venerdì 31 ottobre 2008

Repubblica 31.10.08
Scuola, le piazze della protesta Roma paralizzata: siamo un milione
Assedio al ministero, cortei in tutte le città: "Il Paese è insorto"
di Mario Reggio


ROMA - «Il Paese è in rivolta». Guglielmo Epifani prende la parola dal palco di piazza del Popolo e un boato si leva dalla folla stipata là sotto, sul balcone del Pincio, e lungo i tornanti che calano da villa Borghese. «Cari compagni e compagne - esordisce - questa è una giornata memorabile non solo per la scuola, ma per la democrazia e per i giovani». I cinque sindacati della scuola hanno portato in piazza a Roma centinaia di migliaia di persone. Un milione secondo gli organizzatori. E mentre piazza del Popolo non riusciva più a contenere i cortei che arrivavano da tutte le strade, decine di migliaia di giovani dei collettivi universitari e i ricercatori precari circondavano il ministero della Pubblica Istruzione in viale Trastevere. Nel pomeriggio il ministero ha diffuso i dati sulle adesioni allo sciopero: il 57 per cento del personale ha incrociato le braccia. Secondo le organizzazioni sindacali l´adesione ha sfiorato l´80 per cento del personale ed il 90 per cento delle scuole non ha aperto i cancelli. Ma lo sciopero e la protesta hanno segnato tutte le grandi città: genitori, bambini, studenti delle superiori, universitari e ricercatori, professori e non docenti hanno marciato in corteo da Milano a Bologna, da Napoli a Bari. E poi Torino, Firenze, Genova, Catanzaro, Palermo e Catania. Una moltitudine umana che ha urlato no ai tagli alla scuola, al maestro unico, al blocco del turn over all´università e alla sforbiciata di un miliardo e mezzo in tre anni ai bilanci degli atenei. Tutto per coprire il deficit del bilancio statale, l´abolizione dell´Ici e l´affaire Alitalia. E in piazza del Popolo? «Una manifestazione mai vista - ha affermato Guglielmo Epifani - la prossima volta dovremo scegliere una piazza più grande. Il governo avrebbe fatto meglio a dire: abbiamo bisogno di soldi e tagliamo scuola e università, anziché camuffare l´operazione come se fosse una riforma. E ai giovani dico: grazie di essere qui in tanti, non permetteremo che le vostre proteste vengano messe in dubbio da chi ha cattivi pensieri. Dobbiamo essere uniti, la maggioranza del Paese comincia a capire». L´invito all´unità è raccolto da Raffaele Bonanni, leader della Cisl: «La scuola ci unisce e sarà l´unità della scuola a salvarla. Le scelte del futuro si devono fare con la gente: non si discute della scuola del popolo come se si fosse in un consiglio d´amministrazione». È passata da poco l´una. Ma piazza del Popolo non si svuota. Stanno arrivando i cortei bloccati alla Magliana, a piazza Esedra e sul Raccordo Anulare. La città è un brulicare di bandiere e striscioni. E nel pomeriggio per il ministro Gelmini l´ultima doccia fredda. Vasco Errani, presidente della Conferenza dei governatori annuncia: «Le iscrizioni scolastiche si apriranno a gennaio del 2009 e non ci sono le condizioni per predisporre il piano di riordino degli istituti scolastici entro il 30 novembre 2008 come ha deciso il governo. Abbiamo già respinto le decisione di mandare un commissario nelle Regioni che non rispettano la scadenza - afferma - chiediamo un incontro con il governo per discutere della chiusura della scuole di montagna con meno di 50 studenti nelle aree svantaggiate e di montagna. E per sapere di pagherà i costi di questa scelta». Il maestro unico rischia di diventare una pia illusione del governo.

Repubblica 31.10.08
Il giorno della verità dei fratelli d´Italia
di Giuseppe D’Avanzo


"Quella di cui parla il premier non è la vera scuola. Siamo qui a difenderla"
Guardando la gente che sfila si comprende che Berlusconi ha fatto il suo primo errore
Una generazione disegnata come apatica sembra aver riscoperto la politica

CHISSENEFREGA della solita conta, un milione e mezzo, un milione, ottocentomila o fate voi. Roma è per intera paralizzata. E´ impossibile anche entrare in città. Decine di pullman sono "spiaggiati", come balene, sul Grande Raccordo e, nell´impossibilità di raggiungere il centro storico, migliaia di persone se ne vanno in processione, allegre e rumorose, là dove sono: lungo l´anello autostradale, alla Magliana. In centro, chi si è mosso da piazza della Repubblica scende dal Pincio verso piazza del Popolo che il serpente � quieto e colorato di palloncini blu e giallo e rosso � ha ancora la coda nella posta di partenza. Chi con realismo dispera di arrivarci, in piazza del Popolo, cambia strada. La protesta si frantuma e si disperde dilatandosi là dove trova spazio e strade libere da affollare. I cortei diventano tre e si muovono in direzioni diverse, gli universitari e gli studenti dei licei venuti dalla Sapienza e da molte città del Mezzogiorno se ne vanno verso Trastevere e circondano il ministero della Gelmini e le gridano: «Mariastella, arrenditi. Sei circondata!»
Quanti saranno? Importa davvero a qualcuno, se non al governo imbarazzato («poche migliaia di persone»), avere un numero? E´ il giorno della realtà, questo, quale che siano i numeri. E´ il giorno della robusta e ostinatissima realtà.
È il giorno della concretezza della vita quotidiana di studenti e insegnanti, delle compromesse speranze di futuro dei più giovani e delle loro famiglie. È il giorno della tangibilità di una sdegnata rabbia per il presente che – con la voce e il corpo di centinaia di migliaia di uomini e donne, ragazze e ragazzi che nella scuola e nelle università ci vivono, ci lavorano, ci studiano, ci sperano – mette finalmente in un canto, per un´intera mattinata, le formule vuote e le verità rovesciate che avvelenano il discorso pubblico.
Dice un´insegnante in piazza della Repubblica – non sono ancora le nove, la pioggia è intensa e tutti sono già zuppi d´acqua e non se ne curano –: «È come se mi avessero messo davanti allo specchio. Io ho i capelli neri e loro mi dicono che sono biondi. Li ho corti e quelli dicono che ho i capelli lunghi. Dicono che sono strabica, incartapecorita dagli anni e sdentata e invece io so di essere giovane con gli occhi e i denti giusti. Dicono che sono depressa e io invece so di essere energica e decisa. Quel che dicono di me, non mi racconta, non mi descrive. Quella non sono io. Questa non è la scuola che abito e conosco. Hanno bisogno di trasfigurarla per poterla distruggere in silenzio e nel disinteresse dei più. Ecco perché sono qui. Sono qui perché non voglio vedere distrutta la scuola pubblica che è la mia scuola e la scuola di tutti. Vorrei fare io una domanda a tutti: chi ne parla, conosce davvero la scuola?».
* * *
È un leit motiv: davvero conoscete la scuola, signori? Davvero la conosce il governo? Di quale scuola parlano, parlate? Di quella che ogni giorno, con i suoi ritardi e le sue eccellenze, con i suoi sacrifici e pigrizie, con i suoi piccoli sconosciuti eroismi, apre i battenti? O di quella che immaginano o lasciano immaginare per poterla schiacciare? Sono domande – spiegano in una singolare coincidenza di opinioni, studenti e professori, bidelli e maestri, sindacalisti e ricercatori – che impongono di chiamare le cose con il loro nome, finalmente.
Così, anche se negli slogan Mariastella Gelmini è protagonista e trasfigurata in santa, «Santa Ignoranza», nei colloqui, nei capannelli, nelle discussioni che si accendono qui e lì il decreto diventato ormai legge dello Stato non ha una madre, ma soltanto un padre: Giulio Tremonti.
Dice uno: «La Gelmini, di suo, avrebbe dovuto proporre un disegno, un progetto educativo, un documento da discutere, un percorso riformatore per passare dalle criticità di oggi – che ci sono e non trascurabili – a un assetto più soddisfacente nel futuro. Non lo ha fatto. La sua è una presenza muta. È una comparsa. Il primattore è l´altro, è Tremonti. Suoi sono i tagli e questa riforma – che è una falsa riforma – non è altro che tagli al personale docente, amministrativo e tecnico; risparmi per il bilancio dello Stato; riduzione dell´orario scolastico e fine del tempo pieno; tagli al Fondo di finanziamento delle università e trasformazione degli Atenei in Fondazione private. Noi abbiamo bisogno di più riforma e invece ci danno meno risorse e nessuna riforma».
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È il giorno della realtà, questo. Non è il giorno dei «grembiulini», del «cinque in condotta», del maestro che da «unico» diventa per magia, per conformismo e obbedienza dei media, «prevalente». In una parola non è il giorno dei codici comunicativi e vuoti che, con sapienza, Berlusconi ha messo in campo per nasconderla e manipolarla, la realtà.
L´«avviso ai naviganti» del mago di Arcore puntava ad accendere il solito dispositivo, a innescare un riconoscimento identitario della società con la sua leadership, a indicare un ostacolo da rimuovere: i «fannulloni», gli «ignoranti», il «potere dei sindacati», gli «insegnanti pagati troppo per quel che fanno e danno», una scuola che è soprattutto o forse soltanto «spreco».
In una parola, un´«infezione» che minaccia la salute del Paese. La protesta contro la riforma della scuola – suggeriva il premier – compromette il diritto allo studio. Pregiudica il futuro dell´educazione che invece la riforma assicura. Le proteste danneggiano la formazione dei più operosi. Quindi, la loro stessa libertà.
Berlusconi ha voluto indicare alla sua gente – «la maggioranza silenziosa» come va dicendo la Gelmini – un terreno di conflitto, quasi una chiamata alle armi, un nuovo ambito di ostilità di un´Italia: la sua Italia, contro l´altra che non lo ama o che vuole giudicarlo senza pregiudizio per quel che fa. Non ha esitato a minacciare l´arrivo dei Reparti Celere nelle scuole e università «okkupate» perché sempre un «diritto di polizia» si affaccia quando «lo Stato non è più in grado si garantirsi gli scopi empirici che intende raggiungere ad ogni costo».
A quanto pare, se si guarda questa piazza e queste vie, Berlusconi per una volta ha sbagliato i suoi calcoli. Clamorosamente. Per la prima volta, in questa legislatura. Come dicono lungo via Sistina, «il governo è riuscito nel miracolo di mettere insieme tutte le sigle sindacali», che solitamente intrattengono tra di loro i rapporti che il cane ha con il gatto.
Ha consentito a un´intera generazione, distratta, disillusa, spettatore passivo distante dal luogo comune, di scoprire che la politica non è appartenenza a un partito o a un gruppo, a una fazione o a un´ideologia, ma che è politica soltanto la volontà di opporsi e resistere a un progetto di ordine sociale che esplicitamente rinuncia a una concezione dello Stato «garante legale dell´eguaglianza» per disegnare esclusioni e differenze, creare privilegi e divisioni.
Non c´è chi in questo corteo, che ora affolla piazza del Popolo e via Ripetta e via del Babuino fino a piazza Augusto Imperatore e piazza di Spagna, non abbia letto il decreto e toccato con mano che «i grembiulini» sono soltanto polvere negli occhi che acceca. Lo studente universitario ti spiega pignolissimo come «il Fondo di finanziamento ordinario delle università viene progressivamente ridotto di 63,5 milioni per il 2009, di 190 milioni per il 2010, di 316 milioni nel 2011, di 417 milioni per il 2012 e di 455 a partire dal 2013, un risultato che si otterrà vietando di assumere personale oltre il 20 per cento dei pensionamenti dell´anno precedente. Una morta lenta che ucciderà tutti, i buoni e i cattivi senza alcun discernimento: chi ha disperso le sue risorse e chi le ha utilizzate al meglio; chi ha valorizzato il merito e chi ha inaugurato un insegnamento inutile per dare una cattedra all´amante o al figlio. Dicono: quel che non darà più lo Stato lo forniranno le Fondazioni, ma quali, ma come? Il governo non lo dice perché o non lo sa o non può dire che vuole un´università privatizzata».
È la trama della realtà che fa capolino. È il suo giorno. Per una volta, la «comunicazione» può attendere. I trucchi non funzionano. Quell´indifferenziazione tra reale e fittizio che sempre Berlusconi riesce a costruire appare sgonfia come una ruota bucata. La gente che è qui, che ancora non riesce a raggiungere piazza del Popolo, sembra che ancora riesca a distinguere ciò che accade davvero da quel che la politica e i suo cantori raccontano.
Madri di famiglia ti spiegano come cambierà concretamente la loro vita e la vita del figlio con la fine del «tempo pieno», con il «maestro unico» e l´orario settimanale di ventiquattro ore. «Che cosa è più educativo la strada, la televisione o la scuola?», chiedono.
La realtà. Ha il fiato corto Berlusconi quando si lamenta della «scandalosa capacità di mentire su cose di buonsenso» o quando nega che ci siano tagli. Qui se ne vanno in giro con nella borsa o in tasca il decreto e, sollecitati, sono pronti a squadernartelo sotto gli occhi. «I docenti a tempo determinato che voleranno via come stracci saranno 87.341 in tre anni. Nel 2009/10, 42.105; 25.560 nel 2010/11; 19. 676 nel 2011/2012. Questo per gli insegnanti. Per il personale amministrativo, tecnico e ausiliario sono previsti 42.500 posto in meno, il 17 per cento in meno. Come si fa a dire che non ci sono tagli?».
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In piazza del Popolo, un´orchestrina intona l´inno di Mameli. È bizzarro, e di certo non consueto, che prima sottovoce, poi con sempre maggiore forza e convinzione, quel canto dilaghi in ogni angolo della piazza. A pensarci meglio, non è fuori posto «Fratelli d´Italia». Anzi, quel canto appare coerente. Forse può essere addirittura il senso della giornata. Le persone che sono qui, quale che sia il loro numero, sembrano sapere che è in gioco «un´idea di Italia» a cui non vogliono rinunciare. Sanno che «la scuola pubblica, la scuola di tutti», quell´idea la custodisce. Anche con i suoi deficit.

Repubblica Roma 31.10.08
Guarini: "La riforma Gelmini taglierà 113 milioni alla Sapienza"
L’addio dell´ex rettore Guarini: riforma assurda
L’ex rettore "Decisione lesive dell´autonomia e del ruolo delle università"
di Carlo Alberto Bucci


Il vecchio matematico napoletano torna ai suoi studi di statistica economica. Ma, prima di lasciare il rettorato che ha tenuto per quattro, lunghi anni, Renato Guarini fa i conti esatti sulle perdite che il suo ateneo patirà nell´immediato futuro. «Per la Sapienza - ha sottolineato il Magnifico nel discorso di addio - ci saranno tagli pari a 5 milioni di euro nel 2009, 15 milioni nel 2010, 25 nel 2011, 33 nel 2012, e 35 nel 2013». Totale, 113 milioni in meno. In un badget (finora di circa 1 miliardo di euro l´anno, la metà coperta dallo Stato con il Fondo di finanziamento ordinario mentre un 10 per cento è assicurato dalle tasse degli studenti) che verrà alleggerito di un quinto nei prossimi cinque anni. E questo in un «ateneo sottofinanziato già prima dei tagli estivi».
Il conto del ragioniere Guarini l´ha fatto ieri mattina in Aula magna, mentre la città veniva attraversata dell´imponente manifestazione contro la legge Gelmini. Un movimento, quello dell´"Onda anomala", che il Magnifico ha appoggiato e accompagnato con le parole della sua relazione di fine mandato, riepilogo di 11 anni (del 1997 è la nomina a vice) di gestione dell´ateneo più grande d´Europa: «Coloro che di volta in volta si alternano nella gestione del potere, sembrano tenere in considerazione il lavoro delle università solo per l´utilità che possono ricavarne». Critiche quindi anche al governo di centrosinistra. Poi l´affondo sul presente: «La più recente conferma di questo atteggiamento del decisore politico, è rappresentata da alcuni articoli della manovra finanziaria, la legge 133, varata nella scorsa estate, che prevede tagli indiscriminati dei finanziamenti, lesivi dell´autonomia, del ruolo e della missione delle università pubbliche».
La cerimonia è iniziata con le note dell´orchestra di musica classica composta da studenti, docenti e impiegata. E, prima dell´epilogo a sorpresa con la cantante della jazz band della Sapienza che ha intonato il celebre motivo di Mina ("Renato, Renato, Renato, così carino ...."), Guarini ha sintetizzato in venti minuti la voluminosa relazione (130 pagine date alle stampe) su «questi quattro anni positivi». Sono stati destinati «24 milioni di euro alla ricerca e mantenuti invariati i finanziamenti alle attività prioritarie, nonostante la manovra estiva del governo che ha sottofinanziato la Sapienza». Inoltre, «abbiamo realizzato tremila nuovi posti banco, riordinato la didattica, avviato ampliamenti edilizi». La Sapienza si è estesa per 40mila metri quadri (dall´ex scuola Silvio Pellico alla vetreria Sciarra). Ed è in attesa che sia inaugurato il parcheggio sotterraneo che permetterà di pedonalizzare la città universitaria.
Il 500esimo, ultimo discorso da rettore di Guarini, che, a 76 anni, ricoprirà il ruolo di presidente della Fondazione Sapienza, è stato salutato dal successore Luigi Frati («noi lo ringraziamo tutti, purtroppo la Sapienza vive un momento difficile ma vi assicuro che i tradizionali valori dell´università non cambieranno»). E sottoscritto dal presidente della Provincia, Nicola Zingaretti: «Le parole del rettore Guarini sugli effetti che il decreto Gelmini avrà sulla Sapienza con un taglio di 113 milioni di euro, chiariscono ulteriormente la grande importanza che le mobilitazioni di questi giorni messe in atto da studenti, docenti e genitori hanno per il nostro Paese».

Repubblica 31.10.08
Il paradosso dell'opposizione
di Nadia Urbinati


Il paradosso che attanaglia e quasi immobilizza l´opposizione politica è quello di dover giustificare al paese di esistere, e soprattutto di esistere anche fuori del Parlamento.
Da questo paradosso ne spunta immancabilmente un altro, quello di pensare (anche a sinistra) che le manifestazioni di dissenso che i cittadini mettono in atto direttamente siano un fatto eccezionale che abbia anch´esso bisogno di giustificazione. Sembra che non ci si renda conto che in una democrazia costituzionale l´opposizione non è un ospite, ma un co-gestore della casa comune. Come la maggioranza politica ha i propri strumenti � quelli del potere positivo di fare le leggi, dopo (è sperabile) il confronto con l´opposizione, così l´opposizione ha e può avvalersi di tutti gli strumenti che la costituzione le garantisce per far sentire la propria voce, criticare il lavoro del governo e, possibilmente, bloccarlo. L´azione di protesta e di bloccaggio è altrettanto sacrosanta di quella del governo.
Per esempio: la distruzione sistematica della nostra scuola dell´obbligo è un fatto così rilevante e grave che l´opposizione ha il dovere di fare quanto è in suo potere per bloccarla. Non lo fa per se stessa ma per l´intero Paese. E se non è il partito di opposizione che si prende carico di fare questo lavoro di bloccaggio, allora saranno i cittadini. Poiché è chiaro che eleggendo i rappresentanti perché facciano le leggi ordinarie noi non deleghiamo mai il potere di giudicare; ce lo teniamo e lo usiamo per influenzare indirettamente il parlamento e il governo. L´opposizione che il ministro Gelmini è riuscita a costruire (poiché la rivolta contro la sua rovinosa proposta di riforma non è partita dal Pd ma da chi è direttamente toccato dalla distruzione della scuola pubblica: insegnanti, genitori e studenti) è un segno straordinario della vivacità della società democratica, la quale non ha bisogno di chiedere il permesso di far sentire la propria voce, ma la usa perché questo fa parte del potere dei cittadini sovrani.
Il linguaggio dell´opposizione ha uno stile necessariamente complesso e composito: quello della caparbia attività parlamentare, quello della denuncia sui mezzi di informazione (ma come è possibile se la maggioranza ha il monopolio dei mezzi privati e pubblici?), quello delle petizioni e della raccolta di firme per proposte referendarie, quello delle manifestazioni. La piazza è parte di questo linguaggio politico legittimo; non è simbolo di populismo ma di esercizio di libertà politica. Un simbolo che rivela la natura stessa del governo democratico, il quale vive immancabilmente di una tensione permanente tra la dimensione del potere costituito o istituzionale (politica attuata) e la dimensione del potere in formazione o extra-istituzionale (politica attuante). Merita ricordare come in quello che gli storici sono concordi nel considerare il primo documento della democrazia moderna, il documento dei livellatori inglesi del 1649, fossero elencati sia i desiderata democratici (il suffragio e la rappresentanza elettiva) sia le loro potenziali deviazioni e perversioni, come a voler mettere i cittadini in guardia dal pensare che avere un governo legittimato dal consenso dei governati equivalesse ad avere democrazia. La non coincidenza tra istituzioni e democrazia è stata da allora il più robusto filo conduttore che ha unito la storia politica della democratizzazione nei paesi occidentali, tanto che non è irragionevole pensare alla democrazia come a un ordine politico che si regge su un disaccordo permanente tra legittimità e fiducia, volontà e giudizio.
Questa è la premessa dalla quale discende la conclusione che riformismo e piazza non sono necessariamente una strana coppia, per usare le parole di Edmondo Berselli sulla Repubblica di qualche giorno fa. E la stessa alternativa tra riformismo e populismo puó essere fuorviante, perché la radicalità che da mesi si invoca (alcuni di noi invocano) non è di tipo populistico (il populismo è un´anomalia della democrazia rappresentativa). L´idealità (o l´ideologia) della sinistra è quello che è e che deve essere: difesa delle eguali libertá e della giustizia sociale dei cittadini e condizioni di tolleranza verso i diversi (cittadini e non) che rendano la vita sociale sicura per tutti. Dare a questi principi irrinunciabili un linguaggio convincente, incalzante e soprattutto autorevole: questo è quello che manca all´opposizione. Continuo a pensare che il problema dell´opposizione sia un problema di leadership. Del resto, se davvero si pensa che sia necessario adottare la strategia del populismo, allora si dovrà immancabilmente porre il problema di avere leaders autorevoli che siano capaci di conquistare consensi larghi.
La parola carisma fa tremare i polsi a molti di noi, tuttavia è un fatto che un movimento politico che voglia estendere il proprio consenso oltre il proprio bacino di potenziali elettori deve riuscire ad essere molto convincente senza stravolgere i proprio principi. Barack Obama vincerà le elezioni americane senza aver avuto bisogno di usare l´arma del populismo (questo è il messaggio forse più straordinario che ci viene dalla sua campagna elettorale) e perché è in grado di esprimere anche tra i repubblicani un senso di autorevolezza, di grande forza di determinazione e di lavoro sistematico. Egli ha messo in moto una macchina politica che non ha nulla di improvvisato e che quasi assomiglia a un partito di vecchio stampo. Diversamente lo slogan "we can" sarebbe stato veramente rischioso. Obama ha dimostrato che "we can" ha senso se chi lo dice trasmette davvero l´impressione di potere. Questo è quanto dovremmo imparare dall´esperienza americana: l´opposizione democratica ha dovuto attraversare il deserto impiegando un decennio prima di trovare una via d´uscita dal tunnel (e un leader capace di convincere che la rinascita era possibile). Per preparare questo risultato occorre un lavoro sistematico e un partito che faccia davvero lavoro politico tra la gente � per ripetere Berselli, occorre "la schietta radicalità di parlare di cose vere" e, aggiungo, occorre far camminare questa radicalitá su gambe strutturate e non solo mediatiche. Un lavoro di incalzo, di denuncia e di bloccaggio che non lasci respiro alla maggioranza e in tutti i luoghi dove le scelte della maggioranza fanno sentire le loro pesanti conseguenze. Ma prima di tutto, occorre smettere di pensare di dover giustificare di esistere e di parlare nei linguaggi e nelle forme che la carta costituzionale ci garantisce.

Repubblica 31.10.08
Fu uno degli inservienti di Arcore a presentare la Gelmini a Berlusconi. E lui in tre mesi la promosse
Dal giardiniere di Silvio al posto di Croce l'irresistibile ascesa di Mariastella
di Sebastiano Messina


SE NON fosse stato per il giardiniere di Arcore - da non confondere con lo stalliere, che infiniti guai addusse ai Dell´Utri - Maria Stella Gelmini forse oggi non sarebbe lì dov´è: asserragliata nel bunker di marmo del ministero dell´Istruzione, sotto l´assedio di studenti infuriati, maestrine arrabbiate, fuoricorso imbufaliti, professori incavolati, ricercatrici furibonde e precari col coltello tra i denti. E sembra quasi di vederla, lei che si presentò alla Camera citando Gramsci («Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso...»), lei che beffa l´opposizione di sinistra dipingendosi come la versione italiana di Barack Obama, lei che getta sulle barricate roventi delle università il ghiaccio della sua ostentata sicurezza («Avrò la tenacia dell´acqua che scava la pietra»), sembra quasi di vederla, alla finestra che si affaccia su viale Trastevere, nello stanzone che fu di Benedetto Croce e Giovanni Gentile, scrutare attraverso i suoi sottili occhialini colorati quella folla che ce l´ha con lei, sventolando i santini ironici della «Beata Ignoranza» e una perfida preghierina dietro la sua effigie: «Maria, Stella d´Ignoranza, il governo è con te. Tu sei benedetta da Tremonti e benedetto è il trucco dei tuoi tagli...».
Chi l´avrebbe mai detto, alla figlia dell´ex sindaco democristiano di Milzano, laggiù nella bassa bresciana, a lei che nel Sessantotto non era ancora nata, a lei che andava all´asilo mentre divampava il Settantasette, che a 35 anni si sarebbe trovata a fronteggiare la più vasta protesta che la scuola ricordi, un´unica grande trincea che parte dalle elementari e arriva alle scuole di specializzazione? Certo non poteva immaginarlo neanche quel giardiniere - Giacomo Tiraboschi - che ebbe la felice idea di presentare a Berlusconi, una sera di tre anni fa, questa tosta bresciana dal sorriso angelico che all´epoca era solo un modesto assessore provinciale all´Agricoltura alle prese con quote latte, pascoli e grandinate.
Invece il giardiniere Tiraboschi decise che al Cavaliere quella donna sarebbe piaciuta. Aveva ragione. E tutti sappiamo com´è fatto Berlusconi: quando ti prende in simpatia - che tu sia la Carfagna o la Brambilla, la Prestigiacomo o la Gardini - passi subito sulla corsia di sorpasso. Dunque la nominò all´istante sua consigliera. Di lì a tre mesi la promosse proconsole in Lombardia, coordinatrice regionale nella terra più berlusconiana d´Italia. Poi l´ha voluta accanto a sé (convocata da una telefonata di Bonaiuti) nella storica sera del comizio di San Babila sul predellino della Mercedes. Quindi l´ha scelta come una dei sette «saggi» che hanno selezionato i candidati - pardon: i parlamentari - di questa legislatura. Infine, fattone una sua deputata, l´ha promossa direttamente al rango di ministro. Alla sua prima legislatura.
Il suo motto è ordine, disciplina e meritocrazia. E pazienza se s´è scoperto quel peccatuccio del suo esame per diventare avvocato, una storia del 2001, quando pur di non presentarsi a Brescia dove bocciavano il 68,3 per cento dei candidati si trasferì a Reggio Calabria, dove i respinti erano appena il 6,6 per cento. Un trucco da furbetti, ma nobilmente motivato: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi».
Perché poi proprio questa trentacinquenne bresciana, che così rocambolescamente era riuscita a diventare avvocato, sia stata scelta per riformare la scuola italiana, è rimasto un mistero anche per gli alleati di Berlusconi. «Purtroppo mettono a fare i ministri chi non ha mai fatto l´insegnante» commentò, acido, Umberto Bossi, beccandosi una risposta pepatissima: «Non mi risulta che Bossi sia un insigne costituzionalista, eppure fa il ministro delle Riforme...».
Adesso sono tutti con lei, però. Pazienza se giusto a lei che invoca la severità dei professori è scappato in un discorso al Senato un errore da matita blu, quando ha scandito «egìda», con l´accento sulla i. Berlusconi, dicono, è entusiasta di questa ministra trentenne che la mattina affronta i cortei col sorriso sulle labbra, dicendo alla polizia che non c´è bisogno di identificare chi la fischia, «ho sufficienti argomentazioni per rispondere a qualsiasi contestazione», e il pomeriggio si fa fotografare sdraiata come una vamp sullo scalone d´onore del ministero dell´Istruzione, sui gradini dove salivano Quintino Sella e Vittorio Emanuele Orlando, Aldo Moro e di Giovanni Spadolini.
A dispetto del suo look anni Settanta, messimpiega senza pretese e tailleur castigato, c´è chi vede in lei un personaggio sadico, la domina in tailleur alla quale Berlusconi ha consegnato il frustino per scudisciare studenti e professori. Ma quando le domandano quale sia stata, in tutta la sua vita, la cosa più trasgressiva che le sia capitato di fare, lei risponde senza pensarci su: «Aderire a Forza Italia». E si capisce: se non fosse stato per quel giardiniere...

Repubblica 31.10.08
"Tra Berlusconi e il paese idillio finito nel Pd si deve aprire una nuova fase"
D'Alema: Veltroni coinvolga tutti, il profilo riformista va alzato
intervista di Massimo Giannini


Lavoriamo ad una vasta coalizione per tornare a dialogare con i ceti moderati che hanno votato Berlusconi
Capisco l´appello di Walter all´unità ma è lui che deve prendere l´iniziativa altrimenti non ci si lamenti se nascono le fondazioni

ROMA - «La protesta di massa sulla scuola, la drammatica crisi economica che attanaglia famiglie e imprese. Ormai è evidente: l´idillio tra Berlusconi e l´Italia si sta incrinando e la vicenda della legge elettorale europea, di cui apprezziamo il ritiro, non è solo il risultato della fermezza dell´opposizione ma anche di difficoltà interne alla maggiranza. Di qui dobbiamo partire per rifondare un nuovo centrosinistra, che rappresenti agli occhi dei cittadini un´alternativa vera e credibile per il futuro governo del Paese». Ammainate le bandiere della grande manifestazione del 25 ottobre, Massimo D´Alema scende in campo e suona la carica al Partito democratico e a Veltroni. «Adesso - dice l´ex premier ed ex ministro degli Esteri - bisogna lavorare per costruire intorno al Pd una vasta coalizione democratica, e che ci permetta di alzare il nostro profilo riformista, di dialogare con tutte le opposizioni, di parlare ai ceti moderati che hanno votato Berlusconi, e che ora capiscono la sua palese inadeguatezza».
Onorevole D´Alema, non è che state scommettendo un po´ troppo su questa «fine della luna di miele» tra il Cavaliere e gli italiani?
«Nessuna illusione. Ma non possiamo non vedere quello che sta succedendo. L´Italia attraversa una crisi senza precedenti, che sarà di lungo periodo. Si è ormai dissolta l´idea che Berlusconi vivesse una sorta di `luna di miele permanente´ con il Paese. Stanno esplodendo i primi, seri problemi nel rapporto tra il governo e i cittadini. Sta crollando come un castello di carta la straordinaria `fiction´costruita dal governo in questi mesi. Ci sono problemi enormi, il governo li ha gravemente sottovalutati e oggi dimostra di non avere la forza per affrontarli con la necessaria radicalità».
In realtà, l´unico serio «problema nel rapporto tra il governo e i cittadini», come lo chiama lei, riguarda la scuola.
«E le pare una cosa da poco? Quello che sta accadendo sulla scuola merita una grandissima attenzione. Un insegnate mi faceva notare una cosa molto giusta: mentre nel �77 in prima fila c´era la parte meno qualificata del corpo studentesco, oggi in testa ai cortei ci sono i primi della classe, che non vedono più una prospettiva per il futuro. Perché questo succede: se tagli gli investimenti nelle università, blocchi il turn over e cacci i ricercatori, rubi il futuro agli studenti più bravi e più capaci. Ora, io penso che l´opposizione debba rispettare e non strumentalizzare i fatti. Ma gli scontri dell´altro ieri a Roma mi hanno enormemente allarmato. Ci sono aspetti che devono essere chiariti e che riguardano anche la condotta della polizia: il centro era tutto bloccato alla circolazione, per chiunque, eppure un furgoncino carico di mazze è potuto arrivare fino a Piazza Navona, dove ha scaricato la sua `merce´, e dove un gruppo di squadristi ha atteso il corteo degli studenti. Com´è possibile?».
Comunque sulla scuola chi è senza peccato scagli la prima pietra.
«E´ evidente, ma da questa crisi non si esce con le scelte primitive della destra. Giusto colpire gli sprechi e i privilegi, ma per farlo non si possono prosciugare le risorse di tutta la scuola. Giusto colpire gli abusi al diritto di assistenza dei disabili, ma per farlo non si può eliminare il diritto. Giusto colpire i casi di `baronato´ e i corsi universitari con un solo studente, ma per farlo non si può tagliare 1 miliardo di euro a tutta l´università. L´autonomia non è arbitrio. E il fatto che non ci siano i soldi è una scusa. Le scelte compiute dal governo su Alitalia alla fine costeranno 2 miliardi ai contribuenti. La soppressione dell´Ici per i più abbienti è costata 3,5 miliardi.
Quei soldi c´erano. Il problema è che sono stati usati per effettuare una politica redistributiva a favore della parte più ricca del Paese. Quindi il governo non è stato costretto a tagliare: ha fatto una scelta, ben precisa. Ed è una scelta di destra che il Paese mostra di non gradire».
Lei ha qualche dubbio sul referendum contro la legge Gelmini.
Perchè?
«Non è questione di dubbi. Penso che il referendum è uno strumento monco e improprio, perché i tagli alla scuola approvati in Finanziaria non sono materia da referendum, e le norme della Gelmini, se e quando il referendum si facesse, cioè all´incirca nel 2010, avranno già prodotto i loro effetti. Quindi io dico: raccogliamo pure le firme, ma impegniamoci davvero, qui ed ora, per costringere il governo a un cambiamento di rotta».
Quali altri segnali vede, di questa incrinatura tra il governo e il Paese?
«C´è il profondo malessere che sta crescendo dentro la stessa maggioranza sulla riforma delle legge elettorale per le europee.
Su questo abbiamo fatto una riunione con tutti i gruppi parlamentari. Ebbene, oltre a una convergenza sul tema specifico, è emersa la preoccupazione condivisa sulla visione della democrazia di questa maggioranza: questa idea oligarchica, presidenzialista e plebiscitaria del potere, indebolisce la democrazia e produce solo una parvenza di decisionismo».
Ma la denuncia di questa situazione, e tutti i no che ne derivano, basta a voi dell´opposizione per mettervi l´anima in pace?
«No, non basta. E qui veniamo al cuore del problema. Questa crisi, drammatica, non è solo della maggioranza, è del Paese. E questo da un lato getta le basi per una prospettiva politica nuova, dall´altro lato carica l´opposizione di una grande responsabilità. Dobbiamo alzare nettamente il nostro profilo riformista. Dobbiamo ridefinire il progetto politico dell´opposizione, e aprire una fase nuova che ci consenta di creare un campo di forze per l´alternativa. E non sto parlando di nomenklatura, ma di pezzi della società italiana, di ceti moderati, di classi dirigenti, che devono tornare a guardare a noi come a un nuovo centrosinistra di progetto e di governo, che non riproduca i limiti e gli errori del passato. La costruzione di questa coalizione va di pari passo con la nostra capacità di parlare al Paese, che non è solo quello che scende in piazza».
La vostra piazza del 25 ottobre non doveva servire proprio a questo?
«E´ stata una piazza molto bella, soprattutto perché è stata festosa.
Tuttavia, dopo il grande sforzo comune di quella manifestazione, mi piacerebbe adesso che l´insieme del gruppo dirigente fosse coinvolto in una riflessione per il rilancio della nostra prospettiva. Capisco l´appello di Veltroni all´unità, ma è innanzitutto da lui che deve venire l´iniziativa per favorirla e renderla efficace. Siamo in uno scenario che sta cambiando profondamente. Siamo passati dall´illusione di una partnership con Berlusconi per fare le riforme (quello che Ferrara sul Foglio sintetizzava con l´espressione `Caw´), ad una aspra conflittualità, di cui innanzitutto il premier porta la responsabilità. Ora, però, è molto importante dare anche forza propositiva alla nostra iniziativa e rilanciare la capacità di dialogare con l´intera società italiana».
Partiamo dall´opposizione. Il suo ragionamento implica che, a partire da Di Pietro, vadano ridiscusse le alleanze. E´ così?
« Prima ancora di questo occorre mettere a fuoco un nuovo progetto riformista e riformatore per l´Italia, sul quale cercare il massimo dei consensi possibili, e non solo nell´opposizione. I temi non mancano: dai meccanismi per il voto europeo al federalismo, dal referendum sulla legge elettorale al Mezzogiorno. Insomma, anziché una inutile discussione tra di noi se si debba guardare a destra o a sinistra, ciò che dobbiamo fare è accrescere la nostra capacità di attrazione, a partire dal nostro progetto riformista e dall´iniziativa politica che mettiamo in campo. L´obiettivo, certamente, è quello di allargare il campo delle alleanze».
E cosa intende quando parla di riflessione sul Pd e sulla sua organizzazione interna? Siamo di nuovo alla diarchia conflittuale D´Alema-Veltroni?
«No, nessuna diarchia e nessun conflitto. Ma per il Pd il problema non pienamente risolto continua ad essere quello della piena valorizzazione delle sue risorse. Andiamo verso la conferenza programmatica, e quello sarà un momento di verifica importante proprio per marcare il nostro profilo riformista. Questo richiederebbe il contributo di tutti, perché in caso contrario è inevitabile che le forze si disperdano. Se non è il partito a chiamare ed impegnare tutti, non ci si può lamentare se nascono fondazioni, associazioni, e iniziative di vario segno»..
La sua Red come la vogliamo giudicare?
«Io mi occupo della Fondazione Italianieuropei. Red è un´associazione che ci aiuta a sviluppare i nostri progetti, e sta coinvolgendo molte persone anche fuori dal Pd. Non c´è nulla di anormale in questo. E´ sbagliata l´immagine di un partito che si identifica in un principe buono, minacciato da un gruppo di pericolosi oligarchi cattivi».
E questa idea chi la mette in giro, se non tutti voi messi insieme?
«Io non mi riconosco tra i diffusori di questa immagine. Veltroni è il leader del Pd. Come sa io non ho incarichi e non ne cerco. Sono uno dei pochi che ha lasciato incarichi per favorire il rinnovamento. Ma in questo partito c´è un gruppo dirigente formato da molte personalità, e non da oligarchi cattivi. Questo gruppo dirigente è anche una garanzia del rapporto tra il Pd e il Paese. Mettere al lavoro queste persone, vecchie e giovani, non indebolisce Veltroni, ma al contrario lo rafforza».
E il congresso straordinario che fine ha fatto? Ormai si farà dopo le europee.
«Non ho mai chiesto che si tenesse un congresso straordinario. Il congresso com´è previsto dallo statuto, si terrà dopo le europee».
Comunque di tempo ne avete. Il Cavaliere vi consiglia un riposo di 5 anni.
«Berlusconi non ha molto da ironizzare. I sondaggi dicono che le difficoltà della maggioranza sono serie, il governo ha perso 18 punti. Ma la fine dell´idillio non si traduce in un travaso di consensi dalla maggioranza all´opposizione. Quando un Paese non ha fiducia né nel governo, né nell´opposizione significa che c´è il rischio di una democrazia più debole. Anche per questo è urgente rilanciare non solo la nostra battaglia di opposizione, ma il nostro progetto politico. Il partito del centrosinistra riformista è nato per questo».
m. gianninirepubblica. it

Repubblica 31.10.08
Un saggio su "Micromega"
L’equivoco di una religione civile
Fede e politica
di Gustavo Zagrebelsky


È un fenomeno che avviene sotto i nostri occhi e che papa Benedetto XVI ha teorizzato. Ma che è in conflitto con lo Stato laico
La Chiesa offre la teologia e i suoi valori come tessuto connettivo alle società occidentali di cui si presume il disfacimento
La riproposizione di una funzione antichissima, addirittura originaria
L´attacco a un sistema definito materialista, nichilista, privo di nerbo morale

Sotto i nostri occhi, si svolge una mutazione nel rapporto tra la Chiesa e la società: dalla religio (o theologia) socialis dell´ultimo scorcio del XIX secolo, alla religio (o theologia) humana della seconda parte del secolo scorso, alla religio (o theologia) civilis (o politica) del tempo attuale, quando la religione si offre come tessuto connettivo di società politiche in auto-disfacimento: «Prendere una [�] chiara coscienza della funzione insostituibile della religione per la formazione delle coscienze e del contributo che essa può apportare, insieme ad altre istanze, alla creazione di un consenso etico di fondo nella società» (parole del papa Benedetto XVI, durante la visita a Parigi il 13 settembre 2008). Quest´ultimo � il «consenso etico di fondo» �, un concetto molto ambiguo che non si sa che cosa significhi (ma forse qualcuno, con lo sguardo rivolto alla storia della Chiesa, può temere di saperlo), è il punto che riguarda la situazione odierna. (...)
L´ultimo passaggio, la religio civilis, è presentato come un prodotto della «post-modernità» o del «post-secolarismo». Ma è un ricominciare da capo, poiché, in verità, essa è la ri-proposizione di una funzione antichissima, anzi addirittura originaria, della religione come fattore politico, secondo il senso che quella formula assume nella classica tripartizione sviluppata nelle Antiquitates di Marco Terenzio Varrone, di cui Agostino d´Ippona, nel De civitate dei (libri VI e VII), dà ampio ragguaglio: «religione civile» come pratica religiosa dei sacerdoti a vantaggio non della vita eterna delle anime, ma come salute dei popoli e delle città e come fattore connettivo, o presupposto socializzante della convivenza nelle comunità umane.
Questa ri-proposizione è avvenuta nell´ambito del dibattito odierno circa le «premesse sostanziali», necessarie alla vita delle istituzioni liberali e democratiche: premesse che � questo è l´assunto � «lo Stato liberale secolarizzato» non sarebbe in grado di garantire. L´interesse di questa posizione sta in questo, che la fondazione della vita politica su premesse religiose è prospettata come un atto di amicizia, non d´inimicizia, nei confronti delle società liberali, altrimenti votate al suicidio o, comunque, alla propria fine. Questa denuncia teorica, circa l´incapacità delle democrazie liberali di garantire i propri presupposti normativi, si accompagna, come conferma empirica, a una fiorente letteratura sulla decadenza delle società occidentali, parallela a quella corrente nell´Europa del secolo scorso tra le due guerre mondiali. Queste società, materialiste, disgregate, disperate, nichiliste, egoiste, prive di nerbo morale, preda di pulsioni autodistruttive, sarebbero giunte a «odiare se stesse», secondo una vibrante accusa del magistero cattolico. I sintomi sarebbero la diminuzione del tasso di natalità e l´invecchiamento delle generazioni; lo sviluppo abnorme di scienze e tecniche frammentate, prive di anima, fini a loro stesse e dotate di ambizioni smisurate; la riduzione della ragione a mera «ragione strumentale» al servizio di nichilistiche volontà di potenza; minacce esterne all´identità europea � allora il bolscevismo internazionale, oggi l´islam: tutto questo in un ambiente di debilitazione morale e di «relativismo», di cui il cosiddetto pensiero debole sarebbe la teorizzazione filosofica. In questo contesto, la religione cattolica romana, traendosene fuori e dando per presupposta la propria attualità e idoneità a fronteggiare i problemi del presente, si propone come religione civile, come sostegno della società politica, come medicina delle sue infermità, come fattore d´identità ed esorcismo nei confronti della violenza che quella società in frantumi cova al suo interno. La Chiesa può pretendere così, per questa via, una nuova legittimazione generale per la sua parola: una legittimazione chiaramente politica che, sul piano teorico, si accompagna � negli ultimi anni, a partire dall´enciclica Fides et ratio del 1998 � all´ardita elaborazione di una theologia naturalis che ha la pretesa di fornire alla scienze umane il «fondamento razionale» di verità che occorre loro, traendolo dalle proposizioni della fede cristiana. La funzione totalizzante della Chiesa, non solo nelle cose sociali, non solo in quelle umanitarie, ma direttamente in quelle politiche, è così fondata. Essa può pretendere di interpretare e garantire l´«identit໠� l´identità cristiana � dei popoli di tradizione occidentale e, in questo, si incontra con progetti politici che nulla hanno a che fare con la fede religiosa, ma sono interessati a un´alleanza per la difesa di una non meglio precisata «civiltà occidentale». (...)
In generale, è possibile, anzi necessario, sollevare il dubbio circa la compatibilità dell´anzidetta funzione civile della Chiesa con la posizione che a questa compete secondo la Costituzione e il regime concordatario, previsto nell´articolo 7. È lecita la domanda se esistano ancora le premesse di quel tipo di regolazione dei rapporti di diritto ecclesiastico. Tale regime si basa, infatti, sulla premessa, stabilita nel primo comma, che Stato e Chiesa sono, cioè devono essere, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. Ciò significa due cose: innanzitutto, il riconoscimento reciproco del carattere di societas perfecta, cioè sufficiente a sé medesima nel perseguimento dei propri compiti, rispettivamente: il governo della società e la salvezza delle anime; in secondo luogo, l´obbligo di non ingerenza di un «ordine» nell´«ordine» altrui. La religio civilis è contraria a entrambe: assume l´insufficienza dell´ordine civile a badare a sé stesso; afferma la competenza della religione in questioni relative alla «tenuta» della società civile. Entrambe le proposizioni ricorrono ormai pressoché incontrastate nei documenti della Chiesa (anche quella circa lo Stato come societas imperfecta: un´affermazione d´ingerenza grave), senza alcuna sensibile reazione da parte dell´autorità civile. La sua subalternità, innanzitutto culturale, si tocca con mano. Il «supremo principio di laicità» contenuto nella Costituzione (Corte costituzionale, sentenza 203 del 1989), è chiamato in causa direttamente, in quanto esso implica, come premessa minima irrinunciabile, l´autosufficienza dello Stato.
In secondo luogo, la religione come religio civilis (cosa tutta diversa dall´indiscutibile diritto dei credenti, come di chiunque altro, di agire politicamente ispirandosi al proprio credo) viola il carattere liberale e democratico dell´organizzazione politica della società civile. La funzione civile della religione dovrebbe essere quella di fornire un legame sociale che contrasti le conseguenze disgreganti della libertà: essa, quindi, dovrebbe sottrarsi alla sfera della libertà, per poter svolgere questo suo compito. Come è stato detto, dovrebbe «precedere» la libertà. Ma, se così, dovrebbe collocarsi nell´ambito dell´esercizio di autorità. In brevi e brutali parole, dovrebbe essere «inculcata», con i mezzi possibili di convinzione. Con il che si tornerebbe a prima del riconoscimento, da parte della Chiesa stessa, della libertà di coscienza come diritto umano intangibile. La stessa Costituzione, un documento della libertà, verrebbe come messa sotto tutela di princìpi politici elaborati nella sfera della religione.
In terzo luogo, la religione civile, in un contesto di pluralismo culturale e religioso, comporta di per sé lesione del principio di laicità, nel suo contenuto ugualitario. Laico è lo Stato che non prende partito a favore di una o di un´altra religione, come pure non prende partito tra le diverse posizioni religiose, e, ancor prima, tra queste e quelle atee o agnostiche. Si tratta del principio di imparzialità o equidistanza in materia di professioni di fedi e convinzioni, religiose e non religiose, principio che vieta non solo di assumere di una religione come «religione dello Stato», ma anche di assicurare trattamenti privilegiati, in corrispettivo della funzione ch´essa svolge nella compagine sociale. Soprattutto con riferimento alle religioni monoteiste, il cui Dio è un «Dio geloso», la funzione civile della religione, però, non può essere svolta da più religioni, in concorrenza tra loro. Più religioni significherebbero inevitabilmente non rafforzamento di un «io comune», ma disgregazione. Il riconoscimento alla religione di una funzione civile implica perciò il privilegio. La tolleranza, oggi, è o sembra essere fuori discussione. Ma la laicità non si accontenta della tolleranza (nel senso minimo della tradizione curiale, come sopportazione dell´inevitabile), ma pretende diritti in condizione di uguaglianza. Le religioni diverse da quella, unica, chiamata a improntare di sé la società nel suo complesso, cioè le religioni minoritarie, dovrebbero invece adattarsi a «vivere nella diaspora», cioè in un ambiente sociale, politico e giuridico che è d´altri, non anche loro, dove le proprie ragioni circa la vita buona in comune non hanno rilevanza pubblica, dove devono accontentarsi d´essere «tollerati». È un´espressione terribile e precisa, nell´indicare dove conduce l´assegnazione alla religione della funzione «civile», ma tuttavia più esplicita e onesta di altre, correnti e ugualmente orientate alla difesa di pretese identità storico-morali, come le espressioni da cui si è preso avvio, che si avvalgono degli aggettivi esornativi «vero», «sano», «nuovo», «positivo», e così via parlando.

Repubblica 31.10.08
Sinistra? Un circo minimo
Esce un pamphlet di Berselli
di Filippo Ceccarelli


È una sorta di cabaret sull´orlo del baratro, un libro spietato e onesto, ma anche tenero e in fondo costruttivo, con un titolo "Sinistrati" che viene da lontano
Il "fattore C" di Prodi viene analizzato nelle sue origini e nel suo utilizzo
Un partito ipotetico che ha affrontato le elezioni come se fossero un gioco d’azzardo

Le parole, le immagini, i titoli dei libri non arrivano mai per caso, e se rimbalzano proseguendo e replicandosi nel tempo, nello spazio e nelle relazioni vuol dire che davvero sono in grado di aprire spiragli di verità, non di rado oscura e fuggevole perché scomoda e anche dolorosa. Così nel marzo del 2006, poco prima di quelle elezioni che furono il più classico dei pareggi, ma che la sinistra si sforzò di considerare come una mezza vittoria uscì per Laterza un impietoso ritratto dell´allora già disastrata classe dirigente dell´Ulivo, così come veniva fuori dagli articoli di quel magnifico giornalista e direttore che fu Claudio Rinaldi. Un´antologia di figuracce e cantonate dei leader della sinistra, dalla "gioiosa macchina da guerra" ai fasti dell´Unipol, e che di conseguenza Rinaldi volle intitolare: I sinistrati. Ecco. Di lì a un paio d´anni, per l´esattezza all´indomani delle elezioni della primavera scorsa, il sinistro, vale la dire l´accidente, la sciagura, la disgrazia di quel mondo si è fatta ancora più evidente, conclamata, maiuscola. E Sinistrati s´intitola la "storia sentimentale di una catastrofe politica" che Edmondo Berselli ha scritto per Mondadori (pagg. 208 pagine, euro 17, dal 4 novembre), secondo la felice e sperimentata formula del cabaret sull´orlo del baratro e il piglio degno del moralista che non se la sente di fare la morale ad alcuno, tanto è inutile, l´importante semmai è smettere per un attimo di fare i cinici, i furbi e i vanagloriosi, sempre che sia umano e possibile - conveniente, in politica, no di certo.
Ecco dunque un pamphlet spietato e onesto, beffardo, tenero e per certi versi anche costruttivo, fin dal primo capoverso: «Dopo che ci è arrivato addosso il tram, in quel fatale e crudelissimo mese d´aprile, ci abbiamo messo un po´ di tempo per capire che cosa era successo. Sulle prime siamo rimasti seduti fra le rotaie, frastornati. Poco dopo ci siamo rialzati, non ancora del tutto coscienti. Poi ci siamo spolverati i pantaloni a testa bassa, poi lentamente ci siamo avviati verso casa stringendo i denti, cercando di mostrare un atteggiamento disinvolto e indifferente, come Fantozzi dopo una martellata sulle dita, e sperando che la gente intorno non ridesse». Persa per persa, lascia intendere Berselli, tanto vale scherzarci sopra, ma da sinistra. Mitologie, fissazioni, tic, gente che ancora si prende troppo sul serio, sondaggisti che pochi giorni dal voto preavvertivano movimenti nella pancia profonda del paese, dabbenaggini, stravaganze e superbe ingenuità tipo l´sms spedito da Franceschini ad Arturo Parisi, che ancora lo conserva nel suo telefonino, il pomeriggio della disfatta: «Ce la stiamo facendo». Oh, vanità delle vanità rileggere le magagne del centro sinistra pittorescamente lanciato verso il suo stesso inesorabile disastro. Il "fattore C." di Prodi, di cui sono qui delineate le origini e il selvaggio utilizzo a tinte mitico-magiche. Le grevi civetterie mondane di Bertinotti. Le velleità "romanzieresche" di Veltroni, "funambolo dei sospiri". La sicurezza di D´Alema «che non crede più in niente tranne in ciò che al momento pensa lui». Nomi e cognomi a iosa - ed è impossibile non pensare alle facce dei protagonisti quando leggeranno questo che non è un sketch di Crozza, ma il libro di un illustre politologo, fino a ieri direttore de Il Mulino; un commentatore obbligato, come diversi altri in questo tempo, a cogliere e a concentrarsi sul grottesco dominante nella vita pubblica italiana, a mettere in parodia i cattivi esempi, i luoghi comuni, le deformazioni culturali, la sfilata di maschere, l´intreccio senza ritorno di arcaismi e tecnologie, il chiaro disegno economico post-corporativo del centrodestra, il conseguente spappolamento sociale, a parte le indispensabili miserie della politica e le perenni male arti del potere.
In questo panorama, di suo già pieno di macerie, si staglia la nuova e pittoresca inadeguatezza della sinistra. Tanto più acuminato quanto più discorsivo, il racconto rintraccia le cause di questo esito nella rapida erosione delle culture politiche e ricostruisce la fine degli amati-odiati partiti di massa. Insieme e attraverso il ritratto dei nuovi protagonisti quali Berlusconi, Fini, Bossi, il quale piacevolmente designò l´ex alleato Casini come un "carugnit de l´oratori", viene fuori una preziosa storia disincantata della Seconda Repubblica, o Terza che sia. Certo fra I sinistrati del profetico Rinaldi e Sinistrati del corrosivo Berselli, la caduta dell´articolo indica un che d´irrevocabilmente compiuto, il ground zero di una antica e nobile vicenda che ormai ha dato tutto ciò che poteva dare. Ma adesso? Beh, resta da dire che la descrizione della nascita, come della breve vita infelice del Partito democratico, con congressi ds e Margherita conclusi al suono delle canzoni di Rino Gaetano e Caterina Caselli, sfiora la più simpatetica crudeltà e l´amaro dileggio da parte di chi, pur con tutti i dubbi del caso, non ce l´ha fatta proprio a farsi incantare dall´euforia artificiale del nuovo riformismo europeo, dalla retorica delle grandi tradizioni che finalmente si ritrovano in un unico soggetto eccetera, per non dire i caroselli e i giochi d´artificio sulle varie carte dei saggi, i manifesti etici e i Pantheon elaborati a forza di ghost-writer.
L´appartenenza affettiva a quel mondo consente un giudizio più netto, senza lo schermo dell´autolesionismo. Deludente fusione a freddo è stata, quella del Pd. Per giunta priva di messaggio, che non fosse «una tonalità intellettuale, una sfumatura emotiva, un intero spettro di nuances sentimentali». Il dubbio è che tuttora si tratti di una forza politica "fuori dal mondo", un "partito ipotetico". Uscito di scena Prodi, il gruppo dirigente democratico ha affrontato le elezioni come un "gioco d´azzardo". E alla prova delle urne lo schema di Veltroni, pure rapito dall´incantesimo del Cavaliere, si è risolto in un tragicomico paradosso: «L´operazione è riuscita, ma il paziente è morto». Non solo, ma a questo punto «per giorni e settimane Walter si è trastullato con i decimali e con la confortante, per quanto oggettivamente strampalata, idea di aver vinto o quasi le elezioni e di essere al governo insieme a Berlusconi». Ovvio che adesso tutto si potrà fare meno che guardarsi alle spalle. Non salveranno la sinistra le vecchie zie, né le nonne che ormai perseguono un´etica da fiction, dicono "autostima" e parlano come la tv. «La prima cosa che la sinistra deve fare - azzarda Berselli avviandosi allegramente sconfortato alla conclusione - è imparare a dire la verità. Il che non è semplice perché la sinistra crede di essere la verità e quindi non sente il bisogno di dirla». E sembra di riascoltare il grido del Circo Massimo: «Siamo due milioni e mezzo». Ecco, magari molti, molti di meno, comunque sinistrati, anzi sinistratissimi.

Repubblica Firenze 31.10.08
Il medico olandese bacchetta i politici: "Politici, ascoltate gli scienziati"
Eduard Verhagen e l’eutanasia: è necessario discutere di temi così importanti
di Michele Bocci


Meyer, parla il medico olandese: solo qui tutte queste polemiche

«Il problema della politica è che spesso esprime posizioni prima di ascoltare i tecnici, i medici. E invece dovrebbe fare il contrario: studiare, discutere e poi prendere decisioni». Eduard Verhagen è al Meyer per il convegno dei neonatologi. Lo studioso olandese che ha realizzato la carta di Groningen, dove si illustra l´assistenza di fine vita per i neonati e in caso di certe malattie si ammette l´eutanasia, non ha l´aria da "dottor morte", come lo ha definito qualcuno. E´ un serio e un po´ timido studioso che premette di non voler imporre il suo pensiero. «La Chiesa? Rispetto le sue idee ma a volte vorrei che spiegassero come arrivano a certe prese di posizione. Le occasioni di confronto che ho avuto con suoi esponenti sono saltate all´ultimo momento».
Verhagen, la cui presenza ha scatenato polemiche e pure interrogazioni al presidente del consiglio, ha tenuto la sua relazione senza mai accennare all´eutanasia. Era previsto che non lo facesse, e infatti ha illustrato come vengono trattati in vari paesi i prematuri con problemi che non danno scampo, quando vengono comunque rianimati e quando si decide di staccare le macchine. Poi, a margine il medico olandese, che ha detto di essere di religione protestante, ha risposto ad alcune domande.
Il suo arrivo a Firenze è stato preceduto da molte polemiche, che idea si è fatto?
«Partecipo ad una decina di convegni ogni anno, alcuni anche in Italia ma non mi era mai capitata una cosa del genere. Mi spiace che l´attenzione caschi su di me a scapito di questo incontro scientifico, dove è importante la discussione tra chi lavora in questo paese. Io porto le mie conoscenze e racconto quello che facciamo in Olanda ma non ho nessuna intenzione di dire agli italiani quello che devono fare. Le nostre culture sono molto diverse».
Qual è il messaggio del suo intervento?
«E´ necessario che si discuta del momento in cui si interrompono le cure. Noi medici tendiamo a parlare dei miglioramenti della tecnica, che ci permettono di curare persone per cui un tempo non c´era speranza. Nelle neonatologie si presta giustamente attenzione a come intervenire sui bambini per guarirli. Ebbene lo stesso tipo di sensibilità va adottata anche per decidere che non c´è più niente da fare, e che quindi il trattamento sanitario va limitato o addirittura interrotto. I medici devono essere in grado di spiegare alla società cosa succede in quei momenti, come mai vanno prese certe decisioni. E fare sempre tutto d´accordo con i genitori».
E perché si arriva a decidere l´eutanasia?
«Il percorso che ha portato il mio paese a legalizzare questa pratica è stato lungo. Si applica solo a bambini che soffrono tremendamente per una malattia che non dà scampo. Abbiamo creato un protocollo per fare chiarezza su come comportarsi in questi casi, sempre rispettando la volontà dei genitori. Dal 2007, poi, in Olanda non ci sono stati più casi di eutanasia su bambini perché abbiamo esteso la diagnosi prenatale».
Conosce il caso di Eluana Englaro?
«In Olanda abbiamo avuto un caso simile 25 anni fa che dimostra come due paesi possono affrontare in modo molto diverso gli stessi problemi. A quel tempo ci fu un ricorso ad un tribunale da cui arrivò la decisione che l´alimentazione artificiale è un atto medico. Dunque poteva essere sospeso perché viste le condizioni della persona non serviva a nulla. Non si tratta di omicidio, non si tratta di eutanasia. Da allora non abbiamo più avuto casi del genere. Sono contendo che in Italia si discuta di un caso come quello di Eluana e mi auguro che alla fine il risultato sia positivo per la ragazza, per la famiglia e per tutta la società italiana».

Corriere della Sera 31.10.08
Gli stranieri sono 4 milioni Producono il 9% del Pil
Negli ultimi cinque anni le denunce contro gli stranieri sono aumentate del 45,9 per cento
di C. Mar.


Più imprenditori. Crescono le aziende gestite da immigrati: l'85% delle imprese è stato costituito dopo il 2000

MILANO — Quasi quattro milioni, il 6,7% della popolazione italiana. Per la precisione 3.987.000. Tanti sono gli immigrati in Italia secondo il rapporto Caritas Migrantes presentato ieri. Mezzo milione in più rispetto all'anno scorso. Il 62,5% risiede al Nord, il 25% al Centro e il 10% al Sud. La comunità romena, raddoppiata negli ultimi due anni, è la più numerosa: quasi un milione le presenze regolari. Seguono gli albanesi (402.000), i marocchini (366.000), i cinesi (157.000), gli ucraini (133.000, l'80,4% sono donne) e i filippini (106.000 residenti).
Per comprendere meglio le percentuali basta considerare che un residente su 15, uno studente su 15, un lavoratore su 10 è straniero. La popolazione straniera è molto giovane: l'80% ha meno di 45 anni e il tasso di fecondità delle donne straniere assicura il ricambio della popolazione (2,51 figli per donna).
Gli immigrati portano anche ricchezza. Sono un milione e mezzo quelli che lavorano e secondo una stima di Unioncamere gli immigrati producono il 9% del Pil, tre punti in più rispetto all'incidenza sulla popolazione. Il dossier stima che almeno 500 mila stranieri lavorano in nero. È la Lombardia a contare il numero maggiore di lavoratori immigrati: a Brescia un lavoratore su cinque è nato all'estero; a Mantova, Lodi e Bergamo uno su sei; a Milano uno su sette. Non solo dipendenti, ma anche imprenditori.
L'85% delle aziende con titolari immigrati è stato costituito dal 2000 in poi. I più numerosi sono i marocchini, con 20 mila figure di questo tipo. Subito dopo ci sono i romeni e i cinesi. Sono soprattutto impegnati nell'edilizia e nel commercio. Il reddito medio non è però elevato: circa 900 euro al mese, comunque considerato dagli immigrati «soddisfacente ».
I dati crescono però anche nel campo della giustizia e della criminalità. In cinque anni (2001-2005, ultimi dati Istat) l'aumento delle denunce contro gli stranieri è stato del 45,9% e nello stesso periodo l'incidenza della criminalità straniera (regolare e non) è passata dal 17,4% al 23,7%.

Corriere della Sera 31.10.08
Il capolavoro di Raffaello sarà esposto a Firenze dal 23 novembre dopo dieci anni di restauro
Una mostra celebra la «Madonna del Cardellino»
di Wanda Lattes


Si è concluso ufficialmente il complesso intervento di conservazione e restauro della «Madonna del Cardellino », la tavola dipinta da Raffaello nel 1505 (per le nozze dell'amico Lorenzo Nasi). L'opera era stata ridotta in pezzi a causa del crollo del palazzo che l'ospitava e per secoli si sono susseguiti interventi di ogni genere: per tenere insieme i frammenti, per rimediare i guasti della pittura.
Dieci anni fa la decisione di affrontare un recupero degno dell'artista e del capolavoro. Da qui l'impegno prodigato dagli studiosi dell'Opificio delle Pietre dure di Firenze durante il complesso lavoro di restauro («Corriere della Sera», 29 marzo 2008). In qualche modo testimoniato ieri, nella sede della Stampa Estera a Roma, dalla proiezione di un documentario ricco di immagini inedite relative alle indagini e agli interventi eseguiti.
Nell'occasione è stata annunciata anche la mostra che dal 23 novembre prossimo offrirà a Firenze, in Palazzo Medici Riccardi, non soltanto la visione del «Cardellino», ma anche di alcuni lavori capaci di illuminare l'intera epoca in cui quella «speciale» Madonna fu creata (a cominciare da un altro capolavoro di Raffaello, «La gravida », o da un'opera di Girolamo della Robbia). In quelle stanze saranno tra l'altro esposte foto, analisi, diagrammi dello stesso restauro.
Ma l'incontro di ieri ha anche permesso alla responsabile diretta dell'intervento, Patrizia Reitano, una commovente narrazione degli interventi di analisi, pulitura e ritocco. E ai soprintendenti Cristina Acidini e Bruno Santi la «sottolineatura» di quella «cosciente responsabilità culturale assunta dall'Opificio».

il Riformista 31.10.08
Il primo intoppo del governo


La scuola è il primo vero intoppo nella gioiosa macchina da guerra del governo. C'è poco da dire. Quando si riempiono così le piazze, e così tante piazze, seppure sotto l'egida sindacale, vuol dire che il paese non ha accolto il decreto Gelmini con l'entusiasmo con cui accolse il decreto per l'immondizia a Napoli o quello per salvare Alitalia. Un po' era inevitabile: con la scuola si comincia a toccare la carne viva della spesa pubblica. Un po', però, era evitabile.
Lo stato d'animo del governo è stato ben espresso ieri da Ignazio La Russa: «Per la prima volta c'è stata una mancanza di informazione: si poteva anche fare il decreto, ma al termine di un percorso». È un eufemismo per dire ciò che molti ministri pensano: non staremo prendendo un po' troppo a schiaffi il paese? Dall'immagine inclusiva e paterna che Berlusconi ha dato a Napoli, si è passati troppo rapidamente alla faccia feroce di un premier che minaccia l'invio della polizia. Il decreto Gelmini non è certo l'articolo 18, eppure è diventato rapidamente impopolare per la carica simbolica che si portava dietro: ragazzi spaventati di un futuro in cui la loro laurea non varrà nulla, famiglie che temono di dover andar a prendere i bambini a scuola a mezzogiorno, precari a vita che non diventeranno mai di ruolo. La miscela era abbastanza esplosiva per maneggiarla con più cura. Il governo ha portato a casa il decreto, ma ha rotto l'idillio.
L'opposizione può vantare un successo tattico, è uscita dall'angolo. Ma la partita strategica resta immutata. Neanche la rivolta per l'articolo 18, ben più imponente di questa, segnò una svolta nella legislatura. Quando tra qualche anno arriverà, se mai arriverà, il referendum abrogativo di Veltroni, difficilmente si vincerà ripescando nella memoria degli italiani l'antico ricordo del maestro unico. Fossimo in Veltroni, dunque, non parleremmo di fine della luna di miele di Berlusconi. «E' finita sulla scuola - ha detto ieri - come quella di Prodi finì con l'indulto». A parte il fatto che, se non ricordiamo male, il Pd votò l'indulto, la luna di miele di Prodi non era nemmeno mai cominciata.

il Riformista 31.10.08
Arriva in libreria un pamphlet contro i nemici della modernità e della civiltà occidentale
Tra apocalittici e utopisti le "ragionevoli speranze" del filosofo Paolo Rossi
di Guido Vitiello


Dicono che l'occidente è diretto verso la catastrofe. Che la modernità non va riformata, ma abbattuta. Semmai per innalzare sulle sue rovine la Città ideale. Si trovano a destra e a sinistra, tra gli intellettuali e tra i leader di piazza. In "Speranze", il grande storico delle idee ci spiega perché faremmo meglio a dubitare delle loro visioni catastrofiche.

Profeti di sventura. Alcuni dei bersagli polemici del nuovo libro di Paolo Rossi: Martin Heidegger Alberto Asor Rosa Guido Ceronetti

Quella tra Paolo Rossi e i nemici della modernità è una contesa di vecchia data. Negli anni settanta lo storico delle idee, autore di studi ormai classici sulla filosofia moderna e la rivoluzione scientifica, polemizzava con gli «antimoderni a destra e a sinistra». E cioè quegli intellettuali, come Pier Paolo Pasolini ed Elémire Zolla, che pur da diverse postazioni ideologiche si esercitavano in un «fuoco concentrico» contro gli stessi nemici: la scienza, la tecnica, il razionalismo e altre teste di turco create allo scopo. Qualche lustro più tardi, in Paragone degli ingegni moderni e postmoderni (di cui è in arrivo un'edizione aggiornata), i bersagli di Paolo Rossi erano Emanuele Severino e gli heideggeriani «di provincia».
L'ultimo capitolo di questa battaglia culturale si intitola Speranze, ed è da pochi giorni in libreria per i tipi del Mulino (pp. 148, € 9). Un piccolo libro erudito e spassoso, diviso in tre sezioni: «Senza speranze», «Smisurate speranze», «Ragionevoli speranze». Ovvero, semplificando appena un po', gli apocalittici, gli utopisti e... i riformisti.
Cambiano i nomi e i volti, ma il risentimento contro la modernità rimane lo stesso. Siamo davanti a un problema cronico?
Forse sì. La critica al mondo nel quale viviamo ci accompagna da sempre. Nel nostro passato non ci sono muraglie che isolino dal resto del mondo una nostra immaginaria perfezione. Ci sono i viaggi, la curiosità, l'idea che gli altri (come i Persiani per Montesquieu o i Cinesi per Leibniz e Voltaire) possono essere migliori di noi. Sappiamo che alle radici dell'identità europea stanno anche i traduttori ebrei di Toledo e i filosofi arabi dell'Andalusia. Ma un conto è mettere in discussione un patrimonio culturale per meglio possederlo e accrescerlo, per distinguerne l'attivo dal passivo, un altro conto è mettersi in viaggio per le isole felici al fine di liberarsi da quel patrimonio.
Quando i testi della Scuola di Francoforte divennero una sorta di Bibbia delle nuove generazioni - il mondo moderno venne presentato a un larghissimo pubblico non come un edificio bisognoso di riparazioni o ristrutturazioni, ma come un mucchio di macerie.
Lei scrive che il profetismo, sconfinando via via dal linguaggio religioso, è penetrato nella filosofia e nella politica. Un tempo avevamo Oswald Spengler e quelli che Popper chiamava «filosofi oracolari». Chi sono, oggi, in Italia, i profeti del tramonto?
Scelgo a caso fra titoli di libri usciti in Italia dopo il 1990: Catastrofi, Il principio disperazione, Sull'orlo dell'abisso, Progresso e catastrofe, Nuovi rischi, vecchie paure, Le nuove paure Il pessimismo e la predicazione di un' imminente Apocalisse «pagano» e rendono popolari.
Gli intellettuali hanno una forte propensione per l'oltrepassamento, e l'ineffabile. Sono propensi a ritenere che le istituzioni delle società nelle quali vivono siano al servizio delle forze del male. Per questo capita che si dichiarino a favore di regimi politici capaci delle peggiori nefandezze e manifestino disgusto per il mondo entro il quale il destino li ha (per loro fortuna, ma con grande e nobilmente sofferta loro insoddisfazione) collocati. Il problema di molti intellettuali italiani di sinistra (di quella detta radicale o alternativa) sembra sia quello di uscire dall'occidente. Il modo scelto da Alberto Asor Rosa per effettuare questa operazione è quanto di più sofisticato si possa immaginare. Una full immersion nel testo dell' Apocalisse di Giovanni gli consentirebbe di realizzare il sogno di Hegel: «Mettere in reciproca relazione un piano temporale e uno extratemporale della riflessione, che in genere procedono separati e incomunicabili».
E oltre ad Asor Rosa, quali sono gli antimoderni a sinistra? Si trovano tra gli ecologisti, tra i no global?
La risposta dipende dai modi della loro critica alla società. Un conto è pensare quest'ultima come un intreccio di elementi positivi e negativi, individuare limiti e pericoli. Un altro conto è presentarla come un blocco omogeneo. Il mondo moderno, si disse, andava non cambiato, ma «abbattuto». Dato che ai blocchi omogenei non credo molto, esiterei ad appiccicare con facilità l'etichetta di antimodernismo a movimenti anche se, in entrambi, l'antimodernismo mi sembra prevalente.
E a destra? L'antimodernismo si rifugia nella Lega?
L'idea della civiltà occidentale come sfacelo, perdita dei valori, «agitazione e febbre, priva di ogni luce» sta al centro di uno del classici della Destra: la Rivolta contro il mondo moderno di Julius Evola, pubblicato nel 1934. È stato una fonte per molti, ma a volte ho l'impressione che l'antimodernismo presente nella sinistra sia oggi più più vigoroso di quello della destra. Una componente di antimodernismo è certo presente nella Lega, ma non sembra oggi la prevalente.
Un certo tipo di antiberlusconismo ha diffuso ancor più la figura del profeta di sventura. Oggi le Cassandre parlano in piazza? Vede differenze, per esempio, tra un Grillo, un Di Pietro e un Veltroni?
Grillo è la caricatura di un profeta. Di Pietro non ne ha la stoffa. Che le Cassandre parlino in piazza è indubbio. Nella parte finale della domanda vedo rispecchiata una delle ragioni che condannano la sinistra (anche quella riformista) a restare all'opposizione. A causa di una sistematica incapacità di unità, del sistematico rifiuto di riconoscersi o di accettare un leader. Credo che a tutta la sinistra (anche purtroppo a quella riformista) si possa applicare oggi lo schema un tempo riferito ai soli fiorentini: lo sai perché si deve andare alle riunioni con due tesi da sostenere? La seconda serve nel caso che la prima abbia la maggioranza.
Il suo libro aiuta a rispondere a una domanda che si ponevano Raymond Boudon e Robert Nozick: perché gli intellettuali non amano il liberalismo? Si tratta di un risentimento verso un sistema che non li premia abbastanza? Di un mondo troppo «aperto» che rifugge alle grandi semplificazioni, ai fumettoni storici?
La ragione è l'ultima che ha detto. Dove la democrazia è lo sfondo normale della politica, quest'ultima non dà brividi nella schiena e c'è poco spazio per i fumettoni storici. Quelle che Karl Löwith elencava come virtù politiche sono forse tra le cose più difficili da imparare: pazienza, prudenza, scepsi, accettazione dei limiti, rifiuto del modo di ragionare per dicotomie e della tentazione del tutto o niente.
L'immagine che lei offre dell'«apocalittico in poltrona», così come l'ambigua esaltazione di un Citati o di un Ceronetti davanti al crollo delle Torri, che lei cita nel libro, porta alla mente una vecchia idea di George Steiner, secondo cui il desiderio degli intellettuali di "Grande Storia" è legato alla noia di vivere nelle condizioni relativamente pacifiche di una democrazia. I nostri intellettuali si annoiano molto? È per questo che s'inventano grandi canovacci romanzeschi per abbellire l'insensatezza della storia?
Non so se è solo per questo, certamente è anche per questo. Uno dei noti intellettuali citati sopra ha scritto una volta che la sua visione della storia come apocalisse era nata per «riempire la nuda, empirica, quotidiana e spesso squallida frequentazione della storia con qualche prospettiva meno precaria e transitoria di quelle con cui ci trastulliamo ogni giorno». Questo è un modo per fare della politica un sostituto della religione.
Lei polemizza sia con i profeti di sventura sia con gli ottimisti immotivati. Solo che, a differenza del passato, sembra che questi ultimi si siano molto assottigliati. Lei cita, come esempio di ottimismo irragionevole, quello che puntano a ottenere l'immortalità per vie scientifiche. Caduta la speranza in una Città ideale, le uniche «smisurate speranze» vengono dalla tecnologia?
È vero. Si sono grandemente assottigliati. Tuttavia credo che sia una forma di smisurata speranza anche l'appello ad una Grande Speranza senza la quale le piccole, parziali speranze perderebbero ogni senso.
Ha seguito la polemica sul nuovo libro di Victor Farías "L'eredità di Heidegger"? Il gregge degli antimoderni è ancora guidato, oggi, dal Pastore dell'Essere?
L'ho seguita abbastanza. Nella imminente riedizione del mio Paragone degli ingegni moderni e postmoderni ho aggiunto un saggio dedicato a discutere il libro su Heidegger di Franco Volpi e Antonio Gnoli intitolato L'ultimo sciamano. Bobbio, nel 1989, si associava al mio giudizio negativo sull'heideggerismo italiano, e giudicava «ardito e provocatorio» il mio paragone tra filosofia di Heidegger e tradizione magico-ermetica. Quel paragone viene oggi fatto proprio dagli specialisti.
Ho però forti dubbi che si possa parlare di un ultimo sciamano. Nella tradizione della filosofia ci sono da sempre personaggi come Empedocle, che si presentava ai suoi discepoli come un semidio, e come Socrate che andava per le strade a porre domande in apparenza banali. Penso che la Storia (vale a dire il senso della storia, la sua struttura, la sua direzione) ci sia e ci sia sempre stata preclusa. Che la storia possa essere decifrata dalla filosofia è stata la Grande illusione del Novecento. Essa è nata dal bisogno di tamponare con una nuova mitologia il vuoto lasciato dalla crisi della religione e di rispondere a una nostalgia dell'Assoluto.

il Riformista 31.10.08
Svolta di Ratzinger, psicologi in Vaticano
di P.R.


Tredici anni non sono pochi per l'uscita di un documento vaticano
NOVITÀ. Un documento del Vaticano apre ai nipotini di Freud. A loro il compito di valutare la «maturità affettiva» dei futuri preti. Gay compresi.
Benedetto XVI

Tredici anni non sono pochi per l'uscita di un documento vaticano. E non lo sono nemmeno per il documento uscito ieri, anche perché l'argomento di cui parla non è dei più facili. S'intitola "Orientamenti per l'utilizzo delle competenze psicologiche nell'ammissione e nella formazione dei candidati al sacerdozio" ed è stato curato dal ministero della Santa Sede che si occupa dell'educazione cattolica, con delega, appunto, ai seminari. In sostanza, un pamphlet di sole diciotto pagine che spiega come, in quali casi e perché, sia opportuno l'uso di psicologi (anche tramite test) per valutare eventuali patologie e «ferite» psichiche dei candidati al sacerdozio.
Perché una così lunga gestazione? La colpa - per molti il merito - pare sia di Joseph Ratzinger: fu lui, da cardinale, a rispedire indietro più volte il documento al quale il Vaticano iniziò a lavorare nel 1995. È stato lui a controllarne i contenuti una volta divenuto Pontefice. Il motivo? Il testo era troppo sbilanciato sulla scienza. Ovvero sugli psicologi. Si insisteva troppo sulla psicologia come scienza utile a discernere la giustezza delle vocazioni e troppo poco, invece, sul piano spirituale ovvero sul fatto che ogni vocazione è per la Chiesa, in ultima analisi, una grazia. E, dunque, su come l'ultima decisione in merito alle vocazioni sacerdotali spetti a coloro che guidano i vari seminari e non agli psicologi e alla psicologia.
Ma gli psicologi, si sa, aiutano. E sono importanti soprattutto di questi tempi, come i ripetuti casi di pedofilia scoppiati nelle diocesi del Nord America dimostrano. E Benedetto XVI ne è consapevole tanto che finalmente, dopo tredici anni, ha permesso l'uscita di questo importante documento. Non un testo destinato soltanto ai casi di omosessualità nei seminari (di questi già aveva parlato un testo del 2005 uscito dalla congregazione per la Dottrina della fede), quanto una riflessione sull'aiuto che la psicologia può dare a quei seminaristi che non manifestino una piena e cosciente maturità sessuale. Per costoro, qualora il sostegno dello psicologo o la psicoterapia non causasse miglioramenti, il cammino verso il sacerdozio può essere legittimamente interrotto. Per il bene degli stessi seminaristi, ma pure per il bene della Chiesa.
Il documento non manca di elencare le immaturità che si possono manifestare nei candidati al sacerdozio: forti dipendenze affettive, notevole mancanza di libertà nelle relazioni, eccessiva rigidità di carattere, mancanza di lealtà, identità sessuale incerta, tendenze omosessuali fortemente radicate. In questo senso, hanno spiegato ieri il cardinale Zenon Grocholewski e monsignor Jean-Louis Bruguès, rispettivamente prefetto e segretario dell'Educazione cattolica (l'uscita del documento si deve anche all'arrivo in congregazione di quest'ultimo), coloro che manifestano «tendenze omosessuali fortemente radicate» o un'identità sessuale «incerta» non possono entrare in seminario e diventare sacerdoti.
P. R.

il Riformista 31.10.08
Trovata la minuta del domenicale di Eugenio Scalfari
di Antonello Piroso


La pretesa resurrezione del Pd, la cena con Eco, Inge e Grass. La saggezza di Anemone, il barbiere di piazza della Minerva, le correnti e l'effetto rifrazione dei frammenti del partito-specchio rotto e il sarcasmo di D'Alema

Dedico queste note alla pretesa resurrezione del Pd e alla percezione che di essa hanno avuto l'opinione pubblica e i mass media. La prima, è noto, è come l'atmosfera: impalpabile, pura o inquinata, strutturata nelle sue componenti chimiche ma al tempo stesso volatile sotto la sferza di venti improvvisi. Gli stessi che consentiranno alla Cai di Roberto Colannino, con la benedizione del Grande Incantatore di Palazzo Chigi, di far solcare il cielo ai propri vettori tra il plauso dei Balilla della maggioranza e con l'abbrivio che animava lo spirito e le membra di Gabriele D'Annunzio nella sua impresa istriana. I secondi, le "moderne armi di persuasione di massa" - come le definisce l'autorevole professor Paolo Ferrari, più noto all'universo mondo come l'uomo del Dash - vivono l'hic et nunc, in una sorta di eterno ritorno dal sapore nietzschiano. Possiamo allora, dopo la grande manifestazione di sabato, dichiarare invertita la rotta - con il favore dei venti di Eolo - e onorare Walter Veltroni come intrepido Ulisse pronto al ritorno a Itaca per sbaragliare Massimo D'Alema e i suoi Proci, in primis Nicola La Torre? Nella "Scienza Nuova", Giambattista Vico sosteneva l'immutabilità dei caratteri sia degli individui sia dei soggetti collettivi. Ma è un principio che sopporta parecchie eccezioni. Basta guardare - o tempora, o mores - i tanti giri di valzer ai quali ci ha abituato Gavino Angius. Ne discutemmo una sera fino a tardi con Umberto Eco, Gunther Grass e Inge Feltrinelli. In onore dello scrittore tedesco intonammo dei simpatici jodler tirolesi, e poi ci sbizzarrimmo in acculturati giochi di società. Eco declamò: «Fatti non foste per vivere come Drupi…». «E chi è?» interloquì Inge. «Un cantante degli anni Settanta» sbuffò Eco, che a tradimento aggiunse: «Chi ha scritto Anima mia?», e Inge, garrula: «Lo so, lo so: il teologo Vito Mancuso». Eco si accasciò sfranto mentre Grass ci guardava perplesso, denunciando una sorta di spaesamento autistico che era anche il mio.
È questa condizione di estraniazione, di alienazione (in senso marxiano) la stessa che sta vivendo il Pd? Quello che so è che la fotografia più nitida della nostra caduca contemporaneità me l'ha offerta giorni orsono la saggezza di Anemone, il barbiere di piazza della Minerva dove già tagliavano le loro chiome Mario Pannunzio e Arrigo Benedetti quando poi la sera andavamo in via Veneto a sorbettare un Punt e Mes. Ebbene, Anemone mi ha raccontato, in quel vernacolo che lega Gioacchino Belli, Trilussa e financo Gianfranco Funari, di come uno specchio gli sia andato in frantumi, mentre cercava di spostarlo per far posto al calendario di tal Sara Varone, ennesimo esemplare muliebre prono alla mercificazione delle proprie pudenda. «A' dotto', 'o specchio è venuto giù dar muro come 'n sercio» ha esemplificato Anemone. Il suo specchio come il muro di Berlino. Ecco, a guardare il Pd «con occhi distaccati» - per dirla con l'indimenticato Marty Feldman, protagonista della pellicola "Frankestein Junior" - viene in mente uno specchio rotto. Ridotto in frammenti correntizi che riflettono, ciascuno, un'immagine parziale e deformata. Un effetto di rifrazione. In quella molteplicità di immagini si specchia una miriade di gruppi di dirigenti; nei frammenti di minime dimensioni cerca di rimirarsi, inutilmente, il solo Goffredo Bettini. Rutelli contempla Fassino, Franceschini osserva Parisi, Bersani concupisce la Finocchiaro, Soru ammicca alla Melandri, Gentiloni fissa Letta, la Bindi guata di sottecchi Veltroni, tutti si girano verso D'Alema, che li scruta come a dire: «Cazzo avete da guardare?». Alla fine, ciascuno - gruppi e individui - guarda se stesso e se ne compiace, ma non c'è la visione di insieme. Ci vorrebbe uno specchio unico per avere un'identità condivisa, ma è proprio questo che manca al Pd. Forse la sua crisi come soggetto politico è conseguenza di un mutamento antropologico e sociale: tante opinioni private senza più una visione del bene comune, al tempo stesso causa ed effetto del successo del Sire di Arcore, la parrucca del Re Sole che governa il Belpaese, agevolato dagli asserviti corifei mediatici della Real Casa. Le redini si sono rotte e i cavalli corrono all'impazzata senza un fantino, un Brunetta che possa guidarli. A questa è ridotta ormai la nostra povera Patria: il pifferaio suona, gli allocchi abboccano e il Pd si impaluda in un barattolo di Nutella. Lascio ai lettori trarre le dovute conclusioni. Avvertendoli però che il prolasso del sistema è alle porte. Per quanto mi riguarda, io ritorno a parlare con io.
(Estratto dell'editoriale di domenica prossima di Eugenio Scalfari su Repubblica)

Irispress.it 30.10.08
Scuola: Bertinotti, ci sono ragioni per lo sciopero generale

ROMA, 30 OTT - "Lo sciopero generale è sempre stato, nell'intera storia del movimento operaio, il banco di prova della maturità di un'opposizione, del consenso di massa e partecipato che vive con essa. ''Lo è ancora? Sí, lo puó essere" Fausto Bertinotti scrive il proprio commento all'attuale situazione sul bimestrale 'Alternative per il socialismo'. "Viene eletto a normalità lo stato di emergenza. Si dispiegano, senza freni, le posizioni della Confindustria per l'affermazione del primato assoluto dell'impresa, si fa potente il tentativo di irretire il sindacato, di cancellare il contratto nazionale di categoria, fino a proporre l'orizzonte concreto dei contratti individuali. Sí ci sarebbero tutte le ragioni per lo sciopero generale, eppure esso non è all'ordine del giorno. Perché?" conclude l'ex presidente della Camera.

Adnkronos 30.10.08
Scuola: Bertinotti, da qui riparte la lotta sociale

Roma, 30 ott. - (Adnkronos) - "La lotta sociale riparte dalla scuola". Cosi' Fausto Bertinotti, commenta la massiccia partecipazione del popolo della scuola alla manifestazione organizzata a Roma contro le politiche del governo. Una partecipazione massiccia che, secondo Bertinotti, vuol dire che "la mancanza di opposizione politica o meglio la possibilita' di un governo di neutralizzare l'opposizione non evita che si possa determinare una crisi sociale e una contrapposizione sociale. Anche in assenza di un'opposizione politica si puo' realizzare una grande opposizione sociale di una societa' civile che si muove in autonomia''. ''Siamo di fronte a un fatto nuovo, un movimento post novecentesco che nasce spontaneamente su una realta' come quella della scuola in cui sono gli stessi protagonisti a immedesimarsi nella contestazione. E' il corpo sociale -ha concluso- come tale, che manifesta la sua contrarieta'".

Apcom 30.10.08
Scuola/ Bertinotti: Impressionante spedizione punitiva di ieri
"Certo suo carattere richiedeva intervento pronto polizia"Roma, 30 ott. (Apcom) - L'ex presidenne della Camera, Fausto Bertinotti, non vuole entrare nelle polemiche sulla gestione dell'ordine pubblico in occasione degli scontri di ieri in Piazza Navona: "Mi ha colpito di più - commenta parlando con i cronisti a margine della manifestazione sindacale sulla scuola - che sia stata organizzata una spedizione punitiva, quello è impressionante".
Secondo Bertinotti "per fortuna questo è un movimento che non teme di essere inquinato dalla provocazione: la sua connotazione antifascista è non-violenta è dichiarata".
"Certo - aggiunge, rispondendo a una domanda sulla presenza in quella piazza dei componenti del Blocco Studentesco armati di mazze - il carattere così proditorio richiedeva un intervento della polizia pronto...".

Apcom 31.10.08
Bertinotti agli studenti: Sulla riforma terrò una lezione
L'ex presidente Camera dedicherà una lezione a Perugia sull'argomento


Perugia, 31 ott. (Apcom) - Una lezione all’università dedicata alle difficoltà con le quali si trova a fare i conti il mondo della scuola. L’ha promessa agli studenti dell’Ateneo di Perugia l’ex presidente della Camera, Fausto Bertinotti, che oggi ha tenuto la sua seconda lezione da professore universitario alla facoltà di giurisprudenza del capoluogo umbro.
Alcuni studenti del movimento in lotta contro la riforma Gelmini, provenienti dalla fazione degli «autoconvocati», hanno chiesto a Bertinotti di poter esprimere a lui e agli altri ragazzi presenti il malessere che si sta vivendo nell’Università perugina dopo i tagli e il rischio di privatizzazione paventato dal governo Berlusconi. Tutto questo è avvenuto nel corso della lezione. Bertinotti ha chiesto di poter continuare la sua «traduzione» della storia della Costituzione, rimandando alla terza lezione un intervento specifico sulla scuola e sui mali che la stanno attraversando. Gli studenti hanno accolto la proposta dell’ex presidente della Camera.

giovedì 30 ottobre 2008

Repubblica 30.10.08
Varato il decreto. Squadristi in piazza a Roma, scontri con gli studenti
Proteste in tutta Italia, tafferugli anche a Milano. Il Pd: il voto popolare cancellerà la legge. Oggi grande manifestazione con i sindacati

di Mario Reggio


ROMA - Quattro feriti, tre studenti ed un agente, due arrestati, 21 giovani caricati sui cellulari e portati negli uffici della Polizia per essere identificati. È saltata così, in piazza Navona, la fragile tregua tra il Blocco studentesco ed i giovani che occupano le scuole e le facoltà. Mentre la piazza faceva da scenario agli scontri, a poche decine di metri, a Palazzo Madama i senatori approvavano il contestato decreto Gelmini sulla scuola. Cortei e manifestazioni si sono svolti ieri in tutta Italia: da Milano a Napoli, da Firenze a Torino, da Bologna a Palermo. A Milano il corteo è stato caricato dalla polizia, prima di occupare la stazione ferroviaria di Lambrate. A Napoli gli studenti hanno bloccato la stazione centrale di piazza Garibaldi.
E oggi sciopero nazionale del personale della scuola, indetto da Cgil, Cisl, Uil, Snals e Gilda. Il corteo partirà alle 9 da piazza Esedra e si concluderà a piazza del Popolo. Alla manifestazione hanno aderito anche molte associazioni di studenti.
La giornata di ieri si è aperta con una "profezia" del capogruppo del Pdl al Senato Maurizio Gasparri: «I contestatori si sono dissolti come le bugie della sinistra. Per essere giovani rivoluzionari temono già i reumatismi». Tempo un quarto d´ora, sono le dieci, ed arrivano i primi cortei di studenti delle superiori. Arrivano da decine di scuole, tentano di raggiungere Palazzo Madama, ma polizia e carabinieri bloccano Corso Rinascimento. Entrano a piazza Navona. Sembra che tutto fili liscio. Si accalcano nella corsia Agonale, la stradina che collega piazza Navona al Senato. Urlano slogan contro la Gelmini fronteggiati dai poliziotti in assetto antisommossa. I carabinieri presidiano i vicoli d´accesso alla piazza. Tra gli studenti del movimento anche giovani del Blocco studentesco. Poi, all´improvviso, si scatena il delirio. Un gruppo del Blocco aggredisce gli studenti dei collettivi, l´obiettivo è raggiungere la prima fila dei manifestanti a ridosso delle transenne. Lo scontro si sposta in piazza. Le forze dell´ordine non si muovono. Arrivano nuovi cortei che circondano il Senato su tre lati. Sono da poco passate le dieci e mezza e il presidente Schifani annuncia l´approvazione del decreto Gelmini: 162 a favore, 134 contrari e due astenuti. Gli studenti ancora non sanno nulla. Il ministro Gelmini è soddisfatta: «Si cambia. Si torna alla scuola della serietà». La notizia si diffonde a piazza Navona. Gli studenti decidono: «Noi da qui non ce ne andiamo». L´atmosfera è tornata apparentemente tranquilla. I parlamentari dell´opposizione lasciano il Senato e parlano con gli studenti. Nello stesso momento, a Milano, la polizia carica la testa del corteo.
A piazza Navona il camion del Blocco studentesco si sposta verso il lato nord. Sta per arrivare il corteo dei collettivi della Sapienza e quello partito da Roma Tre. I carabinieri bloccano tutti a Largo Argentina. Ma dai cordoni serrati, a piccoli gruppi, gli universitari passano dai vicoli che si intersecano attorno a piazza Navona. Arrivano in piazza alla spicciolata proprio quando scoppiano gli scontri con il Blocco che si è presentato in piazza armato di caschi, bastoni e spranghe, nascosti sul camion. Bastoni contro tavolini dei bar. Botte da orbi. Solo allora la polizia interviene in forze. La piazza è di nuovo stracolma. Si organizza il corteo che punta di nuovo sulla Sapienza al grido: il movimento è antifascista. Intanto la polizia carica sui cellulari i 21 del Blocco e li trasferisce al commissariato di piazza del Collegio Romano. Il corteo dei collettivi riprende la marcia: obiettivo la scalinata del Rettorato alla Sapienza. Stanotte decideranno se e come partecipare al corteo dei sindacati della scuola. Ieri sera la Procura di Roma ha chiesto formalmente alla questura un dettagliato rapporto sugli scontri a piazza Navona.

Repubblica 30.10.08
Quel camion pieno di spranghe
Caschi, passamontagna e bastoni. E quando passa Cossiga un anziano docente urla: "Contento ora?"
Un camion carico di spranghe e in piazza Navona è stato il caos
La rabbia di una prof: quelli picchiavano e gli agenti zitti
di Curzio Maltese


È successo tutto sotto gli occhi della polizia Se non l´avessi visto con i miei occhi ma solo letto sul giornale non ci avrei creduto
Celerini fermi per cinque minuti, mentre a pochi metri succedeva il finimondo
Sedie e tavolini presi dai bar e scaraventati contro gli avversari

Aveva l´aria di una mattina tranquilla nel centro di Roma. Nulla a che vedere con gli anni Settanta. Negozi aperti, comitive di turisti, il mercatino di Campo de´ Fiori colmo di gente. Certo, c´era la manifestazione degli studenti a bloccare il traffico.
«Ma ormai siamo abituati, va avanti da due settimane» sospira un vigile. Alle 11 si sentono le urla, in pochi minuti un´onda di ragazzini in fuga da Piazza Navona invade le bancarelle di Campo de´ Fiori. Sono piccoli, quattordici anni al massimo, spaventati, paonazzi. Davanti al Senato è partita la prima carica degli studenti di destra. Sono arrivati con un camion carico di spranghe e bastoni, misteriosamente ignorato dai cordoni di polizia. Si sono messi alla testa del corteo, menando cinghiate e bastonate intorno. Circondano un ragazzino di tredici o quattordici anni e lo riempiono di mazzate. La polizia, a due passi, non si muove.
Sono una sessantina, hanno caschi e passamontagna, lunghi e grossi bastoni, spesso manici di picconi, ricoperti di adesivo nero e avvolti nei tricolori. Urlano «Duce, duce». «La scuola è bonificata». Dicono di essere studenti del Blocco Studentesco, un piccolo movimento di destra. Hanno fra i venti e i trent´anni, ma quello che ha l´aria di essere il capo è uno sulla quarantina, con un berretto da baseball. Sono ben organizzati, da gruppo paramilitare, attaccano a ondate. Un´altra carica colpisce un gruppo di liceali del Virgilio, del liceo artistico De Chirico e dell´università di Roma Tre. Un ragazzino di un istituto tecnico, Alessandro, viene colpito alla testa, cade e gli tirano calci. «Basta, basta, andiamo dalla polizia!» dicono le professoresse.
Seguo il drappello che si dirige davanti al Senato e incontra il funzionario capo. «Non potete stare fermi mentre picchiano i miei studenti!» protesta una signora coi capelli bianchi. Una studentessa alza la voce: «E ditelo che li proteggete, che volete gli scontri!». Il funzionario urla: «Impara l´educazione, bambina!». La professoressa incalza: «Fate il vostro mestiere, fermate i violenti». Risposta del funzionario: «Ma quelli che fanno violenza sono quelli di sinistra». C´è un´insurrezione del drappello: «Di sinistra? Con le svastiche?». La professoressa coi capelli bianchi esibisce un grande crocifisso che porta al collo: «Io sono cattolica. Insegno da 32 anni e non ho mai visto un´azione di violenza da parte dei miei studenti. C´è gente con le spranghe che picchia ragazzi indifesi. Che c´entra se sono di destra o di sinistra? È un reato e voi dovete intervenire».
Il funzionario nel frattempo ha adocchiato una telecamera e il taccuino: «Io non ho mai detto: quelli sono di sinistra». Monica, studentessa di Roma Tre: «Ma l´hanno appena sentito tutti! Chi crede d´essere, Berlusconi?». «Lo vede come rispondono?» mi dice Laura, di Economia. «Vogliono fare passare l´equazione studenti uguali facinorosi di sinistra». La professoressa si chiama Rosa Raciti, insegna al liceo artistico De Chirico, è angosciata: «Mi sento responsabile. Non volevo venire, poi gli studenti mi hanno chiesto di accompagnarli. Massì, ho detto scherzando, che voi non sapete nemmeno dov´è il Senato. Mi sembravano una buona cosa, finalmente parlano di problemi seri. Molti non erano mai stati in una manifestazione, mi sembrava un battesimo civile. Altro che civile! Era stato un corteo allegro, pacifico, finché non sono arrivati quelli con i caschi e i bastoni. Sotto gli occhi della polizia. Una cosa da far vomitare. Dovete scriverlo. Anche se, dico la verità, se non l´avessi visto, ma soltanto letto sul giornale, non ci avrei mai creduto».
Alle undici e tre quarti partono altre urla davanti al Senato. Sta uscendo Francesco Cossiga. «È contento, eh?» gli urla in faccia un anziano professore. Lunedì scorso, il presidente emerito aveva dato la linea, in un intervista al Quotidiano Nazionale: «Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand´ero ministro dell´Interno (...) Infiltrare il movimento con agenti pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto della polizia. Le forze dell´ordine dovrebbero massacrare i manifestanti senza pietà e mandarli tutti all´ospedale. Picchiare a sangue, tutti, anche i docenti che li fomentano. Magari non gli anziani, ma le maestre ragazzine sì».
È quasi mezzogiorno, una ventina di caschi neri rimane isolata dagli altri, negli scontri. Per riunirsi ai camerati compie un´azione singolare, esce dal lato di piazza Navona, attraversa bastoni alla mano il cordone di polizia, indisturbato, e rientra in piazza da via Agonale. Decido di seguirli ma vengo fermato da un poliziotto. «Lei dove va?». Realizzo di essere sprovvisto di spranga, quindi sospetto. Mentre controlla il tesserino da giornalista, osservo che sono appena passati in venti. La battuta del poliziotto è memorabile: «Non li abbiamo notati».
Dal gruppo dei funzionari parte un segnale. Un poliziotto fa a un altro: «Arrivano quei pezzi di merda di comunisti!». L´altro risponde: «Allora si va in piazza a proteggere i nostri?». «Sì, ma non subito». Passa il vice questore: «Poche chiacchiere, giù le visiere!». Calano le visiere e aspettano. Cinque minuti. Cinque minuti in cui in piazza accade il finimondo. Un gruppo di quattrocento di sinistra, misto di studenti della Sapienza e gente dei centri sociali, irrompe in piazza Navona e si dirige contro il manipolo di Blocco Studentesco, concentrato in fondo alla piazza. Nel percorso prendono le sedie e i tavolini dei bar, che abbassano le saracinesche, e li scagliano contro quelli di destra.
Soltanto a questo punto, dopo cinque minuti di botte, e cinque minuti di scontri non sono pochi, s´affaccia la polizia. Fa cordone intorno ai sessanta di Blocco Studentesco, respinge l´assalto degli studenti di sinistra. Alla fine ferma una quindicina di neofascisti, che stavano riprendendo a sprangare i ragazzi a tiro. Un gruppo di studenti s´avvicina ai poliziotti per chiedere ragione dello strano comportamento. Hanno le braccia alzate, non hanno né caschi né bottiglie. Il primo studente, Stefano, uno dell´Onda di scienze politiche, viene colpito con una manganellata alla nuca (finirà in ospedale) e la pacifica protesta si ritrae.
A mezzogiorno e mezzo sul campo di battaglia sono rimasti due ragazzini con la testa fra le mani, sporche di sangue, sedie sfasciate, un tavolino zoppo e un grande Pinocchio di legno senza più una gamba, preso dalla vetrina di un negozio di giocattoli e usato come arma. Duccio, uno studente di Fisica che ho conosciuto all´occupazione, s´aggira teso alla ricerca del fratello più piccolo. «Mi sa che è finita, oggi è finita. E se non oggi, domani. Hai voglia a organizzare proteste pacifiche, a farti venire idee, le lezioni in piazza, le fiaccolate, i sit in da figli dei fiori. Hai voglia a rifiutare le strumentalizzazioni politiche, a voler ragionare sulle cose concrete. Da stasera ai telegiornali si parlerà soltanto degli incidenti, giorno dopo giorno passerà l´idea che comunque gli studenti vogliono il casino. È il metodo Cossiga. Ci stanno fottendo».

Repubblica 30.10.08
La crisi dell´Onda, si spacca il movimento
"Scontri pilotati dai neri di casa Pound". A Roma divisi in tre cortei Secondo molti da ieri "tutto è cambiato, non possiamo più stare insieme"
di Maria Novella De Luca


ROMA - E´ durato poco più di un mese il sogno del movimento senza recinti, senza ideologie e senza cuori rossi o neri. C´è voluto il primo grido "Duce, duce", due giorni fa, sotto il Senato, e la risposta del corteo "siamo tutti antifascisti", per capire che l´aria stava per cambiare. E cioè che il movimento s´è rotto, la battaglia contro i tagli all´istruzione non unisce più ma divide, di là i "neri" di Blocco studentesco e Lotta studentesca, di qua i collettivi, le sigle universitarie della sinistra, i centri sociali, e poi gli altri, orgogliosamente antipolitici, autodichiarati "irrappresentabili", che dopo gli scontri di ieri però ammettono di sentirsi confusi e delusi.
Dalla Sapienza in assemblea permanente Giorgio Sestili, 24 anni, studente di Fisica, uno dei leader della protesta, dice che non è vero, «il tentativo di ideologizzare il movimento è fallito». «Non esistono blocchi contrapposti, gli scontri di ieri erano organizzati, pilotati, e bastava guardare l´età di chi aveva catene e bastoni: 30-35 anni, nomi e volti noti di Casa Pound, neonazisti ben conosciuti alle forze dell´ordine, venuti a Piazza Navona per provocare e dividere». Oggi dunque nel corteo, sostiene Sestili, «i movimenti mostreranno la loro anima pacifista, tra di noi ci sono studenti di destra, di Forza Italia, ma anche studenti che non si riconoscono in nulla se non nella battaglia per la scuola, l´università e la ricerca... «.
Forse. Eppure Annalisa, di Psicologia, afferma invece che da ieri tutto è cambiato, lei si dichiara "moderata", e tendenzialmente apolitica, ma di fronte alle provocazioni bisogna dire «da che parte stai, non è un caso che ci siamo ritrovati tutti a cantare Bella Ciao, il movimento si è spaccato, si deve riconoscere che è la sinistra a guidarlo, e ad avere la forza di contestare gli scempi di questo governo». Per essere "apolitica" parla come una piccola leader Annalisa, ma intanto il movimento, senza sigle né cappelli, fa un salto dichiarato dentro la gauche, mentre l´area della destra fa quadrato non tanto verso il Blocco Studentesco, fascisti troppo estremi, quanto, semmai, avvicinandosi ad Azione Universitaria, emanazione giovanile di Alleanza Nazionale. Ancora sudato e rosso in viso, Fulvio V. studente del liceo Giulio Cesare, uscendo da piazza Navona, sostiene concitato che sono stati «i centri sociali ad aggredire i ragazzi di Blocco Studentesco, loro volevano manifestare pacificamente, e hanno soltanto risposto alle provocazioni, fino a adesso io ero di destra ma alle assemblee e ai collettivi ci andavo, sono d´accordo con le occupazioni e contesto i tagli della Gelmini, però i rossi non devono rompere il c... è finita la favola che potevamo fare le manifestazioni tutti insieme».
La pace sembra rotta, si sa che d´ora in poi le provocazioni ci saranno, «andatevi a leggere le dichiarazioni di Cossiga - ricorda Eugenio, laureando in Giurisprudenza - sull´uso degli infiltrati nelle manifestazioni, e capirete che il movimento non c´entra nulla, c´è chi è schierato e chi no, ma il tentativo è chiaro, vogliono che ci spacchiamo, che ci massacriamo tra di noi, per farci dimenticare ciò che accade, quello che ci stanno rubando». Al di là del movimento le università sono divise in sigle nuove e storiche, a sinistra la Rete degli studenti, l´Uds, vicina al Pd, e l´Udu, organizzata come un sindacato. A destra c´è Lotta Studentesca, emanazione di Forza Nuova, Azione Universitaria, costola di Alleanza nazionale, presente e assai attiva anche nei licei. Quindi c´è il "Blocco", giovani, dicono loro, dal cuore nero, pochissimi numeri nelle scuole e negli atenei ma un´organizzazione militare nel partecipare a cortei e manifestazioni. Oggi nel corteo culmine di questo ottobre di protesta no-stop si vedrà se davvero sono tornati gli steccati, i blocchi contrapposti. «Saremo pacifisti e compatti», dicono. Eppure già stamattina gli universitari saranno divisi in tre cortei: l´Udu e l´Uds, con la Rete degli studenti, partiranno dal grande piazzale della Stazione Termini di Roma, dove arriveranno i treni delle organizzazioni sindacali. Il movimento, invece, si è dato appuntamento alla Sapienza. I giovani di destra cammineranno con i loro striscioni e le bandiere tricolori. Tre aree, tre mondi, divisi alla meta.

Repubblica 30.10.08
Il funerale dell'Università
di Aldo Schiavone


L´inasprirsi dello scontro sulla scuola in Parlamento e nelle nostre città è una pessima notizia per il Paese. Un´Italia preoccupata, abbuiata e stanca, sull´orlo di una pericolosa recessione (ma Tremonti ieri ha appena detto che ci aspetta qualcosa di ancora peggiore), avrebbe bisogno d´altro che di un´inutile prova di forza.
Stia attento il presidente del Consiglio, e non sottovaluti l´iniziativa del Pd di chiedere un referendum. Le opinioni cambiano, l´inquietudine è forte, e ci vuol poco a finire in un vicolo cieco.
Quanto all´Università, siamo di fronte - e già da mesi - all´annuncio di una morte. Avverrà fra l´inverno e la primavera del 2010. Se i provvedimenti assunti da questo governo non verranno modificati, in quell´arco di tempo gli Atenei si vedranno trasferiti dallo Stato circa 600 milioni di euro in meno, rispetto alle già magre quantità attuali: su un budget complessivo, cioè, che non arriva a sette miliardi. Tenuto conto della composizione della spesa - con la grandissima parte dei fondi statali destinati alla retribuzione del personale, docente e tecnico amministrativo - si tratta di una riduzione assolutamente insostenibile. Una specie di devastante bomba a orologeria, innescata non in conseguenza della crisi dei mercati finanziari, ma già da prima e a freddo, con l´unico effetto di creare un´ennesima e gravissima emergenza, un altro stato d´eccezione scaraventato sulle famiglie italiane - soprattutto sulle giovani generazioni, il cui futuro si mette così a rischio in modo irresponsabile.
Le Università - almeno una forte maggioranza - dovranno dichiarare lo stato d´insolvenza, e probabilmente non saranno più nemmeno capaci di pagare gli stipendi. Secondo quanto prescrive la legge, verranno commissariate dal ministero. Per farne che? Chiuse, vendute ai privati, una volta scorporati i loro debiti, come Alitalia? Non si sa. L´unica certezza è questa: che dopo non esisterebbe più, e di colpo, un sistema universitario italiano in grado di funzionare. Per un Paese moderno, sarebbe l´apocalisse. È possibile che qualcuno la voglia davvero? E cosa accadrebbe, poi?
L´Università italiana è attraversata da distorsioni non superficiali, sulle quali si avventa da tempo un qualunquismo scandalistico e trasversale, di destra e di sinistra. La radiografia di questi mali è una registrazione impietosa di quasi tutte le ombre della nostra storia repubblicana: dalla miopia e dal provincialismo di una parte cospicua delle classi dirigenti, a una cultura sindacale che, quando è uscita dalle fabbriche per entrare nel pubblico impiego, ha finito con l´assumere quasi sempre un ruolo conservatore, schierato a difesa di piccole nicchie di privilegio. E vi sono, poi, certo, responsabilità più dirette che riguardano il comportamento del ceto accademico. Ne rispondiamo. E in particolare, resta il fatto che abbiamo usato generalmente in maniera deludente e corporativa uno strumento prezioso: l´autonomia degli Atenei, voluta dal più grande ministro dell´università che l´Italia abbia avuto nel dopoguerra - l´indimenticabile Antonio Ruberti. Ma siamo però riusciti a costruire negli ultimi decenni - pur partendo in grave ritardo - un´università di massa le cui performances complessive sono fra le prime del mondo (come rivelano bene gli dati del QS World University Rankings, la cui lettura consiglio a tanti critici improvvisati): con laureati che non temono confronti rispetto alla media europea e americana. E con docenti che girano ancora a testa alta da Parigi a Los Angeles. Immaginare adesso che tagli di bilancio della dimensione prevista siano una specie di resa dei conti, o una sorta di abnorme espiazione per gli errori commessi, non ha alcun senso istituzionale né politico: perché non siamo innanzi a una terapia, anche estrema, ma solo a una indiscriminata decimazione di massa, che si ripercuoterebbe innanzitutto su giovani senza colpa alcuna - quegli stessi che oggi stanno prendendo coscienza della loro condizione, e che forse la sanno già più lunga di quel che noi si pensi.
La prima cosa è dunque battersi per scongiurare questa assurda minaccia: che il 2010 non sia la data di una morte premeditata, e che l´intero sistema universitario italiano possa attraversarlo indenne. Il ministro si impegni in questo senso di fronte al Paese. E insieme, le Università avviino un´autoriforma limpida e coraggiosa dei propri comportamenti e dei propri profili istituzionali. Per cominciare: riduzione drastica dei corsi di laurea, con un rapporto equilibrato fra lauree triennali e magistrali. Riduzione non meno severa del numero delle materie insegnate e degli esami da sostenere in ciascun corso. E poi ancora, riduzione delle sedi distaccate, la cui apertura indiscriminata si è spesso rivelata un´operazione soltanto clientelare, e revisione dei meccanismi di governance, per garantire esiti più trasparenti e con più ricambio. E infine autovalutazione, per individuare all´interno di ciascuna Università i punti di maggior forza qualitativa dal punto di vista della didattica e della ricerca. Risorse aggiuntive potranno essere conferite agli Atenei solo di fronte a risultati importanti raggiunti nelle direzioni indicate. Insomma, fondi in cambio di autoriforma.
Sono convinto da tempo che, per quanto sia stata in genere male usata, l´autonomia universitaria resti un bene da difendere strenuamente, e che in questo campo lo Stato meno intervenga meglio è. Ma su alcuni pochi punti occorrerebbero provvedimenti tempestivi: il reclutamento della docenza; l´accesso dei giovani alla ricerca, con nuove regole per i dottorati; un sistema efficiente di valutazione per misurare il lavoro svolto da ogni università. Che il ministro (sinora silenzioso su questi temi) faccia la sua parte: ascolti, valuti, scelga; e poi, si presenti in Parlamento. È così che funziona la democrazia.

Repubblica 30.10.08
Così Obama vuole conquistare il voto di Dio
di Giancarlo Bosetti


Nei sondaggi Obama conquista i credenti più di McCain e rimescola i rapporti tra fede e politica. Quello religioso non è il tema dell´ultima fase della sua campagna, ma lo è stato di tutta. «Riconciliare» fedeli e Democrats è un suo messaggio base fin dal principio. E molto prima di candidarsi, alla convention di Boston del 2004, il senatore di Chicago scosse i liberals americani con un discorso che cominciava parlando di fede: «Anche noi Democratici veneriamo un Dio formidabile».
Adesso è riuscito a sorpassare l´avversario tra i cattolici e i protestanti storici (non evangelici). Nei sondaggi che scompongono gli elettori tra gruppi confessionali (Pew Research-Forum on Religion) il rovesciamento dei rapporti di forza nelle intenzioni di voto è netto da 39-52% a 50-40% tra i cattolici e da 40-50% a 48-43% tra i protestanti. E si tratta dei cattolici non ispanici, perché tra i latinos la prevalenza del Democratico sul Repubblicano è meno problematica, così come tra i non affiliati ad alcuna Chiesa, per non parlare dei protestanti neri, stabilmente pro Obama intorno al 95%. Ma qualcosa si muove, negli ultimi due mesi, anche nella roccaforte inespugnabile del voto repubblicano: gli evangelici, tra i quali sale dal 18 al 24% (McCain dal picco del 74 al 67%, effetto Palin). Si tratta del serbatoio profondo di consensi che Bush riuscì a mobilitare nel 2004 spostando la campagna dal disastro Iraq ai "valori morali" e contro il matrimonio gay.
L´efficacia di Obama tra i credenti non ha niente di casuale. È il risultato di un progetto. E rappresenta il più evidente valore aggiunto della candidatura di Obama nei confronti di Hillary Clinton, la quale difficilmente avrebbe potuto rompere la diffidenza dell´elettorato religioso (la stragrande maggioranza degli americani). L´ex first lady, protestante metodista, non ha mai sottovalutato, ovviamente, l´importanza della fede nella vita politica del suo paese, ma la sua generazione è collegata, nell´immaginario sociale, al ´68 e all´ascesa dei diritti di scelta, all´evoluzione individualista e libertaria del costume. E anche a molte altre cose, che più o meno rozzamente nella campagna avversaria, hanno intrecciato il progressismo americano con una visione materialistica, edonistica ed egoista della vita, e anche a una rottura con la fede.
Il "liberalismo standard", inteso come – diremmo noi – progressismo laico, presta il fianco alle offensive del populismo conservatore, agli attacchi anti-elitisti condotti nel nome dei principi della famiglia e delle paure della gente comune. La parte della società che si preoccupa del deficit etico, della perdita di coesione, della crisi generale di orientamento, aveva trovato in questi anni risposte più soddisfacenti tra i Repubblicani. La crisi economica avrebbe potuto non ridurre, ma acutizzare questa tendenza. Non importa che i leader democratici degli ultimi decenni siano stati in qualche caso ferventi religiosi (vedi Carter) anche più dei Nixon e dei Reagan. Il pendolo dei consensi tra la gente di fede ha avuto una lunga oscillazione che l´ha portato a destra. Kerry non aveva saputo fare molto per contrastare la forza elettorale di Bush e la presa della New Right religiosa.
Solo Obama, in questo più attrezzato di McCain anche per ragioni biografiche, è riuscito – almeno nei sondaggi – a rompere questi allineamenti, facendo pienamente suo il tema del "deficit morale" della vita delle famiglie, del "deficit di empatia" nella condizione della società americana contemporanea, e assumendo la religione, la pluralità delle fedi, come risorsa indispensabile per fronteggiare la crisi. Una prospettiva che in Europa si usa ora definire "post-secolare". Di fronte alla richiesta dei religiosi di influire sulla vita pubblica, la risposta standard di un liberal – ha teorizzato Obama in questi due anni di battaglie politiche – consiste nel rimandare alla libertà lasciata da un regime pluralista. (Sei cattolico o evangelico? Allora non unirti a un omosessuale, non abortire, ma non impedirlo agli altri), ma oggi questa risposta non gli appare più sufficiente.
La comprensione reciproca tra credenti e non credenti deve andare oltre per apprezzare meglio gli uni le ragioni degli altri, e per cercare di interpretarne e tradurne il senso anche nella vita politica. Nulla da revocare della cultura costituzionale americana jeffersoniana che, con il primo emendamento, preserva le istituzioni e la società dal pericolo di un monopolio religioso da parte di qualsivoglia chiesa, ma il passo avanti che Obama invoca a gran voce (anche se sull´aborto ha finora votato come un laico standard europeo) è la fine di una contrapposizione che ha scavato un solco tra chi pratica una confessione e chi non la pratica, mettendo gli uni e gli altri in caricatura: da una parte i religiosi come ossessionati esclusivamente dalla lotta ai matrimoni gay, dalle preghiere a scuola e dal desiderio di proibire l´insegnamento darwiniano, dall´altra i liberal come viziosi dediti all´aborto e a ogni genere di devianza sessuale. Viva la forza morale e coesiva delle religioni, dice Obama, ne abbiamo bisogno, ne hanno bisogno anche i liberals, non solo per ragioni elettorali, ma anche e soprattutto perché, senza quelle risorse e divisi, non potremmo affrontare le sfide del tempo e del nostro destino comune.

Repubblica 30.10.08
Odio Amore. Due sentimenti in un’unica parte del cervello
Lo svela una ricerca. Molti secoli dopo Catullo
"Ti voglio ma ti detesto"
"Sono entrambi stati mentali irrazionali e portano ad azioni che si possono considerare eroiche o violente"
di Enrico Franceschini


Londra. La odio e la amo. E adesso, potremmo dire a Catullo che li ha immortalati, sappiamo anche come sia possibile provare due sentimenti così contrastanti nei confronti della stessa persona.
Ricercatori britannici hanno infatti scoperto che, all´interno del cervello umano, amore e odio sono attivati dalle stesse aree e dagli stessi meccanismi biochimici. Il processo mentale che sviluppa l´amore, in sostanza, è il medesimo che sviluppa l´odio.
Buoni e cattivi sentimenti, perlomeno in questo campo, nascono da identici percorsi mentali. Quel che Catullo aveva descritto nei versi che ognuno di noi ha imparato a scuola, «odi et amo», e che molti innamorati sperimentano sulla propria pelle, nel momento in cui, dopo l´ennesimo bisticcio, smettono di amare, è dunque scientificamente vero. Amore e odio sono due facce della stessa medaglia.
Riportata ieri dalla stampa del Regno Unito, la scoperta è il frutto di una ricerca condotta dal professor Semir Zeki dell´University College London, una delle più prestigiose università nazionali, e pubblicata sulla rivista Plos One. Uno scanner ha indagato i circuiti neurali che si attivano quando le persone sottoposte allo studio guardavano una fotografia di qualcuno che dicevano di odiare. Confrontando questi dati con le reazioni avute dalle stesse persone davanti all´immagine di un individuo amato, gli studiosi hanno verificato che il «circuito dell´odio» ha numerose parti in comune con il «circuito dell´amore». In particolare, gli scienziati si sono resi conto che il «circuito dell´odio» comprende parti del cervello, nella regione della sub-corteccia cerebrale, che vengono attivate anche durante il «circuito dell´amore». I volontari usati per l´esperimento hanno selezionato personalmente le immagini per il test: la maggioranza ha scelto un ex innamorato o un collega di lavoro per la fotografia del personaggio odiato (tranne una donna che ha scelto un uomo politico). «I risultati sembrano spiegare il motivo per cui sia l´odio che l´amore romantico possono portare a simili atti di comportamento estremo», commenta il professor Zeki.
«L´odio e l´amore - per il biologo - hanno lo stesso interesse scientifico. Sono entrambi irrazionali e portano entrambi ad azioni che si possono considerare eroiche o violente».
Una differenza tra i due sentimenti, dal punto di vista biologico, tuttavia esiste, ed ha proprio a che fare con l´irrazionalità. L´odio risulta assai più razionale dell´amore. Gran parte della corteccia cerebrale associata alla capacità di giudizio e al raziocinio risulta disattivata quando si accende il «circuito dell´amore», mentre soltanto una piccola parte di quest´area della razionalità si disattiva quando si accende il «circuito dell´odio». Ciò spiegherebbe, in pratica, perché l´innamorato perde la testa, mentre l´innamorato deluso, magari deciso a farla pagare all´altro, la ritrova.
«L´amante non ragiona, anche per questo è meno critico sulla persona amata», nota il professor Zeki, «mentre chi odia ha bisogno di lucidità per capire come danneggiare l´oggetto del suo sentimento, per vendicarsi, ferirlo, metterlo in difficoltà».
La odio e la amo, si potrebbe catullianamente concludere, ma mentre so perfettamente perché la odio, quando la amo non capisco più niente.

Repubblica 30.10.08
E se la terra fosse piatta? Una satira ancora attuale
Una rappresentazione al festival della scienza di Genova
di Piergiorgio Odifreddi


Edwin Abbott pubblicò nel 1882 "Flatlandia" un testo che Manganelli definì un incubo e insieme una farsa e che ormai è un classico ed ha ispirato anche il cinema
Il libro era ferocemente ironico con la società vittoriana e le sue gerarchie
Il misterioso Charles Hinton immaginò un mondo circolare pieno di triangoli

Negli anni sessanta del Novecento, grazie al titolo di un saggio di Herbert Marcuse, si parlava spesso metaforicamente di «uomo a una dimensione». Ma anche letteralmente l´uomo è prossimo ad essere a una dimensione, nel senso che la sua altezza è in media preponderante rispetto alla sua larghezza e alla sua profondità. Diversamente da altri esseri quasi unidimensionali, come i rettili, l´uomo sviluppa però questa sua dimensione preponderante in direzione perpendicolare, invece che parallela, alla superficie terrestre su cui vive.
A sua volta la superficie terrestre è prossima a essere un piano, almeno nelle vicinanze e nelle percezioni degli individui che la abitano: non a caso, in origine, la scoperta che la Terra è rotonda ha richiesto una certa sofisticazione intellettuale e ha suscitato un´altrettanto certa avversione viscerale. Non è dunque così sorprendente che a qualcuno possa venire in mente di raccontare una storia ambientata su un mondo piatto e popolata di esseri sostanzialmente unidimensionali come i serpenti, o bidimensionali come le tartarughe.
Una volta avuta l´idea, poi, è abbastanza naturale popolare questo immaginario mondo piatto di quanti più esseri è possibile. E visto che i serpenti sono realizzazioni concrete dei segmenti astratti (da cui il detto popolare «segmenti serpenti»), e le tartarughe dei cerchi, si può immaginare di narrare più in generale le avventure fantamatematiche dei poligoni sul piano. Ora, progettare è facile, ma realizzare è difficile: nel 1882 Edwin Abbott Abbott ci riuscì però talmente bene, che il suo Flatlandia è diventato un classico e continua ad essere stampato e letto a distanza di più di un secolo. Anzi, l´ultima edizione italiana, con testo inglese a fronte e allegato dvd dell´omonimo film di animazione di Michele Emmer, è uscita proprio in questi giorni da Bollati Boringhieri (euro 25).
Che il libro di Abbott sia qualcosa che va oltre la semplice divulgazione, per entrare a pieno diritto nella vera letteratura, lo dimostra il fatto che per l´edizione Adelphi del 1966 si scomodò a farne una prefazione Giorgio Manganelli, che ammise in apertura: «non tratterò dei meriti scientifici e didattici di questo straordinario libretto, perché, non essendo in grado di apprezzarli, non mi interessano». E concluse dichiarandosi incapace di decidere se si trattasse di «un incubo, una farsa, un apologo, una satira, un jeu d´esprit, una scommessa, un´allegoria, una visione, o la satira di tutte le visioni».
Ora, è innegabile che gli aspetti marginali del libro abbiano decretato la sua fortuna: primo fra tutti, la feroce ironia sulla società vittoriana incarnata (o meglio, disincarnata) nella gerarchia geometrica che va dall´infima linearità delle donne alla sublime circolarità del clero, passando per la varia poligonalità del proletariato e dell´aristocrazia. Ma è altrettanto innegabile che il suo vero valore intellettuale sta nelle note della sua musica, più che nelle contorsioni degli orchestrali che la suonano: in particolare, sta nel riuscito tentativo di illustrare indirettamente, per analogia, quello spazio a quattro dimensioni che a noi esseri tridimensionali non è dato di percepire direttamente.
Ad esempio, ci fa notare Abbott, gli esseri bidimensionali di Flatlandia possono intuire qualcosa di una sfera tridimensionale attraverso le tracce circolari che questa lascia mentre attraversa perpendicolarmente il Mondo Piatto: esse partono da un punto nel momento di tangenza iniziale, crescono fino a raggiungere un massimo nel momento in cui il piano taglia la sfera lungo il suo equatore, per poi decrescere di nuovo fino a un punto nel momento di tangenza finale. Analogamente, noi possiamo percepire un´ipersfera quadridimensionale attraverso le simili tracce sferiche che essa lascia mentre attraversa temporalmente il nostro spazio tridimensionale.
Senza arrivare a scomodare Platone e le ombre del mito della caverna, la stessa idea era già venuta nel 1880 a Charles Hinton, che la pubblicò nel saggio «Che cos´è la quarta dimensione?». Quattro anni dopo esso fu ristampato in una collezione di suoi Racconti scientifici, uno dei quali si intitolava "Un mondo piano" e iniziava dicendo: «Mi sarebbe piaciuto poter rimandare il lettore a quell´opera di genio intitolata Flatlandia. Tuttavia, sfogliando le pagine del libro, noto che l´autore ha usato il suo raro talento per uno scopo estraneo al mio intento. E´ chiaro, infatti, che suo primo interesse non sono state le condizioni fisiche di vita nel piano. Le ha sfruttate come sfondo della sua satira e delle sue diatribe. Ma noi, in primo luogo, vogliamo conoscere le verità fisiche».
In italiano un estratto del libro di Hinton uscì nel 1978 da Franco Maria Ricci nella collana La Biblioteca di Babele diretta da Jorge Luis Borges, che scrisse nella sua prefazione: «Altri cercano e ottengono non raramente la fama: Hinton ha quasi ottenuto le tenebre. Non è meno misterioso delle sue opere. I repertori bibliografici lo ignorano. Non è un narratore, è un ragionatore solitario che istintivamente si rifugia in un mondo speculativo che mai lo delude, perché egli ne è il creatore e la fonte. Ma nelle pagine dei Racconti scientifici cercò la forma narrativa».
Le idee di Hinton non anticiparono comunque soltanto varie opere letterarie di Wells, da La macchina del tempo a L´uomo invisibile, ma anche varie idee scientifiche del Novecento, dalla metrica non euclidea dello spazio-tempo della relatività speciale di Einstein, all´uso di dimensioni aggiuntive per unificare l´elettromagnetismo alla gravitazione. E il suo ultimo libro, un romanzo del 1907 intitolato Un episodio di Flatlandia diede inizio alla nutrita serie di variazioni sui temi del più fortunato romanzo di Abbott.
Hinton sperimentò simultaneamente due interessanti varianti del Mondo Piatto di Abbott. Anzitutto, un Mondo Circolare sul cui bordo scorrono le figure, tutte triangoli rettangoli con un angolo acuto orientato in alto e l´altro a Est o Ovest, a seconda del sesso: il che rende complicati e pericolosi i rapporti fra individui dello stesso sesso, ma facili e tranquilli quelli fra individui di sesso opposto. E poi, un Mondo Profondo in cui si può penetrare verticalmente in direzione Sotto-Sopra, invece che muoversi orizzontalmente in direzione Nord-Sud.
Due variazioni più recenti hanno sviluppato separatamente le due novità introdotte da Hinton: nel 1965 Dionys Burger ha infatti presentato in Sphereland, Mondo Sferico, una fantasia sulla curvatura dello spazio e sull´espansione dell´universo, mentre nel 1984 Alexander Dewdney ha esplorato in Il Planiverso, tradotto in Italia da Bollati Boringhieri, le condizioni di vita biologiche e artificiali di un Mondo Profondo. A sua volta, nel 2002 il profeta del cyberpunk Rudy Rucker ha sostituito in Spaceland, «Mondo Spaziale», il Quadrato di Abbott con un Cubo, facendolo incontrare con un essere quadridimensionale invece che tridimensionale.
La variazione più originale, libera e istruttiva è però quella del 2001 di Ian Stewart in Flatterlandia, appena tradotto da Nino Aragno Editore. Il titolo è un gioco di parole che sta a metà tra Mondo Ancora Più Piatto e Mondo della Lusinga, e il racconto è una vera e propria summa di mondi geometrici, tutti contenuti nel Matemativerso che i protagonisti visitano, imbattendosi via via nella Foresta Frattale, in Topologica o Continente Foglio di Gomma, nel Piano Proiettivo, in Iperbolica o Discolandia, e nelle geometrie a cui è costretta a far appello la fisica moderna per descrivere il nostro universo materiale.
A tutte queste opere letterarie si affiancano almeno quattro animazioni cinematografiche della storia originale di Abbott. Oltre a quella già citata di Michele Emmer, risalente ormai al 1982, e a un´altra ancora più vecchia di Eric Martin, del 1965, ne sono uscite ben due nel 2007: una di Jeffrey Travis e l´altra di Ladd Ehlinger. Le prime tre sono dei cortometraggi, di circa mezz´ora l´uno, mentre l´ultimo è invece un vero e proprio lungometraggio, di un´ora e mezza.

Corriere della Sera 30.10.08
L'ex presidente: non è la celebrazione della guerra ma l'ultimo tassello del Risorgimento
Ciampi: su quella festa Rifondazione sbaglia. Assurdo dire che la canzone del Piave è razzista
di Marzio Breda


Bisogna ripensare al significato di quella ricorrenza, che oggi forse andrebbe rivista in chiave europea

Presidente Ciampi, la prossima settimana cade il novantesimo anniversario della nostra vittoria nella Grande Guerra. Una ricorrenza che Rifondazione propone di boicottare sostenendo, tra l'altro, che è come celebrare la «festa della guerra ». Che cosa ne pensa?
«Che è una scusa sbagliata. Quella data contrassegna l'ultimo tassello del Risorgimento, nella quale si consacrava e completava l'unità d'Italia e che, associata ad altri momenti fondanti della storia nazionale — come la liberazione dal nazifascismo, la scelta repubblicana e il varo della Costituzione — fa parte della memoria comune. Dovrebbe essere il giorno in cui si riflette insieme sulla Patria e sulla responsabilità che ciascuno di noi ha di servirla... giorno che non è dunque giusto caricare di improprie polemiche politiche».
Chi vorrebbe disertare le cerimonie recrimina che il canto «la leggenda del Piave», che piace al ministro La Russa e che la Lega vorrebbe al posto del «Fratelli d'Italia», avrebbe «riferimenti fortissimi con l'oggi». Sarebbe cioè un inno razzista e xenofobo, per il verso «non passa lo straniero».
«Mi sembra francamente assurdo interpretare fuori dal contesto storico in cui nacquero i versi di una canzone che ci rimandano a un duro e sanguinoso conflitto di trincea, ma solo a quello. Nel 1915-18 "lo straniero" erano gli austro-ungarici, che occupavano una parte del territorio italiano: come si fa a riferire quel cenno agli immigrati di adesso? Certo, con letture così forzate, persino una parola pronunciata quasi un secolo fa può assumere valenze completamente diverse da quelle che aveva in origine. Ma si tratta di esercizi ideologici, esasperati. Radicaleggianti. Da sconsigliare».
Si contesta poi che il governo abbia mandato degli ufficiali in missione in 200 licei, per tenere «lezioni sulla guerra». «Uno spot al militarismo », ha scritto «Liberazione».
«Non ho notizie di quest'iniziativa, ma è doveroso ricordare che il 4 novembre è stato da sempre dedicato anche alle forze armate. E le forze armate non vanno considerate un corpo estraneo, siamo noi. Io non sono mai stato un militarista né ho mai amato i gradi, eppure ho svolto il mio servizio da sottotenente in anni difficili, di guerra, com'era mio dovere. Per inciso va rammentato che la leva obbligatoria ha svolto, almeno per un certo periodo, e non breve, un ruolo positivo. Che un contadino delle Puglie andasse a fare il bersagliere in Friuli o che un suo coetaneo piemontese facesse la naja in Sicilia fu molto importante per unire il Paese ».
L'elenco delle obiezioni non è finito: si polemizza anche per la spesa «troppo elevata» stanziata dal ministro della Difesa per onorare l'anniversario.
«A parte la spesa, sulla quale non esprimo giudizi perché non ne conosco i dettagli, ciò che secondo me conta è ripensare al significato di quella festa. Che oggi andrebbe forse rivista in chiave europea. Superando ogni pur involontaria chiave di retorica nazionalista, perché è in nome dei più gretti e malvissuti nazionalismi che nel Novecento ci siamo massacrati l'un l'altro, in questo vecchio continente. E animando passioni nuove, in modo che ogni italiano senta l'orgoglio di dire, crocianamente: sono un europeo nato in terra italiana ».
Sono idee in sintonia con il progetto di «educazione pubblica» che lei ha costruito quand'era al Quirinale. Ma ogni strategia politico-istituzionale giocata sulla storia, sia pure con le migliori intenzioni, si presta a rischi di manipolazione.
«Certo, lavorare su storia e memoria richiede delicatezza e cautela perché è facile sbandare, e qualche regime autoritario l'ha dimostrato. Tuttavia alcuni passi possono essere tentati con successo, e senza cadere in una stucchevole retorica. Ricordo il caso del Vittoriano: dopo essere stato per lungo tempo uno dei monumenti più detestati di Roma perché "brutto" e "eccessivo", è stato riabilitato e riscoperto in quanto luogo simbolico, consacrato all'"unità della Nazione" e alla "libertà dei cittadini", come recita il motto scolpito sui suoi marmi. E la stessa cosa è avvenuta per altre icone, tradizioni, ritualità di quello che gli anglosassoni chiamano "nation building". Allo stesso modo, commemorare il 4 novembre non implica affatto glorificare la guerra (che sì, con i suoi 600 mila morti, fu davvero "un'inutile strage", come disse Papa Benedetto XV), ma il nostro ritrovarci uniti come italiani. Perché quel giorno è stato soprattutto questo».
Insomma, presidente: lei non crede che sia una data che riassume alcune ambiguità a partire dalle quali si precisa un certo carattere «divisivo » degli italiani, come ha sostenuto sul «Corriere» lo storico Galli della Loggia. Carattere sfociato poi quasi in patologia.
«Non lo credo. Non del tutto, almeno. Preferisco sempre pensare positivo e tenere presente che allora si forgiò soprattutto il senso dello Stato e si gettarono le basi per ciò che siamo diventati adesso. La tenuta morale di un Paese è importante e chi ha responsabilità pubbliche deve a mio avviso fare in modo che la gente si ritrovi coesa intorno a comuni valori. Questo conta, più di tutto».

Corriere della Sera 30.10.08
L'ex presidente del Parlamento israeliano critica una visione distorta della Shoah:
«Tutto iniziò col processo Eichmann»

Se l'ossessione dell'Olocausto cambia il volto dell'ebraismo
La denuncia di Avraham Burg: così tramontano i valori umanitari
di Sergio Romano


Secondo l'autore israeliano di un libro apparso ora in traduzione italiana, esiste ormai una «impresa della Shoah» che «imperversa» nella vita pubblica, ritorna insistentemente nel dibattito nazionale, condiziona la vita degli ebrei in Israele e nel mondo. «Non passa letteralmente giorno — scrive — senza che io trovi, sul giornale che sto leggendo, qualcosa che riguarda la Shoah: risarcimenti, antisemitismo, un nuovo studio, un libro interessante, un'intervista eccezionale, una testimonianza rara». Le gite scolastiche ad Auschwitz sono diventate un inderogabile appuntamento degli allievi delle scuole israeliane e le visite al memoriale di Yad Vashem sono ormai una tappa obbligata nel programma dei viaggi ufficiali di un uomo politico straniero.
Questo fenomeno non avrebbe grande importanza se non avesse avuto, secondo l'autore, effetti inquietanti. Il culto pervasivo e incessante della Shoah ha modificato la cultura politica dello Stato israeliano. È diventato la pubblica giustificazione della durezza poliziesca con cui Israele amministra i territori occupati.
Ha militarizzato la società israeliana. Ha generato una estrema destra brutale e fanatica che ricorda all'autore, paradossalmente, il nazismo.
Ha creato la convinzione, ormai radicata in larghi settori dell'ebraismo soprattutto americano e israeliano, che la Shoah sia un avvenimento incomparabile e non possa essere esaminato storicamente come altre tragiche vicende della storia mondiale, dai massacri degli armeni alla strage dei ruandesi, dal terrore sovietico a quello cinese. Ha creato un nemico permanente, l'eterno antisemitismo, contro il quale l'ebraismo ha l'obbligo di armarsi e mobilitarsi. Durante una sessione straordinaria del Parlamento israeliano sulla lotta contro l'antisemitismo, l'autore ha constatato amaramente: «Mentre tutto il mondo esprime solidarietà verso di noi, noi diciamo: il mondo è tutto contro di noi». Ma il più grave degli effetti provocati dal culto della Shoah, sempre secondo l'autore, è d'ordine morale. Dominato dal ricordo dal genocidio, l'ebraismo sembra avere rinunciato al proprio umanesimo, alla propria missione universale, alla propria sensibilità per gli umili e gli oppressi, agli straordinari valori morali del suo pensiero filosofico e religioso.
Alcune di queste considerazioni sono già state fatte da altri e potranno sembrare potenzialmente antisemite. Ma l'autore del saggio
Sconfiggere Hitler (Neri Pozza Editore) si chiama Avraham Burg e fa parte dell'aristocrazia dello Stato d'Israele. La madre apparteneva a una vecchia famiglia sionista di Hebron ed era sopravvissuta ai massacri del 1929 grazie alla protezione di un vicino arabo. Il padre era un ebreo tedesco, Yossel Burg, che fu leader del sionismo religioso, professore universitario, ministro di gabinetto con David Ben Gurion all'epoca del processo Eichmann (il solo, insieme a Levi Eshkol, che votò contro l'esecuzione della condanna a morte), poi ministro degli Interni con Menachem Begin durante la prima guerra del Libano e infine direttore di musei.
La carriera pubblica di Avraham è stata brillante. Ha militato nel movimento pacifista «Peace Now» e nel Partito laburista, ha diretto l'Agenzia ebraica e l'Organizzazione mondiale sionista, è stato presidente della Knesset (il parlamento israeliano) dal 1999 al 2003. Quando il Dalai Lama visitò Israele e chiese di fargli visita, il ministero degli Esteri gli mandò un emissario per raccomandargli di non fare un gesto che avrebbe attirato sul governo di Gerusalemme le ire della Repubblica popolare cinese. Burg rispose seccamente che la visita avrebbe avuto luogo e mantenne l'impegno. Il suo libro è un continuo intreccio di ricordi familiari, annotazioni autobiografiche, lunghi compiacimenti introspettivi e acute analisi storiche. Le pagine politicamente più interessanti sono quelle in cui Burg s'interroga sulle ragioni dell'importanza che la Shoah ha assunto nella politica israeliana. All'origine del fenomeno vi sarebbe il processo Eichmann, nel 1960. Ben Gurion era stato infastidito da un processo precedente nel corso del quale erano stati polemicamente discussi i contatti che la dirigenza sionista, tramite l'Agenzia ebraica, aveva avviato con il regime nazista negli anni Trenta per facilitare la partenza dalla Germania di alcune decine di migliaia di ebrei tedeschi. Questi fatti, anche se noti a molti, avevano provocato un dibattito sulla «purezza» della causa sionista che aveva ferito lo stesso Ben Gurion. La cattura di Eichmann e il suo processo in Israele dovettero sembrare al fondatore dello Stato israeliano, secondo Burg, il modo migliore per reagire alle accuse, chiudere il dibattito, concentrare l'attenzione dell'opinione pubblica israeliana sulla Shoah. Il risultato andò probabilmente al di là delle attese. Mentre «la morte di Eichmann — scrive Burg — avrebbe dovuto chiudere l'epoca della Shoah e aprire l'era del dopo Shoah (...), è avvenuto l'esatto contrario».
È una spiegazione interessante e plausibile. Ma esiste probabilmente un altro fattore, non meno importante. Gli anni Sessanta furono quelli in cui Israele divenne il partner privilegiato di Washington nella regione e la comunità ebraica negli Usa cominciò a esercitare una considerevole influenza sulla politica americana. In una delle sue pagine più critiche sugli ebrei d'America Burg scrive: «È molto difficile farsi eleggere contro la volontà dell'elettorato ebraico. Finanziamenti, organizzazione, sostegno pubblico e parimenti la legittimazione, nonché la capacità di nuocere ai candidati sgraditi, hanno reso la partecipazione ebraica alla vita politica americana un fattore di importanza strategica internazionale». Il libro di Burg ha irritato molti israeliani e, come osserva in una postfazione Elena Loewenthal, «potrà agevolmente far da sponda a chi non aspetta altro per negare, accusare». Ma è anche una dimostrazione di libertà, di coraggio, di spregiudicatezza, della capacità ebraica «di scardinare per costruire, di provocare per ispirare».

Corriere della Sera 30.10.08
Domenico Losurdo racconta in un saggio sul dittatore sovietico «storia e critica di una leggenda nera»
Simile a quella di certi imperatori romani

Dagli altari alla polvere. Perché il terribile Stalin somiglia a Giustiniano di Luciano Canfora


Fu il medesimo storico, Procopio di Cesarea, che mise in circolazione, vivo Giustiniano, numerosi libri di storia che ne esaltano la grandezza, la saggezza, le guerre vittoriose etc., e che però — al tempo stesso — si tenne in serbo — destinata alla circolazione dopo la morte del principe — una Storia segreta
in cui Giustiniano viene fatto letteralmente a pezzi ed appare come il ricettacolo di ogni nefandezza e debolezza e inutile crudeltà, oltre che vanità nell'attribuirsi meriti spettanti ad altri. La Storia segreta fu scritta intorno al 558, Giustiniano morì il 14 novembre del 565 ad ottantatré anni. Morto lui la Storia segreta si incaricò di demolire il vincitore dei Goti, il riconquistatore del-l'Italia e restauratore dell'unità dell'impero. I moderni possono liberamente oscillare tra i due estremi, come tra i due ritratti di Stalin scritti da Nikita Krusciov: da un lato il rapporto al XIX congresso del Pcus (ottobre 1952) in cui tutto il merito della forza economica, militare, sociale dell'Urss è attribuito al «nostro amato capo e maestro compagno Stalin», e dall'altro il rapporto segreto, letto in seduta riservata al XX congresso del Pcus (febbraio 1956), circa tre anni dopo la morte di Stalin. Qui, come nella Storia segreta di Procopio, «l'amato maestro» è presentato come un tiranno ridicolo, imbelle e sanguinario (tanto da rendere quasi incomprensibile come avesse potuto tanto a lungo e con l'appoggio di infiniti Krusciov governare). La visione, di matrice tolstojana, mirante a nullificare la «grandezza » delle «grandi personalità» della storia è senza dubbio un buon antidoto alla storiografia eroicizzante. Essa però non riesce a dar conto di quell'intreccio tra meschinità individuale ed efficacia politica che fa sì che alcune personalità si trovino ad essere l'epicentro di eventi e di trasformazioni epocali, che i posteri continueranno a considerare tali nonostante tutte le possibili «storie segrete».
Per personaggi che, in un determinato momento storico, hanno assommato nella propria persona il significato e la simbologia stessa del movimento che capeggiavano, il «culto» della loro persona è fenomeno non solo bene attestato, ma, a quanto pare, difficilmente evitabile. Si potrebbero fare molti nomi, ma quelli più familiari e più ovvi sono certamente Cesare e Napoleone. Il bisogno, da parte dei seguaci, di mitizzare il «capo», cui corrisponde l'intuizione, da parte del capo, dell'imprescindibile funzione di tale meccanismo «mitizzante», è fenomeno ben documentato. Tanto più esso spicca (e si rivela meccanismo che va al di là delle scelte del singolo), quando l'interessato stesso sarebbe per suo stile e cultura alieno da un tale rapporto quasi religioso e tuttavia, al suo prodursi, vi si adegua. È il caso dell' «Incorruttibile», il quale fu l'esatto contrario del demagogo assetato di folla osannante, o anche, in tempi più vicini a noi, di Antonio Gramsci. Narra Gramsci, divertito, in una lettera dal carcere, della delusione provata da un compagno, incontrato durante uno dei suoi soggiorni di pena, il quale si era immaginato il capo dei comunisti di ben altra, imponente, statura!
In questa categoria (quantunque inusuale sia il dirlo) rientra anche Stalin, il quale per non breve tratto della sua lunga carriera volle tenersi nel ruolo di ideale «secondo »: di mero, fedele, esecutore dell'opera e del disegno di un altro, ben più «grande», e che anche da morto avrebbe dovuto continuare ad essere percepito come «il capo», cioè Lenin. Cui Stalin destinò appunto perciò un mausoleo di tipo faraonico-ellenistico- bizantino: perché su di lui, unico capo «vivente» ancorché morto (e all'uopo perciò imbalsamato) continuasse a convogliarsi il bisogno di carisma delle masse sovietiche. Per la stessa dinamica, Augusto si presentò per un lungo tratto come l'erede- esecutore-continuatore-vindice di Cesare e gli destinò un culto assimilandolo agli dei.
Più che mai necessario dunque, di fronte a personaggi storici il cui mito fu parte essenziale del loro agire (e del loro «essere percepiti» dagli altri), più che mai necessario è far capo al giudizio, limitativo, ma non obnubilato, dei non-seguaci, delle persone pensanti e lontane, e anche degli avversari. Su Città libera del 23 agosto del 1945, Croce, che alla controparte comunista non ha mai «concesso» nulla, neanche nei momenti di maggiore unità «ciellenistica », e che nella Storia d'Europa aveva scritto «il comunismo non si è punto attuato in Russia in quanto comunismo» (1932), scrisse di Stalin parole che poterono poi persino sembrare di elogio, ma non lo erano.
«Quello che si è attuato in Russia — scrisse — è il governo di una classe, o di un gruppo di classi (burocrati, militari, intellettuali) che un non più ereditario imperatore, ma un uomo di genio politico dotato (Lenin, Stalin) guida»; e aggiungeva con profetica ironia: «Restando incaricata la Provvidenza di fornirgli successori sempre pari»! Di «genio» (e questa volta in senso non neutro, com'è nelle parole di Croce, ma esaltatorio) aveva parlato, a proposito di Stalin, Alcide De Gasperi, pochi mesi prima, al teatro Brancaccio in Roma, nel momento stesso in cui delineava con fermezza la lontananza incolmabile dell'esperimento sovietico da quello, ancora da precisare, dell'Italia post-fascista. Aveva parlato nondimeno di «merito immenso, storico, secolare, delle armate organizzate dal genio di Giuseppe Stalin».
Era facile del resto in quel momento promettere gratitudine «secolare» ai vincitori di Stalingrado. Paolo Bufalini ha ricordato un sacerdote che abbracciandolo, in clandestinità, gli aveva sussurrato: «A Stalingrado vinciamo noi!». Ma, come ben sapeva Erodoto, la vittoria degli Ateniesi a Salamina, contro un avversario preponderante e all'apparenza invincibile, era stata man mano dimenticata, quantunque foriera della «libertà dei Greci». Dimenticata proprio dai beneficiari, perché da quella vittoria aveva preso avvio l'impero ateniese, oppressivo erede di un'alleanza inizialmente paritetica. Una storia che si è ripetuta, e che nell'Italia dopo Marengo ha visto man mano imbruttirsi le fattezze del liberatore. Insomma è troppo facile parlare en gros di mire imperiali e di libertà conculcate. Per l'Europa orientale del dopo-1945 val meglio la lettura del notevole racconto di Ambler
Il processo Delchev, che non appagarsi delle schematiche invettive sulle «forche di Praga». E val meglio la lettura del saggio di Wilfried Loth ( Il figlio poco amato di Stalin: perché Stalin non voleva la nascita della Ddr) sulla riluttanza di Stalin a consentire il costituirsi in Repubblica della zona sovietica della Germania piuttosto che la insulsa retorica sulla «cortina di ferro».

Corriere della Sera Roma 30.10.08
Roma FilmFestival. Registi sulle barricate
La rassegna sul '68 con i film di Bellocchio, Petri, Pasolini e le musiche della Marini e Pietrangeli
di Giancarlo Mancini


Approfondimenti, notizie, ma anche idee per seguire la rassegna sul blog http://serateromane. corriere.it oppure sul sito www.roma cinemafest.it

Tra le attività collaterali del Festival non poteva mancare uno spazio dedicato al sessantotto. Alla Casa della Storia e della Memoria (tel. 06.68135642) il Circolo Gianni Bosio ha organizzato una serie di appuntamenti abbastanza intriganti su documenti filmici in grado di rivelarci, ben più di tante commemorazioni e nostalgiche ricordanze, il clima, i fatti, le circostanze attorno a cui gli studenti si coalizzarono per esprimere un bisogno di voltare pagina radicale. Sino a domani, «Sessantotto e dintorni » offre la possibilità di tornare a discutere su alcuni dei momenti topici ancora non sopiti nella memoria collettiva tanto da tornare prepotentemente nel dibattito politico e culturale dei giorni nostri. Un' introduzione musicale a cui seguono filmati con cui tornare a fare i conti, reperti d'epoca praticamente mai più visti dalle generazioni successive. Gli ospiti sono state voci proverbiali di quegli anni, da Antonio Pietrangeli a Mariano De Simone a Giovanna Marini (oggi) e Piero Brega (domani).
La proposta si sostanzia con alcuni dei più significativi, importanti, epocali filmati, praticamente mai visti dopo esser stati consumati dalla generazione che raccontavano. «Viva il 1˚maggio rosso e proletario » di Marco Bellocchio, realizzato appena dopo quel gran capolavoro sulla crisi della sinistra negli anni del centrosinistra che è «La Cina è vicina». È la testimonianza, schietta, della fede politica di uno dei grandi autori del cinema italiano degli ultimi trenta anni, prova di fede verso la grande ondata di rinnovamento del movimento comunista internazionale che si auspicava sull'onda della rivoluzione culturale cinese. Con gran sfoggio, testimoniato, di libretti rossi e canti di rivolta proletaria.
Ma c'è anche uno degli esempi più limpidi, benché oggi, con il senno di poi, problematici, di cosa abbia significato veramente utilizzare il cinema come strumento di inchiesta di scoperta della verità. Si tratta di «Ipotesi sulla morte di Pinelli» di Elio Petri e Ugo Pirro, dove, con l'intento di diradare la nebbia intorno al defenestramento dell'anarchico accusato dell'orrenda strage di Piazza Fontana, momento cruciale per il movimento e per la nostra storia successiva, tutta, di cui pure si occupa «12 Dicembre» di Pasolini. Realizzato in cooperativa, il documentario di Petri e Pirro, ricostruisce l'intera vicenda della bomba alla Banca dell'Agricoltura di Milano, con la conseguente caccia agli anarchici istruita dagli inquirenti, in cui fu coinvolto, oltre a Pinelli anche Pietro Valpreda. Nello stesso anno, germinando da questo nocciolo, nacque e si consacrò internazionalmente «Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto», capolavoro indiscusso realizzato dalla coppia tra le perplessità dei produttori di mezzo cinema italiano.
Ma siccome tutto iniziò con il movimento studentesco, ecco allora «Occupazione del liceo Mamiani», «Valle Giulia», «Corteo studenti Piazza Cavour». Per riavvicinarci davvero, dal basso come si diceva, a quei fatti di cui tanto si parla senza averne la più pallida cognizione di causa.
L'idea, fuori dalla rassegna compilativa, è quella di utilizzare il cinema come visualizzatore ma anche come termometro emotivo o addirittura come diapason con cui mettere finalmente, e fattualmente, in sintonia, una interpretazione storica. Tra gli appuntamenti da non mancare in questi ultimi due giorni a Via San Francesco di Sales, ci sono le scene vere della contestazione di registi e studenti alla Mostra del cinema di Venezia, con Zavattini portato via a spalle dalla polizia, e «Nostra casa quotidiana » di Lino del Frà. È stata insomma, la risposta spontanea a creativa, a quel sogno di rinnovamento del cinema attraverso lo sprofondamento della macchina da presa portata a mano, tra la gente, di cui si sono abbeverate tante generazioni di studenti, utopisti, cittadini del mondo.

Oggi, all'Ambra Jovinelli, viene presentato il progetto speciale «I sogni dei padri ricadono sui figli», a quarant'anni dal '68. Una kermesse di concerti, cinema, mostre e dibattiti, ideata da Nicola Fano, con cui si vuole celebrare il quarantennale, «senza retorica e senza rimpianti ma con amore». La manifestazione si apre domani alle 20,30 con Mario Capanna, che guidò la contestazione studentesca a Milano, e Michele Placido, in un dibattito aperto moderato da Andrea Purgatori. Il primo appuntamento musicale sarà quello con Shel Shapiro, ex Rokes, che domenica, alle 21, propone il concerto-spettacolo «Sarà una bella società», scritto con Edmondo Berselli. Seguiranno Giulio Casale in «Formidabili quegli anni», tratto dal libro omonimo; e Sandro Portelli, Paolo Pietrangeli, Giovanna Marini, PIetro Brega, Gualtiero Bertelli, Ivan della Mea, Oretta Orengo, che presenteranno «Tra "Azzurro" e "Contessa"».
Le proiezioni cinematografiche ripercorreranno il filo della memoria: da «Hair» di Forman a «Teorema» di Pasolini, da «Amore e rabbia» di Bertolucci ai «Pugni in tasca» di Bellocchio.
Serena Dandini chiuderà l'8 novembre, presentando con Renato Nicolini «La versione dei nati dopo».

il Riformista 30.10.08
Intervista a Paolo Ferrero
«Il premier vuole cancellarci. Il Pd faccia ostruzionismo»


«Siamo all'emergenza democratica»: il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero ieri ha incontrato il presidente della Repubblica Napolitano per manifestare le sue preoccupazioni. E sulla legge elettorale dice: «Berlusconi vuole cancellare le voci fuori dal coro». E al Pd: «Mi aspetto l'ostruzionismo, non aggiustamenti alla proposta del governo».
È una legge truffa?
Il combinato disposto soglia di sbarramento e abolizione delle preferenze, di fatto, segna il passaggio da una democrazia a una oligarchia.
Ne ha parlato con Napolitano?
Gli ho detto che se mettiamo assieme questa proposta di legge, i tagli all'editoria e l'esclusione della sinistra del circuito dei media, c'è un problema di agibilità politica. E, devo dirle, ho trovato attenzione al tema del pluralismo.
Si aspetta barricate dal Pd?
Mi aspetto che faccia ostruzionismo e trovi tutti i modi per far esplodere le contraddizioni nella maggioranza.
Non si fida?
Diciamo che mi aspetto che di fronte a questa levata di scudi del governo il Pd non dica "facciamo delle limature" o "discutiamo di questo o di quell'aggiustamento". Quella di Berlusconi è una aggressione a mano armata alle regole democratiche a sei mesi dalle elezioni. E se dice: o tutto o niente, il Pd deve dire niente. Anche perché...
Dica.
Non è un caso che mentre va in crisi l'attuale modello di sviluppo Berlusconi fa una proposta del genere che mira a cancellare le voci fuori dal coro.
Berlusconi vuole uccidervi?
Diciamo così: il disagio sociale aumenta a causa delle politiche del governo e Berlusconi lo affronta attraverso un restringimento dei canali democratici. Questo è il punto centrale: politiche securitarie, polizia nelle scuole, sbarramento per le forze politiche. Non solo. Berlusconi non dà una risposta alla crisi ma mira a rendere impermeabile la politica alle dinamiche sociali. Sono contento che il Pd, almeno sulla legge elettorale, se ne è accorto dopo aver cinguettato per mesi.
Si spieghi.
Siamo all'emergenza democratica e il Pd ci ha messo un po' a vedere il volto vero di Berlusconi. Noi siamo disponibili a fare battaglie comuni. Ma il Pd deve capire ora che dietro il governo c'è Confindustria e che bisogna fare opposizione all'uno e all'altra sui temi dell'ambiente, del lavoro, dei diritti. Anche perché la legge elettorale non è il clou della partita vera che si chiama, invece, "carovita". La metà della popolazione non arriva a fine mese.
Scuola: Veltroni ha proposto un referendum.
Bene. Lo avevamo proposto anche noi. Il decreto approvato è reazionario: attacca la scuola pubblica, mette in difficoltà le famiglie restringendo il tempo pieno, propone un'idea segregazionista sui migranti con le classi differenziate. Proprio per questo, però, bisogna continuare la battaglia nella società con i movimenti e i sindacati. Annunciare un referendum è giusto ma non basta.

Acqua in bocca: vi abbiamo venduto l'acqua
di Rosaria Ruffini


Mentre nel paese imperversano annose discussioni sul grembiulino a scuola, sul guinzaglio per il cane e sul flagello dei graffiti, il governo Berlusconi senza dire niente a nessuno ha dato il via alla privatizzazione dell'acqua pubblica. Il Parlamento ha votato l'articolo 23bis del decreto legge 112 del ministro Tremonti che afferma che la gestione dei servizi idrici deve esere sottomessa alle regole dell'economia capitalistica. Così il governo Berlusconi ha sancito che in Italia l'acqua non sarà più un bene pubblico, ma una merce e, dunque, sarà gestita da multinazionali internazionali (le stesse che già possiedono le acque minerali). Già a Latina la Veolia (multinazionale che gestisce l'acqua locale) ha deciso di aumentare le bollette del 300%. Ai consumatori che protestano, Veolia manda le sue squadre di vigilantes armati e carabinieri per staccare i contatori. La privatizzazione dell'acqua che sta avvenendo a livello mondiale provocherà, nei prossimi anni milioni di morti per sete nei paesi più poveri. L'acqua è sacra in ogni paese, cultura e fede del mondo: l'uomo è fatto per il 65% di acqua, ed questo che il governo italiano sta mettendo in vendita. L'acqua che sgorga dalla terra non è una merce, è un diritto fondamentale umano e nessuno può appropriarsene per trarne illecito profitto. L'acqua è l'oro bianco per cui si combatteranno le prossime guerre. Guerre che saranno dirette dalle multinazionali alle quali oggi il governo, preoccupato per i grembiulini, sta vendendo il 65% del nostro corpo. Acqua in bocca.
Docente di teatro allo Iuav