mercoledì 29 ottobre 2008

Repubblica 29.10.08
Lo scontro. Gli studenti assediano il Senato Berlusconi: abbiamo perso consensi
Cortei e sit-in, oggi il voto. Da Veltroni un piano in 10 punti: "Fermatevi"
di Giovanna Casadio e Marco Reggio


Roma, inchiesta su un liceo occupato. La destra: insulti su Facebook

ROMA - L´Onda cinge d´assedio Palazzo Madama. I senatori votano gli emendamenti al decreto Gelmini. E a poche decine di metri di distanza rimbombano gli slogan degli studenti. «Non pagheremo la vostra crisi», «né rossi né neri, ma solo liberi pensieri». Sette cortei spontanei la mattina, e nel pomeriggio arrivano quelli pesanti dalla Sapienza e Roma Tre. Senza contare la mobilitazione nel resto d´Italia: cortei, occupazioni, autogestioni in decine di città. Mentre la piazza ribolle il ministro Mariastella Gelmini beve un caffè alla buvette del Senato e scherza con alcuni colleghi: «Non ci sono più gli studenti di una volta, neh?». Smagrita. E anche i consensi per la ministra dell´Istruzione e dell´Università si sono andati assottigliando. È il ministro meno popolare del governo. Berlusconi lo ammette: «La vicenda della scuola ha portato a qualche perdita di consenso nei confronti del ministro Gelmini e del governo». Per se stesso, invece: «Il mandato da parte degli italiani è confermato da parte dei sondaggi che mi danno miracolosamente al 72%». Tuttavia, il premier dà la responsabilità alla «vasta azione di disinformazione per cui si è mentito e si mente sul decreto da parte dei giornali della sinistra, Repubblica e Unità in testa».
La piazza del Pd di sabato e l´Onda montante della protesta contro il decreto sulla scuola, pesano, e molto, sui sondaggi. Berlusconi reagisce attaccando: «È indegno che si usino, raccontando frottole, inconsapevoli ragazzi per la lotta politica. Io però sono sereno e tranquillo». Conta per il premier il fatto di portare a casa prima dello sciopero generale di domani, la nuova legge sulla scuola: il voto finale al Senato è previsto per oggi. L´opposizione tenta la strada dell´ostruzionismo, e ieri finisce in bagarre: Anna Finocchiaro la presidente dei senatori Pd chiede che il decreto sia ritirato; così anche i dipietristi e l´Udc. La maggioranza non ci sente. E quando si discute del maestro unico (articolo 4) scoppiano i cori "vergogna, vergogna" contro la gestione dell´aula. Walter Veltroni, il segretario dei democratici lancia in una conferenza stampa un ultimo appello: «È indice d´intelligenza fermarsi quando un provvedimento crea tanto conflitto sociale, sarebbe un atto di arroganza andare avanti». Poi presenta il progetto del Pd sull´università. Dieci punti che parlano di concorsi meritocratici e internazionali, premi ai professori migliori, protagonismo degli studenti, più investimenti legati alla valutazione altrimenti l´università italiana affonda.
Ieri, l´assedio al Senato, malgrado la pioggia battente è stato continuo e pressante. In serata gli studenti si sono dati appuntamento per stamattina, quando si dovrebbe concludere il dibattito sugli emendamenti ed il voto finale sul decreto Gelmini. Domani sciopero nazionale e corteo a Roma, da piazza Esedra a piazza del Popolo, dei confederali più Snals e Gilda. Al comizio finale interverranno i segretari di categoria. Per la Cgil, invece, parlerà Guglielmo Epifani.
Da parte loro gli studenti di centrodestra contrattaccano: «Ci sono 20 gruppi su Facebook con offese da codice penale nel titolo e nel testo, che insultano il ministro Gelmini proponendo di tagliarle la testa con la motosega o di farla internare», spiega Giovanni Latini di Alternativa studentesca.

Repubblica Roma 29.10.08
La protesta e la pioggia paralizzano la città. Il rettore Fabiani: "Ragazzi, non mollate: decidete voi l´inaugurazione dell´anno accademico"
Dieci cortei, il centro in tilt
di Valeria Forgnone e Laura Mari


L´assedio degli studenti al Senato in una giornata di passione per il traffico

L´onda e la pioggia battente hanno paralizzato la città. Dieci cortei di studenti hanno mandato in tilt il traffico. In diecimila, dalle prime ore del mattino e fino a tarda sera, studenti medi e universitari hanno presidiato il Senato in concomitanza con la votazione degli emendamenti del decreto Gelmini. Non sono mancati i momenti di tensione: uno studente è stato fermato dalle forze dell´ordine (e poi rilasciato) per aver tentato di scavalcare una transenna. E la procura ha aperto un´inchiesta sull´occupazione del liceo Giulio Cesare. Il rettore di Roma Tre ha esortato gli studenti a «non mollare e a decidere sull´inaugurazione dell´anno accademico». E oggi dalle 9 nuovo presidio davanti al Senato.

In diecimila davanti al Senato cortei e pioggia, città paralizzata
Fischi all´Inno. Giulio Cesare, inchiesta sull´occupazione
Davanti a Palazzo Madama un giovane fermato e poi rilasciato

Lo gridavano da giorni: «Bloccheremo tutto, bloccheremo tutto». E ci sono riusciti. Hanno assediato la città, paralizzato il traffico, fermato i mezzi pubblici e le auto private. Una capitale sotto scacco, allagata dalla pioggia incessante e dall´Onda che, con dieci cortei che si sono intrecciati e incrociati dalla mattina, hanno mandato in tilt la città. Dalle prime ore del mattino, infatti, gli studenti dei licei della capitale si sono raggruppati in sette cortei che sono partiti da piazza della Repubblica, da viale Marconi, dall´Eur, dalla Garbatella, da viale Trastevere, da via di Ripetta e da via Ostiense e sono confluiti sotto ad un Senato completamente transennato e presidiato dalle forze dell´ordine. E una volta arrivati sotto a Palazzo Madama, i 5mila studenti under18 hanno scandito un unico coro, riferito alle polemiche sui dissidi tra manifestanti di destra e di sinistra: «Né rossi né neri, ma solo liberi pensieri».
Una protesta proseguita per il resto della giornata tra le lezioni in piazza degli studenti di Ingegneria della Sapienza (che sotto il diluvio si sono radunati in centinaia davanti al Colosseo e hanno annunciato che scriveranno «una lettera alle famiglie degli universitari per denunciare i tagli della riforma») e nuove occupazioni dei licei, tra cui il Visconti e una delle due sedi del Righi. Meno fortunati, invece, gli studenti che lunedì hanno occupato il liceo Giulio Cesare. Sul caso, infatti, la procura ha aperto un fascicolo. «Poiché l´assemblea degli studenti non aveva votato l´occupazione ma l´autogestione - ha fatto sapere la preside Carla Sbrana - e considerando che era nata una certa tensione tra chi voleva occupare e chi non, ho fatto un esposto in Procura. Ma in serata gli studenti hanno deciso di trasformare l´occupazione in autogestione e hanno lasciato l´edificio». L´ipotesi di reato resta comunque quella di «invasione di edificio pubblico» e la procura sta valutando anche l´ipotesi di «interruzione di pubblico servizio». Ma anche davanti al Senato non sono mancati momenti di tensione. Uno studente è stato fermato e poi rilasciato dalle forze dell´ordine per aver tentato di scavalcare una transenna.
Con il diluvio pomeridiano, l´Onda ha poi rotto tutte le dighe. Nel pomeriggio il traffico è andato nuovamente in tilt, paralizzato da due cortei partiti rispettivamente dall´università di Roma Tre e dalla città universitaria della Sapienza. Migliaia di studenti che, sotto la pioggia battente, a piedi e completamente bagnati, hanno raggiunto il Senato per contestare e tentare di bloccare la votazione degli emendamenti del decreto Gelmini. «Vuoi pure questi, Gelmini vuoi pure questi» hanno gridato i 10mila studenti sventolando i portafogli.
Una contestazione scandita dai goccioloni della pioggia, dal suono incessante dei clacson delle auto bloccate nel traffico e dai boati degli studenti dell´Onda, informati dai giornalisti sulle bagarre e le sospensioni di voto in Senato. «Resteremo qui tutta la notte» hanno continuato a gridare i diecimila in presidio. Poi, davanti ad un Palazzo Madama completamente assediato, qualcuno ha intonato l´Inno di Mameli. Ma dalla coda del corteo sono partiti fischi di protesta e un coro alternativo sulle note di "Bella ciao". «Siamo stanchi, ma non ci arrenderemo - urlano dal megafono i leader dell´Onda, stremati dal diluvio - stanotte (ieri ndr) dormiremo nelle facoltà e nei licei occupati e domani mattina (oggi ndr) torneremo ad assediare il Senato».
I diecimila dell´Onda, studenti dei licei e universitari, dalle ore 9 presidieranno Palazzo Madama e durante le dichiarazioni di voto dei senatori del Pd oggi nell´aula sarà letto un messaggio degli studenti del liceo Orazio: «Non state semplicemente votando un decreto, ma state decidendo del nostro futuro, del futuro dell´Italia».

Repubblica Roma 29.10.08
Fabiani: "Ragazzi, non mollate: vi lascio decidere l´inaugurazione dell´università"
E il rettore di Roma Tre dà la carica "Studenti, a voi l´Anno accademico"
di Lara Serloni


«Siete riusciti a catturare l´interesse dell´opinione pubblica. Siete riusciti là dove non sono arrivati i rettori e le istituzioni. Io sono con voi, appoggio la vostra protesta. E´ giusta, continuate a dire no ai tagli all´università che sono stati fatti per finanziare i mancati introiti provenienti dall´Ici». E´ emozionato il rettore di Roma Tre, Guido Fabiani. Ha parlato alla folla di migliaia di giovani che ieri mattina hanno partecipato all´assemblea di ateneo.
Fabiani, a tratti, ha alzato anche il tono della voce, si è fatto prendere dall´entusiasmo e i ragazzi hanno accolto le sue parole con ovazioni ed applausi. Non ha mai abbandonato i suoi studenti, il Rettore del più giovane ateneo romano. Già durante la manifestazione di una settimana fa era sceso in piazza per ribadire il suo appoggio istituzionale. Ieri, in un´Aula Magna gremita, ha sottolineato l´importanza di questa rivolta. «Non siete dei facinorosi, state protestando con forza e decisione, anche con un po´ di irruenza, ma è giusto che sia così». Ogni frase infiammava la folla. «Né io, né voi vogliamo la conservazione dell´attuale sistema universitario, ma puntiamo ad una innovazione profonda e radicale. Dobbiamo combattere per ottenerla». E per spiegare il paradosso in cui si trovano gli atenei italiani, Fabiani ha tirato in ballo le facoltà straniere. «Tra le prime duecento al mondo ci sono molte università orientali come quelle indiane. Il motivo è che loro investono nello studio, nei giovani e nella ricerca. Noi no».
Poi è salito sul palco dell´Aula Magna di Roma Tre un giovane della Facoltà di Lettere. Ha preso il microfono ed ha gridato: «è solo l´inizio della lotta, andremo avanti fino al ritiro del decreto. Diciamo no al blocco didattico, ma chiediamo che l´inaugurazione dell´anno accademico sia organizzata dagli studenti. Ci saranno notti bianche e assemblee, per quel giorno vogliamo che non ci sia nessuna lezione». Alla proposta il rettore ha detto si. E ha anche fatto un "mea culpa": «in questi anni, durante la giornata inaugurale abbiamo invitato personaggi illustri, ma forse erano eventi un po´ autoreferenziali». Ancora applausi. E dai banchi qualcuno ha gridato: «noi eravamo sempre esclusi. Non potevamo partecipare tutti. Quest´anno l´organizzazione sarà nostra».
Il numero dei giovani che prendeva parte all´assemblea cresceva di minuto in minuto. Stracolma l´Aula Magna.
Alcuni ragazzi si erano accovacciati nella grande terrazza esterna della facoltà di Lettere di Roma Tre, ma erano talmente tanti che il serpentone degli studenti arrivava fino alla strada. Hanno preso la parola i rappresentanti di tutte le facoltà: da Lettere a Scienze Politiche, da Giurisprudenza a Scienza della Formazione, da Ingegneria ai corsi scientifici di Matematica e Fisica. Hanno partecipato al dibattito anche molti ricercatori e professori. «Andiamo tutti davanti al Senato, adesso - ha urlato Luciano, uno dei leader della protesta - questa non è la lotta soltanto di noi che stiamo all´università, ma anche di tutti quei bambini che forse non la potranno frequentare, perché il Governo la sta distruggendo». E subito dai banchi si è alzata la voce di Fabio Manca, studente della Facoltà di Scienze «il 28 ottobre 1922 c´è stata la marcia su Roma, oggi noi studenti marciamo verso il Senato. Nessuno ci fermerà. Difendiamo il libero sapere». Così da Via Ostiense è partito un corteo di oltre 2000 persone. Hanno marciato attraversando le zone di S. Paolo, Piramide, Aventino, fino al cuore della città.

Repubblica Roma 29.10.08
Viaggio nell´Onda delle donne il sorriso e la rabbia della protesta
"Abbiamo la sensazione tangibile della crisi. Non abbiamo prospettive Eppure siamo determinati e pacifici"
Si vedono molto, forse più degli uomini. Gridano altrettanto, ma si divertono di più
di Carola Susani


C´è una ragazza dalla faccia stanca che sorride con perplessità mentre mostra un cartello con su scritto: stanotte dormo al Senato. Le ragazze spiccano tra la folla folla, molto più in alto degli altri, si sbracciano dalle spalle di qualcuno. Gridano, ma spesso anche sorridono. Fanno sventolare striscioni. Aprono cortei. Vestite normalmente, senza nessuno stile generazionale, ognuna con il suo, dove è possibile riconoscere stratificazioni di decenni oppure no.

Si vedono molto, forse più degli uomini. Partecipano alla protesta tanto quanto i ragazzi. Di diverso hanno una piega delle labbra divertita, uno sguardo che sembra capace di inquadrare tutto dal di fuori, un ironia. Gridano altrettanto, sorridono di più, si divertono di più. O almeno così pare. Marta studia Fisica, è al primo anno di specialistica. È fuori sede. «Quando ha scelto Fisica pensavo alla ricerca, ma dopo quattro anni mi piacerebbe almeno poter scegliere se restare in Italia». Mi spiega: «Il problema dell´università non nasce adesso, è da anni che la cattiva gestione è sotto gli occhi. Ma le riforme da più di dieci anni non sono che un accumulo di tagli. Questa - la legge 133 per cui può essere assunto qualcuno solo se cinque professori ne vanno in pensione - e la Gelmini non sono che l´ultima spallata. Vedi, le persone che partecipano alle proteste hanno la sensazione tangibile della crisi. Si sentono senza prospettive. Eppure il movimento è determinato, ma pacifico». Laura è molto più alta di me e ha uno sguardo aperto, profondamente allegro: «Volevo seguire le orme di mio fratello, ha otto anni più di me e ha fatto lo scientifico. Ho cominciato a interessarmi all´Astrofisica». Ha scelto Fisica teorica: «C´è sempre tempo per specializzarsi, è meglio avere una base ampia».
Anche Laura voleva fare ricerca. «E´ normale per chi s´iscrive a Fisica. Ma l´anno dopo la Moratti voleva abolire la figura del ricercatore». Ride: «Le aspettative ho imparato a tenerle sotto controllo. I dottorati diminuiscono, le leggi bloccano il turnover, non puoi essere assunto a tempo indeterminato, non puoi essere assunto a tempo determinato. La mia aspirazione dopo l´università è aprire una merceria. All´insegnamento ho pensato. Ai bambini piace quando capiscono le cose, la Fisica gli sembra una magia». Cosa non va nell´università? «Non c´è diritto allo studio. Poche borse, poche case. A Fisica la didattica è buona, ma spesso non è così. E c´è il problema dei favoritismi. Forse le tasse raddoppieranno, triplicheranno: gli studenti sentono il rischio di dover rinunciare all´università. Studenti e studentesse si sentono minacciati perciò in tantissimi partecipano. Hanno capito che se l´università viene privatizzata è il mercato che domina, che l´università non è più libera. Tante ragazze si mettono in gioco e ci mettono la faccia, sono consapevoli di battersi. Il movimento cresce, è pacifico. Ma non vorrei che si dimenticasse che c´è rabbia. Quando siamo andati a occupare i binari di Termini, era un´azione dura, però non c´era provocazione. E abbiamo trovato solidarietà attorno».
Paola fa il primo anno di specialistica in Antropologia: «A me piacerebbe studiare l´Italia e il mondo occidentale da una prospettiva antropologica«, mi dice, «mi piacerebbe lavorare sul campo, nelle scuole, nei comuni, nei musei, mi interessa la storia orale». Mi spiega che l´estromissione del sapere critico dall´università è legata a un processo di appiattimento culturale. «C´è una rinuncia alla partecipazione. Con il bipolarismo, le primarie sostituiscono la costruzione di un dibattito. L´esplosione che ha avuto questo movimento ha a che fare con questo. Hai un ritmo tale all´università per cui viene meno la tua autonomia di studio e lo spazio per la critica. Gli esami sono test. La spontaneità, i grandi numeri della protesta sono una reazione. È come se gli studenti dicessero: io ci voglio essere, mi voglio far vedere: mi faccio un corteo di tredici chilometri al giorno, ma io ci sto». E lo stile? «All´una e mezza si chiude la facoltà, si spegne la musica, si pulisce e si va a dormire perché la mattina alle sette e mezza bisogna essere in piedi. Ci sono molti ragazzi e ragazze che si stanno immatricolando adesso. Alle prime assemblee dicevano: no, non bisogna occupare, non bisogna fare blocchi, bisogna informare. Cose giustissime. Però mano a mano ne sanno di più e la rabbia esplode».
E le ragazze? «Nelle assemblee le donne sono sempre la maggioranza, quelle che intervengono in proporzione sono di meno. Ma ci sono donne che si vogliono far sentire». Chiara è al primo anno di specialistica in Psicologia. Fa la cameriera in un ristorante e insegna al doposcuola di una media privata. «I miei genitori mi aiutano, ma ho il privilegio di vivere da sola». Chiara dice che ragazzi e ragazze sono attivi allo stesso modo. Vuole parlare di società e di università: «Nessuno investe su di noi. L´unica prospettiva che abbiamo è fuori dall´Italia. Certo non difendiamo l´università com´è. Il tre + due è un fallimento». Vuole lavorare nel terzo settore, nelle carceri, con i ragazzini. Dice che in quello che si è visto in queste settimane c´è la volontà di una generazione rappresentata come inerte, senza ideali, di riscattarsi nell´immaginario. Perciò lo stile è fantasioso, gioioso. Non abbiamo paura, mi dice. C´è qualcosa di sconsolato, malgrado l´energia con cui lo dice. Non hanno paura, probabilmente perché sentono che non hanno molto da perdere.

Repubblica 29.10.08
Scuola, bagarre al Senato: oggi il voto tra le proteste
Il senatore del Pdl: mi danno il voltastomaco, chissà quanti somari tra loro
Sotto la pioggia rabbia, striscioni e risate: "Ma da qui non ci muoviamo"
di Antonello Caporale


LO STRISCIONE è zuppo d´acqua ma resiste a terra: "Facoltà di Scienze della formazione primaria: fregati prima di iniziare?". Danilo, futuro maestro disoccupato a prescindere, non si arrende al diluvio universale che ha chiuso la speranza anche dei più arditi: «Io da qui non mi muovo». Solo la vitalità della giovinezza di chi protesta ha permesso di tenere rinchiusi dentro palazzo Madama tutti i suoi inquilini per una giornata intera.
Bagarre in aula, slogan in piazza il lungo giorno di Palazzo Madama

Al mattino le finestre della biblioteca sono spalancate sulla piazza, il ritmo di Rino Gaetano invade il corpo di fabbrica e si insinua fin dentro lo studio di Renato Schifani. Il cielo è sempre più blu. Tutta la colonna sonora, da Battiato e il suo centro di gravità permanente fino al più lieve pop di Max Pezzali, preparata dagli studenti delle scuole superiori, viene somministrata ai signori senatori. I ragazzi hanno occupato la piazza nelle ore di luce e di sole, lasciando ai compagni universitari l´onere dell´accerchiamento durante la discussione serale e poi notturna. «Stamattina è stato bello, lavorare con la musica dà ritmo. Adesso però urlano, e non mi fanno concentrare». Al senatore Nicola Latorre piacciono più le note che le parole della protesta, a un suo collega udinese («mica le dico come mi chiamo, che poi stravolge tutto?») né parole né musica. Anzi quell´assembramento gli dà il voltastomaco. Infatti giunto nei pressi di una finestra, inizia a urlare: «Andate a lavorareeee». Richiude subito, come quei bambini che giocano a nascondino. Senatore, cosa fa? «Chissà quanti somari ci sono qua sotto. E i professori non fanno un c.... Mia moglie, cioè ex perché sono separato, è insegnante e lo so».
Punti di vista. Perché la polizia sa solo invece che questa gioventù urlante, l´onda cioè, si espande e si riduce, va e viene da giorni. I blindati raggiungono corso Rinascimento: lo chiudono, lo stringono fino a strangolarlo. Un commissario sorveglia che le operazioni procedano come da piano: «È da due giorni che ci prepariamo». Intanto un senatore, si chiama Franco Mugnai, del Popolo delle libertà, in collegamento diretto presumibilmente con i cari: «Sono riuscito a superare il primo blocco, vado a vedere». Conclude la telefonata, commenta: «I figli a volte sono delle arpìe».
Non sembrano arpìe, facce svelte ma tranquille, senza eccessiva dimestichezza con cortei e striscioni e una paura sconfinata al pensiero che la politica contamini, si infiltri, li inquini. L´Italia non ha memoria e usa il passato solo per dividersi. L´Italia non guarda al futuro, non pensa al loro destino, bada solo al presente. «Come da calendario, oggi si concluderà la discussione», comunica in aula il presidente ai senatori. Il decreto è questo e non si cambia. «Noi siamo la maggioranza e con noi c´è la maggioranza degli italiani, anche degli studenti», conferma Maurizio Gasparri. È così, dunque.
Il decreto diverrà legge come previsto e deliberato. Non sembra sia aria che cambi, Giovanni, primo anno di Giurisprudenza: «Mi mantengo all´università con lavoretti. Fino a settecento euro di tasse all´anno ce la faccio. Se passano a mille, no». Bagnata e senza voce, Mirella di Fisica: «L´idea della fondazione, quindi l´apertura delle università ai contributi privati, ammazza la ricerca e ne consegna la reputazione al saldo di bilancio. Al nord saranno ricche, al sud povere». «Duemila e duemila»: il carabiniere via radio intanto comunica la stima del nuovo corteo che avanza. Giungerà di fronte al Senato alle cinque del pomeriggio, in concomitanza con la ripresa dei lavori. L´Onda arriva con qualche minuto di ritardo, preceduta da un gruppetto di Cobas che occupa la prima fila della protesta. «Via, via, via». Ancora: «Mafiosi/mafiosi». Terzo slogan: «La crisi non la paghiamo noi». Anche i bar di piazza Navona versano un obolo alla protesta. Tavolini vuoti, stufe spente. «What?». «Girate al largo» dice deciso il poliziotto alla coppia di americani attempati, curiosi più che impauriti. Striscia la notizia ha mandato un falso Maroni a dare la carica ai militi, mentre alla senatrice Anna Finocchiaro, capogruppo del Pd, i ragazzi recapitano una lettera da leggere in aula.
L´aula, eccola. Mariastella Gelmini è vestita nel solito modo, il collettone di una camicia bianca sotto un tailleur castigato nero. Compita, lontana, silenziosa. Al suo fianco Roberto Calderoli. All´estrema sinistra del banco del governo il terzo collega, Maurizio Sacconi, preso da una telefonata piuttosto lunga e tesa. Davanti alla Gelmini il corpo del dottor Pizza, suo sottosegretario. Banchi pieni, qui né musica né slogan. Tutto molto ben insonorizzato. Sulle tribune giovani assistono. Vengono dalla Sicilia. Sono anch´essi universitari. Compitissimi, molto eleganti. Sono stati invitati settimane fa e non sembrano condividere nulla del baccano che c´è fuori.
Roma come sempre patisce la mobilitazione. Assiste piuttosto sorpresa dai serpentoni di ragazzi e allarmata quasi, certamente stupefatta dalla crudezza di alcuni slogan che i gruppetti Cobas urlano senza riverenze: «Berlusconi/pezzo di m.». Berlusconi? Quando il corteo tappa piazza Navona, la riempie e rende nervose le forze dell´ordine, anche l´aula matura più ansia e tensione. Ecco, ci siamo. Piedi e mani sbattute sui tavoli, bagarre come al solito, cartelli come sempre (il migliore: «L´istruzione costa? Provate con l´ignoranza»). Il gruppo di Italia dei Valori si scatena, anche Maurizio Gasparri si scatena. Urla e commessi di corsa a togliere e strappare. Drin, drin. La campanella di Schifani sospende la seduta. Si riprende dopo un´ora. Si va dormire più tardi ma quel che s´era deciso si farà. «Abbia rispetto per la nostra stanchezza», dice Schifani a un senatore che adesso vorrebbe parlare di Casal di Principe.

Repubblica 29.10.08
Pizza, sottosegretario alla Ricerca: tanta gente finirà per strada
"Servirebbe più dialogo Gelmini è troppo ruvida"


"Norme da smussare, e se serve da cambiare. Il ministro è dc come me, ma di un´altra generazione"

ROMA - Lo ricordate? Si chiama Pino Pizza, immortale detentore legale dello Scudo crociato, e in ragione di ciò, chiamato al governo nella funzione di sottosegretario alla Ricerca.
Il dottor Pizza e l´avvocato Gelmini: il giorno e la notte.
«Nel senso?».
Lei è un dialogante.
«Su, non dica così».
La ministra è invece rigida, e poi imperscrutabile.
«È democristiana come me. Ma di un´altra generazione»
Si nota, anche se lei col suo corpo la difende, l´assiste. Sempre un metro avanti.
«È ruvida».
Rigida, vero?
«Bisognerebbe dialogare».
Un moderato della sua stoffa...
«Bisogna trovare un punto di incontro».
Il decreto è assai esoso.
«Troppa gente per strada, in effetti».
Un bel problema.
«Come si fa?».
Come si fa?
«Dobbiamo trovare un punto d´incontro, smussare»
Smussare è poco.
«Cambiare se necessario».
È proprio di un´altra stoffa lei.
«Comunque io mi occupo di spazio, null´altro».
S´era capito della ricerca, l´Italia del futuro.
«Soprattutto di spazio».
Il sottosegretario Pizza nello spazio.
«Aerospazio. Missioni in Antartide».
Ma i ricercatori penseranno che invece anche lei ha contribuito a mandarli a casa.
«Ma come si fa ad avere una università ad Aversa, un´altra a Campobasso? Queste falliranno, è chiaro».
Bisogna razionalizzare.
«Per fare ricerca c´è bisogno di una tradizione, una storia. Non è che apri bottega dalla mattina alla sera».
Chiuderanno, dunque.
«Embé, qualcuna chiude».
Specialmente al Sud.
«Al nord hanno le Fondazioni. Con l´aiuto dei privati si può immaginare un progetto di crescita delle università».
Chi doveva dirle che la sua poltrona sarebbe arsa in questo braciere.
«Mi tengo lontano. Le ho detto: tutta l´attività aerospaziale è mia»:
Dottor Pizza, diserta? Lascia tutto il veleno alla Gelmini?
«È un gran casino».
(a. cap.)

Repubblica 29.10.08
I cervelli perduti di Firenze
L´Onda sveglia Firenze e in piazza va in scena la sfilata dei cervelli perduti
"Ci siamo ripresi la città" dicono i ragazzi della protesta e non è uno slogan
Il ricercatore precario: "Che succede con i tagli? Che me ne torno ad Harvard"
di Curzio Maltese


Pochi studenti alle proteste? A Firenze non se ne vedevano tanti da trent´anni. Tre, quattro volte i partecipanti al famoso movimento dei professori, guidato da Paul Ginsborg e Pancho Pardi.

Ottantamila in corteo nelle strade cittadine. Cinquemila in Piazza Signoria, in un silenzio irreale e contagioso perfino per i turisti, ad ascoltare la lezione di astronomia di Margherita Hack all´ombra del David. Mille o duemila nelle assemblee più calde, «come nel ‘68» commenta qualche docente con l´occhio umido. Domani trenta pullman partiranno per lo sciopero generale di Roma, roba da sindacato. «Ci siamo ripresi la città» dicono i ragazzi e non è uno slogan. Dal centro di Firenze gli studenti sono stati deportati in questi anni nelle nuove e quasi sempre spaventose sedi periferiche di Novoli, Sesto Fiorentino, perse nel grigio dei centri commerciali. Avete presente un campus californiano? Ecco, il contrario. Non un campus, ma nemmeno un campo, un giardinetto, un´aiuola, un portico, una panchina per studiare. E le tasse sono uguali a Berkeley: duemila euro.
«Firenze ha una grande università suo malgrado» racconta Francesco Epifani («non parente»), 24 anni, uno dei capi della rivolta a Matematica. «I bolognesi si sono ritirati sulle colline e guardano dall´alto la città degli studenti. Qui invece ci hanno sloggiato dal centro e ci tollerano soltanto come ramo secondario del turismo». E´ due volte vero. Nel senso che gli studenti benestanti vengono spolpati al pari di comitive di russi: gli altri fanno i camerieri.
Nella città d´arte più famosa del mondo, l´università e le gloriose istituzioni culturali campano come le antiche famiglie patrizie cittadine: ogni anno si vendono un palazzo. «E´ l´unico modo per chiudere il bilancio e rinviare di anno in anno il commissariamento» spiegano al rettorato. L´anno scorso l´ateneo fiorentino ha messo all´asta la splendida Villa Favard accanto a Santa Maria Novella, ex sede di Economia. Quest´anno è toccato all´ex convento delle Montalve, fra le colline di Careggi. Nella partita di giro a guadagnarci sono soltanto i costruttori fiorentini, più quelli importati come l´intramontabile Salvatore Ligresti. S´arricchiscono con gli appalti delle nuove sedi e investono una parte degli utili comprando a prezzi di liquidazione i palazzi d´epoca nel cuore di Firenze e sulle colline.
In questo vorticoso giro di soldi le università s´indebitano. Non solo Firenze. Nella piccola università di Siena, nonostante i soldi pompati dal Monte dei Paschi, il debito è di 245 milioni. Ma l´Onda è arrivata perfino alle isole felici, come la Normale di Pisa. I «normalisti» non scioperano e non occupano («Come si fa? Viviamo già qui dentro»), ma sono solidali. Hanno appeso sulla facciata di Piazza dei Cavalieri lo striscione che è diventato un simbolo in tutta Italia: «Un Paese vale quel che ricerca». Nella notte un temporale o una manina l´ha buttato giù. «Ma domani ne facciamo uno ancora più grande».
Sopravvivono con le toppe anche le prestigiose istituzioni fiorentine, l´Istituto del Rinascimento, l´Accademia della Crusca. La presidente della Crusca, Nicoletta Maraschi, appena tornata da un giro all´estero per promuovere l´italiano nel mondo, ha subito sposato la protesta degli studenti. Oggi terrà la sua lezione di storia della lingua italiana in piazza Santissima Annunziata. «Il degrado è impressionante, di anno in anno, di governo in governo, di taglio in taglio. Era normale che prima o poi esplodesse il disagio. Dovremmo congratularci con gli studenti, invece di attaccarli. Chiedono una riforma seria, un reclutamento fondato sui meriti e non sulle conoscenze, un progetto complessivo che manca da molti anni. Sono la prima generazione davvero europea, girano il mondo, anche se non abbastanza, e chiedono gli standard dei loro coetanei francesi, tedeschi, inglesi, spagnoli».
E´ l´effetto Erasmus. Ne parlo con Massimo Livi Bacci, demografo, uno dei punti di riferimento della cultura fiorentina, autore di un libro che si vede circolare in queste settimane negli atenei. Attualissimo fin dal titolo: "Avanti giovani alla riscossa". Quasi tutti i capi della protesta che ho incontrato a Roma, Milano, Firenze, Bologna, studenti o ricercatori, professori e associati, avevano alle spalle un´esperienza comune, l´Erasmus oppure un contratto all´estero. «Ma certo, tornano in Italia e scoprono che siamo fuori dall´Occidente, in ritardo su tutto» commenta Livi Bacci. «Io l´Erasmus lo renderei obbligatorio per tutti i giovani, non solo gli studenti. Un anno fuori da casa, da mamma e papà, in un altro paese. Obbligatorio come un tempo il servizio militare». Come si esce dalla crisi giovanile italiana, è il sottotitolo del libro. Come se ne esce, professore? «Con investimenti, di sicuro non con i tagli. Con una politica per i giovani che in Italia non c´è. Ci sono le solite emergenze settoriali, un mese l´emergenza precari, un´altra l´emergenza studenti. Ci sono i ministeri delle politiche giovanili: nel complesso, una bella pagliacciata. La Gelmini ha l´aria di saper poco o nulla di come funziona nel resto d´Europa. Questa cosa del turn over dei ricercatori ridotto al venti per cento è ridicola. Ma ha un´idea il ministero di che cosa vuol dire in concreto?».
Un´idea me la faccio io incontrando nei corridoi di Farmacia un esubero vivente, il ricercatore precario Duccio Cavalieri. «Che succede se passano i tagli? Faccio le valigie e torno in America. Sono stato cinque anni ad Harvard, benissimo, ben pagato, dirigevo un laboratorio di microbiologia. Sono tornato tre anni fa nel mio paese, pieno di speranze. In tre anni, con lo stipendio di un impiegato, ho fatto ottenere all´università di Firenze finanziamenti europei per 750 mila euro che altrimenti sarebbero andati in Spagna, Francia, Portogallo… Ora mi dicono che sono un lusso. Non il barone, io sono un lusso, capito?».
Ad Architettura i ricercatori tengono corsi con duecento studenti, aule stracolme, alla paga di tre euro all´ora, meno di un ragazzo di un call center. A Economia i professori di ruolo hanno proposto un fondo di solidarietà per pagare gli stipendi a tre dei ventitré ricercatori «tagliati». A Giurisprudenza 32 ricercatori associati, in attesa di chiamata da anni, hanno inviato una lettera aperta al rettore: «La chiamata di ciascuno di noi costerebbe 3 mila euro. E´ troppo?». Il professor Lorenzo Foà, fisico di fama internazionale, docente alla Normale di Pisa, ha lanciato l´allarme dall´Unità: «Formiamo cervelli gratis per i paesi stranieri». Gli studenti dell´Onda l´hanno preso alla lettera. A Piazza della Signoria hanno organizzato la «fuga dei cervelli», con cervelli di cartapesta, stile carnevale di Viareggio. I turisti ridevano, gli italiani anche. Ma non ne abbiamo motivo.

il Riformista 29.30.08
La zeppa scuola s'insinua nella pax berlusconiana
di Claudia Mancina


Il Cavaliere governerà cinque anni, ma le nervose reazioni alla manifestazione del Pd e l'irrigidimento per le proteste studentesche manifestano la totale incapacità di gestire il conflitto sociale, come già nel '94

Siamo in una fase nuova del governo Berlusconi, siamo, come auspica Veltroni, alla fine della luna di miele? È troppo presto per dirlo, ma certo il sondaggio reso noto lunedì scorso da Mannheimer è per diversi aspetti sorprendente. Il pronunciato calo dei consensi del governo non allude a una sua prossima crisi politica, ma indica che qualcosa non va nel senso atteso e previsto. La bacchetta magica del premier è riuscita a risolvere - con qualche gioco di prestigio - il problema dei rifiuti campani e quello dell'Alitalia. Di fronte alla crisi economica, e di fronte a un movimento di protesta per i tagli alla scuola e all'università di proporzioni e coesione abbastanza insolite, il portento non si è ripetuto. Quello che nei mesi scorsi appariva come un giusto ed efficace decisionismo, oggi prende l'aspetto di un ostinato e ingiustificato irrigidimento, perfino con aspetti autolesionistici. Appare infatti imprudente e controproducente che il governo lasci passare l'idea che gli scarsi provvedimenti sulla scuola e quelli ancora più scarsi sull'università siano in qualunque senso una riforma, mentre non sono altro, come ha onestamente riconosciuto Valentina Aprea, che interventi di riordino del bilancio, privi di un disegno coerente a cui appoggiarsi. Ma soprattutto stupisce e preoccupa il modo in cui sia Berlusconi sia la Gelmini reagiscono alla protesta. Sembra quasi che non l'avessero messa nel conto, come se il premier si potesse illudere che la pax berlusconiana bastasse a disinnescare le resistenze. Avviene invece che su questa classica buccia di banana, quale l'istruzione è sempre stata per tutti i governi della Prima e della Seconda Repubblica, scivoli anche il nuovo stile di governo berlusconiano. Dal sano decisionismo all'arroganza, all'incapacità di ascoltare il paese (secondo la lucida denuncia di Sergio Romano), all'irrigidimento politico e parlamentare, e infine ai giudizi incauti (un ministro non può dire che uno sciopero di massa è uno stanco rituale!): è proprio una bella scivolata, non c'è che dire. Sta forse qui, ancor più che nella crisi economica e finanziaria, la ragione della perdita di consensi.
Nelle ultime elezioni Berlusconi si è proposto in modo interamente nuovo rispetto alla "rivoluzione liberale" dei suoi primi passi politici. Si è proposto come una specie di padre deciso ma buono, di risolutore più o meno miracolistico dei tanti mali del paese, e quindi come suo pacificatore. Ora, nelle nervose reazioni alla manifestazione del Pd, nella manifesta insofferenza verso le resistenze, sta invece manifestando una totale incapacità di gestire il conflitto sociale, come già nel 1994. Questa incapacità non ha niente a che fare con un attacco alla democrazia, come parte dell'opposizione sostiene. È una questione di stile di governo, di modalità di leadership: ma certo è preoccupante, perché porta a acutizzare il conflitto anziché a disinnescarlo, come dovrebbe essere la prima regola di un governante. In questo modo il premier non solo rischia di perdere la sua immagine rassicurante, ma schiaccia l'opposizione riformista su quella massimalista, dà argomenti alla parte più pregiudiziale e propagandistica della protesta, e, in sostanza, rende più difficile la soluzione dei problemi. È probabilmente troppo presto per dire che questa vicenda costituisce la fine delle illusioni su una nuova capacità di governo di Berlusconi. Ma questa è la posta in gioco. Perché Berlusconi governerà certamente per cinque anni: il punto però è se lo farà come nel quinquennio precedente, cioè senza risultati apprezzabili per il paese, o se lo farà in modo produttivo. È un interrogativo vitale che in questi giorni si è proposto con chiarezza.
Quella che è andata in piazza il 25 ottobre, quella che anima i cortei degli studenti e dei professori, non è «un'Italia migliore», come ha detto Veltroni, trascinato dalla inevitabile retorica comiziale; ma non è neppure una massa di manovra dei sindacati e della sinistra, come il premier la considera. È un pezzo di Italia che il premier dovrebbe cercare di ascoltare, e di rispettare. In certe sue parti probabilmente non è neppure così estranea al suo mondo: tra gli studenti e gli insegnanti ci saranno anche elettori di destra. Ma sembra che Berlusconi non sappia sottrarsi alla sua tendenza a polarizzare, a dividere il mondo in buoni e cattivi. Una tendenza che collude di fatto con l'analoga e opposta tendenza della sinistra a vedere due Italie diverse e inconciliabili. Ma l'Italia è una sola, le sue molte divisioni interne sono unificate dai suoi problemi. L'incapacità di tutti i nostri leader politici di elaborare una visione unitaria è la tragedia di questo paese; essa coinvolge allo stesso modo la destra e la sinistra.

Repubblica 29.10.08
La scienza conferma "l'effetto rubino" Sollecita l'istinto primitivo del maschio
Come i babbuini che perdono la testa se la femmina arrossisce
di Alessandra Retico


Come il sangue, come l´amore. Effetto rosso: sensi che bruciano, passione che esplode. Gli uomini non capiscono più niente (o tutto, dipende) davanti a una donna con un abito rubino, una maglietta scarlatta, una scarpa rubizza. La natura prevarica ogni cultura, qualsiasi altra ragione. Se The woman è in red, il maschio la desidera. E manco si accorge del perché. Reazione istintiva e meglio ancora: primitiva. Come quella dei babbuini e degli scimpanzé, che perdono la testa quando le loro femmine "arrossiscono" in alcuni punti chiave durante l´ovulazione. Al segnale, la carne di lui rapida risponde.
Così i maschi del genere umano, lo attesta la scienza. Uno studio degli psicologi Andrew Elliott e Daniela Niesta dell´università di Rochester di New York, conferma quello che la letteratura, l´immaginario, il cinema, l´esperienza ci avevano già fatto capire: il rosso è la spia e la scintilla, il simbolo e la materia dell´amore. «Sulla fisica e la fisiologia dei colori si sa molto, assai meno delle loro conseguenze sulla psiche. Sulla loro capacità di condizionare i comportamenti». I risultati dell´analisi sul Journal of Personality and Social Psychology. I ricercatori hanno mostrato a un gruppo di maschi foto di donne diverse con camicie rosse o blu, o dentro cornici di colori diversi compreso il rosso. O foto della stessa donna, una volta in rosso e l´altra in blu. Ha sempre vinto nelle preferenze sessuali la concorrente rossa, anche se era la medesima in blu nel turno di visione precedente. L´attrazione non segue i contenuti, e cioè la donna dentro il rosso, ma la cornice colorata. «Gli uomini agiscono come animali nel sesso». Senza offesa, naturalmente. L´effetto afrodisiaco del rosso può anche essere il risultato di un condizionamento sociale, certo. Ma secondo gli studiosi risponde a più profondi meccanismi biologici, atavici e primordiali. Qualche postilla: rosso è sexy solo per gli uomini, le donne non ne vengono influenzate se viene usato da altre donne, in contesti diversi da quelli amorosi (durante un esame, una gara) vedere rosso peggiora i risultati. Aziende, pubblicitari, stilisti, designer, agenzie matrimoniali avvertite, possono sfruttare se già non lo fanno, red passion. Infine, persa la cultura per certe galanterie, fortuna che c´è la biologia. Con un tocco di rosso, lui offrirà persino una (signora) cena.

Repubblica Roma 29.10.08
Il Comune dice addio a Calatrava
Il delegato allo Sport: "Stop all'iper-progetto di Tor Vergata: faremo cose più utili"
di Corrado Zunino


Via le piscine, sì al baseball. Restano volley e basket E a Roma nord lo stadio del ghiaccio

Sta prendendo forma il Piano regolatore dello sport, voluto dal sindaco Gianni Alemanno. Rifondato sul quadrilatero di Roma Nord - area nobile del Foro Italico, stadio Flaminio, impianti di Tor di Quinto, campi dell´Acquacetosa - entro poche settimane offrirà alla città diverse novità e una clamorosa bocciatura: «L´iperprogetto di Calatrava a Tor Vergata sarà interrotto e rimodulato», dice il delegato del sindaco allo Sport, Alessandro Cochi.
Gli uffici urbanistici hanno completato il censimento delle strutture pubbliche sportive presenti entro il raccordo anulare: sono 170, di diretta competenza del Comune o date in concessione. Ora si definirà il numero degli impianti privati, spesso cresciuti in maniera disorganica. «In XI Circoscrizione ci sono otto piscine, altri municipi non ne hanno neppure una», sottolinea Cochi. La tesi urbanistico-sportiva è quella di ridare logica territoriale allo sport cittadino «fondendo attività di vertice e diffusione di base». Sull´argomento le ultime due giunte Veltroni hanno lavorato molto, ma Alemanno ha scelto di cambiare rotta su progetti importanti. Ha cancellato scelte e avviato nuovi impianti.
Lo stadio della Lazio. La volontà di Claudio Lotito è stata abbracciata: sono partiti i sondaggi tecnici per verificare l´idoneità delle aree, di proprietà del presidente della Lazio, lungo la statale Tiberina, subito dopo Prima Porta. L´ex assessore all´Urbanistica Roberto Morassut bocciò l´idea: «E´ una speculazione». Alemanno, invece, ha autorizzato i sondaggi idrici: saranno a carico di chi vuole costruire. Le aree individuate corrono lungo il Tevere, sono sottoposte a precisi vincoli ambientali e i tecnici stanno valutando gli eventuali rischi esondazione. L´amministrazione è convinta che entro primavera potrà dare il via libera allo Stadio delle Aquile da 55 mila posti e ai luoghi commerciali che gli cresceranno intorno.
Tor Vergata. L´amministrazione di centrodestra sta cancellando il "progetto olimpico" previsto sull´area universitaria di Tor Vergata, sogno veltroniano per una candidatura di Roma ai Giochi del 2020. Fin qui sono stati spesi 200 milioni, «e non saranno sprecati». Il lungo ripensamento da destra ha portato alla decisione di interrompere l´esecuzione dell´intero progetto Calatrava, i Due Gusci dell´architetto valenciano avvistabili dal Raccordo. «Salderemo l´onerosa parcella», spiega Cochi. Per ridimensionare il progetto si è scelto di togliere da Tor Vergata le piscine: la sua centralità. Questo consentirà di fare spazio a un impianto di baseball in vista dei mondiali di settembre 2009. Ricapitolando: a Tor Vergata dovrebbero restare il basket, il volley e ora s´immagina il baseball, disciplina che necessità di un "diamante" decisamente meno oneroso delle piscine al coperto. Per portare a compimento il gigantesco cantiere Tor Vergata servono altri 190 milioni: per ora non ci sono.
Venerdì a Palazzo Chigi sarà presentata la candidatura di Roma per i mondiali del basket del 2014. E la Federazione internazionale insiste: ci vuole un impianto da 14 mila posti. Si realizzerà a Tor Vergata. A circondare l´ex area olimpica, infine, è prevista una pista ciclabile.
Centrale del tennis. E´ pronto, e sarà presentato a ore, il quinto e definitivo progetto per il centrale del tennis, curato degli architetti del Coni dopo lo stop alla prima struttura coperta, definita dagli uomini di Alemanno «un mostro che chiudeva il cono ottico di via dei Gladiatori». Il nuovo centrale - sul quale si giocheranno gli Internazionali di tennis solo nel maggio 2010 visto che il prossimo luglio ospiterà una vasca temporanea dei mondiali di nuoto - sarà di vetro e lastre, costerà tra i 15 e i 25 milioni. Il Comune parteciperà alle spese. Cancellato da Tor Vergata, approderà al Foro Italico anche il Museo dello Sport: sarà nell´ex Accademia della scherma, l´aula bunker.
Cittadelle del rugby. Saranno due i poli del rugby romano: il Tre Fontane, in corso di ristrutturazione con i soldi del Credito sportivo, per le società di casa. E il Flaminio per il Sei nazioni e i test-match della nazionale. I lavori al Flaminio costeranno 10 milioni e sono stati ritardati dalle recenti scoperte archeologiche.
Stadio del ghiaccio. Lo stadio del ghiaccio si farà a Roma nord, in un´area individuata entro il raccordo. Sono stati contattati diversi imprenditori e la struttura che lo ospiterà potrebbe avere una doppia funzione: sport di giorno e concerti rock la sera.

Repubblica Roma 29.10.08
Vertice segreto sull´opera dell´architetto genovese contestata dal sindaco. A rischio anche Campidoglio 2
Torri dell´Eur, i costruttori ad Alemanno "Non stravolgeremo l´idea di Piano"
"Intervento fuori contesto". Già spesi 250 milioni E spunta l´ipotesi di non abbatterle
di Giovanna Vitale


Due casse piene di documenti, planimetrie e disegni hanno preceduto, ieri pomeriggio, l´arrivo in Campidoglio dei vertici della Alfiere spa, la società proprietaria delle Torri delle Finanze che il sindaco Alemanno è tentato di mantenere in piedi qualora Renzo Piano, autore del progetto alternativo, ribadisse di non volerlo cambiare. È una delle soluzioni emerse nel corso dell´incontro riservato sollecitato dal primo cittadino, deciso a non retrocedere di un passo rispetto alle obiezioni già divulgate a mezzo stampa: «Quell´opera è fuori contesto, compromette l´unità architettonica dell´Eur», si sono sentiti ripetere l´avvocato Vincenzo Cappiello e l´ingegner Carlo Santi, rispettivamente presidente e ad di Alfiere.
Perplessità che i manager hanno tentato di dissipare illustrando al sindaco, per oltre un´ora, tutti i dettagli della "Casa di Vetro" pensata dall´architetto genovese. Opponendo persino un garbato diniego alla sua richiesta di modificare l´impostazione: un ritocco è sempre possibile perché tutto è migliorabile, hanno sostenuto i due dirigenti in totale sintonia, ma certo non stravolgere l´impianto dell´edificio e l´uso dei materiali. Intanto perché Piano non ci starebbe. E poi perché la proprietà non ha alcuna intenzione di annullare tutto e ricominciare daccapo, imbarcandosi in una nuova progettazione con relativi oneri, costi e allungamento di tempi. Insomma, è stato fatto capire con serena fermezza, se Alemanno vuole stravolgere il disegno originario, meglio ristrutturare l´esistente (finora è stata smontata solo la "pelle" delle Torri, ovvero le pareti esterne) e riportare tutto com´era prima.
E pazienza se il no all´architetto italiano più famoso del mondo farà ridere l´orbe terraqueo, mandando in fumo i 12 milioni spesi solo per progettare quel gioiello eco-compatibile da 170mila metri cubi con serre e giardini, sofisticatissimi sistemi di risparmio energetico, riciclo delle acque e pannelli fotovoltaici. Certo, lo skyline dell´Eur un poco ne risentirà: il nuovo complesso, immaginato per "dialogare" con la Nuvola di Fuksas, verrà abbassato di 5 piani rispetto ai 17 attuali, sarà trasparente invece che in cemento armato, e riservato in buona parte ad abitazioni civili anziché esclusivamente a uffici com´è stato fino a quando ha ospitato la sede del ministero delle Finanze. Ma questo - hanno spiegato l´avvocato Cappiello e l´ingegner Santi - non potrà che essere un vantaggio perché aiuterà a ridurre il carico urbanistico della zona, già afflitta da grossi problemi di mobilità.
«Certo non è male», s´è lasciato sfuggire il sindaco alla fine della "lezione". Probabilmente persuaso anche da un altro argomento: i soldi già spesi da Alfiere, partecipata al 50% da Fintecna Immobiliare (che fa capo a Fintecna, interamente controllata dal ministero dell´Economia) e per il restante 50 da una società veicolo costituita da sei grandi costruttori romani (Toti, Ligresti, Caputi, Marchini, Armellini e Di Amato), ammontano a circa 250 milioni di euro.
Ma c´è anche un altro problema da non sottovalutare. «Se saltano le Torri rischia di saltare anche l´operazione Campidoglio 2» lancia l´allarme il capogruppo del Pd, Umberto Marroni. «Entrambi rientrano nell´accordo di programma, approvato dalla giunta Veltroni e deliberato in via definitiva dal commissario Morcone, che dà attuazione al protocollo d´intesa per una serie di scambi immobiliari tra ministero delle Finanze e Comune di Roma. Tra questi rientra anche la ex manifattura tabacchi, sull´Ostiense, uno dei 4 edifici destinati al nuovo Campidoglio. Un trasloco progettato dalla giunta precedente per far risparmiare al Comune circa 20 milioni di affitti l´anno». L´addio alle Torri innescherebbe, insomma, una sorta di reazione a catena. «Con uno spreco di soldi e di risorse davvero incredibile».

Corriere della Sera 29.10.08
Gli abilitati all'esercizio della psicoterapia sono 25.710 mentre 9.500 sono i medici specializzati in psichiatria
Le scuole 316 sono quelle riconosciute dal ministero, 290 quelle non ancora «legalizzate». Il record nel Lazio: 73 istituti
Psicologi, invasione low cost
Raddoppia il totale dei laureati: 67.712 nel 2008 Tra gruppi e correnti la psicoanalisi va in crisi
di Giovanna Pezzuoli


La psicoanalisi è morta, viva la psicoanalisi. La disciplina con il marchio doc del dottor Freud attraversa un'indubbia crisi proprio nel momento in cui s'impennano i numeri degli psicologi e si moltiplicano le scuole di psicoterapia. Antonella Mancini in «Il fascino indiscreto della psicoanalisi » — uscirà nel numero di novembre del trimestrale Psicoterapia e Scienze umane (un migliaio di copie; www.psicoterapiaescienzeumane. it) — parla di «cambiamenti più grandi di noi»; e stigmatizza un'offerta di formazione «da parte di noi psicoanalisti spesso sgangherata e disomogenea, specchio fedele dei contrasti fra gruppi e correnti ».
Alla base della piramide c'è il «boom» degli psicologi. Secondo il loro Ordine, nel decennio 1997-2008, il numero totale dei laureati in psicologia è più che raddoppiato: da 27.847 a circa 67.712 (un terzo di tutti i colleghi europei, circa uno psicologo ogni 850 abitanti). «Ma bando alle illusioni— osserva Enrico Molinari, presidente dell'Ordine degli psicologi lombardi e docente di Psicologia clinica all'Università Cattolica di Milano —: è una massa difficilmente collocabile sul mercato del lavoro, con i laureati provenienti da atenei privi di selezione "cestinati" in partenza. Gli iscritti a psicologia nel 2008 erano 70 mila e, a questo ritmo, potrebbero aumentare».
Quanto agli psicologi abilitati all'esercizio della psicoterapia, sono 25.710. L'iter per diventare professionisti dura, in media, 4 anni, ed è assai vario: in Italia esistono 316 scuole di psicoterapia riconosciute dal Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, con altrettanti indirizzi psicologici, cui se ne aggiungono altre 290, tra scuole, associazioni e agenzie formative, non ancora «legalizzate ». Regna un certo eclettismo (leggi confusione). La mappa regionale dell'offerta di aiuto è assai discontinua con la punta massima in Lazio (73 scuole), quasi un terzo in più rispetto alla Lombardia, il triplo rispetto al Veneto e alla Toscana, il quadruplo rispetto al Piemonte. Giù, giù, fino allo zero tondo di Val d'Aosta e Molise.
Una folla di professionisti, cui vanno «sommati» i 9.500 medici specializzati in psichiatria, nonché educatori, assistenti sociali, volontari che «a vario titolo si prendono cura della salute mentale degli italiani». «Un'inquietante armata Brancaleone, su cui incombe il miraggio di una formazione e riqualificazione sempre più problematiche come antidoto allo spettro della disoccupazione — aggiunge Antonella Mancini —. Ed è qui che arriva la psicoanalisi (già domestica e già addomesticata). All'immenso serbatoio di potenziali utenti offre una gamma differenziata di prodotti, dal trattamento individuale (per i pochissimi che hanno voglia, tempo e soldi) alle supervisioni individuali e di gruppo, istituzionali e non; ai gruppi a tema, focali e non...».
«La psicoanalisi è diventata un'area di pensiero diffusa e variegata e questo, paradossalmente, ha coinciso con un suo discreto declino», rileva Giampaolo Sasso, socio della Sipp, Società italiana di psicoterapia psicoanalitica, di area freudiana, guidata da Giovanni Starace, 150 iscritti. E individua tre fattori per il «calo di vocazioni» strettamente psicoanalitiche (vale la pena di ricordare che gli psicoana-listi, formati dalle scuole ufficiali, in Italia, sono poco più di 1.500): un eccesso di ortodossia della tradizione; la diffusione di una pletora di altri istituti cognitivistici, comportamentali, di terapia familiare; infine, l'accesso più facile in settori meno professionalizzati.
«Noi accettiamo solo allievi con almeno 2 anni di analisi — spiega — e i giovani non se lo possono sempre permettere ». Problema economico che si ripercuote anche sui pazienti.
«In termini di mercato — prosegue Sasso — chi vive un disagio può essere agganciato, oggi, da un qualsiasi counsellor più facilmente che da uno psicoterapeuta professionista, con il rischio di un sollievo superficiale e ingannevole... Cambiano anche i problemi, non più solo nevrotici, ma spesso "al bordo della psicosi", alimentati da una crescente perdita del senso della realtà, vedi fenomeni come il Grande Fratello e l'Isola dei famosi o la bolla finanziaria non a caso scoppiata proprio ora».
Ma che accade nella roccaforte del pensiero freudiano, la rigorosissima Società psicoanalitica Italiana di musattiana memoria? «La crisi c'è — ammette Giampaolo Kluzer, socio della Spi e presidente del Centro milanese di psicoanalisi — oggi ci sono più persone interessate alla terapia e meno persone che fanno l'analisi classica». Numeri alla mano, però, la crisi vistosa che ha colpito Stati Uniti, Inghilterra e Germania, in Italia non si è ancora sentita. Nel 1996 i soci Spi erano 520, accanto a 280 candidati; 10 anni dopo i soci sono aumentati, 764, e i candidati sono diminuiti, ma in modo quasi impercettibile, passando a 268. «Pochi hanno il coraggio e i soldi per affrontare un percorso che dura 7-8 anni — spiega Kluzer —. Del resto noi non ci siamo "adeguati": i candidati devono fare le loro analisi personali sempre di 4 sedute settimanali. L'unico allentamento c'è stato nel passaggio successivo, per diventare analista, infatti, occorre un lavoro con un supervisore per almeno 2 anni con almeno 2 pazienti. Di fronte a evidenti difficoltà, abbiamo accettato che uno dei due pazienti facesse 3 sedute invece di 4». Variazione minima nella super scuola, saldamente ancorata al tripode freudiano, immutato dal 1920: analisi personale, lavoro con il supervisore e seminari teorici.
«Il cambiamento principale, oggi, è la richiesta di terapie brevi», osserva Silvia Vegetti Finzi, lacaniana «indipendente» che si definisce una storica e teorica della psicoanalisi. «La gente ha fretta, si sposta molto, i tempi lunghi non sono più in sintonia con la nostra società. Certo i giovani devono sapere che non sarà facile diventare psicoterapeuta. È un percorso che dura almeno 10 anni e non è garantito nei suoi esiti professionali. Dovrebbe intraprenderlo solo chi è mosso da una vera passione».
«Un tempo la domanda di formazione nasceva da un bisogno profondo, soggettivo, legato alla storia personale del candidato, oggi risponde più ad esigenze di mercato», le fa eco Nadia Fina, segretaria milanese del Cipa (Centro italiano di psicologia analitica, 170 iscritti e 70 allievi, circa il 50 per cento in più rispetto a 10 anni fa), di tradizione junghiana. «È diminuita la possibilità di investire soldi sulla propria vita, ma se si offrissero gli stessi trattamenti nel pubblico saremmo pieni di richieste », osserva Elisabetta Franciosi, un'altra analista di formazione junghiana. «La cosa più utile — aggiunge — sarebbe rivolgere l'attenzione ai soggetti deboli di una megalopoli, disoccupati, precari, migranti. Oggi servono psicologi del lavoro, invece si sfornano psicoterapeuti che sarebbe meglio chiamare
coach. L'ultima moda è la cura dell'anima da parte del filosofo, ma i problemi che intercettiamo sono attacchi di panico, sintomi psicosomatici, come puoi trattarli con filosofia?».
Intanto, per la prima volta la psicoanalisi ha debuttato in tivù. Dopo il cinema, da Woody Allen a Hitchcock, sono i serial televisivi a spiare il lettino dell'analista: da tre settimane «In Treatment», maratona in 45 episodi che ha già sedotto l'America e spopolato in Israele, racconta agli italiani su Sky Cult la nevrosi aggressiva del reduce Alex o l'autolesionismo della giovane ginnasta Sophie, pazientemente ascoltati dal terapeuta Paul, alias Gabriel Byrne...

Corriere della Sera 29.10.08
Problemi in casa o sul lavoro? Ecco il «counsellor»
Il boom Tre anni di scuola
di G.Pez.


MILANO — Che cosa accadrebbe se 100 e più scuole di psicoterapia facessero altrettanti «figlioletti», più agili, snelli e veloci? In grado cioè di fornire un aiuto rapido in una miriade di situazioni, dai disagi della menopausa alle incomprensioni di una coppia, al bullismo scolastico. Ecco qua le scuole di Counselling, di recente formazione e ancora prive di statuto giuridico, ma già diffuse a macchia d'olio. E per il counsellor, letteralmente facilitatore, è quasi boom anche perché alle «succursali» delle scuole (un po' in tutti gli indirizzi psicologici, analisi transazionale e gestalt, bioenergetica e terapia familiare) si aggiungono almeno altrettanti istituti nati per germinazione spontanea.
«L'intervento del counsellor
è nelle situazioni di crisi passeggere», racconta Giuseppe Ruggiero, neo presidente del Cncp (Coordinamento nazionale counsellor professionisti) che in sei anni ha raggruppato 72 scuole e 3.000 iscritti. «I nostri non sono pazienti, ma clienti e in genere bastano 10 sedute per venire a capo del problema. Si tratta di un supporto, un orientamento, in cui si attivano le risorse personali». Ma come si diventa counsellor?
Con una scuola perlopiù triennale, che distribuisce 450 ore nei primi due anni e altre 450 nel terzo (necessario per accedere alla qualifica di professionista), suddividendole tra attività formative, supervisione e tirocinio, con una verifica alla fine del percorso. Per entrare, la laurea è preferibile ma non indispensabile. Il costo? Circa 1.600 euro all'anno.
«Ci muoviamo nell'area della prevenzione del disagio», sottolinea Patrizia Moselli, presidente del Siab, Scuole di Analisi Bioenergetica. «I counsellor
sono soprattutto addestrati nelle tecniche della comunicazione, devono saper riconoscere se una persona ha problemi gravi ed eventualmente indirizzarla altrove. Prendiamo una donna che affronta la menopausa: ha semplicemente bisogno di rifocalizzare i propri obiettivi o questa fase della sua vita ha scatenata una profonda depressione latente? L'ideale è un lavoro di rete con medici, psicologi, assistenti sociali, senza competizione di casta».
Parte dalle sensazioni, dalle emozioni fisiche, nel suo lavoro di counsellor «a mediazione corporea», Emma Scaramuzza, docente di storia contemporanea con alle spalle una lunga passione per la psicoterapia, che ha da poco conseguito il suo diploma di counselling. «In genere mi limito ad ascoltare, facendo piccolissime osservazioni: è la tecnica del focusing o della "sensazione sentita", che lentamente attraverso una serie di passaggi dà voce a una parte nascosta».
Ma come può funzionare una terapia così breve? «La differenza la fa il tipo di cliente », risponde Giorgio Piccinino, psicoterapeuta del Centro Berne, che dirige una scuola di Counselling affiliata al Sico, Società italiana di Counselling, l'associazione più antica (83 scuole, quasi 600 iscritti), accanto a sodalizi minori, come Aico, Reico. «Se un genitore con un ragazzo difficile va dal counsellor, questo magari in un paio di colloqui si accorge che tutto dipende dalla nevrosi della madre... In altri casi c'è solo la necessità di uno sfogo, il bisogno di una dritta. Certo le competenze psicologiche servono, io faccio counselling con dirigenti di azienda stressati, che poi finiscono per raccontarmi di mamma e papà».
L'ultima diatriba è con l'Ordine degli psicologi che pretenderebbe anche per i counsellor
la laurea in psicologia. Piccinino non è d'accordo: «Il
counsellor non fa solo colloqui, può essere un educatore fra i tossici o un infermiere specializzato. Insomma, impara una metodologia di aiuto sul piano della comunicazione che in teoria farebbe molto bene anche a medici e insegnanti ».
E il business? C'è innegabilmente. Con questo escamotage ogni scuola di psicoterapia ha raddoppiato i suoi allievi. E per molti istituti è una scelta che significa la sopravvivenza. Ma, come sempre, ci sono le scorciatoie, ad esempio il modello «abc counselling » di Maurizio Trebiani da Recco che nel suo opuscolo «migliora la tua vita da adesso » promette la risoluzione del problema in 5 incontri in oltre il 90 per cento dei casi. Bastano, infatti, per imparare a prendere decisioni, gestire crisi e paure, migliorare le relazioni, sviluppare le risorse. E ci sono anche agevolazioni economiche, ad esempio alla fine del primo incontro si può decidere di pagare in 4 rate, e senza maggiorazioni. Mago o counsellor?
Le sedute
Il presidente del Cncp: «I nostri non sono pazienti, ma clienti e bastano dieci sedute per venire a capo del problema»
La laurea
Per entrare nelle scuole di «counselling» la laurea non è indispensabile. Ma l'Ordine degli psicologi protesta

Il Mattino 29.30.08
Rembrandt, Vermeer e la ragazza col filo di perle
di Santa Di Salvo


Non è stato chiamato a caso «il Secolo d’oro» della pittura fiamminga. Non esiste altra area, infatti, che possa vantare la stessa impressionante quantità di dipinti realizzata durante il XVII secolo nei Paesi Bassi. Si stima che tra il Sei e il Settecento piccoli e grandi centri in Olanda abbiano prodotto non meno di cinque milioni di opere. Cosa tanto più sbalorditiva se si rammenta che nello stesso periodo crollava la committenza per gli edifici di culto a seguito dell’onda iconoclasta della chiesa riformata calvinista, che cancellò le immagini sacre dalle chiese, tradizionale destinazione delle produzioni d’arte. Che soggetti avevano e dove finivano dunque tutti quei quadri? Uno storico sociale dell’arte come Hauser ha analizzato il fenomeno molti anni fa. Le opere erano destinate in gran parte alle abitazioni lussuose di ricchi mercanti e banchieri, a magnificare le gesta di una nuova classe sociale e dei suoi valori borghesi, simboli di un potere commerciale ed economico che stava soppiantando clero e aristocrazia. Per soddisfare il gusto dei nuovi clienti, che i dipinti amavano ostentare nelle case, nasce e si moltiplica la pittura d’interni, accompagnata dai ritratti di gruppo. In un rigoglio di creatività senza precedenti, i pittori del Nord creano un vero e proprio genere dedicato agli interni domestici, all’intimità della famiglia, al lavoro quotidiano, testimoniando i nuovi simboli e il mutato contesto sociale della cultura fiamminga del Seicento. Per la prima volta insieme in Italia, arrivano a Roma al Museo del Corso 55 dipinti provenienti dalla Gemaldegalerie di Berlino. Dall’11 novembre la mostra «Da Rembrandt a Vermeer. Valori civili della pittura fiamminga e olandese del ’600» raccoglie capolavori come «Il cambiavalute» di Rembrandt e «La ragazza col filo di perle» di Vermeer accanto ad altre significative testimonianze dell’arte e della cultura delle Fiandre. Ci saranno in mostra «L’uomo con l’elmo d’oro», che fu a lungo attribuito a Rembrandt, oggi a un anonimo della sua cerchia; il «Ragazzo che canta con flauto» di Franz Hals; «La madre» e «La pesatrice d’oro» di Pieter de Hooch; il «Paesaggio con l’impiccato» di Rubens; il «Ritratto di gentildonna genovese» di Anton van Dyck, e molti altri. Il percorso espositivo, organizzato dalla Fondazione Roma, mette in evidenza l’altissima qualità della produzione pittorica di quel periodo di grandi mutamenti sociopolitici (nella sola Amsterdam la popolazione passò in 40 anni da 60mila a 135mila abitanti) e al tempo stesso le profonde differenze con l’estetica e la realtà sociale dell’arte italiana. In un’Olanda mecca del commercio, anche la pittura divenne merce e gli scambi frequenti consentirono una diffusione capillare delle opere olandesi in tutte le collezioni del mondo. Aprendo all’arte oggetti e scene fino ad allora mai rappresentate perchè giudicate un genere inferiore: paesaggi, nature morte, ritratti, scene di vita familiare.

Comunicato-stampa
Gelmini e i nazifascisti contro il popolo della scuola pubblica

L'arroganza governativa non ha tenuto conto della corale mobilitazione del popolo della scuola pubblica contro il decreto Gelmini, approvato al Senato davanti a migliaia di studenti e docenti che protestavano contro la politica scolastica di Tremonti-Gelmini. Ma la partita resta aperta, visti i numerosi passaggi che attendono, prima dell'attuazione, la legge Gelmini e la 133, e tenendo conto sopratutto dell'intenzione del popolo della scuola pubblica di proseguire e intensificare la lotta nei prossimi giorni, fino ad arrivare ad una oceanica manifestazione nazionale unitaria, con tutte le componenti del fronte in difesa della scuola. Oggi però l'attacco alle migliaia di studenti e docenti che manifestavano a Piazza Navona non è venuto solo dai senatori/trici che hanno votato il catastrofico decreto, ma anche da un manipolo di nazifascisti che a Roma si sono introdotti in alcune aree del movimento degli studenti medi, usando sigle di copertura. Dopo aver cercato, come già negli ultimi giorni, di prendere la testa di cortei e sit-in, grazie ad una pratica aggressiva e militaresca, di fronte alla pacifica ripulsa della grande maggioranza degli studenti, hanno gettato la maschera, caricando violentemente la piazza e colpendo con catene, bastoni e altri strumenti, giovani inermi, lasciandone numerosi a terra sanguinanti. Ed hanno continuato ad intimidire e a aggredire fino a quando non sono stati messi in condizione di non nuocere dall'ingresso in piazza del corteo degli studenti universitari. Ci auguriamo che questo gravissimo episodio serva se non altro a far chiarezza tra alcuni settori del movimento degli studenti medi romani che in questi giorni avevano creduto di poter convivere pacificamente con i nazifascisti. La sacrosanta indignazione del movimento nei confronti non solo delle politiche governative ma anche di quelle del precedente centrosinistra e dell'attuale inesistente opposizione non possono far sottovalutare, come hanno dovuto purtroppo oggi verificare di persona gli studenti picchiati, come il nazifascismo sia sempre violento, aggressivo, antidemocratico, qualsiasi ne siano le mascherature. E ancora una volta verrà usato dal Potere per cercare di criminalizzare il movimento di lotta e per riaccreditare la tesi berlusconiana del necessario intervento poliziesco "per riportare ordine e disciplina". Ma nè Gelmini nè tantomeno i nazifascisti fermeranno il grande movimento popolare in difesa della scuola pubblica.
Cobas Scuola

martedì 28 ottobre 2008

Repubblica 28.10.08
Lo scrittore Niccolò Ammaniti: quel "io non ho paura" è un urlo di speranza
"Il mio libro è il loro slogan? Orgoglioso di questi ragazzi stanno lottando per il futuro"
Stanno spazzando via il luogo comune che vuole i giovani d´oggi apatici e senza niente da dire
di Caterina Pasolini


ROMA - Il suo, è libro più citato nei cortei studenteschi. Campeggia sugli striscioni che aprono le manifestazioni di protesta quel «Io non ho paura». Un titolo che è diventato una dichiarazione di forza e speranza, voglia di esserci e contare per chi dai banchi alle cattedre vive tra precariato e l´incubo dei tagli annunciati, di un futuro liquido. Lui, Niccolò Ammaniti, ex studente sognatore e impacciato sempre sulla soglia della bocciatura, li guarda soddisfatti i ragazzi dell´Onda. «Perché tagliare i fondi alla scuola è tagliare il nostro futuro».
Uno scrittore da slogan?
«Sono felice perché dopo la disfatta elettorale avevo la sensazione che neanche i giovani avessero più la capacità di reagire, che subissero in modo apatico quest´Italia che mi inquieta. Che punta sulla paura, sull´esercito nelle strade».
E invece?
«Sono contento che abbiano usato i titolo del mio libro perché vorrei sentirmi dire proprio questo dai ragazzi: "Non ho paura della politica del terrore, del domani." E la scelta di una frase con Io all´inizio, è un´assunzione di responsabilità, il desiderio in prima persona di dire le cose che non vanno».
Ventenni diversi dai luoghi comuni?
«Sì. Sono stufo di sentire che le nuove generazioni non hanno niente da dire. Io li vedo che discutono, si battono per le loro esigenze, per un università che non sia solo un parcheggio».
D´accordo con le proteste?
«Sì. Potrei trovare sensate alcune riorganizzazioni delle università se venissero dopo analisi, comparazioni e non se sono solo tagli nascosti dietro un falso piano».
Manca un progetto?
«So solo che davanti ad una realtà che cambia, ad un paese multietnico con nuove esigenze le risposte adeguate non sono arrivate».
Che studente era?
«Alle elementari volevano bocciarmi in prima. Ero mancino e la maestra, unica allora, voleva farmi scrivere con la destra ed io ero lento, non al passo con gli altri. Sono finito alla Montessori, una scuola bellissima, sperimentale. Poi sono arrivati gli anni bui al liceo, rimandato in tutte le materie possibili. Forse per colpa mia o dei professori con i quali non avevo un gran rapporto».
Ora come li vede i prof?
«Massimo rispetto, avrebbero bisogno di sicurezze, incentivi economici. Li sento stanchi, demotivati, ripiegati su se stessi con i genitori che si alleano con i ragazzi contro di loro per principio».
E all´università?
«Lì ho incontrato professori che credevano nel loro lavoro, capaci di appassionare, divulgare. Ho fatto biologia, se non l´avessi studiata, se non avessi visto come funziona l´ecosistema, anche la mia letteratura ne avrebbe perso. L´università è fondamentale».
Niente tagli nella scuola?
«L´università è l´unico luogo dove si sperimenta, dalla medicina all´architettura. È il luogo dove si formano quelli che tra 10 anni si occuperanno dell´Italia, che prenderanno il posto di gente da troppo tempo al potere. Se si tagliano i fondi alla scuola, dalle elementari all´università, si tolgono gli occhi al nostro futuro, si taglia il futuro».

Repubblica 28.10.08
Bologna, la trincea delle maestre
Viaggio nelle scuole elementari emiliane, che l´Ocse indica come le migliori in assoluto
Tra le maestre imitate in tutto il mondo "Berlusconi ha fatto male i conti"
di Curzio Maltese


"Una legge che tocca i figli, tutti la leggono bene, e la propaganda non funziona"
"Nelle nostre aule si mantengono vivi i valori della tolleranza, altrove minacciati"

BOLOGNA. A New York sono sorte negli ultimi dieci anni scuole materne ed elementari che copiano quelle emiliane perfino negli arredi. Via i banchi, le classi prendono l´aria delle fattorie reggiane che ispirarono Loris Malaguzzi, con i bambini impegnati a impastare dolci sui tavolacci di legno, le foglie appese alle finestre per imparare a conoscere i nomi delle piante.
Si chiama "Reggio approach", un metodo studiato in tutto il mondo, dall´Emilia al West, con associazioni dal Canada all´Australia alla Svezia. Se la scuola elementare italiana è, dati Ocse, la prima d´Europa, l´emiliana è la prima del mondo, celebrata in centinaia di grandi reportage, non soltanto la famosa copertina di Newsweek del ´91 o quello del New York Times un anno fa, e poi documentari, saggi, tesi di laurea, premi internazionali. Non stupisce che proprio dalle aule del "modello emiliano", quelle doc fra Reggio e Bologna, sia nata la rivolta della scuola italiana. La storia dell´Emilia rossa c´entra poco.

A Bologna di rosso sono rimaste le mura, tira forte vento di destra e sul voto di primavera incombono i litigi a sinistra e l´ombra del ritorno di Guazzaloca. «C´entra un calcolo sbagliato della destra, che poi fu lo stesso errore dell´articolo 18», mi spiega Sergio Cofferati, ancora per poco sindaco. «Il non capire che quando la gente conosce una materia, perché la vive sulla propria pelle tutti i giorni, allora non bastano le televisioni, le favole, gli slogan, il rovesciamento della realtà. Le madri, i padri, sanno come lavorano le maestre. E se gli racconti che sono lazzarone, mangiapane a tradimento, si sentono presi in giro e finisce che s´incazzano».
Che maestre e maestri emiliani siano in gamba non lo testimonia soltanto un malloppo alto così di classifiche d´eccellenza, o la decennale ripresa della natalità a Bologna, unica fra le grandi città italiane e nonostante le mamme bolognesi siano le più occupate d´Italia. Ma anche il modo straordinario in cui sono riusciti in poche settimane a organizzare un movimento di protesta di massa. Stasera in Piazza Maggiore, alla fiaccolata per bloccare l´approvazione dei decreti sulla scuola, sono attese decine di migliaia di persone. «È il frutto di un lavoro preparato con centinaia di assemblee e cominciato già a metà settembre, da soli, senza l´appoggio di partiti o sindacati che non si erano neppure accorti della gravità del decreto», dice Giovanni Cocchi, maestro. Il 15 ottobre Bologna e provincia si sono illuminate per la notte bianca di protesta che ha coinvolto 15 mila persone, dai 37 genitori della frazione montana di Tolè, ai tremila di Casalecchio, ai quindicimila per le strade di Bologna. Genitori, insegnanti, bambini hanno invaso la notte bolognese, ormai desertificata dalle paure, con bande musicali, artisti di strada, clown, maghi, fiaccole, biscotti fatti a scuola e lenzuoli da fantasmini, il logo inventato dai bimbi per l´occasione. Ci sarebbe voluto un grande regista dell´infanzia, un Truffaut, un Cantet o Nicholas Philibert, per raccontarne la meraviglia e l´emozione. C´erano invece i giornalisti gendarmi di Rai e Mediaset, a gufare per l´incidente che non è arrivato.
Perché stavolta la caccia al capro espiatorio non ha funzionato? Me lo spiega la giovane madre di tre bambini, Valeria de Vincenzi: «Non hanno calcolato che quando un provvedimento tocca i tuoi figli, uno i decreti li legge con attenzione. Io ormai lo so a memoria. C´è scritto maestro "unico" e non "prevalente". C´è scritto "24 ore", che significa fine del tempo pieno. Non c´è nulla invece a proposito di grembiulini e bullismo». Il fatto sarà anche che le famiglie vogliono bene ai maestri, li stimano. Fossero stati altri dipendenti statali, non si sarebbe mosso quasi nessuno. Marzia Mascagni, un´altra maestra dei comitati: «La scuola elementare è migliore della società che c´è intorno e le famiglie lo sanno. Con o senza grembiule, i bambini si sentono uguali, senza differenze di colore, nazionalità, ceto sociale. La scuola elementare è oggi uno dei luoghi dove si mantengono vivi valori di tolleranza che altrove sono minacciati di estinzione, travolti dalla paura del diverso». Come darle torto? Ci volevano i maestri elementari per far vergognare gli italiani davanti all´ennesimo provvedimento razzista, l´apartheid delle classi differenziate per i figli d´immigrati. Rifiutato da tutti, nei sondaggi, anche da chi era sfavorevole alla schedatura dei bimbi rom. «Certo che il problema esiste», mi dicono alla scuola "Mario Longhena", un vanto cittadino, dove è nato il tempo pieno «ma bastava non tagliare i maestri aggiuntivi d´italiano».
E se domani il decreto passa comunque, nel nome del decisionismo a tutti i costi? «Noi andiamo avanti lo stesso», risponde il maestro Mirko Pieralisi. «Andiamo avanti perché indietro non si può. Non vogliono le famiglie, più ancora di noi maestri. Ma a chi la vogliono raccontare che le elementari di una volta erano migliori? Era la scuola criticata da Don Milani, quella che perdeva per strada il quaranta per cento dei bambini, quella dell´Italia analfabeta, recuperata in tv dal "Non è mai troppo tardi" del maestro Manzi». Ve lo ricordate il maestro Alberto Manzi? Un grande maestro, una grande persona. Negli anni Sessanta fu calcolato che un milione e mezzo d´italiani sia riuscito a prendere la licenza elementare grazie al suo programma. Poi tornò a fare il maestro, allora con la tv non si facevano i soldi. Nell´81 fu sospeso dal ministero per essersi rifiutato di ritornare al voto. Aveva sostituito i voti con un timbro: «Fa quel che può, quel che non può non fa». È morto dieci anni fa. Altrimenti, sarebbe stasera a Piazza Maggiore.

Corriere della Sera 28.10.08
Senza etichette. La De Gregorio e l'Annunziata sottolineano l'indipendenza dei giovani dalla politica: «Non strumentalizzati» è il loro slogan
Né rossi né neri: nascono «Gli Irrappresentabili»
E nel suo liceo-icona, il Giulio Cesare di Roma, la destra si allea con sinistra e «apolitici»
di Fabrizio Caccia


ROMA — Cosa c'era scritto sullo striscione srotolato l'altra sera dagli studenti sul «red carpet» del Festival del Cinema? «Pay attention (fate attenzione,
ndr) Movimento Irrappresentabile ». Proprio così. Sembra questa, oggi, la prima, vera, grande preoccupazione dell'«Onda» che avanza. Non si lasciano strumentalizzare, gli studenti. Né rappresentare. Dai partiti, dai sindacati, dai professori. Liceali e universitari non lo vogliono affatto. E lo dicono in tutti i modi: «Studente non strumentalizzato», è uno dei cartelli che usano appiccicarsi addosso, per esempio, quando sfilano nei cortei. L'altro giorno, il quotidiano l'Unità
ha pubblicato un reportage nei licei occupati di Roma. Uno studente diceva: «Non lasceremo che i partiti mettano il cappello sulla nostra protesta, perché non è né di destra né di sinistra, è in difesa della scuola pubblica ». Così, nel suo editoriale, il direttore de l'Unità, Concita De Gregorio, all'indomani del grande raduno del Pd al Circo Massimo, coglieva giusto quest'aspetto: «Gli studenti non sono andati al Circo Massimo. C'erano, ma non c'erano. Erano mescolati, senza insegne, ai genitori e agli insegnanti ». Né di destra né di sinistra, dunque. Lucia Annunziata, ieri mattina, su La Stampa, sottolineava la vera novità del movimento 2008: «La politica è "un cappello", senza distinzioni, non più un aiuto naturale per chi protesta, ma addirittura un ostacolo». Questo, dunque, non è un movimento «bipartisan»: semplicemente perché i partiti non ci sono, non li vogliono, non sono stati invitati. E quando pure s'avvicinano, ecco che vengono contestati: davanti a Montecitorio, la settimana scorsa, durante una delle lezioni di Fisica in piazza, un consigliere comunale del Pd aveva provato ad accostarsi alle lavagne, ma è stato respinto con perdite («Vai via, sei qui solo per le telecamere...»). E lo stesso è avvenuto sotto al Senato, venerdì scorso, quando Paolo Ferrero di Rifondazione e una delegazione del Pd aveva tentato di interloquire con gli studenti davanti a Palazzo Madama. Niente da fare: fischi e cori per tutti.
Così, lontano dalle parole d'ordine dei partiti, dalle etichettature dei giornali, dalle divisioni monolitiche del passato, è in questo clima che si trovano a marciare insieme oggi quelli con la kefiah e con le teste rasate, pugni chiusi e braccia tese, stelle rosse e magliette nere, i ragazzi del Blocco Studentesco (ultradestra) e i liceali dell'Unione degli studenti. E se pure litigano tra loro perché, per esempio, ieri mattina in piazza Venezia un gruppo gridava «Duce, Duce». E se pure non mancano episodi di matrice squadrista (due studenti di sinistra del liceo Tasso picchiati da quelli del Blocco studentesco), alla fine però a protestare davanti al Senato ci vanno tutti insieme. Compatti. Contro la Gelmini, contro il ministro Tremonti, contro i tagli alla ricerca e il rischio-privatizzazione. Strumentalizzati no, protagonisti sì: l'Onda travolge gli schemi. «Protestiamo in difesa della scuola della Costituzione, libera e pubblica, che garantisca l'istruzione senza discriminazioni di alcun tipo», recita il documento comune, votato e diffuso in serata dagli studenti del «classico» Giulio Cesare. E anche lì, nel liceo di Corso Trieste, quasi un'icona della destra a Roma trent'anni fa, studenti di sinistra («Lista Palomar») e di destra («Lotta studentesca»), sostenuti da un terzo gruppo di apolitici («Gruppo becero»), hanno vinto le resistenze degli altri compagni di scuola (in tutto sono 1300 gli iscritti) e hanno mandato a casa ieri mattina professori e bidelli. Non è chiaro se pure lo striscione che hanno appeso all'ingresso sia oggi il frutto del grande compromesso tra le due anime degli studenti in lotta. Nella prima riga, infatti, «Giulio Cesare» è scritto in nero; nella seconda, però, «Occupato» è rosso-sangue. Di certo, l'attenta «par condicio» dei colori si rispecchia perfettamente nelle diverse identità politiche degli occupanti. L'obiettivo, però, resta comune.
Scritta in «par condicio»
Il nome del liceo «Giulio Cesare» è scritto in colore nero ma, subito sotto, la parola «Occupato» è rosso sangue

il Riformista 28.10.08
Il cuore di mamma costa dieci punti a Berlusconi
di Alessandro De Angelis


Basso gradimento. Il Cavaliere alle prese con il primo vero calo di consenso. Colpa della crisi, ma soprattutto delle proteste contro i tagli alla scuola, che incidono su un feudo dell'elettorato forzista: le donne. Silvio lo sa e pensa a un nuovo corso. Gelmini prepara la campagna contro la «casta dei professori».

Sulla scuola non si discute. Dopo l'affondo del premier: «La sinistra racconta frottole», è stata la volta di Mariastella Gelmini. In un'intervista al Corriere la ministra dell'Istruzione ci è andata giù dura. Con la sinistra: «Speravo - ha detto la Gelmini - che Veltroni si ispirasse alla lezione di Tony Blair. Purtroppo oggi parla come un rappresentante dei Cobas». Con l'informazione: «A Firenze occupano una stanza in venti e nei tg si dice che l'università è occupata». Con i sindacati che scenderanno in piazza giovedì: «È il vecchio rito di chi difende l'indifendibile. Dopo si potrà riprendere a confrontarsi sulle riforme». Tradotto: sul decreto non si tratta.
Il premier non ha alcuna intenzione di far slittare nemmeno di un minuto l'approvazione prevista per domani al Senato. Ormai il dossier scuola lo considera «archiviato». E con esso la protesta, che ancora ieri ha registrato una giornata calda: «Convertito il decreto, si smonta pure quella» dicono a Palazzo Grazioli. Oggi i parlamentari del Pdl incontreranno gli studenti di destra per un confronto sulla scuola. Poi si passa all'aula, dove è tutto pronto per il braccio di ferro col Pd: «Approveremo il decreto al Senato così com'è passato alla Camera, senza modifiche» ha dichiarato il capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto. La maggioranza - dicono a Palazzo Chigi - è compatta: tutti, Pdl e Lega, sono convinti la scuola è da riformare. Soprattutto, sono convinti che - al di là della buona fede degli studenti - la mobilitazione sia stata orchestrata da chi - i professori innanzitutto - non vuole perdere i privilegi accumulati in questi anni. E se l'informazione - dicono i fedelissimi del Cavaliere - gioca a fare la cassa di risonanza alla sinistra, dal governo sta per partire «controffensiva informativa».
La campagna è stata studiata a tavolino da luglio, proprio mentre venivano messe nero su bianco le cifre del decreto. E si basa su dati ufficiali, forniti anche da studiosi non riconducibili al centrodestra, come quelli che gravitano attorno al sito Lavoce.info: Universitopoli è il titolo di un volume su cui stanno lavorando i consiglieri politici del ministro dell'Istruzione. È già scritto, va solo stampato. Obiettivo: denunciare gli sprechi dell'Università e la «casta» dei professori. I numeri dello scandalo da «pompare» sui media sono già stati messi in fila. Al capitolo «università truccata» si legge: «Se si tiene conto del numero degli studenti in corso, in Italia si spendono 16 mila dollari per ognuno; è la quarta spesa più alta del mondo dopo Stati Uniti, Svizzera, Svezia». Al capitolo casta dei docenti è scritto: «I professori universitari italiani hanno uno stipendio superiore a quello del 95 per cento dei professori universitari americani e, diversamente dal loro, si sale per anzianità e non per meriti scientifici». E ancora, sugli sprechi: «Da aprile a giugno le università hanno bandito 685 posti da professori ordinari e 1.093 da associati. Poiché ognuno di questi concorsi prevede due idonei, nei prossimi anni saranno assunti 3.500 professori, il 10 per cento dell'attuale corpo docente». E così via: decine di numeri per dimostrare che la riforma è giusta: «Altro che tagli» dicono gli autori.
A Palazzo Chigi tagliano corto sui sondaggi: «Ma quale calo. Siamo al 70 per cento» dicono. Però Berlusconi ha capito che qualcosa, nell'aria, è cambiata. Molti sondaggisti danno il governo in calo. Renato Mannheimer, ad esempio, spiega: «Non so se sulla scuola o per effetto della crisi, ma il governo sta perdendo dai dieci ai venti punti. È certo che le famiglie sono molto preoccupate. Pensano che l'effetto della crisi possa avere su di loro un impatto devastante». Per questo Berlusconi vuole archiviare il capitolo scuola e aprire una nuova fase, all'insegna dell'ottimismo. Tra i dati uno lo ha colpito più di tutti: la preoccupazione delle mamme, (che equivale a dire famiglie) che rappresentano, per il premier, una vera e propria e ossessione: «Ormai parla più alle famiglie che alle imprese e alle banche» dicono a Palazzo Grazioli.
Aver visto le mamme in piazza con cartelli «dove c'è scritto il contrario della realtà» è stato, per lui, un colpo al cuore. Da Bruxelles (era il 16 ottobre) il giorno prima dello sciopero degli autonomi ha mandato loro un messaggio: «Mamme state tranquille: il tempo pieno nella scuola italiana verrà confermato dove c'era e incrementato di circa il 60 per cento perché ci saranno più insegnanti a disposizione, dopo la decisione del governo di tornare al maestro unico». Un concetto ribadito nella conferenza stampa di martedì scorso con il ministro Gelmini: «Non è vero - ha affermato il premier - che aboliamo il tempo pieno». L'«operazione fiducia» dunque è già iniziata. Ma si intensificherà sui prossimi dossier. Spiegano a Palazzo Grazioli: «I sondaggi dicono che la politica perde, non il governo. Il paese è spaventato dalla crisi e l'allarmismo di questi giorni sulla scuola non ha giovato».

il Riformista 28.10.08
L'abitudine di Mariastella a dare forfait


Milano. L'aspettavano ieri mattina al museo della Scienza e della Tecnica di Milano, ma ancora una volta Mariastella Gelmini non si è fatta vedere. L'occasione questa volta era il raduno dei parlamentari lombardi eletti tra le fila del Popolo della Libertà ad aprile per la Camera e il Senato: un momento di confronto a sette mesi di distanza dalle elezioni, per fare il punto della situazione e per capire le reali necessità della Lombardia, in rapporti critici con il governo oltre che per i fondi destinati a Catania e Roma anche per la mancata liberalizzazione degli slot di Malpensa. Non è la prima volta che il ministro dell'Istruzione annulla un evento pubblico questo mese.
La possibilità di contestazioni da parte degli studenti milanesi, in protesta da tre settimane contro i tagli all'Università, resta sempre alta. Non solo. Il 13 ottobre, quando sarebbe dovuta intervenire in regione Lombardia per un incontro con i dipendenti regionali all'Istruzione, si mise di mezzo pure una mail malandrina: il direttore generale dell'assessorato invitò i lavoratori a presenziare all'evento come un appuntamento di lavoro, scatenando le proteste della sinistra lombarda che gridò al reclutamento per farle la claque.
Il problema non è solo milanese. Domani il ministro avrebbe dovuto partecipare a Torino a un evento organizzato da mesi dall'Unione Industriale: la Gelmini ha già dato forfait. Nel capoluogo lombardo si attende ora per il tre di novembre, quando sarà inaugurato l'anno accademico del Politecnico. Tra i manifestanti, sulla presenza o meno del ministro, sono già partite le scommesse.

Repubblica 28.10.08
Prc, Ferrero risponde a Franceschini "Su alcuni punti si può lavorare insieme"


ROMA - «Con il Pd c´è una distanza enorme, non vedo nessun riavvicinamento, ma su due o tre punti si può fare un´azione molto netta lavorando insieme». Paolo Ferrero raccoglie l´appello lanciato dal numero due del Pd, Dario Franceschini, che in un´intervista a Repubblica ha proposto un fronte comune anti-Berlusconi. Secondo il segretario del Prc «bisogna fare il massimo di opposizione su due o tre punti». In primo luogo la lotta al carovita, poi il no al decreto Gelmini sulla scuola: «Famiglia Cristiana ha perfettamente ragione, la controriforma va immediatamente ritirata, e il ministro ha il dovere di ascoltare le migliaia di studenti in lotta». Terzo punto: la battaglia contro la modifica della legge elettorale per le europee. Su questo, Ferrero invoca l´ostruzionismo alle Camere: «Visto che è una porcheria, e tutti pensano che sia una porcheria, chi è in Parlamento faccia valere il peso che ha per bloccare questa legge».
Al Pd, il leader del Prc continua a non risparmiare critiche (che l´hanno spinto a promuovere sabato scorso iniziative in alternativa alla manifestazione del Circo Massimo), accusando il partito di Veltroni di «non dire nulla contro la Confindustria, niente sulle grandi opere, niente sul federalismo fiscale, mentre dice di sì al nucleare». Tuttavia nelle parole di Franceschini, Rifondazione scorge una novità, e riapre la porta a convergenze tattiche. Anche perché lo spauracchio dello sbarramento elettorale al 5 per cento spinge il Prc a stringere intese anti-riforma con Veltroni e il resto dell´opposizione, da Di Pietro a Casini. Ferrero manda segnali in positivo anche sull´Abruzzo: apprezza il sì del Pd al candidato dell´Idv Costantini, anche se adesso la vera partita «si giocherà sulla pulizia degli indagati dalle liste e sui programmi elettorali».

il Riformista 28.10.08
«Sbarramento sociale. Pd, vieni sulle barricate»
Parla Vendola. «Serve una grande battaglia democratica»
di A.D.A.


«Lo sbarramento elettorale è l'effetto dello sbarramento sociale»: il governatore della Puglia Nichi Vendola annuncia una «battaglia democratica» contro il Porcellum europeo. E apre al Pd: «Facciamo dialogare le piazze».
Legge per le europee: vogliono uccidervi?.
«Il berlusconismo non gioca mai a nascondino e su qualunque ferita che infligge cerca di costruire un racconto manipolatorio. Lo sbarramento elettorale è l'effetto dello sbarramento sociale: criminalizzazione del conflitto, intimidazione dei movimenti studenteschi, riarticolazione del paradigma repressivo e disciplinare attraverso il restringimento del diritto di sciopero. Si nega la rappresentanza politica perché si nega la rappresentanza sociale».
E la sinistra?
«Serve una grande battaglia democratica. Sulle preferenze aggiungo che delle due l'una: o si istituzionalizzano le primarie come strumento di selezione delle liste, oppure siamo in presenza di una oligarchia che seleziona la classe politica. E questo è un vulnus profondo».
Al Pd chiede barricate?
«Al Pd e a tutti quelli che si oppongono chiedo di tener presente il legame tra rappresentanza politica e sociale. Questa non deve essere né apparire una battaglia di casta e di difesa dei privilegi. Serve a garantire che soggettività plurali e radicali abbiano diritto di agire e praticare la politica».
Cosa cambia dopo il Circo Massimo?
«Innanzitutto la folla straripante che ho visto è la più formidabile rete protettiva per la nostra democrazia. Ma, come avvenuto per la manifestazione dell'11 ottobre, anche quello del Pd è un unico grande popolo che porta una domanda radicale di alternativa cui non corrisponde, per ora, una piattaforma politica. L'una e l'altra piazza sono piazze identitarie, ancora ossessionate dai problemi esistenziali. Il punto, ora, è l'interlocuzione tra le due piazze».
Franceschini dice: uniamo le opposizioni.
«E uniamole... Ma a partire da una idea di fondo: la difesa del mondo del lavoro, del contratto nazionale, della lotta al carovita e del sostegno ai redditi. Aggiungo: anche in nome dei diritti civili che sono l'altra faccia della medaglia di quelli sociali».
Vuole parlare di alleanze col Pd?
«Certo. Sono la conseguenza logica della messa in campo di un'idea di buon governo».
Torna l'Unione?
«L'Unione è stata una mediazione prolissamente cartacea e politicamente velleitaria che racchiudeva un reciproco pregiudizio: i riformisti hanno immaginato per loro il governo e per i radicali l'arpa del dolore sociale. E noi ci siamo portati dietro il pregiudizio che il governo fosse il preinferno nel quale precipitava l'innocenza rivoluzionaria».
E invece?
«Invece del posizionamento simbolico oggi il tema è la crisi della società italiana, della narrazione liberista, del capitalismo occidentale. Ognuno deve fare un passo indietro per poter fare tutti un passo avanti».

il Riformista 28.10.08
Perché non vado più alle manifestazioni
di Ritanna Armeni


Non sono andata né a quella della sinistra radicale l'11 ottobre, né a quella del Partito democratico sabato scorso, e questo mi ha messo in crisi. Non è per stanchezza: il fatto è che servivano soltanto a dire «ci siamo»

Può capitare di non voler più andare a manifestazioni. Non sono andata né a quella della sinistra radicale l'11 ottobre, né a quella del Partito democratico sabato scorso, e questo mi ha messo in crisi. Perché non sono d'accordo con Massimo Cacciari che la piazza sia una dimostrazione di demagogia, anzi penso che sia utile. Non solo perché, come ha scritto di recente Michele Serra, essa dà «voce e, se possibile, fiducia a persone semplici e anonime, quelle che contando poco, hanno necessità di contarsi», ma perchè le manifestazioni possono essere un momento di politica alta e importante, sia per la base, sia per i dirigenti.
Eppure non ci sono andata. Naturalmente ho pensato che il mio rifiuto derivasse da stanchezza. Ne ho fatti tanti di cortei - anticapitalisti, ambientalisti, femministi, pacifisti - che, forse, non ne potevo più. Una manifestazione di piazza per me non è certo una novità come per Massimo Calearo. Ma la stanchezza non mi è sembrata motivo sufficiente.
Ho anche pensato, con una dose di autocritica e di amarezza, che si fosse spento in me lo spirito militante. Succede, può succedere. Ma dopo un serio esame di coscienza ho escluso anche questo. Mi arrabbio e mi indigno ogni giorno e più volte al giorno. Mi arrabbio quando leggo i giornali la mattina, quando l'Ocse mi comunica che siamo fra i paesi più diseguali del mondo, quando al mercato vedo le donne anziane comprare le uova già rotte per risparmiare qualche centesimo, quando leggo che la ministra Carfagna ritiene giusto eliminare dalle liste elettorali per le europee l'alternanza uomo donna, quando sento parlare di merito per gli statali e non per i banchieri che hanno dissipato enormi quantità di denaro della comunità.
E allora? Perché non protesto per tutto questo scendendo in piazza in una delle due manifestazioni organizzate dalla sinistra?
Mi ha illuminato il titolo dell'Unità il giorno della manifestazione del Pd era uguale, assolutamente identico a quello di Liberazione per la manifestazione dell'11 ottobre. A caratteri cubitali: CI SIAMO. Davvero bravi - ho pensato - Concita De Gregorio e Piero Sansonetti, hanno colto l'anima profonda di due cortei.
L'11 ottobre quel «ci siamo» si riferiva alla sinistra radicale, ai comunisti, che, scomparsi dal Parlamento, in piazza avevano cercato e confermato un'identità. Loro non erano scomparsi, c'erano ancora, con le bandiere rosse, i canti, la rabbia. Sabato scorso quel «ci siamo» si riferiva ai riformisti, uomini e donne del Pd, messi in questi mesi nell'angolo dalla sconfitta elettorale e da un governo prepotente e antidemocratico. Entrambe le manifestazioni erano fortemente identitarie. Dicevano che in questo paese ci sono i comunisti, c'è la sinistra, ci sono i riformisti. Ci «sono», appunto.
Ho appreso da alcuni amici, attenti osservatori di cui mi fido, e leggendo cronache dei giornali che avevano delle caratteristiche simili. Erano per lo più silenziose, quasi nessuno slogan, qualche canto - Bandiera rossa per la sinistra e i comunisti, Bella ciao per la manifestazione del Pd - la soddisfazione di esserci. Ho capito allora che esprimere un'identità per me è importante, ma non basta se non è accompagnata da un segnale di innovazione culturale e di proposta politica. Quelle due manifestazioni, per le quali pure ho provato un grande rispetto, e che ho sperato andassero bene, invece mi sono sembrate vecchie, stanche e ripetitive. Intanto per il fatto di essere due. Ha senso oggi, di fronte ad una globalizzazione che ha cambiato tutti i termini della politica e dell'economia, dividersi in rivoluzionari e riformisti, in radicali e moderati? Non appare evidente che quel che appariva rivoluzionario - l'intervento forte dello stato nell'economia, il superamento dei parametri di Maastricht, il ridimensionamento del potere delle banche, la critica al liberismo - comincia a far parte di un senso comune moderato e riformista?
Questa assenza di cultura e di nuova ricerca ha impedito la formazione di una proposta politica che, infatti, non c'era in nessuno dei due cortei. Lo dimostrava l'assenza di slogan (che invece abbondano nelle manifestazioni studentesche) e gli slogan - si sa - esprimono in modo sintetico, popolare e immediato ciò che si vuole, ciò che si vuole cambiare. Insomma ho capito perché non avevo avuto voglia di andare a una delle due manifestazioni o a entrambe. Mi è rimasto un po' di dispiacere, ma nessun senso di colpa.

Repubblica 28.10.08
Eutanasia per neonati, guerra a Firenze
An contro un convegno: quel medico olandese la pratica, non parli
Uno degli organizzatori: "Vogliamo solo sentire cosa ha da dirci"
di Michele Bocci


FIRENZE - No al convegno sull´eutanasia infantile. E soprattutto no all´arrivo del medico olandese noto per aver messo a punto un protocollo sulla «buona morte» per i neonati portatori di malattie incurabili e dolorosissime. Il parlamentare e coordinatore toscano di Alleanza Nazionale, Riccardo Migliori, si scaglia in un´interrogazione al presidente del Consiglio contro un incontro scientifico che si svolgerà giovedì e venerdì prossimi all´ospedale Meyer di Firenze, una delle strutture di avanguardia per la pediatria. «Vorrei sapere se il Comune e la Regione patrocinano un incontro del genere», attacca Migliori. Dall´ospedale rispondono che si tratta di un incontro scientifico, dove verrà discussa e forse aggiornata la cosiddetta Carta di Firenze, un documento a cui hanno lavorato trenta tra neonatologi ed esperti di bioetica e che tratta la rianimazione dei neonati prematuri. La linea di demarcazione è quella delle nascite dopo le 23 e le 24 settimane di gestazione. Per la Carta di Firenze in quei casi la rianimazione deve avvenire di comune accordo tra il neonatologo e i genitori. Prima di quel limite non ha mai senso farla, dopo va comunque affrontata perché quel bambino ha speranze di sopravvivere in condizioni di salute accettabili.
Migliori attacca la Carta dicendo che le tesi contenute sono state smentite dalla Società italiana di neonatologia e dal Consiglio superiore di sanità. L´affondo arriva però per la presenza «del medico olandese Eduard Verhagen, ideatore del protocollo di Groningen, contenente le linee guida per l´eutanasia dei bambini la cui futura qualità della vita sarà molto bassa e senza possibilità di miglioramento». La risposta a questa affermazione arriva da Giampaolo Donzelli, neonatologo che ha contribuito alla Carta ed organizza l´incontro. «Invitare un rappresentante della comunità scientifica internazionale per farsi esporre le sue tesi non vuol dire sposarle. Verhagen opera in un paese dove l´eutanasia è ammessa dalla legge, in casi specifici, e vogliamo sentire su cosa basa le sue convinzioni. Ha lavorato a lungo sulle cure di fine vita dei neonati terminali, cioè che nascono malati e sono condannati a morire rapidamente. Per lui assisterli cercando di evitare loro il massimo di sofferenze è come assistere in una analoga situazione qualsiasi altro malato, ad esempio un anziano. Inoltre per casi selezionatissimi, come l´ittiosi, una malattia dolorosissima che non dà scampo e uccide in pochi giorni, Verhagen pratica una forma di eutanasia. Noi non siamo d´accordo su questo: nella carta di Firenze c´è scritto che i firmatari sono completamente estranei da ogni forma di eutanasia pediatrica e neonatale. Non per questo rifiutiamo il confronto con la realtà olandese».
Al convegno parteciperanno vari rappresentanti delle università italiane e della Consulta di bioetica, tra cui il ginecologo Carlo Flamigni. L´intervento di Verhagen si intitola: «Perché decisioni di fine vita all´inizio della vita?». Regione Toscana e Comune di Firenze hanno dato il loro patrocinio.

Repubblica 28.10.08
In Sud Tirolo il rifugio delle SS in fuga
di Marco Ansaldo


Adolf Eichmann, l´architetto dell´Olocausto, si faceva chiamare «Riccardo Klement, nato a Bolzano, professione tecnico». Josef Mengele, l´ "Angelo della morte", il medico autore degli esperimenti sui detenuti ebrei, aveva assunto invece il nome di «Helmut Gregor, cittadino sudtirolese, professione meccanico». E anche Erich Priebke, il boia delle Fosse Ardeatine, si era dotato di documenti e identità nuove: «Otto Pape, lettone, direttore d´albergo», con doppia residenza, Roma e Bolzano.
Dopo la disfatta del Terzo Reich, i massimi dirigenti delle SS, e con loro migliaia di criminali nazisti, vennero salvati e ospitati in Sud Tirolo, regione germanofona, a quell´epoca dotata di un confine poroso e considerata quindi un nascondiglio perfetto, priva di spiccare il balzo con documenti nuovi verso il Sud America attraverso il porto di Genova. A procurare gli incartamenti falsi, e ad assicurare per settimane, talvolta per lunghi mesi, un rifugio sicuro, furono sovente sacerdoti compiacenti con il regime di Hitler. I prelati, dietro lo scudo della Pontificia commissione assistenza profughi creata da Pio XII nel 1944, prima ribattezzarono in chiesa i nazisti sotto nuovi nomi. Poi fecero assegnare loro documenti della Croce rossa, capaci di garantire l´espatrio dall´Italia, soprattutto verso l´Argentina, ma anche in Egitto o in Siria.
Le rivelazioni provengono da diverse carte ritrovate negli archivi di Bolzano, Merano e Bressanone, oltre che dai registri di molte parrocchie dell´Alto Adige e in alcuni fondi negli Stati Uniti. I documenti inediti sono stati portati alla luce da uno storico di Innsbruck, Gerald Steinacher, che per cinque anni ha lavorato sulle fonti dirette in Italia, Germania e America, pubblicando per l´editore StudienVerlag un corposo libro uscito in Svizzera e in Austria, intitolato "Nazis auf der Flucht" (Nazisti in fuga).
Nel dopoguerra, diversi dirigenti nazisti riuscirono a farla franca portando in salvo le proprie famiglie. E, assieme alla grande e genuina massa di profughi, scapparono anche una serie di personaggi legati al mondo del contrabbando, della prostituzione e dello spionaggio. Per costoro l´importante era assicurarsi una nuova esistenza. E il Sud Tirolo si rivelò in questo caso un territorio ideale.
Adolf Eichmann aveva vissuto in Germania, sotto falso nome, fino alla primavera del 1950. Era riuscito a risparmiare abbastanza denaro per la progettata fuga in Sud America. Nella cerchia delle SS era nota la sua possibile via di fuga attraverso l´Italia, e Genova costituiva per tutti, insieme con Trieste, una méta nevralgica prima del salto oltre Europa. Vestito in abiti di montagna, in testa un cappello tirolese col pennacchio, Eichmann passò il Brennero con l´aiuto di traghettatori di frontiera, che lo consegnarono una volta raggiunto il confine al parroco di Sterzing (Vipiteno) il quale lo confortò con del vino tirolese. Il suo prossimo rifugio fu un chiostro dei francescani nella provincia di Bolzano. A Merano ottenne infine documenti falsi, e a Genova, come mostrano i documenti pubblicati in questa pagina, gli venne consegnato in data 1 giugno 1950 il «permesso di libero sbarco».
Josef Mengele, dopo Auschwitz, lavorò in Baviera in un´azienda di materali agricoli. La domenica di Pasqua del 1949 scattò il suo piano per arrivare in Argentina, dove imperava Peròn e ben disposta verso la Germania. In Italia, Mengele giunse con l´aiuto di due passatori di Merano. Sotto falso nome, si fermò per quattro settimane all´hotel «Goldenes Kreuz» (Croce d´oro) di Sterzing, fino a quando non fu dotato di un´altra identità, come rivela il certificato N. 100501 del Comitato internazionale della Croce Rossa: «Helmut Gregor, nato a Termeno (Alto Adige), nazionalità italiana, professione meccanico, celibe, indirizzo via Vincenzo Ricci 3 Genova». Incredibile appare oggi il motivo della sua richiesta di viaggio: «Il richiedente è stato prigioniero di guerra - internato - deportato».
Erich Priebke, dopo la sconfitta dell´Asse già risultava residente con la famiglia a Sterzing nel 1943. Fu catturato a Bolzano dalle truppe americane nel maggio del 1945, portato ad Afragola e quindi a Rimini. Da lì fuggì, portandosi a Roma dove ebbe contatti con il superiore generale dei padri salvatoriani, Pancratius Pfeiffer, e da Bologna in treno riuscì a tornare a Sterzing sotto la nuova identità di Otto Pape, ottenuta con il rito del battesimo.
In molti casi infatti l´aiuto del Vaticano, al cui interno alcuni consideravano i nazisti come i salvatori dal bolscevismo, fu determinante. Dopo il "ribattesimo", pratica formalmente considerata illegale dalla Chiesa, e l´assegnazione di un nuovo nome, alle ex SS venivano consegnati documenti di espatrio da parte della Croce rossa, che non sempre operava controlli stretti e infine accettava gli incartamenti dotati di identità, dati di nascita, nazionalità e professione. Così accadde per Klaus Barbie, il capo della Gestapo di Lione, divenuto Klaus Altmann, cittadino rumeno. O per Franz Stangl, il boia di Treblinka, fatto «emigrare» in Argentina da «monsignor Luigi», il potente cardinale Alois Hudal.
Eichmann fu catturato infine dal Mossad in Argentina e impiccato nel 1962 dopo il processo in Israele. Mengele morì in Brasile nel 1979 per un ictus mentre nuotava in piscina. Priebke, oggi 94enne, dopo la cattura in Argentina e la condanna in Italia all´ergastolo, vive a Roma in regime di semilibertà. Molti furono i criminali di guerra ospitati nei conventi di Bressanone e Merano. Così come diversi capi ustascia croati trovarono rifugio a Roma, nel chiostro di S. Girolamo a via Tomacelli.

Corriere della Sera 28.10.08
Profili. Enzensberger con la vita del barone von Hammerstein racconta l'opposizione aristocratica al nazismo
I rampolli di sangue blu che sfidarono Hitler con la bandiera rossa
di Paola Capriolo


Discendente di un'antica casata aristocratica, squattrinato grand seigneur
con la passione della caccia, il barone Kurt von Hammerstein- Equord si trovò a rivestire la carica di capo di stato maggiore dell'esercito tedesco negli ultimi anni della repubblica di Weimar e all'inizio del dominio nazista, sino a quando, nel 1934, la sua netta e meditata ostilità al nuovo regime lo indusse a rassegnare le dimissioni («questa gente», confidò agli amici, «ha fatto di me, vecchio soldato, un antimilitarista»). Niente di apertamente eroico, in una simile scelta, e del resto lui stesso ebbe a dire di sé di essere «troppo pigro» per fare l'eroe; ma forse anche grazie a questa inveterata, leggendaria pigrizia, che egli giudicava addirittura una virtù in quanto consentiva a un uomo di pensare e di «tener sgombra la mente per le grandi decisioni», il generale von Hammerstein riuscì a mantenersi tenacemente sobrio in un periodo in cui la stragrande maggioranza dei tedeschi era vittima della più funesta ubriacatura politica e poté rappresentare sino alla sua morte, avvenuta nel '43, un punto di riferimento fondamentale per quella segreta opposizione al regime che avrebbe condotto al fallito attentato contro Hitler del 20 luglio 1944.
A questa figura, alla sua sommessa ma inflessibile «ostinazione» nel resistere al male, Hans Magnus Enzensberger dedica l'ultimo libro, apparso in Germania alcuni mesi fa e prontamente tradotto da Valentina Tortelli. Non si tratta di un romanzo, ma di un'opera interamente basata su dati storici, documenti d'archivio, testimonianze dei superstiti, secondo quella tecnica del montaggio di materiali con cui l'autore si conquistò la fama negli anni settanta.
L'unica concessione all'invenzione letteraria sono le «chiacchierate postume», che Enzensberger inserisce qua e là nel libro, con lo stesso Hammerstein e con i principali personaggi coinvolti nella sua vicenda (una via di mezzo tra la moderna intervista e il «dialogo dei morti» di lucianesca memoria), ma si tratta di una concessione così blanda, che non farebbe storcere il naso neppure a quanti negano in modo assoluto a un romanziere il diritto di aggiungere qualcosa di suo alla nuda realtà dei fatti. Davvero l'autore non cede mai, in nessun punto, alla tentazione del romanzo storico, preferendo dichiaratamente la «fotografia » alla «pittura», il rigore documentario all'arbitrio soggettivo, e vietandosi la benché minima immedesimazione con i vari personaggi. D'altra parte, il suo metodo è anche l'esatto opposto di quello tradizionale degli storici: qui infatti la prospettiva «a distanza» cede il campo alla cronaca quotidiana, e chi legge ha davvero l'impressione di assistere giorno per giorno al maturare degli eventi, con tutte le ambiguità, le incertezze, il contraddittorio intrecciarsi di destini collettivi e individuali che la cosa comporta.
Cogliamo così nella sua pienezza quello «scandalo della simultaneità » per cui, accanto agli eventi più terribili e quasi senza curarsi di essi, la vita dei singoli continua a mantenere una dimensione irriducibilmente «normale»; impariamo come la differenza tra un mascalzone e un uomo giusto a volte non passi per i grandi gesti, ma per la somma dei piccoli comportamenti; e impariamo anche a frequentare quasi da persone di casa quello sconcertante ambiente dei rampolli dell'aristocrazia tedesca che, prima e durante il nazismo, abbracciarono la causa comunista militando nelle file del partito clandestino e dedicandosi spesso a una vera e propria attività di spionaggio, protetti come da una «cappa magica» dalle loro origini e dalle loro frequentazioni mondane (tra le figlie del generale von Hammerstein, due su tre appartennero a questo ambiente). Gente che durante gli anni del regime conduceva un'avventurosa «doppia vita» dividendosi tra il ballo all'ambasciata e la riunione segreta in una soffitta, portando l'anello con lo stemma di famiglia e, a ogni buon conto, «la capsula di cianuro sotto la montatura d'oro».
Insomma, Sangue blu e bandiere rosse, come una di quelle risolute nobildonne, Ruth von Mayenburg, avrebbe felicemente intitolato la propria autobiografia. Poco o nulla, del fermento un po' ingenuo che agitava allora «la meglio gioventù» della Germania, sarebbe sopravvissuto da un lato alla persecuzione nazista, dall'altro alle purghe staliniane che colpirono circa il settanta per cento dei rifugiati tedeschi. Eppure la loro vicenda di creature anfibie, disinvoltamente oscillanti fra tradizioni signorili e credo rivoluzionario, che Enzensberger ci restituisce documenti alla mano in queste pagine, riesce ad affascinarci ancora oggi, come... sì, mi si perdoni: proprio come la lettura di un romanzo.

Repubblica 27.10.08
"Italia vittima della retorica così si affossa l'architettura"
Renzo Piano e lo stop di Alemanno: non dirò obbedisco
Bene i suggerimenti per migliorare l'opera. Ma se vogliono cose diverse chiamino un altro
Contesto che il mio progetto, come la Nuvola di Fuksas, non c'entri col fascino metafisico dell'area
di Curzio Maltese


CI RISIAMO. Ancora una volta un grande progetto di un architetto italiano celebrato nel mondo viene attaccato dalla politica e dai media al seguito. Gli esami in patria non finiscono mai per Renzo Piano, l´italiano forse più apprezzato all´estero, l´unico architetto chiamato a progettare oggi in cinque continenti. Stavolta a finire sul banco degli imputati è la "Casa di Vetro" dell´Eur, 170 mila metri cubi destinati a ospitare uffici, negozi e 400 famiglie fra la Nuvola di Fuksas e il laghetto. Sulla carta un progetto assai bello ed ecologico, trasparente, d´impatto minimo, con giardini e serre all´interno, percorsi pedonali. Ma al sindaco Alemanno non piace perché non sarebbe in sintonia stilistica con il quartiere. Tradotto: non somiglia abbastanza all´architettura fascista del quartiere voluto da Mussolini nel 1938. Dopo aver tentato di demolire l´Ara Pacis di Meyer e di annullare il contratto per il nuovo centro congressi, la Nuvola di Massimiliano Fuksas, per poi ripensarci ogni volta, il sindaco Alemanno stavolta sembra deciso ad andare fino in fondo. La fama locale di «architetto della sinistra» di Renzo Piano, meglio conosciuto nel resto del mondo come il più geniale vincitore del Nobel dell´architettura (premio Pritzker), aiuta la crociata del nuovo sindaco in giunta. E quindi ci risiamo con la vecchia storia del nessuno profeta in patria.
Architetto Piano, il sindaco Alemanno ha detto di volerla comunque incontrare per chiedere alcune modifiche al progetto. Lo incontrerà?
«Io incontro tutti, ci mancherebbe non lo facessi col sindaco di Roma. Ascoltare si deve, obbedire no. Il progetto a me piace così, se ci sono suggerimenti per migliorarlo ancora ben vengano. Ma se vogliono una cosa completamente diversa, diciamo in linea con la retorica del luogo, allora possono chiamare un altro».
Insomma, un conto è modificare, altro è mettersi a copiare lo stile di Piacentini, con colate di travertino e magari la scritta «Dux».
«Appunto. Contesto che il progetto, come del resto la bellissima Nuvola di Fuksas, non c´entri nulla con l´Eur. Un quartiere con un fascino metafisico che suggestionava De Chirico e Fellini. La bellezza dell´Eur non è soltanto il travertino, che certo gli dà ordine e unità stilistica. E´ l´ambiente, la luce favolosa, il contrasto fra il bianco dei palazzi, l´azzurro del cielo, il verde degli alberi. Per questo ho progettato una casa trasparente, per riflettere, allargare questa luce. E´ un edificio sostenibile, pieno di verde, dove credo che le quattrocento famiglie vivrebbero bene. Il resto m´interessa pochino».
Non è un film già visto? L´Auditorium di Roma è stato probabilmente l´opera pubblica più contestata dal dopoguerra. Hanno scritto per cinque anni che era un progetto sbagliato, avulso dal quartiere, insensato, inutile, non ci sarebbe andato mai nessuno. Ora è il primo Auditorium d´Europa per presenze, il principale ritrovo dei giovani romani. Sarebbe impensabile la vita cittadina senza l´Auditorium
«Se ho un vanto nella vita è d´aver costruito luoghi vivi, che piacciono alla gente. Dal Beaubourg di Parigi a Marlene Dietrich Platz a Berlino, fino all´Auditorium. Il progetto dell´Eur nasce per questo, per dare vita a un quartiere che muore alle sei di sera».
Non è neanche soltanto una faccenda politica. A Torino è stata la sinistra a ribellarsi al suo progetto di nuova sede della San Paolo, qui la destra a insorgere contro la casa di vetro.
«A Torino mi hanno accusato perché sto costruendo una torre, qui perché ne butto giù due, l´ex sede del ministero delle Finanze, per costruire in orizzontale. Ma diciamo la verità, l´oggetto del contendere in Italia conta poco, è un mero pretesto ideologico. La verità è che il paese ha paura di qualsiasi novità. Nel mio campo c´è una fobia dell´architettura contemporanea che non vedo in nessun´altra parte del mondo».
Se non conta la politica, che cosa conta in queste polemiche?
«La retorica, il grande sport nazionale della retorica. Di destra, di sinistra. Ma la retorica è la tomba di tutto, dell´architettura come di ogni altra attività. Quando poi si sposa alla nostalgia, come in questo caso, siamo alla necrofilia. Il vero problema del mio progetto, come di quello di Fuksas, è che sono antiretorici. Una qualità che in Italia non è di moda».
Su un punto però il sindaco Alemanno non ha torto. In Italia si fa una grande politica degli annunci, non solo da parte del governo. I sindaci di sinistra fanno grandi feste e conferenze, in genere alla vigilia elettorale, per presentare opere pubbliche e lì spesso si esaurisce tutto. La Nuvola di Fuksas è stata presentata nel 2001 e aspettiamo ancora la prima pietra. Poi il sindaco cambia e non è detto che debba approvare tutto quanto deciso dai precedessori.
«Questa è una vera ed è una trappola alla quale, per quanto posso, cerco di sottrarmi. In Francia o in Inghilterra non si fanno annunci, si lavora. A San Francisco la festa per il museo della scienza l´hanno fatta all´inaugurazione, non alla presentazione del progetto. Ma è anche vero che l´architettura chiede tempo. A Lione ho lavorato per vent´anni alla nuova città internazionale, un´opera gigantesca, e ho visto passare cinque sindaci diversi, di sinistra e di destra. Nessuno ha pensato di dover annullare il lavoro del predecessore. La popolazione si sarebbe ribellata. Soltanto da noi il gioco al massacro paga in termini di consenso».
Questa storia delle continue polemiche contro i grandi architetti non sarà anche una bella furbata per nascondere altri affari? Siamo il paese con la più galoppante delle speculazioni edilizie. Negli ultimi 15 anni, ha scritto Carlo Petrini, in Italia sono stati cementificati 3 milioni di ettari, l´intera superficie dell´Abruzzo. Soltanto a Roma, con le giunte di sinistra, sono spariti 127 mila ettari di terreni agricoli e Alemanno ha appena lanciato un appello per acquistare nuovi terreni, in pratica si sta asfaltando l´intero Agro Romano. In questa colata di cemento, non è paradossale che facciano scandalo soltanto i progetti di qualità, i suoi o quelli di Fuksas, Calatrava, Foster, Isozaki?
«Questo è il punto. Sorgono intere città nel silenzio, soprattutto nelle periferie delle grandi città, Roma compresa. Quartieri dormitorio che non scandalizzano nessuno. I riflettori seguono soltanto la firma celebre. Da anni sostengo che le città italiane, prima che di grandi progetti, hanno bisogno di ricucire il tessuto urbano con centinaia di piccoli interventi. Bisogno di difendere l´ambiente, di ripensare l´architettura in maniera sostenibile. Abbiamo lanciato appelli, non si è visto nessuno. I sindaci ci chiamano soltanto per affidarci un progetto o per ritirare l´offerta. Per il resto, si affidano a pessimi consiglieri».

il Riformista 28.10.08
Revival. In Germania un alto prelato pubblica il suo «capitale»
Sono tutti pazzi per Karl, anche monsignor Marx
Cattocomunismi. Contrordine, fedeli! Un arcivescovo chiede di riabilitare il padre del comunismo dalla lunga condanna. Porta il suo stesso cognome, ed è il successore di Ratzinger in Baviera.
di Jansenius


Forse non tutti ricordano il famoso slogan di Guareschi sul Candido: «Contrordine compagni…». Mi è venuto in mente leggendo l'intervista rilasciata a Der Spiegel dall'arcivescovo di Freising-München, in Baviera, e cioè il successore di Papa Ratzinger, sull'altro Marx, il filosofo ed economista, padre del comunismo.
Solo che lo slogan deve essere adattato alle circostanze e dovrebbe suonare così: «Contrordine, fedeli cattolici!». Le parole pronunciate da Papa Pio XI e da Papa Pio XII: «Marx sia condannato!», devono essere intese come: «Marx sia beatificato!». E così il buon Carlo Marx entra grazie all'altro Marx, l'arcivescovo di Freising-München, nel pantheon dei maestri della dottrina sociale cattolica. E l'arcivescovo Marx condanna chi… ha condannato l'altro Marx e gli chiede scusa: «Bisogna chiedere scusa a Marx per averlo spedito nel dimenticatoio».
E poi va anche oltre e afferma: «Bisogna prenderlo sul serio, è un errore considerarlo morto, come pensano in molti. Il movimento marxista ha cause reali e pone questioni giustificate. Poggiamo tutti sulle spalle di Marx, perché aveva ragione. Nella sua analisi della situazione del XIX secolo ci sono punti inconfutabili. L'etica sociale della Chiesa non ha mai confuso l'opera filosofica di Marx con Stalin e i gulag».
Occorre quindi revocare la condanna pronunciata da due Papi contro il marxismo, quello di Carl Marx, non del suo epigono arcivescovo di Freising-München. E prendere sul serio quello che l'arcivescovo bavarese proclama, mi si scusi la ripetizione: «Il movimento marxista ha cause reali e pone questioni giustificate. Poggiamo tutti sulle spalle di Marx, perché aveva ragione. Nella sua analisi della situazione del XIX secolo ci sono punti inconfutabili. L'etica sociale della Chiesa non ha mai confuso l'opera filosofica di Marx con Stalin e i gulag».
E chi mai ha confuso l'insegnamento di Marx con Stalin e i gulag? In Italia, salvo forse Palmiro Togliatti, nessun comunista, io credo. E lasciamo stare Windhorst, mons. Kettler, Giuseppe Toniolo, Luigi Sturzo, la scuola di Malines e simili baggianate: occorre dire forte e chiaro, anche dal pulpito delle cattedrali, almeno di quelle tedesche: «Nella sua analisi del capitalismo Carlo Marx aveva visto giusto».
E occorre riabilitare i fondatori e gli ispiratori del movimento dei cattolici comunisti: da Felice Balbo a Franco Rodano, molto più indietro di Marx, l'arcivescovo di Freising-München, nel giudicare Marx, l'altro, poiché di quest'ultimo accettavano non la concezione filosofica della dialettica, ma solo il marxismo storico, come uno dei canoni, anche se per loro loro il più importante, di interpretazione della storia.
Attendiamo ora un'altra intervista di Marx, non il filosofo ed economista, ma l'altro, l'arcivescovo di Freising-München, al News di Die Linke, il partito della sinistra tedesca, quello che a parere del Marx, l'arcivescovo di Freising-München, non l'altro meno famoso Marx Carlo, erede del glorioso partito Sozialistische Einheit Deutschland, il partito egemone della sempre più gloriosa Repubblica Democratica Tedesca, e ricordata con rimpianto da Marx, non il filosofo ed economista, ma l'altro, l'arcivescovo di Freising-Monaco, partito che ad avviso di Marx, non il filosofo ed economista, ma l'altro, l'arcivescovo di Freising-München, deve sostituire la CDU e la CSU, considerati partiti della borghesia capitalista da Marx, l'arcivescovo di Freising-München, non l'altro chiamato Carlo.
L'intervista avrà come tema: «La lotta di classe nella Chiesa e nel mondo, come motore della evangelizzazione del popolo di Dio: un nuovo dogma per la Chiesa del XXI secolo».
E chissà che un giorno Marx, non certo il filosofo e l'economista, ma l'altro, l'arcivescovo di Freising-München, ricordando che proprio a Monaco di Baviera Adolf Hitler tentò di prendere il potere con un memorabile putsch, non ci inviti a non confondere il pensiero di Adolf Hitler nel suo Mein Kampf con i campi di sterminio…
Perché grande è il pensiero di Marx, non il filosofo e l'economista, ma l'altro, l'arcivescovo di Freising-München. E noi, poveri fedeli della Diocesi di Roma aspettiamo l'ulteriore insegnamento di Marx, non il filosofo e l'economista, ma l'altro, l'arcivescovo di Freising-München.

il Riformista 28.10.08
Il Capitale risorge sull'altare
di Guido Vitiello


L'editore Pattloch ha annunciato il suo prossimo libro, la cui uscita è prevista per i primi di novembre. Si intitola "Das Kapital", e il suo autore è un certo Marx.
Chi a questo punto è colto da una sottile impressione di déjà-vu, farà bene a ricordare la regola aurea del "Diciotto brumaio di Luigi Bonaparte": la storia si ripete due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa. E se parlare di farsa può suonare fuori luogo, c'è senz'altro una buona dose di umorismo - degno di un altro Marx ancora, Groucho - nella scelta dell'arcivescovo di Freising-München, Reinhard Marx, di intitolare il suo libro come il capolavoro dell'illustre omonimo.
Questo nuovo "Capitale" sarà decisamente meno imponente (320 pagine contro i quattro tomi dell'originale) ma il punto di partenza è lo stesso. Secondo l'arcivescovo, si legge nella scheda di presentazione del volume, in tempi di globalizzazione economica le domande sollevate dal filosofo di Treviri tornano attuali: «Il capitale è al servizio dell'uomo o è piuttosto l'uomo al servizio del capitale?».
L'autore, che precisa che «con Karl Marx condivide il cognome, ma non la visione complessiva del mondo», pensa che il capitalismo vada rifondato su basi umanistiche: «La globalizzazione dei mercati dev'essere completata da una globalizzazione della solidarietà e della giustizia». Così come per le relazioni tra gli Stati-nazione, «abbiamo bisogno di una regolamentazione globale dei flussi finanziari, dei diritti dei lavoratori e delle condotte economiche».
Perché un capitalismo «senza umanità, solidarietà e giustizia non ha morale e non ha futuro».
Idee non originalissime, come spesso accade per i remake e i sequel. E difficilmente il secondo "Capitale" susciterà lo scalpore del primo...

il Riformista 28.10.08
In un film la Bibbia dei "rossi"
di G.V.


Sembrerebbe, sulla carta, un'impresa impossibile. L'idea di portare sul grande schermo il Capitale di Marx balenò a Sergej Eisenstein sul finire degli anni Venti a Parigi, durante un colloquio con James Joyce. Poi, per tante ragioni, il regista sovietico fu costretto ad accantonare il progetto. Ma al di là degli ostacoli pratici che è facile intuire - il disinteresse dei produttori francesi e americani, le diffidenze ideologiche che Mosca cominciava a covare nei suoi confronti - è l'operazione in sé che può apparirci concettualmente impossibile, se non insensata. Eisenstein voleva trattare il Capitale alla stregua di un libretto d'opera, si legge nei suoi appunti. Ma come tradurre in storie, personaggi e immagini un austero trattato filosofico-economico? Come "illustrare" nozioni come il plus-valore, l'alienazione o il valore di scambio senza incappare in un didascalismo soporifero, come quello che promana, per esempio, dal film che Guy Debord trasse da La società dello spettacolo?
Quasi ottant'anni dopo, qualcuno ha raccolto la sfida di Eisenstein. Ed è l'unico, forse, che aveva tutti i titoli per farlo. È Alexander Kluge, uno dei padri del Nuovo cinema tedesco, che da decenni conduce le sue sperimentazioni formali su quello strano "ircocervo" che è il film-saggio, e che con Die Patriotin ha firmato uno dei capolavori di questo elusivo genere. A metà novembre l'editore Suhrkamp di Francoforte pubblicherà Das Kapital, in tre dvd e un libro. La durata "monstre" non manca di rievocare il gigantismo del cinema delle origini - quasi dieci ore, pressapoco quanto la versione originaria di Greed di Eric von Stroheim. In questo tempo interminabile Kluge - cineasta-intellettuale allevato alla scuola della "teoria critica" francofortese, sotto la guida di Theodor Adorno - ha allestito, come suo solito, un'architettura complessa e labirintica. Dove convivono e s'intrecciano colloqui con intellettuali come Peter Sloterdijk e Hans Magnus Enzensberger, montaggi di materiali audiovisivi della provenienza più varia, riprese originali. Più che una "ricostruzione" filologica di quella che avrebbe dovuto essere l'opera di Eisenstein, cosa impossibile, il film vuole intessere un dialogo con l'autore di "Ottobre" e i suoi anni. Diversi dai nostri, certo, ma anche simili: quando il regista partorisce l'idea del Capitale siamo nel 1929. Oggi Kluge considera Marx il poeta della nostra crisi: «Eisenstein vedeva in Marx un artista», confida in una lunga intervista alla Frankfurter Allgemeine Zeitung «e lo stesso Marx parlava della sua opera come di una "costruzione artistica". Devo confessarglielo, trovo Marx estremamente interessante come poeta. Come economista mi interessa di meno».