martedì 28 ottobre 2008

Repubblica 28.10.08
Lo scrittore Niccolò Ammaniti: quel "io non ho paura" è un urlo di speranza
"Il mio libro è il loro slogan? Orgoglioso di questi ragazzi stanno lottando per il futuro"
Stanno spazzando via il luogo comune che vuole i giovani d´oggi apatici e senza niente da dire
di Caterina Pasolini


ROMA - Il suo, è libro più citato nei cortei studenteschi. Campeggia sugli striscioni che aprono le manifestazioni di protesta quel «Io non ho paura». Un titolo che è diventato una dichiarazione di forza e speranza, voglia di esserci e contare per chi dai banchi alle cattedre vive tra precariato e l´incubo dei tagli annunciati, di un futuro liquido. Lui, Niccolò Ammaniti, ex studente sognatore e impacciato sempre sulla soglia della bocciatura, li guarda soddisfatti i ragazzi dell´Onda. «Perché tagliare i fondi alla scuola è tagliare il nostro futuro».
Uno scrittore da slogan?
«Sono felice perché dopo la disfatta elettorale avevo la sensazione che neanche i giovani avessero più la capacità di reagire, che subissero in modo apatico quest´Italia che mi inquieta. Che punta sulla paura, sull´esercito nelle strade».
E invece?
«Sono contento che abbiano usato i titolo del mio libro perché vorrei sentirmi dire proprio questo dai ragazzi: "Non ho paura della politica del terrore, del domani." E la scelta di una frase con Io all´inizio, è un´assunzione di responsabilità, il desiderio in prima persona di dire le cose che non vanno».
Ventenni diversi dai luoghi comuni?
«Sì. Sono stufo di sentire che le nuove generazioni non hanno niente da dire. Io li vedo che discutono, si battono per le loro esigenze, per un università che non sia solo un parcheggio».
D´accordo con le proteste?
«Sì. Potrei trovare sensate alcune riorganizzazioni delle università se venissero dopo analisi, comparazioni e non se sono solo tagli nascosti dietro un falso piano».
Manca un progetto?
«So solo che davanti ad una realtà che cambia, ad un paese multietnico con nuove esigenze le risposte adeguate non sono arrivate».
Che studente era?
«Alle elementari volevano bocciarmi in prima. Ero mancino e la maestra, unica allora, voleva farmi scrivere con la destra ed io ero lento, non al passo con gli altri. Sono finito alla Montessori, una scuola bellissima, sperimentale. Poi sono arrivati gli anni bui al liceo, rimandato in tutte le materie possibili. Forse per colpa mia o dei professori con i quali non avevo un gran rapporto».
Ora come li vede i prof?
«Massimo rispetto, avrebbero bisogno di sicurezze, incentivi economici. Li sento stanchi, demotivati, ripiegati su se stessi con i genitori che si alleano con i ragazzi contro di loro per principio».
E all´università?
«Lì ho incontrato professori che credevano nel loro lavoro, capaci di appassionare, divulgare. Ho fatto biologia, se non l´avessi studiata, se non avessi visto come funziona l´ecosistema, anche la mia letteratura ne avrebbe perso. L´università è fondamentale».
Niente tagli nella scuola?
«L´università è l´unico luogo dove si sperimenta, dalla medicina all´architettura. È il luogo dove si formano quelli che tra 10 anni si occuperanno dell´Italia, che prenderanno il posto di gente da troppo tempo al potere. Se si tagliano i fondi alla scuola, dalle elementari all´università, si tolgono gli occhi al nostro futuro, si taglia il futuro».

Repubblica 28.10.08
Bologna, la trincea delle maestre
Viaggio nelle scuole elementari emiliane, che l´Ocse indica come le migliori in assoluto
Tra le maestre imitate in tutto il mondo "Berlusconi ha fatto male i conti"
di Curzio Maltese


"Una legge che tocca i figli, tutti la leggono bene, e la propaganda non funziona"
"Nelle nostre aule si mantengono vivi i valori della tolleranza, altrove minacciati"

BOLOGNA. A New York sono sorte negli ultimi dieci anni scuole materne ed elementari che copiano quelle emiliane perfino negli arredi. Via i banchi, le classi prendono l´aria delle fattorie reggiane che ispirarono Loris Malaguzzi, con i bambini impegnati a impastare dolci sui tavolacci di legno, le foglie appese alle finestre per imparare a conoscere i nomi delle piante.
Si chiama "Reggio approach", un metodo studiato in tutto il mondo, dall´Emilia al West, con associazioni dal Canada all´Australia alla Svezia. Se la scuola elementare italiana è, dati Ocse, la prima d´Europa, l´emiliana è la prima del mondo, celebrata in centinaia di grandi reportage, non soltanto la famosa copertina di Newsweek del ´91 o quello del New York Times un anno fa, e poi documentari, saggi, tesi di laurea, premi internazionali. Non stupisce che proprio dalle aule del "modello emiliano", quelle doc fra Reggio e Bologna, sia nata la rivolta della scuola italiana. La storia dell´Emilia rossa c´entra poco.

A Bologna di rosso sono rimaste le mura, tira forte vento di destra e sul voto di primavera incombono i litigi a sinistra e l´ombra del ritorno di Guazzaloca. «C´entra un calcolo sbagliato della destra, che poi fu lo stesso errore dell´articolo 18», mi spiega Sergio Cofferati, ancora per poco sindaco. «Il non capire che quando la gente conosce una materia, perché la vive sulla propria pelle tutti i giorni, allora non bastano le televisioni, le favole, gli slogan, il rovesciamento della realtà. Le madri, i padri, sanno come lavorano le maestre. E se gli racconti che sono lazzarone, mangiapane a tradimento, si sentono presi in giro e finisce che s´incazzano».
Che maestre e maestri emiliani siano in gamba non lo testimonia soltanto un malloppo alto così di classifiche d´eccellenza, o la decennale ripresa della natalità a Bologna, unica fra le grandi città italiane e nonostante le mamme bolognesi siano le più occupate d´Italia. Ma anche il modo straordinario in cui sono riusciti in poche settimane a organizzare un movimento di protesta di massa. Stasera in Piazza Maggiore, alla fiaccolata per bloccare l´approvazione dei decreti sulla scuola, sono attese decine di migliaia di persone. «È il frutto di un lavoro preparato con centinaia di assemblee e cominciato già a metà settembre, da soli, senza l´appoggio di partiti o sindacati che non si erano neppure accorti della gravità del decreto», dice Giovanni Cocchi, maestro. Il 15 ottobre Bologna e provincia si sono illuminate per la notte bianca di protesta che ha coinvolto 15 mila persone, dai 37 genitori della frazione montana di Tolè, ai tremila di Casalecchio, ai quindicimila per le strade di Bologna. Genitori, insegnanti, bambini hanno invaso la notte bolognese, ormai desertificata dalle paure, con bande musicali, artisti di strada, clown, maghi, fiaccole, biscotti fatti a scuola e lenzuoli da fantasmini, il logo inventato dai bimbi per l´occasione. Ci sarebbe voluto un grande regista dell´infanzia, un Truffaut, un Cantet o Nicholas Philibert, per raccontarne la meraviglia e l´emozione. C´erano invece i giornalisti gendarmi di Rai e Mediaset, a gufare per l´incidente che non è arrivato.
Perché stavolta la caccia al capro espiatorio non ha funzionato? Me lo spiega la giovane madre di tre bambini, Valeria de Vincenzi: «Non hanno calcolato che quando un provvedimento tocca i tuoi figli, uno i decreti li legge con attenzione. Io ormai lo so a memoria. C´è scritto maestro "unico" e non "prevalente". C´è scritto "24 ore", che significa fine del tempo pieno. Non c´è nulla invece a proposito di grembiulini e bullismo». Il fatto sarà anche che le famiglie vogliono bene ai maestri, li stimano. Fossero stati altri dipendenti statali, non si sarebbe mosso quasi nessuno. Marzia Mascagni, un´altra maestra dei comitati: «La scuola elementare è migliore della società che c´è intorno e le famiglie lo sanno. Con o senza grembiule, i bambini si sentono uguali, senza differenze di colore, nazionalità, ceto sociale. La scuola elementare è oggi uno dei luoghi dove si mantengono vivi valori di tolleranza che altrove sono minacciati di estinzione, travolti dalla paura del diverso». Come darle torto? Ci volevano i maestri elementari per far vergognare gli italiani davanti all´ennesimo provvedimento razzista, l´apartheid delle classi differenziate per i figli d´immigrati. Rifiutato da tutti, nei sondaggi, anche da chi era sfavorevole alla schedatura dei bimbi rom. «Certo che il problema esiste», mi dicono alla scuola "Mario Longhena", un vanto cittadino, dove è nato il tempo pieno «ma bastava non tagliare i maestri aggiuntivi d´italiano».
E se domani il decreto passa comunque, nel nome del decisionismo a tutti i costi? «Noi andiamo avanti lo stesso», risponde il maestro Mirko Pieralisi. «Andiamo avanti perché indietro non si può. Non vogliono le famiglie, più ancora di noi maestri. Ma a chi la vogliono raccontare che le elementari di una volta erano migliori? Era la scuola criticata da Don Milani, quella che perdeva per strada il quaranta per cento dei bambini, quella dell´Italia analfabeta, recuperata in tv dal "Non è mai troppo tardi" del maestro Manzi». Ve lo ricordate il maestro Alberto Manzi? Un grande maestro, una grande persona. Negli anni Sessanta fu calcolato che un milione e mezzo d´italiani sia riuscito a prendere la licenza elementare grazie al suo programma. Poi tornò a fare il maestro, allora con la tv non si facevano i soldi. Nell´81 fu sospeso dal ministero per essersi rifiutato di ritornare al voto. Aveva sostituito i voti con un timbro: «Fa quel che può, quel che non può non fa». È morto dieci anni fa. Altrimenti, sarebbe stasera a Piazza Maggiore.

Corriere della Sera 28.10.08
Senza etichette. La De Gregorio e l'Annunziata sottolineano l'indipendenza dei giovani dalla politica: «Non strumentalizzati» è il loro slogan
Né rossi né neri: nascono «Gli Irrappresentabili»
E nel suo liceo-icona, il Giulio Cesare di Roma, la destra si allea con sinistra e «apolitici»
di Fabrizio Caccia


ROMA — Cosa c'era scritto sullo striscione srotolato l'altra sera dagli studenti sul «red carpet» del Festival del Cinema? «Pay attention (fate attenzione,
ndr) Movimento Irrappresentabile ». Proprio così. Sembra questa, oggi, la prima, vera, grande preoccupazione dell'«Onda» che avanza. Non si lasciano strumentalizzare, gli studenti. Né rappresentare. Dai partiti, dai sindacati, dai professori. Liceali e universitari non lo vogliono affatto. E lo dicono in tutti i modi: «Studente non strumentalizzato», è uno dei cartelli che usano appiccicarsi addosso, per esempio, quando sfilano nei cortei. L'altro giorno, il quotidiano l'Unità
ha pubblicato un reportage nei licei occupati di Roma. Uno studente diceva: «Non lasceremo che i partiti mettano il cappello sulla nostra protesta, perché non è né di destra né di sinistra, è in difesa della scuola pubblica ». Così, nel suo editoriale, il direttore de l'Unità, Concita De Gregorio, all'indomani del grande raduno del Pd al Circo Massimo, coglieva giusto quest'aspetto: «Gli studenti non sono andati al Circo Massimo. C'erano, ma non c'erano. Erano mescolati, senza insegne, ai genitori e agli insegnanti ». Né di destra né di sinistra, dunque. Lucia Annunziata, ieri mattina, su La Stampa, sottolineava la vera novità del movimento 2008: «La politica è "un cappello", senza distinzioni, non più un aiuto naturale per chi protesta, ma addirittura un ostacolo». Questo, dunque, non è un movimento «bipartisan»: semplicemente perché i partiti non ci sono, non li vogliono, non sono stati invitati. E quando pure s'avvicinano, ecco che vengono contestati: davanti a Montecitorio, la settimana scorsa, durante una delle lezioni di Fisica in piazza, un consigliere comunale del Pd aveva provato ad accostarsi alle lavagne, ma è stato respinto con perdite («Vai via, sei qui solo per le telecamere...»). E lo stesso è avvenuto sotto al Senato, venerdì scorso, quando Paolo Ferrero di Rifondazione e una delegazione del Pd aveva tentato di interloquire con gli studenti davanti a Palazzo Madama. Niente da fare: fischi e cori per tutti.
Così, lontano dalle parole d'ordine dei partiti, dalle etichettature dei giornali, dalle divisioni monolitiche del passato, è in questo clima che si trovano a marciare insieme oggi quelli con la kefiah e con le teste rasate, pugni chiusi e braccia tese, stelle rosse e magliette nere, i ragazzi del Blocco Studentesco (ultradestra) e i liceali dell'Unione degli studenti. E se pure litigano tra loro perché, per esempio, ieri mattina in piazza Venezia un gruppo gridava «Duce, Duce». E se pure non mancano episodi di matrice squadrista (due studenti di sinistra del liceo Tasso picchiati da quelli del Blocco studentesco), alla fine però a protestare davanti al Senato ci vanno tutti insieme. Compatti. Contro la Gelmini, contro il ministro Tremonti, contro i tagli alla ricerca e il rischio-privatizzazione. Strumentalizzati no, protagonisti sì: l'Onda travolge gli schemi. «Protestiamo in difesa della scuola della Costituzione, libera e pubblica, che garantisca l'istruzione senza discriminazioni di alcun tipo», recita il documento comune, votato e diffuso in serata dagli studenti del «classico» Giulio Cesare. E anche lì, nel liceo di Corso Trieste, quasi un'icona della destra a Roma trent'anni fa, studenti di sinistra («Lista Palomar») e di destra («Lotta studentesca»), sostenuti da un terzo gruppo di apolitici («Gruppo becero»), hanno vinto le resistenze degli altri compagni di scuola (in tutto sono 1300 gli iscritti) e hanno mandato a casa ieri mattina professori e bidelli. Non è chiaro se pure lo striscione che hanno appeso all'ingresso sia oggi il frutto del grande compromesso tra le due anime degli studenti in lotta. Nella prima riga, infatti, «Giulio Cesare» è scritto in nero; nella seconda, però, «Occupato» è rosso-sangue. Di certo, l'attenta «par condicio» dei colori si rispecchia perfettamente nelle diverse identità politiche degli occupanti. L'obiettivo, però, resta comune.
Scritta in «par condicio»
Il nome del liceo «Giulio Cesare» è scritto in colore nero ma, subito sotto, la parola «Occupato» è rosso sangue

il Riformista 28.10.08
Il cuore di mamma costa dieci punti a Berlusconi
di Alessandro De Angelis


Basso gradimento. Il Cavaliere alle prese con il primo vero calo di consenso. Colpa della crisi, ma soprattutto delle proteste contro i tagli alla scuola, che incidono su un feudo dell'elettorato forzista: le donne. Silvio lo sa e pensa a un nuovo corso. Gelmini prepara la campagna contro la «casta dei professori».

Sulla scuola non si discute. Dopo l'affondo del premier: «La sinistra racconta frottole», è stata la volta di Mariastella Gelmini. In un'intervista al Corriere la ministra dell'Istruzione ci è andata giù dura. Con la sinistra: «Speravo - ha detto la Gelmini - che Veltroni si ispirasse alla lezione di Tony Blair. Purtroppo oggi parla come un rappresentante dei Cobas». Con l'informazione: «A Firenze occupano una stanza in venti e nei tg si dice che l'università è occupata». Con i sindacati che scenderanno in piazza giovedì: «È il vecchio rito di chi difende l'indifendibile. Dopo si potrà riprendere a confrontarsi sulle riforme». Tradotto: sul decreto non si tratta.
Il premier non ha alcuna intenzione di far slittare nemmeno di un minuto l'approvazione prevista per domani al Senato. Ormai il dossier scuola lo considera «archiviato». E con esso la protesta, che ancora ieri ha registrato una giornata calda: «Convertito il decreto, si smonta pure quella» dicono a Palazzo Grazioli. Oggi i parlamentari del Pdl incontreranno gli studenti di destra per un confronto sulla scuola. Poi si passa all'aula, dove è tutto pronto per il braccio di ferro col Pd: «Approveremo il decreto al Senato così com'è passato alla Camera, senza modifiche» ha dichiarato il capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto. La maggioranza - dicono a Palazzo Chigi - è compatta: tutti, Pdl e Lega, sono convinti la scuola è da riformare. Soprattutto, sono convinti che - al di là della buona fede degli studenti - la mobilitazione sia stata orchestrata da chi - i professori innanzitutto - non vuole perdere i privilegi accumulati in questi anni. E se l'informazione - dicono i fedelissimi del Cavaliere - gioca a fare la cassa di risonanza alla sinistra, dal governo sta per partire «controffensiva informativa».
La campagna è stata studiata a tavolino da luglio, proprio mentre venivano messe nero su bianco le cifre del decreto. E si basa su dati ufficiali, forniti anche da studiosi non riconducibili al centrodestra, come quelli che gravitano attorno al sito Lavoce.info: Universitopoli è il titolo di un volume su cui stanno lavorando i consiglieri politici del ministro dell'Istruzione. È già scritto, va solo stampato. Obiettivo: denunciare gli sprechi dell'Università e la «casta» dei professori. I numeri dello scandalo da «pompare» sui media sono già stati messi in fila. Al capitolo «università truccata» si legge: «Se si tiene conto del numero degli studenti in corso, in Italia si spendono 16 mila dollari per ognuno; è la quarta spesa più alta del mondo dopo Stati Uniti, Svizzera, Svezia». Al capitolo casta dei docenti è scritto: «I professori universitari italiani hanno uno stipendio superiore a quello del 95 per cento dei professori universitari americani e, diversamente dal loro, si sale per anzianità e non per meriti scientifici». E ancora, sugli sprechi: «Da aprile a giugno le università hanno bandito 685 posti da professori ordinari e 1.093 da associati. Poiché ognuno di questi concorsi prevede due idonei, nei prossimi anni saranno assunti 3.500 professori, il 10 per cento dell'attuale corpo docente». E così via: decine di numeri per dimostrare che la riforma è giusta: «Altro che tagli» dicono gli autori.
A Palazzo Chigi tagliano corto sui sondaggi: «Ma quale calo. Siamo al 70 per cento» dicono. Però Berlusconi ha capito che qualcosa, nell'aria, è cambiata. Molti sondaggisti danno il governo in calo. Renato Mannheimer, ad esempio, spiega: «Non so se sulla scuola o per effetto della crisi, ma il governo sta perdendo dai dieci ai venti punti. È certo che le famiglie sono molto preoccupate. Pensano che l'effetto della crisi possa avere su di loro un impatto devastante». Per questo Berlusconi vuole archiviare il capitolo scuola e aprire una nuova fase, all'insegna dell'ottimismo. Tra i dati uno lo ha colpito più di tutti: la preoccupazione delle mamme, (che equivale a dire famiglie) che rappresentano, per il premier, una vera e propria e ossessione: «Ormai parla più alle famiglie che alle imprese e alle banche» dicono a Palazzo Grazioli.
Aver visto le mamme in piazza con cartelli «dove c'è scritto il contrario della realtà» è stato, per lui, un colpo al cuore. Da Bruxelles (era il 16 ottobre) il giorno prima dello sciopero degli autonomi ha mandato loro un messaggio: «Mamme state tranquille: il tempo pieno nella scuola italiana verrà confermato dove c'era e incrementato di circa il 60 per cento perché ci saranno più insegnanti a disposizione, dopo la decisione del governo di tornare al maestro unico». Un concetto ribadito nella conferenza stampa di martedì scorso con il ministro Gelmini: «Non è vero - ha affermato il premier - che aboliamo il tempo pieno». L'«operazione fiducia» dunque è già iniziata. Ma si intensificherà sui prossimi dossier. Spiegano a Palazzo Grazioli: «I sondaggi dicono che la politica perde, non il governo. Il paese è spaventato dalla crisi e l'allarmismo di questi giorni sulla scuola non ha giovato».

il Riformista 28.10.08
L'abitudine di Mariastella a dare forfait


Milano. L'aspettavano ieri mattina al museo della Scienza e della Tecnica di Milano, ma ancora una volta Mariastella Gelmini non si è fatta vedere. L'occasione questa volta era il raduno dei parlamentari lombardi eletti tra le fila del Popolo della Libertà ad aprile per la Camera e il Senato: un momento di confronto a sette mesi di distanza dalle elezioni, per fare il punto della situazione e per capire le reali necessità della Lombardia, in rapporti critici con il governo oltre che per i fondi destinati a Catania e Roma anche per la mancata liberalizzazione degli slot di Malpensa. Non è la prima volta che il ministro dell'Istruzione annulla un evento pubblico questo mese.
La possibilità di contestazioni da parte degli studenti milanesi, in protesta da tre settimane contro i tagli all'Università, resta sempre alta. Non solo. Il 13 ottobre, quando sarebbe dovuta intervenire in regione Lombardia per un incontro con i dipendenti regionali all'Istruzione, si mise di mezzo pure una mail malandrina: il direttore generale dell'assessorato invitò i lavoratori a presenziare all'evento come un appuntamento di lavoro, scatenando le proteste della sinistra lombarda che gridò al reclutamento per farle la claque.
Il problema non è solo milanese. Domani il ministro avrebbe dovuto partecipare a Torino a un evento organizzato da mesi dall'Unione Industriale: la Gelmini ha già dato forfait. Nel capoluogo lombardo si attende ora per il tre di novembre, quando sarà inaugurato l'anno accademico del Politecnico. Tra i manifestanti, sulla presenza o meno del ministro, sono già partite le scommesse.

Repubblica 28.10.08
Prc, Ferrero risponde a Franceschini "Su alcuni punti si può lavorare insieme"


ROMA - «Con il Pd c´è una distanza enorme, non vedo nessun riavvicinamento, ma su due o tre punti si può fare un´azione molto netta lavorando insieme». Paolo Ferrero raccoglie l´appello lanciato dal numero due del Pd, Dario Franceschini, che in un´intervista a Repubblica ha proposto un fronte comune anti-Berlusconi. Secondo il segretario del Prc «bisogna fare il massimo di opposizione su due o tre punti». In primo luogo la lotta al carovita, poi il no al decreto Gelmini sulla scuola: «Famiglia Cristiana ha perfettamente ragione, la controriforma va immediatamente ritirata, e il ministro ha il dovere di ascoltare le migliaia di studenti in lotta». Terzo punto: la battaglia contro la modifica della legge elettorale per le europee. Su questo, Ferrero invoca l´ostruzionismo alle Camere: «Visto che è una porcheria, e tutti pensano che sia una porcheria, chi è in Parlamento faccia valere il peso che ha per bloccare questa legge».
Al Pd, il leader del Prc continua a non risparmiare critiche (che l´hanno spinto a promuovere sabato scorso iniziative in alternativa alla manifestazione del Circo Massimo), accusando il partito di Veltroni di «non dire nulla contro la Confindustria, niente sulle grandi opere, niente sul federalismo fiscale, mentre dice di sì al nucleare». Tuttavia nelle parole di Franceschini, Rifondazione scorge una novità, e riapre la porta a convergenze tattiche. Anche perché lo spauracchio dello sbarramento elettorale al 5 per cento spinge il Prc a stringere intese anti-riforma con Veltroni e il resto dell´opposizione, da Di Pietro a Casini. Ferrero manda segnali in positivo anche sull´Abruzzo: apprezza il sì del Pd al candidato dell´Idv Costantini, anche se adesso la vera partita «si giocherà sulla pulizia degli indagati dalle liste e sui programmi elettorali».

il Riformista 28.10.08
«Sbarramento sociale. Pd, vieni sulle barricate»
Parla Vendola. «Serve una grande battaglia democratica»
di A.D.A.


«Lo sbarramento elettorale è l'effetto dello sbarramento sociale»: il governatore della Puglia Nichi Vendola annuncia una «battaglia democratica» contro il Porcellum europeo. E apre al Pd: «Facciamo dialogare le piazze».
Legge per le europee: vogliono uccidervi?.
«Il berlusconismo non gioca mai a nascondino e su qualunque ferita che infligge cerca di costruire un racconto manipolatorio. Lo sbarramento elettorale è l'effetto dello sbarramento sociale: criminalizzazione del conflitto, intimidazione dei movimenti studenteschi, riarticolazione del paradigma repressivo e disciplinare attraverso il restringimento del diritto di sciopero. Si nega la rappresentanza politica perché si nega la rappresentanza sociale».
E la sinistra?
«Serve una grande battaglia democratica. Sulle preferenze aggiungo che delle due l'una: o si istituzionalizzano le primarie come strumento di selezione delle liste, oppure siamo in presenza di una oligarchia che seleziona la classe politica. E questo è un vulnus profondo».
Al Pd chiede barricate?
«Al Pd e a tutti quelli che si oppongono chiedo di tener presente il legame tra rappresentanza politica e sociale. Questa non deve essere né apparire una battaglia di casta e di difesa dei privilegi. Serve a garantire che soggettività plurali e radicali abbiano diritto di agire e praticare la politica».
Cosa cambia dopo il Circo Massimo?
«Innanzitutto la folla straripante che ho visto è la più formidabile rete protettiva per la nostra democrazia. Ma, come avvenuto per la manifestazione dell'11 ottobre, anche quello del Pd è un unico grande popolo che porta una domanda radicale di alternativa cui non corrisponde, per ora, una piattaforma politica. L'una e l'altra piazza sono piazze identitarie, ancora ossessionate dai problemi esistenziali. Il punto, ora, è l'interlocuzione tra le due piazze».
Franceschini dice: uniamo le opposizioni.
«E uniamole... Ma a partire da una idea di fondo: la difesa del mondo del lavoro, del contratto nazionale, della lotta al carovita e del sostegno ai redditi. Aggiungo: anche in nome dei diritti civili che sono l'altra faccia della medaglia di quelli sociali».
Vuole parlare di alleanze col Pd?
«Certo. Sono la conseguenza logica della messa in campo di un'idea di buon governo».
Torna l'Unione?
«L'Unione è stata una mediazione prolissamente cartacea e politicamente velleitaria che racchiudeva un reciproco pregiudizio: i riformisti hanno immaginato per loro il governo e per i radicali l'arpa del dolore sociale. E noi ci siamo portati dietro il pregiudizio che il governo fosse il preinferno nel quale precipitava l'innocenza rivoluzionaria».
E invece?
«Invece del posizionamento simbolico oggi il tema è la crisi della società italiana, della narrazione liberista, del capitalismo occidentale. Ognuno deve fare un passo indietro per poter fare tutti un passo avanti».

il Riformista 28.10.08
Perché non vado più alle manifestazioni
di Ritanna Armeni


Non sono andata né a quella della sinistra radicale l'11 ottobre, né a quella del Partito democratico sabato scorso, e questo mi ha messo in crisi. Non è per stanchezza: il fatto è che servivano soltanto a dire «ci siamo»

Può capitare di non voler più andare a manifestazioni. Non sono andata né a quella della sinistra radicale l'11 ottobre, né a quella del Partito democratico sabato scorso, e questo mi ha messo in crisi. Perché non sono d'accordo con Massimo Cacciari che la piazza sia una dimostrazione di demagogia, anzi penso che sia utile. Non solo perché, come ha scritto di recente Michele Serra, essa dà «voce e, se possibile, fiducia a persone semplici e anonime, quelle che contando poco, hanno necessità di contarsi», ma perchè le manifestazioni possono essere un momento di politica alta e importante, sia per la base, sia per i dirigenti.
Eppure non ci sono andata. Naturalmente ho pensato che il mio rifiuto derivasse da stanchezza. Ne ho fatti tanti di cortei - anticapitalisti, ambientalisti, femministi, pacifisti - che, forse, non ne potevo più. Una manifestazione di piazza per me non è certo una novità come per Massimo Calearo. Ma la stanchezza non mi è sembrata motivo sufficiente.
Ho anche pensato, con una dose di autocritica e di amarezza, che si fosse spento in me lo spirito militante. Succede, può succedere. Ma dopo un serio esame di coscienza ho escluso anche questo. Mi arrabbio e mi indigno ogni giorno e più volte al giorno. Mi arrabbio quando leggo i giornali la mattina, quando l'Ocse mi comunica che siamo fra i paesi più diseguali del mondo, quando al mercato vedo le donne anziane comprare le uova già rotte per risparmiare qualche centesimo, quando leggo che la ministra Carfagna ritiene giusto eliminare dalle liste elettorali per le europee l'alternanza uomo donna, quando sento parlare di merito per gli statali e non per i banchieri che hanno dissipato enormi quantità di denaro della comunità.
E allora? Perché non protesto per tutto questo scendendo in piazza in una delle due manifestazioni organizzate dalla sinistra?
Mi ha illuminato il titolo dell'Unità il giorno della manifestazione del Pd era uguale, assolutamente identico a quello di Liberazione per la manifestazione dell'11 ottobre. A caratteri cubitali: CI SIAMO. Davvero bravi - ho pensato - Concita De Gregorio e Piero Sansonetti, hanno colto l'anima profonda di due cortei.
L'11 ottobre quel «ci siamo» si riferiva alla sinistra radicale, ai comunisti, che, scomparsi dal Parlamento, in piazza avevano cercato e confermato un'identità. Loro non erano scomparsi, c'erano ancora, con le bandiere rosse, i canti, la rabbia. Sabato scorso quel «ci siamo» si riferiva ai riformisti, uomini e donne del Pd, messi in questi mesi nell'angolo dalla sconfitta elettorale e da un governo prepotente e antidemocratico. Entrambe le manifestazioni erano fortemente identitarie. Dicevano che in questo paese ci sono i comunisti, c'è la sinistra, ci sono i riformisti. Ci «sono», appunto.
Ho appreso da alcuni amici, attenti osservatori di cui mi fido, e leggendo cronache dei giornali che avevano delle caratteristiche simili. Erano per lo più silenziose, quasi nessuno slogan, qualche canto - Bandiera rossa per la sinistra e i comunisti, Bella ciao per la manifestazione del Pd - la soddisfazione di esserci. Ho capito allora che esprimere un'identità per me è importante, ma non basta se non è accompagnata da un segnale di innovazione culturale e di proposta politica. Quelle due manifestazioni, per le quali pure ho provato un grande rispetto, e che ho sperato andassero bene, invece mi sono sembrate vecchie, stanche e ripetitive. Intanto per il fatto di essere due. Ha senso oggi, di fronte ad una globalizzazione che ha cambiato tutti i termini della politica e dell'economia, dividersi in rivoluzionari e riformisti, in radicali e moderati? Non appare evidente che quel che appariva rivoluzionario - l'intervento forte dello stato nell'economia, il superamento dei parametri di Maastricht, il ridimensionamento del potere delle banche, la critica al liberismo - comincia a far parte di un senso comune moderato e riformista?
Questa assenza di cultura e di nuova ricerca ha impedito la formazione di una proposta politica che, infatti, non c'era in nessuno dei due cortei. Lo dimostrava l'assenza di slogan (che invece abbondano nelle manifestazioni studentesche) e gli slogan - si sa - esprimono in modo sintetico, popolare e immediato ciò che si vuole, ciò che si vuole cambiare. Insomma ho capito perché non avevo avuto voglia di andare a una delle due manifestazioni o a entrambe. Mi è rimasto un po' di dispiacere, ma nessun senso di colpa.

Repubblica 28.10.08
Eutanasia per neonati, guerra a Firenze
An contro un convegno: quel medico olandese la pratica, non parli
Uno degli organizzatori: "Vogliamo solo sentire cosa ha da dirci"
di Michele Bocci


FIRENZE - No al convegno sull´eutanasia infantile. E soprattutto no all´arrivo del medico olandese noto per aver messo a punto un protocollo sulla «buona morte» per i neonati portatori di malattie incurabili e dolorosissime. Il parlamentare e coordinatore toscano di Alleanza Nazionale, Riccardo Migliori, si scaglia in un´interrogazione al presidente del Consiglio contro un incontro scientifico che si svolgerà giovedì e venerdì prossimi all´ospedale Meyer di Firenze, una delle strutture di avanguardia per la pediatria. «Vorrei sapere se il Comune e la Regione patrocinano un incontro del genere», attacca Migliori. Dall´ospedale rispondono che si tratta di un incontro scientifico, dove verrà discussa e forse aggiornata la cosiddetta Carta di Firenze, un documento a cui hanno lavorato trenta tra neonatologi ed esperti di bioetica e che tratta la rianimazione dei neonati prematuri. La linea di demarcazione è quella delle nascite dopo le 23 e le 24 settimane di gestazione. Per la Carta di Firenze in quei casi la rianimazione deve avvenire di comune accordo tra il neonatologo e i genitori. Prima di quel limite non ha mai senso farla, dopo va comunque affrontata perché quel bambino ha speranze di sopravvivere in condizioni di salute accettabili.
Migliori attacca la Carta dicendo che le tesi contenute sono state smentite dalla Società italiana di neonatologia e dal Consiglio superiore di sanità. L´affondo arriva però per la presenza «del medico olandese Eduard Verhagen, ideatore del protocollo di Groningen, contenente le linee guida per l´eutanasia dei bambini la cui futura qualità della vita sarà molto bassa e senza possibilità di miglioramento». La risposta a questa affermazione arriva da Giampaolo Donzelli, neonatologo che ha contribuito alla Carta ed organizza l´incontro. «Invitare un rappresentante della comunità scientifica internazionale per farsi esporre le sue tesi non vuol dire sposarle. Verhagen opera in un paese dove l´eutanasia è ammessa dalla legge, in casi specifici, e vogliamo sentire su cosa basa le sue convinzioni. Ha lavorato a lungo sulle cure di fine vita dei neonati terminali, cioè che nascono malati e sono condannati a morire rapidamente. Per lui assisterli cercando di evitare loro il massimo di sofferenze è come assistere in una analoga situazione qualsiasi altro malato, ad esempio un anziano. Inoltre per casi selezionatissimi, come l´ittiosi, una malattia dolorosissima che non dà scampo e uccide in pochi giorni, Verhagen pratica una forma di eutanasia. Noi non siamo d´accordo su questo: nella carta di Firenze c´è scritto che i firmatari sono completamente estranei da ogni forma di eutanasia pediatrica e neonatale. Non per questo rifiutiamo il confronto con la realtà olandese».
Al convegno parteciperanno vari rappresentanti delle università italiane e della Consulta di bioetica, tra cui il ginecologo Carlo Flamigni. L´intervento di Verhagen si intitola: «Perché decisioni di fine vita all´inizio della vita?». Regione Toscana e Comune di Firenze hanno dato il loro patrocinio.

Repubblica 28.10.08
In Sud Tirolo il rifugio delle SS in fuga
di Marco Ansaldo


Adolf Eichmann, l´architetto dell´Olocausto, si faceva chiamare «Riccardo Klement, nato a Bolzano, professione tecnico». Josef Mengele, l´ "Angelo della morte", il medico autore degli esperimenti sui detenuti ebrei, aveva assunto invece il nome di «Helmut Gregor, cittadino sudtirolese, professione meccanico». E anche Erich Priebke, il boia delle Fosse Ardeatine, si era dotato di documenti e identità nuove: «Otto Pape, lettone, direttore d´albergo», con doppia residenza, Roma e Bolzano.
Dopo la disfatta del Terzo Reich, i massimi dirigenti delle SS, e con loro migliaia di criminali nazisti, vennero salvati e ospitati in Sud Tirolo, regione germanofona, a quell´epoca dotata di un confine poroso e considerata quindi un nascondiglio perfetto, priva di spiccare il balzo con documenti nuovi verso il Sud America attraverso il porto di Genova. A procurare gli incartamenti falsi, e ad assicurare per settimane, talvolta per lunghi mesi, un rifugio sicuro, furono sovente sacerdoti compiacenti con il regime di Hitler. I prelati, dietro lo scudo della Pontificia commissione assistenza profughi creata da Pio XII nel 1944, prima ribattezzarono in chiesa i nazisti sotto nuovi nomi. Poi fecero assegnare loro documenti della Croce rossa, capaci di garantire l´espatrio dall´Italia, soprattutto verso l´Argentina, ma anche in Egitto o in Siria.
Le rivelazioni provengono da diverse carte ritrovate negli archivi di Bolzano, Merano e Bressanone, oltre che dai registri di molte parrocchie dell´Alto Adige e in alcuni fondi negli Stati Uniti. I documenti inediti sono stati portati alla luce da uno storico di Innsbruck, Gerald Steinacher, che per cinque anni ha lavorato sulle fonti dirette in Italia, Germania e America, pubblicando per l´editore StudienVerlag un corposo libro uscito in Svizzera e in Austria, intitolato "Nazis auf der Flucht" (Nazisti in fuga).
Nel dopoguerra, diversi dirigenti nazisti riuscirono a farla franca portando in salvo le proprie famiglie. E, assieme alla grande e genuina massa di profughi, scapparono anche una serie di personaggi legati al mondo del contrabbando, della prostituzione e dello spionaggio. Per costoro l´importante era assicurarsi una nuova esistenza. E il Sud Tirolo si rivelò in questo caso un territorio ideale.
Adolf Eichmann aveva vissuto in Germania, sotto falso nome, fino alla primavera del 1950. Era riuscito a risparmiare abbastanza denaro per la progettata fuga in Sud America. Nella cerchia delle SS era nota la sua possibile via di fuga attraverso l´Italia, e Genova costituiva per tutti, insieme con Trieste, una méta nevralgica prima del salto oltre Europa. Vestito in abiti di montagna, in testa un cappello tirolese col pennacchio, Eichmann passò il Brennero con l´aiuto di traghettatori di frontiera, che lo consegnarono una volta raggiunto il confine al parroco di Sterzing (Vipiteno) il quale lo confortò con del vino tirolese. Il suo prossimo rifugio fu un chiostro dei francescani nella provincia di Bolzano. A Merano ottenne infine documenti falsi, e a Genova, come mostrano i documenti pubblicati in questa pagina, gli venne consegnato in data 1 giugno 1950 il «permesso di libero sbarco».
Josef Mengele, dopo Auschwitz, lavorò in Baviera in un´azienda di materali agricoli. La domenica di Pasqua del 1949 scattò il suo piano per arrivare in Argentina, dove imperava Peròn e ben disposta verso la Germania. In Italia, Mengele giunse con l´aiuto di due passatori di Merano. Sotto falso nome, si fermò per quattro settimane all´hotel «Goldenes Kreuz» (Croce d´oro) di Sterzing, fino a quando non fu dotato di un´altra identità, come rivela il certificato N. 100501 del Comitato internazionale della Croce Rossa: «Helmut Gregor, nato a Termeno (Alto Adige), nazionalità italiana, professione meccanico, celibe, indirizzo via Vincenzo Ricci 3 Genova». Incredibile appare oggi il motivo della sua richiesta di viaggio: «Il richiedente è stato prigioniero di guerra - internato - deportato».
Erich Priebke, dopo la sconfitta dell´Asse già risultava residente con la famiglia a Sterzing nel 1943. Fu catturato a Bolzano dalle truppe americane nel maggio del 1945, portato ad Afragola e quindi a Rimini. Da lì fuggì, portandosi a Roma dove ebbe contatti con il superiore generale dei padri salvatoriani, Pancratius Pfeiffer, e da Bologna in treno riuscì a tornare a Sterzing sotto la nuova identità di Otto Pape, ottenuta con il rito del battesimo.
In molti casi infatti l´aiuto del Vaticano, al cui interno alcuni consideravano i nazisti come i salvatori dal bolscevismo, fu determinante. Dopo il "ribattesimo", pratica formalmente considerata illegale dalla Chiesa, e l´assegnazione di un nuovo nome, alle ex SS venivano consegnati documenti di espatrio da parte della Croce rossa, che non sempre operava controlli stretti e infine accettava gli incartamenti dotati di identità, dati di nascita, nazionalità e professione. Così accadde per Klaus Barbie, il capo della Gestapo di Lione, divenuto Klaus Altmann, cittadino rumeno. O per Franz Stangl, il boia di Treblinka, fatto «emigrare» in Argentina da «monsignor Luigi», il potente cardinale Alois Hudal.
Eichmann fu catturato infine dal Mossad in Argentina e impiccato nel 1962 dopo il processo in Israele. Mengele morì in Brasile nel 1979 per un ictus mentre nuotava in piscina. Priebke, oggi 94enne, dopo la cattura in Argentina e la condanna in Italia all´ergastolo, vive a Roma in regime di semilibertà. Molti furono i criminali di guerra ospitati nei conventi di Bressanone e Merano. Così come diversi capi ustascia croati trovarono rifugio a Roma, nel chiostro di S. Girolamo a via Tomacelli.

Corriere della Sera 28.10.08
Profili. Enzensberger con la vita del barone von Hammerstein racconta l'opposizione aristocratica al nazismo
I rampolli di sangue blu che sfidarono Hitler con la bandiera rossa
di Paola Capriolo


Discendente di un'antica casata aristocratica, squattrinato grand seigneur
con la passione della caccia, il barone Kurt von Hammerstein- Equord si trovò a rivestire la carica di capo di stato maggiore dell'esercito tedesco negli ultimi anni della repubblica di Weimar e all'inizio del dominio nazista, sino a quando, nel 1934, la sua netta e meditata ostilità al nuovo regime lo indusse a rassegnare le dimissioni («questa gente», confidò agli amici, «ha fatto di me, vecchio soldato, un antimilitarista»). Niente di apertamente eroico, in una simile scelta, e del resto lui stesso ebbe a dire di sé di essere «troppo pigro» per fare l'eroe; ma forse anche grazie a questa inveterata, leggendaria pigrizia, che egli giudicava addirittura una virtù in quanto consentiva a un uomo di pensare e di «tener sgombra la mente per le grandi decisioni», il generale von Hammerstein riuscì a mantenersi tenacemente sobrio in un periodo in cui la stragrande maggioranza dei tedeschi era vittima della più funesta ubriacatura politica e poté rappresentare sino alla sua morte, avvenuta nel '43, un punto di riferimento fondamentale per quella segreta opposizione al regime che avrebbe condotto al fallito attentato contro Hitler del 20 luglio 1944.
A questa figura, alla sua sommessa ma inflessibile «ostinazione» nel resistere al male, Hans Magnus Enzensberger dedica l'ultimo libro, apparso in Germania alcuni mesi fa e prontamente tradotto da Valentina Tortelli. Non si tratta di un romanzo, ma di un'opera interamente basata su dati storici, documenti d'archivio, testimonianze dei superstiti, secondo quella tecnica del montaggio di materiali con cui l'autore si conquistò la fama negli anni settanta.
L'unica concessione all'invenzione letteraria sono le «chiacchierate postume», che Enzensberger inserisce qua e là nel libro, con lo stesso Hammerstein e con i principali personaggi coinvolti nella sua vicenda (una via di mezzo tra la moderna intervista e il «dialogo dei morti» di lucianesca memoria), ma si tratta di una concessione così blanda, che non farebbe storcere il naso neppure a quanti negano in modo assoluto a un romanziere il diritto di aggiungere qualcosa di suo alla nuda realtà dei fatti. Davvero l'autore non cede mai, in nessun punto, alla tentazione del romanzo storico, preferendo dichiaratamente la «fotografia » alla «pittura», il rigore documentario all'arbitrio soggettivo, e vietandosi la benché minima immedesimazione con i vari personaggi. D'altra parte, il suo metodo è anche l'esatto opposto di quello tradizionale degli storici: qui infatti la prospettiva «a distanza» cede il campo alla cronaca quotidiana, e chi legge ha davvero l'impressione di assistere giorno per giorno al maturare degli eventi, con tutte le ambiguità, le incertezze, il contraddittorio intrecciarsi di destini collettivi e individuali che la cosa comporta.
Cogliamo così nella sua pienezza quello «scandalo della simultaneità » per cui, accanto agli eventi più terribili e quasi senza curarsi di essi, la vita dei singoli continua a mantenere una dimensione irriducibilmente «normale»; impariamo come la differenza tra un mascalzone e un uomo giusto a volte non passi per i grandi gesti, ma per la somma dei piccoli comportamenti; e impariamo anche a frequentare quasi da persone di casa quello sconcertante ambiente dei rampolli dell'aristocrazia tedesca che, prima e durante il nazismo, abbracciarono la causa comunista militando nelle file del partito clandestino e dedicandosi spesso a una vera e propria attività di spionaggio, protetti come da una «cappa magica» dalle loro origini e dalle loro frequentazioni mondane (tra le figlie del generale von Hammerstein, due su tre appartennero a questo ambiente). Gente che durante gli anni del regime conduceva un'avventurosa «doppia vita» dividendosi tra il ballo all'ambasciata e la riunione segreta in una soffitta, portando l'anello con lo stemma di famiglia e, a ogni buon conto, «la capsula di cianuro sotto la montatura d'oro».
Insomma, Sangue blu e bandiere rosse, come una di quelle risolute nobildonne, Ruth von Mayenburg, avrebbe felicemente intitolato la propria autobiografia. Poco o nulla, del fermento un po' ingenuo che agitava allora «la meglio gioventù» della Germania, sarebbe sopravvissuto da un lato alla persecuzione nazista, dall'altro alle purghe staliniane che colpirono circa il settanta per cento dei rifugiati tedeschi. Eppure la loro vicenda di creature anfibie, disinvoltamente oscillanti fra tradizioni signorili e credo rivoluzionario, che Enzensberger ci restituisce documenti alla mano in queste pagine, riesce ad affascinarci ancora oggi, come... sì, mi si perdoni: proprio come la lettura di un romanzo.

Repubblica 27.10.08
"Italia vittima della retorica così si affossa l'architettura"
Renzo Piano e lo stop di Alemanno: non dirò obbedisco
Bene i suggerimenti per migliorare l'opera. Ma se vogliono cose diverse chiamino un altro
Contesto che il mio progetto, come la Nuvola di Fuksas, non c'entri col fascino metafisico dell'area
di Curzio Maltese


CI RISIAMO. Ancora una volta un grande progetto di un architetto italiano celebrato nel mondo viene attaccato dalla politica e dai media al seguito. Gli esami in patria non finiscono mai per Renzo Piano, l´italiano forse più apprezzato all´estero, l´unico architetto chiamato a progettare oggi in cinque continenti. Stavolta a finire sul banco degli imputati è la "Casa di Vetro" dell´Eur, 170 mila metri cubi destinati a ospitare uffici, negozi e 400 famiglie fra la Nuvola di Fuksas e il laghetto. Sulla carta un progetto assai bello ed ecologico, trasparente, d´impatto minimo, con giardini e serre all´interno, percorsi pedonali. Ma al sindaco Alemanno non piace perché non sarebbe in sintonia stilistica con il quartiere. Tradotto: non somiglia abbastanza all´architettura fascista del quartiere voluto da Mussolini nel 1938. Dopo aver tentato di demolire l´Ara Pacis di Meyer e di annullare il contratto per il nuovo centro congressi, la Nuvola di Massimiliano Fuksas, per poi ripensarci ogni volta, il sindaco Alemanno stavolta sembra deciso ad andare fino in fondo. La fama locale di «architetto della sinistra» di Renzo Piano, meglio conosciuto nel resto del mondo come il più geniale vincitore del Nobel dell´architettura (premio Pritzker), aiuta la crociata del nuovo sindaco in giunta. E quindi ci risiamo con la vecchia storia del nessuno profeta in patria.
Architetto Piano, il sindaco Alemanno ha detto di volerla comunque incontrare per chiedere alcune modifiche al progetto. Lo incontrerà?
«Io incontro tutti, ci mancherebbe non lo facessi col sindaco di Roma. Ascoltare si deve, obbedire no. Il progetto a me piace così, se ci sono suggerimenti per migliorarlo ancora ben vengano. Ma se vogliono una cosa completamente diversa, diciamo in linea con la retorica del luogo, allora possono chiamare un altro».
Insomma, un conto è modificare, altro è mettersi a copiare lo stile di Piacentini, con colate di travertino e magari la scritta «Dux».
«Appunto. Contesto che il progetto, come del resto la bellissima Nuvola di Fuksas, non c´entri nulla con l´Eur. Un quartiere con un fascino metafisico che suggestionava De Chirico e Fellini. La bellezza dell´Eur non è soltanto il travertino, che certo gli dà ordine e unità stilistica. E´ l´ambiente, la luce favolosa, il contrasto fra il bianco dei palazzi, l´azzurro del cielo, il verde degli alberi. Per questo ho progettato una casa trasparente, per riflettere, allargare questa luce. E´ un edificio sostenibile, pieno di verde, dove credo che le quattrocento famiglie vivrebbero bene. Il resto m´interessa pochino».
Non è un film già visto? L´Auditorium di Roma è stato probabilmente l´opera pubblica più contestata dal dopoguerra. Hanno scritto per cinque anni che era un progetto sbagliato, avulso dal quartiere, insensato, inutile, non ci sarebbe andato mai nessuno. Ora è il primo Auditorium d´Europa per presenze, il principale ritrovo dei giovani romani. Sarebbe impensabile la vita cittadina senza l´Auditorium
«Se ho un vanto nella vita è d´aver costruito luoghi vivi, che piacciono alla gente. Dal Beaubourg di Parigi a Marlene Dietrich Platz a Berlino, fino all´Auditorium. Il progetto dell´Eur nasce per questo, per dare vita a un quartiere che muore alle sei di sera».
Non è neanche soltanto una faccenda politica. A Torino è stata la sinistra a ribellarsi al suo progetto di nuova sede della San Paolo, qui la destra a insorgere contro la casa di vetro.
«A Torino mi hanno accusato perché sto costruendo una torre, qui perché ne butto giù due, l´ex sede del ministero delle Finanze, per costruire in orizzontale. Ma diciamo la verità, l´oggetto del contendere in Italia conta poco, è un mero pretesto ideologico. La verità è che il paese ha paura di qualsiasi novità. Nel mio campo c´è una fobia dell´architettura contemporanea che non vedo in nessun´altra parte del mondo».
Se non conta la politica, che cosa conta in queste polemiche?
«La retorica, il grande sport nazionale della retorica. Di destra, di sinistra. Ma la retorica è la tomba di tutto, dell´architettura come di ogni altra attività. Quando poi si sposa alla nostalgia, come in questo caso, siamo alla necrofilia. Il vero problema del mio progetto, come di quello di Fuksas, è che sono antiretorici. Una qualità che in Italia non è di moda».
Su un punto però il sindaco Alemanno non ha torto. In Italia si fa una grande politica degli annunci, non solo da parte del governo. I sindaci di sinistra fanno grandi feste e conferenze, in genere alla vigilia elettorale, per presentare opere pubbliche e lì spesso si esaurisce tutto. La Nuvola di Fuksas è stata presentata nel 2001 e aspettiamo ancora la prima pietra. Poi il sindaco cambia e non è detto che debba approvare tutto quanto deciso dai precedessori.
«Questa è una vera ed è una trappola alla quale, per quanto posso, cerco di sottrarmi. In Francia o in Inghilterra non si fanno annunci, si lavora. A San Francisco la festa per il museo della scienza l´hanno fatta all´inaugurazione, non alla presentazione del progetto. Ma è anche vero che l´architettura chiede tempo. A Lione ho lavorato per vent´anni alla nuova città internazionale, un´opera gigantesca, e ho visto passare cinque sindaci diversi, di sinistra e di destra. Nessuno ha pensato di dover annullare il lavoro del predecessore. La popolazione si sarebbe ribellata. Soltanto da noi il gioco al massacro paga in termini di consenso».
Questa storia delle continue polemiche contro i grandi architetti non sarà anche una bella furbata per nascondere altri affari? Siamo il paese con la più galoppante delle speculazioni edilizie. Negli ultimi 15 anni, ha scritto Carlo Petrini, in Italia sono stati cementificati 3 milioni di ettari, l´intera superficie dell´Abruzzo. Soltanto a Roma, con le giunte di sinistra, sono spariti 127 mila ettari di terreni agricoli e Alemanno ha appena lanciato un appello per acquistare nuovi terreni, in pratica si sta asfaltando l´intero Agro Romano. In questa colata di cemento, non è paradossale che facciano scandalo soltanto i progetti di qualità, i suoi o quelli di Fuksas, Calatrava, Foster, Isozaki?
«Questo è il punto. Sorgono intere città nel silenzio, soprattutto nelle periferie delle grandi città, Roma compresa. Quartieri dormitorio che non scandalizzano nessuno. I riflettori seguono soltanto la firma celebre. Da anni sostengo che le città italiane, prima che di grandi progetti, hanno bisogno di ricucire il tessuto urbano con centinaia di piccoli interventi. Bisogno di difendere l´ambiente, di ripensare l´architettura in maniera sostenibile. Abbiamo lanciato appelli, non si è visto nessuno. I sindaci ci chiamano soltanto per affidarci un progetto o per ritirare l´offerta. Per il resto, si affidano a pessimi consiglieri».

il Riformista 28.10.08
Revival. In Germania un alto prelato pubblica il suo «capitale»
Sono tutti pazzi per Karl, anche monsignor Marx
Cattocomunismi. Contrordine, fedeli! Un arcivescovo chiede di riabilitare il padre del comunismo dalla lunga condanna. Porta il suo stesso cognome, ed è il successore di Ratzinger in Baviera.
di Jansenius


Forse non tutti ricordano il famoso slogan di Guareschi sul Candido: «Contrordine compagni…». Mi è venuto in mente leggendo l'intervista rilasciata a Der Spiegel dall'arcivescovo di Freising-München, in Baviera, e cioè il successore di Papa Ratzinger, sull'altro Marx, il filosofo ed economista, padre del comunismo.
Solo che lo slogan deve essere adattato alle circostanze e dovrebbe suonare così: «Contrordine, fedeli cattolici!». Le parole pronunciate da Papa Pio XI e da Papa Pio XII: «Marx sia condannato!», devono essere intese come: «Marx sia beatificato!». E così il buon Carlo Marx entra grazie all'altro Marx, l'arcivescovo di Freising-München, nel pantheon dei maestri della dottrina sociale cattolica. E l'arcivescovo Marx condanna chi… ha condannato l'altro Marx e gli chiede scusa: «Bisogna chiedere scusa a Marx per averlo spedito nel dimenticatoio».
E poi va anche oltre e afferma: «Bisogna prenderlo sul serio, è un errore considerarlo morto, come pensano in molti. Il movimento marxista ha cause reali e pone questioni giustificate. Poggiamo tutti sulle spalle di Marx, perché aveva ragione. Nella sua analisi della situazione del XIX secolo ci sono punti inconfutabili. L'etica sociale della Chiesa non ha mai confuso l'opera filosofica di Marx con Stalin e i gulag».
Occorre quindi revocare la condanna pronunciata da due Papi contro il marxismo, quello di Carl Marx, non del suo epigono arcivescovo di Freising-München. E prendere sul serio quello che l'arcivescovo bavarese proclama, mi si scusi la ripetizione: «Il movimento marxista ha cause reali e pone questioni giustificate. Poggiamo tutti sulle spalle di Marx, perché aveva ragione. Nella sua analisi della situazione del XIX secolo ci sono punti inconfutabili. L'etica sociale della Chiesa non ha mai confuso l'opera filosofica di Marx con Stalin e i gulag».
E chi mai ha confuso l'insegnamento di Marx con Stalin e i gulag? In Italia, salvo forse Palmiro Togliatti, nessun comunista, io credo. E lasciamo stare Windhorst, mons. Kettler, Giuseppe Toniolo, Luigi Sturzo, la scuola di Malines e simili baggianate: occorre dire forte e chiaro, anche dal pulpito delle cattedrali, almeno di quelle tedesche: «Nella sua analisi del capitalismo Carlo Marx aveva visto giusto».
E occorre riabilitare i fondatori e gli ispiratori del movimento dei cattolici comunisti: da Felice Balbo a Franco Rodano, molto più indietro di Marx, l'arcivescovo di Freising-München, nel giudicare Marx, l'altro, poiché di quest'ultimo accettavano non la concezione filosofica della dialettica, ma solo il marxismo storico, come uno dei canoni, anche se per loro loro il più importante, di interpretazione della storia.
Attendiamo ora un'altra intervista di Marx, non il filosofo ed economista, ma l'altro, l'arcivescovo di Freising-München, al News di Die Linke, il partito della sinistra tedesca, quello che a parere del Marx, l'arcivescovo di Freising-München, non l'altro meno famoso Marx Carlo, erede del glorioso partito Sozialistische Einheit Deutschland, il partito egemone della sempre più gloriosa Repubblica Democratica Tedesca, e ricordata con rimpianto da Marx, non il filosofo ed economista, ma l'altro, l'arcivescovo di Freising-Monaco, partito che ad avviso di Marx, non il filosofo ed economista, ma l'altro, l'arcivescovo di Freising-München, deve sostituire la CDU e la CSU, considerati partiti della borghesia capitalista da Marx, l'arcivescovo di Freising-München, non l'altro chiamato Carlo.
L'intervista avrà come tema: «La lotta di classe nella Chiesa e nel mondo, come motore della evangelizzazione del popolo di Dio: un nuovo dogma per la Chiesa del XXI secolo».
E chissà che un giorno Marx, non certo il filosofo e l'economista, ma l'altro, l'arcivescovo di Freising-München, ricordando che proprio a Monaco di Baviera Adolf Hitler tentò di prendere il potere con un memorabile putsch, non ci inviti a non confondere il pensiero di Adolf Hitler nel suo Mein Kampf con i campi di sterminio…
Perché grande è il pensiero di Marx, non il filosofo e l'economista, ma l'altro, l'arcivescovo di Freising-München. E noi, poveri fedeli della Diocesi di Roma aspettiamo l'ulteriore insegnamento di Marx, non il filosofo e l'economista, ma l'altro, l'arcivescovo di Freising-München.

il Riformista 28.10.08
Il Capitale risorge sull'altare
di Guido Vitiello


L'editore Pattloch ha annunciato il suo prossimo libro, la cui uscita è prevista per i primi di novembre. Si intitola "Das Kapital", e il suo autore è un certo Marx.
Chi a questo punto è colto da una sottile impressione di déjà-vu, farà bene a ricordare la regola aurea del "Diciotto brumaio di Luigi Bonaparte": la storia si ripete due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa. E se parlare di farsa può suonare fuori luogo, c'è senz'altro una buona dose di umorismo - degno di un altro Marx ancora, Groucho - nella scelta dell'arcivescovo di Freising-München, Reinhard Marx, di intitolare il suo libro come il capolavoro dell'illustre omonimo.
Questo nuovo "Capitale" sarà decisamente meno imponente (320 pagine contro i quattro tomi dell'originale) ma il punto di partenza è lo stesso. Secondo l'arcivescovo, si legge nella scheda di presentazione del volume, in tempi di globalizzazione economica le domande sollevate dal filosofo di Treviri tornano attuali: «Il capitale è al servizio dell'uomo o è piuttosto l'uomo al servizio del capitale?».
L'autore, che precisa che «con Karl Marx condivide il cognome, ma non la visione complessiva del mondo», pensa che il capitalismo vada rifondato su basi umanistiche: «La globalizzazione dei mercati dev'essere completata da una globalizzazione della solidarietà e della giustizia». Così come per le relazioni tra gli Stati-nazione, «abbiamo bisogno di una regolamentazione globale dei flussi finanziari, dei diritti dei lavoratori e delle condotte economiche».
Perché un capitalismo «senza umanità, solidarietà e giustizia non ha morale e non ha futuro».
Idee non originalissime, come spesso accade per i remake e i sequel. E difficilmente il secondo "Capitale" susciterà lo scalpore del primo...

il Riformista 28.10.08
In un film la Bibbia dei "rossi"
di G.V.


Sembrerebbe, sulla carta, un'impresa impossibile. L'idea di portare sul grande schermo il Capitale di Marx balenò a Sergej Eisenstein sul finire degli anni Venti a Parigi, durante un colloquio con James Joyce. Poi, per tante ragioni, il regista sovietico fu costretto ad accantonare il progetto. Ma al di là degli ostacoli pratici che è facile intuire - il disinteresse dei produttori francesi e americani, le diffidenze ideologiche che Mosca cominciava a covare nei suoi confronti - è l'operazione in sé che può apparirci concettualmente impossibile, se non insensata. Eisenstein voleva trattare il Capitale alla stregua di un libretto d'opera, si legge nei suoi appunti. Ma come tradurre in storie, personaggi e immagini un austero trattato filosofico-economico? Come "illustrare" nozioni come il plus-valore, l'alienazione o il valore di scambio senza incappare in un didascalismo soporifero, come quello che promana, per esempio, dal film che Guy Debord trasse da La società dello spettacolo?
Quasi ottant'anni dopo, qualcuno ha raccolto la sfida di Eisenstein. Ed è l'unico, forse, che aveva tutti i titoli per farlo. È Alexander Kluge, uno dei padri del Nuovo cinema tedesco, che da decenni conduce le sue sperimentazioni formali su quello strano "ircocervo" che è il film-saggio, e che con Die Patriotin ha firmato uno dei capolavori di questo elusivo genere. A metà novembre l'editore Suhrkamp di Francoforte pubblicherà Das Kapital, in tre dvd e un libro. La durata "monstre" non manca di rievocare il gigantismo del cinema delle origini - quasi dieci ore, pressapoco quanto la versione originaria di Greed di Eric von Stroheim. In questo tempo interminabile Kluge - cineasta-intellettuale allevato alla scuola della "teoria critica" francofortese, sotto la guida di Theodor Adorno - ha allestito, come suo solito, un'architettura complessa e labirintica. Dove convivono e s'intrecciano colloqui con intellettuali come Peter Sloterdijk e Hans Magnus Enzensberger, montaggi di materiali audiovisivi della provenienza più varia, riprese originali. Più che una "ricostruzione" filologica di quella che avrebbe dovuto essere l'opera di Eisenstein, cosa impossibile, il film vuole intessere un dialogo con l'autore di "Ottobre" e i suoi anni. Diversi dai nostri, certo, ma anche simili: quando il regista partorisce l'idea del Capitale siamo nel 1929. Oggi Kluge considera Marx il poeta della nostra crisi: «Eisenstein vedeva in Marx un artista», confida in una lunga intervista alla Frankfurter Allgemeine Zeitung «e lo stesso Marx parlava della sua opera come di una "costruzione artistica". Devo confessarglielo, trovo Marx estremamente interessante come poeta. Come economista mi interessa di meno».

lunedì 27 ottobre 2008

Repubblica 27.10.08
La protesta degli studenti condivisa da un italiano su due
di Ilvo Diamanti


Genitori, professori, studenti. Ma non solo: un italiano su due condivide la protesta anti-Gelmini. Ecco l´indagine Demos & Pi
Il malessere dei giovani nasce soprattutto dal furto di futuro, di cui sono vittime
Molti favorevoli al grembiule, al voto in condotta e agli esami di riparazione
Non attecchisce l´idea degli sprechi e degli insegnanti fannulloni

Ciò che sorprende maggiormente, nell´indagine condotta da Demos nei giorni scorsi, è il grado di consenso per la scuola pubblica: ampio e perfino in crescita rispetto a un anno fa. Nonostante l´ondata di discredito che - da anni e tanto più in questi tempi - sta sommergendo le istituzioni scolastiche. Ma soprattutto quei "maledetti professori"… Pretendono di insegnare in una società che non sopporta i "maestri" - figuriamoci i professori. Nonostante l´ondata di risentimento contro tutto ciò che è pubblico e statale. Scuola compresa.
Perché oggi lo Stato è rivalutato, ma come barelliere della finanza ammalata; come pronto soccorso del mercato ferito. Nonostante il conseguente calo dei fondi pubblici, che si ripete da anni, con ogni governo, di ogni colore. Perché, per risparmiare, si riducono le spese improduttive. Come vengono ritenute, evidentemente, quelle sostenute per la scuola, la formazione e la ricerca. Nonostante il contributo offerto dal sistema scolastico stesso al proprio discredito. Per le resistenze opposte dagli insegnanti ai progetti di riforma volti a valutarne il rendimento e a premiarne il merito.
Per le degenerazioni del reclutamento universitario, i concorsi pilotati, a favore di amici e parenti fino al terzo grado. Nonostante le interferenze dei genitori, pronti a chiedere rigore e autorità ai professori. Pronti a difendere i propri figli contro i professori (lo ammettono 7 italiani su 10).
Nonostante tutto questo, la scuola, i maestri, i professori "del sistema pubblico" godono ancora di stima e considerazione fra i cittadini. In particolare:
a) il 60% e oltre degli italiani si dice soddisfatto (molto o moltissimo) della scuola pubblica di ogni ordine e tipo. E, nel caso delle scuole elementari, il gradimento sfiora il 70% degli intervistati, senza grandi differenze di età, genere, ceto; ma neppure di orientamento politico.
b) Parallelamente, il 64% dei cittadini manifesta (molta o moltissima) fiducia negli insegnanti della scuola "pubblica". Penalizzati, secondo il 40% degli intervistati, da stipendi troppo bassi.
In entrambi i casi - scuola pubblica e insegnanti - il giudizio appare migliorato rispetto a un anno fa. In evidente contrasto con la rappresentazione dominante, al cui centro campeggiano l´insegnante fannullone e incapace, la scuola inefficiente e sprecona. Argomenti politici e mediatici di successo, che fra i cittadini non sembrano, tuttavia, attecchire. La scuola e gli insegnanti godono, al contrario, di buona reputazione. E non per "ideologia" o per pregiudizio politico. Fra gli intervistati, infatti, appare ampia la consapevolezza dei problemi che la affliggono. Il distacco nei confronti del mercato del lavoro, la violenza, l´incapacità di ridurre le diseguaglianze, la preparazione inadeguata degli insegnanti. Ancora: lo scarso rilievo attribuito al merito, sia per gli studenti che per i loro insegnanti. Infine, anzi, in testa a tutto: la penosa penuria di risorse.
I provvedimenti della ministra Mariastella Gelmini, peraltro, non sono catalogati attraverso pre-giudizi generalizzati. Vengono, invece, valutati in modo distinto, caso per caso. Una larghissima maggioranza degli intervistati si dice favorevole: al ritorno del voto in condotta, dei grembiulini, degli esami di riparazione. Novità antiche che piacciono perché propongono soluzioni semplici a problemi complessi. Evocano la tradizione e la nostalgia per curare i mali odierni. Si rivolgono, in particolare, alla domanda d´ordine e di autorità, che oggi appare diffusa.
Il giudizio, però, cambia sensibilmente quando entrano in gioco temi che richiamano l´organizzazione didattica e il modello educativo. In primo luogo: il ritorno del "maestro" unico alle elementari. Un provvedimento che divide gli italiani. Non piace, anzi, a una maggioranza, per quanto non larghissima. Mentre è nettissimo, plebiscitario il dissenso verso la chiusura degli istituti con meno di 50 studenti (in un Paese di piccoli paesi, come il nostro, si tratta di una diffusa reazione di autodifesa). Ma anche verso la scelta di differenziare (per quanto transitoriamente) le classi per gli studenti stranieri e italiani. Perché, al di là del merito, il provvedimento sembra dettato da preoccupazioni di consenso più che di inserimento. Mentre fra gli italiani, anche i più insicuri, è ampia la convinzione che famiglia e scuola siano i principali canali di integrazione (e di controllo sociale).
Semmai, appare più ideologica la base del consenso per le politiche del governo, che ottengono il massimo grado di sostegno fra le persone più lontane dalla scuola, per esperienza personale e familiare: gli anziani, le famiglie dove non vi sono né studenti né docenti. Al contrario, le resistenze crescono nelle famiglie dove vi sono insegnanti o studenti. Ma soprattutto nei confronti dei provvedimenti meno popolari: maestro unico e classi differenziate per stranieri. Ciò suggerisce che l´opposizione alle politiche della scuola, elaborate dalla ministra Gelmini, sia dettata, in buona misura, dall´esperienza delle famiglie e delle persone. Da ciò un giudizio complessivamente negativo nei confronti della riforma, ma anche verso l´azione della ministra. Rimandate entrambe, non bocciate senza appello. In altri termini: gran parte degli italiani è d´accordo sulla necessità di riformare la scuola.
Tuttavia, alla fine sul giudizio dei cittadini e degli utenti gli aspetti concreti pesano assai più di quelli simbolici. E il ritorno dei grembiulini e del voto in condotta non giustificano, agli occhi dei più, il taglio dei finanziamenti, il maestro unico, le classi "dedicate" per gli stranieri. C´è difficoltà a immaginare la possibilità di curare la scuola amputandone gli organi vitali. Riducendo ancora risorse ritenute oggi largamente inadeguate. Ciò spiega il consenso largamente maggioritario a sostegno delle proteste contro la riforma, che da qualche settimana agitano le scuole e affollano le piazze. Coinvolgendo, insieme, studenti, professori e genitori.
A differenza del mitico Sessantotto, evocato spesso, a sproposito, in questi giorni - per "colpa" dell´anniversario (40 anni) e per pigrizia analitica. In quel tempo gli studenti contestavano il passato che ingombrava, pesantemente, la società, la cultura, le istituzioni. Zavorrava le loro aspettative di vita e di lavoro. Per cui manifestavano e protestavano "contro" la società adulta. "Contro" i professori e i loro stessi genitori. Oggi, al contrario, il malessere degli studenti nasce dal furto del futuro, di cui sono vittime. La loro rivolta "generazionale" incrocia la protesta "professionale" dei professori e la solidarietà dei genitori, a cui li lega un rapporto di reciproca dipendenza, divenuto sempre più stretto, negli ultimi anni. Da ciò un problema rilevante per i giovani, i figli e gli studenti. Magari sconfiggeranno la Gelmini. Ma come riusciranno a "liberarsi" davvero con la complicità degli adulti, il permesso dei genitori, e il consenso dei professori?

Repubblica 27.10.08
Si apre una settimana cruciale per il movimento anti-Gelmini. Sindacati uniti
Ma gli scioperi non si fermano mercoledì il voto sul decreto
di Mario Reggio


La facoltà di Fisica della Sapienza, occupata, ha aperto a bambini e famiglie

L´onda della protesta, dopo una domenica di quiete relativa, torna a spazzare scuole, atenei, piazze e strade. Sarà una settimana cruciale, anche se il movimento si attrezza per una lotta di lunga durata.
L´obiettivo principale è quello di bloccare l´approvazione definitiva al Senato, prevista mercoledì 29 ottobre, del decreto Gelmini. E da oggi gli studenti di molte scuole romane faranno lezione al Colosseo. Contro l´approvazione del provvedimento Gelmini al Senato, i Cobas hanno organizzato una manifestazione a piazza Navona, a pochi passi da Palazzo Madama, a partire dalle 17 di domani. L´iniziativa proseguirà senza sosta fino al mattino dopo quando è prevista la votazione. La Rete degli studenti lancia lo slogan «Avanziamo dei diritti» ed annuncia che da domani, in tutta Italia, «ci saranno scioperi e notti bianche, che si concentreranno ancora una volta nei giorni di approvazione del decreto 137 al Senato. Dopo lo slittamento ottenuto il 23 ottobre, cercheremo ancora una volta di bloccare i lavori parlamentari». Ma l´appuntamento clou delle proteste è per giovedì 30 ottobre, giorno in cui, in tutta Italia, sciopererà il personale della scuola e si terrà a Roma la manifestazione di docenti, studenti medi ed universitari contro il progetto governativo.
Il fronte sindacale è unito come mai prima: lo sciopero nazionale, infatti, è stato indetto da Cgil, Cisl, Uil, Snals e Gilda. Proteste senza sosta anche negli atenei. Gli studenti dell´Università romana Tor Vergata hanno provocatoriamente messo in vendita, per appena un euro e 50 centesimi, sul sito e-Bay la propria università. Sempre gli studenti di Tor Vergata ieri hanno raggiunto la centrale piazza dei Cinquecento, a Roma, in camice bianco e libri in mano. Una protesta creativa che ha l´obiettivo di «far conoscere alla popolazione il tragico futuro dell´università italiana». La facoltà di Fisica de La Sapienza, occupata da giorni, ha ieri aperto alle famiglie e ai bambini delle elementari per mostrare loro esercitazioni e sperimentazioni: il principio dei vasi comunicanti con l´acqua della fontana ai piedi della statua della Minerva, oppure il funzionamento del giroscopio alla base del principio di rotazione della Terra.
Da oggi poi, a Roma, partirà una settimana di lezioni all´aria aperta, anche in luoghi simbolo della città come il Colosseo. A piazza Farnese lezioni in piazza degli studenti di Lettere e Filosofia di Roma3, docente il professor Giacomo Marramao. Mentre alla Normale di Pisa, ieri, sono apparsi i primi striscioni di protesta: «Un Paese vale quanto ciò che ricerca».

Corriere della Sera 27.10.08
Intervista al ministro: Gelmini: protesta di pochi Il mio modello è Obama
di Marco Cremonesi


«Niente classi separate, solo corsi di italiano per chi non lo parla»

Mariastella Gelmini è ministro della Pubblica istruzione Nata a Leno (Brescia) 35 anni fa è avvocato, specializzata in diritto amministrativo. È alla seconda legislatura alla Camera
La sinistra ha perso il rapporto con chi lavora e ora lo perde anche con i giovani

MILANO — «Il 30 ottobre ci sarà lo sciopero della scuola, il solito rito di chi difende l'indifendibile. Ma dopo, credo che si potrà riprendere a confrontarsi con le riforme», dice al Corriere
il ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini. E aggiunge che «per l'università il 2009 non prevede particolari tagli. Qualche problema potrà esserci dal 2010 ma abbiamo tempo per discuterne». Il punto di riferimento del ministro? Obama, che propone per la scuola Usa «provvedimenti simili ai nostri». Oggi sono previste nuove proteste.

MILANO — Il mio modello? Barack Obama. Parola di Mariastella Gelmini. Mentre infuria la protesta della scuola e dell'università, il ministro alla Pubblica istruzione procede diritta per la sua strada. Ma rivela la sua stima per il candidato democratico nella corsa alla Casa Bianca e tende una mano all'opposizione: «Ma soltanto a quella costruttiva. Altrimenti, facciamo da soli».
Ieri Veltroni ha chiesto il ritiro del suo decreto e la relativa modifica della Finanziaria. È possibile?
«Scusi, ma non ne capisco la ragione. La manovra economica è legge da giugno, il Pd è fuori tempo massimo. Quanto al decreto, ha ottenuto già l'approvazione della Camera ed è stato ampiamente discusso al Senato: sarà votato mercoledì. Ma certo, su come proseguire nell'opera di riforma della scuola italiana, le mie porte sono spalancate ».
Però, voi avete posto la fiducia e non c'è stato dibattito parlamentare. Dove si doveva discutere?
«Sono cinque mesi che si discute di scuola e il Pd non ha fatto una proposta che fosse una. L'unica idea è quella di non cambiare nulla: "Non toccate la scuola, giù le mani dall'università". Questo sarebbe riformismo? A me, sembrano pietrificati».
L'opposizione sulla scuola appare più diffusa che non su altri temi. È perché mette in discussione anche parecchi posti di lavoro?
«La sinistra ha perso totalmente il rapporto con chi lavora e ora lo sta perdendo anche con gli studenti. Bisogna dirlo con chiarezza: il disastro dell'istruzione in Italia è figlio delle logiche culturali della sinistra contro il merito e la competitività. Per decenni scuola e università sono state usate come distributori di posti di lavoro, di clientele e magari di illusioni».
Illusioni?
«Sì, certo. L'illusione di posti di lavoro che non esistono. L'illusione che lo Stato possa provvedere a dare posti fissi in modo indipendente dalla situazione economica e dal debito pubblico. La sinistra per i suoi interessi politici inganna le persone, ha creato il precariato proprio diffondendo illusioni».
Non esagera? In Italia non c'è stata soltanto la sinistra.
«Quando Veltroni è diventato leader del Pd, ci ho creduto anche io: ho sperato che questo Paese potesse cambiare veramente con un progetto bipartisan. Che potesse essere riformato, abbandonando le vecchie posizioni ideologiche e sindacali responsabili del declino dell'Italia. Speravo che Veltroni si ispirasse alla lezione di Tony Blair. Purtroppo, oggi parla come un rappresentante dei Cobas».
Addirittura?
«Ma sì, via... Si è schiacciato sulle posizioni più conservatrici su ogni argomento. Guardi, le dirò qualcosa che non si attende: il mio punto di riferimento è quello che sta facendo Barack Obama in America ».
Cosa le piace di Obama?
«Sta proponendo per la scuola americana provvedimenti simili ai nostri, penso soprattutto agli incentivi al merito per gli insegnanti. E anche lui vuole razionalizzare le scuole sul territorio per destinare i risparmi alla qualità dell'istruzione. E poi, la possibilità per tutti, anche per chi non si può permettere le università costose, di aver una istruzione di qualità. Questo è un vero, coraggioso riformatore: non certo il leader del Pd».
Molti giovani scendono in piazza, però...
«Gli studenti in Italia sono 9 milioni. Coloro che protestano, alcune migliaia. Le facoltà occupate sono pochissime. E in molte, gli studenti ricacciano indietro gli occupanti. Non immagina quanti messaggi ricevo da studenti stanchi di slogan vecchi e di professori militanti».
Sarà, ma le manifestazioni sono lì da vedere. O no?
«Funziona così: a Firenze occupano una stanza in venti e nei tg si dice che l'università è occupata. Oppure, a Milano, succede che in duecento escano dai centri sociali e vadano a scorrazzare nei cortili della Statale. Visto che nessuno dà loro retta, bloccano la stazione Cadorna. I tg dicono: scontri tra studenti e polizia. Ma di studenti non ce ne erano».
Guardi che è impervio cercar di dimostrare che non ci siano manifestazioni studentesche. Non partecipano persino parecchi giovani di destra?
«No, guardi: i giovani della destra continuano la loro decennale battaglia contro i baroni e i professori ideologizzati, non certo contro il decreto».
Che ne pensa di far intervenire le forze dell'ordine nelle scuole e nelle università?
«Penso che non si porrà il problema, anche perché in tutta Italia mi pare che i ragazzi si rifiutino di occupare. Il 30 ottobre, certo, ci sarà lo sciopero, il solito vecchio rito di chi difende l'indifendibile. Ma dopo, credo che si potrà riprendere a confrontarsi con le riforme. Ovviamente, con chi fa proposte».
Resta il fatto che i tagli ci saranno. È così sicura che non si tradurranno in un impoverimento della didattica?
«I primi a vivere il disagio della scuola esistente sono proprio i professori, pagati con stipendi da fame e proletarizzati da sinistra e sindacato. E poi, il 30% dei risparmi realizzati, 2 miliardi di euro, sarà utilizzato per pagare meglio i professori sulla base del merito».
C'è chi dice: va bene tagliare le spese improduttive. Ma i risparmi devono essere interamente spesi sulla scuola. Non è una posizione sensata?
«Me lo lasci dire: bisognava anche riportare tutti alla realtà. Dire che la gestione allegra del denaro pubblico è finita. E dunque, prima si eliminano gli sprechi. Poi, ma soltanto dopo, si potrà reinvestire in qualità. Questo per quanto riguarda la scuola. Per l'università il 2009 non prevede particolari tagli. Qualche problema potrà esserci dal 2010 ma abbiamo tempo sufficiente per discuterne con chi vuol farlo seriamente».
Sulle classi ponte per gli immigrati restano margini di ambiguità. Che cosa saranno?
«L'ambiguità è di chi ha tentato come al solito di buttarla sul razzismo. Qualunque genitore che ha un figlio alle elementari conosce il problema rappresentato da chi in classe non sa l'italiano. Un problema didattico, che come tale va risolto: non faremo classi separate, le classi ponte saranno corsi magari pomeridiani di italiano per consentire a chi non lo è di imparare la lingua il più rapidamente possibile».

Corriere della Sera 27.10.08
«Cortei e sit in, così bloccheremo il decreto»
Nuove contestazioni e giovedì sciopero generale. Il premier: avanti con le riforme
Continua anche la mobilitazione di segno opposto: 5.000 firme ieri a Firenze a sostegno della Gelmini
di M. Antonietta Calabrò


ROMA — L'Onda cercherà di crescere fino a diventare, se non uno tsunami, almeno una marea. Nelle scuole e nelle Università si apre la settimana decisiva delle contestazioni. Un programma denso di occupazioni, sit-in, agitazioni, lezioni in piazza che, secondo gli organizzatori, mira a fermare l'approvazione (dopodomani) al Senato del decreto Gelmini: «Dopo lo slittamento ottenuto il 23 ottobre — dicono — cercheremo ancora una volta di bloccare i lavori parlamentari». Con forme clamorose di protesta: gli studenti romani intendono fare lezione al Colosseo. L'obiettivo finale, ha ribadito uno dei leader della Rete della Sapienza, Francesco Raparelli (protagonista anche della protesta «No Vat» contro la lezione d'apertura di papa Ratzinger), è il ritiro del decreto.
Ma il premier Berlusconi ha ribadito che il governo non lo farà: «Andiamo avanti a governare e a fare cose di buon senso che sono nel programma, qualunque cosa dica Veltroni o qualcun altro nell'opposizione » ha detto commentando la richiesta avanzata dallo stesso leader del Pd al Circo Massimo. «Hanno usato strumentalmente la scuola — ha aggiunto —. Pensate all'Università, non abbiamo ancora fatto nulla e già ci hanno mosso critiche e mosso gli studenti nelle strade con una strumentalizzazione difficilmente definibile anche di bambini».
Per contrastare il voto del Senato, i Cobas hanno organizzato una manifestazione a piazza Navona mentre in tutt'Italia si accenderanno dei lumini con la scritta «Fermatevi». La protesta corre anche sul web. Un misterioso studente ha provocatoriamente messo in vendita su eBay, base d'asta un euro e 50, l'Università di Tor Vergata. Ma su siti internet e blog continua anche la raccolta di firme, di segno opposto, organizzata dai giovani del centrodestra a supporto della Gelmini: solo a Firenze, cinquemila.
L'appuntamento clou è giovedì, con lo sciopero generale della scuola e il maxicorteo di docenti e studenti. «Una grande "ola" passerà per Roma nella più grande manifestazione che si ricordi» sostiene il leader della Flc-Cgil, Pantaleo. Per il leader radicale, Pannella, «la rivolta di professori e studenti è in realtà una rivolta contro la finanziaria di Tremonti, quella da otto minuti». Bonanni, della Cisl, invita il governo a «far parlare le famiglie». Per Di Pietro «si sono fregati la polpa, cioè otto miliardi di euro». Contro il decreto anche il Meic, che rappresenta i laureati dell'Azione cattolica: «I contenuti non sembrano essere il frutto di un chiaro e coerente disegno pedagogico ». E ne chiedono il ritiro.

Repubblica 27.10.08
Le regole da abbattere
dsi Stefano Rodotà


Per comprendere quello che accade, conviene fare qualche piccolo esercizio di memoria, che sta diventando sempre più corta, limitata ormai a meno di ventiquattro ore, come dimostra il gioco delle opposte dichiarazioni coltivato dal presidente del Consiglio.
Torniamo, allora, agli interventi con i quali il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale hanno ancora una volta disegnato il perimetro delle istituzioni democratiche, e lo hanno ricordato ai cittadini. Di fronte ad una aggressiva dichiarazione del presidente del Consiglio, che affermava di voler "imporre" al Parlamento l´approvazione dei decreti legge, Giorgio Napolitano ha ricordato che "in Italia si governa – come in tutte le democrazie parlamentari – con leggi discusse e approvate dalle Camere nei modi e nei tempi previsti dai rispettivi regolamenti, e solo in casi straordinari di necessità e urgenza con decreti". Di fronte al conflitto di attribuzione sollevato dal Parlamento contro la Corte di cassazione per la sua sentenza sul caso Englaro, sostenendo che erano state invase le competenze del potere legislativo, la Corte costituzionale lo ha dichiarato inammissibile, sottolineando come la Cassazione abbia correttamente esercitato le proprie competenze e respingendo la pretesa delle Camere di sindacare un atto giudiziario e di ritenersi le uniche legittimate ad affrontare la questione.
Tutto è bene quel che finisce bene? Niente affatto. Queste due vicende mostrano con chiarezza che la consapevolezza istituzionale si ritira sempre più dal governo e dal Parlamento e si rifugia in aree circoscritte, anche se altamente significative, del sistema democratico. Si accentua così una pericolosa asimmetria istituzionale, dove la divisione dei ruoli e il rispetto delle regole sono costantemente visti come un ostacolo illegittimo, da abbattere. L´unica norma fondativa del sistema è riconosciuta nell´investitura elettorale, che cancella ogni altra regola e legittima qualsiasi decisione. Si materializza così una italianissima versione dell´estinzione dello Stato costituzionale di diritto.
E´ una forzatura interpretativa? Consideriamo, allora, dichiarazioni e comportamenti concreti.
1) Ancora sul lodo Alfano e dintorni. Nell´apprendere la notizia del rinvio del lodo alla Corte costituzionale da parte dei magistrati milanesi, il presidente del Consiglio ha quasi dato in escandescenze minacciando la Corte di chissà quali ritorsioni istituzionali qualora avesse osato ritenere illegittimo quel provvedimento. Mi farebbe piacere conoscere su ciò l´opinione di quel giudice costituzionale che si dimise ritenendo in pericolo la libertà di giudizio della Corte per normali dichiarazioni di alcuni politici (e anche l´opinione di quelli che ritennero giusta la sua posizione). Comunque, dopo l´intervento presidenziale, è venuto di rincalzo il suo più fido avvocato-parlamentare, in odore di vero ministro della Giustizia, con parole che più chiare non potrebbero essere. La sequenza logica (si fa per dire) è la seguente: Berlusconi ha ricevuto un largo consenso per risolvere i problemi del paese; ha già risolto la questione Alitalia e quella dei rifiuti a Napoli; di questo i magistrati milanesi non hanno tenuto conto, sì che il loro comportamento è censurabile, essendo il lodo lo strumento necessario per mettere il presidente in condizione di lavorare senza i turbamenti che potrebbero venire da indagini giudiziarie. L´elezione è così trasformata in "unzione", e l´unto del Signore si sente sciolto dalla soggezione alle regole. Senza scomodare la Bibbia (Isaia, 61), lasciamo la parola al protagonista (25 novembre 1994): "Io sono l´unto del Signore, c´è qualcosa di divino nell´essere scelto dalla gente".
La dimensione della legalità scompare, in modo ancor più radicale di quella affidata alla formula del "princeps legibus solutus". Nella recente storia politica italiana è possibile rintracciare qualche precedente, primo tra tutti il discorso di Bettino Craxi in occasione della fiducia al Governo Spadolini, quando attaccò i magistrati milanesi (sempre loro!) perché avevano indagato su quel galantuomo di Roberto Calvi, turbando così l´andamento della borsa. In questa singolare versione della legalità democratica il listino di borsa faceva aggio sul codice penale. Il filone di pensiero che vuole le norme penali subordinate al "fare" della politica ha fatto proseliti, si è irrobustito, ha prodotto un nuovo schema istituzionale, ci fa quotidianamente scivolare verso un mutamento di regime. Berlusconi commenta compiaciuto il funzionamento del governo, dicendo che lavora "come un consiglio d´amministrazione", inconsapevole della distanza tra il funzionamento di un´impresa e quello di una democrazia (lo confermano i suoi inviti a comperare determinate azioni e a non fare pubblicità sulla Rai). Parlarne è antiberlusconismo di maniera, intralcio al dialogo? O dobbiamo ritrovare la buona abitudine, che produce la buona politica, di analizzare i fatti per quelli che sono, senza girarvi intorno?
2) Decreti, decreti. Sempre in tempi craxiani circolava uno slogan "dieci cento mille decreti legge, dieci cento mille voti di fiducia". Un´altra continuità, un altro filone che si è irrobustito, con contributi e quindi responsabilità delle parti più diverse, e che oggi si vorrebbe portare a conseguenze estreme, contro le quali si è levato il monito del Presidente della Repubblica. Proprio per vanificare questo monito, fingendo di ascoltarlo, si sta mettendo a punto una pericolosa contromossa. Si ricorda che all´uso massiccio dei decreti si è dovuto ricorrere per superare le lentezze dell´iter parlamentare, per assicurare al governo il diritto ad una decisione in tempi certi. Si aggiunge che da questa situazione anomala si uscirà solo con una riforma dei regolamenti parlamentari. Ma ha osservato benissimo Andrea Manzella che, se questa riforma rendesse il governo "sovrano assoluto" in Parlamento, "al danno si aggiungerebbe la beffa", perché i fenomeni degenerativi continuerebbero, tuttavia formalmente legittimati dalle nuove regole. La situazione istituzionale, anzi, peggiorerebbe, perché le nuove regole restrittive coprirebbero l´intero processo legislativo, e non solo quello riguardante la decretazione d´urgenza. Di nuovo la necessità di analizzare le situazioni concrete, di chiamare le cose con il loro nome, per non restare intrappolati in una riforma dei regolamenti parlamentari che, non tanto paradossalmente, minerebbe la natura parlamentare del nostro regime politico, un esito inammissibile come ha esplicitamente detto il Presidente della Repubblica.
3) Testamento biologico e dintorni. Anche qui la strategia delle contromosse. La repentina conversione delle gerarchie ecclesiastiche, puntualmente registrata dalla maggioranza e dal governo, induce a ritenere che si arriverà all´approvazione di una legge. Ma, come è stato evidente fin dall´inizio, questo non porterà al riconoscimento del diritto di rifiutare le cure in previsione di un futuro stato di incapacità in modo conforme ai princìpi costituzionali, al rispetto della volontà di ciascuno di governare liberamente la propria vita, dunque anche il tempo del morire. Questo diritto fondamentale, espressione diretta del principio della dignità della persona, sarà vanificato dalla sua subordinazione alla valutazione di un medico, all´esclusione della possibilità di rinunciare all´idratazione e alla nutrizione forzata. Con la consueta lucidità, Ignazio Marino ha denunciato questo stato delle cose, che annuncia una restaurazione. E fa cogliere una contraddizione. Si vuole escludere il potere dei giudici nelle decisioni riguardanti la fine della vita. Ma, se un medico rifiuterà di riconoscere le direttive anticipate di una persona e pretenderà di continuare i trattamenti contro la volontà espressamente manifestata, a chi potranno rivolgersi i parenti se non al giudice?
4) Una conclusione, o una morale. E´ in corso un conflitto senza precedenti nella nostra storia politica e istituzionale. Alle nette prese di posizione delle alte istituzioni di garanzia, governo e maggioranza rispondono con strategie che rafforzano una deliberata deriva verso l´assolutismo, che esige la riduzione della democrazia rappresentativa, del sistema parlamentare, dei diritti fondamentali, in una parola della legalità costituzionale. Non impigliamoci nelle controversie sulle parole (regime, fascismo…), che pure hanno una loro forza. Ma non giriamo la testa dall´altra parte, non rinunciamo a vedere i nessi strettissimi che legano le vicende qui ricordate (e molte altre che devono essere aggiunte, dal lavoro alla scuola) e che già ci fanno vivere in un ambiente in cui proprio il deprimersi dello spirito democratico accelera i processi degenerativi. Se l´assolutismo è lo spirito del tempo, e non si concretizza rapidamente la nuova via all´opposizione, perché meravigliarsi del consenso verso chi lo incarna con spavalderia?

Repubblica 27.10.08
Incombe l´era della controriforma?
di Mario Pirani


Stiamo scivolando, pressoché senza accorgercene, verso l´era della Controriforma. Quasi un invisibile Concilio tridentino fosse tornato a riunirsi per escogitare nuovi strumenti per reprimere e prevenire insorgenti eresie e quali vie battere per ottenere che le prescrizioni ecclesiastiche siano osservate da tutti, non solo dai credenti. E cosa sostituire alla Inquisizione, alla Congregazione dell´Indice e soprattutto al ricorso al "braccio secolare" per ottenere obbedienza. Questa inquietante visione mi è venuta alla mente al termine di un dibattito da me diretto al Congresso della Società italiana di Chirurgia tra la sen. Paola Binetti e il sen. Ignazio Marino su «Etica e testamento biologico». Due senatori appartenenti allo stesso Partito democratico, ambedue cattolici, eppur di cultura antitetica, l´una convinta assertrice dell´ortodossia vaticana, l´altro interprete impegnato della libera scelta dell´individuo all´interruzione dei trattamenti sanitari al fine di evitare l´accanimento terapeutico.
La discussione non ha trovato alcuna possibilità di accordo, soprattutto su un punto centrale che si riflette nella stesura di due contrapposti disegni di legge. Il discrimine riguarda la libertà del cittadino di decidere, quando è ancora nel pieno possesso delle sue facoltà, a quali cure e terapie vuole essere sottoposto nel caso in cui si trovi in coma irreversibile o in uno stadio finale di una malattia così invalidante e penosa da ridurlo ad una parvenza di vita del tutto inaccettabile (caso Welby). Non si tratta, quindi, di una legalizzazione dell´eutanasia (che, peraltro, personalmente auspico), poiché non si sancisce la possibilità di somministrare al malato sostanze che assicurino una «morte dolce», ma solo di interrompere o rifiutare trattamenti terapeutici che prolunghino, senza alcun elemento di regressione della sofferenza, un mantenimento artificiale della sopravvivenza. Su questo aspetto il non possumus pontificio, proclamato come principio indisponibile e immodificabile, ha trovato una formulazione cosiddetta tecnica nel progetto di legge teo-dem, firmato alla Camera dalla Binetti, Bobba, Carra, Lusetti ed altri Pd, mentre al Senato analogo disegno è firmato da un folto gruppo di ex Popolari e ex Margherita, oggi Pd, tra cui la Baio, la Garavaglia, Fioroni, Del Vecchio ed anche Follini e Tonini che, forse aspirando a una impossibile sintesi, hanno anche sottoscritto il progetto di legge che sostiene l´opposto, firmato da 110 senatori a partire da Ignazio Marino, Levi Montalcini, Veronesi, Finocchiaro, Zanda, Livi Bacci, Chiaromonte, Nicola Rossi, Latorre nonché numerosi dell´IdV e alcuni della CdL (Malan, Paravia, Saro, ecc.). La linea di separazione è netta: i teo-dem (vedi art. 4 della legge Binetti) si sono inventati che l´idratazione e la alimentazione artificiale non sono terapie ma un atto equivalente alla somministrazione di pane ed acqua (l´evangelico «dar da bere agli assetati» e «nutrire gli affamati»). Quindi non ricade nell´accanimento terapeutico, per cui, se un individuo nel suo testamento biologico, peraltro revocabile in ogni momento, dichiarasse il contrario, la sua disposizione è nulla, non deve essere eseguita e chi vi ottemperasse commetterebbe un crimine penale. Ignazio Marino, Levi Montalcini, Veronesi e gli altri parlamentari laici e cattolici che sostengono il contrario, affermano «che nessuno può essere obbligato, contro la sua volontà, a introdurre nel proprio corpo, attraverso un sondino inserito chirurgicamente o no nello stomaco, sostanze come lipidi, elettroliti, proteine, ecc. elaborate chimicamente». Ma il quesito va ben oltre ed è tutt´altro che tecnico. Esso tocca la libertà della persona umana, la disponibilità sul proprio corpo, il valore delle sue decisioni. In uno Stato di diritto i cattolici, così come i credenti di altre religioni, debbono godere del pieno diritto di uniformarsi, se lo ritengono giusto, ai dettami delle gerarchie ecclesiastiche. Per contro, solo in uno Stato integralista, dove la legge religiosa è anche legge civile e norma politica per tutti i sudditi, il diktat dei preti o degli ulema, del Papa o degli ayatollah ha forza d´imperio. Lo Stato italiano si colloca a metà: non c´è più l´Inquisizione o il «braccio secolare» per imporre i testi sacri, interpretati dal Sant´Uffizio, come obbligo generale. Essi sono stati sostituiti dalla precettistica invadente del Vaticano sostenuta da una Politica succube (teo-dem o neo-com che sia) oppure complice per convenienza strumentale, tipica della CdL. La Sinistra, infine, appare dilaniata e finge di non accorgersene. Per quanto tempo ancora?

Repubblica 27.10.08
Monsignor Marx
di Edmondo Berselli


Monsignor Marx è marxista. Meglio chiarire: l´arcivescovo che siede sullo scranno che fu di papa Ratzinger a Monaco di Baviera si chiama Marx, ha per nome di battesimo Reinhard, e sta per pubblicare un libro, molto atteso in Germania, intitolato «Il Capitale. Una difesa dell´uomo», in cui rivaluta l´opera del suo omonimo Karl, cioè il filosofo di Treviri, trattandolo come un profeta della modernità: «Nella sua analisi del capitalismo aveva visto giusto». Il caso è molto tedesco e dialettico: il Marx alto prelato rivaluta il Marx fondatore del comunismo. Con una complicazione piuttosto seria, perché il Marx vescovo, in quanto membro del Pontificio consiglio della giustizia e della pace, sovrintende ai contributi che confluiranno nell´enciclica sociale di Benedetto XVI. E allora, visti i tempi di depressione da subprime, prendiamo per buono ciò che dice il Marx Reinhard, ovvero che «un capitalismo senza un quadro etico è nemico del genere umano». Ma se tanto ci dà tanto, cioè se il Marx rivalutato da Marx finisce anche di sbieco nell´enciclica papale, si profila la notevole opportunità che riveli una sfumatura marxista o marxiana anche Ratzinger: e questo, non c´è santo o papa che tenga, non l´aveva previsto nessuno, neanche Marx (quello vero).

Repubblica 27.10.08
Studio di una équipe tedesca sugli aromi Ciò che si annusa influenza il sonno
Profumo di rosa per dormire meglio
"Il sistema olfattivo è strettamente legato con le emozioni"
di Elena Dusi


«Sogni di rosa» si potrebbe augurare prima di andare a dormire. E accompagnando il saluto con una fragranza profumata, i sogni di rosa arriveranno per davvero. La via fra il naso e il cervello è infatti molto breve e un esperimento dell´università di Mannheim ha collegato quel che l´olfatto sente durante la notte a ciò che il cervello crea nel mondo immaginario del sonno.
Presentato ieri alla conferenza dell´Accademia americana di otorinolaringoiatria a Chicago, l´esperimento del medico tedesco Boris Stuck dell´università di Mannheim ha dimostrato che "il colore emotivo" dei sogni, cioè la loro piacevolezza, viene influenzato dall´odore dell´ambiente. Un gruppo di donne addormentate in una stanza imbevuta di fragranza di rosa, nel momento in cui è stata svegliata dalla fase Rem del sonno (quella in cui più di frequente si presentano i sogni), ha riferito di frequente scene gradevoli. Ripetendo l´esperimento con un odore di uova marce, il "colore emotivo" medio dei sogni ha virato invece verso episodi ansiosi o angoscianti.
Un esperimento come quello di Stuck, condotto su soli 15 volontari e per di più tutte donne, non rappresenta certo il meglio in fatto di fondatezza scientifica. Ma si inoltra in un affascinante terreno da cui neurologia e psicanalisi cercano da tempo di estrarre un filo logico. «Una cosa è certa» premette Domenico Nesci, psichiatra e psicanalista del Policlinico Gemelli di Roma. «Il sistema olfattivo è strettamente collegato con il sistema limbico, che possiamo ribattezzare "il cervello degli affetti e delle emozioni"».
Dalle madeleines di Proust in poi, il collegamento diurno fra odori ed emozioni è stato messo a nudo in molti dettagli. «Ma come gli stimoli olfattori influenzino la macchina dei sogni è questione assai più misteriosa» conferma Nesci. Che ricorda un sogno riferito a Freud da un paziente cui era appena morto il figlio. L´uomo dormendo immaginava di vedere un cero che cadeva sul suo bambino e ne bruciava il corpo. Effettivamente, nella stanza in cui il padre si era addormentato vegliando il piccolo, una candela si era consumata e aveva iniziato a bruciare il tavolo. «È allora evidente - spiega il medico - che gli odori hanno il potere di influenzare il contenuto dei sogni».
All´argomento si è appassionato anche Artin Arshamian, psicologo dell´università di Stoccolma che l´anno scorso ha pubblicato uno studio sui "sognatori di odori". Così come nel sonno c´è chi vive solo scene in bianco e nero, i sognatori si dividono anche in chi arricchisce le sue scene di odori e chi invece si accontenta degli altri sensi. Secondo Arshamian, chi è abituato a sentire, apprezzare e memorizzare le fragranze durante il giorno, avrà più probabilità di veder penetrare gli stimoli olfattivi anche di notte. Avrà quindi più probabilità di sognare un odore di rose.
Nel 2004 la ditta giapponese Takara provò a sfruttare le scoperte su sensi e sonno a fini commerciali, realizzando lo "Yumemi-Kobo", o "fabbrica dei sogni". Un apparecchio che mescolava melodie dolci, luci soffuse e fragranze di fiori nella stanza, promettendo a chi lo avesse acceso nella notte sogni meravigliosi.

Corriere della Sera 27.10.08
«Boicottare il 4 novembre» Affondo di Rifondazione Ma il Pd: un'idea assurda
Sansonetti: razzista la canzone del Piave che piace a La Russa
Sotto accusa la frase «Non passa lo straniero». Ferrero: il ministro vuole glorificare lo Stato che manda la gente al macello
di Virginia Piccolillo


ROMA — «Assurdità da extraterrestri ». «Giusto: fermiamo la riscrittura della storia filo- guerra». «Non lasciamoci dividere su questi temi». Raccoglie pareri diversi l'appello di Piero Sansonetti: «Boicottiamo la festa del 4 novembre». Il direttore di Liberazione sottolinea che il governo e il ministro della Difesa Ignazio La Russa «si preparano a un gran numero di cerimonie per celebrare con tripudio il 90˚ anniversario di quella che Benedetto XV definì "inutile strage"». La Grande Guerra, «un avvenimento orribile, feroce, sanguinosissimo. Del quale è giusto parlare per spiegare ai giovani che le classi dirigenti europee impazzirono e si macchiarono di colpe ignominiose » che «aprirono le porte a fascismo e nazismo». Per questo invita a boicottare la festa. Esponendo bandiere arcobaleno o, almeno, leggendo Ungaretti. E attacca la proposta leghista di sostituire l'Inno di Mameli
con la Leggenda del Piave, che «piace anche a La Russa». Motivata, secondo Sansonetti, dal verso «non passa lo straniero» che «nell'attualità politica assume un significato xenofobo».
Rosy Bindi suggerisce di «tralasciare una campagna controproducente ». Spiega: «Non c'è bisogno di contestare il 4 novembre per dire che la Grande Guerra era sbagliata. Tutte lo sono. Bisogna pensare a non farne. Ma questo non vuol dire che non si debba celebrare chi ha dato la vita per il nostro Paese». Si «trattiene con fatica dall'insulto » il pd Matteo Colaninno: «di fronte alla crisi drammatica che investe l'Italia, l'Europa e il mondo, dibattere del 4 novembre è da extraterrestri», rimprovera. «Chi rappresenta il nostro Paese deve rimanere ancorato alla storia del nostro Paese e ai suoi simboli. Lo sforzo dei presidenti Ciampi e Napolitano per recuperare il sentimento nazionale fa impallidire qualsiasi tentativo di originalità». «Basìta dal dibattito» anche la pd Marianna Madia: «Siamo italiani. Possibile che ancora non sia scontato? Ridiscutere il 4 novembre è come voler tornare a prima dell'Unità d'Italia. Parliamo d'altro».
Boicotterà il 4 novembre, invece, Giovanni Russo Spena
(Prc): «Questa festa — dice — va contestata proprio ora che La Russa la sta rilanciando. Per noi vecchi antimilitaristi è l'occasione per insistere: occorre ritirare i militari dalle missioni di pace. Lo stesso La Russa ora ammette che sono di guerra ». Per Lidia Menapace (Prc) «dare pomposità a questa ricorrenza significa togliere importanza alla Costituzione che non è fondata sulla vittoria, ma sulla pace». «E poi evidenzia — qui in Sud Tirolo, celebrarla significa festeggiare la sconfitta dei nostri concittadini ». Per il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero «La Russa tenta di sdoganare la guerra. Nel concreto lavora a un maggiore ingaggio in Afghanistan. Culturalmente tenta di rimettere in piedi la glorificazione dello Stato che mandò al macello la gente, con i carabinieri pronti a sparare alla schiena di chi disertava. La guerra non unisce la patria: potendo la gente non ci va». Striglia il direttore di Liberazione
il suo predecessore Sandro Curzi: «La guerra è inevitabilmente di popolo. È un tema sul quale ha scritto pagine importanti anche Gramsci e che la sinistra seria, quella del Pci di Berlinguer, aveva già superato. Lo rilancia la destra per dividerci ora che qualcosa si muove. Non cadiamo nella trappola».

Corriere della Sera 27.10.08
Lo storico Giovanni Sabbatucci
«Un salto indietro di novant'anni Togliatti non fece mai polemiche»
di Antonio Carioti


Quando ha letto il fondo di Piero Sansonetti su Liberazione, con l'appello a boicottare le celebrazioni del 4 novembre, lo storico Giovanni Sabbatucci ha avuto l'impressione di «un salto all'indietro di novant'anni, all'epoca in cui i socialisti esecravano la Prima guerra mondiale come un immenso crimine e accusavano di complicità nel massacro chi l'aveva voluta e chi l'aveva combattuta. Un atteggiamento che non giovò certo alla sinistra e anzi contribuì a portare molti reduci dalla parte del fascismo».
Per giunta i riferimenti letterari di Sansonetti gli appaiono incongrui: «Cita il libro Un anno sull'altopiano
di Emilio Lussu, che era e rimase un convinto interventista, e le poesie del volontario Giuseppe Ungaretti, che poi divenne fascista. D'altronde tra coloro che si opposero strenuamente a Mussolini troviamo parecchie persone che si erano schierate per la guerra: Ferruccio Parri, Carlo Rosselli, Giovanni Amendola, Gaetano Salvemini. Si dice che Parri abbia scritto personalmente il bollettino con cui Armando Diaz, comandante dell'esercito italiano, annunciava la vittoria sull'Austria-Ungheria».
Del resto, aggiunge Sabbatucci, non si tratta di celebrare la guerra in sé: «Senza dubbio il primo conflitto mondiale fu un evento spaventoso, ma si può onorare il sacrificio dei caduti senza scadere nel bellicismo. Non si può negare che si sia trattato di un momento alto della storia nazionale, che suscitò, soprattutto dopo Caporetto, un vasto coinvolgimento popolare, anche se certo non unanime, nello sforzo bellico. Nel 1921, quando la salma del milite ignoto venne trasportata a Roma per essere tumulata al Vittoriano, fu salutata ovunque da grandi folle, con una forte partecipazione di massa al rito patriottico».
A dimostrazione del fatto che la Grande guerra era entrata come una pietra miliare nella memoria nazionale, Sabbatucci cita anche l'atteggiamento tenuto dalla sinistra dopo il 1945: «Il Pci di Palmiro Togliatti si guardò bene dal riprendere la polemica del precedente dopoguerra e anzi si adoperò per promuovere l'unità degli ex combattenti di entrambi i conflitti mondiali. Solo negli anni Sessanta e Settanta si diffuse a sinistra una visione demonizzante della Grande guerra, quella che si esprime, per esempio, nel film di Francesco Rosi Uomini contro. All'epoca anche la storiografia progressista assunse un atteggiamento non solamente critico, come è naturale, ma piuttosto deprecatorio, che però in seguito autori come Mario Isnenghi e Giorgio Rochat hanno corretto».
Sabbatucci chiude con una nota sul significato negativo che Sansonetti attribuisce alla
Canzone del Piave, proposta dalla Lega come inno nazionale: «Non vedo come le parole "non passa lo straniero", riferite alle truppe austro-ungariche, si possano interpretare in senso xenofobo. E ritengo improponibile contrapporre l'Inno
di Mameli alla Canzone del Piave: i due testi riflettono la stessa retorica nazionalista di origine risorgimentale. Basti pensare al richiamo alle glorie imperiali dell'antichità, con "l'elmo di Scipio" e la vittoria "schiava di Roma", nell'Inno di Mameli. Oggi dobbiamo guardare con distacco a quella retorica, ma non certo riesumarne una di segno ideologico opposto, che si richiami a un pacifismo esasperato».

Corriere della Sera 27.10.08
Abdelwahab Meddeb, ritenuto il «Voltaire musulmano», individua i percorsi d'uscita dal fanatismo e dalla violenza religiosa
L'Islam oltre le parole del Corano Così si cura il fondamentalismo
Rileggere il libro nel suo contesto storico. La lezione di ebrei e cristiani
di Abdelwahab Meddeb


Bisogna trovare il modo di superare tutte le disposizioni che impongono la sharia e la jihad

L'Islam non sta bene. In realtà, è malato. Mi è capitato di diagnosticare la sua malattia in una serie di quattro libri scritti dopo il trauma prodotto dagli attentati criminali dell'11 settembre 2001. È una malattia che si riassume nell'uso della violenza in nome di Dio. È su questo punto che dobbiamo interrogarci, per sapere se si tratta di una fatalità propria all'Islam o se abbiamo a che fare con una struttura che circola all'interno delle costruzioni religiose.
Fin d'ora, occorre riconoscere che la violenza generata dalla fede non è una caratteristica dell'Islam. Si esprime in maniera virulenta anche nelle religioni venute dal sub-continente indiano, che lo stereotipo associa alla spiritualità compiutasi nel miracolo della non violenza. Questa predisposizione alla violenza si manifesta quindi persino al di fuori della sfera dei monoteismi il cui conflitto interno, inutile ricordarlo, è fratricida.
Se consideriamo la sfera dei monoteismi, c'è da osservare che la guerra condotta in nome del Signore fu biblica prima d'essere coranica. Basti pensare al massacro ordinato da Mosè in collera, quando scopre la regressione del suo popolo al paganesimo. Dopo l'episodio del Vitello d'Oro, i Leviti uccisero tremila persone in un giorno, su ordine del loro profeta pontefice (Es 32,28). Giosuè, come successore del fondatore, non fu da meno. Per convincervi, vi invito a rileggere il passaggio sul massacro che egli fece eseguire dopo l'assedio di Gerico, in cui né gli uomini né le donne né i giovani né i vecchi e nemmeno le bestie furono preservati( Gs 6,21). Al giorno d'oggi, esistono fra gli ebrei alcuni fanatici che interpretano letteralmente la Bibbia e che vogliono universalizzare e attualizzare quello che loro chiamano il «giudizio di Amaleq», in riferimento al capo degli Amaleciti: tribù che gli ebrei dovettero combattere perché impediva loro di giungere alla Terra Promessa (Es 17, 8-15).
Così, per quanto riguarda la violenza, il profeta dell'Islam discende direttamente dalla legge mosaica. Il famoso «verso della spada» (Corano IX,5), che ordina di uccidere i pagani, e quello detto «della guerra» (Corano IX, 29), che chiama a una lotta a morte contro ebrei e cristiani, hanno consonanza biblica. E sono questi versi a nutrire il fanatismo assassino degli integralisti islamici.
Se l'esercizio della violenza divina sembra in coerenza con i Testi Rivelati, è bene fare una distinzione per gradi fra Giudaismo e Islam. Il secondo universalizza il primo.
Infatti il Giudaismo conduce la guerra del Signore per la sola Terra d'Israele, mentre l'Islam ha il mondo come orizzonte di conquista. La jihad, ottimizzata dagli integralisti, non è un'invenzione loro. È stata il motore dell'espansione islamica. Cito come testimone un cronista cinese del X secolo (Ou-yang Hsui) che aveva constatato come le truppe musulmane si gettassero nel pieno della battaglia alla ricerca del martirio dopo essere state galvanizzate dal loro capo, il quale prometteva il paradiso a chi moriva combattendo sulla strada di Dio.
Vero è che il testo evangelico prende le distanze da questa violenza. Quel che sorprende è il ricorso dei cristiani alla grande violenza attraverso la storia. In questo fenomeno scorgiamo un tradimento del loro testo. Certo, Sant'Agostino ha teorizzato la guerra giusta per difendere le conquiste della civiltà contro le invasioni barbariche. Ma non si trattava di una chiamata alla guerra in nome della fede. Il dottore di Ippona doveva legittimare questa esortazione, pur sapendo che non corrispondeva allo spirito evangelico. Tuttavia, il cristianesimo ha impiegato circa mille anni, con le Crociate, a cristallizzare una nozione equivalente alla jihad.
Ricorro a queste rievocazioni non per attenuare il male che affligge l'Islam, ma per mostrare che il Testo fondatore può essere oltrepassato, se non superato. Se il cristianesimo non ha onorato il pacifismo del proprio testo evangelico, l'Islam può trovare i mezzi di neutralizzare le disposizioni che, nel testo coranico, invitano alla guerra. È a questo che miriamo insistendo in particolare sulla questione del contesto in cui fu emesso e ricevuto il testo.
Questa neutralizzazione attraverso il ritorno al contesto è assolutamente necessaria, non solo per quanto riguarda il problema della violenza, ma anche per i molteplici anacronismi antropologici che trascina con sé il diritto emanante dallo spirito e dalla lettera del testo fondatore (penso alla sharia che il Corano ispira).
Quanto alla violenza, bisognerà evidentemente agire sugli Stati di genesi islamica per indurli a prendere coscienza che hanno il dovere di neutralizzare la nozione di guerra santa, di jihad, poiché essa è in flagrante contraddizione con la loro partecipazione al concerto delle nazioni, al cammino verso l'utopia kantiana della «pace perpetua», che resta nello spirito del secolo, malgrado il persistere delle guerre e degli effetti egemonici dei potenti e malgrado la loro emulazione per acquisire la forza che li porterà a governare il mondo. Del resto, la diversità umana di questi tempi si manifesta persino in questa pretesa all'egemonia universale attraverso la forza delle armi o del denaro. Non si percepisce forse tale ambizione nell'emergere di Cina, India, Stati petroliferi arabi al fianco di Europa e America?
È imperativo intervenire presso gli Stati islamici affinché aprano gli occhi su un mondo e un secolo che cambiano. Per quanto riguarda l'identità religiosa, l'Islam continua a vedere i cristiani come fossero ancora i protagonisti medievali del Cristianesimo. Da tempo invece i concetti di nazione e di popolo hanno ridotto il riferimento alla religione. Ora che la scommessa dello Stato sembra post-nazionale, il ruolo determinante della religione si allontana ancora di più. In Europa, per esempio, esso può essere ammesso solo se accostato alla nozione primaria e prioritaria di cittadino.
Questa nozione di cittadino porta con sé l'assimilazione di un altro diritto costruito al di fuori delle prescrizioni religiose, che appartengono a un'altra epoca.
Insomma, quel che viene chiesto all'Islam per guarire, per uscire dalla maledizione, è di costruirsi un sito post-islamico che possa essere contemporaneo ai siti in cui sono insediati ebrei e cristiani. È necessario per non turbare il concerto delle nazioni. Ma, per il momento, gli Stati islamici — in particolare l'Arabia Saudita — si accontentano di mettere in guardia i propri cittadini stimolandoli a integrare un Islam del giusto mezzo, destinato a distinguerli da chi, fra i loro correligionari, vive la propria fede secondo un'interpretazione estrema, massimalista. Questi Stati fondano il proprio appello teologicamente, assimilando i massimalisti islamici a coloro che adottano la nozione di ghulw, l'eccesso che il Corano vieta quando raccomanda alla «Gente del Libro» la moderazione nell'interpretare il proprio dogma (Corano IV, 171; V, 77).
È un passo lodevole, ma davvero insufficiente, timido, soprattutto per la presenza dell'Islam in Europa. Per tale presenza, abbiamo i mezzi di rendere operativo il sito post-islamico, incitando i cittadini musulmani d'Europa a vivere nella libera coscienza secondo lo spirito del diritto positivo e della Carta dei Diritti dell'uomo, abolendo qualsiasi riferimento alla sharia. Così, come musulmani della libera scelta, potranno praticare un culto spiritualizzato che sapranno alimentare attingendo alla mistica — ricchissimo capitale del sufismo — prodotta dalla loro tradizione religiosa.
(traduzione di Daniela Maggioni)

Corriere della Sera 27.10.08
Misteri d'arte Irving Lavin offre un'inedita analisi di capolavori e movimenti
E Picasso rubò le «Demoiselles» a Dürer
di Arturo Carlo Quintavalle


Pablo Picasso dipinse nel 1907 «Les Demoiselles d'Avignon»

Uno dei maggiori storici dell'arte barocca che si confronta con il contemporaneo? L'allievo di Erwin Panofsky che scrive su Picasso cose che nessun contemporaneista finora ha pensato? Tutto vero e, per capire, partiamo proprio dalle Demoiselles d'Avignon il dipinto del 1907 che sta all'inizio della ricerca cubista. Bene, nelle centinaia di studi per il dipinto Irving Lavin (L'arte della storia dell'arte, Scheiwiller, pp. 207, e 36, a cura di C. Liuzzi e P. Vallerga) ne scopre alcuni singolari: un nudo in piedi con le braccia sul pube segnato da una specie di griglia parallela orizzontale, come per proporzionare la figura; un altro nudo con le braccia a cerchio.
Stranissimo, certo, ma da che fonti? Picasso non sfrutta qui l'arte africana, o i primitivi iberici, e neppure la tradizione accademica (da David a Ingres). Nel 1905 si pubblica il «Taccuino di Dresda» di Albrecht Dürer (1471-1528) che a Picasso viene fatto conoscere da un critico tedesco, Wilhelm Uhde: ebbene, proprio qui ci sono i modelli, le braccia a cerchio e le nuove misure delle figure. Picasso dunque vuol negare, attraverso Dürer, la tradizione della rinascita, l'accademia.
Novità anche sul titolo del dipinto che in altre occasioni Picasso indica come Le bordel d'Avignon, mentre per Apollinaire era Bordel Philosophique. Théodore Aubanel (1829-1886), amico di Mi-stral, volto al recupero della civiltà provenzale, pubblica un volume di poesie intitolato Les filles d'Avignon: sono componimenti sensuali, segnati dal desiderio, dunque destano scandalo e l'edizione è bloccata. Aubanel ne morirà di dolore.
Lunga storia dunque a monte delle Demoiselles, nel segno anche del riscatto delle terre emarginate dal centralismo della lingua di Francia. Da non perdere poi importanti contributi di storia della storiografia: Lavin e Panofsky, certo, a Princeton; ma anche Lavin e Giulio Carlo Argan a Roma, in un intreccio di cultura dove il Warburg «migrato» in Inghilterra dalla Germania pesa a fondo.

Corriere della Sera 27.10.08
Per Longhi l'opera era del pittore lombardo. Mahon condivise l'ipotesi. Calvesi e Vodret la ribadiscono
L'enigma del «Narciso»: studiosi divisi su Caravaggio
di P. Pan.


Il rilievo sollevato da Vittorio Sgarbi nel corso della registrazione di una puntata di «Porta a Porta» dedicata al narcisismo divide storici e critici d'arte. Il ministro Bondi aveva portato in studio il Narciso della Galleria nazionale di Palazzo Barberini, esposto con l'attribuzione a Caravaggio. Collegato dal Duomo di Parma, Sgarbi ha messo in discussione la paternità caravaggesca dell'opera, attribuendola allo Spadarino. A difendere l'attribuzione al Merisi è intervenuto poi il soprintendente del polo museale del Lazio Claudio Strinati.
Ma in effetti, una parte della letteratura critica recente ha messo in dubbio l'attribuzione longhiana dell'opera a Caravaggio, attribuendo il dipinto a seguaci, vuoi a Orazio Gentileschi vuoi allo Spadarino (Roma 1585 - morto prima del 1653). In seguito agli articoli di Gianni Papi (sua la cura della mostra «La Schola di Caravaggio » del 2006), anche Mina Gregori, pur rigorosa erede del verbo longhiano, ha espunto la tela dal catalogo caravaggesco. L'attribuzione a Caravaggio (ma le date del dipinto oscillano tra il 1546 e il 1599), accettata da Denis Mahon, è stata invece ribadita da Marini e Maurizio Calvesi, presidente delle ultime celebrazioni caravaggesche. «È vero, documenti che certifichino la paternità del dipinto non ce ne sono — ha ribadito al Corriere Calvesi —, ma gran parte delle attribuzioni sono fatte su base conoscitiva. E io dico che la pittura di Spadarino è diversa da questa, e così la pensano anche Alessandro Zuccari, la Vodret e Strinati».
Un riferimento del quadro a Caravaggio si trova solo su una licenza di esportazione, ma del 1645, relativa ad un Narciso di Caravaggio di misure analoghe al nostro. Pur senza mai proporre una sicura identificazione tra il documento e la tela, gli studiosi avevano da allora, agli anni Settanta, accostato la licenza al quadro, ribadendo l'autografia caravaggesca.