano mercoledì il voto sul decreto
di Mario Reggio


La facoltà di Fisica della Sapienza, occupata, ha aperto a bambini e famiglie

L´onda della protesta, dopo una domenica di quiete relativa, torna a spazzare scuole, atenei, piazze e strade. Sarà una settimana cruciale, anche se il movimento si attrezza per una lotta di lunga durata.
L´obiettivo principale è quello di bloccare l´approvazione definitiva al Senato, prevista mercoledì 29 ottobre, del decreto Gelmini. E da oggi gli studenti di molte scuole romane faranno lezione al Colosseo. Contro l´approvazione del provvedimento Gelmini al Senato, i Cobas hanno organizzato una manifestazione a piazza Navona, a pochi passi da Palazzo Madama, a partire dalle 17 di domani. L´iniziativa proseguirà senza sosta fino al mattino dopo quando è prevista la votazione. La Rete degli studenti lancia lo slogan «Avanziamo dei diritti» ed annuncia che da domani, in tutta Italia, «ci saranno scioperi e notti bianche, che si concentreranno ancora una volta nei giorni di approvazione del decreto 137 al Senato. Dopo lo slittamento ottenuto il 23 ottobre, cercheremo ancora una volta di bloccare i lavori parlamentari». Ma l´appuntamento clou delle proteste è per giovedì 30 ottobre, giorno in cui, in tutta Italia, sciopererà il personale della scuola e si terrà a Roma la manifestazione di docenti, studenti medi ed universitari contro il progetto governativo.
Il fronte sindacale è unito come mai prima: lo sciopero nazionale, infatti, è stato indetto da Cgil, Cisl, Uil, Snals e Gilda. Proteste senza sosta anche negli atenei. Gli studenti dell´Università romana Tor Vergata hanno provocatoriamente messo in vendita, per appena un euro e 50 centesimi, sul sito e-Bay la propria università. Sempre gli studenti di Tor Vergata ieri hanno raggiunto la centrale piazza dei Cinquecento, a Roma, in camice bianco e libri in mano. Una protesta creativa che ha l´obiettivo di «far conoscere alla popolazione il tragico futuro dell´università italiana». La facoltà di Fisica de La Sapienza, occupata da giorni, ha ieri aperto alle famiglie e ai bambini delle elementari per mostrare loro esercitazioni e sperimentazioni: il principio dei vasi comunicanti con l´acqua della fontana ai piedi della statua della Minerva, oppure il funzionamento del giroscopio alla base del principio di rotazione della Terra.
Da oggi poi, a Roma, partirà una settimana di lezioni all´aria aperta, anche in luoghi simbolo della città come il Colosseo. A piazza Farnese lezioni in piazza degli studenti di Lettere e Filosofia di Roma3, docente il professor Giacomo Marramao. Mentre alla Normale di Pisa, ieri, sono apparsi i primi striscioni di protesta: «Un Paese vale quanto ciò che ricerca».

Corriere della Sera 27.10.08
Intervista al ministro: Gelmini: protesta di pochi Il mio modello è Obama
di Marco Cremonesi


«Niente classi separate, solo corsi di italiano per chi non lo parla»

Mariastella Gelmini è ministro della Pubblica istruzione Nata a Leno (Brescia) 35 anni fa è avvocato, specializzata in diritto amministrativo. È alla seconda legislatura alla Camera
La sinistra ha perso il rapporto con chi lavora e ora lo perde anche con i giovani

MILANO — «Il 30 ottobre ci sarà lo sciopero della scuola, il solito rito di chi difende l'indifendibile. Ma dopo, credo che si potrà riprendere a confrontarsi con le riforme», dice al Corriere
il ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini. E aggiunge che «per l'università il 2009 non prevede particolari tagli. Qualche problema potrà esserci dal 2010 ma abbiamo tempo per discuterne». Il punto di riferimento del ministro? Obama, che propone per la scuola Usa «provvedimenti simili ai nostri». Oggi sono previste nuove proteste.

MILANO — Il mio modello? Barack Obama. Parola di Mariastella Gelmini. Mentre infuria la protesta della scuola e dell'università, il ministro alla Pubblica istruzione procede diritta per la sua strada. Ma rivela la sua stima per il candidato democratico nella corsa alla Casa Bianca e tende una mano all'opposizione: «Ma soltanto a quella costruttiva. Altrimenti, facciamo da soli».
Ieri Veltroni ha chiesto il ritiro del suo decreto e la relativa modifica della Finanziaria. È possibile?
«Scusi, ma non ne capisco la ragione. La manovra economica è legge da giugno, il Pd è fuori tempo massimo. Quanto al decreto, ha ottenuto già l'approvazione della Camera ed è stato ampiamente discusso al Senato: sarà votato mercoledì. Ma certo, su come proseguire nell'opera di riforma della scuola italiana, le mie porte sono spalancate ».
Però, voi avete posto la fiducia e non c'è stato dibattito parlamentare. Dove si doveva discutere?
«Sono cinque mesi che si discute di scuola e il Pd non ha fatto una proposta che fosse una. L'unica idea è quella di non cambiare nulla: "Non toccate la scuola, giù le mani dall'università". Questo sarebbe riformismo? A me, sembrano pietrificati».
L'opposizione sulla scuola appare più diffusa che non su altri temi. È perché mette in discussione anche parecchi posti di lavoro?
«La sinistra ha perso totalmente il rapporto con chi lavora e ora lo sta perdendo anche con gli studenti. Bisogna dirlo con chiarezza: il disastro dell'istruzione in Italia è figlio delle logiche culturali della sinistra contro il merito e la competitività. Per decenni scuola e università sono state usate come distributori di posti di lavoro, di clientele e magari di illusioni».
Illusioni?
«Sì, certo. L'illusione di posti di lavoro che non esistono. L'illusione che lo Stato possa provvedere a dare posti fissi in modo indipendente dalla situazione economica e dal debito pubblico. La sinistra per i suoi interessi politici inganna le persone, ha creato il precariato proprio diffondendo illusioni».
Non esagera? In Italia non c'è stata soltanto la sinistra.
«Quando Veltroni è diventato leader del Pd, ci ho creduto anche io: ho sperato che questo Paese potesse cambiare veramente con un progetto bipartisan. Che potesse essere riformato, abbandonando le vecchie posizioni ideologiche e sindacali responsabili del declino dell'Italia. Speravo che Veltroni si ispirasse alla lezione di Tony Blair. Purtroppo, oggi parla come un rappresentante dei Cobas».
Addirittura?
«Ma sì, via... Si è schiacciato sulle posizioni più conservatrici su ogni argomento. Guardi, le dirò qualcosa che non si attende: il mio punto di riferimento è quello che sta facendo Barack Obama in America ».
Cosa le piace di Obama?
«Sta proponendo per la scuola americana provvedimenti simili ai nostri, penso soprattutto agli incentivi al merito per gli insegnanti. E anche lui vuole razionalizzare le scuole sul territorio per destinare i risparmi alla qualità dell'istruzione. E poi, la possibilità per tutti, anche per chi non si può permettere le università costose, di aver una istruzione di qualità. Questo è un vero, coraggioso riformatore: non certo il leader del Pd».
Molti giovani scendono in piazza, però...
«Gli studenti in Italia sono 9 milioni. Coloro che protestano, alcune migliaia. Le facoltà occupate sono pochissime. E in molte, gli studenti ricacciano indietro gli occupanti. Non immagina quanti messaggi ricevo da studenti stanchi di slogan vecchi e di professori militanti».
Sarà, ma le manifestazioni sono lì da vedere. O no?
«Funziona così: a Firenze occupano una stanza in venti e nei tg si dice che l'università è occupata. Oppure, a Milano, succede che in duecento escano dai centri sociali e vadano a scorrazzare nei cortili della Statale. Visto che nessuno dà loro retta, bloccano la stazione Cadorna. I tg dicono: scontri tra studenti e polizia. Ma di studenti non ce ne erano».
Guardi che è impervio cercar di dimostrare che non ci siano manifestazioni studentesche. Non partecipano persino parecchi giovani di destra?
«No, guardi: i giovani della destra continuano la loro decennale battaglia contro i baroni e i professori ideologizzati, non certo contro il decreto».
Che ne pensa di far intervenire le forze dell'ordine nelle scuole e nelle università?
«Penso che non si porrà il problema, anche perché in tutta Italia mi pare che i ragazzi si rifiutino di occupare. Il 30 ottobre, certo, ci sarà lo sciopero, il solito vecchio rito di chi difende l'indifendibile. Ma dopo, credo che si potrà riprendere a confrontarsi con le riforme. Ovviamente, con chi fa proposte».
Resta il fatto che i tagli ci saranno. È così sicura che non si tradurranno in un impoverimento della didattica?
«I primi a vivere il disagio della scuola esistente sono proprio i professori, pagati con stipendi da fame e proletarizzati da sinistra e sindacato. E poi, il 30% dei risparmi realizzati, 2 miliardi di euro, sarà utilizzato per pagare meglio i professori sulla base del merito».
C'è chi dice: va bene tagliare le spese improduttive. Ma i risparmi devono essere interamente spesi sulla scuola. Non è una posizione sensata?
«Me lo lasci dire: bisognava anche riportare tutti alla realtà. Dire che la gestione allegra del denaro pubblico è finita. E dunque, prima si eliminano gli sprechi. Poi, ma soltanto dopo, si potrà reinvestire in qualità. Questo per quanto riguarda la scuola. Per l'università il 2009 non prevede particolari tagli. Qualche problema potrà esserci dal 2010 ma abbiamo tempo sufficiente per discuterne con chi vuol farlo seriamente».
Sulle classi ponte per gli immigrati restano margini di ambiguità. Che cosa saranno?
«L'ambiguità è di chi ha tentato come al solito di buttarla sul razzismo. Qualunque genitore che ha un figlio alle elementari conosce il problema rappresentato da chi in classe non sa l'italiano. Un problema didattico, che come tale va risolto: non faremo classi separate, le classi ponte saranno corsi magari pomeridiani di italiano per consentire a chi non lo è di imparare la lingua il più rapidamente possibile».

Corriere della Sera 27.10.08
«Cortei e sit in, così bloccheremo il decreto»
Nuove contestazioni e giovedì sciopero generale. Il premier: avanti con le riforme
Continua anche la mobilitazione di segno opposto: 5.000 firme ieri a Firenze a sostegno della Gelmini
di M. Antonietta Calabrò


ROMA — L'Onda cercherà di crescere fino a diventare, se non uno tsunami, almeno una marea. Nelle scuole e nelle Università si apre la settimana decisiva delle contestazioni. Un programma denso di occupazioni, sit-in, agitazioni, lezioni in piazza che, secondo gli organizzatori, mira a fermare l'approvazione (dopodomani) al Senato del decreto Gelmini: «Dopo lo slittamento ottenuto il 23 ottobre — dicono — cercheremo ancora una volta di bloccare i lavori parlamentari». Con forme clamorose di protesta: gli studenti romani intendono fare lezione al Colosseo. L'obiettivo finale, ha ribadito uno dei leader della Rete della Sapienza, Francesco Raparelli (protagonista anche della protesta «No Vat» contro la lezione d'apertura di papa Ratzinger), è il ritiro del decreto.
Ma il premier Berlusconi ha ribadito che il governo non lo farà: «Andiamo avanti a governare e a fare cose di buon senso che sono nel programma, qualunque cosa dica Veltroni o qualcun altro nell'opposizione » ha detto commentando la richiesta avanzata dallo stesso leader del Pd al Circo Massimo. «Hanno usato strumentalmente la scuola — ha aggiunto —. Pensate all'Università, non abbiamo ancora fatto nulla e già ci hanno mosso critiche e mosso gli studenti nelle strade con una strumentalizzazione difficilmente definibile anche di bambini».
Per contrastare il voto del Senato, i Cobas hanno organizzato una manifestazione a piazza Navona mentre in tutt'Italia si accenderanno dei lumini con la scritta «Fermatevi». La protesta corre anche sul web. Un misterioso studente ha provocatoriamente messo in vendita su eBay, base d'asta un euro e 50, l'Università di Tor Vergata. Ma su siti internet e blog continua anche la raccolta di firme, di segno opposto, organizzata dai giovani del centrodestra a supporto della Gelmini: solo a Firenze, cinquemila.
L'appuntamento clou è giovedì, con lo sciopero generale della scuola e il maxicorteo di docenti e studenti. «Una grande "ola" passerà per Roma nella più grande manifestazione che si ricordi» sostiene il leader della Flc-Cgil, Pantaleo. Per il leader radicale, Pannella, «la rivolta di professori e studenti è in realtà una rivolta contro la finanziaria di Tremonti, quella da otto minuti». Bonanni, della Cisl, invita il governo a «far parlare le famiglie». Per Di Pietro «si sono fregati la polpa, cioè otto miliardi di euro». Contro il decreto anche il Meic, che rappresenta i laureati dell'Azione cattolica: «I contenuti non sembrano essere il frutto di un chiaro e coerente disegno pedagogico ». E ne chiedono il ritiro.

Repubblica 27.10.08
Le regole da abbattere
dsi Stefano Rodotà


Per comprendere quello che accade, conviene fare qualche piccolo esercizio di memoria, che sta diventando sempre più corta, limitata ormai a meno di ventiquattro ore, come dimostra il gioco delle opposte dichiarazioni coltivato dal presidente del Consiglio.
Torniamo, allora, agli interventi con i quali il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale hanno ancora una volta disegnato il perimetro delle istituzioni democratiche, e lo hanno ricordato ai cittadini. Di fronte ad una aggressiva dichiarazione del presidente del Consiglio, che affermava di voler "imporre" al Parlamento l´approvazione dei decreti legge, Giorgio Napolitano ha ricordato che "in Italia si governa – come in tutte le democrazie parlamentari – con leggi discusse e approvate dalle Camere nei modi e nei tempi previsti dai rispettivi regolamenti, e solo in casi straordinari di necessità e urgenza con decreti". Di fronte al conflitto di attribuzione sollevato dal Parlamento contro la Corte di cassazione per la sua sentenza sul caso Englaro, sostenendo che erano state invase le competenze del potere legislativo, la Corte costituzionale lo ha dichiarato inammissibile, sottolineando come la Cassazione abbia correttamente esercitato le proprie competenze e respingendo la pretesa delle Camere di sindacare un atto giudiziario e di ritenersi le uniche legittimate ad affrontare la questione.
Tutto è bene quel che finisce bene? Niente affatto. Queste due vicende mostrano con chiarezza che la consapevolezza istituzionale si ritira sempre più dal governo e dal Parlamento e si rifugia in aree circoscritte, anche se altamente significative, del sistema democratico. Si accentua così una pericolosa asimmetria istituzionale, dove la divisione dei ruoli e il rispetto delle regole sono costantemente visti come un ostacolo illegittimo, da abbattere. L´unica norma fondativa del sistema è riconosciuta nell´investitura elettorale, che cancella ogni altra regola e legittima qualsiasi decisione. Si materializza così una italianissima versione dell´estinzione dello Stato costituzionale di diritto.
E´ una forzatura interpretativa? Consideriamo, allora, dichiarazioni e comportamenti concreti.
1) Ancora sul lodo Alfano e dintorni. Nell´apprendere la notizia del rinvio del lodo alla Corte costituzionale da parte dei magistrati milanesi, il presidente del Consiglio ha quasi dato in escandescenze minacciando la Corte di chissà quali ritorsioni istituzionali qualora avesse osato ritenere illegittimo quel provvedimento. Mi farebbe piacere conoscere su ciò l´opinione di quel giudice costituzionale che si dimise ritenendo in pericolo la libertà di giudizio della Corte per normali dichiarazioni di alcuni politici (e anche l´opinione di quelli che ritennero giusta la sua posizione). Comunque, dopo l´intervento presidenziale, è venuto di rincalzo il suo più fido avvocato-parlamentare, in odore di vero ministro della Giustizia, con parole che più chiare non potrebbero essere. La sequenza logica (si fa per dire) è la seguente: Berlusconi ha ricevuto un largo consenso per risolvere i problemi del paese; ha già risolto la questione Alitalia e quella dei rifiuti a Napoli; di questo i magistrati milanesi non hanno tenuto conto, sì che il loro comportamento è censurabile, essendo il lodo lo strumento necessario per mettere il presidente in condizione di lavorare senza i turbamenti che potrebbero venire da indagini giudiziarie. L´elezione è così trasformata in "unzione", e l´unto del Signore si sente sciolto dalla soggezione alle regole. Senza scomodare la Bibbia (Isaia, 61), lasciamo la parola al protagonista (25 novembre 1994): "Io sono l´unto del Signore, c´è qualcosa di divino nell´essere scelto dalla gente".
La dimensione della legalità scompare, in modo ancor più radicale di quella affidata alla formula del "princeps legibus solutus". Nella recente storia politica italiana è possibile rintracciare qualche precedente, primo tra tutti il discorso di Bettino Craxi in occasione della fiducia al Governo Spadolini, quando attaccò i magistrati milanesi (sempre loro!) perché avevano indagato su quel galantuomo di Roberto Calvi, turbando così l´andamento della borsa. In questa singolare versione della legalità democratica il listino di borsa faceva aggio sul codice penale. Il filone di pensiero che vuole le norme penali subordinate al "fare" della politica ha fatto proseliti, si è irrobustito, ha prodotto un nuovo schema istituzionale, ci fa quotidianamente scivolare verso un mutamento di regime. Berlusconi commenta compiaciuto il funzionamento del governo, dicendo che lavora "come un consiglio d´amministrazione", inconsapevole della distanza tra il funzionamento di un´impresa e quello di una democrazia (lo confermano i suoi inviti a comperare determinate azioni e a non fare pubblicità sulla Rai). Parlarne è antiberlusconismo di maniera, intralcio al dialogo? O dobbiamo ritrovare la buona abitudine, che produce la buona politica, di analizzare i fatti per quelli che sono, senza girarvi intorno?
2) Decreti, decreti. Sempre in tempi craxiani circolava uno slogan "dieci cento mille decreti legge, dieci cento mille voti di fiducia". Un´altra continuità, un altro filone che si è irrobustito, con contributi e quindi responsabilità delle parti più diverse, e che oggi si vorrebbe portare a conseguenze estreme, contro le quali si è levato il monito del Presidente della Repubblica. Proprio per vanificare questo monito, fingendo di ascoltarlo, si sta mettendo a punto una pericolosa contromossa. Si ricorda che all´uso massiccio dei decreti si è dovuto ricorrere per superare le lentezze dell´iter parlamentare, per assicurare al governo il diritto ad una decisione in tempi certi. Si aggiunge che da questa situazione anomala si uscirà solo con una riforma dei regolamenti parlamentari. Ma ha osservato benissimo Andrea Manzella che, se questa riforma rendesse il governo "sovrano assoluto" in Parlamento, "al danno si aggiungerebbe la beffa", perché i fenomeni degenerativi continuerebbero, tuttavia formalmente legittimati dalle nuove regole. La situazione istituzionale, anzi, peggiorerebbe, perché le nuove regole restrittive coprirebbero l´intero processo legislativo, e non solo quello riguardante la decretazione d´urgenza. Di nuovo la necessità di analizzare le situazioni concrete, di chiamare le cose con il loro nome, per non restare intrappolati in una riforma dei regolamenti parlamentari che, non tanto paradossalmente, minerebbe la natura parlamentare del nostro regime politico, un esito inammissibile come ha esplicitamente detto il Presidente della Repubblica.
3) Testamento biologico e dintorni. Anche qui la strategia delle contromosse. La repentina conversione delle gerarchie ecclesiastiche, puntualmente registrata dalla maggioranza e dal governo, induce a ritenere che si arriverà all´approvazione di una legge. Ma, come è stato evidente fin dall´inizio, questo non porterà al riconoscimento del diritto di rifiutare le cure in previsione di un futuro stato di incapacità in modo conforme ai princìpi costituzionali, al rispetto della volontà di ciascuno di governare liberamente la propria vita, dunque anche il tempo del morire. Questo diritto fondamentale, espressione diretta del principio della dignità della persona, sarà vanificato dalla sua subordinazione alla valutazione di un medico, all´esclusione della possibilità di rinunciare all´idratazione e alla nutrizione forzata. Con la consueta lucidità, Ignazio Marino ha denunciato questo stato delle cose, che annuncia una restaurazione. E fa cogliere una contraddizione. Si vuole escludere il potere dei giudici nelle decisioni riguardanti la fine della vita. Ma, se un medico rifiuterà di riconoscere le direttive anticipate di una persona e pretenderà di continuare i trattamenti contro la volontà espressamente manifestata, a chi potranno rivolgersi i parenti se non al giudice?
4) Una conclusione, o una morale. E´ in corso un conflitto senza precedenti nella nostra storia politica e istituzionale. Alle nette prese di posizione delle alte istituzioni di garanzia, governo e maggioranza rispondono con strategie che rafforzano una deliberata deriva verso l´assolutismo, che esige la riduzione della democrazia rappresentativa, del sistema parlamentare, dei diritti fondamentali, in una parola della legalità costituzionale. Non impigliamoci nelle controversie sulle parole (regime, fascismo…), che pure hanno una loro forza. Ma non giriamo la testa dall´altra parte, non rinunciamo a vedere i nessi strettissimi che legano le vicende qui ricordate (e molte altre che devono essere aggiunte, dal lavoro alla scuola) e che già ci fanno vivere in un ambiente in cui proprio il deprimersi dello spirito democratico accelera i processi degenerativi. Se l´assolutismo è lo spirito del tempo, e non si concretizza rapidamente la nuova via all´opposizione, perché meravigliarsi del consenso verso chi lo incarna con spavalderia?

Repubblica 27.10.08
Incombe l´era della controriforma?
di Mario Pirani


Stiamo scivolando, pressoché senza accorgercene, verso l´era della Controriforma. Quasi un invisibile Concilio tridentino fosse tornato a riunirsi per escogitare nuovi strumenti per reprimere e prevenire insorgenti eresie e quali vie battere per ottenere che le prescrizioni ecclesiastiche siano osservate da tutti, non solo dai credenti. E cosa sostituire alla Inquisizione, alla Congregazione dell´Indice e soprattutto al ricorso al "braccio secolare" per ottenere obbedienza. Questa inquietante visione mi è venuta alla mente al termine di un dibattito da me diretto al Congresso della Società italiana di Chirurgia tra la sen. Paola Binetti e il sen. Ignazio Marino su «Etica e testamento biologico». Due senatori appartenenti allo stesso Partito democratico, ambedue cattolici, eppur di cultura antitetica, l´una convinta assertrice dell´ortodossia vaticana, l´altro interprete impegnato della libera scelta dell´individuo all´interruzione dei trattamenti sanitari al fine di evitare l´accanimento terapeutico.
La discussione non ha trovato alcuna possibilità di accordo, soprattutto su un punto centrale che si riflette nella stesura di due contrapposti disegni di legge. Il discrimine riguarda la libertà del cittadino di decidere, quando è ancora nel pieno possesso delle sue facoltà, a quali cure e terapie vuole essere sottoposto nel caso in cui si trovi in coma irreversibile o in uno stadio finale di una malattia così invalidante e penosa da ridurlo ad una parvenza di vita del tutto inaccettabile (caso Welby). Non si tratta, quindi, di una legalizzazione dell´eutanasia (che, peraltro, personalmente auspico), poiché non si sancisce la possibilità di somministrare al malato sostanze che assicurino una «morte dolce», ma solo di interrompere o rifiutare trattamenti terapeutici che prolunghino, senza alcun elemento di regressione della sofferenza, un mantenimento artificiale della sopravvivenza. Su questo aspetto il non possumus pontificio, proclamato come principio indisponibile e immodificabile, ha trovato una formulazione cosiddetta tecnica nel progetto di legge teo-dem, firmato alla Camera dalla Binetti, Bobba, Carra, Lusetti ed altri Pd, mentre al Senato analogo disegno è firmato da un folto gruppo di ex Popolari e ex Margherita, oggi Pd, tra cui la Baio, la Garavaglia, Fioroni, Del Vecchio ed anche Follini e Tonini che, forse aspirando a una impossibile sintesi, hanno anche sottoscritto il progetto di legge che sostiene l´opposto, firmato da 110 senatori a partire da Ignazio Marino, Levi Montalcini, Veronesi, Finocchiaro, Zanda, Livi Bacci, Chiaromonte, Nicola Rossi, Latorre nonché numerosi dell´IdV e alcuni della CdL (Malan, Paravia, Saro, ecc.). La linea di separazione è netta: i teo-dem (vedi art. 4 della legge Binetti) si sono inventati che l´idratazione e la alimentazione artificiale non sono terapie ma un atto equivalente alla somministrazione di pane ed acqua (l´evangelico «dar da bere agli assetati» e «nutrire gli affamati»). Quindi non ricade nell´accanimento terapeutico, per cui, se un individuo nel suo testamento biologico, peraltro revocabile in ogni momento, dichiarasse il contrario, la sua disposizione è nulla, non deve essere eseguita e chi vi ottemperasse commetterebbe un crimine penale. Ignazio Marino, Levi Montalcini, Veronesi e gli altri parlamentari laici e cattolici che sostengono il contrario, affermano «che nessuno può essere obbligato, contro la sua volontà, a introdurre nel proprio corpo, attraverso un sondino inserito chirurgicamente o no nello stomaco, sostanze come lipidi, elettroliti, proteine, ecc. elaborate chimicamente». Ma il quesito va ben oltre ed è tutt´altro che tecnico. Esso tocca la libertà della persona umana, la disponibilità sul proprio corpo, il valore delle sue decisioni. In uno Stato di diritto i cattolici, così come i credenti di altre religioni, debbono godere del pieno diritto di uniformarsi, se lo ritengono giusto, ai dettami delle gerarchie ecclesiastiche. Per contro, solo in uno Stato integralista, dove la legge religiosa è anche legge civile e norma politica per tutti i sudditi, il diktat dei preti o degli ulema, del Papa o degli ayatollah ha forza d´imperio. Lo Stato italiano si colloca a metà: non c´è più l´Inquisizione o il «braccio secolare» per imporre i testi sacri, interpretati dal Sant´Uffizio, come obbligo generale. Essi sono stati sostituiti dalla precettistica invadente del Vaticano sostenuta da una Politica succube (teo-dem o neo-com che sia) oppure complice per convenienza strumentale, tipica della CdL. La Sinistra, infine, appare dilaniata e finge di non accorgersene. Per quanto tempo ancora?

Repubblica 27.10.08
Monsignor Marx
di Edmondo Berselli


Monsignor Marx è marxista. Meglio chiarire: l´arcivescovo che siede sullo scranno che fu di papa Ratzinger a Monaco di Baviera si chiama Marx, ha per nome di battesimo Reinhard, e sta per pubblicare un libro, molto atteso in Germania, intitolato «Il Capitale. Una difesa dell´uomo», in cui rivaluta l´opera del suo omonimo Karl, cioè il filosofo di Treviri, trattandolo come un profeta della modernità: «Nella sua analisi del capitalismo aveva visto giusto». Il caso è molto tedesco e dialettico: il Marx alto prelato rivaluta il Marx fondatore del comunismo. Con una complicazione piuttosto seria, perché il Marx vescovo, in quanto membro del Pontificio consiglio della giustizia e della pace, sovrintende ai contributi che confluiranno nell´enciclica sociale di Benedetto XVI. E allora, visti i tempi di depressione da subprime, prendiamo per buono ciò che dice il Marx Reinhard, ovvero che «un capitalismo senza un quadro etico è nemico del genere umano». Ma se tanto ci dà tanto, cioè se il Marx rivalutato da Marx finisce anche di sbieco nell´enciclica papale, si profila la notevole opportunità che riveli una sfumatura marxista o marxiana anche Ratzinger: e questo, non c´è santo o papa che tenga, non l´aveva previsto nessuno, neanche Marx (quello vero).

Repubblica 27.10.08
Studio di una équipe tedesca sugli aromi Ciò che si annusa influenza il sonno
Profumo di rosa per dormire meglio
"Il sistema olfattivo è strettamente legato con le emozioni"
di Elena Dusi


«Sogni di rosa» si potrebbe augurare prima di andare a dormire. E accompagnando il saluto con una fragranza profumata, i sogni di rosa arriveranno per davvero. La via fra il naso e il cervello è infatti molto breve e un esperimento dell´università di Mannheim ha collegato quel che l´olfatto sente durante la notte a ciò che il cervello crea nel mondo immaginario del sonno.
Presentato ieri alla conferenza dell´Accademia americana di otorinolaringoiatria a Chicago, l´esperimento del medico tedesco Boris Stuck dell´università di Mannheim ha dimostrato che "il colore emotivo" dei sogni, cioè la loro piacevolezza, viene influenzato dall´odore dell´ambiente. Un gruppo di donne addormentate in una stanza imbevuta di fragranza di rosa, nel momento in cui è stata svegliata dalla fase Rem del sonno (quella in cui più di frequente si presentano i sogni), ha riferito di frequente scene gradevoli. Ripetendo l´esperimento con un odore di uova marce, il "colore emotivo" medio dei sogni ha virato invece verso episodi ansiosi o angoscianti.
Un esperimento come quello di Stuck, condotto su soli 15 volontari e per di più tutte donne, non rappresenta certo il meglio in fatto di fondatezza scientifica. Ma si inoltra in un affascinante terreno da cui neurologia e psicanalisi cercano da tempo di estrarre un filo logico. «Una cosa è certa» premette Domenico Nesci, psichiatra e psicanalista del Policlinico Gemelli di Roma. «Il sistema olfattivo è strettamente collegato con il sistema limbico, che possiamo ribattezzare "il cervello degli affetti e delle emozioni"».
Dalle madeleines di Proust in poi, il collegamento diurno fra odori ed emozioni è stato messo a nudo in molti dettagli. «Ma come gli stimoli olfattori influenzino la macchina dei sogni è questione assai più misteriosa» conferma Nesci. Che ricorda un sogno riferito a Freud da un paziente cui era appena morto il figlio. L´uomo dormendo immaginava di vedere un cero che cadeva sul suo bambino e ne bruciava il corpo. Effettivamente, nella stanza in cui il padre si era addormentato vegliando il piccolo, una candela si era consumata e aveva iniziato a bruciare il tavolo. «È allora evidente - spiega il medico - che gli odori hanno il potere di influenzare il contenuto dei sogni».
All´argomento si è appassionato anche Artin Arshamian, psicologo dell´università di Stoccolma che l´anno scorso ha pubblicato uno studio sui "sognatori di odori". Così come nel sonno c´è chi vive solo scene in bianco e nero, i sognatori si dividono anche in chi arricchisce le sue scene di odori e chi invece si accontenta degli altri sensi. Secondo Arshamian, chi è abituato a sentire, apprezzare e memorizzare le fragranze durante il giorno, avrà più probabilità di veder penetrare gli stimoli olfattivi anche di notte. Avrà quindi più probabilità di sognare un odore di rose.
Nel 2004 la ditta giapponese Takara provò a sfruttare le scoperte su sensi e sonno a fini commerciali, realizzando lo "Yumemi-Kobo", o "fabbrica dei sogni". Un apparecchio che mescolava melodie dolci, luci soffuse e fragranze di fiori nella stanza, promettendo a chi lo avesse acceso nella notte sogni meravigliosi.

Corriere della Sera 27.10.08
«Boicottare il 4 novembre» Affondo di Rifondazione Ma il Pd: un'idea assurda
Sansonetti: razzista la canzone del Piave che piace a La Russa
Sotto accusa la frase «Non passa lo straniero». Ferrero: il ministro vuole glorificare lo Stato che manda la gente al macello
di Virginia Piccolillo


ROMA — «Assurdità da extraterrestri ». «Giusto: fermiamo la riscrittura della storia filo- guerra». «Non lasciamoci dividere su questi temi». Raccoglie pareri diversi l'appello di Piero Sansonetti: «Boicottiamo la festa del 4 novembre». Il direttore di Liberazione sottolinea che il governo e il ministro della Difesa Ignazio La Russa «si preparano a un gran numero di cerimonie per celebrare con tripudio il 90˚ anniversario di quella che Benedetto XV definì "inutile strage"». La Grande Guerra, «un avvenimento orribile, feroce, sanguinosissimo. Del quale è giusto parlare per spiegare ai giovani che le classi dirigenti europee impazzirono e si macchiarono di colpe ignominiose » che «aprirono le porte a fascismo e nazismo». Per questo invita a boicottare la festa. Esponendo bandiere arcobaleno o, almeno, leggendo Ungaretti. E attacca la proposta leghista di sostituire l'Inno di Mameli
con la Leggenda del Piave, che «piace anche a La Russa». Motivata, secondo Sansonetti, dal verso «non passa lo straniero» che «nell'attualità politica assume un significato xenofobo».
Rosy Bindi suggerisce di «tralasciare una campagna controproducente ». Spiega: «Non c'è bisogno di contestare il 4 novembre per dire che la Grande Guerra era sbagliata. Tutte lo sono. Bisogna pensare a non farne. Ma questo non vuol dire che non si debba celebrare chi ha dato la vita per il nostro Paese». Si «trattiene con fatica dall'insulto » il pd Matteo Colaninno: «di fronte alla crisi drammatica che investe l'Italia, l'Europa e il mondo, dibattere del 4 novembre è da extraterrestri», rimprovera. «Chi rappresenta il nostro Paese deve rimanere ancorato alla storia del nostro Paese e ai suoi simboli. Lo sforzo dei presidenti Ciampi e Napolitano per recuperare il sentimento nazionale fa impallidire qualsiasi tentativo di originalità». «Basìta dal dibattito» anche la pd Marianna Madia: «Siamo italiani. Possibile che ancora non sia scontato? Ridiscutere il 4 novembre è come voler tornare a prima dell'Unità d'Italia. Parliamo d'altro».
Boicotterà il 4 novembre, invece, Giovanni Russo Spena
(Prc): «Questa festa — dice — va contestata proprio ora che La Russa la sta rilanciando. Per noi vecchi antimilitaristi è l'occasione per insistere: occorre ritirare i militari dalle missioni di pace. Lo stesso La Russa ora ammette che sono di guerra ». Per Lidia Menapace (Prc) «dare pomposità a questa ricorrenza significa togliere importanza alla Costituzione che non è fondata sulla vittoria, ma sulla pace». «E poi evidenzia — qui in Sud Tirolo, celebrarla significa festeggiare la sconfitta dei nostri concittadini ». Per il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero «La Russa tenta di sdoganare la guerra. Nel concreto lavora a un maggiore ingaggio in Afghanistan. Culturalmente tenta di rimettere in piedi la glorificazione dello Stato che mandò al macello la gente, con i carabinieri pronti a sparare alla schiena di chi disertava. La guerra non unisce la patria: potendo la gente non ci va». Striglia il direttore di Liberazione
il suo predecessore Sandro Curzi: «La guerra è inevitabilmente di popolo. È un tema sul quale ha scritto pagine importanti anche Gramsci e che la sinistra seria, quella del Pci di Berlinguer, aveva già superato. Lo rilancia la destra per dividerci ora che qualcosa si muove. Non cadiamo nella trappola».

Corriere della Sera 27.10.08
Lo storico Giovanni Sabbatucci
«Un salto indietro di novant'anni Togliatti non fece mai polemiche»
di Antonio Carioti


Quando ha letto il fondo di Piero Sansonetti su Liberazione, con l'appello a boicottare le celebrazioni del 4 novembre, lo storico Giovanni Sabbatucci ha avuto l'impressione di «un salto all'indietro di novant'anni, all'epoca in cui i socialisti esecravano la Prima guerra mondiale come un immenso crimine e accusavano di complicità nel massacro chi l'aveva voluta e chi l'aveva combattuta. Un atteggiamento che non giovò certo alla sinistra e anzi contribuì a portare molti reduci dalla parte del fascismo».
Per giunta i riferimenti letterari di Sansonetti gli appaiono incongrui: «Cita il libro Un anno sull'altopiano
di Emilio Lussu, che era e rimase un convinto interventista, e le poesie del volontario Giuseppe Ungaretti, che poi divenne fascista. D'altronde tra coloro che si opposero strenuamente a Mussolini troviamo parecchie persone che si erano schierate per la guerra: Ferruccio Parri, Carlo Rosselli, Giovanni Amendola, Gaetano Salvemini. Si dice che Parri abbia scritto personalmente il bollettino con cui Armando Diaz, comandante dell'esercito italiano, annunciava la vittoria sull'Austria-Ungheria».
Del resto, aggiunge Sabbatucci, non si tratta di celebrare la guerra in sé: «Senza dubbio il primo conflitto mondiale fu un evento spaventoso, ma si può onorare il sacrificio dei caduti senza scadere nel bellicismo. Non si può negare che si sia trattato di un momento alto della storia nazionale, che suscitò, soprattutto dopo Caporetto, un vasto coinvolgimento popolare, anche se certo non unanime, nello sforzo bellico. Nel 1921, quando la salma del milite ignoto venne trasportata a Roma per essere tumulata al Vittoriano, fu salutata ovunque da grandi folle, con una forte partecipazione di massa al rito patriottico».
A dimostrazione del fatto che la Grande guerra era entrata come una pietra miliare nella memoria nazionale, Sabbatucci cita anche l'atteggiamento tenuto dalla sinistra dopo il 1945: «Il Pci di Palmiro Togliatti si guardò bene dal riprendere la polemica del precedente dopoguerra e anzi si adoperò per promuovere l'unità degli ex combattenti di entrambi i conflitti mondiali. Solo negli anni Sessanta e Settanta si diffuse a sinistra una visione demonizzante della Grande guerra, quella che si esprime, per esempio, nel film di Francesco Rosi Uomini contro. All'epoca anche la storiografia progressista assunse un atteggiamento non solamente critico, come è naturale, ma piuttosto deprecatorio, che però in seguito autori come Mario Isnenghi e Giorgio Rochat hanno corretto».
Sabbatucci chiude con una nota sul significato negativo che Sansonetti attribuisce alla
Canzone del Piave, proposta dalla Lega come inno nazionale: «Non vedo come le parole "non passa lo straniero", riferite alle truppe austro-ungariche, si possano interpretare in senso xenofobo. E ritengo improponibile contrapporre l'Inno
di Mameli alla Canzone del Piave: i due testi riflettono la stessa retorica nazionalista di origine risorgimentale. Basti pensare al richiamo alle glorie imperiali dell'antichità, con "l'elmo di Scipio" e la vittoria "schiava di Roma", nell'Inno di Mameli. Oggi dobbiamo guardare con distacco a quella retorica, ma non certo riesumarne una di segno ideologico opposto, che si richiami a un pacifismo esasperato».

Corriere della Sera 27.10.08
Abdelwahab Meddeb, ritenuto il «Voltaire musulmano», individua i percorsi d'uscita dal fanatismo e dalla violenza religiosa
L'Islam oltre le parole del Corano Così si cura il fondamentalismo
Rileggere il libro nel suo contesto storico. La lezione di ebrei e cristiani
di Abdelwahab Meddeb


Bisogna trovare il modo di superare tutte le disposizioni che impongono la sharia e la jihad

L'Islam non sta bene. In realtà, è malato. Mi è capitato di diagnosticare la sua malattia in una serie di quattro libri scritti dopo il trauma prodotto dagli attentati criminali dell'11 settembre 2001. È una malattia che si riassume nell'uso della violenza in nome di Dio. È su questo punto che dobbiamo interrogarci, per sapere se si tratta di una fatalità propria all'Islam o se abbiamo a che fare con una struttura che circola all'interno delle costruzioni religiose.
Fin d'ora, occorre riconoscere che la violenza generata dalla fede non è una caratteristica dell'Islam. Si esprime in maniera virulenta anche nelle religioni venute dal sub-continente indiano, che lo stereotipo associa alla spiritualità compiutasi nel miracolo della non violenza. Questa predisposizione alla violenza si manifesta quindi persino al di fuori della sfera dei monoteismi il cui conflitto interno, inutile ricordarlo, è fratricida.
Se consideriamo la sfera dei monoteismi, c'è da osservare che la guerra condotta in nome del Signore fu biblica prima d'essere coranica. Basti pensare al massacro ordinato da Mosè in collera, quando scopre la regressione del suo popolo al paganesimo. Dopo l'episodio del Vitello d'Oro, i Leviti uccisero tremila persone in un giorno, su ordine del loro profeta pontefice (Es 32,28). Giosuè, come successore del fondatore, non fu da meno. Per convincervi, vi invito a rileggere il passaggio sul massacro che egli fece eseguire dopo l'assedio di Gerico, in cui né gli uomini né le donne né i giovani né i vecchi e nemmeno le bestie furono preservati( Gs 6,21). Al giorno d'oggi, esistono fra gli ebrei alcuni fanatici che interpretano letteralmente la Bibbia e che vogliono universalizzare e attualizzare quello che loro chiamano il «giudizio di Amaleq», in riferimento al capo degli Amaleciti: tribù che gli ebrei dovettero combattere perché impediva loro di giungere alla Terra Promessa (Es 17, 8-15).
Così, per quanto riguarda la violenza, il profeta dell'Islam discende direttamente dalla legge mosaica. Il famoso «verso della spada» (Corano IX,5), che ordina di uccidere i pagani, e quello detto «della guerra» (Corano IX, 29), che chiama a una lotta a morte contro ebrei e cristiani, hanno consonanza biblica. E sono questi versi a nutrire il fanatismo assassino degli integralisti islamici.
Se l'esercizio della violenza divina sembra in coerenza con i Testi Rivelati, è bene fare una distinzione per gradi fra Giudaismo e Islam. Il secondo universalizza il primo.
Infatti il Giudaismo conduce la guerra del Signore per la sola Terra d'Israele, mentre l'Islam ha il mondo come orizzonte di conquista. La jihad, ottimizzata dagli integralisti, non è un'invenzione loro. È stata il motore dell'espansione islamica. Cito come testimone un cronista cinese del X secolo (Ou-yang Hsui) che aveva constatato come le truppe musulmane si gettassero nel pieno della battaglia alla ricerca del martirio dopo essere state galvanizzate dal loro capo, il quale prometteva il paradiso a chi moriva combattendo sulla strada di Dio.
Vero è che il testo evangelico prende le distanze da questa violenza. Quel che sorprende è il ricorso dei cristiani alla grande violenza attraverso la storia. In questo fenomeno scorgiamo un tradimento del loro testo. Certo, Sant'Agostino ha teorizzato la guerra giusta per difendere le conquiste della civiltà contro le invasioni barbariche. Ma non si trattava di una chiamata alla guerra in nome della fede. Il dottore di Ippona doveva legittimare questa esortazione, pur sapendo che non corrispondeva allo spirito evangelico. Tuttavia, il cristianesimo ha impiegato circa mille anni, con le Crociate, a cristallizzare una nozione equivalente alla jihad.
Ricorro a queste rievocazioni non per attenuare il male che affligge l'Islam, ma per mostrare che il Testo fondatore può essere oltrepassato, se non superato. Se il cristianesimo non ha onorato il pacifismo del proprio testo evangelico, l'Islam può trovare i mezzi di neutralizzare le disposizioni che, nel testo coranico, invitano alla guerra. È a questo che miriamo insistendo in particolare sulla questione del contesto in cui fu emesso e ricevuto il testo.
Questa neutralizzazione attraverso il ritorno al contesto è assolutamente necessaria, non solo per quanto riguarda il problema della violenza, ma anche per i molteplici anacronismi antropologici che trascina con sé il diritto emanante dallo spirito e dalla lettera del testo fondatore (penso alla sharia che il Corano ispira).
Quanto alla violenza, bisognerà evidentemente agire sugli Stati di genesi islamica per indurli a prendere coscienza che hanno il dovere di neutralizzare la nozione di guerra santa, di jihad, poiché essa è in flagrante contraddizione con la loro partecipazione al concerto delle nazioni, al cammino verso l'utopia kantiana della «pace perpetua», che resta nello spirito del secolo, malgrado il persistere delle guerre e degli effetti egemonici dei potenti e malgrado la loro emulazione per acquisire la forza che li porterà a governare il mondo. Del resto, la diversità umana di questi tempi si manifesta persino in questa pretesa all'egemonia universale attraverso la forza delle armi o del denaro. Non si percepisce forse tale ambizione nell'emergere di Cina, India, Stati petroliferi arabi al fianco di Europa e America?
È imperativo intervenire presso gli Stati islamici affinché aprano gli occhi su un mondo e un secolo che cambiano. Per quanto riguarda l'identità religiosa, l'Islam continua a vedere i cristiani come fossero ancora i protagonisti medievali del Cristianesimo. Da tempo invece i concetti di nazione e di popolo hanno ridotto il riferimento alla religione. Ora che la scommessa dello Stato sembra post-nazionale, il ruolo determinante della religione si allontana ancora di più. In Europa, per esempio, esso può essere ammesso solo se accostato alla nozione primaria e prioritaria di cittadino.
Questa nozione di cittadino porta con sé l'assimilazione di un altro diritto costruito al di fuori delle prescrizioni religiose, che appartengono a un'altra epoca.
Insomma, quel che viene chiesto all'Islam per guarire, per uscire dalla maledizione, è di costruirsi un sito post-islamico che possa essere contemporaneo ai siti in cui sono insediati ebrei e cristiani. È necessario per non turbare il concerto delle nazioni. Ma, per il momento, gli Stati islamici — in particolare l'Arabia Saudita — si accontentano di mettere in guardia i propri cittadini stimolandoli a integrare un Islam del giusto mezzo, destinato a distinguerli da chi, fra i loro correligionari, vive la propria fede secondo un'interpretazione estrema, massimalista. Questi Stati fondano il proprio appello teologicamente, assimilando i massimalisti islamici a coloro che adottano la nozione di ghulw, l'eccesso che il Corano vieta quando raccomanda alla «Gente del Libro» la moderazione nell'interpretare il proprio dogma (Corano IV, 171; V, 77).
È un passo lodevole, ma davvero insufficiente, timido, soprattutto per la presenza dell'Islam in Europa. Per tale presenza, abbiamo i mezzi di rendere operativo il sito post-islamico, incitando i cittadini musulmani d'Europa a vivere nella libera coscienza secondo lo spirito del diritto positivo e della Carta dei Diritti dell'uomo, abolendo qualsiasi riferimento alla sharia. Così, come musulmani della libera scelta, potranno praticare un culto spiritualizzato che sapranno alimentare attingendo alla mistica — ricchissimo capitale del sufismo — prodotta dalla loro tradizione religiosa.
(traduzione di Daniela Maggioni)

Corriere della Sera 27.10.08
Misteri d'arte Irving Lavin offre un'inedita analisi di capolavori e movimenti
E Picasso rubò le «Demoiselles» a Dürer
di Arturo Carlo Quintavalle


Pablo Picasso dipinse nel 1907 «Les Demoiselles d'Avignon»

Uno dei maggiori storici dell'arte barocca che si confronta con il contemporaneo? L'allievo di Erwin Panofsky che scrive su Picasso cose che nessun contemporaneista finora ha pensato? Tutto vero e, per capire, partiamo proprio dalle Demoiselles d'Avignon il dipinto del 1907 che sta all'inizio della ricerca cubista. Bene, nelle centinaia di studi per il dipinto Irving Lavin (L'arte della storia dell'arte, Scheiwiller, pp. 207, e 36, a cura di C. Liuzzi e P. Vallerga) ne scopre alcuni singolari: un nudo in piedi con le braccia sul pube segnato da una specie di griglia parallela orizzontale, come per proporzionare la figura; un altro nudo con le braccia a cerchio.
Stranissimo, certo, ma da che fonti? Picasso non sfrutta qui l'arte africana, o i primitivi iberici, e neppure la tradizione accademica (da David a Ingres). Nel 1905 si pubblica il «Taccuino di Dresda» di Albrecht Dürer (1471-1528) che a Picasso viene fatto conoscere da un critico tedesco, Wilhelm Uhde: ebbene, proprio qui ci sono i modelli, le braccia a cerchio e le nuove misure delle figure. Picasso dunque vuol negare, attraverso Dürer, la tradizione della rinascita, l'accademia.
Novità anche sul titolo del dipinto che in altre occasioni Picasso indica come Le bordel d'Avignon, mentre per Apollinaire era Bordel Philosophique. Théodore Aubanel (1829-1886), amico di Mi-stral, volto al recupero della civiltà provenzale, pubblica un volume di poesie intitolato Les filles d'Avignon: sono componimenti sensuali, segnati dal desiderio, dunque destano scandalo e l'edizione è bloccata. Aubanel ne morirà di dolore.
Lunga storia dunque a monte delle Demoiselles, nel segno anche del riscatto delle terre emarginate dal centralismo della lingua di Francia. Da non perdere poi importanti contributi di storia della storiografia: Lavin e Panofsky, certo, a Princeton; ma anche Lavin e Giulio Carlo Argan a Roma, in un intreccio di cultura dove il Warburg «migrato» in Inghilterra dalla Germania pesa a fondo.

Corriere della Sera 27.10.08
Per Longhi l'opera era del pittore lombardo. Mahon condivise l'ipotesi. Calvesi e Vodret la ribadiscono
L'enigma del «Narciso»: studiosi divisi su Caravaggio
di P. Pan.


Il rilievo sollevato da Vittorio Sgarbi nel corso della registrazione di una puntata di «Porta a Porta» dedicata al narcisismo divide storici e critici d'arte. Il ministro Bondi aveva portato in studio il Narciso della Galleria nazionale di Palazzo Barberini, esposto con l'attribuzione a Caravaggio. Collegato dal Duomo di Parma, Sgarbi ha messo in discussione la paternità caravaggesca dell'opera, attribuendola allo Spadarino. A difendere l'attribuzione al Merisi è intervenuto poi il soprintendente del polo museale del Lazio Claudio Strinati.
Ma in effetti, una parte della letteratura critica recente ha messo in dubbio l'attribuzione longhiana dell'opera a Caravaggio, attribuendo il dipinto a seguaci, vuoi a Orazio Gentileschi vuoi allo Spadarino (Roma 1585 - morto prima del 1653). In seguito agli articoli di Gianni Papi (sua la cura della mostra «La Schola di Caravaggio » del 2006), anche Mina Gregori, pur rigorosa erede del verbo longhiano, ha espunto la tela dal catalogo caravaggesco. L'attribuzione a Caravaggio (ma le date del dipinto oscillano tra il 1546 e il 1599), accettata da Denis Mahon, è stata invece ribadita da Marini e Maurizio Calvesi, presidente delle ultime celebrazioni caravaggesche. «È vero, documenti che certifichino la paternità del dipinto non ce ne sono — ha ribadito al Corriere Calvesi —, ma gran parte delle attribuzioni sono fatte su base conoscitiva. E io dico che la pittura di Spadarino è diversa da questa, e così la pensano anche Alessandro Zuccari, la Vodret e Strinati».
Un riferimento del quadro a Caravaggio si trova solo su una licenza di esportazione, ma del 1645, relativa ad un Narciso di Caravaggio di misure analoghe al nostro. Pur senza mai proporre una sicura identificazione tra il documento e la tela, gli studiosi avevano da allora, agli anni Settanta, accostato la licenza al quadro, ribadendo l'autografia caravaggesca.

domenica 26 ottobre 2008

Repubblica 26.10.08
Scioperi e cortei, l'Onda non si ferma
Studenti in piazza da Trieste a Potenza. Bankitalia boccia la scuola italiana: inadeguata
Il capo della polizia Manganelli: garantiremo i diritti di tutti. I giovani della destra si spaccano tra pro e no Gelmini
di Mario Reggio


ROMA - La marea montante della protesta non si ferma. Anche ieri cortei, manifestazioni, lezioni in piazza, scuole e atenei occupati. E la polizia? «Siamo chiamati a garantire i diritti di tutti - afferma il capo della Polizia Antonio Manganelli - sia nell´esprimere il dissenso che il consenso». Scende in campo anche il vicedirettore generale di Bankitalia, Ignazio Visco: «La qualità dell´istruzione fornita dal nostro sistema è inadeguata» ma scuola e università restano «una priorità» per il nostro Paese. «Servono quindi interventi importanti, tra i quali la revisione degli incentivi che guidano l´apprendimento come l´attività di insegnamento».
E mentre il «movimento autogestito» organizza un´altra settimana di fuoco, negli ambienti della destra si segnalano le prime spaccature. Lotta Studentesca, cioè i giovani di Forza Nuova, ha deciso di partecipare alla manifestazione nazionale dei sindacati della scuola che si svolgerà a Roma il 30 ottobre. I giovani della Destra Libertaria invece, guidati dall´avvocato Luciano Buonocore, manifesteranno lunedì a Roma il loro sostegno alla Gelmini.
Intanto, anche ieri migliaia di giovani sono scesi in strada per manifestare il loro dissenso. Ad Agropoli in provincia di Salerno, gli studenti si sono incatenati e imbavagliati ai cancelli del liceo: «vogliono ridurci al silenzio, ma pur imbavagliati continueremo a far sentire le nostre ragioni». E se a Roma sono stati 2.500 i giovani che hanno percorso in corteo le strade di Centocelle, a Potenza ne sono scesi in piazza il doppio. Due cortei anche a Napoli: arrivati davanti alla sede della direzione scolastica regionale, gli studenti hanno improvvisato lezioni in piazza, uno spettacolo teatrale e un pranzo sociale. Lezione in strada anche a Bologna, nella centralissima piazza Scaravilli dove l´astrofisica Margherita Hack ha spiegato a qualche centinaio di giovani le teorie di Galileo e Einstein. E proprio dall´assemblea genitori e insegnanti di Bologna arriva una proposta per martedì sera, giorno prima del voto al Senato: genitori, insegnanti e studenti, «dalle Alpi alla Sicilia» compongano nelle piazze la scritta "Fermatevi" con candele e lumini. In provincia di Lecco tre comuni, Olginate, Garlate e Valgreghentino a partire da domani simuleranno nelle scuole elementari l´applicazione della riforma Gelmini, organizzando le lezioni con il maestro unico.
Si è svegliata anche Trieste. La mobilitazione è iniziata una settimana fa e ieri un migliaio tra studenti, insegnanti e studenti hanno partecipato al corteo contro la Gelmini che si è concluso davanti alla Prefettura. Il movimento non rispetta neanche la domenica: alle 11 alla facoltà di Fisica della Sapienza i professori spiegheranno ai bambini delle elementari i misteri della scienza.
E domani si ricomincia. Dalle 10 alle 12 gli studenti di Medicina e Chirurgia della Sapienza saranno davanti al ministero dell´Istruzione per una lezione sul "carcinoma polmonare". In queste ore le associazioni degli studenti e dei ricercatori stanno preparando in queste ore il calendario settimanale. Giornata cruciale martedì 28 ottobre, tutti a piazza Navona, quando il governo presenterà al Senato il decreto Gelmini per il voto finale e definitivo.

Repubblica 26.10.08
E i fisici della Sapienza scesero in trincea "Così la ricerca fa crac"
Nella scuola di Fermi l'epicentro della protesta
"Con questo governo oggi Einstein sarebbe un precario o un fannullone"
"Qui non si investe più, i giovani fuggono, in futuro la scienza sarà indiana e cinese"
di Beppe Savaste


ROMA - Nel moltiplicarsi delle occupazioni, la didattica delle università non si è affatto bloccata. Al contrario si è trasferita nella città, fuori dagli steccati accademici. È pubblica, come il sapere che si vuole difendere. A Roma, come in altre città d´Italia, è in corso un grande democratico festival culturale, e le piazze sono teatro di lezioni en plein air. Una delle più emozionanti è stata sicuramente quella dei fisici della Sapienza, in piazza Montecitorio: un migliaio di studenti ad ascoltare la bella lezione del professor Giovanni Jona-Lasinio, studioso di fisica delle particelle, che con l´altro grande fisico italiano Nicola Cabibbo, pioniere nello studio dei quark e Nobel mancato. Segue la lezione di un altro grande fisico, Giorgio Parisi, docente di Calcolo delle probabilità. Parisi affascina percorrendo la maturazione delle idee di Einstein tra quantistica e relatività, ma entusiasma dichiarando che oggi, con questo governo, «Einstein sarebbe un precario, magari un fannullone che si sollazza nell´elaborare teorie invece di lavorare». E invita gli studenti a «resistere a questo governo di barbari che sta distruggendo la nazione, e misconosce la Costituzione sulla promozione della ricerca scientifica, la libertà d´insegnamento e il diritto al lavoro». La protesta è contro un economicismo miope che non sa valutare gli investimenti a lunga scadenza, e con essi l´educazione e la ricerca; una sorta di «guerra contro l´intelligenza», una politica ispirata dal misconoscimento verso ciò che a torto è giudicato improduttivo, come l´educazione e la cultura. «Costringere i giovani che studiano con passione a cercare lavoro all´estero significa per l´Italia negarsi il futuro», dice Parisi.
La facoltà di Fisica della Sapienza è un osservatorio privilegiato. Durante l´occupazione si è svolto il convegno internazionale su Edoardo Amaldi nel centenario della nascita. Amaldi, già del gruppo di via Panisperna, fondatore della fisica del dopoguerra, dell´Istituto nazionale di fisica nucleare e tra i primi direttori del Cern di Ginevra, è un po´ il maestro di tutti. All´apertura della conferenza gli studenti hanno letto un documento in inglese dove si ricorda come Amaldi avesse sempre insistito nel considerare la ricerca un investimento pubblico necessario, non un onere: poiché senza ricerca non vi sarebbe sviluppo alcuno. Lo ricorda Carlo Bernardini, ex direttore del dipartimento di Fisica del Cnr, che con gli altri colleghi è stato commosso dalla pacatezza di quel testo. «È evidente - dice - che tagliare i fondi, aumentare le tasse, annientare l´università pubblica vuol dire uccidere la civiltà. Gli economisti che hanno ispirato il governo non capiscono che per un´università di qualità serve investire sulla ricerca. L´India e la Cina lo fanno, in futuro la scienza sarà cinese e indiana».
Nicola Cabibbo, già presidente dell´Istituto di fisica nucleare, ora alla guida della Pontificia accademia delle scienze, non nasconde i suoi timori: «Siamo molto preoccupati di fronte a questi tagli indiscriminati. Tutti gli istituti di fisica sono minacciati, pur producendo eccellenze a livello mondiale. Il dipartimento della Sapienza è di altissimo valore, gli studenti lo sanno, e da questa consapevolezza nasce la protesta, totalmente condivisibile». Studenti e docenti hanno in cantiere altre lezioni esterne e oggi un incontro con i bambini delle elementari, una sorta di didattica ludica della fisica con esperimenti sull´elettromagnetismo e sul pendolo, seguita da una discussione sul decreto Gelmini.
«La cultura è una sola», dice Gianluca Trentadue, docente di Fisica teorica all´università di Parma, da molti anni collaboratore coi colleghi romani al Cern di Ginevra, alla realizzazione del nuovo grande acceleratore appena inaugurato alla presenza di tutti i ministri i cui governi partecipano alla ricerca, tranne il ministro Gelmini. «Colpire con tagli e disprezzo una parte di essa, vuol dire colpire tutta la cultura. Già oggi spendiamo in ricerca meno della metà di altri paesi europei. Tagliare ancora i fondi significa azzerare la presenza italiana in tanti laboratori internazionali».

Corriere della Sera 26.10.07
Incontri. Il poeta siriano, domani alla Biennale Teatro di Venezia, parla del ruolo degli scrittori in Medioriente
Adonis: la laicità fa bene alla pace
«Intellettuali arabi e israeliani uniti contro i fondamentalismi»
di Paolo Foschini


Essenziale il nostro ruolo per arginare gli estremismi. Penso al mio amico Amos Oz, autore di uno dei saggi più belli Protagonista
Adonis è lo pseudonimo di Ali Ahmad Said Esber, poeta libanese di origine siriana nato a Qassabin nel 1930. Residente dagli anni Ottanta in Francia, è stato varie volte candidato al Nobel per la letteratura

Un monito contro la «dittatura della paura, maschera e alibi di ogni potere». Un primo appello a tutti gli «intellettuali e uomini di cultura, principale baluardo contro i fondamentalismi». E un secondo appello, ancora più forte, alla «responsabilità dell'Europa, delle democrazie occidentali, e in questo senso anche di Israele, per la costruzione della pace nel mondo in generale e in Medioriente in particolare»: perché «è chiaro che tutti devono contribuire, ma il primo passo non può che venire da chi una democrazia ce l'ha già». Questa la sintesi del pensiero dell'uomo noto da una vita come Adonis, alla nascita Ali Ahmad Said, più volte candidato al Nobel e considerato con formula ormai datata il «caposcuola dei nuovi poeti arabi»: da domani a Venezia per intervenire alla tre giorni che la Biennale Teatro dedica al «Mediterraneo » con una lectio magistralis su La bellezza del dialogo e un testo da lui recitato: Concerto per il Cristo velato.
Nato in Siria nel 1930, laureato a Beirut, sei mesi di carcere in curriculum come attivista del Partito socialista siriano, professore alla Sorbona, fondatore di riviste politiche e letterarie, definitivamente domiciliato a Parigi dall'85, da sempre fautore di una «responsabilità» anche dell'arte nelle sorti politico-sociali del pianeta, il poeta della Memoria del vento e de La musica della balena azzurra
parla sorseggiando con calma un Montepulciano d'Abruzzo e non ha dubbi su ciò che per un concetto culturalmente complesso come «il Mediterraneo » rappresenta oggi l'urgenza più evidente: «La soluzione del problema israeliano- palestinese. Senza una pace definitiva e condivisa in Medioriente, ogni altra strada è preclusa». E fin qui si fa presto a dire che lo dicono tutti. Il punto è: come si fa? Adonis pronuncia tre parole: «Intellettuali, cultura laica, democrazia». Poi passa alla spiegazione.
«Quando parlo di democrazia — comincia — intendo riferirmi alla "responsabilità" che i Paesi democratici hanno nei confronti di se stessi e degli altri. Ora, per quanto riguarda quell'area del mondo, qualsiasi osservatore concorda nel ripetere che Israele è non solo uno Stato democratico, ma una sorta di prolungamento mediorientale delle democrazie occidentali. Detto questo, è evidente, ripeto, che la pace bisogna volerla in due. Ma in quanto "democrazia" è Israele che a questo punto deve fare il passo fondamentale: e cioè riconoscere ai palestinesi uno Stato indipendente».
Va da sé che pure l'obiezione è sempre la stessa: anche Israele ha il problema della propria sicurezza, o no? «Certo che sì. Ma non dobbiamo confondere i Paesi arabi circostanti con i fondamentalismi presenti nell'area. Paesi come Egitto, Giordania, Marocco, hanno fatto già tutto il possibile per andare incontro a Israele e la maggioranza degli arabi vede il fondamentalismo come fumo negli occhi. Riconoscere lo Stato palestinese toglierebbe qualsiasi alibi a chi invece continua a soffiare sul fuoco».
A proposito di fondamentalismo... «Ci sto arrivando: è proprio in questo senso che il nostro ruolo di intellettuali è determinante. Intellettuali di ogni provenienza. Penso ad esempio al mio amico israeliano Amos Oz, che contro il fondamentalismo ha scritto uno dei suoi saggi più belli. Penso alla responsabilità di tutti noi "laici" nel senso culturale del termine, e penso al fatto che qualsiasi Stato fondato su un'appartenenza religiosa è contraddittorio in sé: e questo vale per Iran e Arabia Saudita, ma, benché in modo diverso, vale anche per Israele. Ci vuole una svolta. E poiché tanto il fondamentalismo quanto le appartenenze religiose sanno parlare solo alla "pancia" dei popoli, quindi alle loro paure, sono gli uomini di cultura che devono parlare ai loro cervelli».
E l'Europa? «L'Europa e l'Occidente hanno appunto questa grande responsabilità da affrontare: uscire dal ricatto della paura con cui, più ancora del terrorismo, l'Occidente stesso si tiene soggiogato da solo. Perché niente come la paura serve a chi detiene un potere per mantenerlo e alimentarlo». Oddio, un altro con la tesi dei complotti? «Ma no, è ovvio che il terrorismo è un problema reale! Dico solo che la strada per sconfiggerlo non passa attraverso la guerra. Dico che Europa e Occidente hanno responsabilità storiche — penso all'imperialismo dei secoli passati — che oggi si traducono nella possibilità di fare molto per il resto del mondo. La democrazia si esporta con l'esempio, non con la spada. E così la capacità di dialogo». Parola ultimamente abusata, secondo l'ultima lezione di Gianni Vattimo: «Che ha ragione — conclude Adonis — se, come molti oggi fanno, si considera il dialogo solo come adesione al pensiero dell'altro e si accusa chi non la pensa come te di "non voler dialogare". Ma se il dialogo è rispetto, confronto fra creatività, allora dalla diversità non può nascere che arricchimento. E in ultima analisi pace».

Corriere della Sera 26.10.07
Dispute. Battaglia tra storici, sei secoli dopo, sulla Guerra dei Cent'Anni. «Enrico V fece uccidere i prigionieri»
I francesi accusano: «Inglesi criminali ad Agincourt»
di Guido Santevecchi


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
LONDRA — Gli eroici arcieri inglesi di Agincourt cantati da Shakespeare? «In realtà si comportarono da criminali di guerra», parola di Christophe Gilliot, stimato storico francese. Sono passati 593 anni da quel giorno del 1415; c'è stata l'Entente cordiale del 1904; due guerre mondiali combattute spalla a spalla nelle stesse trincee; qualche mese fa Gordon Brown, entusiasta per la visita di Sarkozy (e per la presenza di madame Carla Bruni-Sarkozy), ha battezzato l'Entente formidable tra Londra e Parigi. Ma la ruggine della rivalità continua a galleggiare tra le due sponde della Manica (o del Canale, a seconda dei punti di vista).
Ieri, nell'anniversario della battaglia di Agincourt del 25 ottobre 1415, un gruppo di storici francesi si è riunito sul luogo dello scontro vinto dall'esercito inglese di Enrico V ( nel ritratto)
per lanciare una controffensiva revisionista. Guidata da Gilliot, che è direttore del museo di storia medievale e autore del saggio
Azincourt et la vie quotidienne en 1415 (Hemdal). Dice lo studioso: «I fatti sono stati distorti dai vincitori». Anzitutto non è vero che, come sostiene l'epica inglese, i soldati di Enrico V fossero in grave inferiorità numerica rispetto ai cavalieri mandati da Carlo VI di Francia.
Al culmine della Guerra dei Cent'Anni, re Enrico era sbarcato con 12 mila uomini e ne aveva già persi nella campagna tremila; ma i nobili francesi erano solo 9 mila, appoggiati da altri 3 mila soldati locali. Quindi nella radura di Agincourt vicino a Calais, le due armate più o meno si equivalevano per numero. Ma l'assalto a sangue è contenuto nell'analisi degli eventi: «Come minimo le forze inglesi si comportarono in modo disonorevole — dice Gilliot —. Il Medio Evo era un tempo di grande violenza, ma con il metro di oggi le loro azioni sarebbero giudicate crimini di guerra». E ancora: «Ci furono molti atti eroici francesi sul campo di battaglia, ai quali gli inglesi risposero in modo barbaro». Lo storico si riferisce all'uccisione di numerosi prigionieri francesi ordinata da Enrico durante la battaglia. Chi ha ragione? Il Daily Telegraph,
quotidiano conservatore di Londra, sottolinea in modo critico che al seminario di Agincourt ieri non sono stati invitati studiosi britannici. Ma in effetti le cronache inglesi del tempo arrivarono a sostenere che i francesi fossero un'orda di 150 mila uomini.
E quanto al massacro dei prigionieri francesi, è stato esaminato anche dal professor John Keegan nel Volto della battaglia (Il Saggiatore). Secondo il famoso storico britannico, Enrico ordinò di abbattere i nobili che si erano arresi perché, in un momento critico, i francesi avevano compiuto un'incursione dietro le linee di arcieri gallesi. Se avessero liberato i prigionieri le sorti della battaglia si sarebbero rovesciate. Pura necessità, anche se sgradevole. D'altra parte, l'uso degli archi lunghi (i
longbows) ad Agincourt segna la fine dell'era della cavalleria e l'inizio della supremazia delle armi a distanza sulla mischia classica (la mêlée). Resta la leggenda secondo la quale il segno V per «victory» fu fatto per la prima volta dagli arcieri di Enrico quel 25 ottobre: per mostrare agli sconfitti le due dita che scoccano la freccia.

il Riformista 26.10.08
Cristoterapia e omosessualità. «I gay possono guarire»
Avvampa la polemica sull'inchiesta del Giornale
di Alessandro Da Rold


RICETTE. Un ex iscritto all'Arcigay racconta la «guarigione» con terapia religiosa. La protesta delle associazioni omo. Grillini: «Ridicolo e penoso che una testata dia credito a queste teorie».

«Ha presente i fanatici della cantante Madonna che si sono fatti ore di fila per partecipare al concerto a Roma?»: l'ex deputato ds Franco Grillini, ora nel Partito Socialista, orgogliosamente gay, analizza così l'articolo apparso su Il Giornale in cui Luca di Tolve, ex attivista dell'Arcigay, racconta della cura che lo ha portato «a guarire», a diventare cioè eterosessuale.
Terapie psicoterapeutiche nate negli Stati Uniti, spesso all'interno di gruppi ultrareligiosi di destra, (vicini tra l'altro alla candidata repubblicana Sarah Palin), che si prefiggono di «riparare l'omosessualità». Di Tolve, trentaseienne racconta della sua nuova vita, lontana dai festini a base di cocaina e sesso, ora incentrata sul matrimonio, sul lavoro e sulla speranza di avere un bambino. Ci è riuscito dopo cinque anni in cui era un convinto «egocentrico, palestrato, schiavo dei locali notturni, convinto di provare attrazione unicamente per i maschi e finito nel vortice del sesso compulsivo».
Ci è riuscito appunto intraprendendo questa «cristoterapia, per chi vuole trovare conforto e motivazione nella preghiera», si legge sul quotidiano di centrodestra. C'è da ricordare che è dal 1990 che l'omosessualità non è più secondo l'Oms, Organizzazione Mondiale della Sanità, un disturbo mentale. Il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, che ha anche le deleghe alla Sanità, preferisce non commentare: «Non conosco il caso e per principio faccio commenti a riguardo».
Grillini, però, incalza: «Mi pare ridicolo e penoso che una testata giornalistica dia credito a teorie di questo tipo. Il fatto poi che sia il giornale del presidente del consiglio a pubblicare un articolo su come curare l'omosessualità, è una cosa penosa oltre che ridicola. È la solita pratica calunnatoria tipica della destra italiana». Aurelio Mancuso, presidente dell'Arcigay aggiunge: «Sono pratiche che finiscono poi con il peggiorare le cose. La non accettazione della propria sessualità può portare ad avere degli atteggiamenti forzatamente eterosessuali, ma prima o poi l'omosessualità riappare: la propria intimità non può essere rieducata dalle preghiere».
Per la dottrina del Narth, (National Association for Research & Therapy of Homosexuality), infatti l'omosessualità è un sintomo particolare relativo all'ambito della sessualità che in casi estremi «è una malattia che può avere aspetti patologici pesantemente problematici». Grillini racconta un aneddoto a riguardo. «Qualche anno fa due massimi dirigenti maschi di Narth sono scappati a vivere insieme».
Insomma, la pratica di certe teorie psicoterapiche finisce con lo smentirle. Conclude Grillini: «Per la destra questo momento è il trionfo dell'ipocrisia. Sappiamo alla perfezione quanti sono gli omosessuali nel governo, nella maggioranza, tra i sottosegretari, tra i ministri, dentro il partito di Berlusconi, dentro la Lega Nord, dentro Alleanza Nazionale. Li conosciamo nome per nome, ma chiaramente preferiamo evitare di dire chi sono. Per riconoscerli però basta guardare chi dalla mattina alla sera spara a zero sugli omosessuali: quello è un buon indicatore».

Repubblica Genova 26.10.08
La provocazione
Lettere alle parrocchie: cancellateci
Atei all´attacco ieri la giornata dello "sbattezzo"


SONO venti i neo-sbattezzati genovesi di ieri, giornata nazionale dello sbattezzo lanciata dall´Uaar, l´associazione degli atei, agnostici e razionalisti. Come già in analoghe iniziative, ieri mattina alcuni rappresentanti dell´associazione tra cui il segretario Silvano Vergoli e la tesoriera Isabella Cazzoli hanno effettuato il passaggio burocratico, cioè spedito dalla posta centrale di via Dante le raccomandate alle diverse parrocchie di battesimo di chi vuole venir cancellato dai registri. Questa volta, però, non c´è stata la consegna delle ricevute alla Curia di piazza Matteotti: inutile ripetere un gesto che può sembrare di pura propaganda, è il ragionamento dei vertici dell´Uaar, cerchiamo se mai di avviare delle iniziative che permettano di facilitare la pratica dello sbattezzo a chiunque voglia effettuarla, mettendo a disposizione il sito e le strutture associative per tutti quei cittadini che trovano difficoltà nel portare a termine la pratica, soprattutto perché, spiegano Vergoli e Cazzoli, non sempre le parrocchie rispondono alle richieste di cancellarsi dagli elenchi. Ma va anche detto che sono decine i cittadini che, anche a Genova, hanno invece inviato la loro richiesta ottenendo in poche settimane una comunicazione stringata che conferma l´avvenuta cancellazione, e il conseguente divieto di avvicinarsi ai sacramenti e di poter avere un eventuale funerale religioso. Ieri, intanto, oltre seicento persone hanno aderito in tutta Italia alla giornata comune dello sbattezzo.

sabato 25 ottobre 2008

Repubblica 25.10.08
La Gelmini dice no agli studenti, il decreto resta Ancora cortei
Berlusconi: "In piazza anche i facinorosi"
Il premier conferma: "Niente dialogo con la sinistra inattendibile che mi definisce un dittatore"
di Gianluca Luzi

PECHINO - «Nessuna possibilità di dialogo con la sinistra inattendibile che mi definisce un dittatore e appoggia i facinorosi che manifestano contro la riforma della scuola». Nel secondo giorno a Pechino per il vertice dell´Asem, Berlusconi torna ad attaccare la sinistra, gli studenti e i mezzi di informazione, Rai in testa, per le contestazioni alla Gelmini. Nel giorno in cui la ministra dell´Istruzione riceve gli studenti, ma solo per confermare che la riforma resta.
«Non ritiro il decreto, bisogna cambiare» ha detto la Gelmini, chiudendo così il dialogo con tutte quelle sigle che avevano posto come condizione per sedersi al tavolo il ritiro dei provvedimenti. La ministra ha negato poi una carenza di finanziamenti: «Non è vero che in Italia si spende poco per l´istruzione, anzi siamo tra i primi d´Europa. Ma si spende male». E per lanciare una controcampagna di informazione a favore della riforma Berlusconi chiede ora ai parlamentari del Pdl di andare nelle scuole, nelle classi a spiegare la bontà delle nuove misure varate dal governo. Mercoledì scorso Forza Italia ha mandato una mail a tutti i parlamentari del Pdl. Contenuto, due allegati: un pieghevole dal titolo "La scuola, o si cambia o si muore", in cui si elencano i punti salienti della riforma e un volantino contro l´atteggiamento disfattista dell´opposizione. Nel pieghevole anche una lettera di Berlusconi che difende i provvedimenti. Tutto materiale che i parlamentari potranno scaricare e distribuire, andando nelle scuole. Intanto ci pensa Berlusconi a controbattere alle accuse dell´opposizione.
Veltroni dice che è inutile replicare alle sue affermazioni sui facinorosi «tanto poi si smentisce»? «Non rispondo neppure - replica il premier - sono abituato a ricevere insulti e calunnie, ormai ho la pelle dura». Le critiche dell´opposizione, taglia corto il capo del governo, «non mi interessano. Io ho una maggioranza in Parlamento e vado avanti. Non c´è nessuna possibilità di dialogo», conferma il premier. Del resto, «affermano che sono un dittatore, perché dovrei dialogare? Se sono un dittatore do ordini e mi impongo. Se invece non è vero che sono un dittatore - argomenta il presidente del consiglio - e non c´è un regime, se la realtà è che siamo un paese democratico in cui c´è una maggioranza assolutamente democratica, che credibilità posso dare a chi afferma che siamo in un regime?». Poi il premier torna ad attaccare un´informazione che «ha divorziato» dalla realtà, ma «le persone di buon senso - aggiunge - sanno dare un giudizio su quello che leggono». Quanto alla polizia nelle università, Berlusconi nega di essersi autosmentito: «Io non ho cambiato giudizio»: lo Stato «deve difendere i diritti dei cittadini tra cui quello di frequentare le scuole e le università». Quindi "i facinorosi" non impediscano l´accesso di altri nelle strutture pubbliche». Ma chi scende in piazza per manifestare il proprio dissenso è automaticamente un facinoroso? «Chi manifesta può essere uno che si oppone perché non è d´accordo. - risponde il premier - ma tantissime manifestazioni sono organizzate dall´estrema sinistra e dai centri sociali, come mi ha confermato il ministro dell´Interno Maroni. Si può ben dire in questi casi - conferma il premier - che in queste manifestazioni ci sono dei facinorosi. Non tutti, piccoli gruppi. E hanno il supporto dei giornali».

I leader dei giovani divisi la sinistra rompe, la destra no "Ma la protesta continuerà"

Repubblica 25.10.08
Dottorandi e ricercatori: "L´Università non si cambia con i tagli"
di Mario Reggio

ROMA - «Io conto sulla mobilitazione della maggioranza silenziosa». Mariastella Gelmini risponde così ai rappresentanti degli studenti che le chiedono di bloccare il decreto prima di iniziare a discutere.
La giornata è iniziata sotto un tiepido sole in quel del Circo Massimo dove si sono dati appuntamento alcune migliaia di studenti delle scuole superiori. Il presidio si scioglie a mezzogiorno e molti si mettono in cammino verso il ministero della Pubblica Istruzione, in viale Trastevere. Si mischiano giovani dei licei, Albertelli e Russel, studenti universitari. Tutti sono curiosi di sapere come andrà a finire l´incontro tra le associazioni che partecipano alla mobilitazione ed il ministro. Alla spicciolata raggiungono il ministero, si sistemano sotto la scalinata, srotolano gli striscioni, quelli che da giorni portano in giro per la città. Arriva la prima delegazione. È l´una e mezza. Il calendario prevede incontri separati, ma i giovani delegati dell´Unione degli Studenti, della Rete degli studenti e dell´Unione degli universitari, salgono assieme al secondo piano dello storico palazzo umbertino. Entrano in una delle austere sale dal soffitto altissimo, li attendono il ministro Mariastella Gelmini, il presidente della Commissione Cultura della Camera Valentina Aprea accompagnati da tre silenziosi collaboratori. Gli universitari chiedono il ritiro dei decreti che tagliano un miliardo agli atenei, il blocco del turn over che prevede due assunzioni ogni dieci docenti che vanno in pensione, la trasformazione degli atenei in fondazioni di diritto privato. Nella stanza cala il gelo. Il ministro risponde: «mi stupisco che difendiate una cosa che non funziona come l´università». Stessa risposta ai rappresentanti degli studenti delle superiori: «Siete rimasti indietro, volete preservare lo status quo».
La Gelmini è irremovibile. Il dialogo non è mai iniziato. Gli studenti si alzano e se vanno. Scendono le rampe dell´ampio scalone che porta all´ingresso. Fuori, ad attenderli, centinaia di giovani. «Il dialogo è impossibile, di cosa dobbiamo discutere? La mobilitazione continua». Le parole dei delegati vengono salutate da un boato di approvazione.
Sono passate da poco le due e agli occhi dei cronisti in attesa si presenta una scena imprevedibile. Dalla rampa che curva e porta al cancello d´ingresso appare un manipolo di giovani. Giacca e cravatta, vestito scuro, scarpe lucide nere, come sono lucide le borse di pelle che portano con loro. Marciano con lo stesso passo. Chi sono? I rappresentanti di Azione studenti universitari, quelli di An. Il manipolo scompare dietro il cancello. Arriva anche la delegazione di Azione studentesca delle scuole superiori. La guida Michele Pigliucci, alla fine degli anni ´90 leader della destra nel liceo Giulio Cesare.
Scompare anche lui. Passa una mezz´ora mentre il sit-in degli studenti si sfilaccia. Riappaiono i leader della destra. «Un confronto sincero e costruttivo con il ministro, un buon inizio».
Sfilano i delegati dell´Azione Cattolica, della Federazione universitari cattolici. I primi non chiedono il blocco del decreto «ma che sia migliorato nella fase attuativa. La Fuci critica «lo scarso clima di dialogo e il taglio dei fondi e del turn over». Donato Montibello della Rete universitaria nazionale torna dall´incontro e non nasconde la sua preoccupazione: «Non è stata un´apertura al dialogo, la mobilitazione continua». Sconfortato Giovanni Ricco, segretario dell´Associazione dottorandi e dottori di ricerca: «L´università deve cambiare, ma non lo si fa solo con i tagli, tra i ricercatori precari è ormai diffusa la certezza di un futuro nero, cambiare i concorsi, colpire i baroni che sfruttano le loro posizioni di potere, va tutto bene. Ma pensare di sopravvivere tutta la vita con mille euro al mese è insopportabile e disumano».

Repubblica 25.10.08
Roma, tensione e manganelli è scontro tra studenti e polizia
Il corteo alla Festa del cinema, manifestazioni in tutta Italia
di Marina Cavallieri

I tafferugli quando i ragazzi hanno cercato di bloccare il "red carpet" dei vip
In mattinata avevano sfilato i liceali: in 10 mila a Piazza Navona

ROMA - Cortei, lezioni in piazza e manganellate. Si alza la tensione in quella che doveva essere un´altra giornata di ordinaria protesta. È all´Auditorium di Roma, dove si celebra il Festival del cinema, che irrompe l´Onda anomala. Ma davanti al red carpet delle celebrità, la mobilitazione che fino ad allora era stata quasi festosa, rischia di precipitare nella trappola che tutti temono.
Gli studenti partiti dalla Sapienza, dopo aver preso la metropolitana in massa, arrivano e avanzano, i poliziotti non indietreggiano, partono colpi di manganello, ci sono spintoni e grida, qualcuno urla «non picchiateli». «Poi siamo andati avanti con le mani alzate e ci siamo seduti per un sit-in», racconta uno studente. «Arrivare all´Auditorium fa parte delle iniziative di disturbo che stiamo mettendo in atto per creare disagio all´interno della città». La tensione per un po´ si allenta, ma non del tutto. Così quando quattro studentesse raggiungono il tappeto rosso e aprono uno striscione con scritto "Pay attention, movimento irrappresentabile" e cominciano a spiegare la protesta al pubblico, vengono bloccate e identificate dalla polizia. Gli studenti si allontanano solo in tarda serata, soddisfatti del palcoscenico scelto e consapevoli dell´effetto mediatico.
Se all´Auditorium si sfiora la carica, nelle altre piazze d´Italia la mobilitazione è tranquilla anche se determinata. Trasversale. Perfino dotta. Con gli anziani e illustrissimi professori che fanno lezione nelle piazze. Mentre molti licei occupano e altri invece no, permettono le lezioni. Con le ragazzine quattordicenni in corteo che dicono che andranno allo sciopero dei sindacati del 30 ottobre. E manifestazioni che attraversano all´improvviso le città senza una meta precisa «tanto per far vedere che ci siamo».
La questione scolastica è esplosa, ed è difficile ormai ricondurla dentro una tradizionale trattativa, contenerla in uno teorema, tipo studenti contro professori, genitori contro insegnanti. L´Onda anomala rompe gli argini e anche se non sarà in grado di modificare la legge Gelmini, sicuramente ha già cambiato degli schemi.
A Roma gli studenti medi in mattinata hanno dato vita ad un corteo. I ragazzi erano circa diecimila, provenivano da una decina di licei in mobilitazione, si sono mossi dal circo Massimo fino a piazza Navona, con le studentesse in tenuta estiva, in una strana contaminazione tra slogan impegnati, stornelli e canzonette anni 60. Poco distante, a Montecitorio, ecco di nuovo i fisici in piazza a fare lezione, questa volta con loro c´erano anche i filosofi e più di duecento studenti, tutti bersagliati dai fotografi dei turisti colpiti da una scuola così pittoresca. Alla lavagna questa volta due docenti d´eccezione, Giorgio Parisi e Gianni Jona, che hanno espresso la loro protesta senza slogan, limitandosi a spiegare complicate equazioni. «Condivido gli scopi degli studenti, sono anche i nostri», ha detto Jona. «Sono ragazzi bravissimi, molto impegnati nello studio, non c´entra niente il ‘68. Siamo contrari ai provvedimenti del governo che relega la ricerca a Cenerentola, già tanti ricercatori sono andati all´estero». Lezioni in piazza anche a Milano, Venezia, Napoli dove gli studenti erano imbavagliati. Atti vandalici invece a Lecce mentre due scuole elementari a Lanciano, in Abruzzo, sono in assemblea permanente.

Repubblica 25.10.08
Lezioni in piazza Duomo blitz mediatici e feste l´Onda reinventa la protesta
di Curzio Maltese

"Non ci faremo etichettare, non siamo né comunisti né fannulloni"
Il ´68 appare lontano, i giovani leader sono cresciuti tra marketing e tv
Le nuove forme di mobilitazione: "Slogan e cortei ormai puzzano di vecchio"

Nel mezzo degli anni Settanta, nella bufera delle lotte operaie e studentesche, qui lo slogan vincente era «ma andate a lavorare, barboni!». Figurarsi oggi, in fondo a un trentennio asfaltato da Craxi, Bossi e Berlusconi. Ieri mattina, mentre i capannelli di anziani discutevano se aveva più ragione il Feltri a scrivere che la polizia doveva «manganellare gli studenti nelle parti molli», oppure il Cossiga a volerli «mandare tutti all´ospedale, senza pietà», si sono presentati i ragazzi dell´Onda milanese con i banchetti per tenere le lezioni in piazza. La prima, bellissima, del professor Roberto Escobar, filosofo della politica e raffinato recensore della pagina culturale del Sole 24 Ore, sul tema attualissimo: "Paure e controllo sociale". I capannelli si sono ritratti schifati. «Occhio, sono quelli là, i balordi del Leoncavallo». Il Leoncavallo era un famoso centro sociale degli anni Settanta, rimasto da allora un mito più per la destra che per la sinistra. Nessuno ha trovato ancora il coraggio di comunicare ai pensionati di piazza del Duomo, ai consiglieri di An in giunta, a Berlusconi stesso e alle redazioni di Libero e Giornale che purtroppo il Leoncavallo, sentina di tutti i mali, covo di comunisti drogati, non esiste più da anni. L´hanno deportato a Greco ed è ridotto a un locale di reduci. I ventenni di oggi semmai si trovano al centro sociale Il Cantiere, in via Monterosa, o in quelli della Bicocca. Comunque Roberto Escobar non ha proprio l´aria dell´agitatore rosso, in più non parla in professorese e ha un bel senso dell´umorismo, quindi alla fine qualche benpensante si è staccato dal gruppo, con passo timido, verso l´adunata di sovversivi.
C´è un´astuzia da guerriglieri mediatici degli studenti milanesi, pochi e accerchiati nella roccaforte del Cavaliere, che meriterebbe di essere studiata dall´opposizione, dalla sinistra. Se a Milano la sinistra non si fosse estinta da tempo. «Saremo imprevedibili», avevano promesso e hanno mantenuto. Il rapporto di studenti mobilitati, rispetto a Roma, è di uno a dieci. Per non parlare dei professori "fiancheggiatori", quatto gatti. Eppure riescono a far parlare di sé ogni giorno. Si dividono pezzi di città sulle cartine, come l´altro giorno per il blocco del traffico, e danno l´impressione così di essere moltissimi. Nell´aula della Statale che fu il tempio dei liderini sessantottini, da Capanna a Cafiero, specialisti nel discettare sulle prospettive planetarie del capitalismo, assisto a un collettivo sul tema della comunicazione. Discorsi ruvidi ma affascinanti. Del tipo: «Occupazioni, slogan, cortei, tutta roba che puzza di vecchio. Dobbiamo inventarci ogni giorno una cazzata buona per i notiziari, fare come lui. Il Berlusca quando deve distrarre l´attenzione dal taglio del tempo pieno che fa? Scatena il dibattito sul grembiulino». E quindi vai con le trovate. Un giorno la lezione in piazza sfidando i capannelli, un altro il sit-in coi libri sulle linee del tram, un altro ancora i messaggi in bottiglia da distribuire ai passanti, poi la festa aperta a tutti («un momento ludico ci vuole»). «Qualcuno ha un´altra idea?». Sembra una riunione creativa di pubblicitari.
Marco prende la parola: «Bisogna trovare il modo di non farsi criminalizzare. Di non farsi fottere come i lavoratori dell´Alitalia o i fannulloni dell´impiego pubblico o gli immigrati delinquenti. Se ci trovano un´etichetta, tipo che siamo comunisti o non vogliamo studiare, ce l´abbiamo nel c…». Per ora, in qualche modo, ce l´hanno fatta a sfuggire all´iscrizione nelle liste nere del nuovo maccartismo. A svicolare dalla caccia alle streghe che concentra ogni volta la rabbia di tanti contro una micro categoria in genere di poveri cristi.
Hanno vent´anni, non sanno nulla del ´68, poca roba del ´77, non s´interessano di politica e neanche all´antipolitica. Non è un trucco per non passare "da comunisti". Soltanto negli ultimi dodici anni, dal ´96 al 2008, l´astensionismo al voto dei ventenni è raddoppiato, dal 9 al 18 per cento. Ma sono nati e cresciuti in pieno berlusconismo, nel cuore dell´impero, e hanno sviluppato gli anticorpi giusti. Oltre a una vera ossessione per la comunicazione. «È anche esperienza di vita», chiarisce Luca, 21 anni, Scienze Politiche «Per arrangiarci in fondo che facciamo? Lavoriamo al call center, facciamo i baristi, le consegne, qualcuno lavoricchia in pubblicità. Insomma tutto il giorno a contatto con il pubblico, la gente normale». «E la prima regola per comunicare i contenuti di una lotta è non farsi etichettare dalla politica. Non saremo mai l´esercito di nessun partito», aggiunge una bella ragazza alta e mora, dal piglio lideristico. Età? 22 anni. Nome? Carlotta Cossutta. Parente? «Nipote». Una rivendicazione di autonomia politica dalla nipote dell´Armando Cossutta, il boss del Pci milanese, l´uomo di Mosca, il rifondatore del comunismo, fa un certo effetto. «Intendiamoci, ciascuno ha le sue idee. Ma qui si tratta di comunicare la sostanza. Oggi per esempio siamo qui a discutere del perché sui media ha avuto tanto spazio il piccolo scontro con la polizia dell´altro giorno e non gli argomenti contro la legge». Carlotta guida un gruppo di guerriglieri mediatici che ogni mattina fa monitoraggio su stampa, radio e tv, analizza, studia come «fare notizia».
Alcuni dimostrano un vero talento. La protesta a Scienze Politiche nasce per esempio da una rivista, Acido Politico, la migliore rivista universitaria di questi anni, creata, diretta e scritta quasi per intero fino all´anno scorso da uno studente, Leo. Per esteso il nome è Leonard Berberi, albanese, nato a Durazzo, arrivato in Italia a dieci anni, senza parlare una parola d´italiano. Nessuno l´ha messo in una classe differenziata, si è diplomato e laureato col massimo dei voti ed è arrivato primo al test di ammissione del master di giornalismo della Statale. Nel movimento milanese sono molti i figli di immigrati e moltissimi gli studenti del Sud. Alla ministra Gelmini, che lamenta l´eccesso d´insegnanti meridionali al Nord, bisognerà un giorno comunicare la percentuale di studenti meridionali nella più prestigiosa università milanese, la Bocconi: 45 per cento.
Il marketing del movimento milanese in ogni caso funziona e l´Onda comincia a ingrossarsi. Dal mondo dei docenti arriva solidarietà. Il preside di Scienze Politiche, Daniele Checchi, per primo ha proclamato un giorno di blocco didattico in appoggio alla protesta. La preside di Psicologia alla Bicocca, Laura D´Odorico, ha aderito con entusiasmo: «Era ora che gli atenei si svegliassero dalla rassegnazione decennale a tagli brutali fatti passare come riforme». Lo stesso rettore della Statale, Enrico Decleva, finora assai tiepido, se n´è uscito a sorpresa con un´intervista a Radio Popolare in cui ha ammesso: «Con questi ultimi tagli la Statale non potrà chiudere il bilancio del 2010». Non è neppure vero che l´Onda milanese non faccia politica, almeno nelle alleanze. A cominciare dalla più classica, cioè sfruttare le divisioni nel campo nemico. A Milano, in Lombardia, nelle università il vero potere e il vero consenso non è neppure berlusconiano: si chiama Comunione e Liberazione. Ovvero Formigoni. Ovvero uno che da mesi è impegnato, da destra, nel fare opposizione a qualsiasi iniziativa del governo. Non sarà un caso se uno dei Formigoni boys, Francesco Cacchioli detto "Bencio", responsabile della lista ciellina a Scienze Politiche, che incontro per i corridoi della Statale, dice: «Questa roba qui non è una riforma, è una completa idiozia, una serie di colpi di mannaia senza dietro alcun disegno politico. Noi cattolici finora abbiamo contestato certi modi, i picchetti, i cortei, roba di sinistra. Ma diciamo la verità, nella sostanza non è che abbiano proprio torto».

Repubblica 25.10.08
Nel liceo occupato con mio figlio
Lo scrittore Sandro Veronesi tra i ragazzi dell´istituto di Prato che lui stesso aveva frequentato
"Nel liceo dove studia mio figlio ho scoperto l´occupazione-modello"
di Sandro Veronesi

"I ragazzi hanno chiaro il rischio di infiltrazioni, ma il servizio d´ordine che hanno messo in piedi funziona benissimo"
"Nelle assemblee nessuna violenza: domande serie, contestazioni puntuali. Molto meglio che nei talk show tv"

DUNQUE. L´altra mattina ho deciso di andare a dare un´occhiata al liceo dove si è appena iscritto uno dei miei figli, lo Scientifico Niccolò Copernico di Prato, che è occupato da lunedì scorso.
Mica per nulla: ha più di millequattrocento studenti, e sentire mio figlio quattordicenne dire «occupiamo» o «facciamo autogestione» mi ha un po´ stranito - così sono andato a vedere cosa stavano combinando. Tra l´altro, è lo stesso liceo che ho fatto io, e questo un po´ mi emozionava, ma è pur vero che la sede è cambiata, perciò non correvo il rischio proustiano di sprofondare nella memoria involontaria.
Fin dall´ingresso ho cominciato a constatare qualcosa di sorprendente, di cui vorrei dar conto: si tratta davvero di un´occupazione-modello. Tanto per cominciare, il servizio d´ordine c´è e funziona. Non è nulla di intimidatorio, ma si capisce che gli studenti hanno ben chiaro il pericolo di infiltrazioni che minaccia ogni occupazione, e stanno parecchio attenti. Gliel´ho chiesto: «Chi ve l´ha insegnato a fare un servizio d´ordine come questo?». E la risposta è stata: «L´esperienza». Già, perché i più grandi tre anni fa hanno partecipato a un´altra occupazione e qualcosa l´hanno imparata lì, ma soprattutto ogni anno in questa scuola viene attuato un progetto che si chiama «Agorà», d´accordo con preside e professori, che prevede tre giorni di autogestione totale, per far funzionare il quale gli studenti hanno imparato le tecniche per difendersi dal virus del disordine. D´altra parte, l´occupazione di questo liceo ha luogo anche grazie alla responsabilità che si sono presi preside e docenti, non è conflittuale, ed è basata su un patto di fiducia reciproca: per esempio, le lezioni sono comunque garantite, per tutti quelli che vogliono farle.
Sono sceso nell´aula magna, dov´era in corso un forum alla presenza di centinaia di ragazzi, e mi sono messo ad ascoltare. Stava parlando un esponente locale di Forza Italia, che difendeva i decreti 133 e 137 con gli stessi bizzarri argomenti con cui li difende Berlusconi - negando, cioè, che genereranno i gli effetti per i quali sono stati concepiti. Be´, con mia sorpresa non veniva subissato di fischi - anzi, c´era anche un manipolo di studenti che lo applaudiva. Poi però i ragazzi hanno cominciato a fargli le domande, e nel farle hanno mostrato una competenza sull´argomento dinanzi alla quale la sua retorica semplificatrice è parsa abbastanza miserella. Ero ammirato: quel forum era migliore di ogni talk show che si vede in Tv, ma di gran lunga. Purtroppo però avevo un impegno e sono dovuto andar via, e così sono tornato l´indomani, con tutta la mattina a disposizione per partecipare al forum - anzi, arrivato lì ho scoperto che il forum ero io. Mi hanno dato un microfono e mi hanno fatto parlare, e io mi sono detto attenzione a quello che dici, Sandro: questi ti ascoltano davvero. Perciò ho parlato secondo coscienza, evitando furore, demagogia e linguaggio scurrile. Li ho rincuorati riguardo al timore di un´irruzione della polizia perché, a quanto pare, il ministro dell´Interno su questa faccenda la pensa in maniera un po´ più sfumata del presidente del Consiglio. Li ho incoraggiati ad abbracciare una volta per tutte l´idea di complessità contenuta in tutto quello che studiano, per contrastare la pochezza che ispira questa sventurata stagione civile; gli ho detto che dopotutto la scuola è fatta da esseri umani, e nessuna legge, per quanto sbagliata o dannosa, può impedire agli esseri umani di agire con intelligenza; gli ho detto che il vero problema è la fine del nostro modello socio-economico, che si trova a vivere gli spasmi terminali di un´agonia madornale e gli ho spiegato perché l´Islanda, fino a ieri il paese più ricco d´Europa, è fallita e come sistema-paese non esiste più. Ma soprattutto li ho scongiurati di fermarsi in tempo dinanzi a qualsiasi tentazione di abbassarsi un passamontagna sulla faccia, perché nella rabbia il valore della loro esperienza si disperderebbe completamente, e il bel gesto d´immaginazione che stanno facendo adesso finirebbe giù per il cesso. Insomma mi sono impegnato al massimo, e mentre ero lì che mi impegnavo al massimo pensavo che impegnarsi al massimo è il minimo che si possa fare, in questo momento, dinanzi a quest´esempio di cosa difficile fatta così bene. Alla fine, però, ho avuto l´impressione di avere sbrodolato cose che la maggior parte dei ragazzi sapeva già - anche perché nell´aula c´erano molti professori, e di molte cose devono averne già parlato con loro. Anche la raccomandazione da buon padre di famiglia, di cominciare a pensare a come e quando interrompere l´occupazione, riprendere lo studio e trasferire la protesta in altre iniziative permanenti fuori dall´orario scolastico, potevo risparmiarmela: i ragazzi ci hanno già pensato, contano solo di arrivare alla fine della settimana.
Nella calca, uno di loro mi ha avvicinato e mi ha chiesto se avrei letto una cosa; gli ho detto di sì, lui mi ha allungato un foglio ma quando ha visto che mi apprestavo a leggerlo lì mi ha suggerito di farlo a casa, con calma, perché era un po´ lungo. Stava per cominciare un altro forum, del resto, sulla legalità, tenuto da un avvocato, e bisognava lasciare l´aula magna.
Me ne sono andato con uno strano orgoglio retroattivo: l´orgoglio di esser stato anch´io uno di loro - di aver fatto il liceo in un istituto che trent´anni dopo si sarebbe distinto come esempio nazionale in una situazione confusa, complessa e tecnicamente illegale come un´occupazione. Quando c´ero non l´avrei detto, ecco. Poi, camminando verso casa, ho letto il foglio che mi aveva dato il ragazzo: vista la ritrosia con cui mi aveva pregato di non leggerlo lì pensavo fosse un racconto, o una poesia. Invece era la trascrizione, scaricata da Internet, di un brano del discorso che Piero Calamandrei pronunciò al III Congresso dell´Associazione a Difesa della Scuola Nazionale, a Roma, l´11 febbraio 1950. Un brano illuminante, nella sua attualità. Tornato a casa, sono andato a cercarmelo e l´ho letto per intero - cosa che consiglio a tutti di fare. Poi ho acceso la TV e, a proposito del vero problema, ho saputo che nel frattempo era fallita anche l´Ungheria.

Repubblica 25.10.08
"Il malato cosciente può dire no alle cure”
Il Comitato di bioetica dà ragione a Welby. Silenzio sul caso Eluana
Documento votato con l´astensione di 3 membri che temono via libera all´eutanasia
di Caterina Pasolini

ROMA - Welby è morto a dicembre, dopo aver lottato tra ricorsi e sentenze per vedere riconosciuto il suo diritto a smettere di curarsi, a staccare il respiratore che lo teneva in vita. Ora anche il Comitato nazionale di bioetica gli dà ragione.
In un documento appena approvato scrive infatti che il malato cosciente e informato può dire no alle cure e rinunciare a tutte le terapie, anche quelle salvavita. E che se il medico può rifiutarsi per motivi etici o professionali di eseguire il suo volere, il paziente ha in ogni caso diritto a vedere realizzato il suo desiderio altrove e deve essere sempre seguito e assistito sino alla fine con cure palliative. «Ha insomma diritto a dire no alla sovranità delle macchine sul proprio corpo».
Il testo della relazione dei professori Canestrari, d´Avack e Palazzani, frutto di 30 mesi di lavoro e 15 elaborate stesure, è stato votato quasi all´unanimità, tre le astensioni di chi teme rappresenti un passo verso l´eutanasia. Non fa riferimento al caso di Eluana Englaro, dal momento che il diritto a �dire no´ riguarda solo soggetti «consapevoli e coscienti», ma è sicuramente un passo avanti per il rispetto dei diritti del malato, visto che unisce «laici e cattolici anche nella condanna dell´accanimento terapeutico e impegna i medici ad assistere sino alla fine i pazienti raccomandandosi di evitare l´abbandono dei malati terminali», sottolinea il professor d´Avack.
Uniti sul diritto a dire no alle cure, i membri del Cnb sono divisi sulle valutazioni etiche della scelta. Se infatti i laici sono per la totale autodeterminazione giustificata moralmente e giuridicamente, quelli di formazione cattolica pensano che il malato, pur avendo diritto a rinunciare alle cure, ha l´obbligo morale di vivere avendo una responsabilità verso sé e la società. E considerano inammissibile la richiesta di un malato dipendente che ha bisogno del medico per rinunciare alle cure. Un chiaro riferimento al caso di Piergiorgio Welby che, completamente paralizzato, da solo non avrebbe potuto staccare il respiratore che gli avevano messo contro la sua volontà. Il rifiuto delle terapie, dice il professor Stefano Canestrari, deve essere comunque «l´ipotesi estrema» e il medico «deve tentare di convincere il paziente a curarsi, ma se questi, consapevole, rifiuta, ha diritto a dire no alla sovranità delle macchine sul proprio corpo».
Ecco i punti fondamentali del documento. Il malato può chiedere di non iniziare o di sospendere trattamenti sanitari salva-vita, ma condizione che sia «cosciente e capace di intendere e volere, informato sulle terapie, in grado di manifestare in modo attuale la propria volontà». Se la rinuncia alle cure richiede «un comportamento attivo da parte del medico è riconosciuto il diritto a quest´ultimo di astensione da comportamenti ritenuti contrari alle proprie concezioni etiche e professionali». Si accetta dunque il principio dell´obiezione di coscienza da parte del medico, anche se «il paziente ha in ogni caso il diritto ad ottenere altrimenti la realizzazione della propria richiesta all´interruzione delle cure».
Anche i tre astenuti concordano con i principi di base del documento ma ne denunciano anche alcune «lacune». Secondo il bioeticista Francesco D´Agostino, ad esempio, il documento è «elusivo» su un possibile nesso tra eutanasia e stop alle cure che alcuni potrebbero ipotizzare: «Alcuni potrebbero leggervi un passo verso la legalizzazione dell´eutanasia passiva».

Repubblica 25.10.08
Nel Belpaese dell’intolleranza
Violenze e aggressioni, come nei casi delle ultime settimane. Ma anche gesti in apparenza minori. Le denunce si impennano: si va dalla tunisina insultata dall´autista del bus al bar che vieta l´ingresso a "Negri, irregolari e pregiudicati". Radiografia di un´emergenza
Le capitali sono Roma, la provincia lombarda e le principali città del Veneto
di Carlo Bonini

L´Italia Razzista è la geografia di un odio di prossimità, che nei primi dieci mesi di quest´anno ha conosciuto picchi che non ricordava almeno dal 2005. Un odio «naturale», dunque apparentemente invisibile, anche statisticamente, fino a quando non diventa fatto di sangue. Il pestaggio di un ragazzo ghanese in una caserma dei vigili urbani di Parma; il linciaggio di un cinese nella periferia orientale di Roma; il rogo di un capo nomadi nel napoletano; la morte per spranga, a Milano, di un cittadino italiano, ma con la pelle nera del Burkina Faso; l´aggressione di uno studente angolano all´uscita di una discoteca nel genovese.
Dunque, cosa si muove davvero nella pancia del Paese?
Al quinto piano di Largo Chigi, 17, Roma, uffici della presidenza del Consiglio dei ministri, Dipartimento per le pari opportunità, lavora da quattro anni un ufficio voluto dall´Europa la cui esistenza, significativamente, l´Italia ignora. Si chiama «Unar» (Ufficio nazionale antidiscriminazione razziale). Ha un numero verde (800901010) che raccoglie una media di 10 mila segnalazioni l´anno, proteggendo l´identità di vittime e testimoni. È il database nazionale che misura la qualità e il grado della nostra febbre xenofoba. Arriva dove carabinieri e polizia non arrivano. Perché arriva dove il disprezzo per il diverso non si fa reato e resta "solo" intollerabile violenza psicologica, aggressione verbale, esclusione ingiustificata dai diritti civili.
Nei primi nove mesi di quest´anno l´Ufficio ha accertato 247 casi di discriminazione razziale, con una progressione che, verosimilmente, pareggerà nel 2008 il picco statistico raggiunto nel 2005. Roma, gli hinterland lombardi e le principali città del Veneto si confermano le capitali dell´intolleranza. I luoghi di lavoro, gli sportelli della pubblica amministrazione, i mezzi di trasporto fotografano il perimetro privilegiato della xenofobia. Dove i cittadini dell´Est europeo contendono lo scettro di nuovi Paria ai maghrebini.
In una relazione di 48 cartelle ("La discriminazione razziale in Italia nel 2007") che nelle prossime settimane sarà consegnata alla Presidenza del Consiglio (e di cui trovate parte del dettaglio statistico in queste pagine) si legge: «Il razzismo è diffuso, vago e, spesso, non tematizzato (�) La cifra degli abusi è l´assoluta ordinarietà con cui vengono perpetrati. Gli autori sembra che si sentano pienamente legittimati nel riservare trattamenti differenziati a seconda della nazionalità, dell´etnia o del colore della pelle». Privo di ogni sovrastruttura propriamente ideologica, il razzismo italiano si fa «senso comune». Appare impermeabile al contesto degli eventi e all´agenda politica (la curva della discriminazione, almeno sotto l´aspetto statistico, non sembra mai aver risentito in questi 4 anni di elementi che pure avrebbero potuto influenzarla, come, ad esempio, atti terroristici di matrice islamica). Procede al contrario per contagio in comunità urbane che si sentono improvvisamente deprivate di ricchezza, sicurezza, futuro, attraverso «marcatori etnici» che si alimentano di luoghi comuni o, come li definiscono gli addetti, "luoghi di specie". Dice Antonio Giuliani, che dell´Unar è vicedirettore: «I romeni sono subentrati agli albanesi ereditandone nella percezione collettiva gli stessi e identici tratti di "genere". Che sono poi quelli con cui viene regolarmente marchiata ogni nuova comunità percepita come ostile: "Ci rubano il lavoro", "Ci rubano in casa", "Stuprano le nostre donne". Dico di più: i nomadi, che nel nostro Paese non arrivano a 400 mila e per il 50% sono cittadini italiani, sono spesso confusi con i romeni e vengono vissuti come una comunità di milioni di individui. E dico questo perché questo è esattamente quello che raccolgono i nostri operatori nel colloquio quotidiano con il Paese».
L´ordinarietà del pensiero razzista, la sua natura socialmente trasversale, e dunque la sua percepita "inoffensività" e irrilevanza ha il suo corollario nella modesta consapevolezza che, a dispetto anche dei recenti richiami del Capo dello Stato e del Pontefice, ne ha il Paese (prima ancora che la sua classe dirigente). Accade così che le statistiche del ministero dell´Interno ignorino la voce "crimini di matrice razziale", perché quella "razzista" è un´aggravante che spetta alla magistratura contestare e di cui si perde traccia nelle more dei processi penali. Accade che nei commissariati e nelle caserme dei carabinieri di periferia nelle grandi città, il termometro della pressione xenofoba si misuri non tanto nelle denunce presentate, ma in quelle che non possono essere accolte, perché «fatti non costituenti reato». Come quella di un cittadino romeno, dirigente di azienda, che, arrivato in un aeroporto del Veneto, si vede rifiutare il noleggio dell´auto che ha regolarmente prenotato perché - spiega il gentile impiegato al bancone - il Paese da cui proviene «è in una black list» che farebbe della Romania la patria dei furti d´auto e dei rumeni un popolo di ladri. O come quella di un cittadino di un piccolo Comune del centro-Italia che si sveglia un mattino con nuovi cartelli stradali che il sindaco ha voluto per impedire «la sosta anche temporanea dei nomadi».
La xenofobia lavora tanto più in profondità quanto più si fa odio di prossimità (è il caso del maggio scorso al Pigneto). Disprezzo verso donne e uomini etnicamente diversi ma soprattutto socialmente «troppo contigui» e numericamente non più esigui. Anche qui, le statistiche più aggiornate sembrano confermare un´equazione empirica dell´intolleranza che vuole un Paese entrare in sofferenza quando la percentuale di immigrazione supera la soglia del 3 per cento della popolazione autoctona. In Italia, il Paese più vecchio (insieme al Giappone), dalla speranza di vita tra le più alte al mondo e la fecondità tra le più basse, l´indice ha già raggiunto il 6 per cento. E se hanno ragione le previsioni delle Nazioni Unite, tra vent´anni la percentuale raggiungerà il 16, con 11 milioni di cittadini stranieri residenti.
Franco Pittau, filosofo, tra i maggiori studiosi europei dei fenomeni migratori e oggi componente del comitato scientifico della Caritas che cura ogni anno il dossier sull´Immigrazione nel nostro Paese (il prossimo sarà presentato il 30 ottobre a Roma), dice: « È un cruccio che come cristiano non mi lascia più in pace. Se la storia ci impone di vivere insieme perché farci del male anziché provare a convivere? Bisogna abituare la gente a ragionare e non a gridare e a contrapporsi. Non dico che la colpa è dei giornalisti o dei politici o degli uomini di cultura o di qualche altra categoria. La colpa è di noi tutti. Rischiamo di diventare un paese incosciente che, anziché preparare la storia, cerca di frenarla. Si può discutere di tutto, ma senza un´opposizione pregiudiziale allo straniero, a ciò che è differente e fa comodo trasformare in un capro espiatorio. Alcuni atti rasentano la cattiveria gratuita. Mi pare di essere agli albori del movimento dei lavoratori, quando la tutela contro gli infortuni, il pagamento degli assegni familiari, l´assenza dal lavoro per parto venivano ritenute pretese insensate contrarie all´ordine e al buon senso. Poi sappiamo come è andata».
Se Pittau ha ragione, se cioè sarà la Storia ad avere ragione del «pensiero ordinario», l´aria che si respira oggi dice che la strada non sarà né breve, né dritta, né indolore. I centri di ascolto dell´Unar documentano che nel nord-Est del paese sono cominciati ad apparire, con sempre maggiore frequenza, cartelli nei bar in cui si avverte che «gli immigrati non vengono serviti» (se ne è avuto conferma ancora quattro giorni fa a Padova, alle «3 botti» di via Buonarroti, che annunciava il divieto l´ingresso a «Negri, irregolari e pregiudicati»). E che nelle grandi città anche prendere un autobus può diventare occasione di pubblica umiliazione, normalmente nel silenzio dei presenti. Come ha avuto modo di raccontare T., madre tunisina di due bambini, di 1 e 3 anni. «Dovevo prendere il pullman e, prima di salire, avevo chiesto all´autista se potevo entrare con il passeggino. Mi aveva risposto infastidito che dovevo chiuderlo. Con i due bambini in braccio non potevo e così ho promesso che lo avrei chiuso una volta salita. L´autista mi ha insultata. Mi ha gridato di tornarmene da dove venivo. E non è ripartito finché non sono scesa». T., appoggiata dall´Unar, ha fatto causa all´azienda dei trasporti. L´ha persa, perché non ha trovato uno solo dei passeggeri disposto a testimoniare. In compenso ha incontrato di nuovo il conducente che l´aveva umiliata. Dice T. che si è messo a ridere in modo minaccioso. «Prova ora a mandare un´altra lettera», le ha detto.

Repubblica 25.10.08
Hanno tolto la sordina al razzismo
di Tahar Ben Jelloun

Il giorno in cui H., cittadino tunisino con regolare permesso di soggiorno, chiese di partecipare al bando comunale da sessanta licenze per taxi, scoprì che tassisti, qui da noi, si diventa solo se cittadini italiani. Il giorno in cui F. ed L., coppia nigeriana residente in Veneto, risposero a un annuncio per cuochi, scoprirono che l´albergo che li cercava, di neri non ne voleva. E «non per una questione di razzismo», gli venne detto dalla costernata direttrice della pensione, «perché in giardino, ad esempio», lavoravano «da sempre solo i pachistani». Il giorno in cui S., deliziosa adolescente napoletana, finì nella sala d´attesa di un pediatra di base di Roma accompagnata dal padre, alto dirigente del Dipartimento della pubblica sicurezza, realizzò che insieme a lei attendevano soltanto bambini dal colore della pelle diverso dal suo. E ne chiese conto: «Papà, perché da quando ci siamo trasferiti a Roma siamo diventati così sfigati?».
Il Razzismo italiano è un «pensiero ordinario». Abita il pianerottolo dei condomini, le fermate dell´autobus, i tavolini dei bar, i vagoni ferroviari. "Negro", una di quelle parole ormai pronunciate con senso liberatorio nel lessico pubblico, non nelle barzellette.
Preferiscono la televisione, della quale hanno fatto il principale strumento della società dello spettacolo, come aveva previsto il filosofo Guy Debord.
Sono interpellato oggi da cittadini italiani preoccupati per l´attuale deriva della politica del loro governo. L´Italia non è un Paese razzista, benché esistano anche qui, come ovunque, forme di razzismo tra la gente. Oggi però questo razzismo si esprime con una violenza inedita. A Milano è stato ucciso un giovane italiano che per sua sfortuna aveva la pelle nera. E anche altrove sono state commesse aggressioni dello stesso tipo. Non starò ad elencarle tutte; ma episodi del genere suscitano un legittimo allarme nella popolazione che assiste a un cambiamento rilevante del paesaggio umano in cui vive, e alle conseguenze sanguinose cui può portare il razzismo.
In Francia è stato il Fronte nazionale - il partito di estrema destra - a sdoganare i fautori delle discriminazioni: li ha liberati e incoraggiati a dare libero sfogo ai più bassi istinti razzisti. Molti ormai manifestano senza più remore la loro avversione per la gente di colore, gli zingari, gli arabi, i musulmani ecc. E anche in Italia assistiamo allo stesso fenomeno, soprattutto da quando le dichiarazioni di alcuni politici berlusconiani hanno «autorizzato» la gente comune a dire a voce alta ciò prima si mormorava in sordina.
Ed ecco arrivare le nuove norme sulla scuola. Norme non solo gravi e pericolose, ma anche demagogiche e inefficaci, che col pretesto di volere solo il bene dei bambini immigrati li inquadrano in una categoria discriminatoria. La creazione di classi speciali non servirà certo a risolvere i problemi dell´integrazione, che non si favorisce separando i figli degli immigrati, e ancor meno segnandoli a dito. Ho letto il testo di quella mozione: sembra scritta da un cittadino del Sudafrica dei tempi dell´apartheid, con la preoccupazione di scegliere le parole e le frasi evitando con ogni cura di far trasparire il razzismo che di fatto è sotteso a quelle norme.
L´Italia è un grande Paese, una bella, immensa civiltà. E non merita di finire oggi in una deriva come quella di un velato razzismo.
Se i figli degli immigrati non padroneggiano la lingua italiana non è colpa loro. La Svezia ha creato un programma di insegnamento della lingua che viene proposto, al momento dell´arrivo, agli immigrati e ai loro figli; ma non fa alcuna discriminazione tra gli alunni delle scuole. Di fatto, è attraverso i contatti e gli scambi nella vita quotidiana che i bambini apprendono la lingua di un Paese, e non certo all´interno di classi riservate ad alunni di livello inferiore. Non è così che ci si può attendere un sano sviluppo, e neppure l´integrazione di questi bambini nel tessuto sociale del Paese.
E´ venuto il momento di dire alcune verità all´Europa: non solo gli immigrati non se ne andranno, ma altri stranieri saranno chiamati a lavorare nei Paesi europei;
I loro figli sono o saranno comunque cittadini europei; perciò non ha senso trattarli da immigrati, visto che sono nati sul suolo europeo e vi trascorreranno la loro vita. È urgente che l´Europa adotti una politica comune per l´immigrazione. A tal fine sarebbe utile e necessario avviare un lavoro pedagogico nei due sensi: dar modo ai nuovi venuti di apprendere le leggi e i valori del Paese d´accoglienza, informandoli dei loro diritti e doveri; e al tempo stesso rivolgersi ai popoli europei, spiegando loro perché l´Europa ha bisogno di immigrati, da dove vengono, come vivono, in quale misura pagano le tasse ecc.
Infine - anche solo per finzione o per gioco - si dovrebbe cercare di immaginare cosa accadrebbe se da un giorno all´altro tutti gli immigrati decidessero di rimpatriare; e chiedersi in quali condizioni si ritroverebbe allora l´economia del Paese.
In Francia, nonostante qualche insuccesso, la scuola ha costituito un magnifico strumento di integrazione: è qui che si impara veramente a vivere insieme. Se ad alcuni alunni capita di trovarsi in difficoltà, non è perché sono immigrati, e ancor meno per via del colore della loro pelle. Non è mai esistita una scuola formata solo da primi della classe; c´è sempre chi riesce meglio degli altri, ed è sempre stato così. Infine, un´ultima constatazione: è razzismo ciò che trasforma le differenze in disuguaglianze.
(traduzione di Elisabetta Horvat)

Corriere della Sera 25.10.08
Nuovi studi (e un libro) aprono il dibattito sui fondamenti naturali delle credenze religiose
La moralità? Nasce insieme a noi
Un meccanismo del cervello ci fa scegliere i comportamenti
di Massimo Piattelli Palmarini

Viene a tutti spontaneo descrivere le nostre interazioni con un calcolatore portatile, e pensarle nel nostro intimo, con espressioni del tipo: «Si rifiuta di», «Non capisce che», «Insiste a». Attribuire intenzioni e volontà proprie a oggetti inanimati si chiama animismo o antropocentrismo. Forse un moderno calcolatore è talmente complesso che questa tendenza si giustifica, almeno un po'. Ma che dire delle nuvole, gli uragani, i campanelli, le automobili, i giocattoli e il vento? Questi sono solo alcuni degli oggetti ai quali vengono normalmente attribuite volontà e intenzioni, come mostrato dall'antropologo americano Stewart Elliott Guthrie. La tendenza animistica è già presente nei bimbi anche molto piccoli ed è presumibilmente innata.
A Harvard, la psicologa Susan Carey ha dimostrato che già a 10 mesi i bambini attribuiscono ad «agenti nascosti» il verificarsi di alcuni eventi. Lascio descrivere questo esperimento a Vittorio Girotto, psicologo cognitivo, professore all'Università di Venezia e co-autore con lo storico della biologia Telmo Pievani (Università di Milano Bicocca) e il neuropsicologo Giorgio Vallortigara (Università di Trieste), del saggio appena pubblicato «Nati per credere » (Codice Edizioni), in scena domenica 2 novembre al Festival della Scienza a Genova. «Ai bambini — mi spiega Girotto — viene mostrato un filmato in cui si vede un sacchetto che vola sopra un muro e che atterra dall'altra parte. Sebbene il momento del lancio vero e proprio sia nascosto, l'impressione che ne riceve un adulto è che qualcuno abbia lanciato il sacchetto al di là del muro. I bambini vedono la sequenza ripetutamente, fino a che il loro interesse scema. A questo punto viene mostrato loro una mano, ovvero un potenziale agente causale, collocato dalla parte giusta (sul lato da dove il sacchetto è stato lanciato) oppure dalla parte sbagliata (là dove il sacchetto è atterrato). I bambini guardano molto più a lungo, incuriositi, la mano che sta sul lato sbagliato ». Chiedo a Girotto quale lezione generale si trae da vari esperimenti di questo tipo. «Sembra che i membri della nostra specie siano biologicamente preparati a concepire differenti tipi di entità, oggetti inerti e oggetti animati, e a utilizzare una tale fondamentale distinzione di fondo per trarne conseguenze sulla cause e gli effetti di quanto avviene nel mondo».
In sostanza, come già avev a intuito Kant e aveva poi rivelato sperimentalmente negli anni Cinquanta del secolo scorso il grande psicologo belga André Michotte, noi percepiamo direttamente la causalità. Vediamo letteralmente che una sferetta rossa in movimento colpisce una sferetta blu immobile e «la fa partire», «la spinge». (Lo si può vedere sul sito http://cogweb. ucla.edu/Discourse/Narrative/ michotte-demo.swf). Siamo, quindi, dotati da madre natura di un rivelatore di agentività, cioè una macchinetta cerebrale e mentale che registra irresistibilmente chi (o cosa) fa che cosa a qualcos'altro. Girotto aggiunge: «Alcuni aspetti di questo rilevatore di "agency" sono presenti anche in altre specie, ma è nella specie umana che il meccanismo ha raggiunto un livello di sviluppo persino ipertrofico, cioè enorme e abnorme. Ed è proprio da questo rilevatore di "agency" che probabilmente hanno preso origine le concezioni sovrannaturalistiche ». Questi tre insigni autori, ciascuno internazionalmente noto nel rispettivo settore, illustrano anche alcuni risultati della psicologia dello sviluppo e dell'etologia che dimostrano la precocità dei comportamenti morali nella nostra specie e la presenza di comportamenti proto- morali in animali non umani. Il loro triplice sguardo sui fondamenti naturali delle credenze religiose (sguardo psicologico, storico-scientifico e neurobiologico) è senz'altro destinato a suscitare un animato dibattito.

Corriere della Sera 25.10.08
L'inedito Uno scritto dell'intellettuale perseguitato da Hitler e Stalin. Che nel 1989, alla vigilia della caduta del Muro, si interrogò sulla libertà
di Gustav Herling

Come uscire dal comunismo? Negli ultimi tempi si sente continuamente questa domanda, se la contendono in gara giornali e riviste, con una insistenza crescente e ai limiti della tensione nervosa. Come se la pur tanto desiderata uscita dal comunismo avesse al contempo il carattere di un salto inquietante nell'oscurità.
Claude Roy in un interessante reportage dall'Urss («Viaggio fra coloro che non hanno più paura ») ricorda la frase di Tocqueville: soltanto un grande genio potrebbe salvare un principe che si proponga di alleviare le pene dei suoi sudditi dopo una lunga oppressione. Salvare il principe significa qui, è chiara l'allusione, salvare Gorbaciov.
Garton Ash cita il commento «di uno dei più intelligenti capi comunisti polacchi» in un intervallo della «Tavola rotonda» fra governo comunista e opposizione: «Tutti i manuali spiegano come è difficile conquistare il potere; ma nessuno dice come è difficile disfarsi di esso».
Mille parole sul tema Sortir du communisme
sono stati accordati dal terzetto Garton Ash, János Kis e Adam Michnik. Dai loro scritti si intuisce che il biglietto per una uscita sicura (con gli ammortizzatori) dal comunismo ce lo deve finanziare in dollari l'Occidente capitalistico. Revel illustra Napoli rende omaggio oggi alle figure di Geremek e

Tre modi «di uscire da un sistema in agonia ». Il primo lo hanno messo in pratica i cinesi sulla piazza Tienanmen. È il più semplice, e consiste nel fatto che in assoluto non si abbandona, ma al contrario si ritorna al vecchio principio di Mao, secondo cui «il potere riposa sulla canna del fucile»; e alla celebre frase di Brecht che nel 1953 affermò che «appena una nazione ha perso per sua colpa la fiducia del potere, allora il governo deve scegliersi un'altra nazione». Un tale proposito non è irrealizzabile: bisogna sparare così a lungo, intensamente e all'impazzata, finché il potere balza dalla canna del fucile, e su una montagna di cadaveri si disseppellisce e si alza con forza sulle gambe «un'altra nazione».
Il secondo riguarda i Paesi in cui il sistema totalitario non è riuscito a distruggere le forze che il comunismo ha trovato nel momento della conquista del potere, e non è stato capace poi di impedire i movimenti sociali e le aspirazioni all'indipendenza e all'autonomia. Il modello democratico e pluralistico è rimasto in essi vivo fino al punto che un'uscita pacifica ed evolutiva dal comunismo si è rivelata in teoria possibile. Per ora un processo di questo tipo si è avuto nel caso della Polonia e dell'Ungheria. Entrambi questi Paesi sono maturati, più o meno rapidamente, verso una forma piena di democrazia e di pluralismo politico.
Il terzo modo, secondo Revel, è l'operazione intrapresa da Gorbaciov in Urss. La glasnost doveva qui essere il motore della perestrojka. Il motore ha marciato a giri accelerati, talvolta ha dato persino l'impressione di essere pericolosamente surriscaldato, mentre la concreta ricostruzione sociale, politica ed economica è rimasta al suo posto; e viceversa il treno pesante, bloccato e arrugginito della perestrojka minaccia il percorso della locomotiva fumante della glasnost dal di dietro. Non si può neppure totalmente escludere che venga applicato in extremis il metodo cinese. Il secondo modo, quello polacco e ungherese, è reale? Si può gradatamente, seguendo un percorso evolutivo, incamminarsi sulla via verso la democrazia e il pluralismo? È possibile, come lo hanno dimostrato in Polonia i risultati delle elezioni alla Camera e al Senato; risultati che sono stati inaspettatamente buoni (e sembra con un certo imbarazzo per i capi dell'opposizione). Ma ad alcune condizioni. L'opposizione deve procedere autonomamente, difendendo la sua identità, senza acconsentire allo slogan che sta a cuore ai polacchi «per i bisogni della nazione», «dell'ammucchiata con loro signori», e ponendosi come scopo di conquistare la piena indipendenza e di sottrarre prima o poi tutto il potere agli usurpatori, soprattutto se «loro signori» (o «compagni ») da parte governativa sembrano così fortemente volersene sbarazzare (e non pare molto che sappiano come farlo). Sulla via per la democrazia e il pluralismo i capi dell'opposizione devono anche abbandonare definitivamente lo stile da conventicole di gabinetto «dell'intesa fra le élite », e la riserva su tutte le prerogative essenziali per il Capo e la Squadra che lo fiancheggia. Last but not least: al Capo e alla sua Squadra farebbe bene alla salute la cautela nel servirsi dei concetti piuttosto ridicoli del Grande Gioco e dei Grandi Giocatori, e un maggiore ritegno nell'esprimere «un giudizio mutato in positivo sul generale Jaruzelski » (anche in nome del rispetto per l'opinione immutata della «base di Solidarnosc» e probabilmente della stragrande maggioranza degli elettori di giugno).

Corriere della Sera 25.10.08
Fuori concorso «La banda Baader-Meinhof»
Scuote anche Roma il film sui terroristi che divide i tedeschi
Il regista Edel: non ne ho fatto io delle icone lo erano già, ma erano anche degli assassini
di Giuseppina Manin

ROMA — Quel che ti resta addosso alla fine di La banda Baader Meinhof
è un cupo senso di sgomento. Davvero è successo tutto quello che si è appena visto nel film di Uli Edel, ieri al Festival di Roma? Anche chi per età può dire «io c'ero» si sorprende a verificare quanti buchi di memoria, forse di rimozione, davanti a quella martellante sequenza di eventi, così fitti, così enormi, così tragici. Dieci anni, dal '67 al '77, che sconvolsero il mondo. Dal sogno della rivoluzione all'incubo del terrorismo, dalla rossa primavera dell'utopia alla rossa scia di sangue degli anni di piombo. Culminati nella Germania d'autunno del '77 con l'omicidio del presidente della Dresdner Bank Jürgen Ponto, con il rapimento del capo degli industriali Martin Schleyer, con il dirottamento di un aereo Lufthansa per costringere il governo al rilascio dei capi della Raf (Rote Armee Fraktion); fino alla morte violenta nel carcere di Stammheim di Andreas Baader, Gudrun Ensslin, Jan-Carl Raspe e all'omicidio — due giorni dopo — di Schleyer.
Così, anche se sono passati 30 anni, l'uscita in patria del film, tratto dal libro di Stefan Aust, ex direttore dello
Spiegel — protagonisti Martina Gedeck (Meinhof), Moritz Bleibtreu (Baader), Johanna Wokalek (Ensslin) — ha scatenato in pari dosi interesse e polemiche. Un milione di spettatori solo nei primi dieci giorni di programmazione, candidatura all'Oscar, dibattiti senza fine in una Germania che, comunque la si pensi, ha il merito di continuare a fare i conti con il proprio passato. Anche a costo di riaprire ferite. Ad Amburgo la casa di Aust è stata imbrattata di vernice, mentre Bettina Röhl, giornalista e figlia di Ulrike, abbandonata dalla madre e salvata per un soffio proprio da Aust quando stava per finire in un campo per orfani palestinesi come voleva Meinhof, ha accusato il film di Edel di erigere un «monumento» ai terroristi.
«Non credo che una pacificazione sia ancora possibile ma penso che ogni occasione di confronto possa aiutare a far chiarezza», si augura Edel, già regista di film che indagano sulla violenza, da Christiana F. a Ultima fermata Brooklyn. «Anch'io all'inizio ero tra quelli affascinati da Baader e dagli altri. Mi sono iscritto all'Università nel '68, ero vicino agli Spartachisti, ho partecipato a quella febbre. Come tutti gridavo ideali temerari: pace, fratellanza, giustizia sociale. Come tutti mi sono commosso al discorso di Rudi Dutschke sul Vietnam. Prima che tutto andasse a rotoli c'è stata una scintilla, un'euforia generosa che vorrei trasmettere ai miei figli, ai giovani di oggi».
Ma tra i giovani di ieri c'erano anche i futuri terroristi. E l'hanno accusata di averli mitizzati. «Personaggi come Baader avevano un fascino indubbio, non a caso hanno avuto tanto seguito. Come dice Horst Herold, il capo della polizia interpretato da Bruno Ganz, un tedesco su quattro sotto i 30 anni dichiarava simpatia per loro. Non abbiamo trasformato i terroristi in icone, lo erano di fatto. Al contrario, abbiamo voluto mostrare l'altra faccia del carisma: gente spietata, che uccideva, rubava, rapiva. Un'energia criminale autodistruttiva. Alla fine nessuno può identificarsi con loro».
Il ritmo forsennato del film, l'iperviolenza di certe scene, sottolineano quel clima sovreccitato, in bilico tra i tupamaros e gli scoppiati. Baader spara, e spara tanto. Con gusto, anche per gioco, correndo di notte sulle Porsche rubate. Con Ulrike e Gudrun va ad addestrarsi nei campi della Giordania, ribelle anche alle regole dei terroristi di professione che lo mandano al diavolo e intimano alle signore, nude a prendere il sole, di coprirsi. «Sparare e scopare è la stessa cosa», rispondono le due lasciando di sasso l'arabo.
«Se viene recepito in modo tanto controverso, è perché la gente vive questa storia come fosse successa ieri — interviene Aust —. Per una parte del Movimento studentesco la Baader Meinhof fu una leggenda».
Alimentata anche dopo dalle voci che fossero stati «suicidati»... «Sono un giornalista e se fosse andata così so bene che avrebbe fatto più gioco al mio libro — ride —. Ma tutte le prove che ho raccolto indicano che si sono suicidati davvero».
La discussione resta aperta. Dal 31 ottobre nei nostri cinema La banda Baader Meinhof non lascerà nessuno indifferente. Forse neanche quel migliaio di giovani arrivati ieri sera a occupare il tappeto rosso del film. Contestatori senza bandiere, non in polemica con la Baader ma con la Gelmini.