giovedì 6 novembre 2008

Repubblica 6.11.08
Scuola, slitta il taglio delle classi arriva il decreto sui concorsi
La Gelmini da Napolitano: la riforma con il dialogo
di Carlo Brambilla e Mario Reggio


ROMA - Le sviste del governo su scuola e università producono i primi effetti. Salta, per il 2009, la chiusura delle scuole con meno di 50 alunni, l´obbligo per le Regioni di presentare il piano entro il 30 novembre 2008 ed il conseguente commissariamento per quelle inadempienti. Tutto rinviato al 2010, ma solo con l´accordo degli enti locali. L´emendamento è stato presentato ieri dal relatore della maggioranza al Senato. Oggi, in Consiglio dei ministri, il decreto Gelmini sui concorsi universitari: blocco delle assunzioni nei prossimi dodici mesi per gli atenei con i bilanci in rosso, deroga per le università che hanno i conti in regola. Blocco dei concorsi già banditi e nuove regole per la nomina delle commissioni per le cattedre. Si passerà dall´elezione diretta dei quattro commissari al sorteggio. Ieri sera il ministro Gelmini si è incontrata con il Presidente Napolitano. Gli ha illustrato le linee guida del decreto che presenterà oggi in Consiglio dei ministri, precisando che gli altri provvedimenti saranno contenuti in un disegno di legge e discussi in Parlamento. Giorgio Napolitano ha auspicato che il confronto tra maggioranza e opposizione parta in un clima pacato. E l´accordo sembra alle porte: conferma dei concorsi già banditi e pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale, mantenimento dei due idonei per ogni prova, ma l´introduzione del sorteggio dei quattro docenti della stessa materia a livello nazionale. Tutto questo per evitare una raffica di ricorsi da parte degli aspiranti alla cattedra.
E ieri mattina Napolitano in visita al suo liceo di Padova: «Ai ricercatori farò tutto quello che mi è lecito fare. Ce la metterò tutta. Comprendo le contestazioni, ma dicono essere costruttive, nel rispetto della democrazia». Seguito dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi: «Il decreto Gelmini non modifica nulla delle cose per cui gli studenti manifestano. Sull´università non ci saranno tagli eccessivi, il nostro obiettivo è spendere meglio».
Vediamo ora cosa accadrà nel mondo della scuola. Dopo l´opposizione compatta di Regioni, Province e Comuni al ridimensionamento delle scuole, il governo ha fatto chiaro passo indietro. Ora è necessario aprire un confronto con il governo per discutere la riorganizzazione dei servizi scolastici - commenta il presidente della Conferenza dei governatori Vasco Errani - fermo restando il carattere irrinunciabile del diritto allo studio». Bocce ferme dunque, ma è stato rinviato il piano di riduzione degli istituti scolastici, resta in piedi il progetto del maestro unico alle elementari: 10 mila posti in meno nel 2009. Ma cosa succederà l´anno dopo quando verranno concordati gli accorpamenti? Il rischio è che molti maestri unici si trasformeranno in esuberi. Passiamo all´università. Il decreto allo studio del ministero prevede, oltre al blocco delle assunzioni per gli atenei con i bilanci in rosso, anche alcune deroghe: apertura al reclutamento per i giovani ricercatori con contratti a termine o a tempo indeterminato.

Corriere della Sera 6.11.08
Riforme La mossa di Epifani dopo il blocco della Fiom per il 12 dicembre. Marcegaglia: nel sindacato ci sono due anime
La Cgil va avanti da sola: sciopero generale
«No alla riduzione dei salari, alt al contratto del pubblico impiego». Critiche di Cisl e Uil
Epifani: «La Cgil non è all'angolo, ogni volta che ci hanno provato si son dovuti ricredere. Sarà così anche questa volta»


ROMA — La Cgil va avanti da sola. La prossima settimana riunirà il suo parlamentino, il direttivo, per lanciare lo sciopero generale (in una data tra dicembre e gennaio). Contro il governo e la Confindustria. E senza la Cisl e la Uil. Questo il risultato dell'assemblea dei quadri e delegati della Cgil che si è riunita ieri al Palalottomatica, all'Eur.
A caricare i cigiellini c'è anche la vittoria di Barack Obama alle presidenziali Usa, salutata con una standing ovation.
È la prima volta che succede da parte della Cgil verso un presidente americano, ha osservato il segretario generale, Guglielmo Epifani. Che dal palco ha rilanciato la piattaforma autunnale della Cgil. Al primo posto interventi a sostegno dei salari e delle pensioni, con la restituzione del fiscal drag, le maggiori imposte pagate a causa dell'aumento nominale dei redditi per effetto dell'inflazione. Si tratta, secondo Epifani, di mettere 500 euro nelle buste paga di dicembre e di prevedere una sorta di quattordicesima per le pensioni basse.
Ma il governo ha già detto che non ci saranno interventi di questo tipo perché la priorità resta il risanamento del bilancio. A questo punto lo sciopero generale della Cgil diventa più che probabile. La Fiom ha già proclamato quello dei metalmeccanici per venerdì 12 dicembre e la Fp si prepara a fare altrettanto per i dipendenti pubblici, dopo gli scioperi già in programma per il 7 e il 14 novembre. Il 13 la Cgil fermerà invece i pensionati, il 14 i lavoratori di Università e ricerca e il 15 quelli del commercio. Ma se si arriverà a uno sciopero generale di tutti i lavoratori queste proteste di categoria potrebbero confluire in esso.
Poche ore dopo la conclusione dell'assemblea della Cgil, i segretari di Cisl e Uil, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, hanno tenuto una conferenza stampa insieme, a sottolineare anche simbolicamente la loro divisione dal sindacato di Epifani.
Angeletti ha accusato la Cgil di fare ormai solo politica e di essere arrivata per ultima sulla richiesta di detassare la tredicesima. «La Cgil mi sembra più guidata da Cremaschi che da Epifani», ha concluso alludendo al leader della sinistra Cgil. Bonanni, invece, si è augurato che «i nostri amici della Cgil si ricongiungano a noi» e ha rilanciato sul piano del governo, chiedendo «un patto per la crescita». Il leader della Cisl punta a concludere presto a Palazzo Chigi l'accordo con l'esecutivo e con le imprese che comprenda anche la riforma del modello contrattuale, altro tema di scontro con Epifani. Al governo Bonanni e Angeletti hanno intanto chiesto «un piano straordinario sulla cassa integrazione». In caso contrario, farebbero lo sciopero generale, hanno aggiunto. Ma non ce ne sarà bisogno perché l'esecutivo ha già annunciato l'aumento dei fondi per la cig.
La spaccatura tra i sindacati si aggrava dunque ogni giorno di più. «È evidente che l'unità sindacale sarebbe un fatto positivo — commenta Emma Marcegaglia, presidente della Confindustria — ma è ormai chiaro che ci sono due anime diverse nel sindacato ». Da una parte Cisl e Uil, decise a fare accordi col governo e con le imprese. Dall'altra la Cgil, interprete dell'opposizione non solo sindacale ma ormai anche politica e sociale al governo. Una frattura che preoccupa moltissimo il Partito democratico, dove una parte (quella che viene dai Ds) è più vicina alla Cgil e un'altra (quella che viene dalla Margherita) a Cisl e Uil. «Basta con la frammentazione sindacale, è necessario voltare pagina», dice il vicesegretario del partito, Dario Franceschini.
Enrico Marro
Il leader della Cgil, Guglielmo Epifani

Repubblica 6.11.08
Le due piazze
"Nel Prc siamo separati in casa congresso per dialogare col Pd"
Vendola: "Alle Europee liste unite delle sinistre"
di Umberto Rosso


C´è una costituente camuffata con il Pdci, invece bisogna aprire le porte per costruire un cartello elettorale con le primarie
"Dobbiamo far dialogare le due piazze piene di popolo, ma povere di piattaforme, trovando punti comuni per fare opposizione"

ROMA - «Un congresso straordinario di Rifondazione, al punto in cui siamo, non è una richiesta da escludere».
E per far che, governatore Nichi Vendola, per la scissione?
«Noi non lavoriamo per la scissione. Ma per un soggetto più largo. E proprio per questo avanziamo una proposta: alle europee liste unite di un cartello delle sinistre».
Ferrero le boccia: il congresso di Chianciano ha deciso di presentarsi con liste di partito.
«Frettoloso rinvio al mittente. Spero che non si voglia liquidare tutto così, in modo burocratico. Il mondo intero, in questi ultimi mesi, è cambiato. Dal movimento degli studenti all´elezione di Obama. Sul versante politico, il Pd è oggi un interlocutore fondamentale per il cambiamento possibile. E poi, non registro questa gran fedeltà all´asserita linea di Chianciano.».
Ovvero?
«Leggo di grandi manovre di avvicinamento fra il Prc e il Pdci. Siamo a una costituente comunista camuffata, in modo da aggirare quanto escluso dal congresso di luglio. Una cosa comunista può nascere attraverso uno scioglimento dei due partiti, ma anche per inglobamento del Pdci nel Prc».
Insomma, è Ferrero che sta truccando le carte.
«Diciamo che invece del 50%, il nostro, nel partito oggi conta la linea del 6% (il gruppetto di Essere comunisti). Ma il problema è che quel panorama desertificato, quel paesaggio sociale spettrale, quello tsumani di destra che fu la cifra di Chianciano, è finito contraddetto in radice».
Anche se sono trascorsi soltanto tre mesi?
«E´ un´altra era geologica. Il movimento di studenti e insegnanti ha sferrato il primo colpo all´egemonia berlusconiana. Però, la sinistra non ha più tigri da cavalcare, non è scritto da nessuna parte che gli studenti virino dalla nostra parte. Sulla scena mondiale, l´elezione di Obama riapre il discorso, e lo dico con la massima cautela , del primato del pubblico, del valore della socialità, dei diritti collettivi».
Ma c´è bisogno di un congresso straordinario, non esistono sedi interne di discussione?
«Serve il più largo confronto possibile nel partito. Ora, viviamo come separati in casa, in una replica permanente sempre più penosa dello scontro di Chianciano. Non sono interessato. Non per risentimenti personali, non ne coltivo, ma perché voglio discutere di politica. Io non posso assistere al capovolgimento della nostra storia: chi vuol ripristinare i servizi d´ordine è in totale contrasto con la scelta della non violenza compiuta a Venezia, e mi fa accapponare la pelle. Io vorrei sapere se è giusto presentarsi agli studenti con i volantini con la falce e martello e finire fischiati, piuttosto che ascoltare le loro ragioni».
E il Pd, è diventato dunque vostro «interlocutore fondamentale»?
«Sì. Non siamo mica dei notai, chiamati a certificare gli sbandamenti e la "purezza" del Pd. Io penso che dobbiamo provare a spostare a sinistra l´asse del partito di Veltroni. Nella battaglia contro Berlusconi, bisogna mettere insieme il popolo del Pd e della sinistra radicale, la piazza del 25 ottobre e la piazza dell´11 ottobre. Dobbiamo far dialogare queste due piazze, belle e piene, ma entrambe povere di piattaforme. Scuola. Contratti. Difesa del sindacato. Mezzogiorno. Su questi punti, si può fare opposizione comune».
Lei nega, ma per la scissione girano già date, liste di "separazione dei beni" dentro Rifondazione, nomi e sigle.
«L´unica sigla è quella che nasce domani, insieme a Claudio Fava: l´associazione "La Sinistra", fra la nostra componente e Sd, senza aggettivi, primo embrione di una casa comune aperta a tutti».
Ci risiamo, con la Sinistra arcobaleno?
«Per niente. Il cartello elettorale che abbiamo in mente per le europee chiuderà con risse, beghe, e identità. Spalancando porte e finestre. A cominciare dalla scelta dei candidati: con le primarie».

Corriere della Sera 6.11.08
Verso la scissione Domani il primo passo: nasce «Per la Sinistra» con Fava (Sd)
Prc, Vendola prepara l'addio con la regia di Bertinotti
L'ex leader ai suoi: ma ci sono tempi e modi appropriati
In Toscana e Lazio pressioni per la rottura. I dubbi di Fausto: se con falce e martello Ferrero prende più voti che si fa?
di Maria Teresa Meli


ROMA — Quello di domani sarà il primo passo: Nichi Vendola e Claudio Fava presenteranno l'associazione «Per la Sinistra». Il prossimo seguirà più in là. La scissione di Rifondazione comunista, è cosa fatta.
Ma non avverrà nel giro di ventiquattro ore. Certo, il governatore della Puglia, nella conferenza di domani, lascerà intendere che è quella la strada e non vi è alternativa possibile, ma siccome una scissione non si improvvisa da un giorno all'altro il tracciato di «guerra» degli anti-Ferrero prevede altre tappe. E per individuarle è sceso nuovamente in campo il «subcomandante Bertinotti ».
L'ex presidente della Camera è arciconvinto del fatto che la convivenza con il segretario Paolo Ferrero si sia fatta sempre più difficile. Del resto, settori non propriamente ininfluenti del Prc ritengono che sia giunto il momento di mollare gli ormeggi. E non si tratta solo dell'ex capogruppo a Montecitorio Gennaro Migliore. Ci sono pezzi del partito, in Toscana, nel Lazio e altrove che premono per l'uscita. E uscita ha da essere pure secondo Bertinotti, che è il vero tessitore anche di questa nuova fase di vita di Rifondazione comunista.
L'ex presidente della Camera, però, pensa — e lo ha detto ad amici e compagni di partito — che «esistano tempi e modi appropriati», benché sia convinto che le «elezioni europee siano il punto di ricaduta». E infatti ha tracciato la strada che porta alla scissione. «Non dobbiamo fare la parte di chi se ne vuole andare lasciando il partito nei guai», è la prima parola d'ordine. Ciò significa che non si può andare via punto e basta, a freddo. Prima bisogna proporre a Ferrero di fare una grande alleanza della sinistra — dai transfughi dei Ds ai verdi — in vista delle elezioni europee. Poi si attende la risposta. L'attuale maggioranza di Rifondazione comunista — quella composta dagli ex pci — è contraria a una simile ipotesi e lo ha già detto, facendosi scudo del dettato congressuale in cui si sottolinea che il Prc deve andare da solo alle consultazioni. Di fronte a un no, scatta l'addio immediato. Ma Ferrero potrebbe provare ad aprire a questa ipotesi, convincendo la sua maggioranza neghittosa, per evitare che una scissione prima delle europee, condanni Rifondazione alla marginalità.
Certo, per fare questo il segretario dovrebbe convincere gli ex pci su cui appoggia la sua maggioranza. Impresa non facile. Ma se gli riuscisse, secondo Bertinotti, non si potrebbe sbattergli la porta in faccia. Se non altro per un motivo quanto mai prosaico: «Supponiamo che si vada separati alle elezioni, noi con la Sinistra Democratica di Fava loro con la falce e martello. E se, grazie a quel simbolo, prendessero il doppio di noi, che succederebbe? Succederebbe che la nostra nuova formazione politica nascerebbe già morta». Per questa ragione Bertinotti preferirebbe attendere le europee per dare l'addio, subito dopo, al partito. «Anche perché — spiega l'ex sottosegretario del governo Prodi Alfonso Gianni — altrimenti dove cazzo andiamo? ». Interrogativo brutale ma non peregrino.
Dunque, Bertinotti tenta di dare un senso alla scissione, ma anche lui si rende conto che «i tempi non possono essere troppo lunghi». Sennò c'è chi se ne andrà comunque.

Corriere della Sera 6.11.08
Dino Campana: una cometa, non un matto
I misteri della vita del poeta. Le colpe della famiglia, le leggende sulla pazzia
di Sebastiano Vassalli


L'occasione di occuparmi seriamente, come scrittore, dell'uomo Dino Campana mi si presentò nel 1982. L'editore Giulio Bollati e il giornalista e scrittore Corrado Stajano stavano progettando per l'editore Mondadori una collana di «casi giudiziari» che avessero avuto qualche rilevanza nella storia politica o in quella del costume. Mi chiesero se avevo delle idee da proporgli. Gli dissi che non ero a conoscenza di nessun processo interessante (soltanto in seguito avrei avuto occasione di imbattermi nel processo ai Futuristi per oltraggio al pudore, all'epoca della rivista «Lacerba»): ma che mi sarei occupato volentieri del percorso giudiziario di Dino Campana, per il suo internamento in manicomio. In seguito alla legge del 14 febbraio 1904, n.36, infatti, le autorità che decidevano il destino dei matti in Italia erano il Ministro dell'Interno e quello di Grazia e Giustizia; e le vicende personali di ogni matto, prima di essere un caso clinico, erano un caso giudiziario affidato ai pubblici ufficiali e alla magistratura.La documentazione su Dino Campana doveva trovarsi negli atti del tribunale di Firenze e degli altri tribunali delle località dove lui era stato in manicomio o in prigione.Per facilitare le mie ricerche in Italia, Giulio Bollati, che allora era amministratore delegato della casa editrice Il Saggiatore, mi scrisse questa lettera, datata Milano 19 novembre 1982: Il Dott. Sebastiano Vassalli sta conducendo una ricerca storica, intesa a ricostruire la biografia dello scrittore Dino Campana; biografia che sarà pubblicata dalla nostra casa editrice.Saremo grati alle persone e agli Enti che vorranno facilitargli l'accesso a notizie, documenti, luoghi, utili al suo lavoro.Per l'estero, Bollati si rivolse all'ambasciatore Sergio Romano, che era allora il responsabile, presso il Ministero, degli Istituti Italiani di Cultura. Vennero interpellati gli Istituti di Buenos Aires, di Montevideo, di Bruxelles e di Berna. Dal Sudamerica arrivarono risposte generiche, sulla difficoltà o addirittura sulla impossibilità, per quei Paesi, di avere notizie degli immigrati nei primi anni del secolo. In Belgio e in Svizzera, invece, si fecero ricerche molto accurate, che portarono ad escludere che Dino Campana fosse mai stato registrato, sia pure solo per un giorno, nelle prigioni di Bruxelles, di Ginevra o di Berna. I mesi di carcere raccontati da Dino a Pariani non erano mai esistiti, così come non era mai esistito (si veda, in proposito, il saggio di Gino Gerola edito da Sansoni nel 1955) il mese di prigione a Parma. In compenso, nella «vita non romanzata» del Pariani, non si faceva il minimo accenno all'unica prigione dove Dino era stato davvero per qualche settimana: il carcere di Marassi a Genova…
***
Con la lettera della casa editrice Il Saggiatore mi presentai all'Archivio di Stato di Firenze, nel palazzo degli Uffizi. I primi documenti che vidi furono i registri del Regio Esercito, in cui Dino Campana risulta: Soldato volontario nel 40˚Reggimento Fanteria (Allievo ufficiale) ascritto 1ª categoria classe 1883. (Dino era nato nel 1885, e se avesse aspettato la leva, sarebbe dovuto andare alle armi due anni dopo, con la sua classe di appartenenza).Dal 4 gennaio al 4 agosto 1904. Il 4 agosto cessa dalla qualità di allievo ufficiale per non aver superato gli esami al grado di sergente.Quella fu la prima sorpresa: e non era una sorpresa da poco, perché non faceva parte della «vulgata » sul poeta pazzo, e anzi la contraddiceva radicalmente. E perché racchiudeva un segreto di famiglia, tenuto nascosto a tutti e così ben difeso che anche i cugini di primo grado e gli altri parenti non ne avevano saputo nulla.A diciotto anni, Dino si era arruolato volontario per intraprendere la carriera militare, ed era stato ammesso al corso allievi ufficiali.Il 40˚Reggimento di Fanteria (devo questa precisazione al professor Giovanni Tesio dell'Università del Piemonte Orientale, che sta svolgendo ricerche in proposito) era effettivamente di stanza a Modena.L'Accademia Militare di Fanteria era (ed è) a Modena, e accedervi non era cosa da tutti. C'era una selezione rigorosissima, che comprendeva esami e prove attitudinali. C'era da sostenere la spesa (notevole) del «corredo»: oltre alla biancheria la divisa invernale, la divisa estiva, l'alta uniforme, lo spadino, il cappello eccetera.
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La storia del poeta pazzo è una storia italiana che ha al suo centro la famiglia (il «familismo» è il principale connotato antropologico di questo Paese) e che poi si arricchisce di altri connotati, diventa un concentrato di storie italiane tra Ottocento e Novecento. Ci sono dentro l'emigrazione, i manicomi, le avanguardie artisticoletterarie («La Voce», i Futuristi), l'interventismo e la Grande Guerra, i «casini » e l'emancipazione femminile (il femminismo pionieristico dell'Aleramo). Ci sono dentro troppe cose perché la storia di Dino, quella vera, fosse raccontabile e accettabile, e perché una sola vita potesse reggerle tutte. Meglio coprire tutto con un velo di menzogne: come poi si è fatto.
Al centro della famiglia Campana c'è la madre Fanny Luty Campana, che dopo la nascita del secondo figlio, Manlio, rifiuta il primogenito e non riesce più a sopportarlo. A questo proposito è fondamentale la testimonianza di Giovanna Diletti Campana, moglie del fratello del padre, Torquato: perché è molto esplicita e perché si basa sull'esperienza diretta della testimone, e non su qualcosa che lei sa per sentito dire. (Il novanta per cento delle testimonianze su Campana riguardano cose che «tutti sanno», ma a cui nessuno ha assistito personalmente). Dino, in casa, non può starci perché la madre non lo tollera. I suoi guai nascono da lì: e si sa che, quando una vita incomincia ad andare storta, poi non c'è più nessuno che la raddrizzi. La bocciatura in prima liceo, i comportamenti strani, gli anni trascorsi in collegio sono una conseguenza di quel dramma familiare: e a loro volta causeranno l'alcolismo, i vagabondaggi, la nomea del «matto» e le persecuzioni dei compaesani… I coniugi Campana faranno tre tentativi di liberarsi del figlio primogenito. Il primo tentativo è la carriera militare, di cui si è detto; il secondo tentativo è l'internamento a vita in un manicomio; il terzo tentativo è il viaggio in Argentina con un passaporto speciale, valido soltanto per l'andata.Non ci riusciranno.*** Contrariamente alla leggenda marradese, messa in circolazione dalla famiglia, a diciotto anni Dino è tutt'altro che matto. Supera, con una buona votazione, l'esame di maturità al liceo D'Azeglio di Torino e viene ammesso all'Accademia Militare di Modena, dove rimane sette mesi, adattandosi a una disciplina durissima. Perché la sua carriera militare poi si interrompa, è rimasto un mistero. Al centro di quel mistero c'è un avvenimento che viene vissuto con vergogna dai suoi familiari e anche da lui. Nessuno più parla di quei sette, anzi: otto mesi. (Con il mese del cosiddetto «tirocinio »). Sono stati cancellati dalla vita di Dino.Anche l'interessato, così prodigo nel raccontare balle al suo biografo Pariani, si guarda bene dal farne parola. Soltanto in un testo del 1916, scritto per la rivista «La Riviera Ligure», leggiamo: A diciott'anni rinchiusa la porta della prigione piangendo gridai: Governo ideale che hai messo alla porta ma tanta ma tanta canaglia morale.Di che prigione si tratta? Era l'Accademia, la prigione?A Pariani, Dino disse di essere stato un mese in prigione a Parma quando aveva diciott'anni. Ma nei registri del carcere di Parma il suo nome non c'è, e anche a volerla collocare in un altro luogo, la condanna a un mese di prigione è poco verosimile. (A diciotto anni, allora si era minorenni). Di certo, c'è soltanto il fatto che non tutti i cadetti dell'Accademia Militare riuscivano a concludere i due anni di corso, e che anzi quelli che ci riuscivano erano forse una minoranza. Il fallimento, che per Dino rappresentò una tragedia, a Modena doveva essere un destino abbastanza comune…

Corriere della Sera 6.11.08
Ricostruzioni. Quella follia tanto cara alla vulgata romantica


I l brano che qui pubblichiamo è tratto dal volumetto Natale a Marradi. L'ultimo Natale di Dino Campana, scritto da Sebastiano Vassalli (interlinea edizioni, pp. 60, e 10; in libreria nei prossimi giorni).Questo testo è in concreto una continuazione, un'appendice, allo splendido libro di Vassalli, uscito da Einaudi nel 1990 e da allora continuamente ristampato: La notte della cometa. Il romanzo di Dino Campana. Risultato di lunghissimi anni di letture e ricerche La notte della cometa è stato al centro di accesi dibattiti. Contestando la romantica e superficiale vulgata del poeta matto (il mat Campena), Vassalli ricostruì con straordinaria abilità la «vera», sfortunata, esistenza del poeta di Marradi. Giungendo a conclusioni che in molti si rifiuteranno di accettare: i guai di Dino nascono in casa, proprio lì, nell'ambiente familiare, dove viene sistematicamente maltrattato, respinto e allontanato. Una vicenda umana dai risvolti tragici. Una vicenda oscurata, cancellata, fino al giorno in cui l'ostinazione di un grande scrittore l'ha sottratta all'oblio. E che oggi si arricchisce di un nuovo capitolo.La scrittrice Sibilla Aleramo. Ebbe una relazione con Dino Campana

Corriere della Sera 6.11.08
Dibattiti Un libro di Giovanni Jervis e Gilberto Corbellini rilegge la «180»
Basaglia, ragione e pregiudizi
Gli eccessi dell'antipsichiatria
Una normativa simbolo e il ritardo culturale italiano
di Sandro Modeo


Lo scorso 31 ottobre un libro-dialogo scritto a quattro mani da uno psichiatra autorevole come Giovanni Jervis e da un rigoroso storico della medicina come Gilberto Corbellini ( La razionalità negata, Bollati Boringhieri, pp. 174, e 12) è stato sottoposto a una duplice deformazione: prevedibile, del resto, per un libro la cui dorsale tematica (una verifica, trent'anni dopo, della legge 180 — impropriamente detta «Basaglia» — e dei suoi effetti) si ramifica in tanti snodi connessi, da certi equivoci culturali degli anni Settanta al difficile rapporto tra scienza e umanesimo nel nostro Paese.Così per un verso (su Liberazione, pezzo di Ernesto Venturini sottoscritto da tutti i «goriziani » ovvero «basagliani») si caricaturizza il testo a regolamento di conti con Basaglia da parte dell'ex collega Jervis, accusato di «povertà morale» e autopromozione, e poi si procede a una controffensiva concettuale e fattuale «a prescindere », incorrendo in diverse gaffe (esempio: si imputa a Jervis di non citare le altre città coinvolte, oltre a Gorizia, nell'innovazione psichiatrica di quegli anni, quando a p. 143 vi figurano quasi tutte); per un altro verso ( Il Foglio, a firma di Nicoletta Tiliacos) si amplifica una zoomata del libro (sulle corresponsabilità del malinteso egualitarismo sessantottesco nella genesi del «disastro educativo» della nostra scuola) a tratto peculiare del paesaggio, come a reclutare gli autori tra gli sponsor del decreto Gelmini.Il libro è ben altro. Senza ombra di risentimento (vedi il ritratto di Basaglia in chiaroscuro, duro ma mai volgare nel rifrangere genialità e chiusure di una personalità complessa) né di tentazioni revisionistiche in senso reazionario (vedi il riconoscimento inequivocabile alle conquiste della legge), è anzitutto un tentativo di spiegare gli eccessi dell'«antipsichiatria» (da Basaglia stesso negata solo a parole) come reazione simmetrica agli eccessi di una psichiatria biologista che rivestiva la propria «impotenza» terapeutica di un'onnipotenza pseudoscientifica. Insomma, gli schizofrenici nelle strade o a carico delle famiglie (tragico «effetto collaterale» della 180) sarebbero il contrappunto degli abusi di elettroshock e delle camicie di forza. Per tacere del fatto — tutt'altro che incidentale — che l'Italia ha scontato, rispetto agli altri Paesi europei, un notevole ritardo di elaborazione culturale e giuridica: se infatti altrove si è cominciato già nell'Ottocento a emancipare i malati dalla logica burocratico-colpevolizzante di tribunali e polizie (con leggi come quella francese del 1838 o il «Lunacy Act» inglese del 1845), da noi la 180 ha dovuto suturare di colpo un gap risalente a una legge del 1904, in cui la malattia mentale coincideva col comportamento criminale e l'internamento era timbrato sul casellario giudiziario.Ma nello stesso tempo — in questo trapasso senza sfumature — Jervis e Corbellini rimarcano la centralità di una (contro) cultura di cui l'antipsichiatria è solo una nervatura: un patchwork composito in cui marxismo rigido, anarchismo contiguo a pratiche di lotta armata, sociologismi ambigui (le vaghezze «metaforiche » di un Foucault), psicoanalisi para-freudiana (l'esoterismo oscuro di un Lacan) e misticismo new-age (il rebirthing) si sono saldati in un linguaggio astratto e formulare teso a vedere nel disagio mentale solo l'effetto del «controllo sociale» e di un ambiente castrante. E anche oggi — dopo che non la psichiatria biologista, ma la psicologia cognitiva e le neuroscienze hanno confermato nella malattia mentale anche un'alterazione fisiologica individuale — quel pregiudizio circola in ampie sacche residuali della nostra cultura e della nostra pratica terapeutica.È lì che nasce la «razionalità negata» del titolo, con riferimento — più di integrazione che di polemica — all'Istituzione negata, il «rapporto» del '68 curato da Basaglia sull'esperienza goriziana e la necessità di abolire l'istituzione manicomiale. Ed è anche lì che nasce (in contiguità con la tradizione idealistica e il côté cattolico) l'antiscientismo di un Paese compiaciuto della propria arretratezza.Un paziente psichiatrico a Parma in una foto di Carla Cerati (1968)

Corriere della Sera 6.11.08
Documenti Mimmo Franzinelli denuncia la sparizione del fondo consegnato alla Fondazione Feltrinelli
Giallo sull'archivio di Pagano, l'architetto deportato
di Antonio Carioti


Legionario fiumano, architetto e urbanista di statura europea, direttore della rivista Casabella a partire dal 1931. Prima convinto fascista, ma critico verso il monumentalismo retorico del regime; poi partigiano socialista, torturato dalla famigerata banda Koch sotto la Rsi, deportato a Mauthausen e morto il 22 aprile 1945. Insomma, Giuseppe Pagano visse sulla sua pelle le peggiori tempeste del Novecento. «Il suo ultimo scritto nel lager — osserva lo studioso Mimmo Franzinelli — è uno splendido testamento spirituale: un esame di coscienza autocritico, ma aperto alla speranza nel futuro. Pagano è una figura che andrebbe studiata a fondo per capire gli errori e le illusioni di tanti intellettuali italiani nel XX secolo».Purtroppo chi volesse approfondire la parabola del grande architetto, nato a Parenzo (Istria) nel 1896, incontrerebbe gravi difficoltà: «Le carte di Pagano — spiega Franzinelli — vennero consegnate dalla figlia Lorenza alla Fondazione Feltrinelli nel 1977, ma ben presto furono sottratte alla consultazione. Riuscì infatti a ottenerle in custodia, insieme ad altri fondi importanti, l'architetto Riccardo Mariani, con il pretesto di organizzare una mostra per il comune di Milano. Non credo che tale iniziativa sia stata realizzata, ma comunque il materiale non è stato mai restituito. Risulta tuttora in possesso di Mariani, che adesso vive a Ginevra. È un fondo di notevole valore, non solamente storico, che comprende fotografie, schizzi e progetti originali, scambi di corrispondenza con personaggi del calibro di Giovanni Gentile, Marcello Piacentini e diversi altri».Il convegno che si tiene oggi a Milano presso la Fondazione Memoria della deportazione non è dunque solo l'occasione per presentare la riedizione dell'antologia degli scritti di Pagano Architettura e città durante il fascismo (Jaca Book, pp. 306, e 42), curata da Cesare de Seta, ma anche per denunciare pubblicamente una vicenda che Franzinelli — relatore dell'incontro insieme a de Seta, Gianfranco Maris, Giancarlo Consonni e Fulvio Irace — giudica «vergognosa». Lorenza Pagano, figlia dell'architetto, conferma la sua versione: «Nel 1985 scrissi a Salvatore Veca, che allora dirigeva la Feltrinelli, per lamentare il fatto che il fondo di mio padre non era a disposizione degli studiosi. Ma non ottenni risposta. Mariani sostiene che la Fondazione gli consegnò il materiale perché non era interessata a conservarlo. E mi ha assicurato che si sta adoperando per far conoscere l'archivio di mio padre. Dice che vuole metterlo anche su Internet».Franzinelli sottolinea che nulla si è mosso fino al suo intervento: «Ho protestato presso la Feltrinelli insieme a de Seta e nel luglio scorso la direttrice della Fondazione, Chiara Daniele, ha scritto a Mariani per sollecitare la restituzione del fondo. Ma lui ha risposto che ritiene di custodire le carte a buon diritto. A questo punto mi risulta che sia stata avviata un'azione legale».

Repubblica Genova 6.11.08
Anoressia choc in un anno ottanta nuovi casi a Genova
Per le cure un doppio approccio: nutrizionale e psicologico


L´anoressia, la malattia che rifiuta il cibo fino ai limiti estremi, colpisce sempre più giovani, vede ancora le donne protagoniste in negativo e si estende alle fasce post adolescenziali. In Liguria, nel 2008, soltanto a Genova sono stati 76 i nuovi casi medio-gravi. L´allarme, le statistiche e le strategie per affrontare un nemico così terribile, sono stati al centro del XXIII Congresso nazionale dell´Associazione italiana dietetica e nutrizione clinica, ieri ai Magazzini del Cotone. Racconta come si possono aiutare questi malati il presidente dell´Associazione, e primario al San Martino, il professor Samir Giuseppe Sukkar. Spiega: «I disturbi alimentari sono un fenomeno in crescita ma per la prima volta, da luglio di quest´anno, c´è un registro per monitorarli». Poi conferma che, sempre da gennaio 2008 a oggi, sono 76 i nuovi pazienti in cura al San Martino, con un doppio approccio, nutrizionale e psicologico, mentre il centro di eccellenza regionale è a Pietra ligure. In Italia sono due milioni i giovani che soffrono di disturbi alimentari, secondo l´ultimo rapporto Eurispes, che segnala un altro dato allarmante: il 5 per cento delle donne tra i 13 e i 35 anni soffre di anoressia o di bulimia, mentre l´ultima ricerca del ministero della Salute svela che ogni due ore, in Italia, una persona si ammala di anoressia e, nei casi gravi, l´incidenza mortale è di un malato su cinque. Come affrontare un nemico così tremendo? Quale è il modo per provare a combatterlo? Il professor Sukkar spiega: «le terapie più seguite sono tre, la migliore è sicuramente quella psico-nutrizionale, mentre per i casi gravi si può intervenire con la nutrizione artificiale». Inoltre, negli ultimi anni, sono stati sviluppati alcuni integratori alimentari, uno di questi viene testato adesso sempre al San Martino. Il nuovo integratore è una polvere insapore che contiene 13 vitamine 15 minerali, Omega-3 e trigliceridi, e può essere aggiunto a frullati di frutta o verdura senza alterarne il gusto. Senza dare l´allarme, insomma, a chi rifiuta di cibarsi e non vuole cedere. Il percorso nutrizionale va comunque accompagnato da quello psichiatrico, essenziale per capire il male di vivere che spinge giovani donne, o ragazzine, ma anche uomini, a scegliere questo modo terribile per attirare l´attenzione. A rischio di morire.

mercoledì 5 novembre 2008

l’Unità 5.11.08
Blitz fascista a «Chi l’ha visto?» per il filmato degli scontri
di Eduardo Di Blasi


Un video inedito degli scontri innesca la risposta dei «neri». E conferma: la ricostruzione del Viminale che ha dato la colpa ai ragazzi di sinistra ha ignorato che i primi a picchiare sono stati quelli del Blocco Studentesco.
Le immagini raccontano la mattina di mercoledì scorso in Piazza Navona, giorno di proteste contro il ministro dell’Istruzione e di uno scontro di piazza tra esponenti di destra e di sinistra.
In primo piano compare un noto esponente del Blocco Studentesco che, cintura in mano, è alla testa di una carica che si abbatte contro un gruppo di studenti liceali. Le immagini sono rallentate. La voce fuori campo di Federica Sciarelli dagli studi di Chi l’ha visto? avvisa: «Questo è accaduto prima di quello che voi avete visto nei giornali o durante i telegiornali». Nessun invito a riconoscere quelle facce, nessuna richiesta di rintracciare «scomparsi» nella calca. Sono pochi minuti, in coda alla puntata, ma bastano per mobilitare i militanti di Casapound, il centro sociale di destra, vicino alla Fiamma Tricolore, che occupa uno stabile del demanio, ex Invalsi, nei pressi di Piazza Vittorio, a Roma.
In trenta-quaranta marciano verso gli studi di via Teulada. Superano i tornelli d’entrata. Lanciano ortaggi (il video del blitz verrà anche messo in rete con piglio futurista e colonna sonora dei Motorhead). La guardia giurata all’ingresso li informa che a quell’ora negli studi del programma non c’è nessuno. E loro si allontanano, prima dell’arrivo della polizia. Con il presidente della Rai e il direttore generale che chiedono lumi al ministro dell’Interno e al capo della polizia.
La mattina seguente la segreteria telefonica del programma registra quattro telefonate di minaccia che l’ufficio stampa della Rai invia alle agenzie. La prima è la più strana: «Questa è la segreteria nazionale di Forza Nuova, abbiamo visto il vostro numero del 3 novembre in cui pubblicate foto di persone in cui chiedete a Chi l’ha visto? dove abita e il nome e cognome. Noi facciamo lo stesso su di voi, su tutti voi. Chi ha visto voi, chi lavora con voi, dove abitate, nome e cognome. E poi verremo sotto le vostre case». Roberto Fiore, segretario del movimento, allontana da sè i sospetti: «Le telefonate non appartengono in qualsiasi modo allo stile ed alla linea che, particolarmente ora, contraddistingue FN». Ma condanna fermamente la presunta «schedatura tv». È lo stesso piglio che tiene il leader di Casapound Gianluca Iannone. Dopo che il centro sociale ha parlato di «pacifica passeggiata» all’interno della Rai, Iannone afferma: «Siamo pronti a ritornare perché se gli attacchi vanno sul personale, violando anche la privacy, noi diventeremo sempre più cattivi». Non si comprende bene quale diritto alla privacy possano invocare in una piazza piena di telecamere, cinquanta persone che brandiscono una cintura. Non si comprende, soprattutto, vedendo i video che in questi giorni lo stesso movimento del Blocco Studentesco, vicino a Casapound e alla Fiamma Tricolore, sta diffondendo su Youtube, con tanto di circoletti rossi a indicare questo o quell’esponente dell’altra parte presente in piazza.
La vera notizia che emerge dalle immagini inedite di Chi l’ha visto? (cui nei blog vicini ai movimenti di destra si tenterà di reagire con un ulteriore video di quella giornata) è che l’informativa alla Camera del sottosegretario all’Interno Francesco Nitto Palma ha ignorato, come già segnalato anche da questo giornale, la prima parte della mattinata di Piazza Navona: quella in cui la componente di destra presente sulla corsia Agonale tra piazza Navona e la facciata del Senato, ha provato a forzare lo sbarramento degli studenti.
Il Pd annuncia con Emilia De Biasi un’interrogazione parlamentare per far luce sull’accaduto. Marco Minniti, ministro ombra all’Interno chiede sia fatta subito massima chiarezza: «L’assalto squadristico alla redazione di Chi l’ha visto?, operato da una trentina di persone arrivate indisturbate fino alla Rai dove hanno eluso il servizio di sicurezza interno, è gravissimo e inaccettabile. Nessuna sottovalutazione è possibile, tanto più in presenza di un così pesante attentato contro la libertà di stampa e informazione». È la stessa linea di Cuillo, Giulietti e Vita che parlano apertamente di «assalto squadrista».
Inaspettatamente sul versante opposto alcuni esponenti della Pdl che da Domenico Gramazio ad Alessandra Mussolini protestano contro la presunta «gogna mediatica» di Rai Tre. Si distinguono, nel secondo pomeriggio, Iole Santelli, Fabrizio Cicchitto e Italo Bocchino: «Coerenza vuole - afferma la prima - che si condanni, sempre e comunque con fermezza, ogni genere di atto di aggressione, quale che ne sia la matrice. Quando si sceglie di adottare, come forma di manifestazione del proprio pensiero, la violenza, ecco che la protesta si trasforma in un boomerang e le conseguenze possono essere oltremodo deleterie».

l’Unità 5.11.08
Gelmini vuole fermarsi. Ma il problema è Tremonti
di Natalia Lombardo


Era annunciato un intervento del ministro che poi non c’è stato. Ma il premier non vuole altre rogne. E sta allentando la morsa dei tagli su scuola e università, anche se Tremonti fa molta resistenza.
Impaurito dal calo di consenso Berlusconi non fa autocritica ma si è convinto, e ha convinto Mariastella Gelmini, ad affrontare con tempi lenti e scaglionati per il pacchetto "università". Ma «il problema è Tremonti»: è la voce comune nella maggioranza, perché il ministro dell'Economia non vuole cedere un euro dalla finanziaria triennale. Perché i tempi si allungano con un disegno di legge da discutere in Parlamento. E sia dalla Lega che da An si chiede di fare tagli "mirati", il che rallenterà l'incasso che Tremonti ha previsto, anche se non si modifica il saldo finale. Ma anche la via del ddl sarà "corretta" andando avanti ancora a colpi di decreto per stabilire i nuovi criteri per i concorsi. Decisione esaltata da Maurizio Gasparri come lotta "alle baronie" ma che rischia di sospendere alcuni concorsi. Mariastella Gelmini non si fa vedere in giro, ha rinunciato a vari appuntamenti e ad annunciare le novità, ma ieri mattina è andata a Palazzo Grazioli, a casa del premier per il vertice con i capigruppo del Pdl e della Lega. «Non dobbiamo farci intimidire», ha detto Berlusconi agli altri, però corregge il governo sulla "campagna di comunicazione" che, d'ora in poi, si dovrà fare. Quindi "discutere" prima con studenti e professori per limitare le proteste (di ieri quelle del rettore della Statale di Milano). La Lega ieri ha voluto dire la sua anche sui tagli previsti dal decreto sulla scuola: uscendo dal vertice di due ore, il capogruppo alla Camera, Roberto Cota annuncia un «accordo nella maggioranza» e incassa una certezza: «le scuole di montagna non si toccano». Ma la bresciana e ciellina Gelmini deve vedersela anche con l'opposizione di Formigoni, presidente della Lombardia. Anche An ha puntato a frenare: evitare tagli «orizzontali» sull'Università, scegliere «dove tagliare» correggendo la Finanziaria. Premiare gli Atenei «virtuosi» (il che vuol dire investire soldi, il che preoccupa il ministro dell'Economia) e eliminare «quelli con meno di cinquanta iscritti». Così la tabella di marcia è più diluita: linee guida nel consiglio dei ministri della settimana prossima, per il testo in parlamento c'è tempo.

l’Unità 5.11.08
Il Pd eil linguaggio del movimento
di Chiara Sereni


Chiunque abbia visto uno qualsiasi dei cortei che attraversano le città si è accorto del tono e del linguaggio differenti di slogan, poster, striscioni. Una generazione nuova sboccia, sorprendente come ogni primavera, nelle strade e nelle piazze. Dev'essere per questo che Bella ciao, canzone simbolo di buona parte del secolo scorso, quando emergeva qui e là l'ho sentita stonata: funerea anche quando condita di ironia, fuori posto anche quando non si può non definire fascisti slogan, simboli, protervie che appaiono quelli di sempre. E viene dunque automatico appellarsi all'antifascismo di sempre.
Così come torna automaticamente alla memoria, a chi come me appartiene alla generazione del Sessantotto, quanti disastri comportò allora e dopo la sostanziale incapacità del Pci di dialogare con il movimento, impoverendone con la propria assenza, e fino alla brutalità, il linguaggio sociale e politico. La Storia non si ripete mai nello stesso modo: né quella dei fascisti e dei fascismi, né quella del Pci che non esiste più ma ha molti eredi, né quella di chi si affaccia alla ribalta pubblica per la prima volta, con qualche entusiasmo da spendere. È indispensabile che anche quella incapacità di dialogo non abbia a ripetersi. Qualche passo avanti si è già fatto: rispetto al tradizionale atteggiamento del Pci (i movimenti erano qualcosa su cui mettere il cappello, o in alternativa "estremismo malattia infantile del comunismo"), il Pd ha dato spazio ad un interessamento attento, rispettoso, mai prevaricatorio, e questo è stato ad oggi ben percepito da tutte o quasi le componenti.
Non basta. Perché la povertà di linguaggi politici e sociali è ben più drammatica oggi che allora, e per costruirne di nuovi ci vorrebbe un tempo che non c'è: quel che è nuovo incalza e non aspetta. Per cominciare a pensarli, c'è qualcosa da tenere a mente, soprattutto chi ha sessant'anni o giù di lì: come li vedevamo, noi ventenni di allora, i nostri genitori? Talvolta testimoni di memoria, certo mai architetti del nostro futuro. Noi no. La nostra generazione sembra si pensi costantemente giovane e protagonista, e in questa chiave abbiamo spesso "sollevato" i nostri figli del compito di costruirsi la vita.
Quelli che ora vengono alla ribalta sono ormai i nostri nipoti: facciamo più di un passo indietro, allora, testimoni senza intrusioni. Liberi da noi, forse diventeranno protagonisti davvero e fino in fondo: senza più bisogno di sceglierne qualcuno da paracadutare in questa o quell'altra lista per vestirci, pascolianamente, di nuovo.

l’Unità 5.11.08
Sinistra radicale. «L’unità sia un valore. E via con le primarie»
Il messaggio: offriamo sponda alle piazze e non ci rinserriamo in una logica di pura testimonianza
Il Pd? Scelga: gli imprenditori o i sindacati
Intervista a Franco Giordano


Ha tempo, come tutti quelli a sinistra del Pd, fuori dal Parlamento. «Leggo, scrivo: un libro su noi, e sui due anni del governo Prodi, uscirà fra un mese». Un necrologio, si potrebbe scherzare. «Eppure il tempo non è solo passato: è cambiato, ci offre un’occasione». Si guarda intorno, si affaccia alla finestra, Franco Giordano, ex segretario di Rifondazione, ex deputato, ex che vuole smettere di essere ex: «Vedo passare la nostra gente: studenti, operai, sindacati. Ci chiedono e ci impongono di guardare avanti con loro. Non svalutiamo le due grandi manifestazioni. Svisceriamo il sogno comune, a loro e al popolo del Pd: il meccanismo identitario».
E voi litigate.
«E io dico, secco: andiamo uniti alle Europee».
Per forza, sbarrano al 5%: o uniti o niente.
«Uniamoci in-di-pen-den-te-men-te dalla legge elettorale. Non credo che passerà la legge antidemocratica che vuole Berlusconi. E se forzerà la mano, contesteremo. Ma non dobbiamo aspettarla: decidiamo adesso».
Uniti con chi?
«Proponiamo la densità maggiore possibile a sinistra del Pd. Chi ci sta».
Una nuova Sinistra Arcobaleno? Dopo l’ultima cocente sconfitta?
«È cambiata la stagione, e abbiamo elaborato la sconfitta, più di altri, forse anche troppo. Siamo di fronte ad un problema nuovo, politico, la necessità di una programmazione antiliberista per una società che sta pagando sulla sua pelle la vittoria della destra. Non possiamo coltivare micro intese: se Ferrero cerca di allearsi con Diliberto, chiudendo il recinto e così la partita, significa che vuole la scissione dentro Rifondazione».
Non eravate voi - il gruppo Vendola - gli scissionisti?
«È un’associazione che costruiremo e coltiveremo, ma adesso il calendario impone un’altra visione: la sinistra unita oggi è un valore di riferimento».
Voi e il Pd.
«Vedo là una dialettica poco interessante, per niente riformista e non voglio comunque interferire, anche se prima o poi dovranno scegliere fra imprenditori e sindacati. E anche per loro sarebbe necessario legare il dibattito interno alla società. Non scelgo interlocutori e rilancio un confronto programmatico - ognuno partendo dalle proprie posizioni e profili - e ascolto con piacere Franceschini dire che serve un confronto serrato fra le opposizioni».
Posizioni e profili: siamo sempre lì.
«No, se sapremo diventare sponda politica del Paese che soffre, si arrabbia. Degli studenti, della crisi, della rivendicazione dei diritti civili. Ci sono settori che fuggono dall’egemonia di destra, la spaventano, la sollecitano. E sento la morsa delle recessione: dobbiamo marcare proposte vere, altrimenti rischiamo l’insussistenza».
Gli altri - Berlusconi e la Lega - sembrano meno sottili: e vincono.
«Siamo stati sconfitti culturalmente. E adesso - a sentir parlare Maroni - la scuola serve loro per chiudere la partita. E cosa devo dire? Mi ripeto: la sinistra non si rinserri in una logica testimoniale, marginale. Saremmo due volte colpevoli, adesso, che la società si muove. Che torna in campo il conflitto sociale».
Voi tutti insieme, d’accordo. Tutti fuori da Montecitorio, chissà che ressa per Strasburgo. Come si fa?
«Nel modo più democratico che conosco: con le primarie. Un percorso partecipato, coinvolgente. Per presentarsi forti. La formazione di questa “nuova” sinistra è decisiva per aggregare e convincere».

Corriere della Sera 5.11.08
Il doppio standard della crisi
Neo-socialismo in aiuto dei ricchi Il duro mercato per tutti gli altri
di Ulrick Beck


Molti capitalisti anglosassoni stanno diventando fautori di un dirigismo di Stato di stampo cinese

Nel mio libro Conditio Humana. Il rischio nell'Età Globale (Laterza) metto a confronto tre situazioni di rischio globale: il cambio climatico, il terrorismo e il sistema finanziario, in vista del loro storico potere di cambiamento. Devo tuttavia dire che molte delle cose che ora accadono nel teatrino reale dell' economia e della politica mondiale vanno ben al di là di quel che ero riuscito ad immaginare chiuso nel mio studio. Tutte e tre le crisi non possono essere risolte dallo Stato nazionale. Tuttavia, nel caso della crisi della finanza emerge in tutta la sua chiarezza il potere rivoluzionario della situazione. Dalla sera al mattino non vale più il principio di fondo dell'Occidente, ovvero il libero mercato.
Fino a qualche giorno fa volevamo salvare il mondo intero lasciandolo ad un indisturbato sviluppo, ciò è stato dannoso. Proprio coloro che finora avevano rifiutato con veemenza ogni intervento statale, dalla sera al mattino si sono convertiti. Nei partiti i politici si stanno trasformando da neoliberali in socialisti statalisti, almeno per quanto riguarda singoli punti. Mettono a disposizione dalla finanza pubblica delle somme finora inimmaginabili. Molti rappresentanti del capitalismo anglosassone del laissez-faire sono sulla strada giusta per diventare fautori di un dirigismo capitalistico di Stato di stampo cinese.
In realtà l'economia di mercato sociale è soltanto una minuscola variante nel sistema capitalistico. Proprio negli ultimi anni in Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, ciò che è sociale è stato piuttosto espulso dall'economia di mercato. Si tratta inoltre di un modello legato del tutto allo Stato nazionale. Non è affatto preparato alla situazione globale. Quel che ora sta arrivando è uno Stato sociale in aiuto del capitale finanziario. Ciò avrà sicuramente un ruolo importante nei prossimi anni. Da un lato si mette in piedi un socialismo spendaccione per i ricchi, per l'economia e per la finanza. Dall'altro per i lavoratori dipendenti è pronta l'ideologia di un nudo neoliberalismo. La liberalizzazione dei mercati continuerà tuttavia ad essere eseguita contro coloro che hanno un impiego precario. Le contraddizioni lampanti, in cui si ingarbugliano i politici di tutti i Paesi, non ci sono ancora tutte chiare. Se è fallita l'ideologia del mercato che tutto aggiusta, allora molte riforme degli ultimi anni sono fallite. Anche ad esempio la riforma dell'università. La privatizzazione di ampi settori di quelli che una volta erano i compiti dello Stato metterà a rischio la nostra infrastruttura, il fondamento della nostra ricchezza.
Vorrei sottolineare l'ironia strutturale della situazione. Vi è una certa comicità nel fatto che sia stato proprio l'illimitato successo del capitalismo finanziario a metterlo in crisi. Dal momento che la maggior parte degli approcci sociologici partono dal presupposto di una stabilità ed espansione della modernità occidentale e del suo sistema economico, per lo più scevre da crisi, come si spiega il potenziale di rovesciamento proprio di questa situazione? Gli uomini del fare, ad esempio il capo della Deutsche Bank Ackermann, parlano di un rischio sistemico. Questo attira l'attenzione del sociologo. Ai suoi occhi non è tanto questione di fattori che riguardano la psicologia individuale e sociale, tanto discussi in queste settimane e senza'altro presenti, come ad esempio l'avidità che ha suscitato molto scandalo, ma quel che conta è piuttosto il fatto che l'economia di mercato, sprigionata, privata dei confini, globalmente liberata dalle prescrizioni dello Stato nazionale, spinge il proprio sistema in una crisi esistenziale. Da un punto di vista della sociologia del rischio si tratta sempre di anticipazioni. Con il rischio non si intende la catastrofe. Il rischio è l'anticipazione della catastrofe nel presente, affinché venga evitato il peggio, che in nessun caso deve verificarsi. Quindi occorre inscenarlo. Esageriamo nel descrivere la situazione, la paragoniamo al crash del 1929 e alla successiva depressione degli anni Trenta. Ci proiettiamo l'immagine del fantasma, affinché si mobilitino le forze per impedirne l'ingresso nel mondo reale del XXI secolo. Così avviene involontariamente un salto quantico della politica dal paradigma nazionale a quello transnazionale. La distinzione tra nazionale ed internazionale che sorregge la visione del mondo finora in auge viene dissolta e almeno a tratti sostituita da una politica interna mondiale, in cui i sistemi globali di regole del potere, tra economia e Stato, sono messi in movimento e devono essere ridiscussi. Da noi ciò si concretizza nel fatto che all'improvviso si fanno cose che poco prima erano ancora del tutto inimmaginabili. Nel giro di pochi giorni la Repubblica Federale di Germania si fa improvvisamente garante per la somma di 500 miliardi di euro. In un nonnulla il tutto attraversa le istanze parlamentari.
Si agisce in una condizione di panico, del non-sapere, anzi, del non-poter-sapere. Si tratta infatti di una situazione nuova. Non sappiamo quasi nulla al riguardo. Nel 1929 — che viene portato sempre come esempio — vi erano globalmente condizioni di tutt'altra natura. In verità non abbiamo nulla di veramente paragonabile; e l'esperienza della catastrofe dell'umanità, su cui potrebbe fondarsi il giudizio razionale, va in ogni caso impedita. È interessante che in questa situazione del non-sapere— che riguarda anche la scienza economica — e della massima catastrofe che viene evocata, si indichi all'improvviso lo Stato, fino a poco fa scritto con la lettera minuscola, come l'attore centrale che tutto deve aggiustare. È lo Stato che deve decidere sullo stato d'eccezione. Spenderà miliardi senza che nessuno potrà dire con certezza se ciò sarà d'aiuto. Nessuno ha poi la minima idea di quali saranno gli effetti collaterali.
Da dove verranno i soldi? Certo non dalle banche americane. Cinesi, arabi, russi concederanno crediti all'Occidente. Non posso immaginare che questo non comporti uno spostamento nei rapporti di forza economici e politici globali. Ma di questo a malapena si parla da noi. Negli Usa invece sì. Le banche sono nella condizione di coloro che ricevono assistenza sociale e come loro non vogliono doverla mendicare, ma avervi diritto. Preferirebbero che i miliardi venissero loro imposti. Rischi globali mettono in questione il bisogno fondamentale dei cittadini di avere sicurezza e ordine. Si tratta della anticipazione di uno stato d'eccezione che non giunge dal di fuori, dal nemico, ma che proviene dal centro e riguarda tutti, che ha quindi dimensioni cosmopolitiche. Esso mette in questione l'immagine del mondo finora in auge riguardo alla politica, l'economia, la società e la loro cooperazione. Ne va dell'intero. Dell'intero globale. Non si risolve nulla con i mezzi dello Stato nazionale. Mi affascina in questo il momento cosmopolitico. Costi quel che costi si deve agire al di là dei confini. Il consenso deve coinvolgere l'altro, il nemico. Non possiamo comprendere la nostra stessa situazione, se non impariamo a vedere il mondo con gli occhi degli altri. E la Cina potrebbe approfittare di quello che sta accadendo. C'è sempre chi ne approfitta. Obama ad esempio ha sicuramente conquistato punti presso gli elettori attraverso la crisi della finanza. Sicuramente in America ora si percepisce più chiaramente la perdita di potere degli Usa nei confronti della Cina, di quanto non avvenisse qualche mese fa.
Tempo fa scrivevo: «Ora vale l'inversione del principio di Marx: non è l'essere che determina la coscienza, la coscienza della nuova situazione determina le possibilità di potere degli attori statali». Questo per certi versi si è verificato, per altri no. Anche la situazione del pensiero è cambiata. La premessa, che il neoliberalismo condivide paradossalmente con il neomarxismo e per cui l'economia dà quel muro del suono che non può essere violato dalla politica, perché essa è e rimane l'ancella dell'economia, è sbagliata. Tutti quelli che hanno responsabilità politica parlano improvvisamente della «regolazione» o addirittura della «costituzione» dei mercati finanziari mondiali, usano quindi in modo disinvolto parole finora lebbrose. Si ricerca con urgenza un nuovo Keynes. La teoria economica del vecchio Keynes, che ovunque vive ora la sua ripresa, era indirizzata alle economie del dopoguerra organizzate a livello nazionale. Nell'epoca dei mercati globali ciò è antiquato. Quel che allora prese piede in Europa aveva piuttosto il carattere di un coordinamento di misure nazionali, non portava avanti l'Europa, né aumentava il suo peso.
A gennaio sono stato ospite del presidente francese Nicolas Sarkozy e del ministro degli Esteri Bernard Kouchner. Il governo francese, in vista della presidenza francese della Unione Europea, voleva ascoltare valutazioni di cui la loro burocrazia nazionale forse non disponeva. Tutti i referenti mettevano in evidenza che l'Europa dovesse avere un ruolo maggiore, anzi che l'Europa fosse la chance decisiva della politica mondiale. La politica degli Stati Uniti basata sull'unilateralismo è drammaticamente fallita. Il modello europeo della conciliazione reciproca è il modello globale del futuro. Io ho sottolineato in questa occasione che, se l'Europa smetterà di guardarsi l'ombelico e sarà disposta a pensare e ad agire in modo globale, le piccole differenze all'interno dell'Europa si sposteranno in secondo piano.
E Sarkozy intende utilizzare i rovesciamenti nel sistema finanziario internazionale per scuotere addirittura due principi europei di fondo: i limiti del deficit e il principio di sussidiarietà nella politica economica. Il suo argomento è convincente: una valuta comune necessita di una comune politica economica e finanziaria, in tempi di crisi più che mai. La crisi della finanza così come la crisi del clima potrebbero essere o diventare l'ora di un'Europa politicamente ampliata e desta dal punto di vista della politica mondiale. Helmut Kohl oggi sfrutterebbe questa occasione, data dall'incombente catastrofe, per un rafforzamento dell'Unione europea. Londra e Parigi si chiedono perché proprio la sedicente europeista Angela Merkel e il suo aiutante Peer Steinbeck se la lascino scappare.
traduzione di Steffen Wagner

Corriere della Sera 5.11.08
Archivi Nuovi documenti provano le compiacenze della Santa Sede verso la politica di Mussolini in Etiopia
Pio XI e quel razzismo d'Africa
Nel '37 appoggiò la legge che vietava i rapporti fra italiani e «faccette nere»
di Sergio Luzzatto


La «Giornata della Fede» è rimasta a lungo iscritta non soltanto nelle memorie, ma anche sui corpi (sulle mani) degli italiani. Il 18 dicembre 1935, in risposta alle sanzioni decretate contro il regime di Mussolini dalla Società delle Nazioni per l'invasione dell'Etiopia, le coppie d'Italia furono chiamate a sostenere lo sforzo bellico del fascismo donando «oro alla patria»: contribuendo alle spese di guerra attraverso l'offerta degli anelli nuziali. Fu un gigantesco rituale di massa, celebrato a Roma come nel più minuscolo comune del Regno. Nella sola capitale, oltre centomila fedi d'oro vennero deposte sull'Altare della Patria da brave donne italiane — per prime, la regina Elena e donna Rachele — che orgogliosamente si misero al dito, in cambio, fedi d'acciaio.
La Chiesa cattolica collaborò attivamente alla raccolta dell'oro. Con lettere pastorali, omelie, fogli diocesani, gran parte del clero fece propri gli slogan della pubblicistica di regime. Già il 4 dicembre, con due settimane di anticipo sulla Giornata della Fede, Mussolini poté ordinare ai prefetti di esprimere ai vescovi di ogni provincia la piena soddisfazione del governo fascista.
Il sostegno della Chiesa riuscì allora tanto più utile al regime in quanto la vera nuziale, per la maggioranza degli italiani, era anzitutto un segnacolo religioso: valeva da promemoria del patto matrimoniale stretto dalla coppia presso un altare, era il materico simbolo di un sacramento.
Se il mondo cattolico poté aderire massicciamente alla guerra di Mussolini in Africa, fu anche perché l'impresa d'Etiopia traduceva il mito fascista della romanità nei codici di una cultura missionaria. I soldati del Littorio promettevano di consegnare la fede romana a popoli semibarbari: la «crociata» in Abissinia veniva combattuta affinché trionfassero, insieme, le ragioni imperiali del fascismo e quelle universali del cattolicesimo. Nondimeno, gli storici più avvertiti hanno iniziato da qualche tempo — sulla scorta dei documenti d'archivio relativi al papato di Pio XI, accessibili dal 2006 — a sfumare l'immagine troppo nitida e netta di una Chiesa compattamente schierata dietro le legioni del Duce. In particolare gli studi di Lucia Ceci, docente di Storia contemporanea all'università di Roma Tor Vergata, hanno documentato sforzi notevoli della Santa Sede, e di Pio XI in persona, per fermare la macchina bellica di Mussolini.
Alla vigilia della dichiarazione di guerra, Pio XI aveva preparato una lettera privata per il Duce dove gli chiedeva, in sostanza, di rinunciare all'invasione dell'Etiopia. Papa Ratti aveva poi deciso di non inoltrare la missiva, ma fino all'ultimo aveva fatto pressioni su Mussolini «per non mettere l'Italia in stato di peccato mortale». Né le gerarchie vaticane tacquero del tutto a mobilitazione avvenuta, dopo il fatidico discorso mussoliniano del 2 ottobre 1935. Estensore materiale della bozza di lettera di Pio XI al Duce, monsignor Domenico Tardini affidò a un documento riservato per il papa l'espressione del proprio disgusto nei confronti del «clero esaltato e guerrafondaio». Mentre la Segreteria di Stato diffuse, il 30 novembre, precise istruzioni «da impartire verbalmente ai vescovi d'Italia»: durante la Giornata della Fede, si limitassero i vescovi al campo della preghiera, badando di «non esprimere giudizi sul diritto e la giustizia dell'impresa abissina».
Ora che conosciamo meglio il travaglio della Chiesa di Pio XI a fronte dell'avventura imperiale di Mussolini, a maggior ragione restiamo colpiti da nuovi documenti inediti che Lucia Ceci ha rinvenuto nell'Archivio segreto vaticano e che saranno da lei presentati, in questi giorni, a un convegno della Fondazione Salvatorelli. Sono materiali più tardi, relativi all'estate del 1937: quando ormai da un anno si è consumata la presa militare di Addis Abeba, ed è stato proclamato un impero del quale Pio XI (a dispetto delle tormentate sue iniziative diplomatiche del '35) ha creduto bene di rallegrarsi pubblicamente. Dopo il disordine della guerra, in Africa orientale italiana è venuto il momento di fare ordine. Ed è venuto il momento di farlo a partire dalle alcove, dove troppi soldati e troppi coloni si consolano della distanza da casa fra le braccia amorevoli di qualche «faccetta nera». In Africa orientale italiana è suonata, insomma, l'ora di una legislazione sulla razza.
Dietro impulso del ministro delle Colonie, Alessandro Lessona, il regime ha appena introdotto la «legge sul madamato», che punisce con la reclusione da uno a cinque anni il concubinato di un cittadino italiano con «una persona suddita dell'Africa orientale». Adesso — siamo ai primi d'agosto del '37 — il ministro Lessona sta chiedendo al nunzio vaticano in Italia, Francesco Borgongini Duca, un appoggio diretto della Santa Sede alla legislazione razziale, per scongiurare il rischio concreto di una proliferazione dei meticci. Infatti, «disgraziatamente », i figli nati dall'amplesso di uomini bianchi con donne nere «portano sommati i difetti e non i pregi delle due razze ». Perciò l'Italia fascista invoca il contributo della Chiesa cattolica nel «dissuadere unioni tra persone di diversa razza»: «appunto per evitare le nascite dei mulatti, che sono dei degenerati».
Risalendo per via gerarchica, la richiesta di Lessona approda sulla scrivania di Pio XI, che sollecita un avviso del cardinale Domenico Jorio, prefetto della Congregazione dei sacramenti. E il 24 agosto 1937, il cardinale Jorio mette per iscritto, all'attenzione di Papa Ratti, un parere sconcertante rispetto al senso comune della morale cattolica. Sì, «a mezzo dei Missionari», la Chiesa avrebbe effettivamente potuto, anzi avrebbe dovuto collaborare — «nei giusti limiti» del diritto canonico — alla campagna per la «sanità della razza». Le «ibride unioni» andavano impedite «per i saggi motivi igienico- sociali intesi dallo Stato»: «la sconvenienza di un coniugio fra un bianco e un negro», e «le accresciute deficienze morali nel carattere della prole nascitura». Segue l'approvazione papale del documento firmato dal cardinale Jorio, trasmesso alla nunziatura d'Italia già il 31 agosto di quel 1937: per la gioia del ministro Lessona, «lieto delle sagge disposizioni della Santa Sede». Spolverata dagli archivi vaticani grazie alle fondamentali ricerche di Lucia Ceci, questa non è che una pagina fra le tante, nell'alterna vicenda del rapporto fra il Vaticano degli anni Trenta e i regimi razzisti. Ma è una pagina che avremmo preferito non leggere.

Repubblica 5.11.08
Il capitalismo sotto la tenda a ossigeno
di Jean Paul Fitoussi


«Il capitalismo sotto la tenda a ossigeno». L´espressione è di Joseph Schumpeter, e sta a designare l´economia mista, le cui condizioni a suo parere non potevano che essere flebili. Fu contro quest´anomia che la cosiddetta rivoluzione conservatrice diede battaglia, alla svolta degli anni 1970-1980.
A un dato momento (1984) c´è stato persino chi ha esclamato: «Viva la crisi!». Era «soltanto» l´insorgenza, in tempi di pace, di una disoccupazione di massa; una pura e semplice crisi occupazionale! Per parte mia, non sono disposto ad associarmi agli entusiasti della crisi finanziaria, precisamente in ragione dei suoi potenziali effetti sull´occupazione. Se ho fatto riferimento a quel periodo è perché il 1984 è stato l´anno della conversione (coincidenza o conseguenza?) della maggior parte dei Paesi europei, Francia in testa, alla deregulation finanziaria (lo smantellamento della tenda a ossigeno). Oggi, dopo più di due decenni, un´esigenza di segno diametralmente opposto è ribadita insistentemente in tutti i discorsi, e tradotta in fatti concreti. Chi avrebbe immaginato allora che la nazionalizzazione, sia pure parziale, si sarebbe rivelata la miglior via d´uscita da uno stato di crisi, persino nei Paesi anglosassoni?
Come si è arrivati a questo punto? La storia, a un tempo banale e complessa, è ricca di insegnamenti. Fin verso la metà degli anni ´90 i detentori di capitali si erano abituati a rendimenti molto elevati e al sicuro da ogni rischio; e quando i tassi ridiscesero a terra, continuarono a esigere rendimenti sempre maggiori, con l´aspettativa (evidentemente contraddittoria) di livelli di rischio minimo. Sotto la pressione dei detentori di capitali, le istituzioni finanziarie ebbero allora l´arroganza di dichiararsi in grado di soddisfare le loro esigenze, facendo di meglio e di più del mercato. Da quell´arroganza, così come dalle suddette pressioni, è nata la menzogna globale all´origine della crisi: la promessa di un risultato aritmetico impossibile, che doveva consentire a tutti di guadagnare più della media dei guadagni (come si può vedere dai depliant di presentazione dei prodotti finanziari).
Ricordo bene, negli anni 1980, i commenti sprezzanti alle tesi di un sindacalista italiano, secondo cui ogni lavoratore avrebbe dovuto guadagnare più del salario medio. Se soltanto avessimo dato prova dello stesso spirito critico anche per quanto riguarda il mercato! Certo, siamo stati in molti a denunciare le esorbitanti pretese di redditività del capitale, e il conseguente processo di «manipolazione dei sogni» (Le Monde, 13 settembre 2002). Ma solo alcuni di noi hanno intuito che il sistema avrebbe realmente tentato di inventarsi una nuova aritmetica per risolvere l´impossibile equazione dentro la quale si era andato a cacciare. Si è fatto ricorso a un processo molto sottile. Tanto sottile che nessuno degli attori sembra averlo compreso. Per erogare un maggior rendimento occorreva aumentare il livello di rischio; ma su scala globale, l´uno e l´altro si compensavano, per cui il rendimento medio non ne avrebbe risentito. Ecco dunque la soluzione: sbarazzarsi del rischio (o credere di averlo fatto) diluendolo in titoli e veicoli finanziari complessi, in cui si associavano componenti di rischio diverse. Quella che di primo acchito sembrava una buona idea, in quanto consentiva di alleviare il razionamento del credito nei confronti di soggetti interessanti ma a rischio elevato, poteva però trasformarsi rapidamente, sotto la pressione della richiesta di rendimento, in una macchina infernale: la tentazione era quella di aggiungere componenti di rischio sempre maggiori, fino a livelli ove il rischio era tale che in pratica il suo avverarsi diventava una certezza. Ma soprattutto, come valutare il rischio medio di un titolo siffatto? Qui tutti quanti hanno perso la bussola, comprese anche le istituzioni che nell´ambito del sistema hanno il compito di determinare il grado di rischio (le agenzie di rating). E poiché quelle agenzie definivano minimo il rischio, anche quando i rendimenti erano molto elevati, l´equazione impossibile sembrava risolta. Per questi meriti gli attori della finanza si sono attribuiti laute ricompense, sotto forma di remunerazioni, bonus o paracadute d´oro, in alcuni casi a livelli talmente alti da diventare pure astrazioni. Alla vigilia del suo fallimento, la Lehman Brothers riceveva la classifica «A»! Il fatto è che sugli oggetti prodotti si stampigliava il marchio «alta fedeltà», e tutti si affrettavano a comprarli e/o a venderli senza averne compreso la natura. Questa crisi finanziaria presenta dunque una singolarità: è la prima crisi di comprensione del sistema, anche da parte di un settore che è stato e rimane il maggior consumatore di intelligenza delle nostre economie (alta concentrazione di laureati delle migliori scuole e università del mondo intero).
Le istituzioni finanziarie, prese com´erano dall´orgoglio di occupare il piano nobile della nostra moderna economia dei servizi, avevano dimenticato due «leggi» economiche fondamentali.
La prima è quella che riguarda la formazione dei prezzi: un prodotto non vale mai più del valore della sua componente più debole. In altri termini, non è la parte più sana, ma la più «bacata», a determinare il valore dei titoli, anche fino al punto di trascinarli verso lo zero. È questa – se ancora dobbiamo ricordarlo – l´origine del crac finanziario, della svalutazione dei bilanci delle banche, del crollo delle borse - che a sua volta è conseguenza del tentativo delle istituzioni finanziarie di evitare l´estendersi del contagio dagli attivi tossici a quelli sani (le azioni delle imprese) in loro possesso.
La seconda «legge» si riferisce all´equilibrio tra predatori e prede. I creditori-predatori (sia detto senza alcuna connotazione peggiorativa) devono autolimitarsi nei loro prelievi sui debitori-prede, se non vogliono mettere in pericolo se stessi. Difatti, la scomparsa della popolazione delle prede porta i predatori alla fame. Doveva essere il mercato ad assicurare spontaneamente quest´equilibrio. Ma sembrava che la deregulation, con le sue promesse di rendimento, fosse in grado di allontanare ed allentare sempre più i limiti di una siffatta autodisciplina. Fino ad arrivare sul filo del rasoio, dove il crollo diventava inevitabile.
Che fare? Le istituzioni finanziarie, che sono gli intermediari tra una miriade di creditori da un lato (titolari di depositi, risparmiatori ecc.), in massima parte piccoli, e dall´altro di una miriade di debitori, piccoli e grandi, avevano indotto i primi a credere nella possibilità di ottenere dai secondi assai più di quanto si sarebbe potuto ragionevolmente sperare. L´inadempienza dei debitori ha dunque reso queste istituzioni insolventi nei confronti dei loro creditori. Perciò in un primo tempo non c´era altro da fare che impedire il fallimento delle banche, o magari nazionalizzarle, pur di evitare il rischio che la loro inadempienza si generalizzasse, estendendosi all´intera popolazione. Si spiega così il generale consenso a questo rimedio, ormai applicato universalmente. In un secondo tempo occorreva evitare che le istituzioni finanziarie, scottate dalle loro stesse disfunzioni, passassero da una propensione esagerata al rischio all´eccesso contrario, esigendo condizioni esorbitanti dai nuovi debitori. Le garanzie pubbliche fornite per i prestiti interbancari vanno in questa direzione, ma da sole non sono suscettibili di risolvere la crisi, a fronte della sfiducia generalizzata che ha investito il sistema. Occorrerebbe dunque estenderle ai debitori ordinari – cosa che molti Stati stanno già facendo, attraverso crediti agevolati a favore delle piccole e medie imprese; ma esitano a farlo nei confronti delle famiglie, all´alba di una congiuntura che potrebbe facilmente essere recessiva (rischio di accumulare nuovi crediti inesigibili).
Ma al di là di tutto questo, non si tende forse a dimenticare troppo in fretta le sofferenze della popolazione delle prede, la cui inadempienza ha fatto esplodere lo scandalo? Bisognerebbe almeno aiutarle a rinegoziare i loro contratti, e in particolare i mutui a tasso variabile, chiedendo al tempo stesso alle banche – anche attraverso strumenti normativi – di riservare una buona accoglienza alle richieste di rinegoziazione.
Infine, si dovrebbe evitare che questa popolazione diventi sempre più numerosa a causa del rallentamento delle attività economiche e del conseguente aumento della disoccupazione: un rischio che potrà essere scongiurato solo attraverso un´azione preventiva volta a favorire la crescita.
Sotto la pressione delle circostanze, gli Stati europei hanno dimostrato ultimamente la loro capacità di investire massicciamente in un settore dell´economia: quello bancario. Ma perché allora si dichiarano impotenti a perseguire gli obiettivi che pure da anni definiscono prioritari, col consenso di tutti i consigli europei, e non investono in settori quali la conoscenza, l´energia e l´ambiente, le infrastrutture materiali e immateriali, che permetterebbero di raggiungere quegli obiettivi?
In breve, per aver voluto fare a meno della tenda a ossigeno il capitalismo è passato direttamente in sala di rianimazione. Nella metafora di Schumpeter, la tenda a ossigeno sta a designare la democrazia e la sua tendenza a farsi carico di ogni cosa. La deregulation è stata il mezzo per far uscire la democrazia dal mercato. Che il governo si occupi degli affari suoi: così il mercato potrà finalmente dedicarsi a ciò che sa fare meglio: produrre l´abbondanza. Molti hanno creduto sinceramente a questa chimera, sostenuta oltretutto – bisogna dirlo – dalle più moderne e sofisticate teorie. La dottrina dominante aveva preso possesso delle menti al punto di farci prendere lucciole per lanterne: lo dimostra il fatto che oggi si parli tanto di un «ritorno» dello Stato e di Keynes. Per quanto mi riguarda, li ho sempre visti molto presenti. Il programma keynesiano ha conosciuto uno sviluppo considerevole per tutta la durata del XX secolo. E non c´è da meravigliarsene, visto che l´ipotesi (o l´osservazione?) alla sua base è quella di un possibile cedimento dei mercati, e in particolare di quelli finanziari. Peraltro oggi, in tutti i Paesi del pianeta – a parte alcune varianti marginali – lo Stato ha dimensioni assai maggiori che negli Anni 30.
Traduzione di Elisabetta Horvat

Repubblica 5.11.08
Tutti i laici del mondo
una parola nata in Francia
Intervista con Jean Baubérot, storico e sociologo di Giancarlo Bosetti


"Uno Stato indipendente da ogni culto e da ogni clero, per la libertà di tutti i culti". Questa fu la definizione della laicità applicata in primo luogo alla scuola pubblica da Jules Ferry
"È bene distinguere tra religione in quanto predominio e religione in quanto risorsa: la prima sfocia nel clericalismo"
"È necessario evitare che la laicità sia confusa con la repressione della religione, compresa quella tradizionale che ha il diritto di esistere"

Jean Baubérot, storico e sociologo delle religioni e della laicità, è presidente onorario della la parigina École pratique des hautes études. Autorità nel campo, è molto disincantato nei confronti della mitica «laicité à la française», sia quando invita a ridimensionare l´eccezionalismo laico di quel paese, sia quando punzecchia la «laicità positiva» di Sarkozy, che assume le radici cristiane di Francia e sostituisce, secondo lui semplicisticamente, la religione repubblicana con il modello americano di religione civile. Il disincanto di Baubérot verso la laicità è al suo meglio nel sintetico Le tante laicità del mondo, che esce ora in italiano per Luiss University Press (pagg 122, euro 12). L´autore verrà a discutere le sue tesi domani, in via Parenzo 11, alle 18.30, con studenti e docenti dell´università romana.
Parlare di laicità al plurale significa inevitabilmente relativizzare. Il suo libro spiega bene che c´è una soglia minima di laicità, quella costituita da istituzioni politiche legittimate dalla sovranità popolare e non più da elementi religiosi, ma così essa non è più un assoluto, né una eccezione francese.
«In effetti la laicità è stata un po´ sacralizzata in Francia. Il termine è stato inventato negli anni 1870 e la prima definizione fu di Ferdinand Buisson, filosofo, direttore dell´istruzione primaria all´epoca in cui Jules Ferry ha laicizzato la scuola pubblica: affermò che la laicità consisteva nello Stato indipendente da ogni culto e da ogni clero, allo scopo di realizzare la libertà di tutti i culti e l´uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, indipendentemente dalla loro appartenenza religiosa. Questa definizione può essere applicata a un certo numero di paesi; in Francia la laicità è diventata il rifiuto di qualsiasi espressione della religione nella sfera pubblica».
Rifiuto che allora non era nelle origini della laicité?
«No, non era nell´intenzione dei suoi padri fondatori. Quella francese ne è una versione nazionalista: la Francia è stata una grande potenza, mentre ora è una potenza media e questo spinge i francesi alla eterna ricerca di una qualche loro specificità, di situazioni in cui sono i soli a pensare come pensano, una ricerca di "eccezione". Ma la laicità come "eccezione francese" compare per la prima volta nel 1989, dopo il primo scontro sull´uso del velo. Buisson diceva sì che la Francia stava diventando il paese più laico d´Europa, ma anche che ce n´erano di più laici in altri continenti: il Messico, gli Stati Uniti, che avevano già realizzato la separazione delle chiese dallo Stato, in un´epoca in cui la Francia non l´aveva ancora attuata. Bene dunque relativizzare».
C´è una posizione liberale standard, formata nelle battaglie per i diritti degli individui e della donna, che lasciato spesso immaginare che tutto ciò che viene dalla laicità è un bene, tutto quello che viene dalla religione è un pericolo per la libertà.
«E´ bene distinguere tra religione in quanto predominio e religione in quanto risorsa. La religione come predominio, quella che cerca di far passare le proprie norme in tutta la società facendo pressione sullo Stato, è la religione che la laicità ha combattuto, il clericalismo. La religione come risorsa è cosa diversa; si tratta della scelta personale di credere o non credere, e sottolineo che la scelta di credere è rispettabile quanto quella di non credere. Nello specifico, sono contrario a questa definizione negativa, "non credere", perché le persone che non sono religiose hanno credenze di ordine filosofico e non sono prive di credenze sulle grandi questioni della vita, quelle che non possono essere dimostrate scientificamente. Diciamo così: tra le persone che hanno credenze diverse, alcune sono religiose, altre non lo sono. Quando queste credenze religiose si organizzano in forma collettiva, per dare vita ad un culto, avviene un fatto normale, un fatto che contribuisce alla ricchezza della diversità di questa società, purché non vi sia una volontà di predominio sulla società stessa. Alcuni hanno fatto un cortocircuito tra clericalismo e religione in quanto tale, ma non i padri fondatori della laicità: Jules Ferry ha detto di essere anticlericale ma non antireligioso, né allora né mai».
Oggi abbiamo situazioni nel mondo in cui la laicità ha bisogno di essere democratizzata. Democratizzare il secolarismo, dicono per esempio i riformisti in Turchia, ma vale anche per l´Egitto, per la Tunisia.
«Ecco una delle cause della difficile situazione nella quale ci troviamo oggi: nel mondo arabo-musulmano le laicità sono state autoritarie e la gente non ha potuto capire che un regime di laicità fosse un regime di libertà. E´ necessario evitare che la laicità sia confusa con la repressione della religione, compresa quella tradizionale, che ha il diritto di esistere: può avere autorità, ma non deve avere potere».
Nel suo libro lei tratta anche il comunismo come forma di laicità autoritaria.
«Autoritaria e decisamente antireligiosa, perché lo Stato nel comunismo è diventato Stato filosofico, sostenitore di una certa ideologia. Quindi, malgrado la contraddizione, si tratta quasi di una forma di laicità teocratica: in fin dei conti, l´ateismo di Stato si avvicina a ciò che era lo Stato teocratico, lo Stato confessionale; tra la Spagna franchista, dove il cattolicesimo era un dogma di Stato, e l´Unione Sovietica, dove l´ateismo era a sua volta un dogma di Stato, le differenze non sono enormi. Condividevano la stessa idea di imporre dogmi civili alla popolazione. E una laicità democratica non può ovviamente che prendere le distanze da questi casi».
Per gli europei pensare alla laicità significa avere a che fare con l´enigma del rapporto tra religione e politica negli Stati Uniti. Obama parla un linguaggio religioso, come Lincoln, come Luther King.
«Gli Stati Uniti sono l´eccesso opposto: la politica ha strumentalizzato la religione. Georges W. Bush, ad esempio, ha invaso l´Iraq invocando Dio, un Dio che sosteneva l´America nelle sue mire guerresche. Colpisce molto che la maggioranza delle grandi chiese americane fosse contraria a questa guerra, tanto che il Consiglio cristiano delle chiese cercò di avere un incontro con Bush, ma lui rifiutò di riceverlo. Alcune chiese potevano condividere questa linea di guerra, ma certo non tutte. Obama ritorna invece alla religione civile tradizionale americana, più culturale che politica».
Obama non avrebbe alcuna possibilità di vincere se non fosse capace di avvicinare la religione e il progressismo; per questo parla di un progressismo religioso.
«Il limite della democrazia americana sta nel fatto che apparentemente una persona atea o agnostica, purché non cerchi di imporre il proprio ateismo alla società, dovrebbe avere le stesse possibilità di diventare presidente di una persona credente. Negli Stati Uniti questo non è immaginabile. Ma questo genere di problematica è diffusamente presente anche nelle nostre democrazie, benché non sia ovviamente ufficializzata. E´ difficile immaginare che un musulmano diventi oggi presidente di una repubblica europea».
Lei parla, nel libro, del fatto che nella Costituzione americana è previsto il giuramento davanti a Dio, ma anche che è possibile esserne esentati a richiesta. Non ricordo di aver mai visto in un film americano qualcuno che chieda l´esenzione.
«Dal punto di vista storico l´esenzione è stata rivendicata all´inizio della repubblica americana dai quaccheri, addirittura prima della fondazione della repubblica. E´ stato re Guglielmo III d´Inghilterra, all´inizio del XVIII secolo a concederla. E questa possibilità è rimasta. Non so in che misura sia ancora praticata. Anche nelle democrazie europee è molto difficile eliminare il giuramento davanti a Dio».
Lei condivide la prospettiva post-secolare di Habermas, quella di un liberalismo capace di dare spazio alla religione nella vita pubblica, perché, ad alcune condizioni, si ha bisogno della religione come risorsa?
«Sì, a condizione che vi sia una chiara distinzione nella vita pubblica e nello spazio pubblico, tra i due aspetti che sono differenti. Nella vita pubblica, nello spazio pubblico sociale, le religioni debbono poter contribuire al dibattito della società. Viene poi il processo istituzionale, politico, nella vita pubblica, e questo processo deve essere indipendente dalla religione. C´è lo spazio pubblico della società civile, dell´approfondimento, e poi lo spazio pubblico istituzionale e politico, dove deve prevalere la neutralità nei confronti della religione».

Repubblica 5.11.08
La giustizia è sempre femmina
Un saggio di Adriano Prosperi
di Gustavo Zagrebelsky


La personificazione nella donna è stata nei secoli, anzi nei millenni, una scelta naturale, quasi a suggerire un´idea di equilibrio biologico e sociale insieme
La benda è un topos molto presente un simbolo ambiguo e perciò intrigante, accanto alla bilancia e alla spada, segnali di equità e di forza

Il linguaggio simbolico ha tre funzioni: conferire senso e valore agli accadimenti, trasformarli in esempi e proporli all´accettazione sociale. Ogni simbolo è dunque, contemporaneamente, interpretazione, generalizzazione e normazione, espresse con la forza della sintesi. Non c´è vita collettiva senza messaggi simbolici che la tengano insieme, come colla di pensieri e comportamenti. I simboli sono dappertutto e tanto più intimamente penetrano nella nostra vita, quanto meno coscientemente li percepiamo. La lotta per il potere è innanzitutto una controversia simbolica e la contestazione del potere è innanzitutto uno smascheramento dei suoi simboli.
Un patibolo è un patibolo. Un cadavere dove prima c´era un essere umano è un cadavere. Ma l´esecuzione di una sentenza capitale può avvenire sotto molti simboli della giustizia e così assumere significati sociali profondamente diversi: redenzione, ristabilimento dell´ordine violato, vendetta, oppressione. Può essere apparecchiata come espressione della giustizia divina o della giustizia umana, della vittoria del bene sul male, dei buoni sui cattivi. Può essere esibita o nascosta, a seconda che si voglia dare segno di una potenza ammonitrice e trionfante oppure di una necessità cui i governanti , non possono sottrarsi, per adempiere a un doloroso dovere. Può dunque legare al potere con il timore, oppure con la complicità.
Il concetto della giustizia può essere rappresentato simbolicamente in molti modi che rimandano a concezioni che variano anche di molto, funzionali, a loro volta, a politiche del diritto diverse. A dipanare la trama di questi significati, attraverso una ricca iconografia simbolica, è dedicato il dotto e appassionante studio che Adriano Prosperi ha dedicato alla Giustizia bendata.Percorsi storici di un´immagine (Einaudi, pagg.XXII-260, euro 34). Pur tracciando un percorso, non è un libro a tesi e questo è un suo pregio rilevante, rispetto a quello che, in definitiva, risulta essere il suo scopo: mostrare la grande complessità del tema, l´intreccio di prospettive e aspettative etiche e politiche che si congiungono nella «parola giustizia»: un intreccio che dovrebbe rendere cauti tutti coloro che, a qualunque titolo, si occupano della «cosa giustizia».
Per avere un´idea dello spessore dello spazio ideale, oltre che temporale, in cui questi percorsi si svolgono, basta confrontare due immagini, l´una iniziale e l´altra finale. All´inizio, troviamo Ma´at, l´egizia dea piumata che sovrintende alla pesa dei meriti e demeriti del defunto su una bilancia a due braccia, manovrata da figure, in sembianze umane ma dal volto animale, forse a rappresentare l´unità dell´ordine della natura vivente, di cui Ma´at è, a sua volta, garante. E´ una dea benevola, che unisce in sé verità e giustizia, diritto e ordine, saggezza e mitezza. Su un piatto sta il cuore del defunto, sede dei suoi meriti e delle sue colpe; sull´altro, la dea stessa, cioè l´armonia ch´essa rappresenta: armonia come equilibrio, l´essenza della giustizia e il fine di chi l´amministra. Se la piuma, come si è sostenuto, è l´unità di misura e l´arma di questa giustizia, se ne comprende l´essenza: l´inconciliabilità di giustizia e violenza.
L´ultima pagina ci presenta un´altra immagine che, sotto il nome Lady Justice, è come un rovesciamento di Ma´at. E´ un tatuaggio a mano libera che rappresenta un´aggressiva donna giustiziera, come Erinni reincarnata, con gli occhi bendati e, nelle mani, un coltello per scannare e un revolver per sparare. Che significa?
Prosperi non commenta, ma noi possiamo vedervi l´idea di una giustizia sterminatrice che non conosce e non vede, non dico le sfumature, ma neanche soltanto le differenze e mira non all´equilibrio delle parti ma all´annientamento del nemico.
Le figure rappresentative della giustizia sono sempre femminili.
L´eccezione della figura dell´«uomo in grande» che campeggia, con i simboli della giustizia nelle mani, sul frontespizio della prima edizione del Leviatano di Thomas Hobbes è una solo apparente eccezione. L´immagine è quella del sovrano, che maneggia la spada e la bilancia come strumenti del governo assoluto. Dove si tratta invece della giustizia come funzione fondata su principi ed esigenze sue proprie, e talora anche opposte a quelli del potere, compare sempre la donna. Si potrebbe dire che il potere è maschio, la giustizia femmina. Perché la costanza di questa visione ideale? Una costanza, oltretutto, platealmente contraddetta dalla realtà. Tra le funzioni pubbliche, l´amministrazione della giustizia, per secoli e secoli, è stata riserva maschile (una riserva caduta, per esempio in Italia, solo nel 1963).
E´ difficile rispondere. Sembra quasi che la personificazione nella donna sia stata, nei secoli, anzi, nei millenni, una scelta naturale, immediata, non preceduta da riflessione. Qualcosa di simile è per la rappresentazione della morte. Quando l´iconografia non si affida a immagini asessuate come il teschio, gli scheletri danzanti, o la figura del Settimo sigillo di Bergman, la morte è «sora nostra morte corporale» di Francesco d´Assisi, o la «nera signora» dalla lunga falce, che compare in innumerevoli versioni della pittura, della letteratura e della musica. Perché queste identificazioni al femminile? Forse, le figure femminili, come Antigone contrapposta a Creonte, rappresentano con evidenza l´idea dell´equilibrio dei rapporti che si svolgono nella natura sociale e biologica, con i suoi cicli, le sue armonie, anche dolorose, e le sue composizioni e decomposizioni, mentre le immagini maschili sono piuttosto quelle della forzatura, della dissonanza e della dissociazione.
Lasciamo senza risposta questi interrogativi. Ciò che è evidente è che l´immagine della bilancia, che sempre è associata a quell´idea di equilibrio, si accompagna a quella della spada, un attrezzo non certo femminile. La spada si associa alla bilancia non appena il giudicare diventa potere. Essa compare come simbolo di sovranità, cioè di un potere eminente il cui compito è quello di dividere il lecito dall´illecito, il buon suddito dal ribelle, l´amico dal nemico; nella vita della Chiesa, la pecorella ubbidiente da infedeli, eretici, scienziati, maghi, streghe e fattucchiere. I tribunali della Santa Inquisizione si rappresentavano, oltre che con la bilancia, con, al posto della spada, il fascio e la scure, simboli romani dell´imperium e del connesso ius vitae ac necis.
Ma bilancia e spada appartengono a mondi diversi, anzi potenzialmente in opposizione, la giustizia e la forza. Sono tuttavia due mondi destinati a convivere. Con le parole di Pascal (Pensieri, n. 135): «La giustizia senza la forza è impotente; la forza senza giustizia è tirannica. La giustizia senza forza è contestata, poiché i cattivi esistono sempre; la forza senza la giustizia è messa sotto accusa. Occorre dunque congiungere giustizia e forza, e per questo fare in modo che ciò che giusto sia forte o che ciò che è forte sia giusto». In questo connubio è facile comprendere che cosa, in caso di conflitto, avrà la peggio. La bilancia non può fare a meno della spada, ma questa alleanza può esserle mortale.
Al di là delle immagini, questa innaturale unione non è altro che il segno di una contraddizione profonda. Nella bilancia è rappresentata l´invocazione degli umili, dei deboli, dei perseguitati, che si rivolgono al giudice, chiedendo di ripristinare il giusto equilibrio che i rapporti di nuda forza hanno rotto a loro danno. Sono costoro, quelli che hanno «fame e sete di giustizia» (Mt 5, 6). La spada, però, non è nelle loro mani, ma nelle mani di coloro contro i quali quella fame e quella sete si rivolge. Questa inestricabile contraddizione alimenta uno dei principali fili conduttori della storia della giustizia, ampiamente documentata nel libro di Prosperi con l´immagine della bellissima e pura fanciulla, avvocata delle ragioni degli oppressi, che si prostituisce alle ragioni dei potenti, per dare loro una parvenza di rispettabilità. Il tradimento è denunciato col piatto della bilancia truccato, su cui stanno le ragioni dei ricchi, con la mano della fanciulla che non disdegna i doni di costoro, con le forche e i roghi da cui pende e su cui brucia la povera gente, di fronte ai palazzi degli maggiorenti. Confrontiamo la «contemplazione della Giustizia», esibita come divinità nazionale e collocata di fronte alla sua residenza, la Corte Suprema degli Stati Uniti, e quella «donna bellissima con gli occhi bendati, ritta sui gradini di un tempio marmoreo», al quale un giovane col berretto rosso strappa la benda: «le ciglia eran tutte corrose sulle palpebre marce; le pupille bruciate da un muco latteo; la follia di un´anima morente le era scritta sul volto. Ma la folla vide perché portava la benda». Sono parole di Edgar Lee Masters, l´autore della Antologia di Spoon River, dedicate agli anarchici condannati a morte (1887) da una giustizia corrotta dalle paure, dai pregiudizi, dagli interessi dei benpensanti americani, di cui sarebbero state vittime, quarant´anni dopo, anche Sacco e Vanzetti.
La «donna bellissima» di Lee Master ha gli occhi bendati. La benda è un altro topos delle raffigurazioni della giustizia, accanto alla bilancia e alla spada. Il libro di Prosperi vi fa riferimento già nel titolo e, nel testo, la ricostruzione filogenetica di quest´immagine, fatta risalire alla scena del Cristo bendato, dileggiato e percosso dopo la sua cattura e prima del processo (Lc 22, 63), occupa un posto notevole. In effetti, questo è forse il simbolo più ambiguo e quindi intrigante. Di solito, la giustizia cieca si interpreta come quella che «non guarda in faccia a nessuno», dunque la giustizia imparziale, uguale per tutti, ricchi e poveri, grandi e piccoli. Ma può anche essere quella che colpisce a casaccio, che non arretra di fronte alle peggiori nefandezze, la giustizia che non vuol vedere l´ingiustizia. La giustizia che si volge inorridita, per non vedere le teste mozzate, esibite dal boia - immagine scelta per una delle prime edizioni di Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria - è invece dotata di occhi vigili. Insomma, la benda sugli occhi è segno di giustizia o d´ingiustizia?
La soluzione a questi tanti problemi è stata tentata, nei tempi che viviamo, sostituendo la giustizia con la legge. La giustizia è per noi la giustizia legale, la corretta applicazione della legge.
La Giustizia, con l´iniziale maiuscola, è lasciata al Giusto per eccellenza, a Colui che tutto vede e la manifesterà alla consumazione dei tempi, con i giusti alla destra e i reprobi alla sinistra, secondo la feroce rappresentazione della Sistina.
Abbiamo imparato a essere umili, con riguardo alla giustizia. Ma, contemporaneamente, ci siamo insuperbiti rispetto alla legge, perché l´abbiamo trasformata nella volontà di chi dispone del potere di «farla» o di «dichiararla» imperativamente. Ecco, allora, apparire un´iconografia in cui l´immagine della legge e del legislatore - interpreti della volontà divina, o della ragione umana, o dello spirito oggettivo della storia o di qualche necessità rivoluzionaria che libererà l´umanità dalle sue ingiustizie, non fa differenza - viene a sovrapporsi alla dea bendata.
La «donna bellissima» diventa un funzionario. Ai giudici si chiede allora di chiudere gli occhi di fronte a ogni altra realtà della vita, per farsi illuminare la mente dalla sola luce della legge.
Si chiede, per usare un´espressione di Hegel (Enciclopedia, 542) un atteggiamento che è bensì parziale perché ignora quel che c´è sotto, ma è «parziale per il diritto». Con questo, però, la questione della giustizia in senso pregnante, non è risolto, ma solo spostato dal giudicare al legiferare e sarà la legge a pretendere una sua rappresentazione simbolica potente, convincente e, a seconda dei casi, minacciosa o rassicurante. Così è, ad esempio, l´ambigua sua divinizzazione descritta da Victor Hugo nel suo romanzo Novantatré (libro III, 2 e 3), dove si parla di scettri, bandiere tricolori, Licurgo, Solone e Platone, e di un altare che regge «La legge». Sotto i saloni delle Tuileries, dove la Convenzione svolgeva i suoi lavori, però, stava un lungo corpo di guardia zeppo di fucili e letti da campo delle truppe di ogni arma che vegliavano su questo legislatore. Simboli su simboli, che potrebbero appartenere, semmai, a un´altra storia, parallela a quella della giustizia e, di questa, non meno intricata.

il Riformista 5.11.08
Wen Jiabao confessa
Compagni, c'è aria di crisi
di Romeo Orlandi


Vacilla il miracolo cinese PAURA. Stato sociale e infrastrutture. Sono queste le richieste del "popolo" per garantire la stabilità sociale. E intanto il premier fa appello ai portafogli dei cinesi perché spendano sempre di più.

Se il Pil di un paese cresce in un anno del 9%, può il suo governo mostrare inquietudine? In qualsiasi luogo, ogni Primo ministro avrebbe la rielezione assicurata. Anche un solo spostamento del Pil con indici da prefisso telefonico sarebbe una buona notizia da spendere in campagna elettorale. In Cina, invece, il 9% preoccupa il premier Wen Jiabao. Lo scorso anno il Pil è cresciuto dell'11,9%, ancora di più della spettacolare media del 10% degli ultimi 30 anni. In un insolito articolo per il quotidiano Qiushi (Ricerca della Verità), Wen ha prodotto un'analisi che non lascia dubbi: «Dobbiamo avere ben presente che quest'anno sarà il peggiore tra quelli del nostro recente sviluppo economico.
Senza un ritmo sostenuto di crescita, ci saranno difficoltà nell'occupazione, nelle entrate e nello sviluppo sociale». È verosimile che il grido d'allarme rifletta segnali ancor più negativi. Gli indici manifatturieri e della fiducia dei manager hanno infatti rilevato un declino preoccupante. Ora l'obiettivo ritorna ad essere la crescita, la coniugazione tra il sostegno alla domanda globale ed il controllo dell'inflazione. La terza riduzione del tasso d'interesse in sei settimane va in questa direzione, ora che sul fronte dei prezzi la situazione sembra avviata alla stabilizzazione.
Apparentemente l'indicazione sembra essere nuova ed importante. La politica cinese ha finora insistito su una "crescita armoniosa", che potesse riconsiderare la vertigine degli anni precedenti. L'aumento veloce del Pil aveva infatti creato una società disuguale, dove le ricchezze di pochi avrebbero dovuto trainare il benessere di tutti. I successi dei miliardari cinesi non erano oscurati, ma pubblicizzati. I capitalisti erano esempi da imitare ed il loro ruolo era esaltato e controllato dal partito. Il messaggio classico dell'accumulazione socialista ritornava prepotente: Arricchitevi! Fino ad un mese fa questa politica doveva essere ammorbidita; le contraddizioni del paese non dovevano diventare lacerazioni. Non era più sostenibile crescere senza aggettivi, in una rincorsa alla ricchezza che produce profonde disuguaglianze tra città e campagne, tra fabbriche e fattorie. Il Governo si era impegnato in una riconsiderazione dello "sviluppismo", in una redistribuzione del reddito che mitigasse i contrasti, in un uso più equilibrato della politica monetaria.
Ora si ritorna alla crescita, perché lo impone la situazione internazionale. In realtà, la preoccupazione di Wen è soprattutto politica: senza crescita non si riesce a garantire la stabilità sociale. È sempre quest'ultima la stella polare della Cina. Se prima era necessario armonizzare per evitare squilibri e rivolte, oggi ritorna necessario crescere per sostenere i consumi e gli investimenti privati. Senza crescita non si acquistano le prime case e non le si arredano con gli elettrodomestici. Ugualmente, la fine dei sogni può condurre a disordini, alla fine di quella magica formula di lavoro, disciplina e riscatto che aveva fatto apparire l'emersione della Cina come un segno fatidico, un compimento del destino.
Per continuare la scalata al benessere e per essere rispettati nella scena internazionale l'economia rimane sempre uno strumento "politico". È una variabile che non deve mai impazzire, anche a costo di smentirsi. Pur se infatti la retorica nazionale sottolinea la necessità di rivolgersi al mercato interno, Pechino sa bene che la sua congiuntura dipende da quella internazionale. Il secondo paese esportatore al mondo guarda con preoccupazione alla recessione dei suoi clienti. Se dagli scaffali di Wal-Mart scompariranno le merci cinesi, perché il reddito statunitense diminuirà, non saranno sufficienti i rimborsi dell'Iva agli esportatori di Pechino. Contemporaneamente i segnali interni non sono incoraggianti: chiusura di fabbriche, intervento stabilizzante delle autorità, perdite in Borsa. Potrebbero essere i primi segnali della fine del sogno ininterrotto di una crescita ordinata e redditizia. Per questo il messaggio del Primo ministro sembra eccentrico nella sua ovvietà. Così come in Occidente, quando si avvicina la crisi, per la Cina vale la stessa ricetta: produrre di più, produrre meglio.

il Riformista 5.11.08
L'università fa paura
Il governo prende tempo


Sull'università il governo decide di non decidere. Ieri vertice di maggioranza a palazzo Grazioli, presenti il premier Silvio Berlusconi, i capigruppo di Pdl e Lega. E il ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini. Vista l'accoglienza dell'opinione pubblica al decreto con cui il governo ha imposto cospicui tagli alle spese della scuola elementare, era evidentemente necessario elaborare una strategia per la riforma degli atenei. E la strategia è quella del rinvio, trasformando il decreto in disegno di legge e annunciando un confronto con le parti sociali interessate. «Sarà lo stesso ministro a comunicare le novità sulla riforma dell'università», annunciava il vicecapogruppo pdl al Senato Gaetano Quagliariello, al termine del vertice. Ma quando? Nei prossimi giorni, hanno fatto sapere da viale Trastevere, mantenendosi sul vago. Ci sono verifiche tecniche da fare, bisogna risolvere alcuni problemi. Ma nella sostanza, la riforma dirottata su un ddl in che divergerà dal decreto originario? Praticamente nulla, assicuravano al ministero, si tratterà comunque di favorire gli studenti universitari e gli atenei virtuosi, punendo gli sprechi. Cambia la formula, non la sostanza. E i tempi di approvazione. Ma qualcosa forse cambia sull'intero pacchetto istruzione, sparpagliato nei mille rivoli dei tagli voluti dal ministro dell'Economia Giulio Tremonti per far quadrare i conti.
Ieri il capogruppo leghista al Camera Roberto Cota parlava di una ritrovata intesa nella maggioranza sulla riforma «che punta a migliorare l'università». Ma alla Lega premevano molto di più le scuole di montagna, alcune delle quali a rischio chiusura (come tante altre sul territorio nazionale, a cominciare dalle isole) per il dimensionamento imposto in un articolo della finanziaria intitolato alla sanità: «La Lega è soddisfatta perché ha ottenuto rassicurazioni anche sulle scuole di montagna». Che con l'università c'entrano ben poco.
Qualche dettaglio in più per far luce sulle intenzioni del governo, lo ha dato il capogruppo pdl al Senato Maurizio Gasparri, assicurando che il disegno di legge andrà di pari passo con «il confronto con i soggetti interessati», ma confermando che si farà ricorso allo strumento del decreto legge «se necessario, solo per le questioni più urgenti sul tappeto, come per esempio la trasparenza dei concorsi banditi nei prossimi mesi». Perché se la Gelmini sembra voler tenere il punto su tutto quanto contenuto nel decreto, forse su un punto cederà: quel blocco del turn over, che tanto preoccupa i cosiddetti baroni degli atenei. E per accontentarli senza perdere la faccia, oltre a garantire un minimo di trasparenza in più nei concorsi, bisogna soprattutto trovare le risorse. Problemi tecnici, dicevano giustamente a viale Trastevere ieri.
Per il resto si vedrà. Come osservava giustamente ieri lo stesso Gasparri, la Finanziaria «ha disposto razionalizzazioni che non hanno effetti significativi nel 2009. Effetti più consistenti ci saranno nel 3010, ma da qui al 2010 c'è tutto il tempo per discutere».

il Riformista 5.11.08
Veltroni prende sul serio l'apertura di Gelmini


Nel governo sono molto attenti a non parlare di «frenata» in merito alla svolta di un eventuale disegno di legge sulla riforma dell'università
Nel governo sono molto attenti a non parlare di «frenata» in merito alla svolta di un eventuale disegno di legge sulla riforma dell'università. Ma al di là dei distinguo, l'apertura al dialogo da parte del ministro Gelmini, che ha parlato chiaramente di «concertazione», rappresenta un'inversione di marcia rispetto al sordo decisionismo seguito per i tagli alla scuola.
Certo ciò accade dopo che spinte interne (malumori di An e Lega) e spinte esterne (le piazze di sindacati e studenti) hanno messo in un angolo il ministero affidato da Berlusconi alla giovane esponente forzista. Però, in questi casi, quello che conta è il risultato. Non a caso, Anna Finocchiaro del Pd si è espressa in termini positivi sul cambio di passo e di linguaggio del ministro. E se maggioranza e opposizione tornassero davvero a parlarsi su una materia così strategica, questo farebbe ben sperare per il futuro. Anche perché un sistema-paese che vuole lasciarsi alle spalle guasti e lacune di un'università che non funziona, che produce poche eccellenze e tanti disoccupati con preparazione mediocre, ha bisogno di dialogo e decisionismo, non solo di quest'ultimo. Per questo è importante che l'opposizione accolga sul serio l'invito della Gelmini.

il Riformista 5.11.08
Addio Rifondazione. Vendola fonda la Sinistra e chiede metà patrimonio
di Alessandro de Angelis


SCISSIONE. Venerdì l'annuncio, a dicembre il battesimo della nuova formazione, che punta all'alleanza con gli ex Ds. È guerra con Ferrero su soldi e sedi: «Se non ce le danno le occupiamo». DIVISIONI. Nichi Vendola va via dal partito, ma non lo dice

Forse nessuno dirà, come Bordiga a Livorno: «Porteremo con noi l'onore del vostro passato». Ma la scissione, dentro Rifondazione, ci sarà, eccome. Dopo mesi di guerra fredda, l'area di Nichi Vendola ieri ha ufficialmente messo in moto le pratiche. E venerdì - nel giorno dell'anniversario della presa del Palazzo d'Inverno - mentre Ferrero sarà a un dibattito sulla rivoluzione d'Ottobre il governatore della Puglia e il leader di Sd Claudio Fava presenteranno l'associazione «Per la sinistra»: praticamente l'embrione del nuovo partito (che verrà) a sinistra del Pd. Pronta una carta d'intenti firmata da intellettuali. Pronta anche la campagna per il tesseramento sul territorio, anzi in molte parti - Puglia Toscana, Liguria - è già iniziata. E, soprattutto, è pronto il battesimo solenne: il 13 dicembre nascerà «La sinistra», il nuovo soggetto della sinistra «senza aggettivi» che raccoglierà un pezzo di Rifondazione, gli ex diessini di Fava e «chi ci sta» dei Verdi e del Pdci. Il Goodbye Lenin dei bertinottiani è garantito: nel simbolo nessun riferimento al comunismo e alla falce e martello.
Prima però di dire «ce ne andiamo» i vendoliani hanno chiamato l'ultimo giro di valzer. L'ex capogruppo del Prc alla Camera Gennaro Migliore in un'intervista al manifesto ha proposto ciò che Ferrero vede come fumo negli occhi: liste unitarie, alle europee, di tutti quelli che stanno a sinistra del Pd. Quanto basta per far scattare l'allarme rosso a via del Policlinico. Ieri si è svolta una lunga segreteria per vedere il da farsi. Per ora il leader del Prc vuole evitare di gettare benzina sul fuoco ma respinge al mittente al proposta. Dice Ferrero al Riformista: «Noi al congresso abbiamo deciso di andare con le nostre liste, magari aperte a esponenti della sinistra. Il punto è che Migliore non vuole una lista ma un nuovo soggetto politico con solo una parte delle forze che hanno fatto la Sinistra arcobaleno. Al di là del fatto che la discussione è prematura, Migliore propone, in modo politicista, che il Prc svolti a destra e abbandoni il comunismo in nome del rapporto col Pd. E, invece di parlare di come si fa opposizione a Berlusconi, propone come punto di arrivo una forza moderata. Non è la linea del congresso».
Gli uomini macchina si preparano a gestire la scissione. Dice il potente responsabile dell'organizzazione del Prc Claudio Grassi, vicino a Ferrero: «Nel momento in cui verranno formalizzate le cose dette da Migliore si avvia un processo scissionistico. È evidente che una parte del partito non accetta l'esito del congresso. Ma sono convinto che una parte di loro non li seguirà». È guerra, soprattutto di nervi. I vendoliani fanno di tutto per muoversi come un partito autonomo. Alzando sempre di più il tiro. Nei prossimi giorni sono state programmate anche una serie di interviste per aprire al Pd. Domani, alla vigilia dell'happening con Fava, Vendola lo farà su Repubblica, e non è un caso. Franco Giordano spiega al Riformista i capitoli della discordia. Lista alle europee: «Di fronte alla crisi che ci sta piombando addosso è ridicolo presentarsi alle europee con un polverizzazione di microformazioni». Rapporto col Pd: «Dopo le manifestazioni - prosegue Giordano - e di fronte alla ripresa del conflitto sulla scuola e sui contratti dobbiamo sfidare il Pd sui programmi e sulla base di questo fare una manifestazione unitaria che costruisca l'alternativa a Berlusconi. Non basta sventolare i vessilli». Democrazia interna: «Perché non scegliamo i candidati alle europee con le primarie?».
Lo scontro al calor bianco è su soldi e immobili. Rifondazione ha il finanziamento pubblico fino al 2011. Dice un bertinottiano di rango: «Rappresentiamo il 47 per cento del partito. Vogliamo il 47 per cento delle risorse». Un'ipotesi che non viene presa nemmeno in considerazione dell'attuale gruppo dirigente del partito: «Il Prc c'era, c'è e ci sarà. Chi se ne va, va via a mani vuote» afferma Grassi. Non solo. Rifondazione dispone di un patrimonio consistente di sedi, appartamenti, foresterie: «Se non ce le danno le occupiamo» dicono i vendoliani che pensano di attuare il «metodo Cossutta». Nel '98 - ai tempi della scissione che diede vita al Pdci - i cossuttiani si presero manu militari le federazioni dove avevano la maggioranza. Ora Vendola controlla tutto il Sud ma al quartier generale di Ferrero non vogliono mollare. E da ieri è partita la moral suasion sui territori. Che suona più o meno così: «Che garanzie dà la prospettiva di fare un partitino con Sd, per poi andare nel Pd?». Ma la carta più forte che i seguaci di Ferrero si giocheranno sul territorio è l'orgoglio di partito. Nei giorni scorsi il segretario ha già bollato come «occhettiani» quelli che vogliono abbandonare la falce e martello. Un'accusa che gli uomini di Vendola considerano «rozza». Ma la battaglia riguarderà anche l'«onore del passato».

Asca 5.11.08
Cacciari: il Pd non ha niente a che fare con Obama


(ASCA) - Roma, 5 nov - ''Spero che nessuno sia cosi' patetico da appropriarsi della vittoria di Obama. Spero che alcuni esponenti del nostro governo abbiano quel residuo senso del pudore di non dire che assomigliano a Barack. Ma neanche il Partito Democratico ha niente a che fare con Obama. Quando vedro' il Pd rinnovarsi, non dico a livello di presidenti, ma di consiglieri comunali, con qualche quarantenne in piu', allora ne parleremo''. E' netto il commento di Massimo Cacciari, sindaco di Venezia intervistato da Affaritaliani.it, sull'elezioni del candidato democratico alla Casa Bianca. ''Per quanta stima e affetto io abbia per Veltroni, e' comico metterlo accanto a un evento di questa portata epocale. E sarebbe vergognoso se il tentativo di dire assomigliamo a Obama venisse da chi fino a ieri diceva di essere amico di Bush''.

Repubblica Palermo 5.11.08
Nietzsche in Italia due giornate di studio organizzate a Palermo


"Nietzsche in Italia", è il titolo di un convegno di studi che si svolgerà a Palermo a Palazzo Steri e a Villa Zito, domani e venerdì. Organizza l´Ateneo di Palermo con il patrocinio della Regione siciliana e della Fondazione Banco di Sicilia. La prima giornata di lavori si apre alle 9,30 di domani a Palazzo Steri (piazza Martina), sotto la presidenza di Piero di Giovanni, direttore del dipartimento "Ethos" dell´Università e promotore del convegno. Nella mattinata i saluti del nuovo rettore Roberto La Galla, di Gianni Puglisi, presidente della Fondazione Banco di Sicilia e dell´assessore regionale ai Beni culturali Antonello Antinoro, poi le relazioni di Giuliano Campioni dell´Ateno di Pisa, di Carerina Genna del locale Ateneo e del docente torinese Maurizio Ferraris. La sessione pomeridiana - dalle 16 - presieduta da Gioacchino Lavanco, prevede le relazioni dei docenti Michele Cometa (Palermo), Fabio Ciracì (Lecce), Antonello Giugliano (Napoli).
Venerdì il convegno si sposta a Villa Zito, via libertà 52, sede della Fondazione Banco di Sicilia. Presiede i lavori - dalle 9 - il docente Aniello Montano (Salerno) e relazioneranno Girolamo Cotroneo (Messina), Domenico Fazio (Lecce. Sarà Piero di Giovanni a concludere i lavori nella tarda mattinata.

Bollettino Università e Ricerca 5.11.08
Università di Firenze: “Oltre la sindrome di Stendhal”


Venerdì 7 presentazione a Prato del nuovo libro di Graziella Magherini. Che cosa avviene nella mente di un osservatore quando si trova di fronte ad un'opera d'arte che coinvolga emotivamente? E’ uno dei temi su cui indaga “Mi sono innamorato di una statua. Oltre la sindrome di Stendhal" il nuovo libro della psichiatra e psicoanalista Graziella Magherini - già autrice di "La sindrome di Stendhal" – che sarà presentato venerdì 7 novembre al Polo Universitario di Prato (Piazza Ciardi, 25 – ore 17.30).

Repubblica Genova 5.11.08
Psichiatri e fascismo la guerra dentro
di Paolo Arvati


Cogoleto, sera del 2 giugno 1922: un giovane infermiere dell´ospedale psichiatrico, mentre passeggia in compagnia di due colleghi, viene inspiegabilmente aggredito. Dopo un breve alterco, il poveretto è ferito a morte con vari colpi di rivoltella. La stampa genovese non attribuisce al fattaccio alcun movente politico, anche se l´infermiere è un socialista e l´assassino è conosciuto in paese come un tipaccio sempre disposto a menare le mani. Non ci saranno più dubbi invece su un episodio che accadrà solo tre mesi dopo. Nella notte tra il 3 e il 4 settembre (siamo ormai alla vigilia della marcia su Roma) una squadraccia di una sessantina di fascisti, pare di Varazze, irrompe in camicia nera nel manicomio di Cogoleto, con la scusa di cercare una bandiera rossa della Lega sindacale. Seguono perquisizioni degli armadi, maltrattamenti degli infermieri, colpi di pistola nei viali. Con questi due episodi emblematici inizia "La guerra dentro" (Ed. Ombre Corte, settembre 2008), un bel saggio sui rapporti tra psichiatria e fascismo scritto da Paolo Peloso che di mestiere fa lo psichiatra presso il Dipartimento di Salute Mentale di Genova. Il titolo segnala il paradigma interpretativo proposto: per il fascismo la guerra permane "come stato d´animo e stile mentale nei rapporti quotidiani". A questa idea ben presto la psichiatria italiana finisce per adeguarsi. Al fascismo corrispondono infatti un consolidamento degli aspetti autoritari del controllo, un´estensione del concetto di pericolosità sociale e dunque della pratica di internamento. Non è certo un caso che in Italia tra il 1926 e il 1941 si registri un aumento dei ricoverati da 60 a 96 mila, con conseguente brusca accelerazione della costruzione di nuovi manicomi (a Genova quello di Quarto). Negli stessi anni in Germania l´ideologia nazionalsocialista della purezza della stirpe investe il malato di mente prima di ogni altro. Anche se non si arriva alle mostruosità naziste, tra gli psichiatri italiani più autorevoli c´è chi sostiene il razzismo coloniale e poi quello antisemita, sulla scia di un complesso percorso di impronta positivista, sino alle tesi "eugenetiche" che auspicano una scienza capace di modificare e dirigere l´evoluzione della specie. A questo proposito Genova è un osservatorio importante per lo studio della psichiatria di regime: a Genova infatti opera sino alla morte, avvenuta nel 1929, Enrico Morselli, il più autorevole psichiatra italiano del tempo, firmatario nel 1925 del Manifesto intellettuale del fascismo insieme a Gentile, Pirandello e Ungaretti. Ma a Genova si forma anche un ambiente di oppositori: la figura più prestigiosa è quella di Ottorino Balduzzi, neuropatologo e psichiatra di fama nazionale, comunista, nella Resistenza fondatore dell´Organizzazione Otto (che da lui prende il nome) con il compito di mantenere contatti con il Comando Alleato ad Algeri. Neuropsichiatra è anche l´azionista Cornelio Fazio, uno dei soli quattro docenti genovesi di Medicina ad aver rifiutato il giuramento alla Repubblica Sociale.
Tra i tanti meriti del libro di Paolo Peloso, quello principale è di aver raccontato con una mole straordinaria di documentazione una delle vicende meno note della storia sia della cultura italiana, sia anche della nostra città.

Apcom 5.11.08
Usa 2008/ Bertinotti: La vittoria di Obama è enorme, ma non salva la sinistra
«Non si può ripartire da niente, il centrosinistra è morto»


Roma, 5 nov. (Apcom) - La vittoria di Barack Obama nella corsa alla Casa Bianca è «un fatto straordinario» ma non «salvifico» per la sinistra italiana ed europea. Così Fausto Bertinotti commenta l’elezione del 44. mo presidente degli Stati Uniti.
«Oggi Obama realizza un’impresa che sei mesi fa era imprevista e imprevedibile - sostiene Bertinotti alla presentazione di un libro dell’ex sottosegretario all’Economia, Alfiero Grandi, ’Ripartire da Prodì -, quando arrivano questi venti imprevisti tutto si rimette in gioco. È un fatto enorme, e che l’America avrà un presidente di colore, avrà un peso fondamentale nella storia. Un fatto enorme - ribadisce l’ex presidente della Camera - che ci riguarda seppur indirettamente, ma da cui non viene alcun elemento salvifico per la sinistra europea ed italiana. Non si può ripartire da niente e da nessuno. Il centrosinistra - conclude Bertinotti - così come lo abbiamo conosciuto è morto».

Ansa 5.11.08
Bertinotti. ripartire da Prodi? No grazie, esperienza sepolta

(ANSA) - ROMA, 5 NOV - Ripartire da Prodi e andare oltre la sconfitta? Intervenendo alla presentazione dell’ultimo libro di Alfiero Grandi, Fausto Bertinotti rifiuta senza esitazione di ripercorrere l’itinerario politico che ha condotto la sinistra fuori del Parlamento. «Il centro sinistra come l’abbiamo visto noi - ha spiegato l’ex segretario di Prc - è morto e sepolto. La sinistra è ora inesistente in Italia e a grave rischio di sopravvivenza in Europa. La sinistra italiana può oggi proporsi un solo obiettivo: ricominciare daccapo. E questo non significa rinunciare ad attingere dall’ esperienza passata. Non è vero che non abbiamo avi». Secondo l’analisi di Bertinotti, la crisi del centro sinistra «nasce da molto lontano, dal ’68 e dall’incapacità del Pci di diventare il partito delle riforme e di rompere i suoi rapporti con l’Urss». Dopo aver premesso che «sarebbe ingiusto attribuire tutte le colpe a Prodi», l’ex presidente della Camera ha ammesso che «il suo governo ha comportato una vera e propria devastazione nell’opinione pubblica ed una rottura irreparabile con i partiti che lo sostenevano». «Fu inutile - conclude Bertinotti - scrivere un programma nei minimi dettagli per darsi una rotta comune. È mancata una discussione strategica sul modello di sviluppo: è proprio da questo che la sinistra dovrà ripartire se vorrà vedere la luce». (ANSA). CSS 05-NOV-08 19:39 NNN