domenica 2 novembre 2008

Repubblica 2-11.08
La paura del Cavaliere
Riforma università, lo stop del governo
Slitta l´atto secondo della Gelmini. "Prima calmiamo le acque"
Berlusconi ha accolto il pressing di Fini. E Bossi rilancia: gli atenei vanno finanziati
di Claudio Tito


«Il clima è troppo acceso. Adesso dobbiamo andare avanti con un po´ più di calma». Silvio Berlusconi accende il semaforo rosso. La riforma dell´università deve attendere. Maria Stella Gelmini lascerà per un po´ nel cassetto il suo "piano" per gli atenei.
Le manifestazioni di questa settimana, insomma, un effetto l´hanno avuto. E il Cavaliere non vuole correre rischi. Non ha alcuna intenzione di incendiare la piazza. Soprattutto in una fase in cui le proteste di studenti e professori sembrano sempre più intersecarsi con le difficoltà della crisi economica. «Ora - è quindi la scelta del presidente del Consiglio - andiamo avanti con un po´ di calma».
Il secondo passo studiato dal governo per ristrutturare l´Istruzione pubblica, dunque, verrà rallentato. Il provvedimento - stavano esaminando pure l´opzione di un nuovo decreto - era previsto per la prossima settimana, ma i tempi si allungheranno. Di un bel po´. Eppure solo quattro giorni fa l´intervento era stato annunciato con tutti i crismi dell´ufficialità dallo stesso ministro dell´Istruzione. «Entro una settimana presenterò il piano sull´università», aveva scandito dopo il sì del Senato alla sua riforma scolastica. Del resto, pure il Cavaliere fino a qualche giorno fa sfidava tutti gli scettici, compresi quelli del centrodestra, ripetendo: «E ora tocca all´università».
Qualcosa, però, negli ultimi giorni è cambiato. Le proteste degli studenti. Le manifestazioni dei docenti. La stagnazione dell´economia. Il clima nei confronti dell´esecutivo non è più lo stesso. Sul tavolo del premier i sondaggi lo confermano. Già una settimana fa i dati avevano impensierito l´inquilino di Palazzo Chigi, e adesso ha avuto una controprova. La riforma Gelmini non è «popolare», soprattutto è stata percepita in senso negativo dalle famiglie. «Non si può insistere subito sullo stesso punto», ha allora fatto sapere il Cavaliere. Bisogna che si calmino le acque per non trasformare la protesta in un rogo in cui si saldano studenti medi, studenti universitari e professori. Come va ripetendo Umberto Bossi «è inutile far unire anche gli universitari alla protesta della scuola». Il premier, insomma, ha dovuto prendere atto anche delle resistenze all´interno della maggioranza. «Occorre trovare i finanziamenti adatti - ha avvertito ieri il ministro delle Riforme - perché l´università è una cosa importante».
E in effetti il piano, che è già pronto nel cassetto del ministro dell´Istruzione, si metterebbe nella scia della manovra economica approvata a luglio scorso. Il decreto di Tremonti, cioè, che ha sforbiciato gli stanziamenti per gli atenei nei prossimi tre anni. Nel 2009 il Fondo per il finanziamento ordinario dell´università è stato ridotto di oltre 700 milioni, gli importi per l´istruzione universitaria di 1600 milioni, i soldi per il "diritto allo studio" ridotti del 60% e persino le risorse per le facoltà "non statali" - tanto care a Berlusconi - decrescerà di 60 milioni. Per il presidente del consiglio, quindi, «al momento è meglio evitare di andare subito anche sulla riforma dell´università». Un suggerimento su cui giovedì scorso ha battuto con insistenza pure il presidente della Camera, Gianfranco Fini. Il quale durante una colazione di lavoro, ha sottolineato i rischi di uno scontro che coinvolga i docenti e i giovani universitari. Gli esperti di An poi sono usciti allo scoperto chiedendo un confronto con tutte le parti in causa e bocciando preventivamente la strada del decreto e della fiducia. «Servirebbe - ammette anche Stefano Caldoro, socialista eletto dentro Forza Italia, impegnato a luglio come relatore della manovra Tremonti - un patto con il mondo dell´università. Un patto di stabilità condiviso». Anche perché la seconda puntata del pacchetto Gelmini prende spunto proprio dai "tagli" stabiliti dal ministro dell´Economia. Secondo alcune indiscrezioni, il progetto punterebbe a bloccare la «proliferazione» dei corsi, a cancellare le sedi distaccate considerate in eccesso e a trasformare gli istituti in Fondazioni di diritto privato (il decreto 112 già contemplava la "possibilità" per i singoli di atenei di compiere questa scelta che diventerebbe invece obbligatoria). Non solo. Il piano verrebbe accompagnato dalla "sospensione" dei concorsi per i professori - quelli già banditi nel 2007 e nel 2008 - al fine di rendere effettivo il blocco del turn over. Ai piani alti del ministero si sventola una ricerca in cui si evidenza come i docenti italiani assunti a tempo indeterminato siano circa 65 mila e in Germania "solo" 40 mila. Per Berlusconi, però, non è più il tempo di forzare la mano.

Repubblica 2-11.08
Scuola, offensiva delle questure denunce per cortei e occupanti
Dossier alle procure. Nel mirino anche i centri sociali
di Enrico Bonerandi


A Treviso identificati 10 adolescenti. A Bologna aperta un´inchiesta

MILANO - Offensiva della questure in tutta Italia contro le proteste degli studenti. Da Roma a Bologna, a Firenze e in tutto il Veneto, decine di informative degli uffici della Digos si stanno riversando nelle procure, in omaggio alla «linea dura» tracciata giovedì scorso dal ministro degli Interni Maroni in nome del «diritto allo studio», contro l´occupazione di scuole e atenei. Pugno di ferro anche contro i partecipanti a manifestazioni pacifiche, ma non autorizzate dalla polizia.
Il caso più emblematico del nuovo corso è quello di Treviso, dove giovedì scorso piccoli cortei di studenti medi hanno attraversato la città, senza imbrattare muri o danneggiare alcunché, provocando soltanto per un´ora intoppi alla circolazione delle auto. Il neo-questore Carmine Damiano, noto come capo della Digos padovana durante gli anni dell´Autonomia, ha dichiarato: «I promotori verranno denunciati all´autorità giudiziaria». Il titolo di reato: partecipazione e organizzazione di manifestazione non autorizzata. Damiano, che respinge ogni matrice politica della sua iniziativa, spiega: «Se non intervenissi, violerei la legge. È falso che voglio vietare le manifestazioni. Libertà di espressione garantita, ma dentro le regole». Gian Paolo Gobbo, sindaco della città più leghista d´Italia, getta acqua sul fuoco: «Il questore ha fatto bene, ma dubito che poi andrà fino in fondo. Niente di drammatico». Mica vero: a quanto pare, una decina di adolescenti trevigiani sono già stati individuati e denunciati. Non tutti sono di sinistra: la protesta nelle scuole di Treviso è tuttora bipartisan.
E forse è anche questa la ragione per cui Lotta studentesca, movimento giovanile di Forza Nuova, ha offerto ieri assistenza legale gratuita ai giovani denunciati, includendo esplicitamente nella lista anche i ragazzi di Treviso: «La libertà di espressione non si può mettere in discussione e minacciare. La strategia del centrodestra di terrorizzare gli studenti per fermare le contestazioni è inammissibile».
Anche a Bologna la Digos sta preparando un dossier sulla manifestazione e gli scontri di giovedì in via Castiglione. Attese denunce per resistenza aggravata e lesioni, oltre al reato di manifestazione non autorizzata e interruzione di pubblico servizio. La procura ha già aperto ben 15 fascicoli che riguardano l´occupazione di vari istituti superiori, oltre al sit-in del 21 ottobre sui binari della stazione. Lo stesso sta avvenendo a Firenze per l´occupazione da parte degli studenti dei binari alla stazione di Campo di Marte. Mentre a Roma sono stati denunciati i sei minorenni che nella notte di giovedì scorso sono stati sorpresi mentre tentavano di chiudere con le catene il portone del liceo scientifico Amaldi di Tor Bella Monaca.
È partita invece una denuncia da parte di un rappresentante degli studenti medi di Parma contro un operaio edile che, nel corso della manifestazione anti-Gelmini, ha affisso un cartello con scritto «Viva il Duce». La Digos di Bari invece sta indagando sullo sfregio di un murales nel cortile di una scuola elementare, su cui sono stati cancellati i volti di bambini neri e vergate svastiche. Mentre anche a Padova dovrebbero partire denunce per la manifestazione di giovedì scorso, sono in programma la prossima settimana cortei, in occasione della visita del presidente della Repubblica Napolitano mercoledì e giovedì e dell´intervento del ministro Gelmini, giovedì, in fiera. Per non parlare della protesta quasi goliardica annunciata per il 12 novembre: lo sciopero dello spritz, il cocktail alcolico che in Veneto va per la maggiore.

Repubblica 2.11.08
Estrema sinistra
L’allarme del sottosegretario all´Interno Mantovano: ci sono già stati degli episodi inquietanti
"Rischio di infiltrazioni eversive dobbiamo vigilare sul movimento"
di Alberto Custodero


Nessuna stretta autoritaria, ma le proteste devono essere civili
Penso in particolare a personaggi dell´antagonismo dell´estrema sinistra
ROMA - «Il rischio-infiltrati fra gli studenti esiste. Ma non certo da parte della polizia, che è sana». Alfredo Mantovano, sottosegretario dell´Interno, interviene sul caso della protesta studentesca che, cogliendo di sorpresa il governo, sta dilagando in tutta Italia come un´Onda anomala.
Sottosegretario Mantovano, ieri il capo dello Stato ha detto che nella «grande massa tumultuosa di studenti che s´è messa in agitazione è abbastanza facile introdurre elementi deviati». È reale questa preoccupazione del presidente della Repubblica?
«Che possano infiltrarsi nella protesta studentesca in maniera strumentale soggetti che di professione fanno gli agitatori è una preoccupazione che si fonda già su qualche episodio accaduto nelle ultime settimane».
A chi si riferisce quando parla di "agitatori"?
«Penso in particolare a personaggi dell´antagonismo e di alcuni centri sociali radicati nell´estrema sinistra».
L´ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, però, ha paventato la possibilità che la polizia infiltri il movimento per giustificare un suo intervento autoritario. E manco a farlo apposta, a piazza Navona uno studente dell´ultradestra è stato visto chiacchierare con familiarità con la polizia, alimentando quei sospetti.
«Con tutto rispetto, Cossiga è stato ministro dell´Interno 30 anni fa in un contesto un po´ diverso da quello attuale. Per quanto riguarda la polizia, è normale che la Digos conosca bene i manifestanti e li chiami per nome e cognome».
La sua attenzione si concentra sull´estremismo di sinistra, quando è sotto gli occhi di tutti la provocazione di esponenti del Blocco studentesco che a piazza Navona hanno picchiato studenti di passaggio. Il Viminale non si preoccupa dell´estremismo dell´ultradestra?
«La realtà della sinistra estrema è più articolata e ha una tradizione diversa. Nel passato anche recente c´è stata una trasmigrazione fra un´area non ben definita dell´estremismo di sinistra e quella del terrorismo che non è il caso di ripetere oggi. Questo non vuol dire, ovviamente, che non ci sia attenzione sul fronte dell´estrema destra».
Qual è la sua previsione sull´evoluzione della protesta nei prossimi giorni?
«Vogliamo salvaguardare la genuinità del dissenso per non fare intraprendere agli studenti strade che forse non desiderano gli stessi promotori della protesta. Chi cavalca l´Onda, però, deve essere consapevole che questo rischio esiste».
Il ministro dell´Interno ha annunciato una linea di rigore per il prosieguo del movimento.
«Nessuna stretta. Ma non si potrà non intervenire in caso di manifestazioni non autorizzate soprattutto se si creassero problemi di ordine pubblico, come ad esempio il blocco di binari. L´equilibrio della polizia è volto a garantire sia il diritto a manifestare che l´ordine pubblico. Il Parlamento può anche impegnare il governo a una linea più rigida a garanzia assoluta dell´ordine. Ma ho l´impressione che non passi così facilmente un orientamento del genere».

Repubblica 2.11.08
L´accusa dei funzionari di polizia "Taciuta la violenza dell´ultradestra"


ROMA - Nella sua relazione alla Camera sui tafferugli di piazza Navona, Francesco Nitto Palma ha fatto una «dimenticanza». «Sarebbe stato più opportuno da parte sua sottolineare di più l´atteggiamento provocatorio dei ragazzi del Blocco studentesco». A criticare la relazione del sottosegretario dell´Interno al Parlamento è stato Enzo Letizia, segretario dell´Associazione nazionale funzionari di polizia (Anfp). Per il segretario Letizia, resta scontato che «la maggior responsabilità delle violenze ricadono sul gruppetto di trecento ragazzi dei Collettivi che hanno attaccato l´ultradestra». «Ma si tratta - ha aggiunto - di due gruppi di imbecilli, uno più numeroso, l´altro meno». Per il responsabile del sindacato Anfp, «sarebbe il caso di valutare se introdurre anche in questi casi, come avviene negli stadi, l´arresto differito dei manifestanti, visto che portare mazze in piazza è un reato punito con l´arresto da 2 a 18 mesi». Travisarsi i volti con i caschi, ricorda, «è una violazione del codice penale che prevede una pena da 6 a 10 mesi». Enzo Letizia lancia infine un appello ai politici: «Moderate i toni, perché le vostre parole rischiano di diventare pietre che poi ci vengono lanciate addosso nelle piazze».
(a.cus)

Repubblica 2.11.08
Il ´68 è finito andate in pace
di Ilvo Diamanti


È raro che un anniversario acquisti tanta forza quanto, quest´anno, il Sessantotto. Evocato, di continuo, grazie alle e a causa delle manifestazioni degli studenti universitari contro le politiche del governo.
In particolare, contro la ministra Mariastella Gelmini, il cui decreto, in effetti, c´entra poco con l´università. Tuttavia, la scuola e soprattutto l´università stanno al crocevia delle esperienze e delle attese dei giovani. Riflettono e acuiscono un disagio che ha ragioni lontane. E´ comprensibile, anche per questo, la tentazione di cercare i segni di una storia che si ripete. Quarant´anni dopo. Anche se, a nostro avviso, si tratta di periodi difficili da comparare. Anzitutto, per il contesto sociale e globale che li caratterizza. Quarant´anni fa la contestazione studentesca giungeva in Italia per contagio internazionale. Dopo avere infiammato molte importanti piazze e università. Citiamo, per tutte, le rivolte nei campus universitari USA e il maggio parigino. Il Sessantotto, in altri termini, fu un passaggio d´epoca internazionale, trainato da movimenti che attraversavano società, economia, religione, cultura e politica. Nelle scuole e tra i giovani, però, quella fase assunse un senso specifico. Marcò, infatti, la frattura generazionale tra figli e genitori. Dove i genitori - insieme ai professori, ai politici, agli imprenditori (allora definiti, non a caso, "padroni"), alle gerarchie della Chiesa - evocavano l´autorità. E venivano, come tali, contestati. Perché il 1968 è, anzitutto, una rivoluzione antiautoritaria, che ridisegna i ruoli e i rapporti sociali: in famiglia, a scuola, nel lavoro, nella politica. E innova profondamente i riferimenti etici e di valore, gli stili di vita, i costumi sessuali. Gli avvenimenti di questa fase hanno un carattere molto diverso. Si verificano in un contesto globale di implosione finanziaria ed economica. In Occidente e in Europa non si scorgono grandi movimenti di protesta. Prevale, invece, un´insicurezza diffusa, da cui si irradiano spinte populiste e domande d´ordine. Quanto alla mobilitazione degli studenti in Italia, avviene in uno scenario molto diverso. I professori: 40 anni fa stavano dall´altra parte della barricata. Oggi, sono vicini a loro. Ma sarebbe sbagliato parlare di "complicità", come denuncia la destra. Le rivendicazioni di questa fase hanno un´impronta prevalentemente "difensiva". Ciascuno rema per proprio conto. I docenti: protestano contro la marginalizzazione della propria categoria e della scuola. Gli studenti e i giovani, invece, manifestano contro il furto del futuro. Dovrebbero prendersela "anche" con i professori (e con i genitori). Ma il governo e questa maggioranza offrono un buon bersaglio polemico. E per loro è prioritario manifestare la propria esistenza, anche se "contro"; per sfidare la propria condizione di generazione perdente e invisibile.
Il richiamo al Sessantotto, quindi, pare poco fondato. Se risuona di frequente è per iniziativa degli attori politici, in base a ragioni legate al presente.
Guarda al Sessantotto l´opposizione di sinistra riformista e radicale. Per nostalgia. Ma soprattutto nella speranza che le proteste studentesche si trasformino, come allora, in movimento. Che il movimento eroda il consenso del governo. Che incrini l´immagine del Cavaliere invincibile. Che restituisca alla sinistra, spaesata, la base sociale perduta. Questo Sessantottismo minimalista si scontra con un Antisessantottismo ben più ambizioso e consapevole, espresso dalla destra al governo. Ben più determinata della sinistra a fare i conti con l´eredità di quella stagione. Lo ha chiarito bene la ministra Gelmini, subito dopo l´approvazione del decreto: "Si torna alla scuola della serietà, del merito e dell´educazione". Dando, quindi, per scontato che oggi nella scuola non vi siano serietà, merito ed educazione, la ministra riporta il calendario indietro di quarant´anni. E riafferma i valori della tradizione. Scanditi dai provvedimenti - altamente simbolici - assunti nei mesi scorsi. Il voto in condotta: la disciplina. Gli esami di riparazione, il ritorno dei voti: la selezione e il merito. I grembiulini, il maestro unico: l´autorità.
La volontà di fare i conti con il Sessantotto è espressa, senza perifrasi, anche dal ministro Maurizio Sacconi (intervistato da Vittorio Zincone, sul Magazine del Corriere della Sera): "Il sessantottismo è il male oscuro, il cancro di questo Paese". Una metastasi prodotta "dall´Università corporativa figlia della sinistra degli anni Settanta". Parallelamente, l´Antisessantottismo investe altri puntelli dell´identità di sinistra. Il sindacato unitario e in particolare la Cgil. Valori come la solidarietà e l´egualitarismo. Per contro, aderisce al discorso etico elaborato e predicato dalla Chiesa di Benedetto XVI, teso a marcare i confini della verità definiti dalla fede cattolica. A papa Ratzinger, non a caso, si ispirano molti esponenti politici e culturali della destra (anche se non solo). Cattolici e laici. Atei devoti e credenti disciplinati. Ma il nucleo dell´Antisessantottismo coincide con il ritorno dell´autorità, delle istituzioni e delle figure che lo interpretano. Da ciò la polemica contro i professori, i maestri e, in fondo, i genitori (sessantottini). Incapaci di comportarsi davvero da padri, maestri e genitori. Simboli dell´antiautoritarismo da sconfiggere.
Non si tratta, peraltro, di un discorso nuovo. In Inghilterra, Tony Blair, alcuni anni fa, si espresse apertamente contro l´eredità sociale e culturale del Sessantotto. In Francia, un anno e mezzo fa, Sarkozy, appena eletto, impostò il suo piano di riforme proprio sulla scuola. Il ritorno all´autorità perduta venne, simbolicamente, sottolineato dall´obbligo imposto agli studenti di alzarsi all´ingresso degli insegnanti.
Tuttavia, in Italia, questa polemica oggi appare strumentale. Non c´è partita fra le due diverse letture, perché il Sessantottismo è appassito, insieme ai suoi miti e ai suoi eroi. Si pensi al sindacato, diviso, il cui consenso è sceso a livelli minimi fra gli operai. E resiste solo fra i pensionati. Si pensi al solidarismo e all´egualitarismo: parole indicibili. Si pensi al disincanto dei genitori e dei professori. Loro, i primi a sentirsi sconfitti. Mentre il ritorno dell´autorità - di ogni autorità - è ostacolato non da ideologie e da teologie della liberazione, ma, anzitutto, dalla scomposizione corporativa della società, frammentata in mille interessi organizzati, chiusi, gelosi e irriducibili. Si pensi alla rivoluzione dei costumi e della morale sessuale, oggi presidiati dal consumismo e dal "velinismo di massa" diffuso dai media. In particolare dalle tivù del Cavaliere.
Gli studenti che manifestano nelle scuole e nelle università, dunque, non debbono preoccuparsi troppo del Sessantotto. Semmai, del Sessantottismo e - ancor più - dell´Antisessantottismo. Conviene loro, per questo, marciare da soli. Liberarsi di padri, maestri e professori. Ma anche di coloro che li esortano a liberarsi di padri, maestri e professori. E cerchino di guardare avanti. Il loro futuro - incerto - non è quarant´anni fa.

Repubblica 2.11.08
Ragazzi allegri e burattini di legno
di Eugenio Scalfari


CHE stia avvenendo qualche cosa di nuovo nel paese Italia, nel paese Europa e in tutto il mondo è sotto gli occhi di tutti. Qualche cosa di profondamente nuovo.
Giulio Tremonti lo ha detto due giorni fa parlando nella riunione celebrativa del risparmio. «Non è soltanto una discontinuità, ma qualche cosa di molto più profondo» ha detto con voce sommessa e quasi parlando a se stesso. Ed ha aggiunto: «Dobbiamo portare al primo posto l´etica e puntare sui valori e non sugli interessi». Sembrava di ascoltare Ugo La Malfa. Quasi quasi me lo sarei abbracciato. Ma poi mi è venuto in mente che gli stessi concetti, in forma magari più disadorna, erano stati enunciati dalla figlia di Berlusconi, non quella entrata nei giorni scorsi nel consiglio d´amministrazione di Mediobanca che sull´etica pecca un po´ per difetto, ma la figlia più giovane.
C´è stato un passaparola? Folgorazioni di massa sulla via di Damasco? Le anime belle sono finalmente la maggioranza del paese?
Tutto è possibile anche se stento a crederlo. Però qualche cometa in cammino c´è: tra quarantott´ore voterà l´America e forse avremo un giovane meticcio di pelle scura alla guida della più grande potenza mondiale. Incredibile ma possibile, anzi probabile. I pessimisti ad oltranza si rassicurano ripetendo che anche se ciò avvenisse nulla cambierebbe perché il potere è il potere e chi lo amministra si comporta sempre allo stesso modo da che mondo è mondo.
Il potere è il potere, questo è vero; ma non ha mai la stessa forma e lo stesso volto. Un nero alla guida degli Stati Uniti non somiglia a nessun altro inquilino tra quelli che l´hanno preceduto alla Casa Bianca se non altro per il fatto maledettamente oggettivo d´avere alle spalle un popolo che fu portato in catene nelle pianure della Florida, del Texas e del Tennessee.
Lui farà probabilmente di tutto per non vedersi così, ma gli altri è così che lo vedranno e si aspetteranno un potere che abbatta le barriere tra gli uomini di buona volontà. E lui non potrà deluderli proprio perché lui il potere lo ama.
* * *
Torniamo a casa nel nostro piccolo cortile che amiamo di più. Giovedì mattina guardavo sfilare il corteo degli studenti e dei docenti in via Arenula, allo sbocco di Botteghe Oscure. Un corteo immenso, una fiumana giovanile frammista con capigliature grigie, mamme con bambini, maestre e professori che non perdevano di vista i loro ragazzi. Sembrava ed era un popolo insorto. Un passante mi ha riconosciuto e mi ha chiesto: «La solita ragazzata non è vero? Che ne pensa?». Ho risposto: «Quelle dei ragazzi sono sempre ragazzate ma a volte cambiano la storia».
Pensavo alle ragazzate nell´Europa del 1848. E poi pensavo al Sessantotto dei «figli dei fiori», dai «campus» americani all´occupazione della Sorbonne e alla «Primavera» di Praga. Infine alla piazza di Tienamen, sotto le mura della Città Proibita. Ragazzate, certo. Giocose. A volte tragiche. Maremoti di emozioni e di vitalità dopo i quali alcuni luoghi del mondo furono diversi da prima. Non so se migliori, ma certo diversi e la diversità è comunque un segno di movimento e di allegria.
I cortei dell´altro giorno erano allegri e imponenti. Apolitici? L´apolitico è indifferente per definizione. Non ha interesse alla «polis», cioè alla città, cioè alla «res publica». Ma quei ragazzi, quei maestri, quelle famiglie marciavano, gridavano, cantavano in nome della «res publica». Dicevano no ad uno scempio ma dicevano sì ad una riforma seria, ad una nuova città del sapere. I pessimisti hanno scritto che quelle ragazzate servono ai «baroni» per mantenere i loro detestabili privilegi. In realtà questi strani pessimisti scrivono ciò che sperano e quando parlano dell´occupazione delle scuole ci mettono due k invece di due c. Non credono a niente e non sperano niente. Sono i grilli parlanti di un mondo di burattini di legno. Quando i burattini diventano ragazzi in carne ed ossa i grilli parlanti perdono il loro ruolo e cessano di esistere.
Io non credo che i ragazzi protagonisti di queste ragazzate coprano gli interessi dei baroni. Ma qui la questione si fa più complessa. Chi sono i baroni oggi nelle Università e nella scuola? Quali sono i malanni della scuola da estirpare e quali interessi la insidiano e vogliono impadronirsene?
* * *
La scuola elementare italiana è, complessivamente considerata, un punto di eccellenza in tutta Europa. Non ci sono fannulloni. Docenti e personale di servizio lavorano come e più dei loro consimili europei e con risultati migliori. Questo risulta da tutte le statistiche internazionali. I costi sono eguali alla media Ocse, ma i maestri sono pagati meno dei colleghi stranieri. Le aule sono insufficienti. Molti edifici scolastici, specie nel Sud, non sono a norma. Quale che sia il parere del deputato Bocchino e del ministro Gelmini, la moltiplicazione dei pani e dei pesci è un miracolo che ha compiuto soltanto Gesù di Nazareth. Se il tempo pieno è possibile oggi e si potrebbe utilmente estendere e migliorare, non sarà possibile dopo i previsti licenziamenti di massa. Non ci vuole molto a capirlo.
Il vero malanno comincia con la scuola media e peggiora alle «superiori». Lì bisogna preparare una riforma, lì occorre convocare studenti, docenti, famiglie e lì il ministro deve esporre la sua visione culturale di una scuola nella quale entrano ragazzi di ogni ceto sociale e � ormai � di diverse etnie. Lì si affaccerà anche il federalismo con la necessità di coordinare i poteri di indirizzo dello Stato, la competenza regionale e comunale, l´autonomia degli istituti.
Il bullismo è un problema serio ma dominarlo affidandosi soltanto ad una politica scolastica muscolare è pura illusione. Uno dei possibili modi per venirne a capo è quello dei «tutori» e del miglioramento della qualità didattica. Del fascino che una didattica intelligente può suscitare nella fantasia dei giovani. Questo è il contrario dei tagli poiché richiede semmai maggiori investimenti, controlli di qualità su insegnanti e istituti.
Il miglioramento indispensabile della scuola secondaria e superiore comporterebbe di per sé un salto di qualità dei corsi universitari che sono attualmente alle prese con una massa di studenti impreparati ad affrontare l´università. Per risolvere problemi di questa complessità ci vuole grande esperienza e specializzazione fatta sul campo. Mi ha colpito quanto ha scritto in proposito su «Repubblica» Aldo Schiavone. Ha negato, citando autorevoli fonti statistiche, che l´università italiana sia di pessima qualità. Credo che piacerebbe ai lettori saperne di più in proposito, quella di Schiavone è una voce fuori dal coro. Può approfondire la questione? Gli studenti temono la privatizzazione delle università.
Anche questo è un tema difficile. Le fondazioni comunque hanno caratteristiche in parte private ma in parte pubbliche. Negli Stati Uniti hanno dato risultati non omogenei, toccando punte di eccellenza e punte di mediocre livello. Certo vanno rivisti il numero eccessivo di corsi di laurea e il numero eccessivo delle università. I baroni? Esistono ancora ma il loro potere è in declino: la globalizzazione del sapere, specie di quello tecnico scientifico e medico, sta cambiando la struttura stessa della conoscenza applicata. Le baronie accademiche non hanno più la potenza di un tempo rispetto alla casta costituita dagli assessorati regionali e comunali in raccordo con le Asl e con i primariati ospedalieri o con gli appalti e i subappalti nei settori dell´urbanistica e dell´edilizia. E´ lì che bisogna incidere e tagliare.
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Motivi di disagio ne esistono dunque a iosa in un mondo dove il lavoro non offre sbocchi sufficienti e la flessibilità si è ormai cristallizzata in precariato generazionale. Due intere generazioni, quelle nate negli anni Settanta e Ottanta, sono state di fatto confinate nella mediocrità dei redditi e nell´inesistenza delle carriere.
I quarantenni di oggi sono umiliati e offesi. I ventenni insorgono. Questa è la novità. Non sono affatto apolitici anzi sono estremamente politicizzati ma non guardano ai partiti, guardano al loro problema, alla scuola e al lavoro, ai fatti e non alle parole. Ai fatti semplici e concreti. Le parole del governo alimentano la loro rabbia. Il decreto dei tagli è offensivo. La Gelmini è oggettivamente offensiva. Maroni, che proclama denunce, è oggettivamente offensivo dove l´avverbio serve a sottolineare la stupidità dei comportamenti di fronte alla serietà dei problemi. Questa situazione ha cominciato ad erodere il consenso berlusconista. Fino a poche settimane fa sembrava una muraglia non scalfibile, ma adesso molti mattoni hanno cominciato a cadere, qualche travatura è precipitata, l´intonaco si sbriciola ogni giorno di più.
Avevo scritto domenica scorsa che la maggioranza silenziosa che gonfia i sondaggi berlusconiani si sta sfarinando in una serie di minoranze parlanti e protestanti. Scrivevo questo all´indomani della manifestazione del Partito democratico al Circo Massimo. Dopo la settimana studentesca questo sfarinamento della maggioranza silenziosa è ancora più vero e più evidente.
La crisi economica morde ora la carne viva del ceto medio e dei lavoratori, allarma le imprese e gli artigiani. Il governo ha dissipato miliardi in provvedimenti senza senso a cominciare dall´abolizione dell´Ici sulle dimore degli abbienti. Non si è reso conto che tempesta finanziaria avrebbe prodotto recessione produttiva e crollo dei consumi ed è ancora lì che studia rappezzi senza una strategia che ricostruisca la fiducia.
* * *
L´ultima pillola avvelenata tra le molte di questa settimana di passione è arrivata venerdì sera: il pasticcio Alitalia finisce con il rifiuto del personale navigante di firmare il protocollo contrattuale. Piloti e assistenti di volo contestano alcuni aspetti importanti dei loro contratti affermando che siano peggiorativi rispetto all´accordo-quadro accettato da tutti i sindacati venti giorni fa. Può darsi che quel peggioramento vi sia anche se i sindacati confederali hanno firmato. Può darsi che l´aggravamento della crisi economica e il crollo delle prenotazioni di tutte le compagnie aeree abbiano suggerito a Colaninno di introdurre maggior rigore contrattuale.
Ma è altrettanto evidente che i piloti e gli assistenti di volo non si sono minimamente dati carico della sorte del personale di terra che numericamente costituisce il grosso della compagnia e il vaso di coccio che sarebbe finito in frantumi se la Cai si fosse ritirata dal tavolo della trattativa. La famosa cordata tricolore, Europa permettendo, ha dunque passato la cruna dell´ago anche se dovrà ancora confrontarsi con gli equipaggi e con le loro iniziative di lotta sindacale. Siamo all´inizio dell´avventura della nuova Alitalia che lascia a carico dei contribuenti un onere di tre miliardi e dovrà sostenersi con l´appoggio di un socio straniero. Berlusconi canta vittoria, ma dov´è la vittoria? Non ha alcuna chioma da porgere al supposto vincitore. E´ rimasta, la vittoria, completamente calva.
Si conclude così una pagliacciata durata sette mesi e ritorna Air France a condizioni assai peggiori per noi di quelle dell´aprile scorso. «Gianni Letta risolverà tutto» ha detto il premier lasciando Palazzo Chigi la sera di venerdì. Il suo vice è riuscito a convincere Colaninno da un lato e i confederali dall´altro. Ancora una volta l´ha salvato dal disastro facendo da levatrice ad un neonato rachitico, affidato alle cure d´una balia francese. Ho stima per Gianni Letta, ma ne avrei di più se smettesse di prendere in giro gli italiani vendendo loro le lucciole invece delle lanterne.

l’Unità 2.11.08
Hanno vinto gli studenti
di Beppe Sabaste


Il decreto Gelmini è legge, ma gli studenti hanno vinto. Hanno difeso la scuola e l’università pubblica, la cultura pubblica. Hanno gridato che il futuro sono loro, e il futuro (come il mare della canzone di Lucio Dalla) non lo puoi recintare. Privatizzare. Hanno insegnato a un’opposizione politica sfiatata a porre richieste culturali, esistenziali, morali. Hanno ridato energia a cittadini stanchi e rassegnati. Ma angosciava il contrasto tra le strade militarizzate, polizia bardata di elmetti e scudi, e le parole e i volti giovanissimi di chi manifestava in nome dello studio. Impressionava la calma gravità dello striscione davanti al Senato: «La forza della cultura contro la nuova dittatura». «Non siamo facinorosi», hanno scandito con ironica grazia. Ma è la cultura a essere considerata facinorosa, sovversiva. O inutile.
Intanto, mentre ancora escono libri sullo «spettro» degli anni Settanta - ultimo la riedizione de Il poeta postumo di Franco Cordelli (Le Lettere) - alcuni cittadini stanno depositando alla Procura della Repubblica una denuncia per istigazione a delinquere e apologia di reato contro un altro fantasma, Francesco Cossiga. Che in una confessione postuma ha suggerito di fare come lui quand’era ministro dell’Interno: «infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città»; poi «picchiarli», «soprattutto i docenti che li fomentano». Il libro di Cordelli parla dei teatri, dal Politecnico al Beat 72, e di letture di poesie.
Non lo ricorda, ma furono tante le poesie dedicate a Giorgiana Masi, 19 anni, uccisa nel ’77 da un proiettile su Ponte Garibaldi in una normale manifestazione, infiltrata però dagli agenti provocatori di Cossiga.

l’Unità 2.11.08
L’Onda esce dalle scuole
di Michela Bevere


Volantinaggi, fiaccolate, raccolta di firme contro la legge Gelmini, mentre continuano alcune autogestioni e lezioni in piazza. Gli studenti di destra, invece, insistono nelle occupazioni.
Mentre i militanti di Blocco Studentesco, movimento di estrema destra aderente a Casa Pound, hanno annunciato da domani una nuova ondata di occupazioni dei licei romani, gli studenti di sinistra si preparano a nuove forme di mobilitazione.
Lo storico liceo classico Virgilio di via Giulia ha organizzato per domani una mattinata di volantinaggio per le strade del centro storico: «L'idea è quella di portare avanti le iniziative di protesta fuori dalla nostra scuola per aprirci al resto della città - dice Damiano - al fine di sensibilizzare l'opinione pubblica, anche in vista della prossima raccolta firme per il referendum abrogativo del decreto Gemini».
PROSEGUE LA PROTESTA
Dell'onda di occupazioni di sinistra degli istituti romani, non ve n'è quasi più traccia. In alcuni licei gli studenti stanno finendo di pulire e di smobilitare, in altri il capitolo occupazione è ormai concluso da tempo. Con oggi termina l'occupazione anche al liceo artistico De Chirirco di Cinecittà, dove i ragazzi hanno deciso di proseguire la protesta, senza più bloccare la didattica, con lezioni all'aperto per la città.
Solo il liceo classico e sperimentale Russel di via Tuscolana da domani sarà in autogestione, e di conseguenza sostituirà la didattica tradizionale con varie attività all'insegna della cultura e della didattica alternativa, e continuerà anche le lezioni all'aperto nelle piazze.
L’ASSEMBLEA
«Martedì faremo un'assemblea straordinaria di tutti i licei romani alla Sapienza - annuncia Stefano Vitale, coordinatore dell'Unione degli studenti di Roma - per continuare la proteste contro la riforma Gelmini, cercando di fare un fronte comune». Quindi basta occupazioni? «Non possiamo escludere, però - precisa Simone Basile dell'Unione degli studenti di Roma - che qualche liceo autonomamente possa ancora occupare».
UN FRONTE COMUNE
Della necessità di aprire un fronte comune con le altre scuole e anche con i professori parlano i ragazzi del liceo classico Tasso di via Sicilia: «Decideremo insieme la prossima settimana - afferma Niccolò - che iniziative intraprendere».
I POMERIGGI ALL’AUGUSTO
D'intesa con i professori, poi, il liceo classico Augusto, di via Appia Nuova, la prossima settima resterà aperto tutti i pomeriggi per dibattiti e confronti sulla riforma.
Ma la protesta non si ferma ai confini del Grande raccordo anulare. Ad essere in agitazione contro quella che ormai è la legge Gelmini ci sono anche le scuole di Ostia. È stato organizzato dai licei Anco Marzio, Enriquez, Democrito e Labriola per martedì un corteo dalla stazione di Lido Nord alla sede del Municipio XIII.

Corriere della Sera 2.11.08
Scuola, interviene Bossi «Per gli atenei bisogna trovare i soldi»
Il leader della Lega: mi sembra proprio il '68
di Fabrizio Caccia


ROMA — Alla vigilia di una settimana cruciale per il futuro dell'università italiana, visto che il progetto di riforma è quasi pronto e il ministro Mariastella Gelmini ha già fatto sapere che lo presenterà in Consiglio dei ministri, da Sesto Calende, provincia di Varese, a margine dell'inaugurazione di una sede della Lega Nord, ieri sera ha parlato Umberto Bossi, il ministro delle Riforme: «Bisogna intervenire sulle università — ha detto —. Occorre trovare i finanziamenti adatti perché l'università è una cosa importante ed è inutile far unire anche gli universitari alla protesta della scuola. Non serve proprio».
Insomma, quello di Bossi è sembrato molto più che un suggerimento alla sua giovane collega della Pubblica istruzione. Anzi, quasi un appello. E infatti, a proposito delle proteste studentesche di questi giorni, il leader della Lega, preoccupato, ha aggiunto: «Una volta che si fa partire il '68 poi i ragazzi litigano. A me sembra proprio il '68, stanno succedendo le stesse cose che avvennero allora». Il ministro della Gioventù, Giorgia Meloni, getta acqua sul fuoco: «Più che al ministro Gelmini, la battuta di Bossi mi sembra rivolta a Tremonti. Ma parliamoci chiaro: checché se ne dica, la questione dell'università sta molto a cuore a questo governo. L'università, in fondo, tra i comparti pubblici è quella meno toccata dai tagli. Però se a me, per esempio, venisse chiesto di mettere un cip, di fare un ulteriore sforzo, insomma di rinunciare ancora a qualcosa pur di aumentare le borse di studio a vantaggio dei ragazzi, ecco io direi senz'altro di sì». Il capogruppo dei deputati del Pdl, Fabrizio Cicchitto, condivide: «Quella di Bossi è un'osservazione di buonsenso, nessuna polemica con la Gelmini. Il problema è oggettivo. L'importante sarà evitare l'uso di fondi a scopo clientelare com'è successo in molti casi fino a oggi». E Ignazio La Russa, ministro della Difesa: «Mi fido ciecamente della Gelmini. Questa volta, però, a fianco della buona qualità della riforma, bisognerà preparare anche un'adeguata comunicazione ». L'ex ministro della Pubblica istruzione del Pd, Giuseppe Fioroni, la vede però diversamente: «Ricordatevi — osserva — che fu sempre Bossi all'indomani della manifestazione del Pd al Circo Massimo a dire: "Noi del centrodestra dobbiamo ringraziare la Gelmini se abbiamo perso tutta la scuola..." Comunque, meglio tardi che mai. Eppure ancora non basta. Il governo fermi lo scempio. E si ricordi che l'università non è di destra né di sinistra ma dei nostri figli». L'ex presidente del Senato, Franco Marini, rilancia: «L'invito che faccio al governo è a riaprire il dialogo. Sui problemi della scuola non si va avanti per decreto...». Andrea Ronchi, ministro per le Politiche comunitarie, taglia corto: «Non è nel Dna di questo governo l'idea di indebolire il sapere. Purtroppo bisogna fare i conti con la crisi economica, ma lo sa Tremonti, lo sappiamo tutti, che occorrono più risorse e più spazi per la ricerca in Italia. Questo è un governo riformatore, non conservatore».

Corriere della Sera 2.11.08
Negli istituti A Napoli i giovani fermano i passanti e spiegano il no al decreto Gelmini
Notti bianche e abbracci: le occupazioni proseguono
di Fa.C.


ROMA — Il movimento non si ferma, il decreto Gelmini ormai è legge, ma gli studenti non s'arrendono e si preparano in tutt'Italia a un'altra settimana di mobi-litazioni. A Napoli, studenti e studentesse del «Vittorio Emanuele» occupato, un istituto del centro storico, propongono già oggi la protesta degli abbracci. Fermano i passanti per strada e li abbracciano, poi si intrattengono a spiegare perché la riforma Gelmini secondo loro è un disastro. Per venerdì prossimo, poi, sempre nel capoluogo partenopeo, Notte Bianca dell'università. A Roma, ieri pomeriggio, una cinquantina di studenti della facoltà di Fisica della Sapienza ha improvvisato una «maratona per la ricerca»: da piazza Venezia a piazza di Spagna. I concorrenti indossavano tutti pettorine recanti la scritta «No 133», la legge accusata di prevedere tagli per l'università. Alla fine, il vincitore è stato avvolto da uno striscione: «Uno su mille ce la fa». Stasera, invece, ci saranno le fiaccole di quelli di Ingegneria al Circo Massimo e in settimana a Valle Giulia (Architettura) è atteso Dario Fo. I Collettivi della Sapienza, intanto, hanno organizzato una Festa di Halloween (un euro di ingresso) per l'autofinanziamento della protesta, dopo i 1.300 euro spesi in un colpo solo per lo sciopero generale. C'è da segnalare, infine, l'operazione «occupazione collettiva» che scatterà domani in alcuni licei: al Plinio, al Tasso, al Tacito, al Botticelli. C'è fibrillazione.
Anche a Milano scuole in rivolta: dovrebbe continuare a oltranza l'occupazione del «Bottoni», picchetti e assemblee al «Conti» e al «Kandinsky». Il classico «Parini» dovrebbe cominciare le mobilitazioni martedì: la maggior parte degli studenti ha votato per l'occupazione, ma probabilmente ci saranno «solo» tre giorni di autogestione. Domani, invece, per l'inaugurazione del nuovo anno accademico del Politecnico, il rettore Giulio Ballio terrà un discorso molto critico per i tagli previsti dalla Finanziaria (il ministro Gelmini ha già annunciato che non sarà a Milano).
A Torino, venerdì prossimo, contro- inaugurazione dell'anno accademico al Politecnico davanti all'ambasciatore Usa Ronald Spogli, invitato per l'accordo raggiunto dall'ateneo piemontese con tre prestigiose università americane (tra cui il Mit). A Firenze, invece, gli studenti medi non fanno neanche festa. Ieri, Ognissanti, per protestare contro la legge Gelmini, hanno «occupato» per qualche minuto via Cavour mandando il traffico in tilt. E a Bologna, culla del tempo pieno, si rivedono le scuole elementari: venerdì 7, assemblea di maestre e genitori per pianificare le prossime mosse. Mercoledì, infine, a Genova, «tavolata sociale » in via Balbi, dove hanno sede la facoltà di Lettere da un lato e Legge dall'altro: a mezzogiorno verrà servito in strada minestrone col pesto e crostata. Ma è solo l'antipasto: il ministro Gelmini sarà a Genova il 12 novembre per il Salone italiano dell'educazione. Difficile prevedere una festosa accoglienza.

Repubblica 2.11.08
Libri, tesi e corsi universitari la rivincita di Karl Marx
Nell´era della grande crisi, la Germania riscopre il filosofo
Triplicate le vendite de "Il capitale", riabilitato il padre del socialismo scientifico. Tra i "fan" un insospettabile vescovo
di Andrea Tarquini


BERLINO - Si potrebbe quasi parafrasare la storica prima frase del "Manifesto del partito comunista": uno spettro s´aggira per l´Europa. Non lo spettro del comunismo, come nella frase originale, ma quello di Karl Marx. Scosso dalla tempesta della grande crisi finanziaria ed economica mondiale, il Vecchio continente riscopre il filosofo-politologo che insieme a Friedrich Engels scrisse quel volume e fu in sostanza il padre del socialismo scientifico e delle ideologie di sinistra poi degenerate con Lenin e Stalin. "Il capitale", l´opera più celebre di quei due austeri signori barbuti del 19mo secolo, va a ruba. Corsi di marxismo tornano materia di studi in ben trentuno università tedesche. E un casuale omonimo del grande pensatore riabilitato predica anche lui cambiamenti di fondo, perché «senza umanità, solidarietà e giustizia il capitalismo non ha futuro». Non è un ultrà di sinistra, bensì monsignor Reinhard Marx, vescovo di Monaco e Freising.
Il ritorno di Marx è il fatto culturale del momento, nella Germania cuore d´Europa che pure per la forza della sua struttura industriale e del suo welfare resiste meglio d´altre economie alla grande crisi. A riportare il Capitale negli atenei è stata la mitica Sds, l´associazione studentesca socialdemocratica, che nel Sessantotto, contaminata dai figli dei fiori e dal pacifismo, fu la culla della rivolta giovanile. «Abbiamo lasciato per troppo tempo Marx sugli scaffali», afferma Wolfgang Fritz Haug, docente di filosofia dell´università di Friburgo. Gli attivisti della Sds sono convinti che «il capitalismo è sull´orlo del baratro»: per loro rileggere Marx può aiutare a capire l´attuale crisi. «Leggere il capitale, comprendere il capitalismo, confrontare, superare!», è il loro motto. E le vendite del libro volano: triplicate in poco tempo, ristampe in corso in tutta fretta.
Volano anche le vendite de "Il capitale: una preghiera", l´opera in cui il vescovo Marx attacca i "rapaci´ e gli "avvoltoi" del sistema economico odierno. Propone riforme, non certo una rivoluzione violenta. Ma guarda caso, inizia il suo libro con una lettera immaginaria all´illustre filosofo. «Stimato Karl Marx, come suo omonimo le devo forse delle scuse. Abbiamo gettato troppo in fretta alle ortiche le sue opere». Monsignor Marx, che nella Chiesa è ritenuto più conservatore che non liberalprogressista, cita però volentieri l´enciclica Rerum Novarum e ogni altro passo sociale del cattolicesimo. E su un punto almeno è vicino alle sinistre giovanili: chiede «uno Stato forte che impedisca il formarsi di strutture dei peccatori», sostiene che la crisi finanziaria mostra come a volte la libertà abbia bisogno di confini. Del resto lo stesso ministro delle Finanze tedesco, Peer Steinbrueck, socialdemocratico riformista di scuola Schroeder-Tony Blair, ha appena detto che «alla luce della crisi attuale ammettiamo pure che non tutto quanto ha scritto Karl Marx era sbagliato».

l’Unità 2.11.08
Stragi naziste: Berlino ricorre contro l’Italia alla Corte dell’Aja
di Gherardo Ugolini


La Cassazione aveva condannato Berlino al risarcimento pecuniario per i familiari delle vittime. La Germania risponde facendo ricorso contro l’Italia in nome dell’«immunità internazionale degli Stati».
Esiste un giudice a Berlino? Quando in gioco sono le stragi compiute dalle armate naziste durante la II Guerra mondiale si direbbe proprio di no. Quel giudice manca sempre, così come manca la volontà da parte dei tedeschi di fare i conti fino in fondo con le pagine più scure della loro storia.
Soltanto dieci giorni fa prima sezione penale della Corte di Cassazione aveva condannato il governo tedesco a pagare un risarcimento economico pari a un milione di euro ai parenti delle vittime della strage commessa a Civitella, Cornia e San Pancrazio, paesini toscani nei pressi di Arezzo, in cui il 29 giugno del 1944 furono trucidati 203 civili.
Nessuno ha mai pagato fino ad oggi per quel massacro, né i familiari delle vittime hanno ricevuto alcun indennizzo. Per questo la sentenza della Cassazione, che confermava anche l'ergastolo per l'ex sergente della Wehrmacht Max Josef Milde (l'ultimo dei nazisti responsabili della strage rimasto in vita) è stata salutata come un fatto storico, l'inizio di una nuova fase. Per la prima volta la Repubblica Federale è stata condannata in via definitiva alla responsabilità pecuniaria in un processo penale per stragi naziste. Fino ad ora, infatti, c'erano state soltanto cause civili per risarcimento danni chiesto dai cosiddetti «schiavi di Hitler». Ma era soltanto un'illusione. Il governo tedesco ha infatti deciso di non farsi carico dei risarcimenti e intende presentare ricorso al Tribunale Internazionale de L'Aja.
La notizia è stata diffusa dal settimanale Der Spiegel in un'anticipazione del numero in edicola domani, e poi trovato conferma ufficiale da parte del Ministero degli Affari Esteri tedesco. L'argomento portante sostenuto dalle autorità tedesche è quello della cosiddetta «immunità internazionale degli Stati». Davanti ai giudici dell'Aja il governo di Angela Merkel - spiega Der Spiegel - fonderà il proprio ricorso sulla tesi per cui «il comportamento sovrano di uno Stato, riguardante anche le azioni del proprio esercito, è sempre coperto dalla cosiddetta immunità statale».
È chiaro che la diplomazia di Berlino ha il timore che la sentenza della Corte di Cassazione possa produrre una serie di azioni legali per tutti i crimini e le ingiustizie commessi durante la II Guerra mondiale anche in altre nazioni, col la conseguenza di «un'incertezza del diritto su scala mondiale». Basti dire che solo in Italia sono in corso attualmente 51 procedimenti giudiziari analoghi a quello per la strage di Civitella. Un altro argomento che certamente verrà utilizzato dal governo tedesco di fronte al Tribunale dell'Aja è quello dell'accordo sottoscritto nel 1961 tra i governi di Roma e Berlino per il risarcimento delle vittime delle stragi naziste. Tale accordo aveva previsto il pagamento da parte della Germania di un indennizzo di 40 milioni di marchi, pari a circa 20 milioni di euro attuali.
Lo scandalo del cosiddetto «armadio della vergogna», ovvero l'insabbiamento delle indagini sulle stragi naziste e il mancato risarcimento per i parenti delle vittime sembra così destinato a proseguire. È incredibile che i governi tedeschi del dopoguerra, indipendentemente dal colore politico o dal cancelliere in carica, abbiano continuato ad avere un atteggiamento di chiusura, con la disponibilità al massimo ad accettare una responsabilità «morale» per le colpe dei soldati nazisti, ma mai l'accettazione delle conseguenze giuridiche e d economiche.
Tuttavia non è detta l'ultima parola e non è da eludere che la Corte dell'Aja riservi sorprese. È quello che auspica Marco De Paolis, il pm militare nel processo contro Max Josef Milde. «Era chiaro che l'importanza di questa questione avrebbe comportato un'elevazione giudiziaria del livello della questione» ha dichiarato De Polis.

La Corte Internazionale di Giustizia, conosciuta anche come Corte Mondiale è il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite. Fondata nel 1945, la sua funzione principale è di dirimere le dispute fra Stati membri delle Nazioni Unite che hanno accettato la sua giurisdizione. La Corte esercita una funzione giurisdizionale riguardo all'applicazione e l'interpretazione del diritto internazionale, operando in maniera arbitrale e solo se gli Stati parti di una controversia internazionale abbiano riconosciuto la sua giurisdizione. Altro compito della Corte è offrire pareri consultivi su questioni legali avanzate dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite o dal suo Consiglio di Sicurezza o dagli Istituti Specializzati delle Nazioni Unite quando essi siano autorizzati a farlo.


l’Unità 2.11.08
La politica al tempo della scienza
di Giuseppe Testa, medico e bioeticista


Il dibattito seguito all’intervento del Papa sugli scienziati si è concentrato sugli aspetti più palesemente ostili: l’accusa di avidità, che stride in un Paese in cui la professione di scienziato oscilla tra volontariato e precarietà, e l’idea che la creatività della scienza proceda in un vuoto etico.
A ben guardare però è un altro l’aspetto più insoddisfacente dell’impostazione papale. Assente da quell’intervento è il tema centrale della partecipazione democratica all’innovazione scientifica. Che vuol dire partecipazione alla scelta di che cosa vogliamo conoscere del mondo e di come vogliamo cambiarlo. Sempre di più conosciamo la vita intervenendoci dall’interno. Sono gli organismi (noi assieme a tutti gli altri) il nuovo laboratorio, l’officina dove si studia la vita guardandola dal di dentro. E più il nostro sguardo si fa molecolare, più ci consente di entrare nel processo vitale indagandolo, smontandolo, riassemblandolo. Il modo in cui stiamo leggendo la vita (per esempio come espressione del codice a Dna) è al contempo un modo per riscriverla.
Ma se la volontà di capire come stanno le cose (domanda associata all’impresa scientifica) include sempre di più l’aspetto normativo del come dovrebbero stare le cose (domanda associata all’agire politico) ecco emergere la questione democratica di come rendere questo processo “accountable”, riconducibile cioè alla deliberazione della polis. Chi decide per chi nella cosiddetta società della conoscenza, su questioni che se da un lato richiedono un alto grado di conoscenza specialistica toccano dall’altro la vita quotidiana di ciscuno? Tutti (scienziati e non) prendiamo ogni giorno decisioni usando tecnologie e conoscenze di cui abbiamo al più una comprensione superficiale. La delega cognitiva è cifra della modernità e il problema riguarda, quindi, quanto, come, e a chi i cittadini vogliano e debbano delegare.
A fronte di questa complessità, il papa invoca filosofia e teologia per dettare alla scienza la condotta morale di cui sarebbe sprovvista. Ma è un passaggio di potere tra esperti, in cui il cittadino recede nell’oblio. Scompare la polis, scompare la responsabilità di deliberare sulla vita coinvolgendo la gente in un complesso percorso di riappropriazione delle proprie scelte. Un processo che non può che avvenire in una società plurale in cui le etiche, le religioni, e anche le capacità tecnoscientifiche, sono molteplici e diverse. La soluzione non può essere cambiare le deleghe
Da qui potrebbe e dovrebbe ripartire la sinistra. Dal compito di creare un nuovo equilibrio tra partecipazione democratica e inevitabile delega cognitiva; dal bisogno di ripensare, ai tempi della vita molecolare, uno spazio pubblico in cui rendere protagonista il cittadino derubricato a ruolo di comparsa da una lettura autoreferenziale di scienza, filosofia e teologia.

l’Unità 2.11.08
Non ci sono più le epoche di una volta
di Jean-Luc Nancy


Le «età del mondo» rappresentavano il più delle volte una forma di successione continua, uguale a quella delle età della vita e che spesso, come la vita, passava da un’infanzia a una maturità, poi a una vecchiaia. L’infanzia stessa poteva a volte essere luminosa e inaugurale, altre rude e oscura; ma l’invecchiare era assicurato, e con esso la perdita della brillantezza e del vigore, sia quelli dell’infanzia che dell’età matura. Si poteva anche concepire l’idea che alla vecchiaia seguisse una rinascita, ma sarebbe allora un altro mondo, non più un’altra età. Sarebbero un’altra vita e un’altra natura - oppure le stesse, ma sotto altri cieli.
LA STORIA COME MOVIMENTO
Passata l’età delle età, il mondo incontrò la storia, non più regolata sul modello di una vita, ma su quello di una concatenazione di azioni notevoli. Tali azioni erano quelle degli umani, e ci si allontanava così dal processo di un mondo. Gli uomini fondavano, inventavano, conquistavano, producevano. Producevano se stessi nelle loro civiltà, nelle loro culture, nei loro pensieri e nelle loro rappresentazioni. Questa produzione conosceva delle epoche e delle aree. La geografia delle aree - oriente o occidente, isole o continenti, spazi aperti o chiusi - incrociava nella sua distribuzione contingente delle successioni di epoche, cioè delle durate relativamente stabili e identificabili, come un ordine interno di significati, ossia come un «mondo» (il «mondo greco», il «mondo delle cattedrali», ecc.). Ma questa successione di mondi non apparteneva a sua volta a un mondo: la storia in quanto movimento eccedeva l’idea di mondo. Piuttosto, essa trasformava il mondo: sia con incessanti modificazioni o mutazioni di quella stessa idea - e soprattutto, con l’invenzione di «nuovi mondi» - sia al contrario proiettando la finalità di tutto questo processo - o progresso - come la produzione di un ultimo mondo che sarebbe di fatto una nuova natura: quella di un’umanità strappata agli assoggettamenti dell’antica.
La storia ha fatto epoca: la sua epoca al tempo stesso si richiude e si prolunga. Si richiude in quanto rappresentazione di un processo (e ancor più di un «progresso»), e si prolunga in quanto evento, mutazione, spostamento. Non c’è più fine né orizzonte. Niente più fine, né mirata (visée) né visibile (anche se pensiamo sempre - e dobbiamo farlo - di poterci dare degli «obiettivi»); e niente più fine come compimento. Né skopos né telos. Di conseguenza, più nessuna «fine ultima»: niente più eskaton - a meno che, potremmo anche pensare, non vi ci sia già, e senza saperlo procediamo verso il nostro giudizio finale in una conflagrazione cosmica.
SENSIBILITÀ AL CAMBIAMENTO
Noi non possiamo anticipare. Eppure sembra proprio che la grande trasformazione del mondo in cui siamo entrati - che si chiama «mondializzazione», come se la sua posta in gioco fosse tutta nel sapere se ci sarà ancora «mondo» oppure no - proceda a grandi passi fuori dalla natura e dalla storia, fuori dalle età e dalle epoche, verso un altro spazio-tempo, un altro ritmo.
Noi possiamo tentare di parlare di stagioni, intendendo con questo ciò che non è né età (ciò che tornerebbe, all’interno dello stesso mondo) né epoca (perché non si stabilizza come un ordine o una struttura); e che non rimanda a un processo continuo, né progressivo né regressivo. Le stagioni ritmano un ciclo, ma ciò che conta in questa parola - «stagione» - è meno il ritorno ciclico che non le variazioni del cielo, dell’aria e della terra, dei colori e delle fragranze: un tremore discontinuo della sensibilità.
Noi non consideriamo, parlando di stagioni, né il semplice valore naturale dei vari sbocciare e ibernarsi, né ben inteso il valore storico secondo cui, tendenzialmente, «non ci sono più stagioni», perché la lunga portata del processo le rende insignificanti. Cerchiamo al contrario, al di sopra di natura e storia, o a lato di esse, spostato, il valore della sensibilità al cambiamento, e della capacità di conformarsi o confrontarsi ad esso.
Più che del tempo che passa, si tratta del tempo che fa. Più che del tempo cronologico, del tempo meteorologico. Non di un vettore uniforme, ma di una costellazione mobile di eventi, umori, passaggi e fughe, occasioni - possibilità e rischi - disseminate lungo un tragitto imprevisto, aleatorio, piuttosto che nel corso di una durata omogenea.
Secondo la stagione - che non è mai la stessa che negli anni passati - si tratta di adattarsi, non con sottomissione ma con ingegno e attenzione. Non di restare al riparo della pioggia o del sole, ma di coglierne il gusto, gli umori, aggirarne gli ostacoli favorendone le risorse. Sono, questi, il sapere e la facoltà dei contadini: noi non cesseremo mai di esserlo, per quanto operai e cittadini siamo potuti diventare.
Del resto, non vediamo trasformarsi anche i nostri lavori e le nostre città, fino a non assomigliarsi più? Non diventiamo forse qualcosa d’altro che operai e cittadini? Contadini di un altro paese, di un altro paesaggio. Coltivatori di una terra sconvolta di cui ignoriamo ancora se sia coltivabile, e quali frutti potrebbe portare. Né Oriente, né Occidente, né Sud, né Nord, ma in tutti i sensi spostamenti, ricomposizioni, derive di continenti, desertificazioni e innalzamenti dei mari: natura rimodellata, storia dai racconti multipli e reversibili, destini improbabili privati di Dei come di astri.
Stagioni: ciò che vorrebbe dire prima di tutto suspens e attenzione sul bordo di ignote germinazioni, forse mostruose, forse generose; ciò che vorrebbe dire farsi o lasciarsi diventare sensibili ad altri ritmi, altre andamenti del cielo e della terra - e forse alla possibilità che non ci siano più cielo né terra, ma una configurazione inedita, un altro mondo, più cosmico o tellurico, più intrigante e non meno inquietante di quello cui si esponevano i primi uomini.
Stagioni: cioè ragioni di sentirci ancora, se è possibile, al mondo.
(Traduzione di Beppe Sebaste)

Repubblica 2.11.08
I sani, i matti e le parole negate
Manicomi, la memoria
di Lura Montanari


Un libro raccoglie le lettere 1889-1974 trovate nell´archivio dell´ospedale psichiatrico di Volterra: la corrispondenza censurata tra i pazienti e le loro famiglie, il ricordo struggente di tante vite spezzate

Saluti e baci non consegnati, lettere scritte e censurate, mai spedite, sepolte, rimaste a ingiallire nell´archivio del San Girolamo, tra le vecchie cartelle cliniche dei pazienti dell´ospedale psichiatrico di Volterra, in provincia di Pisa, negli anni in cui bisognava far dimenticare al mondo che c´erano i matti. Calligrafie antiche: «Carissimo padre, io di salute sto bene e spero voi pure facciate lo stesso. Nella mia assenza da voi vi ho scritto tre volte e mai ebbi risposta� Com´è che mi tenete questo silenzio? Vi mandai a chiedere la stoffa per farmi un abito, nella eventuale mia uscita da qui». Struggenti: «Cara famiglia, vi giuro di non disobbedirvi mai più, vi faccio sapere che in tutto questo tempo non ho ricevuto nulla, vi prego di venirmi a trovare». Di prigionie e solitudini senza tempo: «Carissima sorella, non vedendo né vostre lettere né la vostra presenza qua, non so più cosa pensare».
Affetti consegnati alla deriva di un italiano incerto e messi per la prima volta venticinque anni fa in un libro ormai introvabile e adesso ripubblicato dalla Asl di Pisa con un contributo della Cassa di Risparmio di Volterra e con un nuovo editore, Del Cerro: Corrispondenza negata-Epistolario della nave dei folli 1889-1974 (400 pagine, 38 euro). Il volume curato dall´ex direttore del San Girolamo Carmelo Pellicanò (scomparso l´anno scorso) e da quattro collaboratori - Remigio Raimondi, Giuseppe Agrimi, Volfango Lusetti, Mauro Gallevi - dà voce a chi per quasi un secolo ne è stato privato, è un risarcimento postumo, le nostre scuse per aver lasciato anche dopo il 1948 zone franche, terre in cui l´articolo 15 della Costituzione italiana sulla segretezza della corrispondenza non veniva applicato.
«Il malato in manicomio era tenuto in una condizione sub-umana, isolato, nascosto al resto della società - spiega Remigio Raimondi, oggi direttore del dipartimento di salute mentale di Massa Carrara -. Le lettere erano un contatto con l´esterno, qualcosa che poteva alimentare nel paziente delle speranze o ingenerare illusioni, delusioni, comunque turbamenti. Per questo, per anni e in tanti manicomi, non soltanto a Volterra, la corrispondenza per le famiglie o dalle famiglie agli internati non veniva recapitata. Al San Girolamo abbiamo trovato lettere allegate alle storie cliniche, usate come prova della malattia».
Qualche anno fa era stato Simone Cristicchi ad andarle a cercare e a trarne una canzone che vinse a Sanremo; adesso ritorna il libro, una raccolta di centocinquanta missive mai consegnate, una campionatura di quello che è rimasto negli archivi del manicomio toscano. Il San Girolamo era quasi una città, ha avuto fino a quattromilaottocento pazienti divisi in padiglioni, batteva una sua moneta, aveva laboratori di sartoria, orti, un´officina, un panificio, allevamenti di galline e di maiali. Una comunità autosufficiente, con intorno muri difficili da scavalcare.
Per capire cos´erano quelle solitudini, il ritrovarsi legato a un letto, non prendere aria per settimane, non avere più niente che ti appartiene, nemmeno un abito, una fotografia, un orologio, bisogna sfogliare certe pagine dalle calligrafie faticose, aprire porte private in cui si entra con disagio. Perché sono nostalgie di casa: «Il bimbo poche volte è venuto a trovarmi, un po´ il freddo intenso o la neve, un po´ la mancanza di quattrini»; sono paure, punizioni: «Se qualcuno si azzarda a pronunciare mezza parola, detta con tutta la ragione, guai a quel disgraziato, ci sono subito le fasce, e se continuasse a parlare c´è pure altri rimedi più feroci»; grida di aiuto: «Sono peggio che in una galera, ti prego di venire presto a prendermi»; improvvise fragilità: «Mi pare mille anni che non vedo qualcuno di casa»; amori di clausura: «All´ospedale ho avuto relazioni intime con una signorina che adesso mi chiede indennità di un milione di lire egiziane e un pacco di dolciumi».
C´è il cantante lirico che vorrebbe ancora un palcoscenico, il ferroviere pentito di aver denunciato una truffa, l´anarchico che racconta il suo arresto, l´alcolista che scrive alla moglie. C´è quello che si rivolge allo zar di tutte le Russie o al re: «Maestà, l´essere mio tutto è gracile, indebolito, causa il vivere da bestie. Un po´ d´aria l´ho avuta dopo ben ventisei mesi passati fra ogni sorta di puzze e infezioni! Sono evaso due volte per sottrarmi a questi inumani abusi, a queste occulte ingiustizie; ma tutti i miei sforzi furono inutili. Dicono che io sono pericoloso e posso attestarlo poiché così mi trattano. Forse mi tengono qui perché sono orfano di padre e madre? O perché quei pochi parenti che ho non se ne occupano?... In sessanta mesi non ho avuto una sola riga di scritto, nessuno si è degnato confortarmi, consolare il mio tanto dolore».
Il volume sarà presentato a Volterra al Festival dei coralmente abili, il 7 e 8 novembre e sarà dedicato al diritto all´inclusione e alla pari dignità, testimonial Roberto Vecchioni. La corrispondenza negata verrà «consegnata» sabato 8 novembre, a trent´anni dalla legge 180, nel ridotto del teatro Persio Flacco.

Repubblica 2.11.08
Il poeta sulla nave dei folli
di Alda Merini


«Cari genitori, io sto bene», «vi ringrazio tutti», «parti subito, vienimi a trovare», «cara famiglia, giuro di non disubbidirvi più». Leggo qualche frase dalle lettere ritrovate a Volterra, e la cosa più commovente è la fiducia: quella dei pazienti che scrivono ai loro cari e quella dei parenti che scrivono ai pazienti. Gabbati tutti e due, con quelle lettere mai consegnate. Io sono stata una paziente e ricordo le volte che vedevo passare un uomo vicino all´inferriata e gli affidavo un biglietto. Figuriamoci se lo consegnava, ma non importa. Contava di più la speranza che un giorno potesse venire lì un amico. Erano balle, ma importanti. Per questo è una sconcezza che le lettere siano finite in un cassetto, e questo è un libro che è giusto pubblicare.
* * *
Amavamo talmente i nostri cari che non dicevamo mai niente del dolore, degli elettroshock. Inventavamo la vita dentro il manicomio e a loro dicevamo che la vita è bella, come nel film di Benigni. Per non scandalizzare i figli, e neppure gli adulti. Per risparmiargli le preoccupazioni e i dolori: può sembrare strano ma sei tu, rinchiuso, che hai pietà per loro. Lo stesso con le visite: aspettavo mio marito per giorni e quando lo vedevo dimenticavo tutto quello che avevo patito nella giornata, e allora qual era la verità, la mia gioia di vederlo o il mio terrore dell´attimo prima? C´è un aspetto trionfale, in quell´amore che ci teneva in vita, la speranza che «prima o poi lui mi risponderà, prima o poi mi verrà a prendere».
* * *
Mio marito è l´uomo che mi ha fatto rinchiudere, per gelosia. Ma credo che non sapesse di mandarmi alla tortura, aveva creduto ai medici. Quando anni dopo è morto di cancro, non avevamo i soldi per curarlo e allora ho messo mano al mio libro Terra Santa. Lui, poveretto, mi correggeva le bozze e ogni tanto alzava gli occhi dai fogli per dire: «Davvero ti ho fatto passare tutto questo?». Del resto l´autore del nostro disastro è sempre il padre, il marito, il fratello. Subirlo è la forma più grande di amore, perciò si perdona. Non voglio descriverlo come un essere abietto, era anche una persona positiva, con una materialità che mi ha aiutato, perché il poeta, se non lo tiri giù, vola via. Gli do una colpa, grande: mandarmi in manicomio è stato un tentato omicidio, però colposo.
* * *
Ai medici è più difficile perdonare. Uno non diventa matto di colpo, posto che il poeta è naturalmente un malinconico, ma è anche un meditativo e uno scrupoloso osservatore delle cose, un cronista come Dante, o come gli apostoli, che erano poeti di strada e raccoglievano storie. L´ho fatto anch´io. In quei momenti non puoi scrivere poesia, non hai niente da dire. Ma ho imparato a guardare nella mia anima e in quella degli altri. Il manicomio è un posto pieno di attori mancati, che recitano con grande naturalezza. Il malato sa sempre di chi è la colpa, ma non lo dice perché al colpevole vuole bene. Allora si crea una favola e va ad abitarci per salvarsi la vita. E ci resta finché non lo tiri fuori con una sberla.
* * *
Sberla metaforica, dico, non elettroshock. Quelle sono cento sberle insieme, ti si spaccano i denti, ti svegli coi capelli ricci e non ricordi nulla. Siccome il manicomio è un´Hilarotragoedia, avrebbe detto Manganelli, e i matti sono anche divertenti, a volte dicevamo ai dottori: «Perché il numero sette non ha fatto la terapia?». Il numero sette non ricordava niente, gli infermieri non ci facevano tanto caso e così ne faceva due. Guarire è un´altra cosa, come ho scritto del mestiere di poeta, «è un improbo recupero di forze per avvertire un po´ di eternità». Certo, da certe esperienze puoi anche tirare fuori una grande forza. Però sconsiglio di passare di lì.
* * *
Più avanti ho conosciuto un altro aspetto del manicomio, quando un dottore, il mio Dottor G. a cui ho scritto tante lettere che ho poi pubblicato in un libro, mi difendeva dalle torture e mi metteva davanti una macchina da scrivere perché mettessi sulla carta i miei pensieri. Regolarmente succedeva un miracolo, quando tornavo in manicomio sparivano tutti i sintomi. Ritrovavo tutti e quando si spalancavano le porte erano le porte dell´Eden. Mi accoglievano a braccia aperte, in un certo senso era già cominciato il mio successo.
* * *
Ci sono molti equivoci su poesia e follia, e sul poeta e il dolore. C´è gente fuori di testa che pensa che la poesia sia una terapia, invece è una vocazione. Il poeta nasce felice. Sono gli altri che gli procurano il dolore. Non parlo solo del manicomio, ma di dolori come la passione quando diventa un abisso. Come per Teresa Raquin, come per Madame Bovary, una schiera di donne di cui credo di far parte, che vogliono essere amate senza essere strumentalizzate. Io sono stata strumentalizzata tanto. Ma tutto alla fine diventa ricordo. E noi sulla beatitudine dei nostri ricordi ci addormentiamo.
Testo raccolto da Maurizio Bono

Corriere della Sera 2.11.08
Epifani: immigrati, la Bossi-Fini deve essere «congelata» per 2 anni
Il leader cgil: restituire il 70% dell'extragettito Irpef con le tredicesime
di Sergio Rizzo


ROMA — Prima il No alla Confindustria. Poi il No al contratto del pubblico impiego. Quindi l'abbraccio con il leader della Fiom Gianni Rinaldini che prepara lo sciopero delle tute blu. Ma la campagna d'autunno di Guglielmo Epifani riserva altre sorprese. Come la clamorosa richiesta al governo di sospendere per due anni la legge Bossi-Fini sull'immigrazione. E la proposta di distribuire sei miliardi con le tredicesime. Operazioni anche queste funzionali a «scalare il Partito democratico », progetto che gli attribuisce il segretario della Cisl Raffaele Bonanni, l'uomo che finora ha invece detto sempre Sì? «Scalare il Pd? Fandonie. L'unica tessera che ho in tasca è quella della Cgil. Cerco di fare il mio, senza interferire. Sono sempre stato fra quelli che consigliano prudenza. Le scelte del sindacato sono certamente politiche, ma non siamo né vogliamo diventare un partito», replica il segretario della Cgil. «L'atteggiamento di Bonanni», aggiunge, «è quello di chi cerca di cambiare discorso».
Perché mai dovrebbe farlo?
«La stanno buttando in politica invece di mettersi a ragionare seriamente sulla crisi. Noi gli chiediamo di fare una piattaforma comune per aprire con il governo un tavolo sulla situazione pesante nella quale sta precipitando l'economia reale, e loro in realtà sfuggono».
Non sarà perché finora la Cgil ha detto soprattutto no?
«La verità è che non abbiamo mai avuto l'opportunità di discutere. Da quando è scoppiata la bufera finanziaria il governo ha incontrato tutti ma non ha mai voluto parlare con il sindacato».
Veramente pare che Giulio Tremonti sia andato a cena con Bonanni e Luigi Angeletti.
«Con le cene separate a lume di candela non si risolve nulla. Qui bisogna aprire un tavolo trasparente con il governo e presentare proposte precise. Io finora non ho sentito alcuna proposta da Cisl e Uil».
Se è per questo nemmeno la Cgil ne ha tirate fuori.
«Lo faremo il 5 novembre e chiederemo anche a Cisl e Uil di discuterle e condividerle. Se la crisi è eccezionale, servono misure eccezionali».
Del tipo?
«Nessuno si chiede che cosa succede ai lavoratori stranieri nel momento in cui perdono il lavoro. Sono quattro milioni, sono stati assunti per fare lavori che nessuno avrebbe fatto, e producono il 10% del reddito nazionale».
Dovrebbero essere rispediti ai Paesi d'origine?
«Proprio così. In base alle norme attuali perderebbero insieme al lavoro anche il titolo per restare in Italia. Siccome sono persone che hanno lavorato, e lavorato bene, non avrebbe alcun senso mandarle via per poi richiamarle quando l'economia dovesse riprendere. Né per loro né per il nostro Paese».
Allora?
«Allora la Cgil proporrà di sospendere l'efficacia della legge Bossi-Fini per due anni, allo scopo di consentire a queste persone di trovare una nuova occupazione».
Quanti si troverebbero in questa condizione?
«Sicuramente decine di migliaia».
Nessuno di loro avrebbe altre forme di tutela?
«Anche se le avessero non servirebbero a nulla. L'indennità di disoccupazione agricola, per esempio, non sarebbe sufficiente a garantire il mantenimento del permesso di soggiorno, per il quale è necessario dimostrare ogni anno di avere un certo reddito. Aggiungo che sono state innalzate le soglie di reddito per il ricongiungimento familiare, il che complica ancora di più le cose. L'unica tutela, per loro, sarebbe la sospensione della Bossi- Fini per un certo periodo».
Perché due anni?
«Se non due anni, quindici mesi o il tempo che si riterrà necessario. Come per le altre misure che proponiamo, tutte transitorie. Occorre trovare più risorse per la cassa integrazione per le piccole e medie imprese. Ci sono dei fondi, ma non bastano. Quindi bisogna individuare qualche ammortizzatore sociale per i precari».
Anche loro perdono il lavoro?
«Abbiamo calcolato che nel settore privato ne sono già saltati duecentomila. Senza uno straccio di sostegno al reddito. C'è poi la questione della cassa integrazione: se dura troppo si pone un problema di reddito anche per i cassintegrati».
Dove prendiamo le risorse?
«Perché non usare i denari che si spendono oggi per la detassazione degli straordinari? Se la crisi ha queste proporzioni, che senso ha detassare il lavoro straordinario e contemporaneamente, magari nella stessa azienda, mettere la gente in cassa integrazione e licenziare i precari?».
Sicuro che i soldi si trovino?
«Nel primo semestre di quest'anno il gettito dell'Irpef è aumentato di 8 miliardi e mezzo. Siccome il 70% di questa imposta è pagato dai lavoratori dipendenti e dai pensionati, significa che a parità di salario pagano più tasse, come avevamo già denunciato. Allora noi proponiamo di restituire a lavoratori e pensionati tutto questo 70% a dicembre, ridistribuendolo sulle tredicesime».
Un bel regalo di Natale. Si rende conto che sono quasi sei miliardi?
«Con questa operazione si ottiene un doppio risultato: aiutare le famiglie nel periodo più difficile e dare una iniezione di fiducia».
Venerdì scorso lei ha benedetto lo sciopero generale dei metalmeccanici della Fiom. Potrà diventare lo sciopero generale di tutta la Cgil?
«Le iniziative che prenderà la Cgil, anche un eventuale sciopero, avranno come obiettivo le mancate risposte alla crisi economica e sociale».
Ma quello delle risposte alla crisi non sembra un tema molto popolare neppure a sinistra. Le risultano proposte del Partito democratico?
«Finora per tutti il tema è stato quello dell'emergenza. Ci sono frammenti di proposte. Il Pd ha chiesto di detassare le tredicesime. Ma certamente manca un disegno organico».
Che l'opposizione sia in difficoltà non è un fatto nuovo.
«Il risultato elettorale è stato molto pesante e non è facile riprendersi dopo una sconfitta simile, anche se la manifestazione del 25 ottobre è stata un successo. Ma bisogna anche considerare che c'è una difficoltà oggettiva a mandare avanti le proposte politiche».
E sarebbe?
«Come per il sindacato non ci sono tavoli di confronto, così il Parlamento non è più terreno di discussione. Alla maggioranza non interessa. Il governo va avanti a colpi di decreti legge».
Non c'entra nulla la presunta debolezza della leadership del Pd?
«Credo che Veltroni stia facendo bene, in condizioni difficili, con un partito complesso che deve ancora radicarsi, e dove esistono tante culture che debbono omogeneizzarsi. Ma le ricordo che sono il segretario della Cgil...».

Corriere della Sera 2.11.08
Le cifre Il 52,9% ha un contratto regolare, il 25% è a ore, il 16% autonomo. In caso di perdita del lavoro verrebbero espulsi
Dagli operai alle badanti, a rischio un milione e mezzo di stranieri
di Francesca Basso


MILANO — Partiamo dalle cifre. Un lavoratore su 10 è straniero. Gli immigrati in Italia, secondo la Caritas, sono quasi quattro milioni (il 6,7% della popolazione), di cui un milione e mezzo quelli che lavorano: producono il 9% del Pil (stima di Unioncamere). In genere fanno i mestieri che gli italiani ormai rifiutano, dalla fabbrica alla raccolta dei pomodori.
Con la crisi economica rischiano il posto di lavoro e di conseguenza il permesso di soggiorno. Se uno straniero con regolare permesso viene licenziato diventa anche irregolare, perché perde il pre-requisito stabilito dalla legge Bossi-Fini per poter prima entrare e poi restare nel nostro Paese. Il segretario della Cgil Guglielmo Epifani lancia l'allarme e chiede una «sospensione della Bossi-Fini per un certo periodo » per consentire a queste «persone che hanno lavorato e lavorato bene» di non essere espulse, tanto più che «non avrebbe alcun senso mandarle via e poi richiamarle quando l'economia dovesse riprendere». Del resto le statistiche mostrano che la maggior parte degli immigrati che perdono il lavoro cerca di rimanere nel nostro Paese per trovare comunque una nuova occupazione (un esempio le badanti, molte delle quali sono ancora irregolari perché la sanatoria non è bastata, ma continuano ad aiutare le famiglie nelle nostre case pur risultando «invisibili »). La temporanea sospensione della Bossi-Fini consentirebbe a chi è licenziato di trovare un nuovo lavoro regolare, usufruendo dei canali messi a disposizione dalle istituzioni. In pratica un operaio che viene lasciato a casa, anziché diventare subito irregolare e incorrere nell'espulsione, potrebbe essere «ricollocato» e trovare un lavoro stagionale come la raccolta dei pomodori.
Un rapporto del ministero dell'Interno spiega che le mansioni più diffuse tra gli immigrati sono operaio, badante, colf a ore, cameriere. Mentre tra le professioni autonome: negoziante, ristoratore e artigiano. La maggior parte degli stranieri con un'occupazione ha un contratto regolare (52,9%), il 24,9% è pagato a ore (la tipologia di compenso tipica delle assistenti familiari), il 16% ha un'attività autonoma e il 5% lascia supporre di svolgere «lavori in nero» (circa 76 mila), percentuale che rischia un'impennata.

Corriere della Sera 2.11.08
Il Fondo statale non basta più, ma dal 2010 sarà diminuito. Saltano i bilanci di chi ha fatto mutui immobiliari
I casi Napoli L'Orientale, Siena e Firenze sono in crisi. Il governo avverte: non ci accolleremo errori di gestione e progettualità
Università, i conti in rosso
Gli atenei indebitati con le banche sono 41 Il 90% delle entrate speso per il personale
di Antonio Castaldo


Sempre più indebitate e con la prospettiva di avere sempre meno soldi per far fronte agli impegni presi. Sono le università italiane alle soglie di una stagione di sacrifici. A partire dal 2010 la legge 133 ridurrà di 1.500 milioni i finanziamenti che tengono in vita la didattica nelle aule accademiche. E se i soldi diminuiscono, crescono i debiti. Da una ricerca del Miur è emerso che le esposizioni bancarie degli atenei aumentano costantemente, con alcuni picchi preoccupanti. Ci sono università indebitate fino ad un quinto dei fondi ricevuti dal governo, e difficilmente potranno far fronte agli impegni presi con il drastico ridimensionamento dei trasferimenti statali previsto per i prossimi anni.
Gli ultimi stanziamenti ammontano a 7.119 milioni di euro, l'1,5 per cento in più rispetto all'anno precedente, e in futuro, per la prima volta da quando c'è l'autonomia, il trend di crescita sarà negativo. Nel 2009 il fondo conterrà 63 milioni in meno, ma il calo nel 2010 toccherà quota 661 milioni, ovvero più del 10 per cento in meno.
I tagli hanno scatenato la protesta degli atenei, eppure su un punto governo e rettori sono d'accordo: bisogna intervenire per evitare il tracollo. «Corriamo il rischio di non poter pagare neppure le retribuzioni del personale», ha spiegato la Crui, la conferenza dei rettori.
Proprio questo è il cuore del problema. Secondo le ultime stime, le spese per gli stipendi di docenti e dipendenti tecnici o amministrativi pesano per 6,3 miliardi di euro, ovvero l'89 per cento del fondo di funzionamento ordinario (Ffo) stanziato dallo Stato. L'anno scorso erano all'85,1. Il governo, con in testa il ministro Mariastella Gelmini, intende ridurre i costi, e contrattacca su sprechi e bilanci prossimi al dissesto di alcuni atenei: «Dobbiamo dotarci di un sistema efficace per evitare che risorse distribuite a pioggia vengano dilapidate». Il ministro ha ricordato che in Italia sono attivi 5.500 corsi di laurea, 37 dei quali attivi con un solo studente, 327 facoltà che non superano i 15 iscritti, 320 sedi distaccate per 94 atenei (troppi per il ministro). «Eppure — ha aggiunto — produciamo meno laureati del Cile e non c'è un solo ateneo italiano tra i primi 150 al mondo».
I rettori confutano parte di questi dati, ma anche per il mondo accademico è necessaria una riforma: «Un'autocritica è necessaria — ammette Enrico Decleva, presidente Crui — e siamo consapevoli che si debbano spendere meglio le risorse. Ma per quanto sia possibile ridurre e tagliare, come si fa a lavorare ritrovandosi da un anno all'altro con 700 milioni in meno?».
Sul crinale del dialogo si muove anche il gruppo Aquis, composto dai tredici rettori degli atenei «virtuosi », quelli cioè con i conti in regola, pronti a «spendere meglio le risorse di cui dispongono a patto che il governo abbandoni la politica della mannaia ».
«Bisogna lavorare sui costi del personale», propone Gilberto Muraro, docente di Scienze delle Finanze a Padova, che durante il governo Prodi guidava una commissione istituita proprio per risanare le finanze delle università: «La legge fissa un tetto: chi spende oltre il 90 per cento dei fondi di funzionamento per stipendi e costi fissi incorre in sanzioni. Cominciamo a rispettarlo». Nel 2007 sono state, conti «puri» alla mano, 26 le università fuorilegge da questo punto vista. Che si riducono a sei (Napoli L'Orientale, Pisa, Firenze, Trieste, Cassino e Bari) grazie alla «correzione» prevista dalla legge 31 del 2008.
Come se non bastassero le spese di gestione, ci sono anche le banche con cui fare i conti. Secondo i dati Miur, le università indebitate sono 41. E in qualche caso è già scattato il campanello d'allarme. Ad esempio per L'Orientale di Napoli, ateneo da 10 mila studenti, che ha acquistato una nuova sede da 30 milioni di euro rilevando dall'Italgrani un enorme palazzo al centro della città. Qui l'esposizione è pari al 21,7 per cento dei fondi di funzionamento incassati nel 2006.
Siena, dove è stato recentemente scoperta una voragine nei conti, è invece oberata da debiti per 93 milioni di euro. E non se la passano meglio a Firenze, dove per pagare le rate dei mutui, e contemporaneamente far quadrare i bilanci in disavanzo per oltre 22 milioni, hanno messo in vendita i gioielli di famiglia: le storiche ville Favard e Montalve.
Ma non solo chi ha difficoltà di cassa ricorre al credito. Anche il «virtuoso» Politecnico di Milano, uno degli atenei con il miglior rendimento economico (qui le spese del personale coprono solo il 66 per cento dei 191 milioni stanziati), ha contratto debiti per quasi il 10 per cento delle proprie entrate governative. «Abbiamo risorse e piani di rientro, ricorrere al credito non è sbagliato a prescindere », spiega il prorettore Giovanni Azzone. «Ma se il governo deciderà di ripartire i sacrifici imposti dalla legge Tremonti in modo generalizzato, ignorando chi ha saputo contenere le spese, anche noi ci troveremo in difficoltà», aggiunge.
Nella graduatoria degli indebitati figurano poi università come il Piemonte Orientale, le siciliane Messina e Palermo, e la Statale di Milano, il cui 7,65 per cento di indebitamento va però tarato sui 272 milioni incassati nel 2006.
Visto il clima infuocato, è difficile immaginare che il governo possa dare una mano con le rate in scadenza. «Le università si sono indebitate — spiega il sottosegretario Giuseppe Pizza — perché spendono più di quanto ricevono. Non è possibile accollare allo Stato errori di gestione o di progettualità». Non resta che intaccare i patrimoni immobiliari. Per il futuro, però, gli esperti propongono l'introduzione di una norma che fissi dei limiti anche per le esposizioni bancarie degli atenei: «Sull'argomento manca una legge — conferma Muraro — ma va detto che alcuni atenei hanno sbagliato in buona fede. Forse prevedevano per il futuro che il governo continuasse ad aumentare i trasferimenti finanziari. E del resto chi poteva immaginare che invece di incrementare i già magri finanziamenti, il nuovo governo li avrebbe tagliati?».

Corriere della Sera 2.11.08
Crisi del capitalismo
Il «sistema di potenza»
di Emanuele Severino


Al di sotto delle sue crisi più o meno gravi, il capitalismo è soggetto a uno smottamento che non ha nulla a che vedere con quello diagnosticato dal marxismo, ma che nemmeno riporta la politica alla guida della società. L'alternativa «o capitalismo o comunismo » non è cioè perentoria. Un'altra forma di potenza sta facendosi strada nel mondo.
La ricchezza — lavoro, merci, servizi, strumenti, opportunità, ecc. — è la condizione perché una società abbia potenza, ossia capacità di realizzare certi scopi e ostacolarne altri. Nel capitalismo la produzione della ricchezza-potenza ha come scopo la crescita indefinita del profitto privato, che tende quindi a diventare lo scopo dell'intera società. Fisiologicamente (dunque non solo nelle sue patologie, come ad esempio in quella «mercatista»), il capitalismo agisce per eliminare il più possibile le forze che ostacolano tale crescita e che quindi — come il Cristianesimo, la morale, la democrazia, ecc. — si propongono di assegnare alla società uno scopo diverso dal profitto privato. Tendendo a diventare Stato, il capitalismo tende a trasformare lo Stato in uno Stato a rischio, o stato di rischio, giacché il rischio calcolato appartiene all'essenza del profitto.
Ed ecco il principio sul quale, soprattutto oggi, è indispensabile riflettere. A parità di condizioni, il capitalismo è meno potente di un sistema che produce ricchezza-potenza per far crescere indefinitamente la propria potenza, in modo che sia questa crescita a diventare lo scopo dell'intera società.(E, volendo la potenza, tende a minimizzare il rischio e a massimizzare la razionalità del calcolo). Chiamiamo questo sistema «sistema della potenza». Il capitalismo non si propone la crescita indefinita della potenza, ma la proprietà privata di questa crescita, ossia qualcosa di diverso da tale crescita: l'incremento del profitto privato, appunto. La minor potenza del capitalismo significa che là dove il sistema della potenza si presenta, è lo scopo di quest'ultimo che la società è destinata a darsi, non lo scopo del capitalismo.
Quale e dove sia oggi nel mondo quel più potente sistema lo richiamo qui avanti; ma intanto un esempio può chiarire la tesi. Se si lavora alla costruzione di un'auto con l'intento di renderla sempre più veloce, si ottiene un mezzo più veloce di quello che a parità di condizioni si ottiene quando, lavorando per render sempre più veloce un'auto, si vuole anche, e innanzitutto, che soltanto il suo proprietario possa avvalersi dell'incremento della velocità. A parità di condizioni, il lavoro per realizzare la clausola relativa al proprietario riduce infatti e indebolisce il lavoro per aumentare la velocità; e la velocità ottenuta sarà inevitabilmente inferiore a quella che si può ottenere impiegando tutto il lavoro per produrre, senza clausole addizionali, un'auto sempre più veloce.
Fuor di metafora, lo scopo di un'azione — semplice o complessa come la produzione della ricchezza-potenza— prescrive quali debbano essere i mezzi richiesti per realizzarlo: ne esige alcuni, ne esclude altri. Volersi dissetare (scopo) prescrive dell'acqua (mezzo), non un libro; voler leggere prescrive un libro, non dell'acqua. Quando la produzione della ricchezza- potenza ha come scopo l'incremento indefinito della potenza del sistema, è dunque tale scopo a prescrivere e stabilire la configurazione dei mezzi con cui esso viene realizzato: li coordina tutti all'aumento della potenza, sono tutti in funzione di questo aumento. Configurazione, coordinazione, funzionalità che invece sono assenti quando la produzione della ricchezza- potenza ha come scopo l'incremento del profitto privato. Anche questo scopo, infatti, coordina a sé i mezzi che lo producono, e quindi toglie spazio alla loro coordinazione all'incremento della potenza: così come la condizione che soltanto il proprietario dell'auto possa avvalersi dell'aumento di velocità toglie spazio al lavoro che fa aumentare la velocità.
Ma anche la concorrenza indebolisce il sistema capitalistico. Lo scopo di ogni produttore è l'indebolimento e al limite la distruzione dei concorrenti. E poiché senza concorrenza non c'è capitalismo, il capitalismo ha come scopo oggettivo (anche se inconsapevole) la propria distruzione attraverso quel progressivo indebolimento dei concorrenti che conduce al monopolio. È, questo, un ulteriore aspetto della minor potenza del capitalismo rispetto al sistema della potenza, dove la concorrenza non può che essere l'eliminazione dei produttori meno capaci di incrementare la potenza del sistema. Nel capitalismo la concorrenza indebolisce la produzione della ricchezza-potenza, nell'altro più potente sistema la concorrenza la rafforza. Dove lo scopo della produzione è l'incremento indefinito della potenza, è infatti inevitabile che i produttori eliminino i concorrenti che riducono la potenza del sistema e rafforzino quelli che la aumentano.
Ma, dunque, a quale sistema ci riferiamo parlando del «sistema della potenza», rispetto al quale il capitalismo è meno potente? Non a un semplice modello ideale; ma a qualcosa che va crescendo e facendosi largo all'interno dello stesso sistema capitalistico. Si tratta del modo in cui si sta sviluppando il rapporto tra lo scopo del capitalismo e l'insieme dei mezzi che lo realizzano. Questo insieme è l'apparato tecnologico guidato dalla scienza moderna. Sino a che ad esso è assegnato come scopo il profitto, il capitalismo possiede un certo grado di potenza; ma nella misura in cui questo apparato riesce a mostrare e a far valere quello che è il proprio scopo, diverso dunque dal profitto, il sistema diventa più potente della propria forma capitalistica. Infatti lo scopo che è proprio di tale apparato è appunto l'incremento indefinito della potenza, cioè della capacità di realizzare scopi, ossia è appunto lo scopo di quel «sistema della potenza», rispetto al quale, si è visto, il capitalismo è essenzialmente meno potente.
È il capitalismo stesso, se vuole realizzare il proprio scopo primario, a dover dare spazio e far valere e potenziare sempre più tale apparato, che è l'insieme dei mezzi capaci di realizzare quello scopo. Il processo in cui il capitalismo, distruggendo la concorrenza, ha come scopo oggettivo la propria distruzione è insieme il processo in cui i capitalismo, dovendo sempre più rafforzare i mezzi capaci di realizzare l'incremento del profitto, si rende sempre più conto di essere meno potente del sistema che invece assume come scopo l'incremento indefinito della potenza e che dunque conduce il capitalismo al tramonto. Il capitalismo è infatti il sistema che incrementa il profitto servendosi della tecnica, non il sistema che incrementa la potenza della tecnica servendosi del profitto (dove la tecnica di cui qui si parla è l'opposto della «tecno- finanza» ritenuta in buona parte responsabile della crisi attuale).
L'alternativa «o capitalismo o economia pianificata comunista» è falsa, dunque, perché il sistema della potenza spinge al tramonto entrambi i protagonisti dell'alternativa. In quanto il capitalismo cinese incrementa la potenza dell'apparato scientifico-tecnologico per potenziare il carattere comunista della società cinese e non per incrementare la potenza di tale apparato, anche questo capitalismo è meno potente del sistema della potenza ed è quindi anch'esso destinato al tramonto. E tuttavia esso è vicino al sistema della potenza più di quanto non lo sia il capitalismo occidentale, perché in Cina il comunismo mostra di saper rinunciare a sé stesso, in favore del sistema della potenza, più di quanto, ancora, il capitalismo occidentale sappia far rinuncia di sé stesso.
Non è allora sulla base di queste considerazioni (che vado sviluppando da un quarto di secolo) che si deve affrontare il problema della crisi economica in atto?

il Riformista 2.11.08
Incoscienze da bioeticista


Strana razza quella del bioeticista. Per fortuna non è una professione. Anche se diversi medici vorrebbero lo fosse. Uno di questi, senz'altro, è tal Gianfranco Vazzoler. Di professione è pediatra. Però, in quanto membro della Consulta di bioetica di Pordenone (proprio così: di Pordenone), ritiene di poter andare in giro a pontificare intorno alla vita umana, e soprattutto a quando un feto possa o non possa dirsi persona. Ma non soltanto un feto, pure un handicappato, un pazzo, un deficiente. Insomma, secondo quanto ha detto l'illustre membro dell'importantissima Consulta (quella di Pordenone) due giorni fa durante un convegno svoltosi all'ospedale Meyer di Firenze, possono dirsi persona solo coloro che sono dotati di «autocoscienza», «senso morale» e «razionalità». Spiega, infatti, il nostro pediatra/boieticista: «I feti, i neonati fortemente prematuri, i ritardati mentali gravi e coloro che sono in uno stato vegetativo permanente, cioè senza speranza, costituiscono esempi di non persone umane. Tali entità fanno parte della specie umana, ma non sono persone». È persona soltanto «chi ha autocoscienza, senso morale e razionalità».
A parte il fatto che equiparare un neonato fortemente prematuro ai ritardati mentali è tanto riduttivo quanto ridicolo, la domanda che ci poniamo è la seguente: su quali basi si può desumere se un adulto, apparentemente intelligente, sia persona in senso pieno, ovvero abbia una «autocoscienza» di sé, un «senso morale» e una «razionalità»? Se per essere persona occorrono queste tre caratteristiche, forse in troppi non potrebbero fregiarsi dello status di «persona». Molti, si sa, spesso non hanno piena coscienza di quello che dicono o fanno.

il Riformista 2.11.08
Piccoli partiti tornano. E Vendola fa le valigie
Europee la riforma della legge è (quasi) tramontata e le forze minori si attrezzano per giugno
di Alessandro De Angelis


EFFETTI COLLATERALI. A sinistra come a destra riecco i "cespugli". Nichi pronto alla scissione col Prc: il nuovo soggetto con Sd si chiamerà «La sinistra». Mastella rispolvera l'Udeur. Storace raccoglie le firme per le liste della Destra. Socialisti e Verdi dicono no al Pd: correranno soli.

La portavoce dei Verdi Grazia Francescato incrocia le dita ma non trattiene l'entusiasmo: «Se, e sottolineo se, come cantava Mina, la riforma di legge elettorale per le europee è definitivamente affossata come sembra noi stappiamo lo champagne». E non è la sola. I cespugli son tornati. E hanno già iniziato la campagna elettorale.
È il proporzionale, bellezza: nessuno chiede più ospitalità al Pd che aveva garantito a Verdi e socialisti diritto di tribuna nelle proprie liste. Parola d'ordine: autonomia. Dice il leader del Ps Riccardo Nencini: «La campagna delle europee sarà un nuovo inizio per i socialisti. Il nostro passato ormai è patrimonio del paese. Basta retorica. Più che il termine riformismo useremo le parole innovazione e futuro». Per il nuovo inizio lo spin doctor della comunicazione sarà Oliviero Toscani. Anche i Verdi si giocano la carta dell'orgoglio: «A sinistra - dice la Francescato - non c'è nessun cantiere. Andremo da soli per rappresentare i temi rimasti orfani come il nucleare, le energie, l'ambiente. Le europee saranno l'occasione per vedere se chi ad aprile ha scelto il voto utile tornerà a sostenerci».
Qualche cantiere c'è. Senza sbarramento la parte di Rifondazione vicina a Vendola è pronta alla scissione. Obiettivo: un soggetto politico con Sd e chi ci sta dei Verdi e del Pdci. È stata fissata anche la data di nascita (il 13 dicembre) e il nome: si chiamerà «La sinistra» e già circolano le prime bozze sul simbolo, rigorosamente senza falce e martello. Spiega il leader di Sd Claudio Fava: «La lista per le europee è l'occasione in più per costruire la sinistra che manca in questo paese: riformista, capace di nuove alleanze, sintesi di più culture». A sentire gli umori in via del Policlinico la situazione è ribaltata rispetto a pochi giorni fa, quando - con lo sbarramento - la convivenza era obbligata. Ma gli uomini di Vendola non vogliono passare per scissionisti. Quindi hanno pensato prima di chiedere a Ferrero un'alleanza di tutti quelli che stanno a sinistra del Pd. Incassato un no, daranno via libera alla scissione.
Il proporzionale puro moltiplicherà i simboli con falce e martello sulla scheda. Diliberto vuole l'unità dei comunisti con Rifondazione. Era scontata una settimana fa. Ora non più: «La nostra idea - spiega Claudio Grassi, responsabile organizzazione del Prc - è che ci presentiamo come Rifondazione. Comunque discuteremo con altri a sinistra del Pd». Per l'occasione tornano pure i trotzkisti. Marco Ferrando leader del Partito comunista dei lavoratori è pronto a raccogliere le firme per presentare le liste: «Siamo l'unico partito comunista d'alternativa e fuori dagli schieramenti visto che Rifondazione è ancora nelle giunte di centrosinistra». Ma non sarà l'unico: anche i trotzkisti di Salvatore Cannavò promettono battaglia: «Lavoriamo per costruire alleanze europee anticapitaliste almeno in sette paesi».
Superata la grande paura i cespugli spuntano ovunque. Al centro. Dice Clemente Mastella: «Stiamo ancora a vedere che succede in commissione. In prospettiva un progetto di ricostruzione del centro con l'Udc è più intrigante. Comunque potremmo candidarci anche da soli come Udeur». Nel centrodestra, fuori dal Pdl. Sostiene il leader dei Repubblicani Francesco Nucara: «Stiamo lavorando a una aggregazione laica insieme al Nuovo Psi e ai liberaldemocratici che stavano con Dini, con un simbolo che rappresenti tutti. Sulla carta possiamo eleggere uno o anche due parlamentari. Una cosa è certa: l'alleanza politica con Berlusconi resta». Anche la Destra sta scaldando i motori. Francesco Storace lancerà il grido di battaglia al congresso del suo partito che si svolgerà il prossimo fine settimana: «Metteremo in moto il procedimento elettorale: raccogliere 150 mila firme è assolutamente alla nostra portata». I sondaggi, a sentire Berlusconi, lo danno in salita. Lui taglia corto: «Berlusconi ogni novembre litiga con Fini tentando di utilizzare la Destra. Lo ha fatto l'anno scorso, lo sta facendo quest'anno e lo farà l'anno prossimo». È la guerra dei piccoli.

il Riformista 2.11.08
Michael Walzer: «Insegnate etica nelle scuole»
di Mario Ricciardi


Speranze. Per il filosofo americano bisogna trattare gli immigrati musulmani come quelli di altre comunità religiose. Obama farà cessare il clima di aspro scontro ideologico, ma con una corsa al centro. Perché non è di sinistra.

Michael Walzer è uno dei più autorevoli filosofi della politica contemporanei. Sin dal 1983 - quando fu pubblicato Spheres of Justic, il suo lavoro più influente - egli è considerato, con John Rawls, Ronald Dworkin e Robert Nozick, uno degli autori che hanno rinnovato la discussione sulla teoria della giustizia e sui fondamenti del liberalismo. Tuttavia, Walzer non è soltanto un accademico. Dall'Institute for Advanced Studies di Princeton, dove insegna Social Science, la sua voce si fa sentire con interventi lucidi e appassionati sulle più importanti questioni dell'agenda politica statunitense. Infatti, a differenza di altri filosofi del suo ambiente, Walzer crede fermamente nel ruolo pubblico dell'intellettuale e si è sempre impegnato per dare il proprio contributo alla crescita di una cultura democratica. La sua attività di commentatore - per riviste come Dissent di cui è condirettore, o la New York Review of Books - ne ha fatto uno dei punti di riferimento della cultura liberal d'oltreoceano. Nei giorni scorsi Walzer ha visitato il nostro paese per inaugurare il Master in "Civic Education" diretto da Maurizio Viroli per Ethica, un "forum di riflessione" sui temi della cultura civile che ha sede ad Asti. Abbiamo approfittato di questa occasione per rivolgergli qualche domanda.
Nella sua lezione introduttiva per il master di Asti lei sostiene che l'etica dovrebbe essere insegnata nelle scuole. Potrebbe spiegarci perché?
Mi sembra del tutto normale che si desideri insegnare ai giovani come ci si comporta, come trattare gli altri esseri umani, e come pensare alle responsabilità della cittadinanza. Ciò che è strano è che qualcuno possa pensare che questa non è una parte necessaria dell'educazione. Ovviamente, la scuola non è l'unico luogo per l'educazione morale; la famiglia è importante e lo sono anche la chiesa, la sinagoga o la moschea. Tuttavia, la scuola è il posto adatto per un insegnamento molto più riflessivo; che solleciti discussioni riguardanti il diritto e il torto, il giusto e l'ingiusto; è la sede per dibattere dilemmi morali e scelte tragiche. Dove altro potremmo farlo?
Ad alcuni, la sua appare una proposta benvenuta, ma non è difficile immaginare che queste persone sono probabilmente una minoranza. Oggi l'attitudine generale in molti paesi sembra essere piuttosto scettica relativamente alla stessa possibilità di accordarsi su una concezione condivisa di cosa sia l'etica. Cosa direbbe a questi critici per convincerli della fattibilità di corsi in cui si insegna l'etica?
Qualche concezione condivisa c'è certamente - relativa a ciò che c'è di sbagliato nell'omicidio, per esempio, alle azioni che causano danni, e all'inganno. Ma perfino sull'applicazione di questi semplici principi saremmo in disaccordo, e questa è proprio la ragione per cui abbiamo bisogno di parlarne. Le persone giovani hanno bisogno di imparare come si pensa alle difficoltà morali, come si prende parte a controversie morali che sono andate avanti per secoli, e come spiegare le proprie decisioni morali agli altri. Non c'è bisogno di condurli tutti a essere d'accordo; ma piuttosto di insegnare loro a essere in disaccordo in modi migliori, con maggiore conoscenza, in modo più serio, e con qualche comprensione dei punti di vista diversi.
Nel 1999 lei ha scritto "Drawing the Line" un saggio su religione e politica che ha avuto una grande influenza nel dibattito sul ruolo della religione nella sfera pubblica. Recentemente sta diventando sempre più difficile "tracciare la linea" in un modo soddisfacente - perfino in paesi con una lunga tradizione di tolleranza religiosa come il Regno Unito o i Paesi Bassi. Scrivendo sullo stesso tema oggi, c'è qualcosa che cambierebbe del suo approccio in quel lavoro?
Non era così facile tracciare la linea nemmeno nel 1999. Non credo che, scrivendo oggi, cambierei qualcosa in quel saggio. Ma c'è molto che si potrebbe aggiungere, in particolare per quel che riguarda l'integrazione delle comunità mussulmane nei paesi europei che non hanno lo stesso impegno nei confronti del pluralismo religioso che è stato sin dall'inizio centrale nell'esperimento americano. Per quel che riguarda gli Stati Uniti, spero che riusciremo a trattare gli immigrati mussulmani allo stesso modo in cui abbiamo trattato altri immigrati provenienti da altre comunità religiose. Io spero che le difficoltà poste dagli islamici radicali si riveleranno molto simili alle difficoltà poste dai fondamentalisti cristiani (che erano l'occasione immediata dello scritto del '99). Tuttavia, l'esperienza europea è diversa, e sarà differente, perché molti paesi europei hanno tradizioni religiose forti e non plurali - cattoliche, luterane, anglicane - e voi avete sempre avuto problemi con le minoranze religiose, o, per meglio dire, le minoranze religiose hanno avuto talvolta problemi con voi. Non credo di poter dire agli italiani, o agli olandesi o agli inglesi, come tracciare la linea. Dovete rendervene conto in armonia con le circostanze e la cultura politica in cui vi trovate.
Molti commentatori di sinistra in Europa sono entusiasti della possibilità di un presidente Obama. Lei vive e insegna negli Stati Uniti, ma è anche familiare con la cultura politica europea. Che consiglia a questi "entusiasti di Obama" in Europa. Che errore devono cercare di evitare nel valutare le politiche del candidato democratico?
Non è uno di sinistra, il nostro Obama. La sua decisione di correre dal centro e di correre contro la partigianeria, "fuori dalla mischia" - questa è stata, ovviamente, una decisione strategica, ma credo essa rifletta anche il suo più profondo senso di sé. Lui si rivelerà (se eletto, come spero che sia) un presidente più radicale di quel che vuole essere - prima di tutto, per via della crisi economica e, poi perché nessuno a destra rispetterà il suo non essere di parte. Egli non sarà in grado di realizzare il programma di assistenza sanitaria che ha difeso, per esempio, senza un aspro scontro tra partigiani delle opposte visioni. Ma ciò nonostante, si terrà ancorato al centro al meglio che può; nominerà alcuni repubblicani nel suo governo; sarà un leader cauto. Il cambiamento più "grande" che persegue è nell'atmosfera di Washington: vuole chiudere un aspro scontro ideologico. Vuole un pragmatismo tranquillo. Non lo avrà, ma nemmeno vuole trasformare gli Stati Uniti in una socialdemocrazia. Farà più di quel che vuole, ma meno di ciò che gli "entusiasti di Obama" vorrebbero. D'altro canto, ci pensi: chiuderà Guantanamo, interromperà le deportazioni clandestine, ripudierà i memorandum che autorizzavano la tortura. Un grande cambiamento!

il Riformista 2.11.08
A lezione di Islam dall'ayatollah donna
Zohreh Sefati. L'unico ayatollah di sesso femminile dell'Iran mi accoglie nella sua casa di Qom. Ha imparato a leggere il Corano a 5 anni, mi spiega il significato del matrimonio temporaneo, la liceità del controllo delle nascite e il valore della persona per il Profeta. Poi mi congeda: «Devo fare lezione».
di Francesco De Leo


Sono a Qom, cuore della rivoluzione islamica, per incontrare Zohreh Sefati, l'unica donna ayatollah dell'Iran, importante figura accademica e religiosa, grande rarità nella storia dello sciismo. Ayatollah è un titolo concesso agli esponenti più importanti del clero, significa "segno di Dio" e ne sono insigniti gli esperti di studi islamici, giurisprudenza, etica, filosofia e misticismo. Qom è uno dei centri più conservatori del paese, le sue madrasse attirano studenti e studiosi da ogni parte del mondo. Tantissimi turbanti bianchi e neri per le strade, studenti con pile di libri sottobraccio, si mischiano a un flusso ininterrotto di pellegrini d'ogni età. «Sai cosa c'è qui?», mi dice l'interprete, invitandomi a seguirla in un viottolo e indicandomi una casa di mattoni rossicci piuttosto anonima. «È qui che visse l'Imam prima di essere costretto all'esilio». Ma Khomeini? «Certo». È da qui che gettò le basi del suo potere tra il clero tradizionalista. Una piccola porta grigia, un campanello. Mi indica una scritta, sorridendo meravigliata: «Guarda…» "Ruhollah Mosavi Khomeyni" è scritto in farsi. Attraversata una strada, eccoci al portoncino dello studio dell'ayatollah Sefati. Mi accoglie in una grande stanza, non è sola, sedute su una panca tre donne. Vedo solo i loro occhi, il resto è coperto da uno chador nero e non appena volgo lo sguardo verso di loro si rannicchiano, chiudendosi in sé stesse per proteggersi. «Pensavo che avrei incontrato una donna», mi dice l'ayatollah, imbarazzandomi non poco.
Safeti ha imparato a leggere il Corano all'età di cinque anni e sulla scrivania fa bella mostra il suo libro. Lo scrivono solo alcuni ayatollah, è segno di saggezza e autorevolezza e le interpretazioni del Corano contenute diventano riferimento per la comunità religiosa. «Credo che l'islam abbia delle potenzialità immense e che tante sue parti non siano ancora spiegate a sufficienza. È questo lo scopo della mia vita, lo faccio non solo scrivendo libri, ma cercando di chiarire i dubbi della gente, partecipando a dibattiti e incontri. È questo il ruolo che spetta agli ayatollah…conosciamo le leggi islamiche, studiamo la sharia cercando di utilizzare le nuove interpretazioni per affrontare al meglio le problematiche attuali». Il suo sesso, le ha creato problemi? «Assolutamente no, la donna ha la stessa competenza dell'uomo. Non sono stata solo io a farlo, nella storia altre donne sono arrivate al mio livello. È chiaro…non è stato affatto facile, ma anche per gli uomini non lo è!».
È simpatica e affabile, pur rispecchiando tutte le caratteristiche comuni agli accademici. «Nel mio libro, che si occupa delle donne, ho dovuto sottolineare con grande chiarezza come il controllo delle nascite non fosse contrario ai principi della nostra religione. Alcune donne erano lontane dal capirne il significato perché l'islam è assolutamente contrario a impedire la procreazione. Però in alcuni momenti straordinari, di crisi e congiuntura economica particolarmente sfavorevole, la sovrappopolazione può costituire per la società stessa una grande minaccia. Sin dall'introduzione del libro, in cui parlo per esempio dell'utilizzo del dispositivo intrauterino, come metodo contraccettivo, ho più volte dovuto ribadire il concetto».
Ho una grande curiosità, chiedo all'ayatollah di spiegarmi il significato profondo del matrimonio temporaneo. In Iran è possibile contrarlo, e poi lasciarsi. E rifarlo un'altra volta, e poi ancora un'altra. «Esistono principalmente due tipi di matrimoni in Iran. Uno è quello indissolubile, con grandi responsabilità per i coniugi, norme giuridiche e ripercussioni economiche. L'altro è quello temporaneo, più snello. L'islam lo prevede per esempio per quei giovani che non hanno la possibilità di affrontare un impegno duraturo, che li porterebbe ad assumersi responsabilità e obblighi che forse non avrebbero la possibilità di rispettare. O per chi vive una relazione di cui non è soddisfatto, con problemi particolari. E' una legge però applicata solo ed esclusivamente in casi molto rari». Dopo una piccola pausa di riflessione, guardandomi negli occhi con convinzione: «So del resto che da voi in occidente ci sono tantissimi rapporti matrimoniali, ma accanto a questi… non mancano certamente quelli extra-matrimoniali. È un modo per l'islam di legalizzare le relazioni di coppia, di dare anche a quelle più brevi una legittimità giuridica. Pensi agli eventuali figli nati da questi rapporti».
Quel che colpisce in Sefati è il suo vivere l'islam in modo assoluto. Se ne alimenta, è la sua guida, il suo paradigma, non potrebbe esserci senza la sua religione. Le chiedo di spiegare a un non musulmano cosa di questa religione ha potuto rapirla in modo così totale. «L'essenza dell'islam, il nucleo che può portarlo nel cuore di chi crede in altre religioni o di chi è ateo, è il suo umanesimo. È il valore che l'islam dà all'essere umano. In tutte le sue norme, le sue leggi, le sue sentenze c'è quel valore immenso che l'islam dà all'umanità intera. Immagini un grande albero che cresce con tutti i suoi rami, da questa grande radice: il ruolo, l'importanza dell'essere umano».
La sua scrivania, dove trascorre la maggior parte del suo tempo è molto vicina a un piccolo altarino alle sue spalle. Mi sembra la raffigurazione del pilastro dello sciismo, di quella religione che sconfina e deborda nella politica, di quel legame tra l'anima e la sovranità di decisioni valide per tutti. «Lo sciismo è proprio basato sulla legittimità di uno stato islamico e religioso. C'è stato un grande ayatollah, Kashani, ben cento anni fa», mi dice Sefati, «che aveva coniato un detto diventato famoso: "La nostra politica è identica alla nostra religione, la nostra religione è identica alla nostra politica". Se presta attenzione lo troverà riportato sui muri di diverse città».
Khomeini, le chiedo, parlava a un altro Iran, a un'altra generazione. Oggi il suo Paese è totalmente diverso, il settanta per cento dei suoi concittadini ha meno di trent'anni…significherà qualcosa? «Khomeini non ha trasmesso un suo personale messaggio, ma quello dell'islam. L'islam non è modificabile dal tempo e dalle stagioni. Cerchiamo di diffonderlo con nuovi linguaggi che ci permettano di comunicare con le nuove generazioni, ma i concetti e i principi in cui crediamo sono intramontabili. La modernità non influisce su questo, anzi dà un impulso allo sviluppo dell'islam. Chi influenza le scelte e il destino dell'Iran non sono i ragazzi visibili per strada, che potrebbero dire qualsiasi cosa… sono i giovani studiosi delle università che hanno raggiunto immensi successi senza l'aiuto di Paesi esteri, pensi al nucleare e al suo utilizzo in medicina».
Si è fatto tardi, incombono lezioni, c'è da insegnare. «Grazie ancora di esser venuto sin qui».
Quando esco dallo studio-dimora dell'ayatollah Sefati, il sole a Qom sta tramontando. Incrocio tantissima gente, bimbi, giovani, anziani e mullah, tutti di corsa diretti alla moschea dove è sepolta Fatemeh, sorella dell'imam Reza. Hazrat-e Masumeh è tutta illuminata, è meravigliosa. L'oro della cupola risalta nel contrasto con l'intenso blu del cielo e il celeste dei minareti. La voce del muezzin rimbomba, dal minareto richiama i fedeli e tutti accorrono per pregare Allah.

Il Piccolo 2.11.08
Scienza. Dopo la frase choc di Vazzoler
«È una tesi aberrante dire che il neonato non è persona»


FIRENZE Il neonato non è persona umana? È una tesi aberrante. Lo diventerebbe quando ha autocoscienza, senso morale e razionalità? «Rifiuto quest'affermazione: il neonato, anche prematuro, è persona umana, ha un pensiero irrazionale».
La neonatologa dell'Azienda universitaria ospedaliera di Siena, Maria Gabriella Gatti, non ha dubbi a respingere la tesi sostenuta da un suo collega, Gianfranco Vazzoler, ex primario di pediatria a Pordenone e membro della Consulta di bioetica, nel corso del convegno al Meyer di Firenze «Le sfide della neonatologia alla bioetica e alla società».
La Gatti fa parte della Sin, Società italiana di neonatologia, che da anni ha posto alle autorità istituzionali (Cnb e ministero della Salute) la questione dei prematuri.
«La sopravvivenza a 22-23 settimane di gestazione è rara - attacca la Gatti -. Solo a partire dalla 24esima settimana si ha una reale possibilità di vita dal 40 a 60% di casi». E la 24esima settimana di gestazione è assunto dalla Sin come limite vitale necessario per la vita umana.
«Tutti i neonati prematuri vengono rianimati e noi medici accettiamo la sfida - aggiunge la neonatologa senese -, sarà la vitalità del bambino il fattore decisivo».
Ma, «il medico non deve fare accanimento terapeutico naturalmente - evidenzia la Gatti - in accordo con i genitori quando è documentato un danno cerebrale gravissimo».
Al convegno di Firenze ha fatto molto scalpore l'intervento del neonatologo Gianfranco Vazzoler, per il quale il neonato non è persona, lo diventa quando acquisisce «razionalità, senso morale, autocoscienza». E la Gatti: «Come neonatologa rifiuto decisamente questa affermazione: il neonato anche prematuro è persona umana perchè ha un pensiero irrazionale come sostiene nella teoria della nascita lo psichiatra Massimo Fagioli, fatto di capacità di immaginare, affetti, movimento senza parola che diventa ricerca di rapporto umano».
«Va sottolineato - conclude la Gatti - che lo specifico dell'identità umana è il pensiero irrazionale inteso come fantasia e creatività».
La discussione partiva dalla Carta di Firenze, documento elaborato nel capoluogo toscano nel 2006 che decretava quella sorta di «zona grigia» per i bimbi nati tra la 22.a e la 25.a settimana per i quali, pur nella specificità dei casi singoli, sarebbero più appropriate, in accordo tra medici e genitori, cure compassionevoli che non assistenza aggressiva configurabile come accanimento terapeutico.
«Il problema - ha detto il neonatologo Giampaolo Donzelli, uno dei promotori della Carta - non è se assistere o non assistere un bambino in quelle condizioni, ma come assisterlo, come non aggredirlo e come non comportare dolore a lui e creare false aspettative nella famiglia».
«Ma trovo scandaloso - ha aggiunto - che ancora oggi, in questo campo, ci siano così tante disparità tra Nord e Sud».
«Oltre l'80% dei bambini nati in quelle settimane - ha detto il professor Gianfranco Vazzoler - è destinato, se sopravvive, a vivere con gravissimi handicap permanenti. Ma dobbiamo capire che un neonato non è una persona perchè non ne ha le caratteristiche, non sa autogestirsi, non ha un minimo di senso morale e razionalità. Non vedo niente di sbagliato nel riservare ai grandi prematuri solo le cure compassionevoli, anche perchè, iniziato un trattamento di assistenza, è molto difficile tornare indietro. E parlare di eutanasia in determinati casi, come in Olanda, può essere ragionevole».
Ma il confine lungo il quale decidere se intervenire o meno è molto labile. «Un errore di calcolo delle settimane è sempre possibile - ha spiegato Giuseppe Buonocore dell'Università di Siena - e per questo occorre decidere caso per caso, non si può valutare a priori cosa fare. Noi siamo per la vita, ma è importante conoscere anche le tesi dell'Olanda».
E proprio il medico olandese è stato "star", suo malgrado, della prima giornata dei lavori. Ma di eutanasia non ha parlato.