mercoledì 5 novembre 2008

l’Unità 5.11.08
Blitz fascista a «Chi l’ha visto?» per il filmato degli scontri
di Eduardo Di Blasi


Un video inedito degli scontri innesca la risposta dei «neri». E conferma: la ricostruzione del Viminale che ha dato la colpa ai ragazzi di sinistra ha ignorato che i primi a picchiare sono stati quelli del Blocco Studentesco.
Le immagini raccontano la mattina di mercoledì scorso in Piazza Navona, giorno di proteste contro il ministro dell’Istruzione e di uno scontro di piazza tra esponenti di destra e di sinistra.
In primo piano compare un noto esponente del Blocco Studentesco che, cintura in mano, è alla testa di una carica che si abbatte contro un gruppo di studenti liceali. Le immagini sono rallentate. La voce fuori campo di Federica Sciarelli dagli studi di Chi l’ha visto? avvisa: «Questo è accaduto prima di quello che voi avete visto nei giornali o durante i telegiornali». Nessun invito a riconoscere quelle facce, nessuna richiesta di rintracciare «scomparsi» nella calca. Sono pochi minuti, in coda alla puntata, ma bastano per mobilitare i militanti di Casapound, il centro sociale di destra, vicino alla Fiamma Tricolore, che occupa uno stabile del demanio, ex Invalsi, nei pressi di Piazza Vittorio, a Roma.
In trenta-quaranta marciano verso gli studi di via Teulada. Superano i tornelli d’entrata. Lanciano ortaggi (il video del blitz verrà anche messo in rete con piglio futurista e colonna sonora dei Motorhead). La guardia giurata all’ingresso li informa che a quell’ora negli studi del programma non c’è nessuno. E loro si allontanano, prima dell’arrivo della polizia. Con il presidente della Rai e il direttore generale che chiedono lumi al ministro dell’Interno e al capo della polizia.
La mattina seguente la segreteria telefonica del programma registra quattro telefonate di minaccia che l’ufficio stampa della Rai invia alle agenzie. La prima è la più strana: «Questa è la segreteria nazionale di Forza Nuova, abbiamo visto il vostro numero del 3 novembre in cui pubblicate foto di persone in cui chiedete a Chi l’ha visto? dove abita e il nome e cognome. Noi facciamo lo stesso su di voi, su tutti voi. Chi ha visto voi, chi lavora con voi, dove abitate, nome e cognome. E poi verremo sotto le vostre case». Roberto Fiore, segretario del movimento, allontana da sè i sospetti: «Le telefonate non appartengono in qualsiasi modo allo stile ed alla linea che, particolarmente ora, contraddistingue FN». Ma condanna fermamente la presunta «schedatura tv». È lo stesso piglio che tiene il leader di Casapound Gianluca Iannone. Dopo che il centro sociale ha parlato di «pacifica passeggiata» all’interno della Rai, Iannone afferma: «Siamo pronti a ritornare perché se gli attacchi vanno sul personale, violando anche la privacy, noi diventeremo sempre più cattivi». Non si comprende bene quale diritto alla privacy possano invocare in una piazza piena di telecamere, cinquanta persone che brandiscono una cintura. Non si comprende, soprattutto, vedendo i video che in questi giorni lo stesso movimento del Blocco Studentesco, vicino a Casapound e alla Fiamma Tricolore, sta diffondendo su Youtube, con tanto di circoletti rossi a indicare questo o quell’esponente dell’altra parte presente in piazza.
La vera notizia che emerge dalle immagini inedite di Chi l’ha visto? (cui nei blog vicini ai movimenti di destra si tenterà di reagire con un ulteriore video di quella giornata) è che l’informativa alla Camera del sottosegretario all’Interno Francesco Nitto Palma ha ignorato, come già segnalato anche da questo giornale, la prima parte della mattinata di Piazza Navona: quella in cui la componente di destra presente sulla corsia Agonale tra piazza Navona e la facciata del Senato, ha provato a forzare lo sbarramento degli studenti.
Il Pd annuncia con Emilia De Biasi un’interrogazione parlamentare per far luce sull’accaduto. Marco Minniti, ministro ombra all’Interno chiede sia fatta subito massima chiarezza: «L’assalto squadristico alla redazione di Chi l’ha visto?, operato da una trentina di persone arrivate indisturbate fino alla Rai dove hanno eluso il servizio di sicurezza interno, è gravissimo e inaccettabile. Nessuna sottovalutazione è possibile, tanto più in presenza di un così pesante attentato contro la libertà di stampa e informazione». È la stessa linea di Cuillo, Giulietti e Vita che parlano apertamente di «assalto squadrista».
Inaspettatamente sul versante opposto alcuni esponenti della Pdl che da Domenico Gramazio ad Alessandra Mussolini protestano contro la presunta «gogna mediatica» di Rai Tre. Si distinguono, nel secondo pomeriggio, Iole Santelli, Fabrizio Cicchitto e Italo Bocchino: «Coerenza vuole - afferma la prima - che si condanni, sempre e comunque con fermezza, ogni genere di atto di aggressione, quale che ne sia la matrice. Quando si sceglie di adottare, come forma di manifestazione del proprio pensiero, la violenza, ecco che la protesta si trasforma in un boomerang e le conseguenze possono essere oltremodo deleterie».

l’Unità 5.11.08
Gelmini vuole fermarsi. Ma il problema è Tremonti
di Natalia Lombardo


Era annunciato un intervento del ministro che poi non c’è stato. Ma il premier non vuole altre rogne. E sta allentando la morsa dei tagli su scuola e università, anche se Tremonti fa molta resistenza.
Impaurito dal calo di consenso Berlusconi non fa autocritica ma si è convinto, e ha convinto Mariastella Gelmini, ad affrontare con tempi lenti e scaglionati per il pacchetto "università". Ma «il problema è Tremonti»: è la voce comune nella maggioranza, perché il ministro dell'Economia non vuole cedere un euro dalla finanziaria triennale. Perché i tempi si allungano con un disegno di legge da discutere in Parlamento. E sia dalla Lega che da An si chiede di fare tagli "mirati", il che rallenterà l'incasso che Tremonti ha previsto, anche se non si modifica il saldo finale. Ma anche la via del ddl sarà "corretta" andando avanti ancora a colpi di decreto per stabilire i nuovi criteri per i concorsi. Decisione esaltata da Maurizio Gasparri come lotta "alle baronie" ma che rischia di sospendere alcuni concorsi. Mariastella Gelmini non si fa vedere in giro, ha rinunciato a vari appuntamenti e ad annunciare le novità, ma ieri mattina è andata a Palazzo Grazioli, a casa del premier per il vertice con i capigruppo del Pdl e della Lega. «Non dobbiamo farci intimidire», ha detto Berlusconi agli altri, però corregge il governo sulla "campagna di comunicazione" che, d'ora in poi, si dovrà fare. Quindi "discutere" prima con studenti e professori per limitare le proteste (di ieri quelle del rettore della Statale di Milano). La Lega ieri ha voluto dire la sua anche sui tagli previsti dal decreto sulla scuola: uscendo dal vertice di due ore, il capogruppo alla Camera, Roberto Cota annuncia un «accordo nella maggioranza» e incassa una certezza: «le scuole di montagna non si toccano». Ma la bresciana e ciellina Gelmini deve vedersela anche con l'opposizione di Formigoni, presidente della Lombardia. Anche An ha puntato a frenare: evitare tagli «orizzontali» sull'Università, scegliere «dove tagliare» correggendo la Finanziaria. Premiare gli Atenei «virtuosi» (il che vuol dire investire soldi, il che preoccupa il ministro dell'Economia) e eliminare «quelli con meno di cinquanta iscritti». Così la tabella di marcia è più diluita: linee guida nel consiglio dei ministri della settimana prossima, per il testo in parlamento c'è tempo.

l’Unità 5.11.08
Il Pd eil linguaggio del movimento
di Chiara Sereni


Chiunque abbia visto uno qualsiasi dei cortei che attraversano le città si è accorto del tono e del linguaggio differenti di slogan, poster, striscioni. Una generazione nuova sboccia, sorprendente come ogni primavera, nelle strade e nelle piazze. Dev'essere per questo che Bella ciao, canzone simbolo di buona parte del secolo scorso, quando emergeva qui e là l'ho sentita stonata: funerea anche quando condita di ironia, fuori posto anche quando non si può non definire fascisti slogan, simboli, protervie che appaiono quelli di sempre. E viene dunque automatico appellarsi all'antifascismo di sempre.
Così come torna automaticamente alla memoria, a chi come me appartiene alla generazione del Sessantotto, quanti disastri comportò allora e dopo la sostanziale incapacità del Pci di dialogare con il movimento, impoverendone con la propria assenza, e fino alla brutalità, il linguaggio sociale e politico. La Storia non si ripete mai nello stesso modo: né quella dei fascisti e dei fascismi, né quella del Pci che non esiste più ma ha molti eredi, né quella di chi si affaccia alla ribalta pubblica per la prima volta, con qualche entusiasmo da spendere. È indispensabile che anche quella incapacità di dialogo non abbia a ripetersi. Qualche passo avanti si è già fatto: rispetto al tradizionale atteggiamento del Pci (i movimenti erano qualcosa su cui mettere il cappello, o in alternativa "estremismo malattia infantile del comunismo"), il Pd ha dato spazio ad un interessamento attento, rispettoso, mai prevaricatorio, e questo è stato ad oggi ben percepito da tutte o quasi le componenti.
Non basta. Perché la povertà di linguaggi politici e sociali è ben più drammatica oggi che allora, e per costruirne di nuovi ci vorrebbe un tempo che non c'è: quel che è nuovo incalza e non aspetta. Per cominciare a pensarli, c'è qualcosa da tenere a mente, soprattutto chi ha sessant'anni o giù di lì: come li vedevamo, noi ventenni di allora, i nostri genitori? Talvolta testimoni di memoria, certo mai architetti del nostro futuro. Noi no. La nostra generazione sembra si pensi costantemente giovane e protagonista, e in questa chiave abbiamo spesso "sollevato" i nostri figli del compito di costruirsi la vita.
Quelli che ora vengono alla ribalta sono ormai i nostri nipoti: facciamo più di un passo indietro, allora, testimoni senza intrusioni. Liberi da noi, forse diventeranno protagonisti davvero e fino in fondo: senza più bisogno di sceglierne qualcuno da paracadutare in questa o quell'altra lista per vestirci, pascolianamente, di nuovo.

l’Unità 5.11.08
Sinistra radicale. «L’unità sia un valore. E via con le primarie»
Il messaggio: offriamo sponda alle piazze e non ci rinserriamo in una logica di pura testimonianza
Il Pd? Scelga: gli imprenditori o i sindacati
Intervista a Franco Giordano


Ha tempo, come tutti quelli a sinistra del Pd, fuori dal Parlamento. «Leggo, scrivo: un libro su noi, e sui due anni del governo Prodi, uscirà fra un mese». Un necrologio, si potrebbe scherzare. «Eppure il tempo non è solo passato: è cambiato, ci offre un’occasione». Si guarda intorno, si affaccia alla finestra, Franco Giordano, ex segretario di Rifondazione, ex deputato, ex che vuole smettere di essere ex: «Vedo passare la nostra gente: studenti, operai, sindacati. Ci chiedono e ci impongono di guardare avanti con loro. Non svalutiamo le due grandi manifestazioni. Svisceriamo il sogno comune, a loro e al popolo del Pd: il meccanismo identitario».
E voi litigate.
«E io dico, secco: andiamo uniti alle Europee».
Per forza, sbarrano al 5%: o uniti o niente.
«Uniamoci in-di-pen-den-te-men-te dalla legge elettorale. Non credo che passerà la legge antidemocratica che vuole Berlusconi. E se forzerà la mano, contesteremo. Ma non dobbiamo aspettarla: decidiamo adesso».
Uniti con chi?
«Proponiamo la densità maggiore possibile a sinistra del Pd. Chi ci sta».
Una nuova Sinistra Arcobaleno? Dopo l’ultima cocente sconfitta?
«È cambiata la stagione, e abbiamo elaborato la sconfitta, più di altri, forse anche troppo. Siamo di fronte ad un problema nuovo, politico, la necessità di una programmazione antiliberista per una società che sta pagando sulla sua pelle la vittoria della destra. Non possiamo coltivare micro intese: se Ferrero cerca di allearsi con Diliberto, chiudendo il recinto e così la partita, significa che vuole la scissione dentro Rifondazione».
Non eravate voi - il gruppo Vendola - gli scissionisti?
«È un’associazione che costruiremo e coltiveremo, ma adesso il calendario impone un’altra visione: la sinistra unita oggi è un valore di riferimento».
Voi e il Pd.
«Vedo là una dialettica poco interessante, per niente riformista e non voglio comunque interferire, anche se prima o poi dovranno scegliere fra imprenditori e sindacati. E anche per loro sarebbe necessario legare il dibattito interno alla società. Non scelgo interlocutori e rilancio un confronto programmatico - ognuno partendo dalle proprie posizioni e profili - e ascolto con piacere Franceschini dire che serve un confronto serrato fra le opposizioni».
Posizioni e profili: siamo sempre lì.
«No, se sapremo diventare sponda politica del Paese che soffre, si arrabbia. Degli studenti, della crisi, della rivendicazione dei diritti civili. Ci sono settori che fuggono dall’egemonia di destra, la spaventano, la sollecitano. E sento la morsa delle recessione: dobbiamo marcare proposte vere, altrimenti rischiamo l’insussistenza».
Gli altri - Berlusconi e la Lega - sembrano meno sottili: e vincono.
«Siamo stati sconfitti culturalmente. E adesso - a sentir parlare Maroni - la scuola serve loro per chiudere la partita. E cosa devo dire? Mi ripeto: la sinistra non si rinserri in una logica testimoniale, marginale. Saremmo due volte colpevoli, adesso, che la società si muove. Che torna in campo il conflitto sociale».
Voi tutti insieme, d’accordo. Tutti fuori da Montecitorio, chissà che ressa per Strasburgo. Come si fa?
«Nel modo più democratico che conosco: con le primarie. Un percorso partecipato, coinvolgente. Per presentarsi forti. La formazione di questa “nuova” sinistra è decisiva per aggregare e convincere».

Corriere della Sera 5.11.08
Il doppio standard della crisi
Neo-socialismo in aiuto dei ricchi Il duro mercato per tutti gli altri
di Ulrick Beck


Molti capitalisti anglosassoni stanno diventando fautori di un dirigismo di Stato di stampo cinese

Nel mio libro Conditio Humana. Il rischio nell'Età Globale (Laterza) metto a confronto tre situazioni di rischio globale: il cambio climatico, il terrorismo e il sistema finanziario, in vista del loro storico potere di cambiamento. Devo tuttavia dire che molte delle cose che ora accadono nel teatrino reale dell' economia e della politica mondiale vanno ben al di là di quel che ero riuscito ad immaginare chiuso nel mio studio. Tutte e tre le crisi non possono essere risolte dallo Stato nazionale. Tuttavia, nel caso della crisi della finanza emerge in tutta la sua chiarezza il potere rivoluzionario della situazione. Dalla sera al mattino non vale più il principio di fondo dell'Occidente, ovvero il libero mercato.
Fino a qualche giorno fa volevamo salvare il mondo intero lasciandolo ad un indisturbato sviluppo, ciò è stato dannoso. Proprio coloro che finora avevano rifiutato con veemenza ogni intervento statale, dalla sera al mattino si sono convertiti. Nei partiti i politici si stanno trasformando da neoliberali in socialisti statalisti, almeno per quanto riguarda singoli punti. Mettono a disposizione dalla finanza pubblica delle somme finora inimmaginabili. Molti rappresentanti del capitalismo anglosassone del laissez-faire sono sulla strada giusta per diventare fautori di un dirigismo capitalistico di Stato di stampo cinese.
In realtà l'economia di mercato sociale è soltanto una minuscola variante nel sistema capitalistico. Proprio negli ultimi anni in Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, ciò che è sociale è stato piuttosto espulso dall'economia di mercato. Si tratta inoltre di un modello legato del tutto allo Stato nazionale. Non è affatto preparato alla situazione globale. Quel che ora sta arrivando è uno Stato sociale in aiuto del capitale finanziario. Ciò avrà sicuramente un ruolo importante nei prossimi anni. Da un lato si mette in piedi un socialismo spendaccione per i ricchi, per l'economia e per la finanza. Dall'altro per i lavoratori dipendenti è pronta l'ideologia di un nudo neoliberalismo. La liberalizzazione dei mercati continuerà tuttavia ad essere eseguita contro coloro che hanno un impiego precario. Le contraddizioni lampanti, in cui si ingarbugliano i politici di tutti i Paesi, non ci sono ancora tutte chiare. Se è fallita l'ideologia del mercato che tutto aggiusta, allora molte riforme degli ultimi anni sono fallite. Anche ad esempio la riforma dell'università. La privatizzazione di ampi settori di quelli che una volta erano i compiti dello Stato metterà a rischio la nostra infrastruttura, il fondamento della nostra ricchezza.
Vorrei sottolineare l'ironia strutturale della situazione. Vi è una certa comicità nel fatto che sia stato proprio l'illimitato successo del capitalismo finanziario a metterlo in crisi. Dal momento che la maggior parte degli approcci sociologici partono dal presupposto di una stabilità ed espansione della modernità occidentale e del suo sistema economico, per lo più scevre da crisi, come si spiega il potenziale di rovesciamento proprio di questa situazione? Gli uomini del fare, ad esempio il capo della Deutsche Bank Ackermann, parlano di un rischio sistemico. Questo attira l'attenzione del sociologo. Ai suoi occhi non è tanto questione di fattori che riguardano la psicologia individuale e sociale, tanto discussi in queste settimane e senza'altro presenti, come ad esempio l'avidità che ha suscitato molto scandalo, ma quel che conta è piuttosto il fatto che l'economia di mercato, sprigionata, privata dei confini, globalmente liberata dalle prescrizioni dello Stato nazionale, spinge il proprio sistema in una crisi esistenziale. Da un punto di vista della sociologia del rischio si tratta sempre di anticipazioni. Con il rischio non si intende la catastrofe. Il rischio è l'anticipazione della catastrofe nel presente, affinché venga evitato il peggio, che in nessun caso deve verificarsi. Quindi occorre inscenarlo. Esageriamo nel descrivere la situazione, la paragoniamo al crash del 1929 e alla successiva depressione degli anni Trenta. Ci proiettiamo l'immagine del fantasma, affinché si mobilitino le forze per impedirne l'ingresso nel mondo reale del XXI secolo. Così avviene involontariamente un salto quantico della politica dal paradigma nazionale a quello transnazionale. La distinzione tra nazionale ed internazionale che sorregge la visione del mondo finora in auge viene dissolta e almeno a tratti sostituita da una politica interna mondiale, in cui i sistemi globali di regole del potere, tra economia e Stato, sono messi in movimento e devono essere ridiscussi. Da noi ciò si concretizza nel fatto che all'improvviso si fanno cose che poco prima erano ancora del tutto inimmaginabili. Nel giro di pochi giorni la Repubblica Federale di Germania si fa improvvisamente garante per la somma di 500 miliardi di euro. In un nonnulla il tutto attraversa le istanze parlamentari.
Si agisce in una condizione di panico, del non-sapere, anzi, del non-poter-sapere. Si tratta infatti di una situazione nuova. Non sappiamo quasi nulla al riguardo. Nel 1929 — che viene portato sempre come esempio — vi erano globalmente condizioni di tutt'altra natura. In verità non abbiamo nulla di veramente paragonabile; e l'esperienza della catastrofe dell'umanità, su cui potrebbe fondarsi il giudizio razionale, va in ogni caso impedita. È interessante che in questa situazione del non-sapere— che riguarda anche la scienza economica — e della massima catastrofe che viene evocata, si indichi all'improvviso lo Stato, fino a poco fa scritto con la lettera minuscola, come l'attore centrale che tutto deve aggiustare. È lo Stato che deve decidere sullo stato d'eccezione. Spenderà miliardi senza che nessuno potrà dire con certezza se ciò sarà d'aiuto. Nessuno ha poi la minima idea di quali saranno gli effetti collaterali.
Da dove verranno i soldi? Certo non dalle banche americane. Cinesi, arabi, russi concederanno crediti all'Occidente. Non posso immaginare che questo non comporti uno spostamento nei rapporti di forza economici e politici globali. Ma di questo a malapena si parla da noi. Negli Usa invece sì. Le banche sono nella condizione di coloro che ricevono assistenza sociale e come loro non vogliono doverla mendicare, ma avervi diritto. Preferirebbero che i miliardi venissero loro imposti. Rischi globali mettono in questione il bisogno fondamentale dei cittadini di avere sicurezza e ordine. Si tratta della anticipazione di uno stato d'eccezione che non giunge dal di fuori, dal nemico, ma che proviene dal centro e riguarda tutti, che ha quindi dimensioni cosmopolitiche. Esso mette in questione l'immagine del mondo finora in auge riguardo alla politica, l'economia, la società e la loro cooperazione. Ne va dell'intero. Dell'intero globale. Non si risolve nulla con i mezzi dello Stato nazionale. Mi affascina in questo il momento cosmopolitico. Costi quel che costi si deve agire al di là dei confini. Il consenso deve coinvolgere l'altro, il nemico. Non possiamo comprendere la nostra stessa situazione, se non impariamo a vedere il mondo con gli occhi degli altri. E la Cina potrebbe approfittare di quello che sta accadendo. C'è sempre chi ne approfitta. Obama ad esempio ha sicuramente conquistato punti presso gli elettori attraverso la crisi della finanza. Sicuramente in America ora si percepisce più chiaramente la perdita di potere degli Usa nei confronti della Cina, di quanto non avvenisse qualche mese fa.
Tempo fa scrivevo: «Ora vale l'inversione del principio di Marx: non è l'essere che determina la coscienza, la coscienza della nuova situazione determina le possibilità di potere degli attori statali». Questo per certi versi si è verificato, per altri no. Anche la situazione del pensiero è cambiata. La premessa, che il neoliberalismo condivide paradossalmente con il neomarxismo e per cui l'economia dà quel muro del suono che non può essere violato dalla politica, perché essa è e rimane l'ancella dell'economia, è sbagliata. Tutti quelli che hanno responsabilità politica parlano improvvisamente della «regolazione» o addirittura della «costituzione» dei mercati finanziari mondiali, usano quindi in modo disinvolto parole finora lebbrose. Si ricerca con urgenza un nuovo Keynes. La teoria economica del vecchio Keynes, che ovunque vive ora la sua ripresa, era indirizzata alle economie del dopoguerra organizzate a livello nazionale. Nell'epoca dei mercati globali ciò è antiquato. Quel che allora prese piede in Europa aveva piuttosto il carattere di un coordinamento di misure nazionali, non portava avanti l'Europa, né aumentava il suo peso.
A gennaio sono stato ospite del presidente francese Nicolas Sarkozy e del ministro degli Esteri Bernard Kouchner. Il governo francese, in vista della presidenza francese della Unione Europea, voleva ascoltare valutazioni di cui la loro burocrazia nazionale forse non disponeva. Tutti i referenti mettevano in evidenza che l'Europa dovesse avere un ruolo maggiore, anzi che l'Europa fosse la chance decisiva della politica mondiale. La politica degli Stati Uniti basata sull'unilateralismo è drammaticamente fallita. Il modello europeo della conciliazione reciproca è il modello globale del futuro. Io ho sottolineato in questa occasione che, se l'Europa smetterà di guardarsi l'ombelico e sarà disposta a pensare e ad agire in modo globale, le piccole differenze all'interno dell'Europa si sposteranno in secondo piano.
E Sarkozy intende utilizzare i rovesciamenti nel sistema finanziario internazionale per scuotere addirittura due principi europei di fondo: i limiti del deficit e il principio di sussidiarietà nella politica economica. Il suo argomento è convincente: una valuta comune necessita di una comune politica economica e finanziaria, in tempi di crisi più che mai. La crisi della finanza così come la crisi del clima potrebbero essere o diventare l'ora di un'Europa politicamente ampliata e desta dal punto di vista della politica mondiale. Helmut Kohl oggi sfrutterebbe questa occasione, data dall'incombente catastrofe, per un rafforzamento dell'Unione europea. Londra e Parigi si chiedono perché proprio la sedicente europeista Angela Merkel e il suo aiutante Peer Steinbeck se la lascino scappare.
traduzione di Steffen Wagner

Corriere della Sera 5.11.08
Archivi Nuovi documenti provano le compiacenze della Santa Sede verso la politica di Mussolini in Etiopia
Pio XI e quel razzismo d'Africa
Nel '37 appoggiò la legge che vietava i rapporti fra italiani e «faccette nere»
di Sergio Luzzatto


La «Giornata della Fede» è rimasta a lungo iscritta non soltanto nelle memorie, ma anche sui corpi (sulle mani) degli italiani. Il 18 dicembre 1935, in risposta alle sanzioni decretate contro il regime di Mussolini dalla Società delle Nazioni per l'invasione dell'Etiopia, le coppie d'Italia furono chiamate a sostenere lo sforzo bellico del fascismo donando «oro alla patria»: contribuendo alle spese di guerra attraverso l'offerta degli anelli nuziali. Fu un gigantesco rituale di massa, celebrato a Roma come nel più minuscolo comune del Regno. Nella sola capitale, oltre centomila fedi d'oro vennero deposte sull'Altare della Patria da brave donne italiane — per prime, la regina Elena e donna Rachele — che orgogliosamente si misero al dito, in cambio, fedi d'acciaio.
La Chiesa cattolica collaborò attivamente alla raccolta dell'oro. Con lettere pastorali, omelie, fogli diocesani, gran parte del clero fece propri gli slogan della pubblicistica di regime. Già il 4 dicembre, con due settimane di anticipo sulla Giornata della Fede, Mussolini poté ordinare ai prefetti di esprimere ai vescovi di ogni provincia la piena soddisfazione del governo fascista.
Il sostegno della Chiesa riuscì allora tanto più utile al regime in quanto la vera nuziale, per la maggioranza degli italiani, era anzitutto un segnacolo religioso: valeva da promemoria del patto matrimoniale stretto dalla coppia presso un altare, era il materico simbolo di un sacramento.
Se il mondo cattolico poté aderire massicciamente alla guerra di Mussolini in Africa, fu anche perché l'impresa d'Etiopia traduceva il mito fascista della romanità nei codici di una cultura missionaria. I soldati del Littorio promettevano di consegnare la fede romana a popoli semibarbari: la «crociata» in Abissinia veniva combattuta affinché trionfassero, insieme, le ragioni imperiali del fascismo e quelle universali del cattolicesimo. Nondimeno, gli storici più avvertiti hanno iniziato da qualche tempo — sulla scorta dei documenti d'archivio relativi al papato di Pio XI, accessibili dal 2006 — a sfumare l'immagine troppo nitida e netta di una Chiesa compattamente schierata dietro le legioni del Duce. In particolare gli studi di Lucia Ceci, docente di Storia contemporanea all'università di Roma Tor Vergata, hanno documentato sforzi notevoli della Santa Sede, e di Pio XI in persona, per fermare la macchina bellica di Mussolini.
Alla vigilia della dichiarazione di guerra, Pio XI aveva preparato una lettera privata per il Duce dove gli chiedeva, in sostanza, di rinunciare all'invasione dell'Etiopia. Papa Ratti aveva poi deciso di non inoltrare la missiva, ma fino all'ultimo aveva fatto pressioni su Mussolini «per non mettere l'Italia in stato di peccato mortale». Né le gerarchie vaticane tacquero del tutto a mobilitazione avvenuta, dopo il fatidico discorso mussoliniano del 2 ottobre 1935. Estensore materiale della bozza di lettera di Pio XI al Duce, monsignor Domenico Tardini affidò a un documento riservato per il papa l'espressione del proprio disgusto nei confronti del «clero esaltato e guerrafondaio». Mentre la Segreteria di Stato diffuse, il 30 novembre, precise istruzioni «da impartire verbalmente ai vescovi d'Italia»: durante la Giornata della Fede, si limitassero i vescovi al campo della preghiera, badando di «non esprimere giudizi sul diritto e la giustizia dell'impresa abissina».
Ora che conosciamo meglio il travaglio della Chiesa di Pio XI a fronte dell'avventura imperiale di Mussolini, a maggior ragione restiamo colpiti da nuovi documenti inediti che Lucia Ceci ha rinvenuto nell'Archivio segreto vaticano e che saranno da lei presentati, in questi giorni, a un convegno della Fondazione Salvatorelli. Sono materiali più tardi, relativi all'estate del 1937: quando ormai da un anno si è consumata la presa militare di Addis Abeba, ed è stato proclamato un impero del quale Pio XI (a dispetto delle tormentate sue iniziative diplomatiche del '35) ha creduto bene di rallegrarsi pubblicamente. Dopo il disordine della guerra, in Africa orientale italiana è venuto il momento di fare ordine. Ed è venuto il momento di farlo a partire dalle alcove, dove troppi soldati e troppi coloni si consolano della distanza da casa fra le braccia amorevoli di qualche «faccetta nera». In Africa orientale italiana è suonata, insomma, l'ora di una legislazione sulla razza.
Dietro impulso del ministro delle Colonie, Alessandro Lessona, il regime ha appena introdotto la «legge sul madamato», che punisce con la reclusione da uno a cinque anni il concubinato di un cittadino italiano con «una persona suddita dell'Africa orientale». Adesso — siamo ai primi d'agosto del '37 — il ministro Lessona sta chiedendo al nunzio vaticano in Italia, Francesco Borgongini Duca, un appoggio diretto della Santa Sede alla legislazione razziale, per scongiurare il rischio concreto di una proliferazione dei meticci. Infatti, «disgraziatamente », i figli nati dall'amplesso di uomini bianchi con donne nere «portano sommati i difetti e non i pregi delle due razze ». Perciò l'Italia fascista invoca il contributo della Chiesa cattolica nel «dissuadere unioni tra persone di diversa razza»: «appunto per evitare le nascite dei mulatti, che sono dei degenerati».
Risalendo per via gerarchica, la richiesta di Lessona approda sulla scrivania di Pio XI, che sollecita un avviso del cardinale Domenico Jorio, prefetto della Congregazione dei sacramenti. E il 24 agosto 1937, il cardinale Jorio mette per iscritto, all'attenzione di Papa Ratti, un parere sconcertante rispetto al senso comune della morale cattolica. Sì, «a mezzo dei Missionari», la Chiesa avrebbe effettivamente potuto, anzi avrebbe dovuto collaborare — «nei giusti limiti» del diritto canonico — alla campagna per la «sanità della razza». Le «ibride unioni» andavano impedite «per i saggi motivi igienico- sociali intesi dallo Stato»: «la sconvenienza di un coniugio fra un bianco e un negro», e «le accresciute deficienze morali nel carattere della prole nascitura». Segue l'approvazione papale del documento firmato dal cardinale Jorio, trasmesso alla nunziatura d'Italia già il 31 agosto di quel 1937: per la gioia del ministro Lessona, «lieto delle sagge disposizioni della Santa Sede». Spolverata dagli archivi vaticani grazie alle fondamentali ricerche di Lucia Ceci, questa non è che una pagina fra le tante, nell'alterna vicenda del rapporto fra il Vaticano degli anni Trenta e i regimi razzisti. Ma è una pagina che avremmo preferito non leggere.

Repubblica 5.11.08
Il capitalismo sotto la tenda a ossigeno
di Jean Paul Fitoussi


«Il capitalismo sotto la tenda a ossigeno». L´espressione è di Joseph Schumpeter, e sta a designare l´economia mista, le cui condizioni a suo parere non potevano che essere flebili. Fu contro quest´anomia che la cosiddetta rivoluzione conservatrice diede battaglia, alla svolta degli anni 1970-1980.
A un dato momento (1984) c´è stato persino chi ha esclamato: «Viva la crisi!». Era «soltanto» l´insorgenza, in tempi di pace, di una disoccupazione di massa; una pura e semplice crisi occupazionale! Per parte mia, non sono disposto ad associarmi agli entusiasti della crisi finanziaria, precisamente in ragione dei suoi potenziali effetti sull´occupazione. Se ho fatto riferimento a quel periodo è perché il 1984 è stato l´anno della conversione (coincidenza o conseguenza?) della maggior parte dei Paesi europei, Francia in testa, alla deregulation finanziaria (lo smantellamento della tenda a ossigeno). Oggi, dopo più di due decenni, un´esigenza di segno diametralmente opposto è ribadita insistentemente in tutti i discorsi, e tradotta in fatti concreti. Chi avrebbe immaginato allora che la nazionalizzazione, sia pure parziale, si sarebbe rivelata la miglior via d´uscita da uno stato di crisi, persino nei Paesi anglosassoni?
Come si è arrivati a questo punto? La storia, a un tempo banale e complessa, è ricca di insegnamenti. Fin verso la metà degli anni ´90 i detentori di capitali si erano abituati a rendimenti molto elevati e al sicuro da ogni rischio; e quando i tassi ridiscesero a terra, continuarono a esigere rendimenti sempre maggiori, con l´aspettativa (evidentemente contraddittoria) di livelli di rischio minimo. Sotto la pressione dei detentori di capitali, le istituzioni finanziarie ebbero allora l´arroganza di dichiararsi in grado di soddisfare le loro esigenze, facendo di meglio e di più del mercato. Da quell´arroganza, così come dalle suddette pressioni, è nata la menzogna globale all´origine della crisi: la promessa di un risultato aritmetico impossibile, che doveva consentire a tutti di guadagnare più della media dei guadagni (come si può vedere dai depliant di presentazione dei prodotti finanziari).
Ricordo bene, negli anni 1980, i commenti sprezzanti alle tesi di un sindacalista italiano, secondo cui ogni lavoratore avrebbe dovuto guadagnare più del salario medio. Se soltanto avessimo dato prova dello stesso spirito critico anche per quanto riguarda il mercato! Certo, siamo stati in molti a denunciare le esorbitanti pretese di redditività del capitale, e il conseguente processo di «manipolazione dei sogni» (Le Monde, 13 settembre 2002). Ma solo alcuni di noi hanno intuito che il sistema avrebbe realmente tentato di inventarsi una nuova aritmetica per risolvere l´impossibile equazione dentro la quale si era andato a cacciare. Si è fatto ricorso a un processo molto sottile. Tanto sottile che nessuno degli attori sembra averlo compreso. Per erogare un maggior rendimento occorreva aumentare il livello di rischio; ma su scala globale, l´uno e l´altro si compensavano, per cui il rendimento medio non ne avrebbe risentito. Ecco dunque la soluzione: sbarazzarsi del rischio (o credere di averlo fatto) diluendolo in titoli e veicoli finanziari complessi, in cui si associavano componenti di rischio diverse. Quella che di primo acchito sembrava una buona idea, in quanto consentiva di alleviare il razionamento del credito nei confronti di soggetti interessanti ma a rischio elevato, poteva però trasformarsi rapidamente, sotto la pressione della richiesta di rendimento, in una macchina infernale: la tentazione era quella di aggiungere componenti di rischio sempre maggiori, fino a livelli ove il rischio era tale che in pratica il suo avverarsi diventava una certezza. Ma soprattutto, come valutare il rischio medio di un titolo siffatto? Qui tutti quanti hanno perso la bussola, comprese anche le istituzioni che nell´ambito del sistema hanno il compito di determinare il grado di rischio (le agenzie di rating). E poiché quelle agenzie definivano minimo il rischio, anche quando i rendimenti erano molto elevati, l´equazione impossibile sembrava risolta. Per questi meriti gli attori della finanza si sono attribuiti laute ricompense, sotto forma di remunerazioni, bonus o paracadute d´oro, in alcuni casi a livelli talmente alti da diventare pure astrazioni. Alla vigilia del suo fallimento, la Lehman Brothers riceveva la classifica «A»! Il fatto è che sugli oggetti prodotti si stampigliava il marchio «alta fedeltà», e tutti si affrettavano a comprarli e/o a venderli senza averne compreso la natura. Questa crisi finanziaria presenta dunque una singolarità: è la prima crisi di comprensione del sistema, anche da parte di un settore che è stato e rimane il maggior consumatore di intelligenza delle nostre economie (alta concentrazione di laureati delle migliori scuole e università del mondo intero).
Le istituzioni finanziarie, prese com´erano dall´orgoglio di occupare il piano nobile della nostra moderna economia dei servizi, avevano dimenticato due «leggi» economiche fondamentali.
La prima è quella che riguarda la formazione dei prezzi: un prodotto non vale mai più del valore della sua componente più debole. In altri termini, non è la parte più sana, ma la più «bacata», a determinare il valore dei titoli, anche fino al punto di trascinarli verso lo zero. È questa – se ancora dobbiamo ricordarlo – l´origine del crac finanziario, della svalutazione dei bilanci delle banche, del crollo delle borse - che a sua volta è conseguenza del tentativo delle istituzioni finanziarie di evitare l´estendersi del contagio dagli attivi tossici a quelli sani (le azioni delle imprese) in loro possesso.
La seconda «legge» si riferisce all´equilibrio tra predatori e prede. I creditori-predatori (sia detto senza alcuna connotazione peggiorativa) devono autolimitarsi nei loro prelievi sui debitori-prede, se non vogliono mettere in pericolo se stessi. Difatti, la scomparsa della popolazione delle prede porta i predatori alla fame. Doveva essere il mercato ad assicurare spontaneamente quest´equilibrio. Ma sembrava che la deregulation, con le sue promesse di rendimento, fosse in grado di allontanare ed allentare sempre più i limiti di una siffatta autodisciplina. Fino ad arrivare sul filo del rasoio, dove il crollo diventava inevitabile.
Che fare? Le istituzioni finanziarie, che sono gli intermediari tra una miriade di creditori da un lato (titolari di depositi, risparmiatori ecc.), in massima parte piccoli, e dall´altro di una miriade di debitori, piccoli e grandi, avevano indotto i primi a credere nella possibilità di ottenere dai secondi assai più di quanto si sarebbe potuto ragionevolmente sperare. L´inadempienza dei debitori ha dunque reso queste istituzioni insolventi nei confronti dei loro creditori. Perciò in un primo tempo non c´era altro da fare che impedire il fallimento delle banche, o magari nazionalizzarle, pur di evitare il rischio che la loro inadempienza si generalizzasse, estendendosi all´intera popolazione. Si spiega così il generale consenso a questo rimedio, ormai applicato universalmente. In un secondo tempo occorreva evitare che le istituzioni finanziarie, scottate dalle loro stesse disfunzioni, passassero da una propensione esagerata al rischio all´eccesso contrario, esigendo condizioni esorbitanti dai nuovi debitori. Le garanzie pubbliche fornite per i prestiti interbancari vanno in questa direzione, ma da sole non sono suscettibili di risolvere la crisi, a fronte della sfiducia generalizzata che ha investito il sistema. Occorrerebbe dunque estenderle ai debitori ordinari – cosa che molti Stati stanno già facendo, attraverso crediti agevolati a favore delle piccole e medie imprese; ma esitano a farlo nei confronti delle famiglie, all´alba di una congiuntura che potrebbe facilmente essere recessiva (rischio di accumulare nuovi crediti inesigibili).
Ma al di là di tutto questo, non si tende forse a dimenticare troppo in fretta le sofferenze della popolazione delle prede, la cui inadempienza ha fatto esplodere lo scandalo? Bisognerebbe almeno aiutarle a rinegoziare i loro contratti, e in particolare i mutui a tasso variabile, chiedendo al tempo stesso alle banche – anche attraverso strumenti normativi – di riservare una buona accoglienza alle richieste di rinegoziazione.
Infine, si dovrebbe evitare che questa popolazione diventi sempre più numerosa a causa del rallentamento delle attività economiche e del conseguente aumento della disoccupazione: un rischio che potrà essere scongiurato solo attraverso un´azione preventiva volta a favorire la crescita.
Sotto la pressione delle circostanze, gli Stati europei hanno dimostrato ultimamente la loro capacità di investire massicciamente in un settore dell´economia: quello bancario. Ma perché allora si dichiarano impotenti a perseguire gli obiettivi che pure da anni definiscono prioritari, col consenso di tutti i consigli europei, e non investono in settori quali la conoscenza, l´energia e l´ambiente, le infrastrutture materiali e immateriali, che permetterebbero di raggiungere quegli obiettivi?
In breve, per aver voluto fare a meno della tenda a ossigeno il capitalismo è passato direttamente in sala di rianimazione. Nella metafora di Schumpeter, la tenda a ossigeno sta a designare la democrazia e la sua tendenza a farsi carico di ogni cosa. La deregulation è stata il mezzo per far uscire la democrazia dal mercato. Che il governo si occupi degli affari suoi: così il mercato potrà finalmente dedicarsi a ciò che sa fare meglio: produrre l´abbondanza. Molti hanno creduto sinceramente a questa chimera, sostenuta oltretutto – bisogna dirlo – dalle più moderne e sofisticate teorie. La dottrina dominante aveva preso possesso delle menti al punto di farci prendere lucciole per lanterne: lo dimostra il fatto che oggi si parli tanto di un «ritorno» dello Stato e di Keynes. Per quanto mi riguarda, li ho sempre visti molto presenti. Il programma keynesiano ha conosciuto uno sviluppo considerevole per tutta la durata del XX secolo. E non c´è da meravigliarsene, visto che l´ipotesi (o l´osservazione?) alla sua base è quella di un possibile cedimento dei mercati, e in particolare di quelli finanziari. Peraltro oggi, in tutti i Paesi del pianeta – a parte alcune varianti marginali – lo Stato ha dimensioni assai maggiori che negli Anni 30.
Traduzione di Elisabetta Horvat

Repubblica 5.11.08
Tutti i laici del mondo
una parola nata in Francia
Intervista con Jean Baubérot, storico e sociologo di Giancarlo Bosetti


"Uno Stato indipendente da ogni culto e da ogni clero, per la libertà di tutti i culti". Questa fu la definizione della laicità applicata in primo luogo alla scuola pubblica da Jules Ferry
"È bene distinguere tra religione in quanto predominio e religione in quanto risorsa: la prima sfocia nel clericalismo"
"È necessario evitare che la laicità sia confusa con la repressione della religione, compresa quella tradizionale che ha il diritto di esistere"

Jean Baubérot, storico e sociologo delle religioni e della laicità, è presidente onorario della la parigina École pratique des hautes études. Autorità nel campo, è molto disincantato nei confronti della mitica «laicité à la française», sia quando invita a ridimensionare l´eccezionalismo laico di quel paese, sia quando punzecchia la «laicità positiva» di Sarkozy, che assume le radici cristiane di Francia e sostituisce, secondo lui semplicisticamente, la religione repubblicana con il modello americano di religione civile. Il disincanto di Baubérot verso la laicità è al suo meglio nel sintetico Le tante laicità del mondo, che esce ora in italiano per Luiss University Press (pagg 122, euro 12). L´autore verrà a discutere le sue tesi domani, in via Parenzo 11, alle 18.30, con studenti e docenti dell´università romana.
Parlare di laicità al plurale significa inevitabilmente relativizzare. Il suo libro spiega bene che c´è una soglia minima di laicità, quella costituita da istituzioni politiche legittimate dalla sovranità popolare e non più da elementi religiosi, ma così essa non è più un assoluto, né una eccezione francese.
«In effetti la laicità è stata un po´ sacralizzata in Francia. Il termine è stato inventato negli anni 1870 e la prima definizione fu di Ferdinand Buisson, filosofo, direttore dell´istruzione primaria all´epoca in cui Jules Ferry ha laicizzato la scuola pubblica: affermò che la laicità consisteva nello Stato indipendente da ogni culto e da ogni clero, allo scopo di realizzare la libertà di tutti i culti e l´uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, indipendentemente dalla loro appartenenza religiosa. Questa definizione può essere applicata a un certo numero di paesi; in Francia la laicità è diventata il rifiuto di qualsiasi espressione della religione nella sfera pubblica».
Rifiuto che allora non era nelle origini della laicité?
«No, non era nell´intenzione dei suoi padri fondatori. Quella francese ne è una versione nazionalista: la Francia è stata una grande potenza, mentre ora è una potenza media e questo spinge i francesi alla eterna ricerca di una qualche loro specificità, di situazioni in cui sono i soli a pensare come pensano, una ricerca di "eccezione". Ma la laicità come "eccezione francese" compare per la prima volta nel 1989, dopo il primo scontro sull´uso del velo. Buisson diceva sì che la Francia stava diventando il paese più laico d´Europa, ma anche che ce n´erano di più laici in altri continenti: il Messico, gli Stati Uniti, che avevano già realizzato la separazione delle chiese dallo Stato, in un´epoca in cui la Francia non l´aveva ancora attuata. Bene dunque relativizzare».
C´è una posizione liberale standard, formata nelle battaglie per i diritti degli individui e della donna, che lasciato spesso immaginare che tutto ciò che viene dalla laicità è un bene, tutto quello che viene dalla religione è un pericolo per la libertà.
«E´ bene distinguere tra religione in quanto predominio e religione in quanto risorsa. La religione come predominio, quella che cerca di far passare le proprie norme in tutta la società facendo pressione sullo Stato, è la religione che la laicità ha combattuto, il clericalismo. La religione come risorsa è cosa diversa; si tratta della scelta personale di credere o non credere, e sottolineo che la scelta di credere è rispettabile quanto quella di non credere. Nello specifico, sono contrario a questa definizione negativa, "non credere", perché le persone che non sono religiose hanno credenze di ordine filosofico e non sono prive di credenze sulle grandi questioni della vita, quelle che non possono essere dimostrate scientificamente. Diciamo così: tra le persone che hanno credenze diverse, alcune sono religiose, altre non lo sono. Quando queste credenze religiose si organizzano in forma collettiva, per dare vita ad un culto, avviene un fatto normale, un fatto che contribuisce alla ricchezza della diversità di questa società, purché non vi sia una volontà di predominio sulla società stessa. Alcuni hanno fatto un cortocircuito tra clericalismo e religione in quanto tale, ma non i padri fondatori della laicità: Jules Ferry ha detto di essere anticlericale ma non antireligioso, né allora né mai».
Oggi abbiamo situazioni nel mondo in cui la laicità ha bisogno di essere democratizzata. Democratizzare il secolarismo, dicono per esempio i riformisti in Turchia, ma vale anche per l´Egitto, per la Tunisia.
«Ecco una delle cause della difficile situazione nella quale ci troviamo oggi: nel mondo arabo-musulmano le laicità sono state autoritarie e la gente non ha potuto capire che un regime di laicità fosse un regime di libertà. E´ necessario evitare che la laicità sia confusa con la repressione della religione, compresa quella tradizionale, che ha il diritto di esistere: può avere autorità, ma non deve avere potere».
Nel suo libro lei tratta anche il comunismo come forma di laicità autoritaria.
«Autoritaria e decisamente antireligiosa, perché lo Stato nel comunismo è diventato Stato filosofico, sostenitore di una certa ideologia. Quindi, malgrado la contraddizione, si tratta quasi di una forma di laicità teocratica: in fin dei conti, l´ateismo di Stato si avvicina a ciò che era lo Stato teocratico, lo Stato confessionale; tra la Spagna franchista, dove il cattolicesimo era un dogma di Stato, e l´Unione Sovietica, dove l´ateismo era a sua volta un dogma di Stato, le differenze non sono enormi. Condividevano la stessa idea di imporre dogmi civili alla popolazione. E una laicità democratica non può ovviamente che prendere le distanze da questi casi».
Per gli europei pensare alla laicità significa avere a che fare con l´enigma del rapporto tra religione e politica negli Stati Uniti. Obama parla un linguaggio religioso, come Lincoln, come Luther King.
«Gli Stati Uniti sono l´eccesso opposto: la politica ha strumentalizzato la religione. Georges W. Bush, ad esempio, ha invaso l´Iraq invocando Dio, un Dio che sosteneva l´America nelle sue mire guerresche. Colpisce molto che la maggioranza delle grandi chiese americane fosse contraria a questa guerra, tanto che il Consiglio cristiano delle chiese cercò di avere un incontro con Bush, ma lui rifiutò di riceverlo. Alcune chiese potevano condividere questa linea di guerra, ma certo non tutte. Obama ritorna invece alla religione civile tradizionale americana, più culturale che politica».
Obama non avrebbe alcuna possibilità di vincere se non fosse capace di avvicinare la religione e il progressismo; per questo parla di un progressismo religioso.
«Il limite della democrazia americana sta nel fatto che apparentemente una persona atea o agnostica, purché non cerchi di imporre il proprio ateismo alla società, dovrebbe avere le stesse possibilità di diventare presidente di una persona credente. Negli Stati Uniti questo non è immaginabile. Ma questo genere di problematica è diffusamente presente anche nelle nostre democrazie, benché non sia ovviamente ufficializzata. E´ difficile immaginare che un musulmano diventi oggi presidente di una repubblica europea».
Lei parla, nel libro, del fatto che nella Costituzione americana è previsto il giuramento davanti a Dio, ma anche che è possibile esserne esentati a richiesta. Non ricordo di aver mai visto in un film americano qualcuno che chieda l´esenzione.
«Dal punto di vista storico l´esenzione è stata rivendicata all´inizio della repubblica americana dai quaccheri, addirittura prima della fondazione della repubblica. E´ stato re Guglielmo III d´Inghilterra, all´inizio del XVIII secolo a concederla. E questa possibilità è rimasta. Non so in che misura sia ancora praticata. Anche nelle democrazie europee è molto difficile eliminare il giuramento davanti a Dio».
Lei condivide la prospettiva post-secolare di Habermas, quella di un liberalismo capace di dare spazio alla religione nella vita pubblica, perché, ad alcune condizioni, si ha bisogno della religione come risorsa?
«Sì, a condizione che vi sia una chiara distinzione nella vita pubblica e nello spazio pubblico, tra i due aspetti che sono differenti. Nella vita pubblica, nello spazio pubblico sociale, le religioni debbono poter contribuire al dibattito della società. Viene poi il processo istituzionale, politico, nella vita pubblica, e questo processo deve essere indipendente dalla religione. C´è lo spazio pubblico della società civile, dell´approfondimento, e poi lo spazio pubblico istituzionale e politico, dove deve prevalere la neutralità nei confronti della religione».

Repubblica 5.11.08
La giustizia è sempre femmina
Un saggio di Adriano Prosperi
di Gustavo Zagrebelsky


La personificazione nella donna è stata nei secoli, anzi nei millenni, una scelta naturale, quasi a suggerire un´idea di equilibrio biologico e sociale insieme
La benda è un topos molto presente un simbolo ambiguo e perciò intrigante, accanto alla bilancia e alla spada, segnali di equità e di forza

Il linguaggio simbolico ha tre funzioni: conferire senso e valore agli accadimenti, trasformarli in esempi e proporli all´accettazione sociale. Ogni simbolo è dunque, contemporaneamente, interpretazione, generalizzazione e normazione, espresse con la forza della sintesi. Non c´è vita collettiva senza messaggi simbolici che la tengano insieme, come colla di pensieri e comportamenti. I simboli sono dappertutto e tanto più intimamente penetrano nella nostra vita, quanto meno coscientemente li percepiamo. La lotta per il potere è innanzitutto una controversia simbolica e la contestazione del potere è innanzitutto uno smascheramento dei suoi simboli.
Un patibolo è un patibolo. Un cadavere dove prima c´era un essere umano è un cadavere. Ma l´esecuzione di una sentenza capitale può avvenire sotto molti simboli della giustizia e così assumere significati sociali profondamente diversi: redenzione, ristabilimento dell´ordine violato, vendetta, oppressione. Può essere apparecchiata come espressione della giustizia divina o della giustizia umana, della vittoria del bene sul male, dei buoni sui cattivi. Può essere esibita o nascosta, a seconda che si voglia dare segno di una potenza ammonitrice e trionfante oppure di una necessità cui i governanti , non possono sottrarsi, per adempiere a un doloroso dovere. Può dunque legare al potere con il timore, oppure con la complicità.
Il concetto della giustizia può essere rappresentato simbolicamente in molti modi che rimandano a concezioni che variano anche di molto, funzionali, a loro volta, a politiche del diritto diverse. A dipanare la trama di questi significati, attraverso una ricca iconografia simbolica, è dedicato il dotto e appassionante studio che Adriano Prosperi ha dedicato alla Giustizia bendata.Percorsi storici di un´immagine (Einaudi, pagg.XXII-260, euro 34). Pur tracciando un percorso, non è un libro a tesi e questo è un suo pregio rilevante, rispetto a quello che, in definitiva, risulta essere il suo scopo: mostrare la grande complessità del tema, l´intreccio di prospettive e aspettative etiche e politiche che si congiungono nella «parola giustizia»: un intreccio che dovrebbe rendere cauti tutti coloro che, a qualunque titolo, si occupano della «cosa giustizia».
Per avere un´idea dello spessore dello spazio ideale, oltre che temporale, in cui questi percorsi si svolgono, basta confrontare due immagini, l´una iniziale e l´altra finale. All´inizio, troviamo Ma´at, l´egizia dea piumata che sovrintende alla pesa dei meriti e demeriti del defunto su una bilancia a due braccia, manovrata da figure, in sembianze umane ma dal volto animale, forse a rappresentare l´unità dell´ordine della natura vivente, di cui Ma´at è, a sua volta, garante. E´ una dea benevola, che unisce in sé verità e giustizia, diritto e ordine, saggezza e mitezza. Su un piatto sta il cuore del defunto, sede dei suoi meriti e delle sue colpe; sull´altro, la dea stessa, cioè l´armonia ch´essa rappresenta: armonia come equilibrio, l´essenza della giustizia e il fine di chi l´amministra. Se la piuma, come si è sostenuto, è l´unità di misura e l´arma di questa giustizia, se ne comprende l´essenza: l´inconciliabilità di giustizia e violenza.
L´ultima pagina ci presenta un´altra immagine che, sotto il nome Lady Justice, è come un rovesciamento di Ma´at. E´ un tatuaggio a mano libera che rappresenta un´aggressiva donna giustiziera, come Erinni reincarnata, con gli occhi bendati e, nelle mani, un coltello per scannare e un revolver per sparare. Che significa?
Prosperi non commenta, ma noi possiamo vedervi l´idea di una giustizia sterminatrice che non conosce e non vede, non dico le sfumature, ma neanche soltanto le differenze e mira non all´equilibrio delle parti ma all´annientamento del nemico.
Le figure rappresentative della giustizia sono sempre femminili.
L´eccezione della figura dell´«uomo in grande» che campeggia, con i simboli della giustizia nelle mani, sul frontespizio della prima edizione del Leviatano di Thomas Hobbes è una solo apparente eccezione. L´immagine è quella del sovrano, che maneggia la spada e la bilancia come strumenti del governo assoluto. Dove si tratta invece della giustizia come funzione fondata su principi ed esigenze sue proprie, e talora anche opposte a quelli del potere, compare sempre la donna. Si potrebbe dire che il potere è maschio, la giustizia femmina. Perché la costanza di questa visione ideale? Una costanza, oltretutto, platealmente contraddetta dalla realtà. Tra le funzioni pubbliche, l´amministrazione della giustizia, per secoli e secoli, è stata riserva maschile (una riserva caduta, per esempio in Italia, solo nel 1963).
E´ difficile rispondere. Sembra quasi che la personificazione nella donna sia stata, nei secoli, anzi, nei millenni, una scelta naturale, immediata, non preceduta da riflessione. Qualcosa di simile è per la rappresentazione della morte. Quando l´iconografia non si affida a immagini asessuate come il teschio, gli scheletri danzanti, o la figura del Settimo sigillo di Bergman, la morte è «sora nostra morte corporale» di Francesco d´Assisi, o la «nera signora» dalla lunga falce, che compare in innumerevoli versioni della pittura, della letteratura e della musica. Perché queste identificazioni al femminile? Forse, le figure femminili, come Antigone contrapposta a Creonte, rappresentano con evidenza l´idea dell´equilibrio dei rapporti che si svolgono nella natura sociale e biologica, con i suoi cicli, le sue armonie, anche dolorose, e le sue composizioni e decomposizioni, mentre le immagini maschili sono piuttosto quelle della forzatura, della dissonanza e della dissociazione.
Lasciamo senza risposta questi interrogativi. Ciò che è evidente è che l´immagine della bilancia, che sempre è associata a quell´idea di equilibrio, si accompagna a quella della spada, un attrezzo non certo femminile. La spada si associa alla bilancia non appena il giudicare diventa potere. Essa compare come simbolo di sovranità, cioè di un potere eminente il cui compito è quello di dividere il lecito dall´illecito, il buon suddito dal ribelle, l´amico dal nemico; nella vita della Chiesa, la pecorella ubbidiente da infedeli, eretici, scienziati, maghi, streghe e fattucchiere. I tribunali della Santa Inquisizione si rappresentavano, oltre che con la bilancia, con, al posto della spada, il fascio e la scure, simboli romani dell´imperium e del connesso ius vitae ac necis.
Ma bilancia e spada appartengono a mondi diversi, anzi potenzialmente in opposizione, la giustizia e la forza. Sono tuttavia due mondi destinati a convivere. Con le parole di Pascal (Pensieri, n. 135): «La giustizia senza la forza è impotente; la forza senza giustizia è tirannica. La giustizia senza forza è contestata, poiché i cattivi esistono sempre; la forza senza la giustizia è messa sotto accusa. Occorre dunque congiungere giustizia e forza, e per questo fare in modo che ciò che giusto sia forte o che ciò che è forte sia giusto». In questo connubio è facile comprendere che cosa, in caso di conflitto, avrà la peggio. La bilancia non può fare a meno della spada, ma questa alleanza può esserle mortale.
Al di là delle immagini, questa innaturale unione non è altro che il segno di una contraddizione profonda. Nella bilancia è rappresentata l´invocazione degli umili, dei deboli, dei perseguitati, che si rivolgono al giudice, chiedendo di ripristinare il giusto equilibrio che i rapporti di nuda forza hanno rotto a loro danno. Sono costoro, quelli che hanno «fame e sete di giustizia» (Mt 5, 6). La spada, però, non è nelle loro mani, ma nelle mani di coloro contro i quali quella fame e quella sete si rivolge. Questa inestricabile contraddizione alimenta uno dei principali fili conduttori della storia della giustizia, ampiamente documentata nel libro di Prosperi con l´immagine della bellissima e pura fanciulla, avvocata delle ragioni degli oppressi, che si prostituisce alle ragioni dei potenti, per dare loro una parvenza di rispettabilità. Il tradimento è denunciato col piatto della bilancia truccato, su cui stanno le ragioni dei ricchi, con la mano della fanciulla che non disdegna i doni di costoro, con le forche e i roghi da cui pende e su cui brucia la povera gente, di fronte ai palazzi degli maggiorenti. Confrontiamo la «contemplazione della Giustizia», esibita come divinità nazionale e collocata di fronte alla sua residenza, la Corte Suprema degli Stati Uniti, e quella «donna bellissima con gli occhi bendati, ritta sui gradini di un tempio marmoreo», al quale un giovane col berretto rosso strappa la benda: «le ciglia eran tutte corrose sulle palpebre marce; le pupille bruciate da un muco latteo; la follia di un´anima morente le era scritta sul volto. Ma la folla vide perché portava la benda». Sono parole di Edgar Lee Masters, l´autore della Antologia di Spoon River, dedicate agli anarchici condannati a morte (1887) da una giustizia corrotta dalle paure, dai pregiudizi, dagli interessi dei benpensanti americani, di cui sarebbero state vittime, quarant´anni dopo, anche Sacco e Vanzetti.
La «donna bellissima» di Lee Master ha gli occhi bendati. La benda è un altro topos delle raffigurazioni della giustizia, accanto alla bilancia e alla spada. Il libro di Prosperi vi fa riferimento già nel titolo e, nel testo, la ricostruzione filogenetica di quest´immagine, fatta risalire alla scena del Cristo bendato, dileggiato e percosso dopo la sua cattura e prima del processo (Lc 22, 63), occupa un posto notevole. In effetti, questo è forse il simbolo più ambiguo e quindi intrigante. Di solito, la giustizia cieca si interpreta come quella che «non guarda in faccia a nessuno», dunque la giustizia imparziale, uguale per tutti, ricchi e poveri, grandi e piccoli. Ma può anche essere quella che colpisce a casaccio, che non arretra di fronte alle peggiori nefandezze, la giustizia che non vuol vedere l´ingiustizia. La giustizia che si volge inorridita, per non vedere le teste mozzate, esibite dal boia - immagine scelta per una delle prime edizioni di Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria - è invece dotata di occhi vigili. Insomma, la benda sugli occhi è segno di giustizia o d´ingiustizia?
La soluzione a questi tanti problemi è stata tentata, nei tempi che viviamo, sostituendo la giustizia con la legge. La giustizia è per noi la giustizia legale, la corretta applicazione della legge.
La Giustizia, con l´iniziale maiuscola, è lasciata al Giusto per eccellenza, a Colui che tutto vede e la manifesterà alla consumazione dei tempi, con i giusti alla destra e i reprobi alla sinistra, secondo la feroce rappresentazione della Sistina.
Abbiamo imparato a essere umili, con riguardo alla giustizia. Ma, contemporaneamente, ci siamo insuperbiti rispetto alla legge, perché l´abbiamo trasformata nella volontà di chi dispone del potere di «farla» o di «dichiararla» imperativamente. Ecco, allora, apparire un´iconografia in cui l´immagine della legge e del legislatore - interpreti della volontà divina, o della ragione umana, o dello spirito oggettivo della storia o di qualche necessità rivoluzionaria che libererà l´umanità dalle sue ingiustizie, non fa differenza - viene a sovrapporsi alla dea bendata.
La «donna bellissima» diventa un funzionario. Ai giudici si chiede allora di chiudere gli occhi di fronte a ogni altra realtà della vita, per farsi illuminare la mente dalla sola luce della legge.
Si chiede, per usare un´espressione di Hegel (Enciclopedia, 542) un atteggiamento che è bensì parziale perché ignora quel che c´è sotto, ma è «parziale per il diritto». Con questo, però, la questione della giustizia in senso pregnante, non è risolto, ma solo spostato dal giudicare al legiferare e sarà la legge a pretendere una sua rappresentazione simbolica potente, convincente e, a seconda dei casi, minacciosa o rassicurante. Così è, ad esempio, l´ambigua sua divinizzazione descritta da Victor Hugo nel suo romanzo Novantatré (libro III, 2 e 3), dove si parla di scettri, bandiere tricolori, Licurgo, Solone e Platone, e di un altare che regge «La legge». Sotto i saloni delle Tuileries, dove la Convenzione svolgeva i suoi lavori, però, stava un lungo corpo di guardia zeppo di fucili e letti da campo delle truppe di ogni arma che vegliavano su questo legislatore. Simboli su simboli, che potrebbero appartenere, semmai, a un´altra storia, parallela a quella della giustizia e, di questa, non meno intricata.

il Riformista 5.11.08
Wen Jiabao confessa
Compagni, c'è aria di crisi
di Romeo Orlandi


Vacilla il miracolo cinese PAURA. Stato sociale e infrastrutture. Sono queste le richieste del "popolo" per garantire la stabilità sociale. E intanto il premier fa appello ai portafogli dei cinesi perché spendano sempre di più.

Se il Pil di un paese cresce in un anno del 9%, può il suo governo mostrare inquietudine? In qualsiasi luogo, ogni Primo ministro avrebbe la rielezione assicurata. Anche un solo spostamento del Pil con indici da prefisso telefonico sarebbe una buona notizia da spendere in campagna elettorale. In Cina, invece, il 9% preoccupa il premier Wen Jiabao. Lo scorso anno il Pil è cresciuto dell'11,9%, ancora di più della spettacolare media del 10% degli ultimi 30 anni. In un insolito articolo per il quotidiano Qiushi (Ricerca della Verità), Wen ha prodotto un'analisi che non lascia dubbi: «Dobbiamo avere ben presente che quest'anno sarà il peggiore tra quelli del nostro recente sviluppo economico.
Senza un ritmo sostenuto di crescita, ci saranno difficoltà nell'occupazione, nelle entrate e nello sviluppo sociale». È verosimile che il grido d'allarme rifletta segnali ancor più negativi. Gli indici manifatturieri e della fiducia dei manager hanno infatti rilevato un declino preoccupante. Ora l'obiettivo ritorna ad essere la crescita, la coniugazione tra il sostegno alla domanda globale ed il controllo dell'inflazione. La terza riduzione del tasso d'interesse in sei settimane va in questa direzione, ora che sul fronte dei prezzi la situazione sembra avviata alla stabilizzazione.
Apparentemente l'indicazione sembra essere nuova ed importante. La politica cinese ha finora insistito su una "crescita armoniosa", che potesse riconsiderare la vertigine degli anni precedenti. L'aumento veloce del Pil aveva infatti creato una società disuguale, dove le ricchezze di pochi avrebbero dovuto trainare il benessere di tutti. I successi dei miliardari cinesi non erano oscurati, ma pubblicizzati. I capitalisti erano esempi da imitare ed il loro ruolo era esaltato e controllato dal partito. Il messaggio classico dell'accumulazione socialista ritornava prepotente: Arricchitevi! Fino ad un mese fa questa politica doveva essere ammorbidita; le contraddizioni del paese non dovevano diventare lacerazioni. Non era più sostenibile crescere senza aggettivi, in una rincorsa alla ricchezza che produce profonde disuguaglianze tra città e campagne, tra fabbriche e fattorie. Il Governo si era impegnato in una riconsiderazione dello "sviluppismo", in una redistribuzione del reddito che mitigasse i contrasti, in un uso più equilibrato della politica monetaria.
Ora si ritorna alla crescita, perché lo impone la situazione internazionale. In realtà, la preoccupazione di Wen è soprattutto politica: senza crescita non si riesce a garantire la stabilità sociale. È sempre quest'ultima la stella polare della Cina. Se prima era necessario armonizzare per evitare squilibri e rivolte, oggi ritorna necessario crescere per sostenere i consumi e gli investimenti privati. Senza crescita non si acquistano le prime case e non le si arredano con gli elettrodomestici. Ugualmente, la fine dei sogni può condurre a disordini, alla fine di quella magica formula di lavoro, disciplina e riscatto che aveva fatto apparire l'emersione della Cina come un segno fatidico, un compimento del destino.
Per continuare la scalata al benessere e per essere rispettati nella scena internazionale l'economia rimane sempre uno strumento "politico". È una variabile che non deve mai impazzire, anche a costo di smentirsi. Pur se infatti la retorica nazionale sottolinea la necessità di rivolgersi al mercato interno, Pechino sa bene che la sua congiuntura dipende da quella internazionale. Il secondo paese esportatore al mondo guarda con preoccupazione alla recessione dei suoi clienti. Se dagli scaffali di Wal-Mart scompariranno le merci cinesi, perché il reddito statunitense diminuirà, non saranno sufficienti i rimborsi dell'Iva agli esportatori di Pechino. Contemporaneamente i segnali interni non sono incoraggianti: chiusura di fabbriche, intervento stabilizzante delle autorità, perdite in Borsa. Potrebbero essere i primi segnali della fine del sogno ininterrotto di una crescita ordinata e redditizia. Per questo il messaggio del Primo ministro sembra eccentrico nella sua ovvietà. Così come in Occidente, quando si avvicina la crisi, per la Cina vale la stessa ricetta: produrre di più, produrre meglio.

il Riformista 5.11.08
L'università fa paura
Il governo prende tempo


Sull'università il governo decide di non decidere. Ieri vertice di maggioranza a palazzo Grazioli, presenti il premier Silvio Berlusconi, i capigruppo di Pdl e Lega. E il ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini. Vista l'accoglienza dell'opinione pubblica al decreto con cui il governo ha imposto cospicui tagli alle spese della scuola elementare, era evidentemente necessario elaborare una strategia per la riforma degli atenei. E la strategia è quella del rinvio, trasformando il decreto in disegno di legge e annunciando un confronto con le parti sociali interessate. «Sarà lo stesso ministro a comunicare le novità sulla riforma dell'università», annunciava il vicecapogruppo pdl al Senato Gaetano Quagliariello, al termine del vertice. Ma quando? Nei prossimi giorni, hanno fatto sapere da viale Trastevere, mantenendosi sul vago. Ci sono verifiche tecniche da fare, bisogna risolvere alcuni problemi. Ma nella sostanza, la riforma dirottata su un ddl in che divergerà dal decreto originario? Praticamente nulla, assicuravano al ministero, si tratterà comunque di favorire gli studenti universitari e gli atenei virtuosi, punendo gli sprechi. Cambia la formula, non la sostanza. E i tempi di approvazione. Ma qualcosa forse cambia sull'intero pacchetto istruzione, sparpagliato nei mille rivoli dei tagli voluti dal ministro dell'Economia Giulio Tremonti per far quadrare i conti.
Ieri il capogruppo leghista al Camera Roberto Cota parlava di una ritrovata intesa nella maggioranza sulla riforma «che punta a migliorare l'università». Ma alla Lega premevano molto di più le scuole di montagna, alcune delle quali a rischio chiusura (come tante altre sul territorio nazionale, a cominciare dalle isole) per il dimensionamento imposto in un articolo della finanziaria intitolato alla sanità: «La Lega è soddisfatta perché ha ottenuto rassicurazioni anche sulle scuole di montagna». Che con l'università c'entrano ben poco.
Qualche dettaglio in più per far luce sulle intenzioni del governo, lo ha dato il capogruppo pdl al Senato Maurizio Gasparri, assicurando che il disegno di legge andrà di pari passo con «il confronto con i soggetti interessati», ma confermando che si farà ricorso allo strumento del decreto legge «se necessario, solo per le questioni più urgenti sul tappeto, come per esempio la trasparenza dei concorsi banditi nei prossimi mesi». Perché se la Gelmini sembra voler tenere il punto su tutto quanto contenuto nel decreto, forse su un punto cederà: quel blocco del turn over, che tanto preoccupa i cosiddetti baroni degli atenei. E per accontentarli senza perdere la faccia, oltre a garantire un minimo di trasparenza in più nei concorsi, bisogna soprattutto trovare le risorse. Problemi tecnici, dicevano giustamente a viale Trastevere ieri.
Per il resto si vedrà. Come osservava giustamente ieri lo stesso Gasparri, la Finanziaria «ha disposto razionalizzazioni che non hanno effetti significativi nel 2009. Effetti più consistenti ci saranno nel 3010, ma da qui al 2010 c'è tutto il tempo per discutere».

il Riformista 5.11.08
Veltroni prende sul serio l'apertura di Gelmini


Nel governo sono molto attenti a non parlare di «frenata» in merito alla svolta di un eventuale disegno di legge sulla riforma dell'università
Nel governo sono molto attenti a non parlare di «frenata» in merito alla svolta di un eventuale disegno di legge sulla riforma dell'università. Ma al di là dei distinguo, l'apertura al dialogo da parte del ministro Gelmini, che ha parlato chiaramente di «concertazione», rappresenta un'inversione di marcia rispetto al sordo decisionismo seguito per i tagli alla scuola.
Certo ciò accade dopo che spinte interne (malumori di An e Lega) e spinte esterne (le piazze di sindacati e studenti) hanno messo in un angolo il ministero affidato da Berlusconi alla giovane esponente forzista. Però, in questi casi, quello che conta è il risultato. Non a caso, Anna Finocchiaro del Pd si è espressa in termini positivi sul cambio di passo e di linguaggio del ministro. E se maggioranza e opposizione tornassero davvero a parlarsi su una materia così strategica, questo farebbe ben sperare per il futuro. Anche perché un sistema-paese che vuole lasciarsi alle spalle guasti e lacune di un'università che non funziona, che produce poche eccellenze e tanti disoccupati con preparazione mediocre, ha bisogno di dialogo e decisionismo, non solo di quest'ultimo. Per questo è importante che l'opposizione accolga sul serio l'invito della Gelmini.

il Riformista 5.11.08
Addio Rifondazione. Vendola fonda la Sinistra e chiede metà patrimonio
di Alessandro de Angelis


SCISSIONE. Venerdì l'annuncio, a dicembre il battesimo della nuova formazione, che punta all'alleanza con gli ex Ds. È guerra con Ferrero su soldi e sedi: «Se non ce le danno le occupiamo». DIVISIONI. Nichi Vendola va via dal partito, ma non lo dice

Forse nessuno dirà, come Bordiga a Livorno: «Porteremo con noi l'onore del vostro passato». Ma la scissione, dentro Rifondazione, ci sarà, eccome. Dopo mesi di guerra fredda, l'area di Nichi Vendola ieri ha ufficialmente messo in moto le pratiche. E venerdì - nel giorno dell'anniversario della presa del Palazzo d'Inverno - mentre Ferrero sarà a un dibattito sulla rivoluzione d'Ottobre il governatore della Puglia e il leader di Sd Claudio Fava presenteranno l'associazione «Per la sinistra»: praticamente l'embrione del nuovo partito (che verrà) a sinistra del Pd. Pronta una carta d'intenti firmata da intellettuali. Pronta anche la campagna per il tesseramento sul territorio, anzi in molte parti - Puglia Toscana, Liguria - è già iniziata. E, soprattutto, è pronto il battesimo solenne: il 13 dicembre nascerà «La sinistra», il nuovo soggetto della sinistra «senza aggettivi» che raccoglierà un pezzo di Rifondazione, gli ex diessini di Fava e «chi ci sta» dei Verdi e del Pdci. Il Goodbye Lenin dei bertinottiani è garantito: nel simbolo nessun riferimento al comunismo e alla falce e martello.
Prima però di dire «ce ne andiamo» i vendoliani hanno chiamato l'ultimo giro di valzer. L'ex capogruppo del Prc alla Camera Gennaro Migliore in un'intervista al manifesto ha proposto ciò che Ferrero vede come fumo negli occhi: liste unitarie, alle europee, di tutti quelli che stanno a sinistra del Pd. Quanto basta per far scattare l'allarme rosso a via del Policlinico. Ieri si è svolta una lunga segreteria per vedere il da farsi. Per ora il leader del Prc vuole evitare di gettare benzina sul fuoco ma respinge al mittente al proposta. Dice Ferrero al Riformista: «Noi al congresso abbiamo deciso di andare con le nostre liste, magari aperte a esponenti della sinistra. Il punto è che Migliore non vuole una lista ma un nuovo soggetto politico con solo una parte delle forze che hanno fatto la Sinistra arcobaleno. Al di là del fatto che la discussione è prematura, Migliore propone, in modo politicista, che il Prc svolti a destra e abbandoni il comunismo in nome del rapporto col Pd. E, invece di parlare di come si fa opposizione a Berlusconi, propone come punto di arrivo una forza moderata. Non è la linea del congresso».
Gli uomini macchina si preparano a gestire la scissione. Dice il potente responsabile dell'organizzazione del Prc Claudio Grassi, vicino a Ferrero: «Nel momento in cui verranno formalizzate le cose dette da Migliore si avvia un processo scissionistico. È evidente che una parte del partito non accetta l'esito del congresso. Ma sono convinto che una parte di loro non li seguirà». È guerra, soprattutto di nervi. I vendoliani fanno di tutto per muoversi come un partito autonomo. Alzando sempre di più il tiro. Nei prossimi giorni sono state programmate anche una serie di interviste per aprire al Pd. Domani, alla vigilia dell'happening con Fava, Vendola lo farà su Repubblica, e non è un caso. Franco Giordano spiega al Riformista i capitoli della discordia. Lista alle europee: «Di fronte alla crisi che ci sta piombando addosso è ridicolo presentarsi alle europee con un polverizzazione di microformazioni». Rapporto col Pd: «Dopo le manifestazioni - prosegue Giordano - e di fronte alla ripresa del conflitto sulla scuola e sui contratti dobbiamo sfidare il Pd sui programmi e sulla base di questo fare una manifestazione unitaria che costruisca l'alternativa a Berlusconi. Non basta sventolare i vessilli». Democrazia interna: «Perché non scegliamo i candidati alle europee con le primarie?».
Lo scontro al calor bianco è su soldi e immobili. Rifondazione ha il finanziamento pubblico fino al 2011. Dice un bertinottiano di rango: «Rappresentiamo il 47 per cento del partito. Vogliamo il 47 per cento delle risorse». Un'ipotesi che non viene presa nemmeno in considerazione dell'attuale gruppo dirigente del partito: «Il Prc c'era, c'è e ci sarà. Chi se ne va, va via a mani vuote» afferma Grassi. Non solo. Rifondazione dispone di un patrimonio consistente di sedi, appartamenti, foresterie: «Se non ce le danno le occupiamo» dicono i vendoliani che pensano di attuare il «metodo Cossutta». Nel '98 - ai tempi della scissione che diede vita al Pdci - i cossuttiani si presero manu militari le federazioni dove avevano la maggioranza. Ora Vendola controlla tutto il Sud ma al quartier generale di Ferrero non vogliono mollare. E da ieri è partita la moral suasion sui territori. Che suona più o meno così: «Che garanzie dà la prospettiva di fare un partitino con Sd, per poi andare nel Pd?». Ma la carta più forte che i seguaci di Ferrero si giocheranno sul territorio è l'orgoglio di partito. Nei giorni scorsi il segretario ha già bollato come «occhettiani» quelli che vogliono abbandonare la falce e martello. Un'accusa che gli uomini di Vendola considerano «rozza». Ma la battaglia riguarderà anche l'«onore del passato».

Asca 5.11.08
Cacciari: il Pd non ha niente a che fare con Obama


(ASCA) - Roma, 5 nov - ''Spero che nessuno sia cosi' patetico da appropriarsi della vittoria di Obama. Spero che alcuni esponenti del nostro governo abbiano quel residuo senso del pudore di non dire che assomigliano a Barack. Ma neanche il Partito Democratico ha niente a che fare con Obama. Quando vedro' il Pd rinnovarsi, non dico a livello di presidenti, ma di consiglieri comunali, con qualche quarantenne in piu', allora ne parleremo''. E' netto il commento di Massimo Cacciari, sindaco di Venezia intervistato da Affaritaliani.it, sull'elezioni del candidato democratico alla Casa Bianca. ''Per quanta stima e affetto io abbia per Veltroni, e' comico metterlo accanto a un evento di questa portata epocale. E sarebbe vergognoso se il tentativo di dire assomigliamo a Obama venisse da chi fino a ieri diceva di essere amico di Bush''.

Repubblica Palermo 5.11.08
Nietzsche in Italia due giornate di studio organizzate a Palermo


"Nietzsche in Italia", è il titolo di un convegno di studi che si svolgerà a Palermo a Palazzo Steri e a Villa Zito, domani e venerdì. Organizza l´Ateneo di Palermo con il patrocinio della Regione siciliana e della Fondazione Banco di Sicilia. La prima giornata di lavori si apre alle 9,30 di domani a Palazzo Steri (piazza Martina), sotto la presidenza di Piero di Giovanni, direttore del dipartimento "Ethos" dell´Università e promotore del convegno. Nella mattinata i saluti del nuovo rettore Roberto La Galla, di Gianni Puglisi, presidente della Fondazione Banco di Sicilia e dell´assessore regionale ai Beni culturali Antonello Antinoro, poi le relazioni di Giuliano Campioni dell´Ateno di Pisa, di Carerina Genna del locale Ateneo e del docente torinese Maurizio Ferraris. La sessione pomeridiana - dalle 16 - presieduta da Gioacchino Lavanco, prevede le relazioni dei docenti Michele Cometa (Palermo), Fabio Ciracì (Lecce), Antonello Giugliano (Napoli).
Venerdì il convegno si sposta a Villa Zito, via libertà 52, sede della Fondazione Banco di Sicilia. Presiede i lavori - dalle 9 - il docente Aniello Montano (Salerno) e relazioneranno Girolamo Cotroneo (Messina), Domenico Fazio (Lecce. Sarà Piero di Giovanni a concludere i lavori nella tarda mattinata.

Bollettino Università e Ricerca 5.11.08
Università di Firenze: “Oltre la sindrome di Stendhal”


Venerdì 7 presentazione a Prato del nuovo libro di Graziella Magherini. Che cosa avviene nella mente di un osservatore quando si trova di fronte ad un'opera d'arte che coinvolga emotivamente? E’ uno dei temi su cui indaga “Mi sono innamorato di una statua. Oltre la sindrome di Stendhal" il nuovo libro della psichiatra e psicoanalista Graziella Magherini - già autrice di "La sindrome di Stendhal" – che sarà presentato venerdì 7 novembre al Polo Universitario di Prato (Piazza Ciardi, 25 – ore 17.30).

Repubblica Genova 5.11.08
Psichiatri e fascismo la guerra dentro
di Paolo Arvati


Cogoleto, sera del 2 giugno 1922: un giovane infermiere dell´ospedale psichiatrico, mentre passeggia in compagnia di due colleghi, viene inspiegabilmente aggredito. Dopo un breve alterco, il poveretto è ferito a morte con vari colpi di rivoltella. La stampa genovese non attribuisce al fattaccio alcun movente politico, anche se l´infermiere è un socialista e l´assassino è conosciuto in paese come un tipaccio sempre disposto a menare le mani. Non ci saranno più dubbi invece su un episodio che accadrà solo tre mesi dopo. Nella notte tra il 3 e il 4 settembre (siamo ormai alla vigilia della marcia su Roma) una squadraccia di una sessantina di fascisti, pare di Varazze, irrompe in camicia nera nel manicomio di Cogoleto, con la scusa di cercare una bandiera rossa della Lega sindacale. Seguono perquisizioni degli armadi, maltrattamenti degli infermieri, colpi di pistola nei viali. Con questi due episodi emblematici inizia "La guerra dentro" (Ed. Ombre Corte, settembre 2008), un bel saggio sui rapporti tra psichiatria e fascismo scritto da Paolo Peloso che di mestiere fa lo psichiatra presso il Dipartimento di Salute Mentale di Genova. Il titolo segnala il paradigma interpretativo proposto: per il fascismo la guerra permane "come stato d´animo e stile mentale nei rapporti quotidiani". A questa idea ben presto la psichiatria italiana finisce per adeguarsi. Al fascismo corrispondono infatti un consolidamento degli aspetti autoritari del controllo, un´estensione del concetto di pericolosità sociale e dunque della pratica di internamento. Non è certo un caso che in Italia tra il 1926 e il 1941 si registri un aumento dei ricoverati da 60 a 96 mila, con conseguente brusca accelerazione della costruzione di nuovi manicomi (a Genova quello di Quarto). Negli stessi anni in Germania l´ideologia nazionalsocialista della purezza della stirpe investe il malato di mente prima di ogni altro. Anche se non si arriva alle mostruosità naziste, tra gli psichiatri italiani più autorevoli c´è chi sostiene il razzismo coloniale e poi quello antisemita, sulla scia di un complesso percorso di impronta positivista, sino alle tesi "eugenetiche" che auspicano una scienza capace di modificare e dirigere l´evoluzione della specie. A questo proposito Genova è un osservatorio importante per lo studio della psichiatria di regime: a Genova infatti opera sino alla morte, avvenuta nel 1929, Enrico Morselli, il più autorevole psichiatra italiano del tempo, firmatario nel 1925 del Manifesto intellettuale del fascismo insieme a Gentile, Pirandello e Ungaretti. Ma a Genova si forma anche un ambiente di oppositori: la figura più prestigiosa è quella di Ottorino Balduzzi, neuropatologo e psichiatra di fama nazionale, comunista, nella Resistenza fondatore dell´Organizzazione Otto (che da lui prende il nome) con il compito di mantenere contatti con il Comando Alleato ad Algeri. Neuropsichiatra è anche l´azionista Cornelio Fazio, uno dei soli quattro docenti genovesi di Medicina ad aver rifiutato il giuramento alla Repubblica Sociale.
Tra i tanti meriti del libro di Paolo Peloso, quello principale è di aver raccontato con una mole straordinaria di documentazione una delle vicende meno note della storia sia della cultura italiana, sia anche della nostra città.

Apcom 5.11.08
Usa 2008/ Bertinotti: La vittoria di Obama è enorme, ma non salva la sinistra
«Non si può ripartire da niente, il centrosinistra è morto»


Roma, 5 nov. (Apcom) - La vittoria di Barack Obama nella corsa alla Casa Bianca è «un fatto straordinario» ma non «salvifico» per la sinistra italiana ed europea. Così Fausto Bertinotti commenta l’elezione del 44. mo presidente degli Stati Uniti.
«Oggi Obama realizza un’impresa che sei mesi fa era imprevista e imprevedibile - sostiene Bertinotti alla presentazione di un libro dell’ex sottosegretario all’Economia, Alfiero Grandi, ’Ripartire da Prodì -, quando arrivano questi venti imprevisti tutto si rimette in gioco. È un fatto enorme, e che l’America avrà un presidente di colore, avrà un peso fondamentale nella storia. Un fatto enorme - ribadisce l’ex presidente della Camera - che ci riguarda seppur indirettamente, ma da cui non viene alcun elemento salvifico per la sinistra europea ed italiana. Non si può ripartire da niente e da nessuno. Il centrosinistra - conclude Bertinotti - così come lo abbiamo conosciuto è morto».

Ansa 5.11.08
Bertinotti. ripartire da Prodi? No grazie, esperienza sepolta

(ANSA) - ROMA, 5 NOV - Ripartire da Prodi e andare oltre la sconfitta? Intervenendo alla presentazione dell’ultimo libro di Alfiero Grandi, Fausto Bertinotti rifiuta senza esitazione di ripercorrere l’itinerario politico che ha condotto la sinistra fuori del Parlamento. «Il centro sinistra come l’abbiamo visto noi - ha spiegato l’ex segretario di Prc - è morto e sepolto. La sinistra è ora inesistente in Italia e a grave rischio di sopravvivenza in Europa. La sinistra italiana può oggi proporsi un solo obiettivo: ricominciare daccapo. E questo non significa rinunciare ad attingere dall’ esperienza passata. Non è vero che non abbiamo avi». Secondo l’analisi di Bertinotti, la crisi del centro sinistra «nasce da molto lontano, dal ’68 e dall’incapacità del Pci di diventare il partito delle riforme e di rompere i suoi rapporti con l’Urss». Dopo aver premesso che «sarebbe ingiusto attribuire tutte le colpe a Prodi», l’ex presidente della Camera ha ammesso che «il suo governo ha comportato una vera e propria devastazione nell’opinione pubblica ed una rottura irreparabile con i partiti che lo sostenevano». «Fu inutile - conclude Bertinotti - scrivere un programma nei minimi dettagli per darsi una rotta comune. È mancata una discussione strategica sul modello di sviluppo: è proprio da questo che la sinistra dovrà ripartire se vorrà vedere la luce». (ANSA). CSS 05-NOV-08 19:39 NNN

martedì 4 novembre 2008

Repubblica 4.11.08
Studenti. La rivolta dei ragazzi in cerca di futuro
di Michele Serra


Il loro nemico non è il governo, il loro nemico è il mancato investimento di un´intera società nei suoi figli, la sfiducia nella loro capacità non di essere aiutati, ma di aiutare
L´unica pista interpretativa solida e utile è guardare ai ventenni d´oggi come a persone che intuiscono la condanna e una eterna e indesiderata gioventù

È una contestazione diversa dalle precedenti. Distante dai contenuti del Sessantotto. Oggi i ragazzi chiedono cose poco ideologiche e molto concrete, legate al loro incerto futuro

Da qualche anno, come se si pronunciasse una qualunque tra le nozioni statistiche, si ripete che per la prima volta dal Dopoguerra i figli hanno prospettive economiche peggiori dei padri. Il concetto, a ben vedere, è devastante. Lo è socialmente, lo è psicologicamente. E valutandone meglio il significato, l´impatto sulla realtà, magari si sarebbe potuto prevedere con qualche anticipo quanto sta accadendo nelle scuole e nelle università. Perché non sono più l´ordine e il sistema di valori degli adulti, come quarant´anni fa, a essere passibili di contestazione. Non è la mentalità, non i costumi, non le idee politiche. Non i capelli corti e la cravatta, non l´ipocrisia sessuale, non il conformismo religioso, che per altro questi padri (noi) non incarnano più da tempo - semmai ne rappresentano gli innocui cocci in qualche modo rappezzati.
È la struttura economica in sé la nuova rigidità contro la quale cozza e si spegne, per milioni di giovani, il desiderio di futuro. È l´idea che il superamento dei padri (obiettivo fin qui, se non scontato, molto probabile) rischia di essere un´impresa disperata, e che lo stato di dipendenza - anche psicologica - dalla propria famiglia, ancorché alleggerita da un rapporto amicale o finto tale, possa trascinarsi fino ai primi capelli bianchi. Quando sentirsi "figli", se non è una nuova responsabilità che si assume nei confronti dei genitori che invecchiano, è solamente un malinconico strascico.
Poiché è piuttosto protervo, e soprattutto inutile, provare a incasellare i nuovi studenti in lotta nelle categorie per noi più familiari, e rassicuranti, mi sembra che l´unica pista interpretativa solida e utile sia proprio guardare ai ventenni di oggi come a persone che presagiscono, o intuiscono, la condanna a una eterna e indesiderata gioventù. Precaria a oltranza, come è precaria l´identità dell´adolescente, però quasi eternata da un mercato del lavoro che vede trentenni e quarantenni trattati da apprendisti, sbalestrati tra mezzi mestieri e titoli di studio che valgono appena il peso della carta su cui sono stampati, concorsi umilianti e fortemente sospetti, anticamere che schiudono le porte di altre anticamere. Esclusi da quelle certezze professionali che fungono non solo da sostegno economico, ma anche da fondamento identitario. Perché alla domanda "chi sono io" ciascuno di noi, fin qui, ha risposto anche con il proprio lavoro e la propria posizione sociale, sapendo che non bastava, ma era già qualcosa. E se questo qualcosa ora sfugge a chi vive la propria gioventù come uno smisurato parcheggio, e a migliaia (genitori e figli) scrivono ai giornali per descrivere il penoso limbo nel quale ristagnano le loro ambizioni, forse la chiave per capire i cortei, le occupazioni, gli slogan, non è un colpo di mano burocratico come il decreto Gelmini (casus belli piccolo piccolo).
La chiave è la messa in comune, la coscienza finalmente collettiva (politica molto più della politica...) di una condizione di non-crescita che solo la distrazione degli adulti ha potuto vedere, fin qui, appena come un ingombrante prolungamento dei doveri di genitore. Visto dalla parte dei figli, questo prolungamento può anche essere un´umiliante, insopportabile negazione di quel naturale sviluppo delle proprie facoltà, e della propria libertà, che conduce fuori casa e permette di pareggiare i conti, anche psichici, con chi ti ha cresciuto e mantenuto.
La giovinezza come blocco e non più come movimento: non era mai accaduto. Si rimprovera ai ragazzi in lotta di maneggiare con qualche approssimazione e troppa animosità cifre e tagli governativi, ma è dentro quella materia bruta - soldi, finanziamenti, ossigeno per durare - che giustamente devono e vogliono farsi le ossa: è della loro debolezza sociale, della loro poca voce politica, della loro ansia che quei tagli sono l´ennesimo artefice.
Il loro nemico non è il governo, il loro nemico è il mancato investimento di una intera società nei suoi figli, la sfiducia nella loro capacità non di essere aiutati, ma di aiutare. Cortei e occupazioni sono la risposta (tradizionale, rituale, ma trovatene un´altra) alla scarsa considerazione sociale della quale, esattamente come i loro insegnanti, sono vittime. L´inedita alleanza con gli insegnanti è rivelatrice: parla anche lei di una comune condizione, quella di precari o di precariamente pagati. In fin dei conti molti insegnanti, e perfino molti ricercatori universitari, sono trattati da "ragazzi" anche se alle viste della pensione, e il deprezzamento culturale, e lo sfregio greve di certi commenti politici ("è finita la ricreazione", "studenti somari", "insegnanti inutili") non fa che confermarli nella loro malinconica rabbia. Chi non è considerato, chi non è ascoltato, inevitabilmente finisce per darsi voce.
Che poi sopra questo tessuto vitale, fortemente espressivo, gli adulti vogliano ancora tessere le loro trame politiche, cavalcando la tigre oppure cercando di ingabbiarla, fa parte dello stesso copione che questi ragazzi vogliono provare a riscrivere. La fatica è enorme, l´impresa durissima. Rispettarla non significa adularla, significa coglierne gli elementi di verità (esistenziale e non solo politica) che questo movimento rappresenta. Di certo, oggi, c´è solo una cosa: che nessun Ionesco potrà affacciarsi alla finestra - come dice l´aneddoto forse leggendario - dicendo beffardo ai giovani in corteo, nel maggio francese, "diventerete tutti notai". Perché è già tanto se li assumono in un call-center con due mesi di contratto. Notai? Magari fosse vero.

Repubblica 4.11.08
Perché non è solo una questione di disciplina e di sprechi
La scuola senza qualità
di Domenico Starnone


Nella testa di chi studia prima o poi si affacciano una serie di domande. Quando queste domande diventano esplicite, lo studente smette di essere uno in attesa del tempo a venire e diventa una rogna

Il ruolo dello studente si sa qual è, a occhio e croce: sgobbare obbedientemente nel presente per essere premiato nel futuro. Senonché lo studio viene sempre a cadere in un presente che non promette niente di buono e in un mondo con tratti immondi che sembra avere un pessimo futuro. Conseguenza: nella testa di chi studia si affacciano presto o tardi almeno tre domande. La prima: che razza di scuole hanno fatto quelli che adesso gestiscono così disastrosamente casa nostra e il pianeta. La seconda: che razza di scuole ci stanno facendo fare. La terza: che scuola, che università bisogna inventarsi per studiare in modo da darsi un futuro che non sia sgangherato come il presente. Quando, per un motivo o per l´altro, queste domande diventano esplicite, lo studente smette di essere uno in disciplinata attesa del tempo a venire e diventa, nel turbolento presente, una rogna.
Oggi siamo a questo punto, cioè alla rogna. Eppure tutto pareva andare liscio. I secolari problemi della scuola di massa, presenti in tutti i paesi avanzati, erano stati ridotti al tema della disciplina e degli sprechi. Ci si era tutti convinti che la scuola non funzionasse primo per colpa di un pugno di bulli, secondo perché gli insegnanti sono troppi e sfaticati, terzo per via delle ideologie permissive dei docenti di sinistra che impediscono una selezione vera dei capaci e dei meritevoli. Così il governo, per bocca della ministra Gelmini, stava gettando con successo fumo negli occhi, come in tanti altri settori, approntando non riforme e altre cose costose, ma un po´ di frusta, parecchi tagli e un´impressione di ritorno al passato (grembiule, maestro unico, voto di condotta, bocciature, classi differenziali), che è sempre il modo migliore per lusingare l´elettorato di centrodestra e anche un po´ di quello colloquiale di centrosinistra.
Ma è esplosa la crisi finanziaria e il giochino non ha funzionato. Il futuro fosco ha reso evidente il cattivo presente, gli studenti disciplinati sono scesi in piazza ed ecco che sono diventati più pericolosi degli studenti bulli. Anzi, come si è potuto vedere a piazza Navona, i bulli si sono trasformati all´improvviso in studenti modello, hanno ottenuto la condiscendenza dei tutori dell´ordine e hanno sprangato i fannulloni di sinistra con spranghe tricolori.
Perché? Perché una serie di temi, considerati negli ultimi due decenni risibili, sono ritornati al centro e non è roba che si può nascondere sotto i grembiuli o dietro il voto in condotta o dietro le classi per soli immigrati: il diritto allo studio insidiato dalle disuguaglianze; la qualità dell´insegnamento nella scuola e nell´università di massa, dove non basta ratificare fiaccamente che ci sono i capaci e i meritevoli, bisogna anche riorganizzarsi in modo da far venire fuori capacità e meriti nei più, gli svantaggiati, i non adatti; lo scollamento forse definitivo tra istruzione e lavoro, tra le modalità della trasmissione di cultura nella scuola e nell´università, e i mutamenti tecnologici degli ultimi decenni; il tentativo sempre in atto di trasformare l´istruzione in merce redditizia, lasciando intanto che si impoverisca l´istruzione pubblica.
Ecco dunque che, dopo i cortei e le proteste, a destra ma anche a sinistra le scuole e l´università sono diventate all´improvviso accettabili, tanto che ora tutti vogliono rimandare di corsa gli studenti nelle aule. A destra, i giovani sono stati inseriti in due grandi contenitori: uno enorme, fatto di studenti desiderosi di tornare a studiare nella scuola così com´è, tanto che non si capisce più perché mai c´è un decreto Gelmini, se una massa disciplinatissima di ragazzi non vede l´ora di richiudersi nel normale trantran, basta con le manifestazioni; e un contenitore esiguo, abitato da facinorosi tutti di sinistra che vogliono rifare il �68, impediscono ai più di studiare e perciò si meritano di essere sprangati. A sinistra invece c´è per ora un contenitore solo, tutto pieno di studenti che a scuola e all´università ci starebbero bene, se non fosse per le cattive intenzioni di Gelmini. Ma, battuta la ministra, cosa si combinerà? Si può ricominciare senza troppe preoccupazioni? Fa niente se siamo lontanissimi da una scuola capace di assicurare a tutti un´istruzione di qualità? Fa niente se l´università è ridotta a un ottuso esamificio, via uno avanti un altro?
La verità è che ciò che gli studenti sanno meglio di tutti per diretta esperienza è che scuola e università, a parte qualche isola felice e un po´ di docenti volenterosi, funzionano sempre peggio. Il loro cattivo funzionamento per di più è diventato un circolo vizioso: l´università, mal funzionando, alimenta il cattivo funzionamento delle scuole, e le scuole, mal funzionando, alimentano il cattivo funzionamento dell´università. Gelmini ha il torto gravissimo di essere il peggior rimedio possibile, il rimedio che uccide il malato. Ma, bloccata lei, la malattia resta.

Repubblica 4.11.08
È dal XII secolo che la massa studentesca protesta
Quei corte nati nel 1100
di Adriano Prosperi


Il sapere che si apprendeva nelle scuole era qualcosa di redditizio, di utile. Non per niente Dante, nel "Convivio", aveva criticato quei dottori che studiavano «non per sapere ma per acquistare moneta o dignità»

Nella mia fine è il mio principio: così potrebbe dire oggi il movimento studentesco. La massa studentesca in agitazione richiama la definizione che un anonimo poeta del secolo XII dette degli studenti di Bologna accorsi a incontrare l´imperatore Barbarossa: una folla di giovani che volevano imparare ("discere turba volens"). Ancora oggi non si dà migliore definizione della massa giovanile che in nome della qualità degli studi si entusiasma quando Obama presenta il suo esempio personale e il suo programma sulla scuola pubblica, che scende in piazza quando in Italia se ne propone invece l´umiliazione e la disattivazione. Da quelle lontane origini ritorna una parola: autonomia. Oggi è il rifiuto di ogni etichetta partitica. Allora e per molto tempo fu l´elaborazione e la difesa di forme associative proprie per confrontarsi coi poteri esistenti. Le "nazioni" di studenti di ogni paese europeo (e la parola che nacque allora era l´indicazione di una differenza, non di una ostilità, esprimeva l´associazione di mutuo soccorso tra chi veniva dagli stessi paesi) si unirono col vincolo del giuramento a formare un corpo collettivo o come si diceva allora una "Universitas", dall´autonomo ordinamento: eleggevano i rettori, trattavano col collegio dei docenti pagati da loro, erano esentati dai tribunali locali e giudicati dai loro docenti o dal vescovo della città. I docenti che si assentavano durante l´anno e non completavano il programma pagavano multe salate: ed era una commissione segreta di studenti che controllava e denunziava.
Processi di cambiamento nei tempi lunghi della storia portarono a rovesciare la situazione: il corporativismo studentesco dovette cedere, i docenti da dipendenti stipendiati divennero una categoria superiore e dominante della vita universitaria, i rettori non furono più i difensori dell´autonomia ma si legarono al potere, gli ordinamenti giudiziari cittadini imposero il loro diritto d´intervento in caso di disordini e di crimini. E tuttavia, anche quando la nascita di monarchie e di chiese nazionali innalzò barriere di ogni genere alla libera circolazione di studenti nell´Europa di antico regime, rimasero a lungo in vigore speciali privilegi che impedivano l´accesso di sbirri in università. Una cosa quei poteri seppero comprendere: la decisiva importanza della cultura per la crescita della società e per l´efficienza delle burocrazie. Il sapere che si apprendeva nelle scuole era qualcosa di redditizio, di utile. Non per niente Dante Alighieri aveva criticato quei dottori di legge e di medicina che studiavano «non per sapere... ma per acquistare moneta o dignitate»(Convivio). Moltiplicati, regionalizzati, controllati da poteri locali, gli Studi - come si chiamavano allora le università - vennero trasformandosi in disciplinati contenitori per l´allevamento di corpi burocratici, di medici, di avvocati, di insegnanti fedeli al sovrano e alla religione ufficiale. Venne modificandosi così la stessa figura sociale dello studente. Aumentarono i controlli; gli studenti non furono più una massa migrante da una città all´altra come uccelli di passo alla ricerca del migliore docente. Vincolati ai paesi d´origine, si piegarono alla disciplina delle classi scolastiche e vissero in collegi secondo il modello gesuitico. Le misure di controllo si giustificarono in nome del disordine e della violenza, minaccia latente nella concentrazione in città di tanti giovani uomini: uno ogni 23 abitanti nella Bologna del ‘300, secondo un calcolo approssimativo. Aumentò la selezione sociale. Accanto alla maggioranza di studenti ricchi c´erano stati quelli poveri che si guadagnavano da vivere come loro servitori. Il ricordo dolcissimo degli studi giovanili rievocata nelle note autobiografiche di studenti celebri come Francesco Petrarca assumeva per altri i toni crudi della fame e della sete. Il grande editore svizzero del ‘500 Thomas Platter raccontava ai figli come fosse stato costretto a dissetarsi con la propria orina mentre attraversava le Alpi per andare da una università a un´altra: perché naturalmente la ricerca di sedi qualificate e di maestri di alto livello faceva degli studenti universitari dei "vagantes", incontrollabili vagabondi.
Studente: la parola racconta una storia e contiene una informazione. Quel participio presente del verbo studiare ci dice che stiamo parlando di una condizione provvisoria. Provvisoria e difettiva: si studia e si impara per fare poi qualcosa, non per restare in quella condizione. Erano in genere dei ragazzi di 15 anni, l´età in cui - scriveva Boncompagno da Signa - «l´ingegno umano è come cera calda». E dopo 4-5 anni uscivano dagli Studi per affrontare la vita. Doveva trascorrere una lunga storia perché l´atto transitorio di una minoranza privilegiata finisse per indicare un´intera categoria sociale, una fase della vita che nelle società economicamente sviluppate tutti debbono attraversare, che si prolunga sempre di più fino a conferire talvolta all´intera esistenza la nota dominante della precarietà.

Repubblica 4.11.08
"La Finanziaria uccide i nostri atenei" l'allarme del rettore del Politecnico
di Teresa Monestiroli


Milano, irruzione di An. Formigoni: risparmi chi spreca

MILANO - I tagli previsti dalla Finanziaria faranno «morire i nostri atenei» e renderanno «l´Italia vassalla degli altri paesi». Sono parole dure quelle scelte dal rettore del Politecnico di Milano, Giulio Ballio, per l´inaugurazione del 146° anno accademico. Parole piene di «rabbia e delusione» che prospettano un futuro disastroso per «la ricerca, l´innovazione scientifica e la tecnologia del nostro Paese», ma soprattutto per i giovani «costretti a fuggire all´estero». «Siamo sull´orlo del burrone - dice - se il finanziamento statale sarà confermato torneremo ad essere una scuoletta. Potremmo arrivare anche a chiudere il Politecnico».
Un discorso preparato con cura in un clima di protesta che resta però lontana dall´aula, nel cortile dell´università, dove giovani di sinistra e di cielle si sono dati appuntamento con i loro striscioni. Un solo momento di tensione si registra quando uno studente di Azione universitaria (lista di An) interrompe la cerimonia srotolando lo striscione: «Voi baroni preoccupati noi studenti disoccupati». Un discorso durissimo quello di Ballio - «Per innescare un percorso virtuoso basterebbe investire in modo mirato qualche centinaio di milioni di euro, spiccioli rispetto al salvataggio di Alitalia» - sposato a sorpresa dal presidente della Lombardia Roberto Formigoni che, nel chiedere al governo un «ripensamento» lancia un appello: «Bisogna uscire alla logica dei finanziamenti a pioggia». Pur sottolineando la «necessità di una razionalizzazione della spesa», il governatore di centrodestra bacchetta l´esecutivo criticando «i tagli indifferenziati» che premiano «lo spreco, l´inefficienza e la diseconomia». Al contrario, secondo Formigoni, «l´università ha bisogno di una riforma coraggiosa e organica nell´ottica della qualità». «Confido - dice dal palco - che il governo voglia muoversi in questa direzione». Si conquista l´applauso di professori e ricercatori, ma soprattutto l´approvazione del centrosinistra. La senatrice del Pd, Marilena Adamo, gli stringe la mano. «Avrei voluto baciarlo. Si è fatto il paladino delle nostre università».
Mentre il ministro dell´Istruzione Gelmini dà forfait, limitandosi a mandare una lettera - che arriva a cerimonia conclusa - così come il presidente del Senato Schifani e il sindaco Moratti, Formigoni - ciellino doc - lancia il suo affondo. Anche se all´uscita specifica: «Non ho attaccato il governo, ho detto solo che i tagli non devono essere indiscriminati. Non si può tagliare nello stesso modo le università dove ci sono sprechi e deficit e quelle che riescono a far fronte alle spese». E quelle lombarde «sono le più penalizzate». Sottofinanziate, spiega il rettore, di più di un miliardo di euro.
Sul fronte delle scuole invece quattro studenti sono stati denunciati per avere organizzato un picchetto davanti a scuola, l´ex magistrale Agnesi, dove un gruppo di ragazzi ha bloccato gli ingressi per convincere i compagni a occupare. Poco prima delle 9 sono stati fermati dai carabinieri in borghese chiamati da un genitore. I quattro, dai 17 ai 19 anni, sono indagati per interruzione di pubblico servizio.

Repubblica 4.11.08
Ecco il decreto che la Gelmini ha bloccato "Ora mi prenderò tempo per riflettere"
Previsto il blocco delle assunzioni nelle università sprecone: ora andrà in un ddl
di Giovanna Casadio


ROMA - Ora il ministro Mariastella fa sapere: «Mi prenderò il tempo che occorre». Sull´università, ammette, non c´è tutta quella fretta che s´era detto. E precisa: «Continuo a lavorare sulle linee di indirizzo ma nessuno aveva pensato di fare una riforma per decreto». Non del tutto vero. Perché un decreto, o meglio uno «schema di decreto legge» sulla «valorizzazione del merito nelle università e negli enti di ricerca», ha già fatto il giro degli uffici legislativi del governo.
Tre articoli, moltiplicati per una decina di commi. Il primo - il più importante - è contro la finanza allegra degli atenei e per liberalizzare in qualche modo il reclutamento dei ricercatori massacrati dal blocco del turn-over. Disposizioni urgenti. «Riservato», recita la nota di accompagnamento. Arenato anche questo, comunque. Sia per i costi che prevede e anche «a causa delle polemiche». Per la Direzione generale del ministero, il provvedimento era positivo: una buona cosa, però si sono scatenate «le polemiche...quelle sui concorsi e quelle politiche». Così questo provvedimento - «uno degli interventi d´accompagnamento» del "pacchetto" sull´università, come l´ha definito il direttore generale Antonello Masìa - viene accantonato. Però gran parte di queste misure dovrebbero essere trasferite in un disegno di legge.
Mariastella Gelmini, ministro sotto assedio, questa volta aveva puntato ad addolcire la pillola amara dei tagli previsti dalla legge 133, quella che ha firmato insieme con Giulio Tremonti. Nella sede dell´Eur, dove in questi giorni si rifugia spesso, la Gelmini tiene una riunione dietro l´altra. Con questo testo in particolare, riteneva di essere sulla strada giusta, di coniugare cioè rigore, buonsenso e insomma di capitalizzare, dopo la rivolta nel paese, un po´ di consensi. Un decreto che costa però, più di quanto non risparmi. In concreto, al primo comma impedisce alle università che spendono in stipendi per il personale più del 90 per cento del Fondo di finanziamento ordinario, di bandire posti di qualunque tipo. Secondo una sommaria panoramica le università prodighe sarebbero Siena, Firenze, Pisa, Napoli Orientale, Cassino, Trieste.
Altra penalizzazione per gli atenei non-virtuosi è rappresentata dall´esclusione dalla ripartizione dei fondi relativi al piano straordinario per l´assunzione dei ricercatori per gli anni 2008/2009. Poi, le deroghe al limite previsto dalla 133 per l´assunzione di ricercatori che hanno superato concorsi banditi prima dei "tagli": possono essere assunti in numero non superiore al 20 per cento delle risorse e al 20 per cento delle unità collocate a riposo nell´anno precedente. Possibilità inoltre di sforare la norma sul turn-over se l´università è particolarmente risparmiosa. Un breve capitolo è dedicato al meccanismo di concorso. Qui però, negli ultimi giorni si sono rincorse varie stesure, limature, ripensamenti. La più gettonata prevedeva di «allineare» la selezione alla prassi internazionale, perciò una commissione composta da un membro della facoltà e due sorteggiati, di pari grado o superiore, a garanzia del carattere nazionale della selezione.
Nel decreto per l´università anche l´articolo da concordare con il ministro Brunetta sugli enti di ricerca. Infine, soldi. Stanziamenti per alloggi e residenze per gli studenti (7 milioni), scoprendo che l´Italia è l´ultimo paese europeo in fatto di residenze universitarie. Un cospicuo finanziamento anche per borse di studio per chi merita. E qui, i collaboratori della Gelmini mettono subito le mani avanti: «Quelle cifre sono vecchie, poi era già stato tutto riscritto».
Fin qui, il decreto. L´unico che sia stato finora redatto sull´università. Né ce ne saranno altri. Il ministro fa sapere che preparerà l´atto politico di indirizzo, i disegni di legge specifici su governance, risorse, merito, personale. In via d´urgenza, niente. La piazza prima, le critiche nella sua stessa maggioranza, mezza Italia sulle barricate nelle scuole e nelle facoltà, consigliano alla Gelmini di cambiare strada. «Guardi ministro, il consenso non è un fatto accessorio», le ha ripetuto Luciano Corradini, l´ex sottosegretario del governo Dini, amico di Prodi, che abita a Brescia (la città di Mariastella). A lui e al pedagogista Giuseppe Bertagna ha chiesto consiglio. E loro le hanno suggerito: confronto, dialogo, ascolto.

Repubblica 4.11.08
Il leader Pd: "I dati dei sondaggi li spingono a riflettere”
Veltroni: "Sì al confronto se il governo sospende i tagli"


Bonaiuti, Pdl: "Non c´è crescita dell´opposizione" Casini: "Serve il dialogo con tutti"

ROMA - «Bisogna togliere i tagli sia sulla scuola che sull´università: solo a quel punto si può iniziare a discutere. Le cose sono legate. Se lo faranno saremo prontissimi a discutere in Parlamento per cercare soluzioni condivise». Walter Veltroni risponde così alle aperture di un centrodestra pronto a dialogare sui problemi dell´istruzione. Il leader del Partito democratico apprezza la mossa del governo e della maggioranza: ««È un segnale di forte autocritica, hanno sempre teorizzato il contrario», spiega il leader del Pd. Che imputa il cambio di marcia del Pdl con segnali negativi che arrivano dagli elettori: «Evidentemente - dice Veltroni - i dati dei sondaggi li spingono a riflettere perché c´è un forte calo dei loro consensi e un aumento dei consensi dell´opposizione».
Tema caldo quello dei sondaggi. A Veltroni risponde, infatti, Paolo Bonaiuti. «Veltroni è stato colto di nuovo dalla terribile sindrome del sondaggio. - dice il portavoce di Silvio Berlusconi. - La febbre alta, tipica di questa sindrome che già lo colpì nella scorsa campagna elettorale, gli fa vedere una forte crescita dell´opposizione che in realtà non c´è e gli fa credere che siano vicine le vette raggiunte dal Popolo della Libertà. Qualcuno lo fermi subito o la delusione sarà troppo forte».
La controreplica arriva da Piero Martino. «Per mesi Bonaiuti ha fantasticato su un consenso per il governo e per il presidente del Consiglio superiore al 70 per cento. - dice il capo ufficio stampa del Pd - Ma quella cifra non è mai esistita; oggi, poi, tutti i sondaggi rilevano una forte perdita di consensi per Berlusconi e la sua squadra. Bonaiuti conosce i sondaggi come noi e meglio di noi. Quindi, non faccia il furbo».
Il Pd però insiste nel chiedere di azzerare tutto e ricominciare a discutere. Forte anche di alcune crepe nella maggioranza. Tema su cui insiste Anna Finocchiaro. «Le parole che vengono in queste ore da autorevoli esponenti del governo e della maggioranza (penso a Calderoli, a Formigoni, a Rotondi solo per citarne alcuni), testimoniano di una consapevolezza che comincia a farsi strada nel centrodestra: con l´autosufficienza e l´arroganza non si governa un paese e una grave crisi economica e sociale», dice il presidente dei senatori democratici. E all´invito al dialogo e a riprendere a discutere sgombrando il campo dall´idea di usare il decreto legge anche per l´Università, associa anche Pier Ferdinando Casini. «Il governo deve evitare di andare avanti per decreto anche sulle università perché prima di fare la riforma c´è bisogno di un confronto vero con tutti: studenti, professori, rettori», dice il leader dell´Udc.
(si.bu.)

Corriere della Sera 4.11.08
Gli studenti e la Gelmini
La scuola è l'ultima comunità
di Paolo Franchi


Sostiene Pierluigi Battista che, per misurarsi con quanto va capitando nelle scuole e nelle università, bisogna togliersi gli occhiali ideologici datati 1968 o giù di lì. E che tocca anche agli studenti difendersi dal parassitismo dei reduci pronti a planare sull'Onda.
Ha ragione. E non solo perché sono passati 40 (quaranta) anni. I protagonisti del '68 furono i baby boomers, figli della rivoluzione delle aspettative crescenti e, in Italia, del primo centro-sinistra, quello vero, delle speranze e delle delusioni che aveva suscitato. La stessa idea di avere tutto e subito, anziché qualcosa e un po' alla volta come pensavano i genitori moderati, riformisti e magari anche togliattiani, era dettata nello stesso tempo da un radicale rifiuto dello stato di cose presente (la «contestazione globale») e da uno straordinario ottimismo circa il futuro (l'«immaginazione al potere»).
Il movimento di protesta attuale con tutto questo non c'entra nulla. Di «contestazione globale» non c'è traccia, e con questi chiari di luna solo degli scriteriati assoluti potrebbero essere ottimisti. Nessuno scriverebbe più lettere a una professoressa o dotte tesi «contro la scuola»; e a nessuno o quasi salta in mente di «uccidere il padre» o, più semplicemente, di contestare più di tanto gli adulti. Al contrario, il sentimento dominante è la preoccupazione. Anzi: la paura. La paura del futuro, naturalmente. E la paura che, attraverso dei tagli indiscriminati, venga messo in discussione il presente della scuola non per cambiarlo in meglio là dove va cambiato, ma per tornare al passato. O meglio all'idea mediocremente reazionaria di un passato in cui la gente stava al suo posto, la vecchia maestra (unica, si capisce) era autorevole e materna al punto giusto, a scuola si andava con il grembiulino, e sul voto in condotta ci si giocava l'anno. Molti nel centrodestra sostengono che, ad alimentare questa paura, abbiano concorso assai da una parte i limiti di comunicazione del ministro e del governo, dall'altra una capacità del Pd e della sinistra, sin qui insospettata e insospettabile, di mobilitare il mondo della scuola manipolandolo a colpi di strumentalizzazioni e di bugie. Può darsi. Ma, se si cercano qui le motivazioni fondamentali di questa protesta, non si va molto lontano. In questi 40 anni, la scuola italiana (l'università meriterebbe un discorso diverso e più complicato) è diventata quello che nel '68 era solo in piccola parte, e cioè una scuola di massa, traballante e malridotta come sappiamo, ma di massa, su cui si rovesciano tutte le trasformazioni sociali e culturali della società italiana. Fatica a reggere l'urto, anzi, fa acqua da tutte le parti. Ma, in ultima analisi, tiene. Non è fatta solo, né soprattutto, di bullismo, di insegnanti fannulloni e di genitori imbufaliti che picchiano i professori rei di non aver promosso i loro figli zucconi. Queste figure certo non mancano. Ma non sono la scuola. Perché la scuola è, in primo luogo, una grande comunità in un Paese in cui tutte o quasi le grandi comunità sono venute meno, un fattore di coesione in tempi di disgregazione; o almeno così la percepisce la gran parte degli studenti, degli insegnanti e delle famiglie. È una comunità che non si lascia spiegare solo dalla docimologia o dai rapporti dell'Ocse: se scricchiola, è anche perché le si chiede (apertamente, perentoriamente, pena l'adozione di misure draconiane) di trovare i percorsi per premiare il merito e far emergere le eccellenze, e nello stesso tempo le si fa carico (ma sottovoce, senza attribuire alcun valore alla cosa) di continuare ad essere, ma gravando il meno possibile sulle casse dello Stato, un potente fattore di inclusione sociale.
La maggioranza degli studenti e degli insegnanti, e buona parte dei genitori, la criticano, ma la difendono perché è l'unica cosa che hanno: ne conoscono le difficoltà, e magari vorrebbero fare qualcosa per superarle, ma non la considerano un carrozzone da sbaraccare. Questo potenziale di protesta non basta, da solo, per porre le basi politiche e culturali di un movimento per la riforma. Ma chi a un punto di vista riformatore nonostante tutto non ha rinunciato sbaglierebbe a sottovalutarne la portata. Non deve essere un caso se, con l'arrivo dell'Onda, il consenso al governo è per la prima volta bruscamente calato; e se di questo calo il Pd si è avvalso tanto poco.

il Riformista 4.11.08
Silvio e la grande frenata. Tre stop in una settimana
di Alessandro De Angelis


UNIVERSITÀ, LEGGE ELETTORALE, GRAFFITI. Il governo ha smesso di procedere a tavoletta, nella maggioranza tornano veti e distinguo e i sondaggi sono in calo. La Lega apre al Pd sulla scuola e Fini prepara l'affondo anti-Carroccio in difesa dello «Stato». Un sussurro: «Si è riaperta la guerra di successione».

Nessuno lo dice apertamente ma la sensazione è che nel centrodestra qualcosa non va. Basta mettere in fila i dossier dell'ultima settimana. Di legge elettorale, dopo che la riforma è tornata in commissione, non se parla più: «Indubbiamente è fallita e si voterà con l'attuale. Questo penalizza Veltroni ma il capitolo chiuso è anche una nostra sconfitta» dice un azzurro di rango. Una quadratura del cerchio non si è trovata nemmeno sulle misure antigraffitari. E a Palazzo Grazioli già circolano veleni sulla Lega: «Qualcuno vuole usare l'imbrattamento dei muri per propaganda politica. Basta vedere le scritte nel Nord Italia». Altro segnale è il dibattito sulla sospensione della Bossi-Fini. Dopo le aperture di qualche deputato della maggioranza, da Cazzola a Della Vedova, ieri è intervenuto il capogruppo del Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto: «Non condividiamo l'ipotesi di proporre la liquidazione o la sospensione della legge Bossi-Fini, che ha consentito la normalizzazione dello status di centinaia di migliaia di immigrati che lavorano nel nostro paese».
Il fronte caldo riguarda l'Università. La linea ufficiale è che il governo presenterà uno o più disegni di legge. Ma l'ipotesi di un decreto non è stata del tutto accantonata. La valutazione sarà fatta solo nei prossimi giorni, sentito Tremonti. Per ora la parola d'ordine è dialogo: «Alla vigilia di un cambiamento - dice la presidente della commissione Cultura della Camera Valentina Aprea - è facile che si formi un blocco conservatore che inneggia allo status quo. Noi andremo avanti senza interrompere il confronto col mondo dell'Università». Guai a parlare di retromarcia. L'obiettivo - colpire la "casta" dei docenti - rimane : «Va liberalizzato prosegue Arpea - il reclutamento dei docenti, troppo ingessato in famiglie e comunità scientifiche chiuse». All'ordine del giorno anche qualche aggiustamento nella comunicazione: «Non è vero che il ministro non ha incontrato nessuno. In questi mesi ha incontrato sindacati, insegnanti. Il problema è che non lo ha fatto con una agenda precisa» affermano gli spin doctor della Gelmini.
La sensazione è di lavori in corso nella maggioranza. Spiega Renato Mannheimer al Riformista: «C'è un trend abbastanza consolidato di perdita di consenso del governo tra i dieci e i venti punti, a seconda degli istituti. La scuola ha inciso, così come la crisi. Ma la sensazione è che il governo ha iniziato con piglio decisionista ma poi non è riuscito a quagliare. Certo, era difficile quagliare ma questo è l'umore dei cittadini». Qualcosa, dunque, è cambiato. Uno degli spin doctor di Berlusconi, Giorgio Stracquadanio, la mette così: «Temo che qualcuno si illuda che si è aperta la guerra di successione a Berlusconi». Il riferimento, neanche tanto implicito, è al pressing che si è manifestato su tutti i fronti da parte di An e Lega. Ieri il ministro Calderoli, in un'intervista a Repubblica ha lanciato un appello all'opposizione: «Dagli errori bisogna imparare. Sulla scuola ci vuole un discorso unitario». Difficile non vedere nell'apertura un messaggio che va oltre il dossier scuola. Immediata la replica di Veltroni: «In questo invito c'è già una forte autocritica».
Questa settimana mostrerà i muscoli anche Gianfranco Fini (verso il premier e la Lega). Il presidente della Camera oggi, in occasione della celebrazione della Festa delle forze armate, manderà un messaggio forte all'insegna dei valori della «nazione» e della «patria». E sabato, in occasione del dibattito con Massimo D'Alema, al convegno organizzato dalle fondazioni ItalianiEuropei e Fare Futuro, Fini dirà che il federalismo non è una questione ideologica e che in parlamento serve «una discussione ampia e approfondita». Ma affermerà anche che - come accade nel resto dell'Europa - lo Stato manterrà un ruolo importante.
A Palazzo Grazioli la linea è sdrammatizzare: «Basta leggere - afferma Stracquadanio - l'intervento di Berlusconi alla rivista di Don Verzè per capire che il premier sente di avere un futuro di almeno cinquant'anni ed è l'unico a dare coerenza strategica al centrodestra in Italia». E Bonaiuti aggiunge: «Nei sondaggi cresciamo noi. Il Pd è sotto il 30 e Veltroni invece di fare proposte concrete gonfia una inesistente discrasia tra la Lega e il resto della coalizione». L'ennesima dimostrazione di forza, dicono gli uomini del premier, Berlusconi la darà alle prossime regionali del 30 novembre in Abruzzo. Passata la grande paura sull'ammissibilità delle liste - ieri la Corte d'appello ha dato il via libera a quelle del Pdl - è cominciata la campagna elettorale. E il Cavaliere ha già messo in agenda un tour nelle quattro province, a sostegno del "suo" candidato.

il Riformista 4.11.08
La gauche della gauche può parlare di nuovo
di Ritanna Armeni


Qualcosa contro
Esattamente una settimana fa Liberation avvertiva in prima pagina «La sinistra vira a sinistra». E da noi?

Esattamente una settimana fa Liberation, quotidiano francese, avvertiva in prima pagina «La sinistra vira a sinistra», e riportava i dati di un'inchiesta secondo cui i temi più radicali conquistavano sempre più le varie famiglie della sinistra. È un fatto - concludeva il giornale - di cui il congresso del partito socialista dovrà tenere conto.
Le ragioni di questa virata a sinistra, secondo Liberation, hanno origine nel collasso della finanza internazionale che ha messo in crisi le idee liberiste egemoni nel mondo fin dagli anni 80. Di fronte alla crisi delle banche e delle borse, all'aggravarsi delle ingiustizie sociali e alla gravità della recessione che si attende, le idee di intervento pubblico, di sviluppo "ecocompatibile", di solidarietà sociale - commenta il quotidiano - ritornano in auge. E quindi la "gauche de la gauche", la sinistra della sinistra può parlare di nuovo.
Non è una affermazione da poco se si tiene conto che esattamente un anno fa lo stesso quotidiano, dopo un'inchiesta analoga aveva titolato: «La sinistra vira a destra?». C'erano appena state le elezioni presidenziali, la sconfitta di Ségoléne Royal, la vittoria di Nicolas Sarkozy.
Perché mi pare utile riferire di questa inchiesta? Perché ho l'impressione che se un'analoga indagine fosse condotta in Italia i risultati non sarebbero molto diversi. Gli argomenti di chi ha sostenuto in passato la necessità di una critica radicale alla globalizzazione e di chi non ha abbandonato i contenuti classici della socialdemocrazia avrebbero oggi un credito considerevole. E, come è avvenuto in Francia per i socialisti, anche in Italia il Partito democratico sarebbe preso di contropiede. Il "realismo" che ha portato i due partiti in questi anni ad abbracciare (con maggiore o minore convinzione) i contenuti di un liberismo che pareva vincente, oggi apparirebbe in crisi in Italia come in Francia.
Solo pochi esempi per dimostrarlo.
Qualche anno fa chiunque avesse parlato in Italia di intervento pubblico nell'economia, addirittura nelle imprese più importanti del paese, sarebbe stato considerato o un pazzo o un estremista fuori dal mondo. Ricordate il dibattito sulla Fiat? Oggi di intervento pubblico nelle banche e nelle imprese se ne discute nei talk show e negli angoli delle strade. In America non è un tabù pensare di intervenire non solo nel cuore del sistema finanziario ma nelle aziende automobilistiche. Non emergono nei vari paesi sostanziali dissensi sulla sua necessità, di cui nessuno dubita al di là e al di qua dell'Atlantico, ma soltanto sui tempi, sui modi e quindi sui modelli da applicare (quello inglese proposto da Gordon Brown o quello francese avanzato da Nicolas Sarkozy?).
Pensiamo ancora ai parametri di Maastrich. Intoccabili. Chi, come qualche coraggioso e isolato economista, pensava potessero essere messi in discussione veniva trattato come chi all'interno della Chiesa cattolica avesse messo in discussione il dogma della verginità della Madonna. Oggi economisti di grido, ministri, banchieri, alti dirigenti dell'Unione europea avanzano l'idea di una maggiore elasticità. Il comportamento dei paesi europei che volessero violare i sacri principi non è più demonizzato. Lo stesso governatore Draghi chiede al governo italiano di allentare il rigore.
E infine pensiamo al disprezzo finora manifestato nei confronti di tutto quello che era "pubblico": per anni sinonimo di burocratico, malfunzionante e parassitario. Oggi in Italia un grande movimento, non solo di sinistra, difende la scuola pubblica, pretende ricerca pubblica, chiede un futuro per i suoi giovani nel quale lo Stato intervenga con risorse e finanziamenti. E qualcosa ci dice che se il governo osasse dei tagli su un'altra struttura pubblica, per esempio la sanità, la reazione non sarebbe dissimile se non più dura.
Insomma, senza arrivare alla perentorietà delle conclusioni dell'indagine francese secondo cui «i valori della sinistra anticapitalistica, la sua ideologia, le sue parole d'ordine hanno il vento in poppa», abbiamo l'impressione che molte cose stiano cambiando o possano cambiare anche in Italia.
Il punto è: chi avvertirà e saprà gestire questo cambiamento? In Italia la sinistra radicale è scomparsa. Una sorta di cattiveria o di ironia della storia ha fatto sì che nel momento in cui molte sue analisi si mostravano veritiere e molte sue parole d'ordine credibili, essa sia stata cancellata dal Parlamento e sia rifluita o nell'afasia o in un dannoso rinsecchimento delle sue idee e delle sue prospettive. La sinistra riformista, da parte sua, appare scossa dalla nuova fase e, come quella francese, presa in contropiede. Per troppi anni fra le sue file sono state coltivate le idee liberiste perché si possa pensare ad un rapido rinnovamento culturale. Ma la storia e la politica stanno dando un nuovo appuntamento. Sarebbe un peccato per tutti mancarlo.

Repubblica 4.11.08
In piazza gli statali della Cgil ed Epifani attacca Cisl e Uil
"Mosche cocchiere del governo". Duello sui numeri delle adesioni
di Luisa Grion


ROMA - In piazza da soli contro il protocollo per il rinnovo del contratto già firmato da Cisl e Uil. Ieri gli statali della Cgil hanno ribadito con uno sciopero nelle regioni del Centro Italia il loro «no» al piano proposto dal ministro Brunetta. La protesta - che continuerà il 7 e il 14 novembre nel Nord e nel Sud - ha scatenato l´ormai solita guerra di cifre fra manifestanti e governo, ma soprattutto ha scavato un altro crepaccio nella sempre più lontana unità sindacale.
Nei fatti volano gli stracci: una sigla sta in piazza, parte di un´altra l´affianca sul rinnovo dei contratti (la Fpl Uil per i comparti della sanità e degli enti locali). La Cisl fa i conti alla Cgil avvertendo che a scioperare sono stati in pochi e che quindi, sui numeri, ha ragione Brunetta. Epifani senza troppi giri di parole accusa gli «ex-alleati» di fare da «mosche cocchiere del governo». «C´è qualcuno che vuole spingerci in un angolo, ma non ce la farà - ha detto - Mi ha molto stupito la cena a lume di candela di giovedì scorso di Cisl e Uil con Tremonti fatta nello stesso giorno in cui avevano lanciato l´appello all´unità. In passato abbiamo avuto divisioni, ma Cisl e Uil hanno difeso il loro punto di vista lealmente. Ora non è più così».
Tutto è iniziato, appunto, giovedì scorso quando Cgil, Cisl e Uil dopo essere stati insieme in piazza al mattino nel mega corteo contro il decreto Gelmini, si sono divisi nel pomeriggio al tavolo della Funzione Pubblica. Bonanni e Angeletti hanno firmato per l´aumento a regime dei 70 euro lordi in busta paga, la Cgil no. E ieri ha portato in piazza i suoi.
Uno sciopero super monitorato, visto che ci sono state ben tre diverse letture dei dati.
La Cgil parla di successo: adesioni al 50 per cento negli enti centrali, al 30 per cento nei locali e mezzo milione di dipendenti pubblici a braccia incrociate.
Il ministero della Funzione Pubblica dopo diversi flash fornisce la cifra finale dell´ 11,15 per cento. Stima che fa dire a Brunetta: «Il 90 per cento dei lavoratori dà ragione al protocollo».
Fra i due poli s´inserisce la Cisl, che dà ragione al ministero della Funzione Pubblica. Carlo Podda, segretario generale del comparto per la Cgil, ricorda che «altre otto sigle sono con noi, non siamo isolati. Facciamo un referendum e vediamo davvero da che parte stanno i lavoratori». Quanto all´andamento dello sciopero: «Il puntiglio con il quale Brunetta insiste nel sminuirne la portata non dissimula sufficientemente il fastidio che il reale andamento deve avergli procurato». Ora si aspetta lo sciopero generale di tutti i comparti pubblici per dicembre.

Corriere della Sera 4.11.08
Vittorio Foa, il carcere e la scuola di Bauer
di Sergio Romano


Nei molti articoli apparsi in coincidenza della morte di Vittorio Foa, ho letto della sua giovanile esperienza in carcere a Roma, durante il fascismo, negli anni 30. Ma nessuno, mi sembra, ha ricordato che quella esperienza Foa l'ha condivisa a Regina Coeli, se non erro, con Ernesto Rossi e con Riccardo Bauer, fondatori del movimento di «Giustizia e Libertà». Siccome credo che quella vicenda la conoscano in pochi, soprattutto fra i giovani, lei non potrebbe indicarci quale fu esattamente il rapporto di Foa con quei personaggi, così spesso dimenticati?
Bruno Giberti Como

Caro Giberti,
Il miglior tributo ai «carcerati » Rossi e Bauer fu proprio quello di Vittorio Foa. Quando Arturo Colombo lo intervistò vent'anni fa nella sua casa romana di via degli Avigonesi, Foa cominciò il suo racconto con un aneddoto: «Prima di andare in carcere nel maggio del 1935, io né Riccardo Bauer né Ernesto Rossi avevo mai avuto occasione di conoscerli personalmente, anche perché loro due in cella c'erano già dall'ottobre del '30, quando ero poco più di un ragazzo, studente universitario. Ma sapevo bene chi fossero, anche se a me, e ai miei giovanissimi coetanei, pareva un po' troppo retorica, un po' troppo carica di enfatizzazione la stampa antifascista, specie quella dell'emigrazione, che quando li nominava, li chiamava sempre i "nostri martiri". Sicché appena io e Massimo Mila ci siamo trovati con loro a Regina Coeli, abbiamo cominciato a chiamarli martiri: naturalmente in modo scherzoso e con risvolti esilaranti: Martire Bauer, dammi quel libro! Martire Rossi, passami il vocabolario! Usavamo sempre il cognome, quasi a dare una solennità ancora maggiore a quell'appellativo...».
Bauer e Rossi erano stati condannati a vent'anni di carcere dopo un processo durante il quale il pubblico ministero li aveva accusati della progettazione di un attentato. Avevano una formazione alquanto diversa. Bauer era «crociano», quindi storicista e idealista. Rossi invece aveva avuto una formazione politica e culturale più tormentata. Dopo avere collaborato per un paio d'anni al Popolo d'Italia
(il quotidiano fondato da Mussolini nel 1914), aveva incontrato Salvemini, aveva letto Luigi Einaudi ed era diventato positivista, pragmatico e soprattutto pungentemente polemico. Era inevitabile che personalità così diverse avessero discussioni appassionate sulle crisi europee e sul futuro dell'Italia dopo il fascismo. Ma erano entrambi europeisti, economicamente liberali e quindi antiprotezionisti: una posizione molto eterodossa negli anni in cui le ideologie dominanti in Europa, anche nelle democrazie, erano il nazionalismo e il protezionismo. Foa disse a Colombo di avere imparato da entrambi, ma aggiunse che il vero educatore era Bauer. Era lui che organizzava le loro giornate con il rigore di un preside: «Al mattino un'ora di lettura in comune, poi ci separavamo, lui studiava testi latini con Mila, io analisi matematica con Rossi. Poi c'era una tregua per giocare a scacchi, e di nuovo si doveva riprendere a studiare, sempre con una regolarità e una precisione implacabile che per Bauer era uno stile di vita».
Non sorprende quindi la scelta di Bauer nel dopoguerra. Fu partigiano e membro autorevole del Partito d'Azione, ma lasciò ben presto la politica militante per dedicarsi a una istituzione culturale milanese, l'Umanitaria, di cui fu vicepresidente e presidente sin al 1969. Pensava che la democrazia s'imparasse a scuola e che i cittadini dovessero andare a scuola, in un modo o nell'altro, per tutta la vita.

Corriere della Sera 4.11.08
Archivi Una relazione mai pubblicata del filosofo francese scomparso tre anni fa. I diritti di cittadinanza e il concetto di patria
Ricoeur: siamo tutti stranieri
I visitatori, gli immigrati e i profughi: basi nuove per le politiche di accoglienza
di Paul Ricoeur


La fantasia che fa di noi gli stranieri dello straniero sfugge al fantastico quando è sottoposta alla prova del dovere di ospitalità, di cui passeremo in rassegna alcuni esempi concreti. Essi corrispondono a tre situazioni che possiamo classificare in un ordine tragico crescente: «lo straniero da noi» è prima di tutto il visitatore gradito, poi l'immigrato, per l'esattezza il viaggiatore straniero che risiede da noi più o meno suo malgrado, infine è il rifugiato, il richiedente asilo che auspica, quasi sempre invano, di essere accolto.
Quest'ultima occasione di ospitalità rientra letteralmente nel tragico dell'azione, nella misura in cui lo straniero vi assume l'atteggiamento del «supplice ».
Lo straniero come visitatore
Questa figura pacifica — nel duplice senso che rende visibile uno stato di pace e moltiplica lo spirito di pace — riveste più aspetti, dal turista che circola liberamente sul territorio del Paese che lo accoglie fino al residente che si stabilisce in un luogo e vi soggiorna. Entrambi illustrano l'atto di abitare insieme, condiviso da appartenenti alla nazione e stranieri.
Tale figura di straniero ricorda l'importanza delle categorie di territorio e di popolazione per fondare lo status di membro della comunità nazionale. In questo caso lo straniero è autorizzato a condividere la dimensione della condizione di membro. Senza diventare cittadino, il visitatore gode dei vantaggi della libertà di circolare e di commerciare e condivide beni sociali basilari, come la sicurezza, le cure mediche, talvolta l'educazione.
Questa piacevole condizione va senz'altro messa in conto alla globalizzazione degli scambi. Ma sarebbe inefficace senza la pratica di quello che Kant, nel
Progetto di pace perpetua, definisce il «diritto di visita » e nel quale vede un corollario ben fondato del diritto cosmopolita. (...) Il diritto di visita del viaggiatore o del residente straniero è lungi dal ridursi a mera curiosità. È semplicemente rivelatore dell'essenza stessa dell'ospitalità, che il dizionario francese Robert così definisce: «Il fatto di ricevere qualcuno in casa propria, eventualmente alloggiandolo, nutrendolo gratuitamente ».
La definizione del Robert sembra privilegiare l'alloggio e il vitto; vorrei aggiungere la conversazione. Non solo perché è a tale livello, come si è detto, che accede al linguaggio la comprensione inizialmente tacita che il membro ha di appartenere alla comunità, ma perché è a tale livello di scambio di parole che l'iniziale dissimmetria tra membro e straniero comincia a correggersi concretamente.
In proposito, non si evidenzierà mai abbastanza il fenomeno della traduzione da una lingua all'altra quale modello di «parificazione delle condizioni», come avrebbe detto Tocqueville. (...)
Lo straniero come immigrato
Il riferimento è chiaramente alla condizione di lavoratore straniero, condizione indicata anche con il termine Gastarbeiter o Guest workers. (...) Non si dimentichi come si è formata questa categoria di visitatori forzati. All'origine di questo flusso migratorio di grande portata sta il bisogno di manodopera poco qualificata per posti di lavoro generalmente non ambiti. Dunque è il lavoro, necessità ordinaria della vita economica, a caratterizzare questa categoria di stranieri «da noi». Non siamo più nel ciclo della libertà di scelta, come nel caso dei visitatori graditi, ma nel regno della necessità, più precisamente quella di sopravvivere e di far vivere famiglie che generalmente rimangono nel Paese d'origine. La vita di questo tipo di stranieri è definita da altri: attori economici e politici. Certo, abitano lo spazio protetto dallo Stato che li accoglie, circolano liberamente e sono consumatori come noi nazionali; parte della loro libertà è dovuta al fatto che partecipano come noi all'economia di mercato; un'altra parte risulta dal loro accesso, entro certi limiti, alla protezione dello Stato provvidenza; sono titolari di diritti sindacali e, in linea di principio, beneficiano degli stessi diritti all'alloggio dei nazionali; ma non sono cittadini e vengono governati senza il loro consenso. Se altrove sono chiamati «ospiti» è perché non sono migranti in cerca di una nuova residenza e di una nuova cittadinanza. Si pensa che intendano tornare al loro Paese, una volta scaduti il contratto e il visto.
(...) Su tale realtà si innestano i fantasmi dell'opinione pubblica, che si esprimono principalmente nella miscela di lavoratori in regola e stranieri irregolari, minaccia alla sicurezza, persino terrorismo. Sospetto, diffidenza, xenofobia tendono a impregnare la comprensione che chi fa parte della nazione ha della propria appartenenza allo stesso spazio politico. Se, come si è detto, tale comprensione comporta di per sé una sensazione di differenza rispetto allo straniero, l'esclusione trasforma la differenza in rifiuto.
La risposta a una situazione così deteriorata deve avvenire a due livelli. Il primo è quello della giustizia politica, come scrive Michael Walzer, dovuta ai lavoratori residenti: bisogna inventare qualcosa, una specie di ammissione di primo grado, al di qua dell'ammissione di secondo grado consistente nella naturalizzazione, che eventualmente comporti la partecipazione alle elezioni locali, come avviene in alcune democrazie occidentali. Tale ammissione di primo grado va negoziata con gli Stati di provenienza dei lavoratori stranieri, come hanno cominciato a fare alcune convenzioni già esistenti o in corso di negoziazione. Ma la risposta deve avvenire soprattutto a livello del diritto umano di ospitalità, di cui si è detto parlando della condizione pacifica dello straniero come visitatore. A tale proposito le parole forti di Kant e di Fichte sull'ospitalità universale dovrebbero contribuire a cambiare le legislazioni e, prima ancora, le mentalità. Lo stesso diritto delle genti che un tempo regolava guerra e pace tra le nazioni dovrebbe oggi regolare i rapporti tra i Paesi ospiti e quei visitatori loro malgrado che sono gli immigrati del lavoro.
Lo straniero come rifugiato
L'attuale diritto dei rifugiati ha alle spalle la tradizione dell'asilo, a sua volta legata a un'antica tradizione di ospitalità esercitata in favore dei fuggitivi che scappavano dalla giustizia vendicativa del Paese d'origine. L'asilo, com'è noto, è presente nelle istituzioni delle nostre principali civiltà fondatrici. Anche in questo caso si evoca il duplice retroterra biblico ed ellenico. L'asilo vi è definito come luogo di rifugio che, non potendo essere depredato, è inviolabile. Scrive Grozio nel 1625: «Non si deve rifiutare dimora stabile a stranieri che, scacciati dalla loro patria, cerchino un riparo, purché si sottomettano al governo legittimo e osservino tutte le prescrizioni necessarie per prevenire le sedizioni» ( De jure belli ac pacis,
II, 11, 12). Nel XVIII secolo l'asilo diventa politico: in vari punti d'Europa ne beneficiano gli esiliati protestanti; e anche Voltaire... Quello che ci preme osservare è la distorsione che presenta, per le prerogative dello Stato d'accoglienza, la concezione dell'esilio come diritto della persona. È come eccezione alla regola dell'estradizione che i giuristi dell'inizio del XIX secolo si pongono la questione dell'asilo.
Ma fino all'inizio del XX secolo l'asilo resta una questione essenzialmente individuale riguardante persone con un ruolo politico. (...) Dopo gli sconvolgimenti del XX secolo, sotto il nome di rifugiato fa la sua comparsa un concetto nuovo. Il fatto che comporti un diritto d'asilo non deve nascondere la differenza di fondo. Il problema va collocato nel quadro delle grandi migrazioni forzate di massa. Qui ci interessa nella misura in cui, a parte il fatto che il rifugiato beneficia della protezione di un organismo internazionale, è su un Paese d'asilo – magari il nostro – che ricade la responsabilità primaria dell'accoglienza. È a questo punto che la preoccupazione di proteggere i rifugiati entra, più o meno apertamente, in conflitto con la preoccupazione di proteggere la sovranità territoriale degli Stati d'accoglienza. (...) La verità è che i Paesi industrializzati, nel loro insieme, tendono a costituirsi in fortezze contro i flussi migratori incontrollati scatenati dai disastri del secolo. Andrebbero esaminate, in proposito, le misure prese su scala europea che, troppo spesso, smentiscono la tradizione di asilo e protezione dei diritti e delle libertà della persona, a partire dalle misure di lotta agli «abusi» del diritto d'asilo (concetto di richiesta d'asilo «manifestamente infondata»). Tutto cospira ad allontanare il più possibile i richiedenti asilo, a tenerli a distanza dalle frontiere occidentali.

Repubblica 4.11.08
Un libro di Stefano Ferrante sull'esperienza maoista
Amarcord Servire il popolo
di Concetto Vecchio


Un soviet si riuniva per decidere se era giusto che una donna abortisse

Linda Lanzillotta fu espulsa perché s´era messa con un uomo sposato. Antonio Polito perché frequentava il circolo del tennis di Castellamare di Stabia. Nicola Latorre, oggi capofila dei dalemiani, nella sua Fasano diffondeva 90 copie di Servire il popolo, quante ne vendeva l´Unità, ragion per cui Alfredo Reichlin lo convinse a passare nel Pci. Renato Mannheimer, militante a Milano, si offrì di smerciare i libri che i compagni ricchi avevano sottratto alle biblioteche paterne per l´autofinanziamento: in parte li comprò lui stesso e s´edificò così la libreria. A quei tempi perfino Diabolik era maoista. Piombato a Kuantaj, paese fantastico identificabile con la Cina, giunse all´amara conclusione: «Qua io non avrei ragione di esistere». I poster di Mao campeggiavano nei cessi delle sezioni, come scoprì Fabrizio Dentice dell´Espresso visitando il collettivo di Paola, in Calabria. Il motto era «mettere al primo posto la politica».
Una gita al mare si declinava in un noioso esercizio di militanza: «Ogni volta che qualcuno sbagliava assumendo atteggiamenti borghesi ci si riuniva tutti, si leggeva la apposita citazione del presidente Mao e si sviluppava la critica collettiva contro questi errori», come riferiva un surreale resoconto di La bandiera rossa, il mensile dell´Unione dei comunisti italiani (marxisti-lenisti). Il Mao italiano, Aldo Brandirali, oggi è consigliere comunale a Milano, dopo una lunga militanza in Comunione e Liberazione. «Don Giussani mi ha rimesso in piedi».
La breve parabola dei maoisti italiani è raccontata con amore per le spigolature da Stefano Ferrante, giornalista de La7, in La Cina non era vicina, (Sperling&Kupfer, pagg. XI-276, euro 16) in libreria da oggi. Sette anni di vita: 1968-1975. I primi quattro come movimento. Gli ultimi tre come partito. Diecimila militanti.
Un giornale che per gli avversari di Potere operaio era "Servire il pollo". Slogan di replica: «Se vuoi fare la rivoluzione non ti fidare di Oreste Scalzone». Il Pci prendeva le distanze da Mosca e loro ripubblicavano l´opera omnia di Stalin. Negli anni dei freak Brandirali si faceva fotografare in giacca e cravatta. A Pilar Castel, attrice e sorella di Lou, venne vietato di andare ai picchetti in minigonna.
Banditi i nomi stranieri. Mojmir Jezek - disegnatore di avi cecoslovacchi - venne ribattezzato in Emilio. Un discreto fanatismo ideologico. Fumisterie incomprensibili. Documenti perlopiù illeggibili. C´erano anche crudeltà indicibili. Marco Bellocchio racconta che si tenne un soviet per decidere se era giusto che una donna abortisse, o se non conveniva far nascere un figlio rivoluzionario. Collettivizzazioni forzate: «A un certo punto avevano puntato la mia 500 blu, ma non l´ho mollata, io non ho mai collettivizzato nulla» confessa la Lanzillotta. E poi l´episodio più noto, il matrimonio comunista celebrato a Milano l´8 gennaio 1972 fra Sergio Bisi e Cristina Soraci davanti ai ritratti di Marx, Engels, Lenin, Stalin e Mao. Fu soprattutto una grande mossa di marketing, ma i due stanno ancora insieme: hanno gestito un distributore di benzina, ora commerciano in libri antichi. Furono maoisti anche Michele Santoro, i fratelli Antonio e Gianni Pennacchi, quest´ultimo al Giornale, l´ex ministro Barbara Pollastrini, impegnato nel doposcuola proletario, Enzo Lo Giudice, che non vota dal 1968 e che difese Craxi durante Tangentopoli, Fausto Luppetti, editore, Giovanni Fasanella che ha fatto il film sulle Br, Giuliana del Bufalo, lo scrittore Fulvio Abbate. Il pittore Mario Schifano devolveva parte dei suoi guadagni al movimento. Il direttore politico di Servire il popolo Angelo Arvati ha semplicemente cambiato chiesa: ora è diacono nella diocesi di Casale Monferrato.

Repubblica 4.11.08
L’inutile massacro avvelenò l´inizio del ‘900
Novant’anni fa si concludeva la Grande Guerra un conflitto che cambiò l’assetto del mondo
di Massimo L.Salvadori


Secondo Freud mai un evento storico era stato così dannoso per l´umanità
Sulle responsabilit politici e storici hanno alimentato un dibattito veramente infinito

A esprimere ciò che ha rappresentato la prima guerra mondiale, la quale ha insanguinato l´Europa come mai avvenuto in precedenza, sono stati anzitutto quanti l´hanno vissuta: militari, politici, intellettuali, uomini e donne di ogni ceto. Divisi tra loro nella valutazione del suo significato e nelle posizioni assunte a favore o contro gli obiettivi dei rispettivi paesi, li ha però accomunati un unico responso: che essa determinò il crollo di un mondo. Lo percepì fin dal 1915, con un senso di orrore e spavento, Sigmund Freud, il quale scriveva: «Ci pare che mai un evento storico abbia distrutto in tal misura il così prezioso patrimonio comune dell´umanità, (...) inabissato così profondamente tutto quanto vi è di elevato». Ma di chi la responsabilità?
La pubblicistica politica e la storiografia hanno alimentato in proposito un dibattito infinito. Merita in particolare di essere ricordato, per la statura degli studiosi, lo scontro avvenuto negli anni ‘60 tra Fritz Fischer, sostenitore del ruolo primario avuto dalla Germania nello scatenamento e nel proseguimento della guerra, e Gerhard Ritter, il quale tale tesi ha vigorosamente contestato. Su questa questione, pare a chi scrive che parole quanto mai persuasive abbia scritto il grande storico russo Evegheni V. Tarle, pochi anni dopo la conclusione del conflitto, quando osservò che «entrambi gli schieramenti delle potenze ostili avevano piani di conquista, entrambi erano capaci di far divampare l´incendio al momento che fosse parso loro vantaggioso, aggrappandosi al pretesto che apparisse il più idoneo», ma che nell´estate del 1914 la decisione fu presa da Germania e Austria le quali si erano convinte che fosse allora venuta l´occasione per esse più favorevole.
La «grande guerra», iniziata tra le fanfare e tripudi di folle osannanti nell´illusione di un conflitto di pochi mesi e durata invece dall´agosto 1914 al novembre 1918, fu così detta perché mai nel passato ve ne era stata una eguale. Fu una guerra mondiale perché, scatenata allorché il vecchio continente credeva di poter addirittura accrescere la propria posizione di «centralità», ebbe come oggetto quale blocco di potenze europee dovesse tenere il maggior dominio nel globo; e perché le sue conseguenze coinvolsero l´intera carta geopolitica del mondo. Fu al tempo stesso una guerra europea, in quanto tutto venne giocato nei campi di battaglia europei, anche dopo l´intervento americano nell´aprile del 1917, e quasi tutte le immani devastazioni materiali e la grandissima maggioranza dei morti e feriti riguardarono l´Europa.
Fu una guerra che mobilitò come mai prima sotto il controllo crescente dello Stato le risorse economiche - e anzitutto quelle industriali - preposte a fornire, in quantità gigantesche, agli eserciti di terra fucili, mitragliatrici, artiglierie, mezzi di trasporto a motore, alle flotte navi moderne e sottomarini, armi nuove come gli aerei e i carri armati, equipaggiamenti di ogni genere; e le risorse umane tese allo spasimo, segnando l´ingresso nella produzione di fabbrica su una scala senza precedenti della mano d´opera femminile. E la vittoria andò al campo in grado di fornire tali risorse nel maggior grado.
Fu una guerra che provocò un immenso massacro. Le cifre dei caduti furono di 1.800.000 tedeschi, tra i 1.700.000 e i 2.500.000 sudditi dell´impero zarista, 1.350.000 francesi, 1.300.000 appartenenti all´impero austro-ungarico, 750.000 britannici e 190.000 appartenenti ai dominions, 600.000 italiani, 300-350.000 romeni, 300-350.000 turchi, 300-350.000 serbi, 100.000 bulgari, 100.000 americani, 50.000 belgi.
Fu una guerra che maciullò i corpi e avvelenò gli spiriti degli europei. I corpi dei soldati furono martoriati nelle grandi battaglie e negli scontri crudeli tra le opposte trincee e intossicati dai gas usati per la prima volta, come fu narrato in maniera indimenticabile da scrittori come Eric Maria Remarque in All´Ovest niente di nuovo e da Emilio Lussu in Un anno sull´altipiano e in chiave cinematografica da registi come Lewis Milestone nel film tratto dal libro di Remarque e da Stanley Kubrick in Orizzonti di gloria, e documentato dalle cineprese dei corrispondenti di guerra. Gli spiriti vennero avvelenati sia da schiere di propagandisti e giornalisti al servizio dei governi e degli Stati Maggiori sia da intellettuali anche grandissimi i quali, con poche eccezioni tra cui Romain Rolland che ne denunciò l´asservimento al potere e l´accecamento, esaltarono chi la Kultur dei popoli germanici e chi la Civilisation dei popoli liberali occidentali. Vi furono poi i più aspri conflitti tra i militaristi-imperialisti e i pacifisti di impronta umanistica e religiosa, tra i socialisti rivoluzionari intesi a sovvertire l´intero ordine costituito e i loro vari oppositori e nemici. Vi furono le chiese benedicenti gli eserciti, prima e dopo che Benedetto XV parlasse nel 1917 dell´«inutile strage», e contadini, operai e soldati di tutti i fronti maledicenti. I tribunali militari lavorarono a pieno ritmo; soldati ribelli o troppo stanchi vennero decimati, fucilati, imprigionati, mentre i futuristi italiani parlavano di «estetica della guerra» e si compiacevano della «bella guerra virile e tecnologica». Le classi dirigenti operarono per «nazionalizzare le masse», per porle al totale servizio di una guerra in cui «la morte di massa» - ha scritto Mosse - «fu innalzata nel regno del sacro».
Fu una guerra civile ideologica tra le potenze occidentali che - poco curanti di essere alleate con l´impero russo autocratico e carcere di popoli - sventolavano la bandiera della democrazia e delle libere nazionalità e gli imperi centrali, alleati della Turchia, che alzavano quella di un vero ordine fondato su gerarchie solidali e affidato alla guida di monarchi, alti burocrati e militari.
Fu una guerra che lasciò un´eredità spaventosa. Il valore della vita umana risultò annullato, si diffusero uno spirito di violenza e una disponibilità a ricorrere ad essa che avrebbero fatto sentire i loro effetti virulenti in futuro e che toccarono i punti estremi nelle pratiche del bolscevismo, dei fascismi e del militarismo nipponico.
Fu una guerra che tradì la promessa tanto agitata di essere l´ultima, quella che avrebbe assicurato pace, democrazia, benessere. Provocò il crollo dell´impero germanico, dell´impero asburgico e dell´impero zarista; creò le condizioni per la conquista del potere da parte dei bolscevichi in Russia e lo scatenamento di un´ondata di convulsioni politiche e sociali destinate a durare un´intera epoca storica e a sconvolgere la società europea; fece nascere molti nuovi fragili Stati; portò all´emergere della potenza di un´America che presto voltò le spalle alla «pazza» Europa e si richiuse nell´isolazionismo. Per l´Italia la guerra fu la «quarta guerra di indipendenza», ma essa mise in ginocchio il paese e vi attivò conflitti distruttivi.
Come vide fin dal 1919 John Maynard Keynes, celebre autore de Le conseguenze economiche della pace, le potenze vincitrici dettarono ai vinti una pace cartaginese «senza nobiltà, senza moralità, senza intelletto», la quale seminò nuovo disordine, nuovi conflitti e nuove guerre. In riferimento all´animo con cui agirono in particolare i governanti francesi e inglesi, che si imposero su un Wilson forte nella retorica ma debole in concreto, Keynes osservava: «La vita futura dell´Europa non li riguardava», la loro mente era tutta rivolta alle frontiere, agli equilibri di forza, agli ingrandimenti imperialistici, «al futuro indebolimento di un nemico forte e pericoloso, alla vendetta e a riversare dalle spalle dei vincitori su quelle dei vinti gli insostenibili pesi finanziari». Così avvenne che si coltivassero i germi patogeni di un secondo e ancora più catastrofico 1914: il 1939.

Repubblica 4.11.08
Così Einstein arrivò alla relatività
di Rita Levi Montalcini


Il premio Nobel rievoca il suo percorso lungo quasi un secolo di scienziata e di donna. La famiglia, Primo Levi, Carlo Levi. I metodi per fare buona ricerca

Pubblichiamo un brano da La clessidra della vita di , scritto dalla Levi Montalcini e da Giuseppina Tripodi (Baldini Castoldi Dalai, pagg. 199, euro 16,50). Il volume è in libreria in questi giorni.

Nella sua autobiografia Einstein, o ancora più precisamente, come lui stesso la definisce, nel suo autonecrologio scientifico scritto a 67 anni, ricorda la forte impressione ricevuta all´età di 4-5 anni nell´osservare l´orientamento costante dell´ago magnetico di una bussola. Questa capacità di voler dare una spiegazione in base alle proprie esperienze di bambino, di adolescente e uomo maturo, è il primo segno di una grande attitudine all´indagine e al sottoporre al vaglio del proprio giudizio concetti che, in genere, vengono accettati senza difficoltà dalla grande maggioranza, quali la caduta dei gravi, la rotazione della luna, la differenza tra vivente e non vivente, ecc.
La seconda esperienza che Einstein ricorda come fondamentale in età infantile riguarda la comprensione dell´assioma che le tre altezze di un triangolo si intersecano in un solo punto. Ricorda l´indescrivibile impressione non tanto per il fatto che l´assioma potesse essere accettato senza dimostrazione, quanto per l´evidenza e la certezza della sua enunciazione.
Dai 12 ai 16 anni Einstein prese familiarità con le nozioni fondamentali del calcolo differenziale e integrale e con le scienze naturali. Diciassettenne si iscrisse alla Facoltà di Fisica al Politecnico di Zurigo, ebbe maestri come Hurwitz e Minkowski, entrambi matematici. Ma fu affascinato dalla fisica e per questa scienza trascurò la matematica in quanto non si sentiva di distinguere, in questo settore, con esattezza e con un´intuizione sicura, ciò che ha importanza fondamentale rispetto ad altre nozioni non ugualmente essenziali.
Emerge quindi il secondo aspetto caratteristico di Einstein che permarrà tutta la vita, cioè il senso di direzionalità e importanza della ricerca perseguita. E si rivelò anche la sua riluttanza alla coercizione e cioè all´obbligo di studiare secondo regole prefisse, riluttanza che manifestò per tutta la vita al pensiero ortodosso e coercitivo. Nel campo della fisica trovò estremamente agevole distinguere, malgrado l´enorme accumulo di dati, ciò che poteva condurre a concetti fondamentali da quello che non è essenziale. (...)
La circostanza che doveva portare alla formulazione del concetto della relatività speciale sorse a seguito di considerazioni sull´esperimento di Michelson, il quale aveva provato che la luce che attraversava due tubi ad angolo retto, l´uno in direzione del movimento della terra e l´altro perpendicolare a questo, percorreva i due tubi alla stessa velocità. Questo risultato appariva in contraddizione con il fatto che il tubo disposto parallelamente alla direzione di movimento della terra doveva essere percorso in un tempo più breve di quello perpendicolare. Lorentz aveva avanzato l´ipotesi di una contrazione del tubo parallelo che compensasse la differenza.
Einstein si pose innanzitutto il problema della relazione tra spazio e tempo rispetto a una costante: quella della luce è la massima velocità possibile, la forza necessaria per aumentarla dovrebbe essere infinita. Einstein nel formulare questo metodo riconobbe l´ambiguità del concetto di simultaneità che, se è valido per due fatti avvenuti nello stesso luogo nell´identico momento, non lo è più per due fatti che avvengano «contemporaneamente» in due luoghi diversi: concetto di tempo. Lo scienziato, commentando con Wertheimer il processo mentale che lo portò alla formulazione della teoria della relatività, disse: «Io penso assai di raro con parole, prima ho un pensiero, e solo in seguito posso cercare di esprimerlo con parole. Naturalmente è molto difficile esprimere a parole quella sensazione, ma decisamente le cose stanno così. L´impressione di procedere in un determinato senso in me è sempre sotto forma di una specie di sguardo generale in un certo senso in modo visivo». Durante l´intero processo creativo prevalse in lui il senso della «direzionalità» del suo modo di pensare verso un determinato fine e cioè di procedere verso qualcosa di concreto.
In quello definito da Wertheimer «un appassionato desiderio di chiarezza», Einstein affrontò direttamente la relazione tra la velocità della luce e il movimento di un sistema e mise a confronto la struttura teorica della fisica classica con il risultato di Michelson. Esaminando il fenomeno scoprì una grave lacuna nella trattazione classica del tempo: nella concezione tradizionale i valori spaziali sono indipendenti dal tempo e dagli elementi fisici. Stabilì invece tra loro una intima relazione: lo spazio non fu più recipiente di fatti fisici, vuoto e completamente indifferente.
La geometria spaziale veniva integrata con la dimensione tempo in un sistema a quattro dimensioni che a sua volta formò una nuova struttura unitaria con gli eventi fisici reali. La velocità della luce, considerata prima di Einstein come una tra le tante altre, seppure la più elevata, venne da lui posta in una fondamentale relazione con il modo in cui venivano misurati tempo e spazio. Il suo ruolo mutò da quello particolare, in mezzo a molti altri, a un fattore centrale del sistema. Nel processo cambiò il significato di altri elementi, quali massa ed energia. Tutto ciò ebbe luogo di fronte a una costruzione granitica, quale la fisica classica, che sino ad allora si era adattata a un numero enorme di fatti.

Repubblica 4.11.08
Pozioni magiche e ali d'aquila la tomba della prima sciamana
di Elena Dusi


In Galilea, culla delle religioni monoteiste, è stato scoperto un sito dove era sepolta una maga Gli archeologi israeliani hanno trovato gli oggetti per i riti soprannaturali: gusci, corni e ciotole
Avevano il compito di guarire e accompagnare le anime dei defunti

Prima di diventare terra santa, il medio oriente era terra di sciamani. In quella Galilea che oggi è il fulcro dell´archeologia ebraica e biblica, dalla terra è spuntato inaspettato il più antico sciamano mai conosciuto.
Era una donna bassa e zoppa, vissuta 12mila anni fa, madre di un rito ancestrale e primitivo che si svolgeva negli stessi luoghi in cui alcune migliaia di anni più tardi i monoteismi si sarebbero affermati. Ali di aquila, corni di gazzella, crani di martora, code di bue, carapaci di tartaruga e zampe di cinghiale erano i parafernalia della maga, disposti ordinatamente attorno al suo corpo anche nella sepoltura per preservare i poteri soprannaturali nell´aldilà.
«L´aquila è l´uccello sciamanico per eccellenza, che sa guardare la luce del sole senza abbassare gli occhi. Gli altri animali sono gli spiriti aiutanti. Uno sciamano è tanto più potente quanti più ne ha accanto a sé» spiega Carla Corradi Musi, che dirige il Laboratorio di studi sullo sciamanesimo dell´università di Bologna ed è autrice di "Sciamanesimo in Eurasia".
La tomba della sciamana del 10mila avanti Cristo è stata scoperta da due archeologhe dell´Università ebraica di Gerusalemme, Leore Grosman e Anna Belfer-Cohen in uno sperone di roccia rivolto verso est, a 150 metri di altezza dal fiume Hilazon e a metà strada circa fra il Mediterraneo, che dista 14 chilometri, e il mar di Galilea. Nel numero di oggi di Proceedings of the national academy of sciences, l´équipe israeliana racconta il suo stupore di fronte alle prime forme di spiritualità di una cultura - quella della civiltà Natufiana - che aveva appena abbandonato la vita nomade per dedicarsi all´agricoltura, dando il via a quei cambiamenti economici, sociali e culturali che la vita sedentaria e la nascita di insediamenti stabili comportano. "La sepoltura dell´anziana donna nel sito di Hilazon Tachtit - scrivono Grosman e Belfer-Cohen nel loro articolo - ha caratteri che poi sono diventati universali nella spiritualità dei popoli di tutto il mondo".
I primi sciamani avevano il compito di guarire e accompagnare le anime dei defunti e per dispiegare tutti i loro poteri si travestivano da animali indossando ossa, pelli o penne. «Erano il punto di riferimento della comunità, il raccordo con la parte spirituale del mondo. Conoscevano l´albero genealogico della tribù ed erano anche i primi scienziati della storia. A differenza di una religione vera e propria, lo sciamanesimo aveva credenze flessibili e per esercitarlo occorreva il consenso della comunità» spiega ancora la Corradi.
La zoppìa e la statura particolarmente bassa (la donna non arrivava a un metro e mezzo di altezza), come ci ricorda oggi la Befana, sono associate a poteri soprannaturali. Ed era forse per ovviare a questi handicap che la sciamana è stata sepolta con un piede umano accanto a sé, proprio all´altezza delle ginocchia. «Le donne nella mediazione con l´aldilà erano considerate molto più potenti degli uomini, perché depositarie dell´energia del mistero della nascita della vita» secondo la Corradi.
Anche se stupefacenti in una terra dove l´archeologia cerca soprattutto di districarsi fra gli indizi storici contenuti nelle sacre scritture, i resti di Hilazon Tachtit non hanno però nulla di incoerente rispetto al cammino che l´umanità stava compiendo 12mila anni fa. La civiltà natufiana, oltre ad essere la prima a sposare la vita sedentaria, introdusse l´abitudine di seppellire i propri defunti accanto alle città dei vivi, adornando le tombe con gli oggetti che erano stati importanti durante la vita. "Ma l´altissima considerazione in cui gli sciamani erano tenuti nella loro società giustifica la ricchezza della sepoltura di Hilazon Tachtit, così ricca di simboli sciamanici e di oggetti, come le ciotole, usate per le guarigioni o i gusci di tartaruga, probabilmente residuo di un banchetto funebre" spiegano le archeologhe di Gerusalemme.

Corriere della Sera 4.11.08
La giovane, 28 anni, ha la cittadinanza Usa e iraniana
Esha, arrestata a Teheran perché difendeva le donne
E' stata rinchiusa nel terribile carcere di Evin
di Guido Olimpio


La giovane è detenuta in isolamento nel «braccio» gestito dalla polizia segreta.
Silenzio del regime

WASHINGTON — Esha Momeni non ha mai invocato la lotta armata, né ha complottato per rovesciare i mullah iraniani. La sua unica battaglia è stata in difesa dei diritti alle donne. Una rivoluzione rosa che spaventa gli uomini in nero, gli ayatollah. Che per questo l'hanno fatta arrestare oltre due settimane fa, alla vigilia della sua partenza per gli Stati Uniti.
Esha, 28 anni, cittadina americana e iraniana, è stata fermata per un «controllo stradale» a Teheran. Agenti in borghese l'hanno accusata di una «violazione del codice » e l'hanno poi portata alla famigerata sezione 209, il «braccio» nel carcere di Evin gestito dalla Vevak (polizia segreta). Da allora è in isolamento. Un arresto arbitrario che ha suscitato sdegno e spinto Amnesty International a lanciare un appello rivolto alla comunità internazionale forse un po' troppo distratta.
Il profilo di Esha è diverso da quello di tanti iraniani che non condividono le scelte della Repubblica islamica. Il papà, Reza, sorpreso dalla rivoluzione del 1979 negli Usa (studiava in California), aveva deciso di tornare in patria l'anno seguente per mettersi al servizio del suo paese in guerra con l'Iraq. È così che Reza Momeni, pur possedendo la cittadinanza americana, ha partecipato a lavori di ricostruzione a Bandar Abbas e Busher.
La figlia Esha, carattere sensibile, con grande passione per la musica e la poesia, si è sposata dopo la laurea. Ma, come ha raccontato il padre, il matrimonio è naufragato in quanto il genero era «un maschio sciovinista» con seri problemi psichici. Inevitabile il divorzio. Una «brutta esperienza» che non solo ha sconvolto la vita familiare di Esha ma l'ha spinta ad occuparsi in maniera più convinta dell'emancipazione femminile. La ragazza si è unita alla campagna «Cambio per l'uguaglianza» insieme a poche coraggiose decise a sovvertire tabù e tradizioni. Il loro obiettivo è quello di raccogliere un milione di firme per sostenere la svolta. Una lotta, condotta con l'appoggio di organizzazioni occidentali, che le autorità iraniane considerano alla stregua della sovversione. E per questo non è facile agire all'interno dei confini iraniani.
Così due anni dopo — siamo nel 2005 — Esha ha deciso di trasferirsi negli Stati Uniti, dove si è unita a un gruppo di professori e volontari scesi in campo anche loro per il «Cambio». Una scelta che ha accresciuto i sospetti di Teheran che ritengono gli attivisti il lungo braccio di operazioni che hanno come reale obiettivo il rovesciamento del regime islamico.
Accuse politiche respinte dai familiari di Esha. Ad animarla, hanno ribattuto, è la difesa delle donne. Ed è per loro che la ragazza, due mesi fa, è rientrata in Iran armata di una videocamera per registrare delle interviste. Gli amici hanno cercato di dissuaderla mettendola in guardia sui pericoli che correva. Ma Esha è partita lo stesso per essere al fianco di altre iraniane poi finite nel mirino della sicurezza. Sussan Tahmasebi doveva lasciare il 28 ottobre l'Iran, ma le è stato confiscato il passaporto e la sua abitazione è stata perquisita. Parastoo Alahyaari, che aveva organizzato alcune manifestazioni pacifiche, è stata convocata molte volte dalla Vevak. Infine, quattro attiviste sono state denunciate perché avevano osato raccogliere firme per il «Cambio»: saranno processate a gennaio.