martedì 4 novembre 2008

Repubblica 4.11.08
Studenti. La rivolta dei ragazzi in cerca di futuro
di Michele Serra


Il loro nemico non è il governo, il loro nemico è il mancato investimento di un´intera società nei suoi figli, la sfiducia nella loro capacità non di essere aiutati, ma di aiutare
L´unica pista interpretativa solida e utile è guardare ai ventenni d´oggi come a persone che intuiscono la condanna e una eterna e indesiderata gioventù

È una contestazione diversa dalle precedenti. Distante dai contenuti del Sessantotto. Oggi i ragazzi chiedono cose poco ideologiche e molto concrete, legate al loro incerto futuro

Da qualche anno, come se si pronunciasse una qualunque tra le nozioni statistiche, si ripete che per la prima volta dal Dopoguerra i figli hanno prospettive economiche peggiori dei padri. Il concetto, a ben vedere, è devastante. Lo è socialmente, lo è psicologicamente. E valutandone meglio il significato, l´impatto sulla realtà, magari si sarebbe potuto prevedere con qualche anticipo quanto sta accadendo nelle scuole e nelle università. Perché non sono più l´ordine e il sistema di valori degli adulti, come quarant´anni fa, a essere passibili di contestazione. Non è la mentalità, non i costumi, non le idee politiche. Non i capelli corti e la cravatta, non l´ipocrisia sessuale, non il conformismo religioso, che per altro questi padri (noi) non incarnano più da tempo - semmai ne rappresentano gli innocui cocci in qualche modo rappezzati.
È la struttura economica in sé la nuova rigidità contro la quale cozza e si spegne, per milioni di giovani, il desiderio di futuro. È l´idea che il superamento dei padri (obiettivo fin qui, se non scontato, molto probabile) rischia di essere un´impresa disperata, e che lo stato di dipendenza - anche psicologica - dalla propria famiglia, ancorché alleggerita da un rapporto amicale o finto tale, possa trascinarsi fino ai primi capelli bianchi. Quando sentirsi "figli", se non è una nuova responsabilità che si assume nei confronti dei genitori che invecchiano, è solamente un malinconico strascico.
Poiché è piuttosto protervo, e soprattutto inutile, provare a incasellare i nuovi studenti in lotta nelle categorie per noi più familiari, e rassicuranti, mi sembra che l´unica pista interpretativa solida e utile sia proprio guardare ai ventenni di oggi come a persone che presagiscono, o intuiscono, la condanna a una eterna e indesiderata gioventù. Precaria a oltranza, come è precaria l´identità dell´adolescente, però quasi eternata da un mercato del lavoro che vede trentenni e quarantenni trattati da apprendisti, sbalestrati tra mezzi mestieri e titoli di studio che valgono appena il peso della carta su cui sono stampati, concorsi umilianti e fortemente sospetti, anticamere che schiudono le porte di altre anticamere. Esclusi da quelle certezze professionali che fungono non solo da sostegno economico, ma anche da fondamento identitario. Perché alla domanda "chi sono io" ciascuno di noi, fin qui, ha risposto anche con il proprio lavoro e la propria posizione sociale, sapendo che non bastava, ma era già qualcosa. E se questo qualcosa ora sfugge a chi vive la propria gioventù come uno smisurato parcheggio, e a migliaia (genitori e figli) scrivono ai giornali per descrivere il penoso limbo nel quale ristagnano le loro ambizioni, forse la chiave per capire i cortei, le occupazioni, gli slogan, non è un colpo di mano burocratico come il decreto Gelmini (casus belli piccolo piccolo).
La chiave è la messa in comune, la coscienza finalmente collettiva (politica molto più della politica...) di una condizione di non-crescita che solo la distrazione degli adulti ha potuto vedere, fin qui, appena come un ingombrante prolungamento dei doveri di genitore. Visto dalla parte dei figli, questo prolungamento può anche essere un´umiliante, insopportabile negazione di quel naturale sviluppo delle proprie facoltà, e della propria libertà, che conduce fuori casa e permette di pareggiare i conti, anche psichici, con chi ti ha cresciuto e mantenuto.
La giovinezza come blocco e non più come movimento: non era mai accaduto. Si rimprovera ai ragazzi in lotta di maneggiare con qualche approssimazione e troppa animosità cifre e tagli governativi, ma è dentro quella materia bruta - soldi, finanziamenti, ossigeno per durare - che giustamente devono e vogliono farsi le ossa: è della loro debolezza sociale, della loro poca voce politica, della loro ansia che quei tagli sono l´ennesimo artefice.
Il loro nemico non è il governo, il loro nemico è il mancato investimento di una intera società nei suoi figli, la sfiducia nella loro capacità non di essere aiutati, ma di aiutare. Cortei e occupazioni sono la risposta (tradizionale, rituale, ma trovatene un´altra) alla scarsa considerazione sociale della quale, esattamente come i loro insegnanti, sono vittime. L´inedita alleanza con gli insegnanti è rivelatrice: parla anche lei di una comune condizione, quella di precari o di precariamente pagati. In fin dei conti molti insegnanti, e perfino molti ricercatori universitari, sono trattati da "ragazzi" anche se alle viste della pensione, e il deprezzamento culturale, e lo sfregio greve di certi commenti politici ("è finita la ricreazione", "studenti somari", "insegnanti inutili") non fa che confermarli nella loro malinconica rabbia. Chi non è considerato, chi non è ascoltato, inevitabilmente finisce per darsi voce.
Che poi sopra questo tessuto vitale, fortemente espressivo, gli adulti vogliano ancora tessere le loro trame politiche, cavalcando la tigre oppure cercando di ingabbiarla, fa parte dello stesso copione che questi ragazzi vogliono provare a riscrivere. La fatica è enorme, l´impresa durissima. Rispettarla non significa adularla, significa coglierne gli elementi di verità (esistenziale e non solo politica) che questo movimento rappresenta. Di certo, oggi, c´è solo una cosa: che nessun Ionesco potrà affacciarsi alla finestra - come dice l´aneddoto forse leggendario - dicendo beffardo ai giovani in corteo, nel maggio francese, "diventerete tutti notai". Perché è già tanto se li assumono in un call-center con due mesi di contratto. Notai? Magari fosse vero.

Repubblica 4.11.08
Perché non è solo una questione di disciplina e di sprechi
La scuola senza qualità
di Domenico Starnone


Nella testa di chi studia prima o poi si affacciano una serie di domande. Quando queste domande diventano esplicite, lo studente smette di essere uno in attesa del tempo a venire e diventa una rogna

Il ruolo dello studente si sa qual è, a occhio e croce: sgobbare obbedientemente nel presente per essere premiato nel futuro. Senonché lo studio viene sempre a cadere in un presente che non promette niente di buono e in un mondo con tratti immondi che sembra avere un pessimo futuro. Conseguenza: nella testa di chi studia si affacciano presto o tardi almeno tre domande. La prima: che razza di scuole hanno fatto quelli che adesso gestiscono così disastrosamente casa nostra e il pianeta. La seconda: che razza di scuole ci stanno facendo fare. La terza: che scuola, che università bisogna inventarsi per studiare in modo da darsi un futuro che non sia sgangherato come il presente. Quando, per un motivo o per l´altro, queste domande diventano esplicite, lo studente smette di essere uno in disciplinata attesa del tempo a venire e diventa, nel turbolento presente, una rogna.
Oggi siamo a questo punto, cioè alla rogna. Eppure tutto pareva andare liscio. I secolari problemi della scuola di massa, presenti in tutti i paesi avanzati, erano stati ridotti al tema della disciplina e degli sprechi. Ci si era tutti convinti che la scuola non funzionasse primo per colpa di un pugno di bulli, secondo perché gli insegnanti sono troppi e sfaticati, terzo per via delle ideologie permissive dei docenti di sinistra che impediscono una selezione vera dei capaci e dei meritevoli. Così il governo, per bocca della ministra Gelmini, stava gettando con successo fumo negli occhi, come in tanti altri settori, approntando non riforme e altre cose costose, ma un po´ di frusta, parecchi tagli e un´impressione di ritorno al passato (grembiule, maestro unico, voto di condotta, bocciature, classi differenziali), che è sempre il modo migliore per lusingare l´elettorato di centrodestra e anche un po´ di quello colloquiale di centrosinistra.
Ma è esplosa la crisi finanziaria e il giochino non ha funzionato. Il futuro fosco ha reso evidente il cattivo presente, gli studenti disciplinati sono scesi in piazza ed ecco che sono diventati più pericolosi degli studenti bulli. Anzi, come si è potuto vedere a piazza Navona, i bulli si sono trasformati all´improvviso in studenti modello, hanno ottenuto la condiscendenza dei tutori dell´ordine e hanno sprangato i fannulloni di sinistra con spranghe tricolori.
Perché? Perché una serie di temi, considerati negli ultimi due decenni risibili, sono ritornati al centro e non è roba che si può nascondere sotto i grembiuli o dietro il voto in condotta o dietro le classi per soli immigrati: il diritto allo studio insidiato dalle disuguaglianze; la qualità dell´insegnamento nella scuola e nell´università di massa, dove non basta ratificare fiaccamente che ci sono i capaci e i meritevoli, bisogna anche riorganizzarsi in modo da far venire fuori capacità e meriti nei più, gli svantaggiati, i non adatti; lo scollamento forse definitivo tra istruzione e lavoro, tra le modalità della trasmissione di cultura nella scuola e nell´università, e i mutamenti tecnologici degli ultimi decenni; il tentativo sempre in atto di trasformare l´istruzione in merce redditizia, lasciando intanto che si impoverisca l´istruzione pubblica.
Ecco dunque che, dopo i cortei e le proteste, a destra ma anche a sinistra le scuole e l´università sono diventate all´improvviso accettabili, tanto che ora tutti vogliono rimandare di corsa gli studenti nelle aule. A destra, i giovani sono stati inseriti in due grandi contenitori: uno enorme, fatto di studenti desiderosi di tornare a studiare nella scuola così com´è, tanto che non si capisce più perché mai c´è un decreto Gelmini, se una massa disciplinatissima di ragazzi non vede l´ora di richiudersi nel normale trantran, basta con le manifestazioni; e un contenitore esiguo, abitato da facinorosi tutti di sinistra che vogliono rifare il �68, impediscono ai più di studiare e perciò si meritano di essere sprangati. A sinistra invece c´è per ora un contenitore solo, tutto pieno di studenti che a scuola e all´università ci starebbero bene, se non fosse per le cattive intenzioni di Gelmini. Ma, battuta la ministra, cosa si combinerà? Si può ricominciare senza troppe preoccupazioni? Fa niente se siamo lontanissimi da una scuola capace di assicurare a tutti un´istruzione di qualità? Fa niente se l´università è ridotta a un ottuso esamificio, via uno avanti un altro?
La verità è che ciò che gli studenti sanno meglio di tutti per diretta esperienza è che scuola e università, a parte qualche isola felice e un po´ di docenti volenterosi, funzionano sempre peggio. Il loro cattivo funzionamento per di più è diventato un circolo vizioso: l´università, mal funzionando, alimenta il cattivo funzionamento delle scuole, e le scuole, mal funzionando, alimentano il cattivo funzionamento dell´università. Gelmini ha il torto gravissimo di essere il peggior rimedio possibile, il rimedio che uccide il malato. Ma, bloccata lei, la malattia resta.

Repubblica 4.11.08
È dal XII secolo che la massa studentesca protesta
Quei corte nati nel 1100
di Adriano Prosperi


Il sapere che si apprendeva nelle scuole era qualcosa di redditizio, di utile. Non per niente Dante, nel "Convivio", aveva criticato quei dottori che studiavano «non per sapere ma per acquistare moneta o dignità»

Nella mia fine è il mio principio: così potrebbe dire oggi il movimento studentesco. La massa studentesca in agitazione richiama la definizione che un anonimo poeta del secolo XII dette degli studenti di Bologna accorsi a incontrare l´imperatore Barbarossa: una folla di giovani che volevano imparare ("discere turba volens"). Ancora oggi non si dà migliore definizione della massa giovanile che in nome della qualità degli studi si entusiasma quando Obama presenta il suo esempio personale e il suo programma sulla scuola pubblica, che scende in piazza quando in Italia se ne propone invece l´umiliazione e la disattivazione. Da quelle lontane origini ritorna una parola: autonomia. Oggi è il rifiuto di ogni etichetta partitica. Allora e per molto tempo fu l´elaborazione e la difesa di forme associative proprie per confrontarsi coi poteri esistenti. Le "nazioni" di studenti di ogni paese europeo (e la parola che nacque allora era l´indicazione di una differenza, non di una ostilità, esprimeva l´associazione di mutuo soccorso tra chi veniva dagli stessi paesi) si unirono col vincolo del giuramento a formare un corpo collettivo o come si diceva allora una "Universitas", dall´autonomo ordinamento: eleggevano i rettori, trattavano col collegio dei docenti pagati da loro, erano esentati dai tribunali locali e giudicati dai loro docenti o dal vescovo della città. I docenti che si assentavano durante l´anno e non completavano il programma pagavano multe salate: ed era una commissione segreta di studenti che controllava e denunziava.
Processi di cambiamento nei tempi lunghi della storia portarono a rovesciare la situazione: il corporativismo studentesco dovette cedere, i docenti da dipendenti stipendiati divennero una categoria superiore e dominante della vita universitaria, i rettori non furono più i difensori dell´autonomia ma si legarono al potere, gli ordinamenti giudiziari cittadini imposero il loro diritto d´intervento in caso di disordini e di crimini. E tuttavia, anche quando la nascita di monarchie e di chiese nazionali innalzò barriere di ogni genere alla libera circolazione di studenti nell´Europa di antico regime, rimasero a lungo in vigore speciali privilegi che impedivano l´accesso di sbirri in università. Una cosa quei poteri seppero comprendere: la decisiva importanza della cultura per la crescita della società e per l´efficienza delle burocrazie. Il sapere che si apprendeva nelle scuole era qualcosa di redditizio, di utile. Non per niente Dante Alighieri aveva criticato quei dottori di legge e di medicina che studiavano «non per sapere... ma per acquistare moneta o dignitate»(Convivio). Moltiplicati, regionalizzati, controllati da poteri locali, gli Studi - come si chiamavano allora le università - vennero trasformandosi in disciplinati contenitori per l´allevamento di corpi burocratici, di medici, di avvocati, di insegnanti fedeli al sovrano e alla religione ufficiale. Venne modificandosi così la stessa figura sociale dello studente. Aumentarono i controlli; gli studenti non furono più una massa migrante da una città all´altra come uccelli di passo alla ricerca del migliore docente. Vincolati ai paesi d´origine, si piegarono alla disciplina delle classi scolastiche e vissero in collegi secondo il modello gesuitico. Le misure di controllo si giustificarono in nome del disordine e della violenza, minaccia latente nella concentrazione in città di tanti giovani uomini: uno ogni 23 abitanti nella Bologna del ‘300, secondo un calcolo approssimativo. Aumentò la selezione sociale. Accanto alla maggioranza di studenti ricchi c´erano stati quelli poveri che si guadagnavano da vivere come loro servitori. Il ricordo dolcissimo degli studi giovanili rievocata nelle note autobiografiche di studenti celebri come Francesco Petrarca assumeva per altri i toni crudi della fame e della sete. Il grande editore svizzero del ‘500 Thomas Platter raccontava ai figli come fosse stato costretto a dissetarsi con la propria orina mentre attraversava le Alpi per andare da una università a un´altra: perché naturalmente la ricerca di sedi qualificate e di maestri di alto livello faceva degli studenti universitari dei "vagantes", incontrollabili vagabondi.
Studente: la parola racconta una storia e contiene una informazione. Quel participio presente del verbo studiare ci dice che stiamo parlando di una condizione provvisoria. Provvisoria e difettiva: si studia e si impara per fare poi qualcosa, non per restare in quella condizione. Erano in genere dei ragazzi di 15 anni, l´età in cui - scriveva Boncompagno da Signa - «l´ingegno umano è come cera calda». E dopo 4-5 anni uscivano dagli Studi per affrontare la vita. Doveva trascorrere una lunga storia perché l´atto transitorio di una minoranza privilegiata finisse per indicare un´intera categoria sociale, una fase della vita che nelle società economicamente sviluppate tutti debbono attraversare, che si prolunga sempre di più fino a conferire talvolta all´intera esistenza la nota dominante della precarietà.

Repubblica 4.11.08
"La Finanziaria uccide i nostri atenei" l'allarme del rettore del Politecnico
di Teresa Monestiroli


Milano, irruzione di An. Formigoni: risparmi chi spreca

MILANO - I tagli previsti dalla Finanziaria faranno «morire i nostri atenei» e renderanno «l´Italia vassalla degli altri paesi». Sono parole dure quelle scelte dal rettore del Politecnico di Milano, Giulio Ballio, per l´inaugurazione del 146° anno accademico. Parole piene di «rabbia e delusione» che prospettano un futuro disastroso per «la ricerca, l´innovazione scientifica e la tecnologia del nostro Paese», ma soprattutto per i giovani «costretti a fuggire all´estero». «Siamo sull´orlo del burrone - dice - se il finanziamento statale sarà confermato torneremo ad essere una scuoletta. Potremmo arrivare anche a chiudere il Politecnico».
Un discorso preparato con cura in un clima di protesta che resta però lontana dall´aula, nel cortile dell´università, dove giovani di sinistra e di cielle si sono dati appuntamento con i loro striscioni. Un solo momento di tensione si registra quando uno studente di Azione universitaria (lista di An) interrompe la cerimonia srotolando lo striscione: «Voi baroni preoccupati noi studenti disoccupati». Un discorso durissimo quello di Ballio - «Per innescare un percorso virtuoso basterebbe investire in modo mirato qualche centinaio di milioni di euro, spiccioli rispetto al salvataggio di Alitalia» - sposato a sorpresa dal presidente della Lombardia Roberto Formigoni che, nel chiedere al governo un «ripensamento» lancia un appello: «Bisogna uscire alla logica dei finanziamenti a pioggia». Pur sottolineando la «necessità di una razionalizzazione della spesa», il governatore di centrodestra bacchetta l´esecutivo criticando «i tagli indifferenziati» che premiano «lo spreco, l´inefficienza e la diseconomia». Al contrario, secondo Formigoni, «l´università ha bisogno di una riforma coraggiosa e organica nell´ottica della qualità». «Confido - dice dal palco - che il governo voglia muoversi in questa direzione». Si conquista l´applauso di professori e ricercatori, ma soprattutto l´approvazione del centrosinistra. La senatrice del Pd, Marilena Adamo, gli stringe la mano. «Avrei voluto baciarlo. Si è fatto il paladino delle nostre università».
Mentre il ministro dell´Istruzione Gelmini dà forfait, limitandosi a mandare una lettera - che arriva a cerimonia conclusa - così come il presidente del Senato Schifani e il sindaco Moratti, Formigoni - ciellino doc - lancia il suo affondo. Anche se all´uscita specifica: «Non ho attaccato il governo, ho detto solo che i tagli non devono essere indiscriminati. Non si può tagliare nello stesso modo le università dove ci sono sprechi e deficit e quelle che riescono a far fronte alle spese». E quelle lombarde «sono le più penalizzate». Sottofinanziate, spiega il rettore, di più di un miliardo di euro.
Sul fronte delle scuole invece quattro studenti sono stati denunciati per avere organizzato un picchetto davanti a scuola, l´ex magistrale Agnesi, dove un gruppo di ragazzi ha bloccato gli ingressi per convincere i compagni a occupare. Poco prima delle 9 sono stati fermati dai carabinieri in borghese chiamati da un genitore. I quattro, dai 17 ai 19 anni, sono indagati per interruzione di pubblico servizio.

Repubblica 4.11.08
Ecco il decreto che la Gelmini ha bloccato "Ora mi prenderò tempo per riflettere"
Previsto il blocco delle assunzioni nelle università sprecone: ora andrà in un ddl
di Giovanna Casadio


ROMA - Ora il ministro Mariastella fa sapere: «Mi prenderò il tempo che occorre». Sull´università, ammette, non c´è tutta quella fretta che s´era detto. E precisa: «Continuo a lavorare sulle linee di indirizzo ma nessuno aveva pensato di fare una riforma per decreto». Non del tutto vero. Perché un decreto, o meglio uno «schema di decreto legge» sulla «valorizzazione del merito nelle università e negli enti di ricerca», ha già fatto il giro degli uffici legislativi del governo.
Tre articoli, moltiplicati per una decina di commi. Il primo - il più importante - è contro la finanza allegra degli atenei e per liberalizzare in qualche modo il reclutamento dei ricercatori massacrati dal blocco del turn-over. Disposizioni urgenti. «Riservato», recita la nota di accompagnamento. Arenato anche questo, comunque. Sia per i costi che prevede e anche «a causa delle polemiche». Per la Direzione generale del ministero, il provvedimento era positivo: una buona cosa, però si sono scatenate «le polemiche...quelle sui concorsi e quelle politiche». Così questo provvedimento - «uno degli interventi d´accompagnamento» del "pacchetto" sull´università, come l´ha definito il direttore generale Antonello Masìa - viene accantonato. Però gran parte di queste misure dovrebbero essere trasferite in un disegno di legge.
Mariastella Gelmini, ministro sotto assedio, questa volta aveva puntato ad addolcire la pillola amara dei tagli previsti dalla legge 133, quella che ha firmato insieme con Giulio Tremonti. Nella sede dell´Eur, dove in questi giorni si rifugia spesso, la Gelmini tiene una riunione dietro l´altra. Con questo testo in particolare, riteneva di essere sulla strada giusta, di coniugare cioè rigore, buonsenso e insomma di capitalizzare, dopo la rivolta nel paese, un po´ di consensi. Un decreto che costa però, più di quanto non risparmi. In concreto, al primo comma impedisce alle università che spendono in stipendi per il personale più del 90 per cento del Fondo di finanziamento ordinario, di bandire posti di qualunque tipo. Secondo una sommaria panoramica le università prodighe sarebbero Siena, Firenze, Pisa, Napoli Orientale, Cassino, Trieste.
Altra penalizzazione per gli atenei non-virtuosi è rappresentata dall´esclusione dalla ripartizione dei fondi relativi al piano straordinario per l´assunzione dei ricercatori per gli anni 2008/2009. Poi, le deroghe al limite previsto dalla 133 per l´assunzione di ricercatori che hanno superato concorsi banditi prima dei "tagli": possono essere assunti in numero non superiore al 20 per cento delle risorse e al 20 per cento delle unità collocate a riposo nell´anno precedente. Possibilità inoltre di sforare la norma sul turn-over se l´università è particolarmente risparmiosa. Un breve capitolo è dedicato al meccanismo di concorso. Qui però, negli ultimi giorni si sono rincorse varie stesure, limature, ripensamenti. La più gettonata prevedeva di «allineare» la selezione alla prassi internazionale, perciò una commissione composta da un membro della facoltà e due sorteggiati, di pari grado o superiore, a garanzia del carattere nazionale della selezione.
Nel decreto per l´università anche l´articolo da concordare con il ministro Brunetta sugli enti di ricerca. Infine, soldi. Stanziamenti per alloggi e residenze per gli studenti (7 milioni), scoprendo che l´Italia è l´ultimo paese europeo in fatto di residenze universitarie. Un cospicuo finanziamento anche per borse di studio per chi merita. E qui, i collaboratori della Gelmini mettono subito le mani avanti: «Quelle cifre sono vecchie, poi era già stato tutto riscritto».
Fin qui, il decreto. L´unico che sia stato finora redatto sull´università. Né ce ne saranno altri. Il ministro fa sapere che preparerà l´atto politico di indirizzo, i disegni di legge specifici su governance, risorse, merito, personale. In via d´urgenza, niente. La piazza prima, le critiche nella sua stessa maggioranza, mezza Italia sulle barricate nelle scuole e nelle facoltà, consigliano alla Gelmini di cambiare strada. «Guardi ministro, il consenso non è un fatto accessorio», le ha ripetuto Luciano Corradini, l´ex sottosegretario del governo Dini, amico di Prodi, che abita a Brescia (la città di Mariastella). A lui e al pedagogista Giuseppe Bertagna ha chiesto consiglio. E loro le hanno suggerito: confronto, dialogo, ascolto.

Repubblica 4.11.08
Il leader Pd: "I dati dei sondaggi li spingono a riflettere”
Veltroni: "Sì al confronto se il governo sospende i tagli"


Bonaiuti, Pdl: "Non c´è crescita dell´opposizione" Casini: "Serve il dialogo con tutti"

ROMA - «Bisogna togliere i tagli sia sulla scuola che sull´università: solo a quel punto si può iniziare a discutere. Le cose sono legate. Se lo faranno saremo prontissimi a discutere in Parlamento per cercare soluzioni condivise». Walter Veltroni risponde così alle aperture di un centrodestra pronto a dialogare sui problemi dell´istruzione. Il leader del Partito democratico apprezza la mossa del governo e della maggioranza: ««È un segnale di forte autocritica, hanno sempre teorizzato il contrario», spiega il leader del Pd. Che imputa il cambio di marcia del Pdl con segnali negativi che arrivano dagli elettori: «Evidentemente - dice Veltroni - i dati dei sondaggi li spingono a riflettere perché c´è un forte calo dei loro consensi e un aumento dei consensi dell´opposizione».
Tema caldo quello dei sondaggi. A Veltroni risponde, infatti, Paolo Bonaiuti. «Veltroni è stato colto di nuovo dalla terribile sindrome del sondaggio. - dice il portavoce di Silvio Berlusconi. - La febbre alta, tipica di questa sindrome che già lo colpì nella scorsa campagna elettorale, gli fa vedere una forte crescita dell´opposizione che in realtà non c´è e gli fa credere che siano vicine le vette raggiunte dal Popolo della Libertà. Qualcuno lo fermi subito o la delusione sarà troppo forte».
La controreplica arriva da Piero Martino. «Per mesi Bonaiuti ha fantasticato su un consenso per il governo e per il presidente del Consiglio superiore al 70 per cento. - dice il capo ufficio stampa del Pd - Ma quella cifra non è mai esistita; oggi, poi, tutti i sondaggi rilevano una forte perdita di consensi per Berlusconi e la sua squadra. Bonaiuti conosce i sondaggi come noi e meglio di noi. Quindi, non faccia il furbo».
Il Pd però insiste nel chiedere di azzerare tutto e ricominciare a discutere. Forte anche di alcune crepe nella maggioranza. Tema su cui insiste Anna Finocchiaro. «Le parole che vengono in queste ore da autorevoli esponenti del governo e della maggioranza (penso a Calderoli, a Formigoni, a Rotondi solo per citarne alcuni), testimoniano di una consapevolezza che comincia a farsi strada nel centrodestra: con l´autosufficienza e l´arroganza non si governa un paese e una grave crisi economica e sociale», dice il presidente dei senatori democratici. E all´invito al dialogo e a riprendere a discutere sgombrando il campo dall´idea di usare il decreto legge anche per l´Università, associa anche Pier Ferdinando Casini. «Il governo deve evitare di andare avanti per decreto anche sulle università perché prima di fare la riforma c´è bisogno di un confronto vero con tutti: studenti, professori, rettori», dice il leader dell´Udc.
(si.bu.)

Corriere della Sera 4.11.08
Gli studenti e la Gelmini
La scuola è l'ultima comunità
di Paolo Franchi


Sostiene Pierluigi Battista che, per misurarsi con quanto va capitando nelle scuole e nelle università, bisogna togliersi gli occhiali ideologici datati 1968 o giù di lì. E che tocca anche agli studenti difendersi dal parassitismo dei reduci pronti a planare sull'Onda.
Ha ragione. E non solo perché sono passati 40 (quaranta) anni. I protagonisti del '68 furono i baby boomers, figli della rivoluzione delle aspettative crescenti e, in Italia, del primo centro-sinistra, quello vero, delle speranze e delle delusioni che aveva suscitato. La stessa idea di avere tutto e subito, anziché qualcosa e un po' alla volta come pensavano i genitori moderati, riformisti e magari anche togliattiani, era dettata nello stesso tempo da un radicale rifiuto dello stato di cose presente (la «contestazione globale») e da uno straordinario ottimismo circa il futuro (l'«immaginazione al potere»).
Il movimento di protesta attuale con tutto questo non c'entra nulla. Di «contestazione globale» non c'è traccia, e con questi chiari di luna solo degli scriteriati assoluti potrebbero essere ottimisti. Nessuno scriverebbe più lettere a una professoressa o dotte tesi «contro la scuola»; e a nessuno o quasi salta in mente di «uccidere il padre» o, più semplicemente, di contestare più di tanto gli adulti. Al contrario, il sentimento dominante è la preoccupazione. Anzi: la paura. La paura del futuro, naturalmente. E la paura che, attraverso dei tagli indiscriminati, venga messo in discussione il presente della scuola non per cambiarlo in meglio là dove va cambiato, ma per tornare al passato. O meglio all'idea mediocremente reazionaria di un passato in cui la gente stava al suo posto, la vecchia maestra (unica, si capisce) era autorevole e materna al punto giusto, a scuola si andava con il grembiulino, e sul voto in condotta ci si giocava l'anno. Molti nel centrodestra sostengono che, ad alimentare questa paura, abbiano concorso assai da una parte i limiti di comunicazione del ministro e del governo, dall'altra una capacità del Pd e della sinistra, sin qui insospettata e insospettabile, di mobilitare il mondo della scuola manipolandolo a colpi di strumentalizzazioni e di bugie. Può darsi. Ma, se si cercano qui le motivazioni fondamentali di questa protesta, non si va molto lontano. In questi 40 anni, la scuola italiana (l'università meriterebbe un discorso diverso e più complicato) è diventata quello che nel '68 era solo in piccola parte, e cioè una scuola di massa, traballante e malridotta come sappiamo, ma di massa, su cui si rovesciano tutte le trasformazioni sociali e culturali della società italiana. Fatica a reggere l'urto, anzi, fa acqua da tutte le parti. Ma, in ultima analisi, tiene. Non è fatta solo, né soprattutto, di bullismo, di insegnanti fannulloni e di genitori imbufaliti che picchiano i professori rei di non aver promosso i loro figli zucconi. Queste figure certo non mancano. Ma non sono la scuola. Perché la scuola è, in primo luogo, una grande comunità in un Paese in cui tutte o quasi le grandi comunità sono venute meno, un fattore di coesione in tempi di disgregazione; o almeno così la percepisce la gran parte degli studenti, degli insegnanti e delle famiglie. È una comunità che non si lascia spiegare solo dalla docimologia o dai rapporti dell'Ocse: se scricchiola, è anche perché le si chiede (apertamente, perentoriamente, pena l'adozione di misure draconiane) di trovare i percorsi per premiare il merito e far emergere le eccellenze, e nello stesso tempo le si fa carico (ma sottovoce, senza attribuire alcun valore alla cosa) di continuare ad essere, ma gravando il meno possibile sulle casse dello Stato, un potente fattore di inclusione sociale.
La maggioranza degli studenti e degli insegnanti, e buona parte dei genitori, la criticano, ma la difendono perché è l'unica cosa che hanno: ne conoscono le difficoltà, e magari vorrebbero fare qualcosa per superarle, ma non la considerano un carrozzone da sbaraccare. Questo potenziale di protesta non basta, da solo, per porre le basi politiche e culturali di un movimento per la riforma. Ma chi a un punto di vista riformatore nonostante tutto non ha rinunciato sbaglierebbe a sottovalutarne la portata. Non deve essere un caso se, con l'arrivo dell'Onda, il consenso al governo è per la prima volta bruscamente calato; e se di questo calo il Pd si è avvalso tanto poco.

il Riformista 4.11.08
Silvio e la grande frenata. Tre stop in una settimana
di Alessandro De Angelis


UNIVERSITÀ, LEGGE ELETTORALE, GRAFFITI. Il governo ha smesso di procedere a tavoletta, nella maggioranza tornano veti e distinguo e i sondaggi sono in calo. La Lega apre al Pd sulla scuola e Fini prepara l'affondo anti-Carroccio in difesa dello «Stato». Un sussurro: «Si è riaperta la guerra di successione».

Nessuno lo dice apertamente ma la sensazione è che nel centrodestra qualcosa non va. Basta mettere in fila i dossier dell'ultima settimana. Di legge elettorale, dopo che la riforma è tornata in commissione, non se parla più: «Indubbiamente è fallita e si voterà con l'attuale. Questo penalizza Veltroni ma il capitolo chiuso è anche una nostra sconfitta» dice un azzurro di rango. Una quadratura del cerchio non si è trovata nemmeno sulle misure antigraffitari. E a Palazzo Grazioli già circolano veleni sulla Lega: «Qualcuno vuole usare l'imbrattamento dei muri per propaganda politica. Basta vedere le scritte nel Nord Italia». Altro segnale è il dibattito sulla sospensione della Bossi-Fini. Dopo le aperture di qualche deputato della maggioranza, da Cazzola a Della Vedova, ieri è intervenuto il capogruppo del Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto: «Non condividiamo l'ipotesi di proporre la liquidazione o la sospensione della legge Bossi-Fini, che ha consentito la normalizzazione dello status di centinaia di migliaia di immigrati che lavorano nel nostro paese».
Il fronte caldo riguarda l'Università. La linea ufficiale è che il governo presenterà uno o più disegni di legge. Ma l'ipotesi di un decreto non è stata del tutto accantonata. La valutazione sarà fatta solo nei prossimi giorni, sentito Tremonti. Per ora la parola d'ordine è dialogo: «Alla vigilia di un cambiamento - dice la presidente della commissione Cultura della Camera Valentina Aprea - è facile che si formi un blocco conservatore che inneggia allo status quo. Noi andremo avanti senza interrompere il confronto col mondo dell'Università». Guai a parlare di retromarcia. L'obiettivo - colpire la "casta" dei docenti - rimane : «Va liberalizzato prosegue Arpea - il reclutamento dei docenti, troppo ingessato in famiglie e comunità scientifiche chiuse». All'ordine del giorno anche qualche aggiustamento nella comunicazione: «Non è vero che il ministro non ha incontrato nessuno. In questi mesi ha incontrato sindacati, insegnanti. Il problema è che non lo ha fatto con una agenda precisa» affermano gli spin doctor della Gelmini.
La sensazione è di lavori in corso nella maggioranza. Spiega Renato Mannheimer al Riformista: «C'è un trend abbastanza consolidato di perdita di consenso del governo tra i dieci e i venti punti, a seconda degli istituti. La scuola ha inciso, così come la crisi. Ma la sensazione è che il governo ha iniziato con piglio decisionista ma poi non è riuscito a quagliare. Certo, era difficile quagliare ma questo è l'umore dei cittadini». Qualcosa, dunque, è cambiato. Uno degli spin doctor di Berlusconi, Giorgio Stracquadanio, la mette così: «Temo che qualcuno si illuda che si è aperta la guerra di successione a Berlusconi». Il riferimento, neanche tanto implicito, è al pressing che si è manifestato su tutti i fronti da parte di An e Lega. Ieri il ministro Calderoli, in un'intervista a Repubblica ha lanciato un appello all'opposizione: «Dagli errori bisogna imparare. Sulla scuola ci vuole un discorso unitario». Difficile non vedere nell'apertura un messaggio che va oltre il dossier scuola. Immediata la replica di Veltroni: «In questo invito c'è già una forte autocritica».
Questa settimana mostrerà i muscoli anche Gianfranco Fini (verso il premier e la Lega). Il presidente della Camera oggi, in occasione della celebrazione della Festa delle forze armate, manderà un messaggio forte all'insegna dei valori della «nazione» e della «patria». E sabato, in occasione del dibattito con Massimo D'Alema, al convegno organizzato dalle fondazioni ItalianiEuropei e Fare Futuro, Fini dirà che il federalismo non è una questione ideologica e che in parlamento serve «una discussione ampia e approfondita». Ma affermerà anche che - come accade nel resto dell'Europa - lo Stato manterrà un ruolo importante.
A Palazzo Grazioli la linea è sdrammatizzare: «Basta leggere - afferma Stracquadanio - l'intervento di Berlusconi alla rivista di Don Verzè per capire che il premier sente di avere un futuro di almeno cinquant'anni ed è l'unico a dare coerenza strategica al centrodestra in Italia». E Bonaiuti aggiunge: «Nei sondaggi cresciamo noi. Il Pd è sotto il 30 e Veltroni invece di fare proposte concrete gonfia una inesistente discrasia tra la Lega e il resto della coalizione». L'ennesima dimostrazione di forza, dicono gli uomini del premier, Berlusconi la darà alle prossime regionali del 30 novembre in Abruzzo. Passata la grande paura sull'ammissibilità delle liste - ieri la Corte d'appello ha dato il via libera a quelle del Pdl - è cominciata la campagna elettorale. E il Cavaliere ha già messo in agenda un tour nelle quattro province, a sostegno del "suo" candidato.

il Riformista 4.11.08
La gauche della gauche può parlare di nuovo
di Ritanna Armeni


Qualcosa contro
Esattamente una settimana fa Liberation avvertiva in prima pagina «La sinistra vira a sinistra». E da noi?

Esattamente una settimana fa Liberation, quotidiano francese, avvertiva in prima pagina «La sinistra vira a sinistra», e riportava i dati di un'inchiesta secondo cui i temi più radicali conquistavano sempre più le varie famiglie della sinistra. È un fatto - concludeva il giornale - di cui il congresso del partito socialista dovrà tenere conto.
Le ragioni di questa virata a sinistra, secondo Liberation, hanno origine nel collasso della finanza internazionale che ha messo in crisi le idee liberiste egemoni nel mondo fin dagli anni 80. Di fronte alla crisi delle banche e delle borse, all'aggravarsi delle ingiustizie sociali e alla gravità della recessione che si attende, le idee di intervento pubblico, di sviluppo "ecocompatibile", di solidarietà sociale - commenta il quotidiano - ritornano in auge. E quindi la "gauche de la gauche", la sinistra della sinistra può parlare di nuovo.
Non è una affermazione da poco se si tiene conto che esattamente un anno fa lo stesso quotidiano, dopo un'inchiesta analoga aveva titolato: «La sinistra vira a destra?». C'erano appena state le elezioni presidenziali, la sconfitta di Ségoléne Royal, la vittoria di Nicolas Sarkozy.
Perché mi pare utile riferire di questa inchiesta? Perché ho l'impressione che se un'analoga indagine fosse condotta in Italia i risultati non sarebbero molto diversi. Gli argomenti di chi ha sostenuto in passato la necessità di una critica radicale alla globalizzazione e di chi non ha abbandonato i contenuti classici della socialdemocrazia avrebbero oggi un credito considerevole. E, come è avvenuto in Francia per i socialisti, anche in Italia il Partito democratico sarebbe preso di contropiede. Il "realismo" che ha portato i due partiti in questi anni ad abbracciare (con maggiore o minore convinzione) i contenuti di un liberismo che pareva vincente, oggi apparirebbe in crisi in Italia come in Francia.
Solo pochi esempi per dimostrarlo.
Qualche anno fa chiunque avesse parlato in Italia di intervento pubblico nell'economia, addirittura nelle imprese più importanti del paese, sarebbe stato considerato o un pazzo o un estremista fuori dal mondo. Ricordate il dibattito sulla Fiat? Oggi di intervento pubblico nelle banche e nelle imprese se ne discute nei talk show e negli angoli delle strade. In America non è un tabù pensare di intervenire non solo nel cuore del sistema finanziario ma nelle aziende automobilistiche. Non emergono nei vari paesi sostanziali dissensi sulla sua necessità, di cui nessuno dubita al di là e al di qua dell'Atlantico, ma soltanto sui tempi, sui modi e quindi sui modelli da applicare (quello inglese proposto da Gordon Brown o quello francese avanzato da Nicolas Sarkozy?).
Pensiamo ancora ai parametri di Maastrich. Intoccabili. Chi, come qualche coraggioso e isolato economista, pensava potessero essere messi in discussione veniva trattato come chi all'interno della Chiesa cattolica avesse messo in discussione il dogma della verginità della Madonna. Oggi economisti di grido, ministri, banchieri, alti dirigenti dell'Unione europea avanzano l'idea di una maggiore elasticità. Il comportamento dei paesi europei che volessero violare i sacri principi non è più demonizzato. Lo stesso governatore Draghi chiede al governo italiano di allentare il rigore.
E infine pensiamo al disprezzo finora manifestato nei confronti di tutto quello che era "pubblico": per anni sinonimo di burocratico, malfunzionante e parassitario. Oggi in Italia un grande movimento, non solo di sinistra, difende la scuola pubblica, pretende ricerca pubblica, chiede un futuro per i suoi giovani nel quale lo Stato intervenga con risorse e finanziamenti. E qualcosa ci dice che se il governo osasse dei tagli su un'altra struttura pubblica, per esempio la sanità, la reazione non sarebbe dissimile se non più dura.
Insomma, senza arrivare alla perentorietà delle conclusioni dell'indagine francese secondo cui «i valori della sinistra anticapitalistica, la sua ideologia, le sue parole d'ordine hanno il vento in poppa», abbiamo l'impressione che molte cose stiano cambiando o possano cambiare anche in Italia.
Il punto è: chi avvertirà e saprà gestire questo cambiamento? In Italia la sinistra radicale è scomparsa. Una sorta di cattiveria o di ironia della storia ha fatto sì che nel momento in cui molte sue analisi si mostravano veritiere e molte sue parole d'ordine credibili, essa sia stata cancellata dal Parlamento e sia rifluita o nell'afasia o in un dannoso rinsecchimento delle sue idee e delle sue prospettive. La sinistra riformista, da parte sua, appare scossa dalla nuova fase e, come quella francese, presa in contropiede. Per troppi anni fra le sue file sono state coltivate le idee liberiste perché si possa pensare ad un rapido rinnovamento culturale. Ma la storia e la politica stanno dando un nuovo appuntamento. Sarebbe un peccato per tutti mancarlo.

Repubblica 4.11.08
In piazza gli statali della Cgil ed Epifani attacca Cisl e Uil
"Mosche cocchiere del governo". Duello sui numeri delle adesioni
di Luisa Grion


ROMA - In piazza da soli contro il protocollo per il rinnovo del contratto già firmato da Cisl e Uil. Ieri gli statali della Cgil hanno ribadito con uno sciopero nelle regioni del Centro Italia il loro «no» al piano proposto dal ministro Brunetta. La protesta - che continuerà il 7 e il 14 novembre nel Nord e nel Sud - ha scatenato l´ormai solita guerra di cifre fra manifestanti e governo, ma soprattutto ha scavato un altro crepaccio nella sempre più lontana unità sindacale.
Nei fatti volano gli stracci: una sigla sta in piazza, parte di un´altra l´affianca sul rinnovo dei contratti (la Fpl Uil per i comparti della sanità e degli enti locali). La Cisl fa i conti alla Cgil avvertendo che a scioperare sono stati in pochi e che quindi, sui numeri, ha ragione Brunetta. Epifani senza troppi giri di parole accusa gli «ex-alleati» di fare da «mosche cocchiere del governo». «C´è qualcuno che vuole spingerci in un angolo, ma non ce la farà - ha detto - Mi ha molto stupito la cena a lume di candela di giovedì scorso di Cisl e Uil con Tremonti fatta nello stesso giorno in cui avevano lanciato l´appello all´unità. In passato abbiamo avuto divisioni, ma Cisl e Uil hanno difeso il loro punto di vista lealmente. Ora non è più così».
Tutto è iniziato, appunto, giovedì scorso quando Cgil, Cisl e Uil dopo essere stati insieme in piazza al mattino nel mega corteo contro il decreto Gelmini, si sono divisi nel pomeriggio al tavolo della Funzione Pubblica. Bonanni e Angeletti hanno firmato per l´aumento a regime dei 70 euro lordi in busta paga, la Cgil no. E ieri ha portato in piazza i suoi.
Uno sciopero super monitorato, visto che ci sono state ben tre diverse letture dei dati.
La Cgil parla di successo: adesioni al 50 per cento negli enti centrali, al 30 per cento nei locali e mezzo milione di dipendenti pubblici a braccia incrociate.
Il ministero della Funzione Pubblica dopo diversi flash fornisce la cifra finale dell´ 11,15 per cento. Stima che fa dire a Brunetta: «Il 90 per cento dei lavoratori dà ragione al protocollo».
Fra i due poli s´inserisce la Cisl, che dà ragione al ministero della Funzione Pubblica. Carlo Podda, segretario generale del comparto per la Cgil, ricorda che «altre otto sigle sono con noi, non siamo isolati. Facciamo un referendum e vediamo davvero da che parte stanno i lavoratori». Quanto all´andamento dello sciopero: «Il puntiglio con il quale Brunetta insiste nel sminuirne la portata non dissimula sufficientemente il fastidio che il reale andamento deve avergli procurato». Ora si aspetta lo sciopero generale di tutti i comparti pubblici per dicembre.

Corriere della Sera 4.11.08
Vittorio Foa, il carcere e la scuola di Bauer
di Sergio Romano


Nei molti articoli apparsi in coincidenza della morte di Vittorio Foa, ho letto della sua giovanile esperienza in carcere a Roma, durante il fascismo, negli anni 30. Ma nessuno, mi sembra, ha ricordato che quella esperienza Foa l'ha condivisa a Regina Coeli, se non erro, con Ernesto Rossi e con Riccardo Bauer, fondatori del movimento di «Giustizia e Libertà». Siccome credo che quella vicenda la conoscano in pochi, soprattutto fra i giovani, lei non potrebbe indicarci quale fu esattamente il rapporto di Foa con quei personaggi, così spesso dimenticati?
Bruno Giberti Como

Caro Giberti,
Il miglior tributo ai «carcerati » Rossi e Bauer fu proprio quello di Vittorio Foa. Quando Arturo Colombo lo intervistò vent'anni fa nella sua casa romana di via degli Avigonesi, Foa cominciò il suo racconto con un aneddoto: «Prima di andare in carcere nel maggio del 1935, io né Riccardo Bauer né Ernesto Rossi avevo mai avuto occasione di conoscerli personalmente, anche perché loro due in cella c'erano già dall'ottobre del '30, quando ero poco più di un ragazzo, studente universitario. Ma sapevo bene chi fossero, anche se a me, e ai miei giovanissimi coetanei, pareva un po' troppo retorica, un po' troppo carica di enfatizzazione la stampa antifascista, specie quella dell'emigrazione, che quando li nominava, li chiamava sempre i "nostri martiri". Sicché appena io e Massimo Mila ci siamo trovati con loro a Regina Coeli, abbiamo cominciato a chiamarli martiri: naturalmente in modo scherzoso e con risvolti esilaranti: Martire Bauer, dammi quel libro! Martire Rossi, passami il vocabolario! Usavamo sempre il cognome, quasi a dare una solennità ancora maggiore a quell'appellativo...».
Bauer e Rossi erano stati condannati a vent'anni di carcere dopo un processo durante il quale il pubblico ministero li aveva accusati della progettazione di un attentato. Avevano una formazione alquanto diversa. Bauer era «crociano», quindi storicista e idealista. Rossi invece aveva avuto una formazione politica e culturale più tormentata. Dopo avere collaborato per un paio d'anni al Popolo d'Italia
(il quotidiano fondato da Mussolini nel 1914), aveva incontrato Salvemini, aveva letto Luigi Einaudi ed era diventato positivista, pragmatico e soprattutto pungentemente polemico. Era inevitabile che personalità così diverse avessero discussioni appassionate sulle crisi europee e sul futuro dell'Italia dopo il fascismo. Ma erano entrambi europeisti, economicamente liberali e quindi antiprotezionisti: una posizione molto eterodossa negli anni in cui le ideologie dominanti in Europa, anche nelle democrazie, erano il nazionalismo e il protezionismo. Foa disse a Colombo di avere imparato da entrambi, ma aggiunse che il vero educatore era Bauer. Era lui che organizzava le loro giornate con il rigore di un preside: «Al mattino un'ora di lettura in comune, poi ci separavamo, lui studiava testi latini con Mila, io analisi matematica con Rossi. Poi c'era una tregua per giocare a scacchi, e di nuovo si doveva riprendere a studiare, sempre con una regolarità e una precisione implacabile che per Bauer era uno stile di vita».
Non sorprende quindi la scelta di Bauer nel dopoguerra. Fu partigiano e membro autorevole del Partito d'Azione, ma lasciò ben presto la politica militante per dedicarsi a una istituzione culturale milanese, l'Umanitaria, di cui fu vicepresidente e presidente sin al 1969. Pensava che la democrazia s'imparasse a scuola e che i cittadini dovessero andare a scuola, in un modo o nell'altro, per tutta la vita.

Corriere della Sera 4.11.08
Archivi Una relazione mai pubblicata del filosofo francese scomparso tre anni fa. I diritti di cittadinanza e il concetto di patria
Ricoeur: siamo tutti stranieri
I visitatori, gli immigrati e i profughi: basi nuove per le politiche di accoglienza
di Paul Ricoeur


La fantasia che fa di noi gli stranieri dello straniero sfugge al fantastico quando è sottoposta alla prova del dovere di ospitalità, di cui passeremo in rassegna alcuni esempi concreti. Essi corrispondono a tre situazioni che possiamo classificare in un ordine tragico crescente: «lo straniero da noi» è prima di tutto il visitatore gradito, poi l'immigrato, per l'esattezza il viaggiatore straniero che risiede da noi più o meno suo malgrado, infine è il rifugiato, il richiedente asilo che auspica, quasi sempre invano, di essere accolto.
Quest'ultima occasione di ospitalità rientra letteralmente nel tragico dell'azione, nella misura in cui lo straniero vi assume l'atteggiamento del «supplice ».
Lo straniero come visitatore
Questa figura pacifica — nel duplice senso che rende visibile uno stato di pace e moltiplica lo spirito di pace — riveste più aspetti, dal turista che circola liberamente sul territorio del Paese che lo accoglie fino al residente che si stabilisce in un luogo e vi soggiorna. Entrambi illustrano l'atto di abitare insieme, condiviso da appartenenti alla nazione e stranieri.
Tale figura di straniero ricorda l'importanza delle categorie di territorio e di popolazione per fondare lo status di membro della comunità nazionale. In questo caso lo straniero è autorizzato a condividere la dimensione della condizione di membro. Senza diventare cittadino, il visitatore gode dei vantaggi della libertà di circolare e di commerciare e condivide beni sociali basilari, come la sicurezza, le cure mediche, talvolta l'educazione.
Questa piacevole condizione va senz'altro messa in conto alla globalizzazione degli scambi. Ma sarebbe inefficace senza la pratica di quello che Kant, nel
Progetto di pace perpetua, definisce il «diritto di visita » e nel quale vede un corollario ben fondato del diritto cosmopolita. (...) Il diritto di visita del viaggiatore o del residente straniero è lungi dal ridursi a mera curiosità. È semplicemente rivelatore dell'essenza stessa dell'ospitalità, che il dizionario francese Robert così definisce: «Il fatto di ricevere qualcuno in casa propria, eventualmente alloggiandolo, nutrendolo gratuitamente ».
La definizione del Robert sembra privilegiare l'alloggio e il vitto; vorrei aggiungere la conversazione. Non solo perché è a tale livello, come si è detto, che accede al linguaggio la comprensione inizialmente tacita che il membro ha di appartenere alla comunità, ma perché è a tale livello di scambio di parole che l'iniziale dissimmetria tra membro e straniero comincia a correggersi concretamente.
In proposito, non si evidenzierà mai abbastanza il fenomeno della traduzione da una lingua all'altra quale modello di «parificazione delle condizioni», come avrebbe detto Tocqueville. (...)
Lo straniero come immigrato
Il riferimento è chiaramente alla condizione di lavoratore straniero, condizione indicata anche con il termine Gastarbeiter o Guest workers. (...) Non si dimentichi come si è formata questa categoria di visitatori forzati. All'origine di questo flusso migratorio di grande portata sta il bisogno di manodopera poco qualificata per posti di lavoro generalmente non ambiti. Dunque è il lavoro, necessità ordinaria della vita economica, a caratterizzare questa categoria di stranieri «da noi». Non siamo più nel ciclo della libertà di scelta, come nel caso dei visitatori graditi, ma nel regno della necessità, più precisamente quella di sopravvivere e di far vivere famiglie che generalmente rimangono nel Paese d'origine. La vita di questo tipo di stranieri è definita da altri: attori economici e politici. Certo, abitano lo spazio protetto dallo Stato che li accoglie, circolano liberamente e sono consumatori come noi nazionali; parte della loro libertà è dovuta al fatto che partecipano come noi all'economia di mercato; un'altra parte risulta dal loro accesso, entro certi limiti, alla protezione dello Stato provvidenza; sono titolari di diritti sindacali e, in linea di principio, beneficiano degli stessi diritti all'alloggio dei nazionali; ma non sono cittadini e vengono governati senza il loro consenso. Se altrove sono chiamati «ospiti» è perché non sono migranti in cerca di una nuova residenza e di una nuova cittadinanza. Si pensa che intendano tornare al loro Paese, una volta scaduti il contratto e il visto.
(...) Su tale realtà si innestano i fantasmi dell'opinione pubblica, che si esprimono principalmente nella miscela di lavoratori in regola e stranieri irregolari, minaccia alla sicurezza, persino terrorismo. Sospetto, diffidenza, xenofobia tendono a impregnare la comprensione che chi fa parte della nazione ha della propria appartenenza allo stesso spazio politico. Se, come si è detto, tale comprensione comporta di per sé una sensazione di differenza rispetto allo straniero, l'esclusione trasforma la differenza in rifiuto.
La risposta a una situazione così deteriorata deve avvenire a due livelli. Il primo è quello della giustizia politica, come scrive Michael Walzer, dovuta ai lavoratori residenti: bisogna inventare qualcosa, una specie di ammissione di primo grado, al di qua dell'ammissione di secondo grado consistente nella naturalizzazione, che eventualmente comporti la partecipazione alle elezioni locali, come avviene in alcune democrazie occidentali. Tale ammissione di primo grado va negoziata con gli Stati di provenienza dei lavoratori stranieri, come hanno cominciato a fare alcune convenzioni già esistenti o in corso di negoziazione. Ma la risposta deve avvenire soprattutto a livello del diritto umano di ospitalità, di cui si è detto parlando della condizione pacifica dello straniero come visitatore. A tale proposito le parole forti di Kant e di Fichte sull'ospitalità universale dovrebbero contribuire a cambiare le legislazioni e, prima ancora, le mentalità. Lo stesso diritto delle genti che un tempo regolava guerra e pace tra le nazioni dovrebbe oggi regolare i rapporti tra i Paesi ospiti e quei visitatori loro malgrado che sono gli immigrati del lavoro.
Lo straniero come rifugiato
L'attuale diritto dei rifugiati ha alle spalle la tradizione dell'asilo, a sua volta legata a un'antica tradizione di ospitalità esercitata in favore dei fuggitivi che scappavano dalla giustizia vendicativa del Paese d'origine. L'asilo, com'è noto, è presente nelle istituzioni delle nostre principali civiltà fondatrici. Anche in questo caso si evoca il duplice retroterra biblico ed ellenico. L'asilo vi è definito come luogo di rifugio che, non potendo essere depredato, è inviolabile. Scrive Grozio nel 1625: «Non si deve rifiutare dimora stabile a stranieri che, scacciati dalla loro patria, cerchino un riparo, purché si sottomettano al governo legittimo e osservino tutte le prescrizioni necessarie per prevenire le sedizioni» ( De jure belli ac pacis,
II, 11, 12). Nel XVIII secolo l'asilo diventa politico: in vari punti d'Europa ne beneficiano gli esiliati protestanti; e anche Voltaire... Quello che ci preme osservare è la distorsione che presenta, per le prerogative dello Stato d'accoglienza, la concezione dell'esilio come diritto della persona. È come eccezione alla regola dell'estradizione che i giuristi dell'inizio del XIX secolo si pongono la questione dell'asilo.
Ma fino all'inizio del XX secolo l'asilo resta una questione essenzialmente individuale riguardante persone con un ruolo politico. (...) Dopo gli sconvolgimenti del XX secolo, sotto il nome di rifugiato fa la sua comparsa un concetto nuovo. Il fatto che comporti un diritto d'asilo non deve nascondere la differenza di fondo. Il problema va collocato nel quadro delle grandi migrazioni forzate di massa. Qui ci interessa nella misura in cui, a parte il fatto che il rifugiato beneficia della protezione di un organismo internazionale, è su un Paese d'asilo – magari il nostro – che ricade la responsabilità primaria dell'accoglienza. È a questo punto che la preoccupazione di proteggere i rifugiati entra, più o meno apertamente, in conflitto con la preoccupazione di proteggere la sovranità territoriale degli Stati d'accoglienza. (...) La verità è che i Paesi industrializzati, nel loro insieme, tendono a costituirsi in fortezze contro i flussi migratori incontrollati scatenati dai disastri del secolo. Andrebbero esaminate, in proposito, le misure prese su scala europea che, troppo spesso, smentiscono la tradizione di asilo e protezione dei diritti e delle libertà della persona, a partire dalle misure di lotta agli «abusi» del diritto d'asilo (concetto di richiesta d'asilo «manifestamente infondata»). Tutto cospira ad allontanare il più possibile i richiedenti asilo, a tenerli a distanza dalle frontiere occidentali.

Repubblica 4.11.08
Un libro di Stefano Ferrante sull'esperienza maoista
Amarcord Servire il popolo
di Concetto Vecchio


Un soviet si riuniva per decidere se era giusto che una donna abortisse

Linda Lanzillotta fu espulsa perché s´era messa con un uomo sposato. Antonio Polito perché frequentava il circolo del tennis di Castellamare di Stabia. Nicola Latorre, oggi capofila dei dalemiani, nella sua Fasano diffondeva 90 copie di Servire il popolo, quante ne vendeva l´Unità, ragion per cui Alfredo Reichlin lo convinse a passare nel Pci. Renato Mannheimer, militante a Milano, si offrì di smerciare i libri che i compagni ricchi avevano sottratto alle biblioteche paterne per l´autofinanziamento: in parte li comprò lui stesso e s´edificò così la libreria. A quei tempi perfino Diabolik era maoista. Piombato a Kuantaj, paese fantastico identificabile con la Cina, giunse all´amara conclusione: «Qua io non avrei ragione di esistere». I poster di Mao campeggiavano nei cessi delle sezioni, come scoprì Fabrizio Dentice dell´Espresso visitando il collettivo di Paola, in Calabria. Il motto era «mettere al primo posto la politica».
Una gita al mare si declinava in un noioso esercizio di militanza: «Ogni volta che qualcuno sbagliava assumendo atteggiamenti borghesi ci si riuniva tutti, si leggeva la apposita citazione del presidente Mao e si sviluppava la critica collettiva contro questi errori», come riferiva un surreale resoconto di La bandiera rossa, il mensile dell´Unione dei comunisti italiani (marxisti-lenisti). Il Mao italiano, Aldo Brandirali, oggi è consigliere comunale a Milano, dopo una lunga militanza in Comunione e Liberazione. «Don Giussani mi ha rimesso in piedi».
La breve parabola dei maoisti italiani è raccontata con amore per le spigolature da Stefano Ferrante, giornalista de La7, in La Cina non era vicina, (Sperling&Kupfer, pagg. XI-276, euro 16) in libreria da oggi. Sette anni di vita: 1968-1975. I primi quattro come movimento. Gli ultimi tre come partito. Diecimila militanti.
Un giornale che per gli avversari di Potere operaio era "Servire il pollo". Slogan di replica: «Se vuoi fare la rivoluzione non ti fidare di Oreste Scalzone». Il Pci prendeva le distanze da Mosca e loro ripubblicavano l´opera omnia di Stalin. Negli anni dei freak Brandirali si faceva fotografare in giacca e cravatta. A Pilar Castel, attrice e sorella di Lou, venne vietato di andare ai picchetti in minigonna.
Banditi i nomi stranieri. Mojmir Jezek - disegnatore di avi cecoslovacchi - venne ribattezzato in Emilio. Un discreto fanatismo ideologico. Fumisterie incomprensibili. Documenti perlopiù illeggibili. C´erano anche crudeltà indicibili. Marco Bellocchio racconta che si tenne un soviet per decidere se era giusto che una donna abortisse, o se non conveniva far nascere un figlio rivoluzionario. Collettivizzazioni forzate: «A un certo punto avevano puntato la mia 500 blu, ma non l´ho mollata, io non ho mai collettivizzato nulla» confessa la Lanzillotta. E poi l´episodio più noto, il matrimonio comunista celebrato a Milano l´8 gennaio 1972 fra Sergio Bisi e Cristina Soraci davanti ai ritratti di Marx, Engels, Lenin, Stalin e Mao. Fu soprattutto una grande mossa di marketing, ma i due stanno ancora insieme: hanno gestito un distributore di benzina, ora commerciano in libri antichi. Furono maoisti anche Michele Santoro, i fratelli Antonio e Gianni Pennacchi, quest´ultimo al Giornale, l´ex ministro Barbara Pollastrini, impegnato nel doposcuola proletario, Enzo Lo Giudice, che non vota dal 1968 e che difese Craxi durante Tangentopoli, Fausto Luppetti, editore, Giovanni Fasanella che ha fatto il film sulle Br, Giuliana del Bufalo, lo scrittore Fulvio Abbate. Il pittore Mario Schifano devolveva parte dei suoi guadagni al movimento. Il direttore politico di Servire il popolo Angelo Arvati ha semplicemente cambiato chiesa: ora è diacono nella diocesi di Casale Monferrato.

Repubblica 4.11.08
L’inutile massacro avvelenò l´inizio del ‘900
Novant’anni fa si concludeva la Grande Guerra un conflitto che cambiò l’assetto del mondo
di Massimo L.Salvadori


Secondo Freud mai un evento storico era stato così dannoso per l´umanità
Sulle responsabilit politici e storici hanno alimentato un dibattito veramente infinito

A esprimere ciò che ha rappresentato la prima guerra mondiale, la quale ha insanguinato l´Europa come mai avvenuto in precedenza, sono stati anzitutto quanti l´hanno vissuta: militari, politici, intellettuali, uomini e donne di ogni ceto. Divisi tra loro nella valutazione del suo significato e nelle posizioni assunte a favore o contro gli obiettivi dei rispettivi paesi, li ha però accomunati un unico responso: che essa determinò il crollo di un mondo. Lo percepì fin dal 1915, con un senso di orrore e spavento, Sigmund Freud, il quale scriveva: «Ci pare che mai un evento storico abbia distrutto in tal misura il così prezioso patrimonio comune dell´umanità, (...) inabissato così profondamente tutto quanto vi è di elevato». Ma di chi la responsabilità?
La pubblicistica politica e la storiografia hanno alimentato in proposito un dibattito infinito. Merita in particolare di essere ricordato, per la statura degli studiosi, lo scontro avvenuto negli anni ‘60 tra Fritz Fischer, sostenitore del ruolo primario avuto dalla Germania nello scatenamento e nel proseguimento della guerra, e Gerhard Ritter, il quale tale tesi ha vigorosamente contestato. Su questa questione, pare a chi scrive che parole quanto mai persuasive abbia scritto il grande storico russo Evegheni V. Tarle, pochi anni dopo la conclusione del conflitto, quando osservò che «entrambi gli schieramenti delle potenze ostili avevano piani di conquista, entrambi erano capaci di far divampare l´incendio al momento che fosse parso loro vantaggioso, aggrappandosi al pretesto che apparisse il più idoneo», ma che nell´estate del 1914 la decisione fu presa da Germania e Austria le quali si erano convinte che fosse allora venuta l´occasione per esse più favorevole.
La «grande guerra», iniziata tra le fanfare e tripudi di folle osannanti nell´illusione di un conflitto di pochi mesi e durata invece dall´agosto 1914 al novembre 1918, fu così detta perché mai nel passato ve ne era stata una eguale. Fu una guerra mondiale perché, scatenata allorché il vecchio continente credeva di poter addirittura accrescere la propria posizione di «centralità», ebbe come oggetto quale blocco di potenze europee dovesse tenere il maggior dominio nel globo; e perché le sue conseguenze coinvolsero l´intera carta geopolitica del mondo. Fu al tempo stesso una guerra europea, in quanto tutto venne giocato nei campi di battaglia europei, anche dopo l´intervento americano nell´aprile del 1917, e quasi tutte le immani devastazioni materiali e la grandissima maggioranza dei morti e feriti riguardarono l´Europa.
Fu una guerra che mobilitò come mai prima sotto il controllo crescente dello Stato le risorse economiche - e anzitutto quelle industriali - preposte a fornire, in quantità gigantesche, agli eserciti di terra fucili, mitragliatrici, artiglierie, mezzi di trasporto a motore, alle flotte navi moderne e sottomarini, armi nuove come gli aerei e i carri armati, equipaggiamenti di ogni genere; e le risorse umane tese allo spasimo, segnando l´ingresso nella produzione di fabbrica su una scala senza precedenti della mano d´opera femminile. E la vittoria andò al campo in grado di fornire tali risorse nel maggior grado.
Fu una guerra che provocò un immenso massacro. Le cifre dei caduti furono di 1.800.000 tedeschi, tra i 1.700.000 e i 2.500.000 sudditi dell´impero zarista, 1.350.000 francesi, 1.300.000 appartenenti all´impero austro-ungarico, 750.000 britannici e 190.000 appartenenti ai dominions, 600.000 italiani, 300-350.000 romeni, 300-350.000 turchi, 300-350.000 serbi, 100.000 bulgari, 100.000 americani, 50.000 belgi.
Fu una guerra che maciullò i corpi e avvelenò gli spiriti degli europei. I corpi dei soldati furono martoriati nelle grandi battaglie e negli scontri crudeli tra le opposte trincee e intossicati dai gas usati per la prima volta, come fu narrato in maniera indimenticabile da scrittori come Eric Maria Remarque in All´Ovest niente di nuovo e da Emilio Lussu in Un anno sull´altipiano e in chiave cinematografica da registi come Lewis Milestone nel film tratto dal libro di Remarque e da Stanley Kubrick in Orizzonti di gloria, e documentato dalle cineprese dei corrispondenti di guerra. Gli spiriti vennero avvelenati sia da schiere di propagandisti e giornalisti al servizio dei governi e degli Stati Maggiori sia da intellettuali anche grandissimi i quali, con poche eccezioni tra cui Romain Rolland che ne denunciò l´asservimento al potere e l´accecamento, esaltarono chi la Kultur dei popoli germanici e chi la Civilisation dei popoli liberali occidentali. Vi furono poi i più aspri conflitti tra i militaristi-imperialisti e i pacifisti di impronta umanistica e religiosa, tra i socialisti rivoluzionari intesi a sovvertire l´intero ordine costituito e i loro vari oppositori e nemici. Vi furono le chiese benedicenti gli eserciti, prima e dopo che Benedetto XV parlasse nel 1917 dell´«inutile strage», e contadini, operai e soldati di tutti i fronti maledicenti. I tribunali militari lavorarono a pieno ritmo; soldati ribelli o troppo stanchi vennero decimati, fucilati, imprigionati, mentre i futuristi italiani parlavano di «estetica della guerra» e si compiacevano della «bella guerra virile e tecnologica». Le classi dirigenti operarono per «nazionalizzare le masse», per porle al totale servizio di una guerra in cui «la morte di massa» - ha scritto Mosse - «fu innalzata nel regno del sacro».
Fu una guerra civile ideologica tra le potenze occidentali che - poco curanti di essere alleate con l´impero russo autocratico e carcere di popoli - sventolavano la bandiera della democrazia e delle libere nazionalità e gli imperi centrali, alleati della Turchia, che alzavano quella di un vero ordine fondato su gerarchie solidali e affidato alla guida di monarchi, alti burocrati e militari.
Fu una guerra che lasciò un´eredità spaventosa. Il valore della vita umana risultò annullato, si diffusero uno spirito di violenza e una disponibilità a ricorrere ad essa che avrebbero fatto sentire i loro effetti virulenti in futuro e che toccarono i punti estremi nelle pratiche del bolscevismo, dei fascismi e del militarismo nipponico.
Fu una guerra che tradì la promessa tanto agitata di essere l´ultima, quella che avrebbe assicurato pace, democrazia, benessere. Provocò il crollo dell´impero germanico, dell´impero asburgico e dell´impero zarista; creò le condizioni per la conquista del potere da parte dei bolscevichi in Russia e lo scatenamento di un´ondata di convulsioni politiche e sociali destinate a durare un´intera epoca storica e a sconvolgere la società europea; fece nascere molti nuovi fragili Stati; portò all´emergere della potenza di un´America che presto voltò le spalle alla «pazza» Europa e si richiuse nell´isolazionismo. Per l´Italia la guerra fu la «quarta guerra di indipendenza», ma essa mise in ginocchio il paese e vi attivò conflitti distruttivi.
Come vide fin dal 1919 John Maynard Keynes, celebre autore de Le conseguenze economiche della pace, le potenze vincitrici dettarono ai vinti una pace cartaginese «senza nobiltà, senza moralità, senza intelletto», la quale seminò nuovo disordine, nuovi conflitti e nuove guerre. In riferimento all´animo con cui agirono in particolare i governanti francesi e inglesi, che si imposero su un Wilson forte nella retorica ma debole in concreto, Keynes osservava: «La vita futura dell´Europa non li riguardava», la loro mente era tutta rivolta alle frontiere, agli equilibri di forza, agli ingrandimenti imperialistici, «al futuro indebolimento di un nemico forte e pericoloso, alla vendetta e a riversare dalle spalle dei vincitori su quelle dei vinti gli insostenibili pesi finanziari». Così avvenne che si coltivassero i germi patogeni di un secondo e ancora più catastrofico 1914: il 1939.

Repubblica 4.11.08
Così Einstein arrivò alla relatività
di Rita Levi Montalcini


Il premio Nobel rievoca il suo percorso lungo quasi un secolo di scienziata e di donna. La famiglia, Primo Levi, Carlo Levi. I metodi per fare buona ricerca

Pubblichiamo un brano da La clessidra della vita di , scritto dalla Levi Montalcini e da Giuseppina Tripodi (Baldini Castoldi Dalai, pagg. 199, euro 16,50). Il volume è in libreria in questi giorni.

Nella sua autobiografia Einstein, o ancora più precisamente, come lui stesso la definisce, nel suo autonecrologio scientifico scritto a 67 anni, ricorda la forte impressione ricevuta all´età di 4-5 anni nell´osservare l´orientamento costante dell´ago magnetico di una bussola. Questa capacità di voler dare una spiegazione in base alle proprie esperienze di bambino, di adolescente e uomo maturo, è il primo segno di una grande attitudine all´indagine e al sottoporre al vaglio del proprio giudizio concetti che, in genere, vengono accettati senza difficoltà dalla grande maggioranza, quali la caduta dei gravi, la rotazione della luna, la differenza tra vivente e non vivente, ecc.
La seconda esperienza che Einstein ricorda come fondamentale in età infantile riguarda la comprensione dell´assioma che le tre altezze di un triangolo si intersecano in un solo punto. Ricorda l´indescrivibile impressione non tanto per il fatto che l´assioma potesse essere accettato senza dimostrazione, quanto per l´evidenza e la certezza della sua enunciazione.
Dai 12 ai 16 anni Einstein prese familiarità con le nozioni fondamentali del calcolo differenziale e integrale e con le scienze naturali. Diciassettenne si iscrisse alla Facoltà di Fisica al Politecnico di Zurigo, ebbe maestri come Hurwitz e Minkowski, entrambi matematici. Ma fu affascinato dalla fisica e per questa scienza trascurò la matematica in quanto non si sentiva di distinguere, in questo settore, con esattezza e con un´intuizione sicura, ciò che ha importanza fondamentale rispetto ad altre nozioni non ugualmente essenziali.
Emerge quindi il secondo aspetto caratteristico di Einstein che permarrà tutta la vita, cioè il senso di direzionalità e importanza della ricerca perseguita. E si rivelò anche la sua riluttanza alla coercizione e cioè all´obbligo di studiare secondo regole prefisse, riluttanza che manifestò per tutta la vita al pensiero ortodosso e coercitivo. Nel campo della fisica trovò estremamente agevole distinguere, malgrado l´enorme accumulo di dati, ciò che poteva condurre a concetti fondamentali da quello che non è essenziale. (...)
La circostanza che doveva portare alla formulazione del concetto della relatività speciale sorse a seguito di considerazioni sull´esperimento di Michelson, il quale aveva provato che la luce che attraversava due tubi ad angolo retto, l´uno in direzione del movimento della terra e l´altro perpendicolare a questo, percorreva i due tubi alla stessa velocità. Questo risultato appariva in contraddizione con il fatto che il tubo disposto parallelamente alla direzione di movimento della terra doveva essere percorso in un tempo più breve di quello perpendicolare. Lorentz aveva avanzato l´ipotesi di una contrazione del tubo parallelo che compensasse la differenza.
Einstein si pose innanzitutto il problema della relazione tra spazio e tempo rispetto a una costante: quella della luce è la massima velocità possibile, la forza necessaria per aumentarla dovrebbe essere infinita. Einstein nel formulare questo metodo riconobbe l´ambiguità del concetto di simultaneità che, se è valido per due fatti avvenuti nello stesso luogo nell´identico momento, non lo è più per due fatti che avvengano «contemporaneamente» in due luoghi diversi: concetto di tempo. Lo scienziato, commentando con Wertheimer il processo mentale che lo portò alla formulazione della teoria della relatività, disse: «Io penso assai di raro con parole, prima ho un pensiero, e solo in seguito posso cercare di esprimerlo con parole. Naturalmente è molto difficile esprimere a parole quella sensazione, ma decisamente le cose stanno così. L´impressione di procedere in un determinato senso in me è sempre sotto forma di una specie di sguardo generale in un certo senso in modo visivo». Durante l´intero processo creativo prevalse in lui il senso della «direzionalità» del suo modo di pensare verso un determinato fine e cioè di procedere verso qualcosa di concreto.
In quello definito da Wertheimer «un appassionato desiderio di chiarezza», Einstein affrontò direttamente la relazione tra la velocità della luce e il movimento di un sistema e mise a confronto la struttura teorica della fisica classica con il risultato di Michelson. Esaminando il fenomeno scoprì una grave lacuna nella trattazione classica del tempo: nella concezione tradizionale i valori spaziali sono indipendenti dal tempo e dagli elementi fisici. Stabilì invece tra loro una intima relazione: lo spazio non fu più recipiente di fatti fisici, vuoto e completamente indifferente.
La geometria spaziale veniva integrata con la dimensione tempo in un sistema a quattro dimensioni che a sua volta formò una nuova struttura unitaria con gli eventi fisici reali. La velocità della luce, considerata prima di Einstein come una tra le tante altre, seppure la più elevata, venne da lui posta in una fondamentale relazione con il modo in cui venivano misurati tempo e spazio. Il suo ruolo mutò da quello particolare, in mezzo a molti altri, a un fattore centrale del sistema. Nel processo cambiò il significato di altri elementi, quali massa ed energia. Tutto ciò ebbe luogo di fronte a una costruzione granitica, quale la fisica classica, che sino ad allora si era adattata a un numero enorme di fatti.

Repubblica 4.11.08
Pozioni magiche e ali d'aquila la tomba della prima sciamana
di Elena Dusi


In Galilea, culla delle religioni monoteiste, è stato scoperto un sito dove era sepolta una maga Gli archeologi israeliani hanno trovato gli oggetti per i riti soprannaturali: gusci, corni e ciotole
Avevano il compito di guarire e accompagnare le anime dei defunti

Prima di diventare terra santa, il medio oriente era terra di sciamani. In quella Galilea che oggi è il fulcro dell´archeologia ebraica e biblica, dalla terra è spuntato inaspettato il più antico sciamano mai conosciuto.
Era una donna bassa e zoppa, vissuta 12mila anni fa, madre di un rito ancestrale e primitivo che si svolgeva negli stessi luoghi in cui alcune migliaia di anni più tardi i monoteismi si sarebbero affermati. Ali di aquila, corni di gazzella, crani di martora, code di bue, carapaci di tartaruga e zampe di cinghiale erano i parafernalia della maga, disposti ordinatamente attorno al suo corpo anche nella sepoltura per preservare i poteri soprannaturali nell´aldilà.
«L´aquila è l´uccello sciamanico per eccellenza, che sa guardare la luce del sole senza abbassare gli occhi. Gli altri animali sono gli spiriti aiutanti. Uno sciamano è tanto più potente quanti più ne ha accanto a sé» spiega Carla Corradi Musi, che dirige il Laboratorio di studi sullo sciamanesimo dell´università di Bologna ed è autrice di "Sciamanesimo in Eurasia".
La tomba della sciamana del 10mila avanti Cristo è stata scoperta da due archeologhe dell´Università ebraica di Gerusalemme, Leore Grosman e Anna Belfer-Cohen in uno sperone di roccia rivolto verso est, a 150 metri di altezza dal fiume Hilazon e a metà strada circa fra il Mediterraneo, che dista 14 chilometri, e il mar di Galilea. Nel numero di oggi di Proceedings of the national academy of sciences, l´équipe israeliana racconta il suo stupore di fronte alle prime forme di spiritualità di una cultura - quella della civiltà Natufiana - che aveva appena abbandonato la vita nomade per dedicarsi all´agricoltura, dando il via a quei cambiamenti economici, sociali e culturali che la vita sedentaria e la nascita di insediamenti stabili comportano. "La sepoltura dell´anziana donna nel sito di Hilazon Tachtit - scrivono Grosman e Belfer-Cohen nel loro articolo - ha caratteri che poi sono diventati universali nella spiritualità dei popoli di tutto il mondo".
I primi sciamani avevano il compito di guarire e accompagnare le anime dei defunti e per dispiegare tutti i loro poteri si travestivano da animali indossando ossa, pelli o penne. «Erano il punto di riferimento della comunità, il raccordo con la parte spirituale del mondo. Conoscevano l´albero genealogico della tribù ed erano anche i primi scienziati della storia. A differenza di una religione vera e propria, lo sciamanesimo aveva credenze flessibili e per esercitarlo occorreva il consenso della comunità» spiega ancora la Corradi.
La zoppìa e la statura particolarmente bassa (la donna non arrivava a un metro e mezzo di altezza), come ci ricorda oggi la Befana, sono associate a poteri soprannaturali. Ed era forse per ovviare a questi handicap che la sciamana è stata sepolta con un piede umano accanto a sé, proprio all´altezza delle ginocchia. «Le donne nella mediazione con l´aldilà erano considerate molto più potenti degli uomini, perché depositarie dell´energia del mistero della nascita della vita» secondo la Corradi.
Anche se stupefacenti in una terra dove l´archeologia cerca soprattutto di districarsi fra gli indizi storici contenuti nelle sacre scritture, i resti di Hilazon Tachtit non hanno però nulla di incoerente rispetto al cammino che l´umanità stava compiendo 12mila anni fa. La civiltà natufiana, oltre ad essere la prima a sposare la vita sedentaria, introdusse l´abitudine di seppellire i propri defunti accanto alle città dei vivi, adornando le tombe con gli oggetti che erano stati importanti durante la vita. "Ma l´altissima considerazione in cui gli sciamani erano tenuti nella loro società giustifica la ricchezza della sepoltura di Hilazon Tachtit, così ricca di simboli sciamanici e di oggetti, come le ciotole, usate per le guarigioni o i gusci di tartaruga, probabilmente residuo di un banchetto funebre" spiegano le archeologhe di Gerusalemme.

Corriere della Sera 4.11.08
La giovane, 28 anni, ha la cittadinanza Usa e iraniana
Esha, arrestata a Teheran perché difendeva le donne
E' stata rinchiusa nel terribile carcere di Evin
di Guido Olimpio


La giovane è detenuta in isolamento nel «braccio» gestito dalla polizia segreta.
Silenzio del regime

WASHINGTON — Esha Momeni non ha mai invocato la lotta armata, né ha complottato per rovesciare i mullah iraniani. La sua unica battaglia è stata in difesa dei diritti alle donne. Una rivoluzione rosa che spaventa gli uomini in nero, gli ayatollah. Che per questo l'hanno fatta arrestare oltre due settimane fa, alla vigilia della sua partenza per gli Stati Uniti.
Esha, 28 anni, cittadina americana e iraniana, è stata fermata per un «controllo stradale» a Teheran. Agenti in borghese l'hanno accusata di una «violazione del codice » e l'hanno poi portata alla famigerata sezione 209, il «braccio» nel carcere di Evin gestito dalla Vevak (polizia segreta). Da allora è in isolamento. Un arresto arbitrario che ha suscitato sdegno e spinto Amnesty International a lanciare un appello rivolto alla comunità internazionale forse un po' troppo distratta.
Il profilo di Esha è diverso da quello di tanti iraniani che non condividono le scelte della Repubblica islamica. Il papà, Reza, sorpreso dalla rivoluzione del 1979 negli Usa (studiava in California), aveva deciso di tornare in patria l'anno seguente per mettersi al servizio del suo paese in guerra con l'Iraq. È così che Reza Momeni, pur possedendo la cittadinanza americana, ha partecipato a lavori di ricostruzione a Bandar Abbas e Busher.
La figlia Esha, carattere sensibile, con grande passione per la musica e la poesia, si è sposata dopo la laurea. Ma, come ha raccontato il padre, il matrimonio è naufragato in quanto il genero era «un maschio sciovinista» con seri problemi psichici. Inevitabile il divorzio. Una «brutta esperienza» che non solo ha sconvolto la vita familiare di Esha ma l'ha spinta ad occuparsi in maniera più convinta dell'emancipazione femminile. La ragazza si è unita alla campagna «Cambio per l'uguaglianza» insieme a poche coraggiose decise a sovvertire tabù e tradizioni. Il loro obiettivo è quello di raccogliere un milione di firme per sostenere la svolta. Una lotta, condotta con l'appoggio di organizzazioni occidentali, che le autorità iraniane considerano alla stregua della sovversione. E per questo non è facile agire all'interno dei confini iraniani.
Così due anni dopo — siamo nel 2005 — Esha ha deciso di trasferirsi negli Stati Uniti, dove si è unita a un gruppo di professori e volontari scesi in campo anche loro per il «Cambio». Una scelta che ha accresciuto i sospetti di Teheran che ritengono gli attivisti il lungo braccio di operazioni che hanno come reale obiettivo il rovesciamento del regime islamico.
Accuse politiche respinte dai familiari di Esha. Ad animarla, hanno ribattuto, è la difesa delle donne. Ed è per loro che la ragazza, due mesi fa, è rientrata in Iran armata di una videocamera per registrare delle interviste. Gli amici hanno cercato di dissuaderla mettendola in guardia sui pericoli che correva. Ma Esha è partita lo stesso per essere al fianco di altre iraniane poi finite nel mirino della sicurezza. Sussan Tahmasebi doveva lasciare il 28 ottobre l'Iran, ma le è stato confiscato il passaporto e la sua abitazione è stata perquisita. Parastoo Alahyaari, che aveva organizzato alcune manifestazioni pacifiche, è stata convocata molte volte dalla Vevak. Infine, quattro attiviste sono state denunciate perché avevano osato raccogliere firme per il «Cambio»: saranno processate a gennaio.

lunedì 3 novembre 2008

Repubblica 3.11.08
Università: niente decreto, sarà Ddl
L´Onda non si ferma, tra proteste e fiaccolate. I rettori: pausa di riflessione
di Mario Reggio e Cristina Zagaria


Bonaiuti: "Berlusconi convinto che bisogna cambiare". Ma la riforma Gelmini è destinata a slittare
Casini: collaboriamo ma no a provvedimenti d´urgenza. Fioroni: il governo dialoghi con l´opposizione

ROMA - Il piano per l´università verrà realizzato con un disegno di legge e non con un decreto. Sono queste le intenzioni del governo che sul secondo tempo della riforma Gelmini adesso è pronto ad utilizzare uno strumento più aperto al confronto. E comunque il provvedimento, confermano fonti dell´esecutivo, non sarà pronto questa settimana come aveva annunciato in un primo momento il ministro della Pubblica istruzione Maria Stella Gelmini.
La Lega ed An hanno chiaramente invitato il governo ad una pausa di riflessione. Ieri Repubblica ha anticipato che Palazzo Chigi ha deciso di frenare sui tempi. Il portavoce del presidente del Consiglio Paolo Bonaiuti ha dichiarato però che «Berlusconi resta convinto che l´università ha bisogno di una profonda riforma. Ad essa sta lavorando il governo, primo tra tutti il ministro Gelmini». Ma anche ieri fonti vicine al governo hanno confermato a Repubblica che ci sarà uno slittamento dei tempi.
L´Onda, intanto, non si ferma. A Roma 200 studenti della Sapienza si sono radunati ieri sera al Circo Massimo e, con candele e fiaccole hanno creato una mega scritta: "No 133". Cioè la legge che taglia un miliardo e mezzo agli atenei e blocca in sostanza il turn-over. A Napoli, gli studenti che occupano le facoltà di Lettere e di Filosofia alla Federico II hanno annunciato che il sito internet del ministro Tremonti è stato oscurato con la scritta "Se ci toccate il futuro, noi blocchiamo i vostri siti. Non ci fermerete". In serata il blocco è stato rimosso.
E il mondo universitario? Il presidente della Conferenza dei Rettori, Enrico Decleva afferma: «Bisogna guardare alla sostanza, ritengo un dato positivo che esponenti autorevoli della maggioranza abbiano rettificato il tiro. Una pausa di riflessione legata ai problemi reali dell´università è necessaria». Il sistema della �governance´ e reclutamento dei professori: sono questi i due grandi assi della riforma dell´università italiana a cui sta lavorando il governo. Ma, appunto, attraverso un disegno di legge e non un decreto. «Questo è l´impegno», assicura il senatore del Pdl e responsabile scuola di An Giuseppe Valditara. Il che non esclude la possibilità di ricorrere al decreto legge per questioni «condivise e popolari» come potrebbe essere lo sblocco delle assunzioni per duemila ricercatori. Ergo, una riforma così ampia e importante per il futuro del Paese ha bisogno di un confronto ampio. Se l´Udc di Pier Ferdinando Casini offre la propria disponibilità a discutere, a patto però che il governo riponga nel cassetto i decreti legge e ripensi i tagli al settore, il Pd è più combattivo: per l´ex ministro della Pubblica istruzione Beppe Fioroni il progetto del governo punta a «smantellare» il sistema universitario. L´esecutivo «deve fermarsi - conclude Fioroni - e avviare un dialogo con l´opposizione».

Corriere della Sera 3.11.08
Università, tre segnali da dare in una settimana
di Francesco Giavazzi


Il movimento degli studenti nato in queste settimane è diverso da quello di 40 anni fa. Abbandonate le illusioni del '68 ( L'immaginazione al potere) gli studenti pongono richieste che dimostrano chiarezza e maturità, diversamente dalle fumose dissertazioni di molti politici. Governo e opposizione hanno il dovere di dare una risposta evitando di ridurre l'università ad uno dei tanti temi di scontro politico. È già accaduto per la scuola elementare e non è stato uno spettacolo edificante.
Alcuni problemi richiedono un intervento urgente: si tratta innanzitutto di modificare entro la fine di questa settimana le modalità dei 4-5 mila concorsi già banditi che sono un vero scandalo. È sufficiente un decreto del governo per impedire questo scempio.
Il futuro del nostro capitale umano, il futuro dei nostri figli esigono che maggioranza e opposizione trovino un modo di affrontare insieme questi temi.
Alcuni problemi richiedono un intervento immediato (già questa settimana), altri richiederanno più riflessione.
(I) Il problema più urgente è la pioggia di concorsi universitari già banditi: un totale di 4-5 mila posti che, tranne casi rari, non apriranno le porte delle università ai giovani, ma promuoveranno docenti e ricercatori che già lavorano nell'università e spesso vi sono entrati senza alcun vaglio. Lunedì prossimo tutti i docenti sono chiamati a votare per eleggere i commissari di questi concorsi i cui vincitori sono quasi tutti noti prima ancora che vengano formate le commissioni. Inoltre, nel caso dei 1.800 posti di professore, i vincitori non saranno 1.800, ma 3.600. Infatti le commissioni nominano 1.800 professori per i quali il posto non c'è! Non fermare questo scempio significa perdere definitivamente ogni credibilità e non essere più autorizzati a proporre una qualsiasi riforma dell'università.
Poiché i concorsi sono già stati banditi lo spazio di intervento è limitato; tuttavia, anche se il margine è ristretto, alcune modifiche si possono apportare tramite lo strumento di un decreto legge. Ad esempio, si può decidere che i commissari siano sorteggiati, anziché eletti — forse non il sistema ideale, ma certamente migliore di quello attuale: elezioni truccate. Il decreto dovrebbe anche cancellare il doppio vincitore e limitare il numero dei vincitori al numero dei posti disponibili. Nel caso dei ricercatori le prove d'esame dovrebbero essere sostituite con una valutazione della tesi di dottorato e altre pubblicazioni, come avviene nel resto del mondo, evitando così il vizio di comunicare al candidato prescelto le domande in anticipo.
Questi provvedimenti debbono essere adottati entro questa settimana: dopodiché i concorsi non potranno più essere fermati.
(II) I finanziamenti. Il fondo per il funzionamento ordinario delle università (Ffo) il prossimo anno rimarrà sostanzialmente invariato. Al Ffo si aggiunge, per il triennio 2008-2010 un contributo straordinario di 550 milioni l'anno deciso dal governo Prodi. I problemi si porranno a partire dal 2010. Nel 2011 cesserà il fondo straordinario e il Ffo (così prevede la legge finanziaria) scenderà a 6.030 milioni: in quell'anno il taglio totale sarà di 1.390 milioni.
A mio parere la questione non è decidere se questi denari siano troppi, o troppo pochi, ma quale tipo di università debbono finanziare. Se ci sono pochi quattrini diventa ancora più vitale spenderli bene. È necessario prima di tutto decidere il modo in cui i finanziamenti vengono allocati: destinarli in funzione del numero degli studenti è una sciagura, poiché induce le università ad attrarre studenti offrendo corsi insensati e nel contempo induce i docenti a non bocciare mai nessuno, nel timore che la fama di università severa tenga lontani gli studenti.
Non si può cambiare l'università in una settimana, ma si può dare un primo segnale forte: il fondo straordinario di 550 milioni, circa l'8% del finanziamento ordinario, potrebbe essere già da quest'anno assegnato secondo i risultati dell'esercizio di valutazione della ricerca concluso nel 2005 e riservato alla ricerca (quindi non utilizzabile per aumentare gli stipendi).
Il decreto dovrebbe impedire da subito che le università con i conti fuori regola possano bandire nuovi posti; invece dovrebbe far sì (allentando le norme sul turn over) che le altre abbiano la possibilità di reclutare giovani ricercatori. E, per l'ennesima volta, dovrebbe liberalizzare le tasse universitarie prevedendo che le università siano obbligate a destinare il maggiore incasso a borse di studio o alla realizzazione di residenze universitarie.
(III) Infine governo ed opposizione dovrebbero confrontarsi sul futuro dell'università delegando la stesura di un progetto ad un gruppo di esperti, ad esempio il Gruppo 2003, formato dai 30 professori italiani con
impact factor più alto, cioè le cui pubblicazioni hanno avuto il maggior numero di citazioni scientifiche internazionali.

Repubblica 3.11.08
Le leggi e i militari non fanno i cittadini
di Giuseppe D’Avanzo


SE AVESSERO voluto ucciderli davvero quei ragazzini � dai dodici ai sedici anni � non avrebbero avuto alcun problema a farlo davvero.
In quattro entrano in una sala giochi, con la testa infilata in un casco integrale, sparano all´impazzata trenta colpi. Gli adolescenti che sono lì a giocare, si nascondono dove possono, sotto i tavoli. La fanno franca, senza grandi danni (il più grave guarirà in un mese). I quattro che sparano, secondo gli investigatori, hanno voluto soltanto dare «un avvertimento» al gestore del locale. Un piccolo episodio di «bassa camorra», a quanto pare. Un evento di ordinaria violenza in una città violenta. E tuttavia vale la pena di cogliere, anche nel suo minimalismo, il segnale inequivoco della volatilità, dell´inefficacia delle politiche "spettacolari" e "decisioniste" del governo.
Napoli è il luogo dove, con maggiore chiarezza, è in luce la natura dei provvedimenti dell´esecutivo, il suo fondamento "culturale".
Nell´ansia di creare un ordine politico che nasce da un´urgenza particolare, determinata e concreta, Palazzo Chigi crea � e Napoli è il luogo più palesemente appropriato per l´esperimento � «uno stato d´eccezione permanente». Napoli è la città che rende più credibile � quasi indiscutibile � la creazione di un «vuoto di diritto». Lo si è già osservato. In quest´area metropolitana si misurano, senza apparenti limiti, la catastrofe delle istituzioni; il fallimento delle amministrazioni; l´arretratezza della società civile; l´impotenza dello Stato; la pervasività dei poteri criminali; lo sfacelo di ogni rapporto di cooperazione; la frattura di ogni strategia della fiducia. Questo paesaggio consente di realizzare, anche con un diffuso consenso, quell´«eccezione» che sospende temporaneamente l´esercizio della norma. Autorizza a declinare la «governabilità» come decisione assoluta e non partecipata fino a ipotizzare l´uso delle forze, la militarizzazione di ogni decisione.
Per liberare la città dai rifiuti, si sospendono le leggi ambientali. Ciò che è illegale interrare a Milano, è legittimo a Napoli. Con l´ultimo decreto sui rifiuti, se a Torino si espone a una multa chi abbandona in strada � chessò � una poltrona sfondata, a Napoli rischia la reclusione � il carcere � dai sei mesi a tre anni. Purtroppo, la svuotamento di ogni partecipazione politica a vantaggio della verticalizzazione della decisione risolve i problemi nell´immediato, forse. Ma � nel breve periodo � è una "politica" che non funziona, che mostra la sua fragilità, che svela il fiato corto perché non è con la legge né con la forza militare che nasce o si crea un cittadino. Il governo può anche apparire a Napoli ogni settimana � e sorridere in piazza del Plebiscito tra plebi osannanti e mostrarsi ottimista e soddisfatto al telegiornale della sera � ma la convinzione che «ciò che appare è buono, ciò che è buono appare» alla lunga non regge e lo "spettacolo" alla fine rimane quel che è: un cattivo sogno.
Non è necessario essere un mago Merlino per prevedere che, al di là della sparatoria di Secondigliano, ci saranno in un immediato futuro altre fratture, altre crisi, altre tragedie che mostreranno quanto le soluzioni del governo per la catastrofe di una città e di un´area del Paese siano irrilevanti soltanto ad affrontare i ritardi del Mezzogiorno. Forse si può darne un esempio soltanto ricordando quanto peserà nel Sud la riforma della scuola escogitata da Tremonti e illustrata dalla povera Gelmini. Appena l´anno scorso il governatore della Banca d´Italia, nelle sue Considerazioni, aveva osservato che «l´istruzione si conferma al primo posto fra i campi dove un cambiamento forte è necessario». Al Sud i divari nei livelli di apprendimento sono signi?cativi già a partire dalla scuola primaria e tendono ad ampliarsi nei gradi successivi. «Un quindicenne su cinque nel Mezzogiorno � spiegò Mario Draghi � versa in una condizione di "povertà di conoscenze", anticamera della povertà economica. Il ritardo si amplia se si tiene conto dei più elevati tassi di abbandono scolastico». Con la riforma della scuola primaria voluta da governo e l´abolizione del tempo pieno, quei pochi o molti che la frequentavano passeranno i loro pomeriggi proprio in sale giochi come quella di Secondigliano. Quella "povertà di conoscenze" diventerà, per molti, per troppi di quei ragazzini, il lasciapassare per entrare nel mondo criminale. Con la presumibile alternativa o di diventare assassini o assassinati.

Repubblica 3.11.08
Der Spiegel: il capo delle Ss pianificava altre stragi di massa
"La Shoah era solo l´inizio" biografia choc di Himmler
Nel '41 scrisse: "Necessario eliminare almeno 30 milioni di sovietici"
di Andrea Tarquini


BERLINO - La Shoah avrebbe dovuto essere soltanto il primo passo nella politica nazista di pianificazione dei genocidi e degli stermini. Se il Terzo Reich avesse vinto la guerra, sarebbe poi toccato in modo massiccio agli appartenenti a ogni popolo slavo, agli omosessuali, agli handicappati, alle persone considerate asociali. Ecco quali erano i piani segreti di Heinrich Himmler, capo delle SS e massimo esecutore dei piani di "soluzione finale". Lo rivela la nuova biografia del capo nazista, "Heinrich Himmler: Biographie", scritta da Peter Longerich per l´editore Siedler di Monaco. Un libro choc, di cui il settimanale Der Spiegel ieri ha fornito ampie anticipazioni.
L´obiettivo finale del Nuovo ordine nazista, diceva e pensava Heinrich Himmler, doveva essere non solo l´eliminazione degli ebrei, ma anche quella di tutti gli "Untermenschen", cioè di ogni persona o categoria o gruppo etnico o sociale classificato dalla tirannide e dalla sua ideologia come "subumani". Himmler fu scelto da Hitler come responsabile della repressione e del genocidio perché, scrive Longerich, «gli sembrò non particolarmente intelligente ma obbediente zelante e preciso». Nel 1941, l´anno dell´attacco militare nazista contro l´Unione Sovietica, il capo delle SS scrisse che sarebbe stato necessario sterminare «almeno trenta milioni di cittadini dell´Urss, a cominciare dall´intelligentsija giudaico-bolscevica». E precisò che bisognava uccidere anche donne e bambini ebrei senza riserve.
Il suo piano fu poi da lui teorizzato con precisa logica criminale: «Non serve ammazzare o far ammazzare i maschi adulti e poi permettere che i loro figli o nipoti commettano violenze contro i nostri discendenti. Bisogna sopprimere anche loro». L´unico al vertice nazista a lamentarsi di Himmler fu Goebbels, il ministro della Propaganda: protestò con Hitler quando scoprì che agli ordini dell´ex allevatore di galline bavarese le SS avevano organizzato una sezione speciale che spiava Goebbels stesso. Catturato dai soldati britannici, Himmler si suicidò e scampò così al processo di Norimberga.

Corriere della Sera 3.11.08
Dopo l'intervista al «Corriere» La Boniver: d'accordo su alcune tesi
Bossi-Fini da «congelare» Epifani divide il Pdl Il Viminale: è contro l'Ue
Cazzola: io favorevole. Gasparri: no, fare il contrario
Applausi dal Pd ma anche il segretario del Prc Ferrero condivide la proposta: ha detto cose di assoluto buon senso
di Al. Ar.


ROMA — Una proposta che fa discutere. E tanto. Guglielmo Epifani, leader della Cgil, l'ha lanciata ieri in un'intervista al Corriere:
sospendiamo la legge Bossi- Fini sull'immigrazione per due anni, così da tutelare i lavoratori stranieri. E Giuliano Cazzola, deputato Pdl, ha detto: sì, è una buona idea. Spiegando: «I lavoratori stranieri, soprattutto nel Centro- Nord, sono una componente indispensabile del mercato del lavoro ». E questo a dispetto del Viminale.
Roberto Maroni, ministro dell'Interno, è infatti contrario alla proposta di Epifani, così come ha spiegato Alfredo Mantovano, sottosegretario al Viminale: «La letterale applicazione della proposta formulata oggi dal leader della Cgil porterebbe l'Italia al di fuori delle norme-base sull'immigrazione in Europa». E come Maroni e Mantovano anche Ignazio La Russa, ministro della Difesa, è contrario alla proposta di Epifani.
In realtà La Russa il suo no alla proposta leader della Cgil lo dice a prescindere, come spiega: «Non ho ancora approfondito la questione, ma non sono d'accordo ».
Replica a distanza Jean Leonard Touadì, parlamentare del Pd: «Il Pd non è certo un partito del laissez faire: per noi la tutela dei diritti dei migranti va di pari passo con il rispetto delle regole». Come Touadì, così Roberto Di Giovan Paolo, senatore pd: «L'attuale normativa Bossi-Fini è demagogica e ingannevole e produce una valanga di irregolari. Accogliamo la proposta di Epifani». D'accordo anche il segretario del Prc Paolo Ferrero, per il quale il leader della Cgil «ha detto cose di assoluto buon senso. La Bossi- Fini andava superata, come avevamo cercato di fare con il precedente governo Prodi».
Contrari alla proposta del leader della Cgil sono invece anche il capogruppo della Lega alla Camera Roberto Cota («Il dovere dei sindacati è di pretendere il rispetto delle regole, non la loro disapplicazione») e il vicecapogruppo a Montecitorio del Pdl Italo Bocchino («La proposta di sospendere la legge sull'immigrazione è demagogica e pericolosa »). No pure dal capogruppo del Pdl al Senato Maurizio Gasparri: «Dobbiamo andare nella direzione opposta a quella indicata da Guglielmo Epifani». Per Italo Bocchino (Pdl) «la proposta di sospendere la legge sull'immigrazione è demagogica e pericolosa», mentre Margherita Boniver (Pdl) sostiene: «La proposta di congelare per due anni la Bossi-Fini è irricevibile, anche se alcuni ragionamenti di Epifani sugli immigrati mi trovano d'accordo».
Interviene nel dibattito anche Gianfranco Rotondi, ministro democristiano di Attuazione del programma, tentando una mediazione: «Cerchiamo di non arrivare al muro contro muro. Su un tema così delicato come l'immigrazione bisogna confrontarsi e non scontrarsi».

Corriere della Sera 3.11.08
Nel Prc. Comunismo, Ferrero attacca «Liberazione»


MILANO — Il Partito della Rifondazione Comunista prende le distanze dal suo giornale, Liberazione. Il segretario del Prc, Paolo Ferrero, ieri con un intervento sulle colonne del quotidiano ( sopra), ha criticato il dibattito sulla necessità di abbandonare il nome «comunista».
Secondo Ferrero, le argomentazioni proposte dal giornale ripropongono «un po' stancamente quanto già sostenuto da Occhetto e dai suoi sostenitori dopo l'89». Oltretutto, Rifondazione— aggiunge il segretario— «è stata in grado di ricollocarsi positivamente nella grande stagione del movimento no global».

Corriere della Sera 3.11.08
Correttezza. Sarà il Festival d'inverno
Oxford abolisce il Natale cristiano
di G. S.


LONDRA — Il consiglio comunale di Oxford ha deciso di cancellare la parola Christmas, Natale, dalle celebrazioni: lo scopo è di rendere l'evento «più inclusivo». Quindi quest'anno nella cittadina inglese che è famosa per l'università e i suoi 39 college indipendenti dove nei secoli hanno studiato 25 primi ministri del Regno, due re, l'ex presidente Clinton, 47 Nobel e 12 santi, sui festoni delle manifestazioni pubbliche non si leggerà Merry Christmas
ma auguri per il Winter Light Festival, la festa della Luce d'Inverno.
La trovata della burocrazia comunale ha messo d'accordo nella critica i leader delle comunità religiose locali: «Semplicemente ridicolo» è il giudizio generale.
Sabir Hussain Mirza, presidente del Muslim Council di Oxford, ha detto all'Observer: «Questa è la festa alla quale tutti guardiamo una volta l'anno.
Cristiani, musulmani e fedeli di altre religioni, aspettiamo tutti il Natale. Personalmente sono deluso, offeso e anche arrabbiato: il Natale è speciale, non va ignorato e fa parte della cultura britannica». Per il rabbino Eli Bracknell «è importante conservare la tradizione natalizia, diluirla fa solo male all'identità di questo Paese».
L'idea di oscurare il Natale è venuta da Oxford Inspires, un'associazione benefica culturale. Un portavoce ha detto: «Nell'Oxfordshire abbiamo il
Winter Light che dura due mesi e comprenderà i servizi natalizi». Il vice capo del consiglio comunale ha cercato di minimizzare: «Ci sarà un albero di Natale in città, anche se lo chiameremo diversamente».
La polemichetta natalizia ormai in Gran Bretagna è diventata tradizionale. Due anni fa il ministero dell'Interno ebbe l'idea di spedire i biglietti d'auguri con la scritta Season's Greetings: auguri di stagione. Sulle cartoline campeggiava l'albero di Natale che ogni anno viene collocato al centro di Trafalgar Square a Londra, ma la parola Christmas era stata omessa, per non turbare nessuno. Eppure, lo stesso ministro (che all'epoca era lo scozzese John Reid), in un'intervista aveva appena detto: «Sono nauseato e stufo di questa correttezza politica che vorrebbe proibire alla gente di portare il crocifisso al lavoro».

Corriere della Sera 3.11.08
L'antichista attacca l'eccessivo ricorso all'«archeologia d'emergenza». Esce un volume che riapre un dibattito scientifico e politico
Andrea Carandini: basta «scavomania» non tutto va salvato
di Paolo Conti


«Troppi ostacoli dai Talebani della conservazione»

«Con gli scavi d'emergenza non preserviamo alcunché, né immagazziniamo conoscenze per le generazioni future. Accumuliamo solo una congerie bruta, sparsa e caotica di indizi non tradotti in cultura, che col passare del tempo sarà impossibile redimere, per cui non rimarrà che il danneggiamento alla risorsa archeologica». Un grande archeologo che se la prende con i colleghi archeologi, «colpevoli» di scavare troppo e, a suo avviso, inutilmente.
Andrea Carandini, classe 1937, insegna Archeologia classica e Storia dell'arte greca e romana all'università La Sapienza. Ed è uomo che ama (quasi un paradosso per uno studioso della sua materia) pensare al futuro e preoccuparsi dei posteri. Nel suo ultimo saggio in uscita domani da Einaudi ( Archeologia classica - Vedere il tempo antico con gli occhi del 2000, pagine XXIV-208, e 24) si ritrova intatto il coraggio di un cattedratico che sfidò «i Talebani della conservazione», secondo lui identificabili in Italia Nostra e dintorni, schierandosi ad agosto a favore della realizzazione del famoso parcheggio del Pincio a Roma: «L'Italia, da zero a quindici metri di profondità, presenta sempre vestigia romane o alto-medioevali. Cosa facciamo? Non viviamo più per le nostre civiltà sepolte? » Poi del parking non se ne fece nulla, ma Carandini rimane della sua idea. E viene da sorridere pensando a un piccolo conflitto in una illustre famiglia (il professore è figlio dell'ambasciatore Nicolò, campione dell'antifascismo, e nipote di Luigi Albertini, dal 1900 al 1925 direttore del Corriere della Sera). Andrea Carandini è fratello di Maria Antonelli Carandini, per anni instancabile presidente della sezione romana di Italia Nostra e tuttora una delle sue attivissime animatrici. Al suo posto ora siede Carlo Ripa di Meana, protagonista della vittoriosa battaglia anti-Pincio. Ma questa è tutta un'altra storia.
Ora Andrea Carandini nel volume godibilissimo per i continui rinvii letterari e non archeologici elegantemente collegati a alla sua disciplina (Proust, Sándor Márai, Gadda, Balzac, Calvino, e sono solo alcuni) contesta la scavo-mania del colleghi. Ovvero l'ansia di sottrarre alla terra ciò che è conservato da secoli nel caso si profili una «emergenza», cioè — per esempio — la necessità di decidere se permettere o meno un'edificazione. Meglio, scrive Carandini, «sfruttare le tecniche di indagine non distruttive. Cioè le foto aeree dell'area, la magnometria, il georadar, le tecniche della valutazione anche predittiva dei depositi archeologici per arrivare a una protezione e a un utilizzo controllato delle risorse storiche del sottosuolo». In questo modo, argomenta Carandini, si può offrire una risposta senza scavare. Perché «gli archivi sottoterra sono potenzialmente vivi, resuscitabili. Gli archivi degli scavi d'emergenza, al contrario, sono tracce di documentazione da riscavare con possibilità di far rivivere il passato straordinariamente ridotte».
Il professore ironizza con le abitudini di certi suoi colleghi: «Dopo tanti scavi d'emergenza l'archeologo funzionario, convinto di aver bene operato, va tranquillo in pensione anche se la documentazione riposa magari sotto il suo letto o nascosto in un angolo introvabile di un deposito di pratiche. Pubblicare vecchi scavi e vecchie documentazioni è opera meritevole, ma chiunque abbia pratica dello scavo e della sua edizione sa che si trova fra le mani un estratto esangue di quanto molto più riccamente la matrice terrestre preservava ». Un esempio tra tutti, i contestatissimi scavi di piazza della Signoria di Firenze: «Uno dei più gravi misfatti archeologici imputabili all'amministrazione statale».
Il giudizio finale di Andrea Carandini contro la sua categoria accademica è durissimo: «Questi scavi, più che contribuire alla costruzione della memoria, fanno parte essi stessi di un problema che contribuiscono ad aggravare. La sua distruzione ». Perché gli scavi d'emergenza «più che mitigare perdite d'informazione sono protagonisti attivi di quelle stesse perdite, similmente alle distruzioni operate da sterri dovuti a un'edilizia incontrollata o all'usura lenta e nascosta del tempo». E ancora: «Gli innumerevoli scavi d'emergenza — nessuno sa calcolare quanti sono — sono dovuti ad avidità di conoscenze approssimative, al volersi mettere il cuore in pace rispetto alle maligne forze della vita e a prassi burocratiche consolidate e mai più ripensate ». Carandini non abbassa la guardia nemmeno contro i «Talebani della conservazione» che lui individua in funzionari statali formati in «madrasse della tutela» i quali «a tutto della vita si oppongono, in sterile e costosa resistenza, e che hanno l'unico scopo di vincolare l'intero Paese, come se separare dalla vita implicasse anche conservare». E poi (riecco la polemica «familiare») ci sono «associazioni benemerite e vecchiotte» (come non pensare a un identikit di «Italia Nostra») e «la sinistra radicale acriticamente venerata». Tutto carburante che può rinvigorire, secondo l'analisi di Carandini, il movimento di destra «favorevole alla deregulation che vorrebbe sbaraccare la tutela impoverendola e abbandonare il Paese a un'anarchia liberistica». Quindi attenzione, avverte il professore, all'universo in cui «lo sviluppo della vita appare sempre nemico della conservazione e dove il libero mercato è ritenuto comunque un satana: sono qui all'opera antiamericanismo, anticapitalismo, statalismo, avversione per una democrazia partecipata ». Potrebbero essere loro i più forti alleati di un distacco tra Paese reale e universo chiuso della tutela, aprendo il varco ideale per la deregulation totale. I Talebani della conservazione, sorride Andrea Carandini, sono avvisati.

l'Unità 3.11.08
Intervista a James Hillman
Addio giovani passivi, stavolta l'America la salveranno i ragazzi
di Roberto Rezzo


«Addio giovani passivi Stavolta l’America la salveranno i ragazzi»
«Obama più che a una figura paterna fa pensare a un insegnante John McCain piuttosto è il classico archetipo del padre-leader: io vi proteggo, ma si fa come dico io»

Il decano degli psicoanalisti saluta una nuova rivoluzione americana: il ritorno dei giovani alla politica. James Hillman, classe 1926, non ha paura di scommettere sul futuro. In quest'intervista all'Unità parla del movimento che ha spinto Barack Obama sulla soglia della Casa Bianca e dell'impatto simbolico che questo risultato sta facendo sentire in tutto il mondo. «Obama non mi sembra una figura paterna. Rappresenta piuttosto la figura dell'insegnante. Cerca di insegnare a chi lo ascolta come si affronta un problema».
Dottor. Hillman, da un punto di vista strettamente professionale, qual è l'aspetto di queste elezioni presidenziali che trova più interessante?
«Il fatto straordinario è che sono coinvolti i giovani. Per molte elezioni abbiamo avuto una gioventù passiva. Non avevo mai visto tanti ragazzi in un contesto di ribellione nei confronti dei loro genitori. Ormai eravamo abituati a vederli seguire l'orientamento politico delle famiglie. Soprattutto nelle regioni del Midwest. E ora siamo davanti a un vero e proprio confronto generazionale. Al contrario di quanto avviene in Italia e in Francia, questi giovani non scendono a manifestare in piazza. E le poche volte che lo hanno fatto sono stati ignorati dai media. Sono stati catturati da Obama perché rappresenta una nuova generazione. Queste elezioni non sono tanto a proposito del genere o della razza. Hanno al centro un fenomeno generazionale».
Se il colore della pelle è passato in secondo piano, allora è reale quella società post-razziale che i media rappresentano con tanto entusiasmo?
«Credo che il concetto di società post razziale sia vero proprio per i giovani. Dalle metropoli urbane alle periferie, si vestono come i neri, parlano lo stesso slang, ascoltano musica hip hop. E un cambiamento c'è stato anche all'interno delle classi lavoratrici. Bianchi e neri lavorano da anni fianco a fianco negli ospedali, nelle fabbriche, nei trasporti. È un fatto che ha contribuito a cambiare l'atteggiamento. La razza non è più il tema centrale. Eccetto per pochi razzisti, che indubbiamente ci sono. D'altronde anche paura e paranoia continueranno sempre a esistere. Bisogna tenere presente una differenza tra l'atteggiamento che c'è in Europa nei confronti degli immigrati turchi o africani. In America gli afro americani sono iniziati ad arrivare prima della guerra d'Indipendenza. Non sono gli ultimi venuti e nemmeno una presenza recente».
Da Freud in poi sono stati scritti fiumi d'inchiostro sul rapporto tra politica e psicoanalisi. Ci può spiegare in che consiste in una battuta?
«La psicoanalisi non ha nessun effetto diretto sulla politica. Dal punto di vista individuale, possiamo dire che la maggior parte di chi è stato in analisi ha un atteggiamento più critico. Ma l'idea di psicoanalizzare la politica non funziona. Semmai c'è una colpa che la psicoanalisi ha avuto da un secolo a questa parte: allontanare la gente dalla politica. Spostando l'accento su aspetti come l'infanzia, la sessualità, tutta la sfera dell'individuo. E la psichiatria ha fatto ancora più danni. Attraverso la terapia farmacologica si previene che il paziente si comporti da ribelle. È così comodo riuscire a fare in modo che qualcuno accetti tutto».
C'è una scuola di pensiero tra gli strateghi elettorali che vuole il presidente degli Stati Uniti come una figura paterna. Dev'essere qualcuno in cui l'americano medio possa identificarsi. E qualcuno da cui accetti di essere comandato. Le pare una similitudine convincente?
«Obama non mi sembra una figura paterna. Rappresenta piuttosto la figura dell'insegnante. Cerca di insegnare a chi lo ascolta come si affronta un problema. McCain piuttosto è il classico archetipo del padre - leader: "Io vi proteggo, ma si fa come dico io". I repubblicani si sono trovati in una posizione molto difficile. L'unica possibilità per McCain era quella di ricompattare la base religiosa. E poi c'è stato un tentativo di scioccare l'opinione pubblica dal punto di vista psicologico. Per contrastare il fenomeno Obama, hanno cercato qualcuno di ancora più radicale, straordinario e sorprendete. Ed è saltata fuori Sarah Palin come vice di McCain. Ma probabilmente Palin si sarebbe trovata meglio con Berlusconi».
Questa è stata la campagna di tutti i record. Anche sotto il profilo degli investimenti nella comunicazione. Nella pubblicità commerciale il sesso è il messaggio subliminale costante. Quest'impostazione funziona anche in politica?
«Da questo punto di vista la politica americana è più che cauta. L'unica immagine considerata accettabile per il pubblico è quella del marito e della moglie fedeli, mano nella mano, figli al seguito. A ben guardare, la repressione di ogni possibile sessualità è uno scandalo. Soltanto i ragazzi hanno rotto questo tabù: mi vengono in mente delle magliette che ho visto in giro, quelle con la scritta "I Got a Crush on Obama", mi son presa una cotta per Obama».
L'America è sempre stata la bussola in fatto di tendenze culturali. Eleggendo Obama come presidente, che messaggio lancia agli occhi del mondo? Come cambia la percezione a livello internazionale?
«Siamo di fronte a un fenomeno enormemente interessante. Quello che abbiamo di fronte non è solo la crisi economica e il disastro ambientale. Con Obama siamo di fronte a una rivoluzione. Basta solo la sua immagine: bello, alto, nero. È qualcosa destinato ad avere un impatto gigantesco sulle popolazioni dell'Africa, dell'Asia e del Medio Oriente. Ora a un passo dalla Casa Bianca non c'è più il solito vecchio uomo bianco che da Eisenhower a Reagan è sempre stato associato con il presidente degli Stati Uniti. È un fatto epocale. Nonostante Obama sia un pragmatico e non un rivoluzionario. Ma è qualcuno con una visione collettiva della società e questo credo sia la caratteristica fondamentale che tutti d'istinto possono apprezzare in lui».

James Hillman è considerato uno dei più originali psicoanalisti del XX secolo. Americano di nascita, ha avuto una formazione culturale europea. Dopo il servizio militare nella US Navy durante la Seconda guerra mondiale, studia a Parigi, Dublino e Zurigo. E ottiene il diploma dello Jung Institute, per poi dirigerne a lungo il centro Studi. Tra l'imponente produzione scientifica, saggistica e letteraria, una ventina di volumi sono diventati best-seller internazionali. È stato descritto come uno psicologo indipendente, un mago, un visionario, un maniaco, un filosofo contemporaneo. Molti suoi colleghi lo guardano con sospetto. Perché è sempre stato un pensatore profondamente sovversivo, una spina nel fianco per gli psicologi rispettabili. Ha dichiarato: «Il terapeuta è come nella trincea, perché deve fronteggiare un terribile ammontare dei fallimenti sociali, politici ed economici del nostro sistema. Si deve occupare di tutti i rifiuti e i fallimenti umani; lavora duro senza molti riconoscimenti e le ditte farmaceutiche stanno tentando di eliminarlo».

l’Unità 3.11.08
Picasso? È un gioco da bambini
Come ammoniva in una filastrocca l’intramontabile Rodari, l’arte è una ricchezza per tutti i bambini, ricchi e poveri, gialli e neri o a pois. Tra collane e piccoli volumi l’editoria italiana lo sa
di Manuela Trinci


«Se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio capisco» recita un proverbio cinese molto caro a Bruno Munari che - come si sa - si divertiva a raccontare attraverso testi, figure e visioni, il «fare» «disfare» e «rimontare», delle immagini e degli oggetti «impertinenti», coniugando così la didattica dell’arte, il linguaggio e l’emozione artistica, alla carta stampata: ai libri. E il libro come strumento privilegiato per l’approccio ai linguaggi espressivi dell’arte è anche al centro del progetto europeo di didattica dell’arte contemporanea, «Didart», coordinato da Silvana Sola (www.didart.net)
Giocare, dunque, con l’arte, risvegliare curiosità e meraviglia attraverso libri e librini, inventando nuove invenzioni, perché, suggeriva Gianni Rodari, «le cose che esistono già non c’è bisogno di disegnarle»! Potete disegnare un albero, scriveva Munari (nel suo libro - che compie trent’anni - Disegnare un albero, ed. Corraini) con le dita, col pennello da barba, con la cioccolata, un albero comunque «diverso da quello che io ho disegnato». Anche il sole (altro imperdibile classico Disegnare il sole, Ed. Corraini) ognuno lo farà come vuole, anche con una fetta d’arancia o con la polenta, annotava il Maestro, volendo affinare e liberare lo sguardo goloso, lucido e insieme fantastico dell’infanzia.
TAGLIA E INCOLLA
Arte, dunque, tra le mani, come suggerisce già dal titolo la collana, che si avvia a compiere 10 anni, ideata dall’editore Lapis. Laboratori, immagini da gustare o da incollare, ritagliare, scolpire, deformare, reinventare, librini monografici e deliziosi che da Van Gogh a Degas, da Morandi a Cézanne a Monet sino all’ultimo su Renoir, propongono una carrellata per sguardi infaticabili, una traversata artistica a bordo della nave corsara della curiosità, che consente ai bambini una partecipazione attiva, usando tutti i sensi.
E se è condivisibile l’affermazione provocatoria di Grazia Gotti (curatrice della collana «L’Occhiotattile», Motta Junior, e del settore Arte della Giannino Stoppani) «L’arte non va insegnata», si può allora provare a spiegarla! Proprio come si propongono in maniera nuova con svaghi di carta le case editrici Sinnos e Biancoenero, unite nel progetto della collana Quadri fogli. Un quadrato - 16 per 16 centimetri che si apre diventando quarantesi per quarantesi - che propone la riproduzione di quadri famosi: dalla Medusa di Caravaggio a Guernica di Picasso all’imperdibile I Baffi della Gioconda di Duchamp. E via via che il quadrato si apre, angoli inclusi, l’opera d’arte svela i suoi più arcani segreti.
Cacciatori di attimi luminosi, i ragazzini si appassioneranno a questi mondi di poesia sfrenata, di parole dipinte. Bellissimo e coinvolgente - edito da Arka - per la penna di Capatti e di Adami e il tratto inconfondibile di Octavia Monaco, il quadro della personalità irrequieta di Gauguin (in Gauguin e i colori dei tropici), o l’avvincente percorso, nato da una casuale «macchia» di caffè, dentro ai luoghi frequentati da Mirò (in Con gli occhi di Miró? di Franceschini, Ed. Artebambini), o il bellissimo Piccola Macchia, un omaggio a Mirò e a Lionni, edito dalla Giannino Stoppani.
TRAVESTIRSI DA PITTORE
E travolgente potrà risultare travestirsi da Picasso, disegnare con lui un volto, un fiore e prendere al volo la forma di una colomba, (in Disegnare con Pablo Picasso di Salvador, Ed. Il Castoro), o rimettere «ordine» nel caos espresso dall’arte, nei dipinti più «a soqquadro» della storia, in un gioco visivo, surreale e comico, inventato dal disegnatore e cabarettista Ursus Wehrli (in L’arte a soqquadro, Ed. Il Castoro).
Ma pure quell’insopportabile completamento di brutti e tristanzuoli libri, attività quotidiane che i genitori disperati attivano nelle giornate piovose o afose, possono diventare, invece, incontri mobili con scarabocchi d’artisti, con libri talora esilaranti da completare e colorare: Scarabocchi, certo, ma di Taro Gomi (ed.Corraini) o di Catlow (con Sai Scarabocchiare? Ed.Magazzini Salani). Occhi mobili, sguardi visionari, aggrappati e aggrappanti, che ascoltano, che toccano… tattili, come «Occhiotattile» è il nome della collana d’arte della Motta Junior che mette in romanzo storie di artisti famosi, reinventandone e ricuvendone infanzia e giovinezza, in un taglio iconografico originale frammisto a fotografie. Tra l’altro, l’ultimo titolo della collana, Uno studio tutto per sé (dedicato a donne appassionate d’arte e diventate celebri come la Delaunay o la de Lempicka o la Kalho eccetera) si è aggiudicato Premio Pippi 2007 - 2008. Divertirsi poi a disegnare senza mai staccare la matita dal foglio è il suggerimento - da seguire - dello spassosissimo Linea Bestiale di Osvaldo Cavandoli (Gallucci Ed.). Per concludere, l'arte è una gran ricchezza per tutti i bambini, ricchi e poveri, gialli neri o a pois, come ammoniva Rodari in Il pittore illustrato da Valeria Perone, Emme Ed.