il manifesto 8.11.08
La memoria come risorsa antifascista
La memoria come risorsa antifascista
di Enzo Collotti
È proprio vero che i fatti della seconda guerra mondiale non meritano che l'oblio? E' questa la domanda che si è tentati di porsi di fronte alle tante manifestazioni di insofferenza che accompagnano la riesumazione di episodi editi o inediti relativi a questo evento epocale con i suoi caratteri di scontro frontale nella lotta per la civiltà, nel momento in cui invece il fronte della memoria sembra ricompattarsi nell'appagamento della riconciliazione nel ricordo della fine della prima guerra mondiale. Il ricordo della guerra più lontana non sembra soffrire le lacerazioni che la guerra più vicina ancora evoca. Le prese di posizione ambigue degli esponenti dell'attuale maggioranza rendono lo stato della situazione particolarmente confuso. Approssimandosi il settantesimo anniversario delle leggi razziste del fascismo e il giorno della memoria possiamo prevedere che nella caterva di dichiarazioni cui andiamo incontro queste contraddizioni raggiungeranno l'apice dell'esasperazione.
Dal mese di aprile in poi non è passato quasi un giorno che non si siano succedute prese di distanza da atti della politica fascista (precipuamente la persecuzione degli ebrei) e contemporaneamente affermazioni e gesti di riabilitazione parziale o totale del regime del ventennio e della sua continuazione nella R.S.I. Ne viene messa in evidenza da una parte l'incerta identità democratica di una parte rilevante del ceto politico del centro-destra, ma dall'altra anche l'indissociabile legame che esso ha con le sue radici e quindi la sua difficoltà a disfarsene, posto che lo voglia. Per chi si è nutrito sino all'altro ieri dei simboli e dei teoremi di un aristocratico della razza come Evola è impresa ardua riciclarsi sul terreno dell'antirazzismo e della democrazia, come è dimostrato dalla quotidianità politico-culturale.
Si potrà dire che sviluppando argomentazioni del genere continuiamo a condurre una battaglia di retroguardia. Siamo consapevoli dei rischi che corriamo, ma è pur sempre meglio condurre una battaglia di retroguardia che non affrontare nessuna battaglia. Siamo anche consapevoli che di fronte alla potenza della tirannia mediatica che è, almeno da noi, lo strumento formatore e livellatore delle coscienze e spesso l'unica fonte d'informazione per un largo pubblico, le nostre parole sono povera cosa. Ma sono convinto che spetti ai superstiti della mia generazione coltivare il filo della memoria che tiene unite esperienze così lontane alla sensibilità delle generazioni più giovani. Certo, per un corrispondente della Faz che da sempre fa il diffamatore della resistenza e dell'antifascismo, sarebbe molto più comodo un Presidente della Repubblica che si militasse a ricordare in maniera neutra le vittime della guerra senza emettere giudizi sulla natura delle forze in campo e senza quindi rischiare di attualizzare confronti di valutazioni, anche se dovrebbe sapere che oggi anche a casa sua sulla guerra nazista non esistono più i tabù di 20 o 30 anni fa.
Il discorso su una identità europea oggi è certamente un discorso complesso e non suscettibile di un unico sbocco, perché rispecchia le divisioni che l'Europa ha attraversato negli ultimi decenni e lacerazioni politico-culturali che persistono tuttora. Ma buona parte dell'Europa, dall'Atlantico ai territorio dell'ex Unione sovietica ha conosciuto l'esperienza del Nuovo ordine nazista e fascista. Della formazione di una identità europea fa parte anche questa esperienza, lo vogliano o no ammettere tutti gli odierni stati soggetti del panorama europeo e di questa esperienza fanno parte integrante, perché hanno accomunato le popolazioni europee sotto un unico destino di breve durata ma di radicale intensità, fenomeni come la Shoah ma anche i colossali sconvolgimenti demografici e sociali provocati da immani spostamenti forzati di popolazione. Oggi si tende, e giustamente, a studiare gli spostamenti avvenuti a seguito della guerra, ma come dimenticare le decine di milioni di uomini e donne sradicate forzatamente dalle proprie case in nome del Nuovo ordine europeo? Al di là della shoah, i deportati per il lavoro forzato o per rappresaglia per la partecipazione alla resistenza («Notte e nebbia») o per gli scioperi operai contro l'economia di guerra nazista, cui si devono aggiungere i milioni di militari polacchi, francesi, sovietici, italiani e di altre nazionalità catturati e trattati al di fuori di ogni tutela prevista per i prigionieri di guerra, sono stati tra i testimoni viventi della tragedia che ha travolto e devastato l'Europa. Oggi non c'è paese d'Europa in cui non siano presenti i superstiti di questa immensa schiera di deportati, vittime di questo prodotto della guerra totale, non certo sconosciuto al primo conflitto mondiale ma diventato aspetto centrale del secondo conflitto.
E' possibile dimenticare tutto questo? Il quesito è meramente retorico, se solo si considera la massa enorme di individui, uomini e donne, che la deportazione ha messo in movimento in Europa. Se pensiamo alla difficoltà con la quale nei primi anni del dopoguerra chi era sopravvissuto alla deportazione riusciva a farsi ascoltare e quindi alla reticenza di raccontare esperienze cui spesso non si voleva prestare orecchio, l'esplosione di racconti dagli anni '80 in poi fa concludere che ci troviamo invece in presenza di una ipertrofia di memorie, cui non coincide necessariamente un adeguato indice di memoria collettiva. Tuttavia i germi diffusi nelle diverse società nazionali dalla consapevolezza degli ex deportati di avere vissuto un tratto irripetibile di percorso comune ne ha fatto dei buoni europei e messaggi insostituibili di un avvenire di pace. Da noi Primo Levi è stato non l'unico ma forse l'esempio più alto di questo tipo umano; altrove, da Semprun a Langbein, la voce degli ex deportati ha anticipato aspirazioni di pace contro gli interessi imperialistici delle potenze.
Che senso ha ricordare oggi tutto questo? In un momento di grandi incertezze politico-culturali, di opacità di pensiero e di prospettive, l'elaborazione della memoria è una risorsa. L'apprendere dal passato non può essere mai un'operazione passiva, non può essere l'attesa della ripetizione di circostanze che non ritorneranno mai come prima, ma è uno strumento prezioso per affinare la sensibilità e l'intelligenza a sapere cogliere anche nel nuovo (o nell'apparente nuovo) ciò che di vecchio si ripresenta sotto spoglie inedite.
Dal mese di aprile in poi non è passato quasi un giorno che non si siano succedute prese di distanza da atti della politica fascista (precipuamente la persecuzione degli ebrei) e contemporaneamente affermazioni e gesti di riabilitazione parziale o totale del regime del ventennio e della sua continuazione nella R.S.I. Ne viene messa in evidenza da una parte l'incerta identità democratica di una parte rilevante del ceto politico del centro-destra, ma dall'altra anche l'indissociabile legame che esso ha con le sue radici e quindi la sua difficoltà a disfarsene, posto che lo voglia. Per chi si è nutrito sino all'altro ieri dei simboli e dei teoremi di un aristocratico della razza come Evola è impresa ardua riciclarsi sul terreno dell'antirazzismo e della democrazia, come è dimostrato dalla quotidianità politico-culturale.
Si potrà dire che sviluppando argomentazioni del genere continuiamo a condurre una battaglia di retroguardia. Siamo consapevoli dei rischi che corriamo, ma è pur sempre meglio condurre una battaglia di retroguardia che non affrontare nessuna battaglia. Siamo anche consapevoli che di fronte alla potenza della tirannia mediatica che è, almeno da noi, lo strumento formatore e livellatore delle coscienze e spesso l'unica fonte d'informazione per un largo pubblico, le nostre parole sono povera cosa. Ma sono convinto che spetti ai superstiti della mia generazione coltivare il filo della memoria che tiene unite esperienze così lontane alla sensibilità delle generazioni più giovani. Certo, per un corrispondente della Faz che da sempre fa il diffamatore della resistenza e dell'antifascismo, sarebbe molto più comodo un Presidente della Repubblica che si militasse a ricordare in maniera neutra le vittime della guerra senza emettere giudizi sulla natura delle forze in campo e senza quindi rischiare di attualizzare confronti di valutazioni, anche se dovrebbe sapere che oggi anche a casa sua sulla guerra nazista non esistono più i tabù di 20 o 30 anni fa.
Il discorso su una identità europea oggi è certamente un discorso complesso e non suscettibile di un unico sbocco, perché rispecchia le divisioni che l'Europa ha attraversato negli ultimi decenni e lacerazioni politico-culturali che persistono tuttora. Ma buona parte dell'Europa, dall'Atlantico ai territorio dell'ex Unione sovietica ha conosciuto l'esperienza del Nuovo ordine nazista e fascista. Della formazione di una identità europea fa parte anche questa esperienza, lo vogliano o no ammettere tutti gli odierni stati soggetti del panorama europeo e di questa esperienza fanno parte integrante, perché hanno accomunato le popolazioni europee sotto un unico destino di breve durata ma di radicale intensità, fenomeni come la Shoah ma anche i colossali sconvolgimenti demografici e sociali provocati da immani spostamenti forzati di popolazione. Oggi si tende, e giustamente, a studiare gli spostamenti avvenuti a seguito della guerra, ma come dimenticare le decine di milioni di uomini e donne sradicate forzatamente dalle proprie case in nome del Nuovo ordine europeo? Al di là della shoah, i deportati per il lavoro forzato o per rappresaglia per la partecipazione alla resistenza («Notte e nebbia») o per gli scioperi operai contro l'economia di guerra nazista, cui si devono aggiungere i milioni di militari polacchi, francesi, sovietici, italiani e di altre nazionalità catturati e trattati al di fuori di ogni tutela prevista per i prigionieri di guerra, sono stati tra i testimoni viventi della tragedia che ha travolto e devastato l'Europa. Oggi non c'è paese d'Europa in cui non siano presenti i superstiti di questa immensa schiera di deportati, vittime di questo prodotto della guerra totale, non certo sconosciuto al primo conflitto mondiale ma diventato aspetto centrale del secondo conflitto.
E' possibile dimenticare tutto questo? Il quesito è meramente retorico, se solo si considera la massa enorme di individui, uomini e donne, che la deportazione ha messo in movimento in Europa. Se pensiamo alla difficoltà con la quale nei primi anni del dopoguerra chi era sopravvissuto alla deportazione riusciva a farsi ascoltare e quindi alla reticenza di raccontare esperienze cui spesso non si voleva prestare orecchio, l'esplosione di racconti dagli anni '80 in poi fa concludere che ci troviamo invece in presenza di una ipertrofia di memorie, cui non coincide necessariamente un adeguato indice di memoria collettiva. Tuttavia i germi diffusi nelle diverse società nazionali dalla consapevolezza degli ex deportati di avere vissuto un tratto irripetibile di percorso comune ne ha fatto dei buoni europei e messaggi insostituibili di un avvenire di pace. Da noi Primo Levi è stato non l'unico ma forse l'esempio più alto di questo tipo umano; altrove, da Semprun a Langbein, la voce degli ex deportati ha anticipato aspirazioni di pace contro gli interessi imperialistici delle potenze.
Che senso ha ricordare oggi tutto questo? In un momento di grandi incertezze politico-culturali, di opacità di pensiero e di prospettive, l'elaborazione della memoria è una risorsa. L'apprendere dal passato non può essere mai un'operazione passiva, non può essere l'attesa della ripetizione di circostanze che non ritorneranno mai come prima, ma è uno strumento prezioso per affinare la sensibilità e l'intelligenza a sapere cogliere anche nel nuovo (o nell'apparente nuovo) ciò che di vecchio si ripresenta sotto spoglie inedite.
l’Unità 9.11.08
Homeless schedati e senza diritti. Reato di clandestinità e 18 mesi per l’identificazione
Le ronde legalizzate. Sindaci sceriffi e pseudo poliziotti a occuparsi di ordine pubblico
Governo a muso duro con poveri e immigrati
di Luigi Manconi e Federico Resta
Persino il matrimonio è subordinato al permesso di soggiorno
Via tutti i diritti
Sarà in aula da martedì a Palazzo Madama il disegno di legge sula sicurezza. Ronde istituzionali, reato di clandestinità per gli immigrati e schedatura dei clochard. Così si tagliano i diritti dei più poveri.
Il complesso delle misure disegna una strategia e un'ideologia affidate a un sistema di intimidazione ed esclusione. Questi i punti più significativi.
La schedatura dei clochard
Si istituisce il registro delle persone che non hanno fissa dimora, rimettendone a un mero decreto del Ministro dell'interno la disciplina di funzionamento. La norma contrasta con il principio di eguaglianza, assoggettando a una sorta di schedatura persone per il solo fatto di essere «senza fissa dimora». Non si specificano poi le finalità che dovrebbero legittimare questo trattamento discriminatorio, gravemente lesivo della dignità personale.
Le ronde e il presidio
Gli enti locali potranno avvalersi «della collaborazione di associazioni tra cittadini» al fine, tra l'altro, di «cooperare nello svolgimento dell'attività di presidio del territorio»; finalità, questa, prevalente,tanto da comparire nel «titolo» della norma. Ora, coinvolgere privati nell'esercizio di una delle funzioni principali della sovranità dello Stato contrasta con il monopolio statuale della forza. Né si prevede espressamente il carattere pacifico (non in armi) di tali associazioni. Se quindi esse perseguissero anche indirettamente scopi politici (il che non è escluso dalla norma), incorrerebbero anche nel divieto di cui all'art. 18 Cost..
Il permesso a punti
Si subordina il rilascio (e il rinnovo) del permesso di soggiorno alla stipula di un «accordo di integrazione» e si prevede l'espulsione immediata nel caso di perdita dei «crediti», senza neppure la deroga per asilanti e rifugiati. Contrasta con il diritto internazionale subordinare uno status soggettivo (la presenza in uno Stato) alla valutazione (necessariamente discrezionale) del grado di integrazione della persona. Giudizio complesso, che l'autorità amministrativa fatalmente esprimerebbe con criteri arbitrari: tanto più che non sono previsti dalla legge parametri certi né i fatti che determinano la perdita dei crediti (si rinvia a un regolamento, in contrasto con la riserva di legge di cui all'art. 10 Cost.).
L'immigrazione irregolare è un reato
Benché «derubricato» da delitto (com'era in origine) a contravvenzione, questo reato resta inaccettabile. Non si comprende infatti l'esigenza di incriminare l'immigrazione irregolare quando (e per fortuna) la sola misura applicabile resta quella dell'espulsione, la cui esecuzione impedisce la prosecuzione dell'azione penale, salvo riattivarla in caso di reingresso. Inoltre - fatto gravissimo- non si prevedono cause di non punibilità o di sospensione del processo per le vittime di tratta, o per i titolari di un permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale. Ancora: questo reato sarebbe difficilmente compatibile con lo jus migrandi sancito quale libertà fondamentale (e non mero diritto alla fuga) dal diritto internazionale. Infine, la norma sarebbe allo stato inapplicabile, poichè le disposizioni del d.lgs. sul giudice di pace richiamate ai fini del procedimento… non esistono.
Nei centri identificazione per 18 mesi
È prevista la detenzione nei centri fino a 18 mesi in caso di difficoltà nell'accertamento dell'identità e della nazionalità dello straniero, o nell'acquisizione dei documenti per il viaggio. La direttiva Ce migration policy, invocata dal Governo italiano a sostegno della misura, prevede che il termine massimo di 18 mesi valga per la sola resistenza all'identificazione, il che è diverso dalla mera difficoltà nell'accertamento. Inoltre, la direttiva sancisce il carattere di extrema ratio del trattenimento, prevedendo la liberazione dello straniero qualora non esistano verosimili possibilità di esecuzione dell'espulsione. Correttivi, questi, assenti dal disegno di legge, nonostante la Commissione de Mistura abbia dimostrato che i tempi per l'identificazione dello straniero non superano mai i 60 giorni. Perché allora legittimare una simile estensione della detenzione amministrativa, per un tempo pari a quello di pene previste per reati anche di una certa gravità, invece di promuovere gli accordi di riammissione che, essi soli, rendono effettive le espulsioni? E come giustificare tale privazione della libertà motivata solo da circostanze estranee alla condotta individuale, quali sono l'indisponibilità dei documenti di viaggio o l'impossibilità di identificare lo straniero?
Quelli sinora esposti sono i contenuti principali del disegno di legge. Altre norme, altrettanto illiberali, prevedono l'obbligatorietà della custodia cautelare anche per i reati informatici, nonostante la Consulta e Strasburgo non abbiano censurato tale disciplina solo perché sinora limitata ai reati di mafia; e prevedono, poi, il rimpatrio dei minori comunitari che esercitano la prostituzione, senza assicurare loro possibilità di accoglienza e protezione in Italia. Si è infine subordinata la possibilità di contrarre matrimonio- diritto fondamentale e non legato alla cittadinanza - al possesso del permesso di soggiorno.
l’Unità 9.11.08
L’Onda: vogliono sfiancarci ma noi non ci fermiamo, siamo uniti
di Tommaso Galgani
Il movimento si parla, discute. Elaborato il documento per la partecipazione alla manifestazione del 14 novembre, promossa dal sindacato per la difesa dell’università. Voci dall’Onda che non si ferma.
Seduta di autocoscienza per l'Onda studentesca, ieri alla prima assemblea nazionale del movimento universitario a Firenze, nel plesso didattico occupato di viale Morgagni. Alla fine è stato approvato un documento unitario che sarà esaminato dagli atenei in protesta e che invita tutti a partecipare in «modo unitario e autonomo» alla manifestazione nazionale di venerdì a Roma, in cui gli studenti saranno assieme a sindacati e lavoratori dell’università per dire no alla 133.
Venerdì e sabato invece alla Sapienza ci sarà l'assemblea nazionale; il documento ribadisce: «Ci saremo tutti, il movimento è unito». Intanto ieri c'è stato l'assaggio: 300 studenti universitari sono venuti a Firenze da ogni parte d'Italia. Presenti rappresentanti degli atenei toscani, torinesi, campani, abruzzesi, la Statale di Milano, Genova, Bologna, Palermo, Bari, Lecce, Ancona, Ferrara, Brescia, Pavia.
Mancavano esponenti di Tor Vergata e della Sapienza di Roma, ma c’era una delegazione del sindacato studentesco di Roma Tre venuta ad osservare i lavori dell'assemblea: gli "atenei romani in mobilitazione" avevano annunciato di non partecipare perché critici verso le modalità di organizzazione dell'appuntamento. «Non capiamo le ragioni di questo incontro. Non vorremmo che qualcuno stesse pensando di costruire un'assemblea di una parte del movimento, lontano dallo spirito unitario che ha generato l'Onda», avevano detto. Il movimento inizia a spaccarsi? Francesco Epifani, leader degli Studenti di sinistra toscani e fra gli organizzatori della riunione fiorentina, risponde che «con Roma c'è stato un fraintendimento ma non una rottura. In viale Morgagni è stato un incontro per iniziare a dare forma al movimento. Ricordo che a Firenze, al Polo scientifico di Sesto, il 6 ottobre c'è stata la prima occupazione».
Voci dall’assemblea, dove qualcuno teme che la protesta inizi a sentire stanchezza in mancanza di proposte: Marco e Salvo, dell'università di Palermo, lanciano un appello per saldare la protesta studentesca con quella dei lavoratori: «Non ci si dimentichi dei metalmeccanici e dipendenti pubblici che il 12 dicembre scenderanno in piazza». Per Emanuele di Milano «la lotta sarà lunga, anche se il governo spera di sfiancarci. Non abbiamo bandiere, ma la mobilitazione non è bipartisan. In piazza Navona c'è chi le ha date e chi le ha prese. Facciamo dimettere la Gelmini». Molti interventi spiegano: «Il movimento è apolitico, pacifista, antifascista». Ma altri, come Francesca Stefano di Siena, ribadiscono: «Servono proposte politiche per dare respiro». Rocco, di Pisa, rivendica l'occupazione dei binari della stazione di venerdì che ha bloccato i treni toscani, mentre da qualcuno non mancano curiose idee di protesta: «Venerdì ogni studente porti una gomma, facciamone un cumulo e diciamo al governo: "Ora cancellateci tutti"». E alla fine si vocifera anche che i collettivi antagonisti vogliano fare addirittura un partito.
Repubblica Roma 9.11.08
L’Onda rilancia: venerdì sarà "mareggiata"
di Tea Maisto e Laura Mari
La Sapienza diserta l´assemblea di Firenze, è polemica. Democrito occupato solo il sabato
L´Onda prepara la grande mareggiata. Dopo i cortei di venerdì e gli scontri con le forze dell´ordine davanti alla stazione Ostiense, sono ripresi i preparativi per il mega-corteo nazionale degli universitari che venerdì prossimo vedrà confluire a Roma migliaia di studenti provenienti dagli atenei italiani in mobilitazione. Una manifestazione a cui sabato e domenica seguirà, sempre alla Sapienza, l´assemblea nazionale dell´Onda che produrrà il documento della "controriforma Gelmini". «Ieri abbiamo disertato l´assemblea nazionale di Firenze - hanno fatto sapere in una nota i leader della Sapienza - perché non siamo stati contattati e non abbiamo capito di cosa si discuteva». E a chi parla di rotture nel movimento dell´Onda, gli studenti toscani rispondono: «C´è stato solo un fraintendimento: il 14, il 15 e il 16 novembre saremo nella Capitale per la grande protesta e la mega-assemblea».
Le mobilitazioni dunque non accennano a diminuire e, anzi, rafforzano la rete studentesca formata da universitari, liceali e insegnanti delle elementari. «La nostra è una battaglia per la cultura» annunciano una trentina di studenti dell´istituto Democrito di Casalpalocco che ieri, dopo l´orario scolastico, ha occupato la scuola, ma solo per il weeekend. «Riporteremo la protesta nelle scuole e bloccheremo la didattica» hanno annunciato gli studenti in un´assemblea all´istituto Galilei e a cui hanno partecipato delegazioni di diversi istituti romani tra cui Tasso, Virgilio, Cavour, De Chirico, Albertelli, Mamiani.
Si infittisce, intanto, anche il calendario degli appuntamenti culturali dell´Onda. Oggi dalle ore 10 la Sapienza aprirà le porte ai bambini e gli studenti delle facoltà occupate accoglieranno genitori e bimbi con esperimenti e convegni. Dalle 11 alle 13, invece, gli alunni del liceo Montale parteciperanno alle lezioni in piazza a Villa Pamphili, mentre martedì sera Ascanio Celestini sarà alla facoltà di Lettere di Tor Vergata. Nello stesso giorno, ma alle ore 11, il premio Nobel Dario Fo e Franca Rame saranno alla facoltà di Valle Giulia. È stata posticipata al 18 novembre, invece, la festa dell´Onda alla Sapienza.
«Un'efficace politica dell'ordine pubblico deve basarsi su un vasto consenso popolare, e il consenso si forma sulla paura, non verso le forze di polizia, ma verso i manifestanti».
Ne è convinto il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga, che, per questo, in una lettera aperta dà dei «consigli», sul filo del paradosso, al Capo della Polizia Antonio Manganelli.
Per il senatore a vita è stato «un grave errore strategico» reagire con «cariche d'alleggerimento, usando anche gli sfollagente e ferendo qualche manifestante» ai cortei che si sono fatti più minacciosi.
«A mio avviso - scrive Cossiga - dato che un lancio di bottiglie o insulti contro le forze di polizia, l'occupazione di stazioni ferroviarie, qualche automobile bruciata non è cosa poi tanto grave, il mio consiglio è che in attesa di tempi peggiori, che certamente verranno, Lei disponga che al minimo cenno di violenze di questo tipo, le forze di polizia si ritirino, in modo che qualche commerciante, qualche proprietario di automobili, e anche qualche passante, meglio se donna, vecchio o bambino, siano danneggiati e cresca nella gente comune la paura dei manifestanti e con la paura l'odio verso di essi e i loro mandanti o chi da qualche loft o da qualche redazione, ad esempio quella de L'Unità, li sorregge».
«Solo dopo che la situazione si aggravasse e colonne di studenti con militanti dei centri sociali, al canto di “Bella ciao”, devastassero strade, negozi, infrastrutture pubbliche e- scrive ancora Cossiga- aggredissero forze di polizia in tenuta ordinaria e non antisommossa e ferissero qualcuno di loro, farei intervenire massicciamente e pesantemente le forze dell'ordine contro i manifestanti, ma senza arrestare nessuno».
L’inquietante uscita del presidente emerito della Repubblica e senatore a vita fa seguito ad una intervista di qualche settimana fa in cui diceva più o meno le stesse cose.
Ne è convinto il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga, che, per questo, in una lettera aperta dà dei «consigli», sul filo del paradosso, al Capo della Polizia Antonio Manganelli.
Per il senatore a vita è stato «un grave errore strategico» reagire con «cariche d'alleggerimento, usando anche gli sfollagente e ferendo qualche manifestante» ai cortei che si sono fatti più minacciosi.
«A mio avviso - scrive Cossiga - dato che un lancio di bottiglie o insulti contro le forze di polizia, l'occupazione di stazioni ferroviarie, qualche automobile bruciata non è cosa poi tanto grave, il mio consiglio è che in attesa di tempi peggiori, che certamente verranno, Lei disponga che al minimo cenno di violenze di questo tipo, le forze di polizia si ritirino, in modo che qualche commerciante, qualche proprietario di automobili, e anche qualche passante, meglio se donna, vecchio o bambino, siano danneggiati e cresca nella gente comune la paura dei manifestanti e con la paura l'odio verso di essi e i loro mandanti o chi da qualche loft o da qualche redazione, ad esempio quella de L'Unità, li sorregge».
«Solo dopo che la situazione si aggravasse e colonne di studenti con militanti dei centri sociali, al canto di “Bella ciao”, devastassero strade, negozi, infrastrutture pubbliche e- scrive ancora Cossiga- aggredissero forze di polizia in tenuta ordinaria e non antisommossa e ferissero qualcuno di loro, farei intervenire massicciamente e pesantemente le forze dell'ordine contro i manifestanti, ma senza arrestare nessuno».
L’inquietante uscita del presidente emerito della Repubblica e senatore a vita fa seguito ad una intervista di qualche settimana fa in cui diceva più o meno le stesse cose.
l’Unità 9.11.08
Sinistra Democratica mette in soffitta il listone Arcobaleno
di Osvaldo Sabato
Il segretario nazionale di Sinistra Democratica Claudio Fava per le prossime europee cancella il listone della sinistra sconfitto alle ultime politiche. Mussi: «Lavoriamo all’alleanza con il Partito Democratico»
Era già svanito dopo le ultime elezioni politiche. Ma ora in vista delle prossime europee a mettere la parola fine sul listone Arcobaleno ci ha pensato il segretario di Sinistra Democratica Claudio Fava. «Vogliamo ricostruire un’idea di sinistra di cui questo Paese ha estremo bisogno» spiega l’europarlamentare a margine della prima Assemblea nazionale degli amministratori locali di Sd. «Ma non vogliamo ricostruire un altro listone Arcobaleno» aggiunge Fava. Insomma a Sinistra Democratica non interessa «una lista che metta insieme tutte le parti e i soggetti politici per le Europee». Il partito di Fava e Fabio Mussi non è disposto a ripetere l’esperienza politica dello scorso aprile perché aggiunge il segretario «crediamo che la sinistra si debba assumere la responsabilità di guardare in faccia quella sconfitta». Come dire che non è più il caso di ripeterla. «Se rispondiamo ricostruendo una lista che sia somma di sigle e di gruppi dirigenti, Sd dice no». Piuttosto «abbiamo sempre detto che noi siamo pronti a ragionare con i democratici in condizioni di assoluta autonomia, se ci sono le circostanze si lavorerà insieme al Pd con delle condizioni precise» commenta Fava. Quali? Nessun cenno di intenti verso l'Udc «perché si rimetterebbe insieme uno scipito minestrone di poche idee e molta confusione». E a chi immagina Sd sempre all’opposizione, il segretario sottolinea che il suo partito dovrà porsi anche «con responsabilità il tema del governo di questo Paese». All’assemblea degli amministratori di Sd c’era anche il sindaco di Firenze e presidente dell’Anci, Leonardo Domenici. Naturalmente non è mancato un suo cenno sugli scenari delle alleanze «la mia opinione è che bisognerebbe lavorare perché nelle realtà locali questo processo che avviene a sinistra si incontri, su basi programmatiche chiare e condivise, anche con le scelte del Partito democratico». I rapporti con Rifondazione, dopo la vittoria di Ferrero al congresso nazionale a scapito di Vendola? Per il presidente del consiglio nazionale di Sd, Fabio Mussi «allo stato dei fatti tutte le forze del centrosinistra sono in un vicolo cieco». Messa da parte l’autosufficienza del Pd «da solo non risalirà dal 30% fino ad avere la maggioranza» in aggiunta alla frammentazione della sinistra, per Mussi «se non cambia qualcosa, non ci saranno prospettive per nessuno, noi lavoriamo alla creazione di una forza di sinistra e all'alleanza con il Pd» conclude l’ex ministro del governo Prodi.
il manifesto 8.11.08
Prc,Vendola a Ferrero: «Tregua per le europee»
«Tregua per le europee» Il segretario: non scindono? bene e allora che fanno con Sd?
di Micaela Bongi
Non è l'annuncio della scissione. Neanche un passo spedito in quella direzione. Anzi, presentando con il leader di Sd Claudio Fava la nuova associazione «Per la sinistra», il leader della minoranza Nichi Vendola propone al segretario di Rifondazione, Paolo Ferrero, una tregua. Un «gesto di maturità politica», lo chiama, per «evitare l'ultimo episodio di guerra», per «non farci del male». Quello della scissione, sostiene il presidente della Puglia, è «un gossip alimentato non da me. Io parlavo di rilancio unitario». Ciò non toglie che seppure tempi e modi della rottura non sono fissati, anche perché dentro la minoranza non mancano i frenatori, l'ipotesi resta. Ma un passo alla volta.
Il leader dell'area Rifondazione per la sinistra per ora rilancia l'idea del «cartello unitario» alle europee, che eviti la competizione a sinistra, spiega Vendola. Alla presentazione del documento «Costruire la sinistra, il tempo è adesso», ci sono anche i verdi Paolo Cento e Loredana De Petris. A firmarlo, del Pdci c'è Umberto Guidoni. E poi Moni Ovadia, che illustra il progetto con Maria Luisa Boccia, e Margherita Hack, Mario Tronti, Luciano Gallino, Parisi. Un'iniziativa «senza padroni di casa e ospiti», viene detto, «orizzontale», lontana dall'esperienza tutta di ceto politico dell'Arcobaleno.
La proposta di cartello per le europee è invece il tentativo di tenere soggetto unitario e liste su piani diversi, per evitare lo scontro a Strasburgo tra la Rifondazione di Ferrero e i vendoliani, rimandando a dopo il voto la riorganizzazione della sinistra. Insomma, per affrontare la scissione dopo la chiamata alle urne di giugno. In questo modo la minoranza del Prc non dovrebbe scegliere prima di quell'appuntamento se restare nel partito, creando una frattura con Sinistra democratica che comunque presenterebbe la sua lista, o presentare una lista insieme al movimento di Fava e Mussi, andando a una rischioso scontro con il Prc. Oltretutto, argomentano tra i vendoliani, è difficile sostenere il rilancio unitario, l'allargamento, partendo da una scissione.
La soluzione del cartello dovrebbe servire a convincere chi coltiva progetti diversi dal soggetto unitario di Fava e Vendola: ognuno manterrebbe la propria identità. Ma a rispondere subito picche, dalla maggioranza del Prc, è il responsabile organizzazione Claudio Grassi: «Non capisco cosa sia un cartello, quattro simboli tutti insieme diventerebbe una cosa illeggibile. Ai compagni della minoranza dico: noi abbiamo accettato l'Arcobaleno, scelta che si è rivelata fallimentare, questa volta andiamo con il simbolo del Prc, anche perché si tratta della proposta che ha vinto il congresso, e vediamo quanto consenso ottiene. Dopo tireremo le somme». Un congresso straordinario, come propone Vendola? «Non sta né in cielo né in terra».
Il segretario Ferrero, che di europee vuole parlare solo dal prossimo anno, accoglie positivamente la proposta di tregua ma per sottolineare che qualcosa non torna: «La tregua la pratico unilateralmente dal giorno in cui è finito il congresso, ma la minoranza ha rifiutato la gestione unitaria. Non posso che felicitarmi del fatto che Vendola escluda finalmente la scissione, anche se non capisco in che relazione stanno le sue dichiarazioni con quelle di Fava, che annuncia un nuovo soggetto politico 'alleato naturale del Pd'». Perché il coordinatore di Sd sostiene che «il Pd è il nostro interlocutore principale e, stabilendo un'attenta piattaforma programmatica, nostro alleato naturale».
Dal canto suo, Ferrero deve comunque tenere conto della chiusura dei grassiani che spingono verso il Pdci. E comunque fin d'ora nella minoranza non viene vista certo come un'apertura al cartello - tutt'altro - la decisione, annunciata ieri dal segretario, di convocare per il 13 e 14 dicembre il Comitato politico del Prc. Proprio per il 13 è fissato il debutto dell'associazione «Per la sinistra» con un'assemblea a Roma. Di fonte al doppio impegno gli esponenti della minoranza che sono nel Cpn saranno costretti a scegliere. Un antipasto di quel che accadrà se, come appare più che probabile, Ferrero dirà no al cartello. Ma a questa concreta eventualità i vendoliani non sono ancora attrezzati.
l’Unità 9.11.08
Dall’Inferno al Paradiso nel «Laborintus» di Luciano Berio
di Edoardo Sanguineti
In casa non ho mezzi per ascoltare i dischi. Ho invece molte cassette, però ho poco tempo per sentirle. Devo dire che nel tempo ho raccolto una tale quantità di musica che per sentirla tutta dovrei vivere quanto ha vissuto Matusalemme. Preferisco vedere i dvd. Può servire un aneddoto che mi è capitato di recente. Ho incontrato un signore, mi pare in Sicilia, che mi ha raccontato di avere moltissime cassette registrate da lui. Ha cose anche molto preziose. Gli ho detto che se le tiene così in casa sua allora dovrebbe convertirle in compact disc o altrimenti farle girare. E cosa mi ha risposto, lo sventurato? Di non averne il tempo e che quelle registrazioni periranno con lui. Ecco, bisognerebbe avere il tempo per poter ascoltare.
Ho ascoltato musica l’ultima volta una settimana fa per un convegno a Siena su Luciano Berio. Avevo lavorato spesso con lui. Ho fatto ascoltare frammenti di alcune composizioni raccontando come erano nate. In particolare ho parlato di quattro sue opere con testi da me scritti appositamente per Luciano. In ordine di tempo, ho iniziato da un’opera del '63, anzi più correttamente direi una messinscena, dal titolo Passaggio. Andò su andò alla Piccola Scala. Poi ho discusso di un’opera del '65 che si chiama Laborintus II: era un omaggio a Dante composto per la radio francese. Il terzo lavoro si intitola A-Ronne, che vuol dire dall'a alla z e risale al 1974. Il quarto pezzo invece è parte di un’opera postuma dal titolo Stanze che Luciano ha composto su testi di sei autori, tra cui il sottoscritto, e che è eseguita nel 2003 a Parigi, dov’era stata commissionata.
Se dovessi dire quale di queste opere scegliere, allora indicherei Laborintus II. Perché? Perché mi pare il coronamento della sua ricerca fino a quel momento: è un’opera chiave, di svolta, apre la strada a quanto aveva composto fino ad allora, è una sorta di enciclopedia del suo discorso. Ed è un’opera fondamentale del secondo ‘900, in qualche modo lo riassume poiché ambisce a essere un'esplorazione globale del mondo dei suoni in tutte le sue dimensioni. Certo, riconosco che si tratta di una sorta di utopia: contiene l’improvvisazione come il madrigalismo, l’urlo come la melodia più squisita, è un’enciclopedia delle sonorità possibili. Non a caso Laborintus II era nata nel ‘65 come omaggio a Dante: infatti uno degli elementi tenuti presente da Berio come da me nella preparazione testuale era la volontà enciclopedica del poeta di abbracciare tutto il mondo dall’Inferno al Paradiso.
Repubblica 9.11.08
L'immaginario di Guillaume
di Massimo Novelli
Esattamente novant´anni fa, il 9 novembre 1918, il grande poeta moriva di influenza spagnola. Adesso un libro pubblicato in Francia, ma stampato da un editore torinese, raccoglie per la prima volta disegni e dipinti dell´autore dei "Calligrammes" Un album surreale, popolato da Arlecchini e buffi personaggi, che aiuta a capire l´opera di un innovatore che ha segnato il Novecento
Novant´anni fa, il 9 novembre del 1918, due giorni prima dell´armistizio della Germania con le potenze alleate, Guillaume Apollinaire moriva a Parigi di influenza spagnola. Se ne andava ad appena trentotto anni un grande poeta, esponente di spicco dei movimenti d´avanguardia, che era già stato gravemente ferito al fronte nel corso della guerra mondiale e che negli ultimi momenti della sua vita aveva detto a un medico: «Salvatemi, dottore! Io voglio vivere, voglio vivere. Ho tante cose da fare».
Tra le «choses à faire» c´erano di sicuro le poesie, i racconti, i drammi da scrivere, ma anche il disegno e la pittura. Fin da bambino avevano stimolato la sua fantasia e il suo talento, accompagnando e compenetrando l´attività letteraria. In particolare nel 1916, durante la convalescenza in un ospedale parigino, l´autore di Alcools e di Calligrammes si era dedicato con intensità all´acquerello inseguendo, tra le figure di Arlecchini e di Pulcinella, i nudi femminili, i ricordi d´Algeria e le immagini di soldati, quel suo ideale che lo aveva portato a dire come la pittura fosse «propriamente un linguaggio luminoso». Amico e fautore dei maggiori artisti dell´epoca (da Giorgio de Chirico a Picasso, da Chagall a Delaunay, Dufy, Duchamp, Gontcharova, Larionov, Marie Laurencin, Picabia), critico e collezionista, nel 1914 aveva lanciato a sua volta la sfida: «Et moi aussi je suis peintre!» («E ora anch´io sono pittore!»).
A differenza di quella letteraria, universalmente nota, a lungo l´opera pittorica di Apollinaire non ha avuto un adeguato riconoscimento da parte degli studiosi. A colmare il vuoto, adesso, è il libro Le dessins de Guillaume Apollinaire, appena pubblicato in Francia da Buchet/Chastel nella collana "Le Cahiers Dessinés" diretta da Frédéric Pajak, e stampato dalla casa editrice torinese Graphot. Curato da Claude Debon e Peter Read, il volume presenta per la prima volta oltre trecento tra disegni, lavori grafici, e dipinti di Apollinaire. Costituiscono, affermano i curatori, «un documento indispensabile per gli amanti del poeta, e meraviglioso per tutti i lettori curiosi». Il fantastico, il surreale, il grottesco, l´erotismo, l´amore per uomini e animali, affollano con ricchezza lussureggiante questi lavori. Soprattutto quelli del periodo estremo della sua esistenza, poi, sembrano anticipare le avanguardie degli anni Cinquanta e Sessanta. Come rileva Debon, «bisognerà attendere il movimento internazionale della poesia concreta, visuale, spaziale negli anni Cinquanta, e la sua fioritura nel colore alla fine del Ventesimo secolo, per avere la vera misura di queste innovazioni».
Apollinaire amava i pittori, da loro era riamato. Nel suo libro L´ami des peintres, lo scrittore francese Francis Carco rammenta che, quando parlava Guillaume, «i pittori l´ascoltavano perché li "liberava", li rivelava alle loro aspirazioni segrete e, sempre pieno di gaiezza, di malizia, di spirito, li persuadeva a non dubitare di nulla». Lui stesso aveva sempre disegnato, dai tempi della scuola. Era appassionato, scrive Read, «da tutto ciò che coglieva nell´arte visuale, sia antica sia moderna, popolare o di alta cultura, e diventò un critico d´arte perspicace, combattivo e dallo spirito aperto».
Dai primi quaderni dell´adolescenza alle poesie sue o di altri autori impreziosite e commentate da disegni, a mano a mano il suo tratto si affina. Passa attraverso le caricature, i ritratti, i paesaggi, approda agli interventi grafici che scandiscono la preparazione de Le Bestiaire. Sono disegni che, spiega Debon, «a più di un titolo servono a penetrare meglio la sua opera. Più immediati delle parole, esprimono in modo diverso, ma più direttamente, gli affetti che sono in gioco nella scrittura» del rinnovatore della poesia francese. Nel manoscritto-bozzetto di Calligrammes del 1917, che in apparenza pare avere il senso di una prova d´autore, Apollinare si spinge più in là, sovrapponendo poesie vecchie e nuove, disegni. Per Debon, «questa maniera di procedere dona a quella versione dei poemi un aspetto sorprendente e unico».
Apollinaire, del resto, ha imboccato con decisione la strada della pittura con gli acquerelli del 1916, realizzati anche come terapia per la lunga degenza ospedaliera. In lavori del genere, come ne Les Fraises au Mexique, annota Read, riluce e si compendia la «totalità dell´opera grafica e pittorica di Apollinaire, simultaneamente radicata in un paese lontano, collegata all´arte contemporanea, volta verso l´avvenire». Formate da «pulsioni profonde, modellate attraverso una cultura visuale espansiva ed eteroclita, le anatomie immaginarie del poeta-disegnatore, le sue creature ibride, le sue folle di visi contratti e onirici, prefigurano già l´avventura surrealista».
Un´avventura che non potrà vivere. Morirà come in un suo verso, quello sulle bandiere che sono «i ricchi vestiti dei poveri», scritto nel 1909. «Nove anni dopo - dirà Carco - altre bandiere, quelle dell´Armistizio, palpitavano alle finestre delle case di Parigi, il giorno stesso che Guillaume Apollinaire fu seppellito».
Repubblica Roma 9.11.08
Con Picasso & soci nella Parigi di inizio secolo
di Daria Galateria
S avinio incontrò Guillaume Apollinaire che correva; andava alla Prefettura, spiegò, a far firmare il visto di soggiorno. Savinio fu commosso da quella confidenza «rarissima»; Apollinaire soffriva delle sue origini «nebulose». Era nato a Roma, da un Flugi d´Aspermont - figlio di un maresciallo di campo di Ferdinando II delle Due Sicilie - che era però rimasto nell´ombra. Spettava comunque a Guillaume Apollinaire de Kostrowitzky (famiglia polacca, ma il nonno materno era cameriere d´onore di cappa e spada in Vaticano) fare gli spaghetti per gli amici, nell´abbaino al 202 di boulevard Saint-Germain; tra gli incunaboli vegliati dagli occhi a mandorla di idoli congolesi, i primi oggetti cubisti e frutti tropicali «mammelluti», il poeta intanto creava il Novecento. Li chiamarono «gli anni Apollinaire», perché, agli inizi del nuovo secolo, fu lui il "cemento" di tutte le linee di forza artistiche del moderno. Fu lui a portare Braque al "Bateau Lavoir", lo studio di Picasso a Montmartre; come tutti, Braque rimase interdetto davanti alle Demoiselles d´Avignon. Non si dava pace dell´angolo piazzato in mezzo al viso delle due donne sulla destra; «è un naso», assicurava Picasso. Matisse, che Picasso inquietava, gli regalò un ritratto di sua figlia Marguerite, che diventò un bersaglio a freccette; ma fu Matisse a mostrare «allo spagnolo» la prima statuetta di arte negra. Poi, dal «Rendez-vous dei poeti», come Picasso chiamava il suo atelier, si passava ai caffè della Butte Montmartre, e c´erano Utrillo, Modì, Braque, Van Dongen, Dupuy. Apollinaire faceva occasionalmente il critico d´arte; e scriveva, per il Salon des Indépendants del 1908: «Van Dongen manifesta brutalmente appetiti formidabili. Ci trasporta presso giganti che risolvono la questione sociale con l´impudicizia» e: «Braque con la madreperla dei suoi quadri ci rende iridescenti».
Quell´anno Apollinaire aveva anche scritto la prefazione alla mostra di Braque; ma trovava incolto il Doganiere Rousseau - il ritratto del generale Cadorna, dirà Ardengo Soffici, che faceva la fame a Parigi dal 1900, e diventò inseparabile con Apollinaire e Picasso; prima della Grande guerra li chiamavano i Tre Moschettieri. A differenza di Apollinaire, Picasso aveva un culto per il Doganiere Rousseau, e volle fare un vasto banchetto in suo onore; era il dicembre 1908, e la cena è rimasta leggendaria perché, per un malinteso, i cibi arrivarono l´indomani, e ci si arrangiò con riso e alici; i vini fecero solo più effetto. Poi Picasso, che trovava Braque «stimolante», decise di trovargli una ragazza; Braque si ritrovò sposato e contento a vita; a Apollinaire Picasso presentò invece Marie Laurencin, la pittrice («Sous le pont Mirabeau coule la Seine / et nos amours»?). Solo nel 1911 ci fu la prima vera mostra cubista, con Léger, Glaizes, Delaunay; più tardi aderì Picabia, quello che in Entr´acte di René Clair balla col barbone nero e il tutù. Nel 1913 Apollinaire celebrerà nei Peintres cubistes gli amici pittori, e il cubismo «squartato» nelle sue reincarnazioni. Coinvolgeva tutti ai martedì della Closeries de Lilas; e nel romanzo postumo La Femme assise racconterà Montparnasse, che attorno a lui diventava un capitolo, tra i più vivaci di tutti i tempi, di storia dell´arte.
A quindici anni, Apollinaire componeva già poesie che facevano corpo coi suoi disegni. Costantemente le sue raccolte alternavano versi e incisioni (di Derain, di Rouveyre). Ma con i Calligrammi il rapporto col disegno cambia natura. Apollinaire riprendeva, al suo solito, una tradizione, i carmina figurata medievali dei suoi studi eruditi; ma il senso è nuovo. L´Occidente scrive con le righe, sciogliendo i concetti e le emozioni in un ordinato scorrere di un prima e un dopo; l´esperienza invece ci assale con mille concomitanti sensazioni. Solo un disegno di parole poteva rendere la simultaneità delle percezioni. Allora Apollinaire cantò la postazione radio in cima alla Tour Eiffel, avvolgendone tratti di emissioni in un´aureola, mescolandovi cablogrammi, sirene, spezzoni di frasi («Jacques era delizioso», «Carrozza!»), il «cré cré» delle scarpe nuove del poeta; l´euforia multipla del moderno esplodeva. Da mezzo italiano, Apollinaire, dal 1911, doveva fare "il ponte" coi futuristi; nel ?13 scrisse per loro un manifesto, e da futurista cancellò dalle bozze della raccolta Alcools la punteggiatura. Ma già nel 1914 cominciava a rifiutare le formule; scriveva «cubisti, orfisti, futuristi eccetera». Partì subito volontario in guerra per far colpo su un´aristocratica, Louise detta Lou, dai seni «come obici» - e anche per avere la sospirata cittadinanza francese; ottenne entrambe, ma quasi ci rimetteva la pelle, colpito al capo nel punto indicato come un bersaglio in un ritratto profetico di de Chirico. Morì invece subito dopo la guerra, di spagnola; sopra il letto del poeta, Ungaretti notò il quadro che Picasso gli aveva regalato di recente, per il matrimonio.
Corriere della Sera 9.11.08
Gli ideali americani. Una nazione sotto l’ala di Dio
di Ernesto Galli Della Loggia
«La vera forza della nostra nazione non scaturisce dalla potenza delle nostre armi o dalla misura delle nostre ricchezze, ma dal richiamo intramontabile dei nostri ideali: democrazia, libertà, opportunità e una speranza indomita ».
E' racchiuso in queste parole, pronunciate da Barack Obama a Chicago, la notte della vittoria, il senso più vero della sua elezione alla presidenza degli Stati Uniti: il «richiamo intramontabile dei nostri ideali». Un'elezione che nella sua essenza non possiede tanto un carattere estrinsecamente politico, non ha tanto a che fare con le categorie di liberal,
di progressista, o quant'altro, ma esprime piuttosto lo straordinario bisogno della comunità americana di sentirsi intimamente animata e guidata da un'alta ispirazione ideale, e insieme la sua capacità e il suo modo peculiarissimi di soddisfare tale bisogno nei momenti di crisi, d'incertezza, quando diviene chiaro che bisogna affrontare nuovi compiti, intraprendere un cammino nuovo.
A ogni nazione capita in tali momenti di fare appello ai motivi e ai valori del proprio stare insieme: di richiamarsi cioè alla propria storia e alle sue ragioni. Le quali ragioni, tuttavia, proprio perché legate alla storia, al tempo e al suo trascorrere, sono anche, inevitabilmente, soggette spesso a consumarsi e a corrompersi. Con il risultato che il richiamarsi ad esse finisce per suonare vuoto e retorico, risultando alla fine del tutto inefficace e magari politicamente controproducente. Nel caso degli Stati Uniti ciò non avviene. Avviene anzi il contrario, avviene cioè che il richiamo al passato si manifesti costantemente come eccezionale risorsa politica, per una ragione che chiunque ha potuto percepire con chiarezza guardando le immagini della notte magica di Chicago. Perché esso non è propriamente un richiamo alla storia, a «una» storia, ma è il richiamo a una fortissima ispirazione originaria di carattere ideale, a quella ispirazione costituita dalla religione, dal Cristianesimo nella sua declinazione biblico-giudaica propria del Protestantesimo. Per riprendere forza l'America non guarda al passato, non guarda indietro, guarda in alto, a Dio. Da lì sente venire «la speranza indomita» e «la chiamata », come ha detto il neopresidente Obama con un termine che sarebbe impossibile ascoltare sulla bocca di qualunque statista europeo.
Da qui, dunque, il tono sempre obbligatoriamente profetico-visionario che in modo del tutto naturale prendono in quel Paese la «grande» politica e il suo discorso pubblico. Da qui anche — cosa ben più importante — la costante spinta alla «grandezza» che riceve la politica, sollecitata, specie nei momenti di crisi, a essere all'altezza dell'originaria ispirazione religiosa che presiede all' esistenza della comunità. Sollecitata altresì a trovare personalità nuove e carismatiche capaci di incarnare e dare voce a quell'ispirazione. Sempre da qui, infine, un altro fenomeno di straordinario rilievo: cioè il fatto che negli Stati Uniti, come è per l'appunto avvenuto con la recentissima vittoria dei democratici, ogni proposta di cambiamento, di riforma, anche quella dalla portata più radicale come l'elezione di un nero alla guida del Paese, è in grado di presentarsi facendo appello all'ideale originario.
E' quindi in grado di presentarsi sempre in una veste rassicurante, in certo senso di conservazione, non divisiva, ma anzi capace di aggregare dietro di sé una vasta maggioranza. Negli Usa ogni rivoluzione si presenta nella sostanza come una restaurazione: è l'adempimento dell'antica «promessa» giudaico-cristiana che si manifesta nella «speranza indomita» nei valori universali della persona umana. Tutto ciò sottolinea la siderale distanza che ci separa, che separa tutti noi europei, di destra, di centro e di sinistra, dal panorama umano e storico che si stende tra i due oceani. All'origine delle nostre comunità politiche non ha potuto esserci alcun covenant,
alcun patto religioso, alcuna promessa di «una città sulla collina»: e forse è proprio per questo che oggi ci tocca assistere allo spettacolo paradossale di tanti portabandiera del laicismo nostrano che piegano le ginocchia, rapiti, davanti al nuovo Mosè d'Oltreatlantico.
Corriere della Sera 9.11.08
«Un uomo che supera destra e sinistra Globale come l'imperatore Adriano»
Tremonti: Obama ha la sorte di concorrere a disegnare un nuovo modello di civiltà
intervista di Mario Sensini
Ministro Tremonti, lei da che parte colloca il nuovo presidente degli Stati Uniti?
«Molto semplicemente la risposta si trova nelle parole di Obama, che si definisce post partisan. Oltre le parti, oltre la destra, oltre la sinistra. Non basato sul passato, proiettato verso il futuro. Ed è giusto così. Non si può entrare nel XXI secolo con le categorie del XX secolo».
Può davvero cambiare il mondo?
«La "cifra politica" prevalente nel nuovo presidente è quella della novità. Non solo estetica e simbolica, l'età e la forza, e non solo dialettica, la perenne sfida americana, ma anche la novità morale e culturale.
È una "cifra" evidente tanto nella forma, quella di un linguaggio religioso ispirato dal principio del destino mani-festo, quanto nella sostanza, oltre il liberismo radicale e l'eclettismo di fine secolo».
Obama salverà l'impero americano?
«Sconfitto il comunismo, l'America ha prima spostato il suo asse portante dall'Atlantico al Pacifico, e poi fatto un patto con l'Asia, un patto basato sulla "divisione prima" del mondo: l'Asia produttrice di merci a basso costo, l'America compratrice a debito. È così che per il default della Russia sovietica, ed in absentia dell'Europa, attraverso la sua nuova proiezione asiatica, l'America ha cominciato a configurarsi come un impero. Liberale e benevolo, seduttivo e democratico. E tuttavia, quasi per sorte ripetitiva, ha rischiato di seguire la stessa parabola dell'impero romano. Roma, conquistato il Mediterraneo, ne fu a sua volta dominata: Graecia capta ferum victorem cepit. Non solo l'America è entrata nella globalizzazione, ma la globalizzazione è entrata in America con l'Asia in testa, avviando un processo progressivo di relativizzazione, confusione, contaminazione tra usi, costumi, valori, simboli. Ed è così, tra fusion e new age, che si arriva all'eclettismo di fine secolo».
Cioè a Bill Clinton?
«Il dilemma dell'America è tra due modelli: Eliogabalo e Adriano. All'impero di Eliogabalo l'America sarebbe arrivata proseguendo con Clinton sulla sua Terza Via. Ciò che è bene per Wall Street è bene per l'America, cuore a sinistra e portafoglio a destra. Non esistono valori assoluti, ma solo valori relativi, se possibile da quotare in Borsa. Gli scandali fanno parte del paesaggio e così via. Al secondo modello, ad Adriano, può corrispondere Obama, che si riporta alla tradizione dei democratici Anni '30, ai valori roosveltiani, e che ha la sorte di concorrere a disegnare un nuovo modello di civiltà. La crisi è globale e la soluzione può essere solo globale, non solo economica, ma politica, basata su un New Deal globale».
Resta il fatto che Obama è stato catapultato alla Casa Bianca soprattutto dalla crisi economica...
«Artefice o vittima del suo successo? Per avere successo, e Obama può averlo, devi capire che cosa è successo ed è per questo che quella intellettuale è la condizione delle condizioni. Prima le analisi sono mancate del tutto, e infatti la crisi è arrivata improvvisa e imprevista. Adesso si stanno formando alcune analisi, ma vedono gli effetti e non le cause della crisi. In questi termini non sono sufficienti. Se vuoi uscire dalla crisi devi risalire alle sue cause. La crisi è globale non tanto perché è estesa su scala globale, dall'America all'Europa, dall'Asia all'America Latina, quanto perché è nella globalizzazione stessa, fatta troppo presto e troppo a debito, che si radica e nella sua meccanica costitutiva».
Non è una crisi finanziaria quella che stiamo vivendo?
«Crisi di questo tipo si sviluppano solo quando si aprono i grandi spazi. È stato così secoli fa con la scoperta "geografica" dell'America, è così ora con la scoperta "economica" dell'Asia. La crisi finanziaria è in realtà essa stessa un "derivato" della globalizzazione, un effetto collaterale degli squilibri che ha portato cambiando troppo di colpo la struttura e la velocità del mondo. Tutto nasce nello scambio tra Asia e America, tra merci e capitali. L'America compra le merci creando debito interno, a partire dai mutui ipotecari, e debito esterno, attirando i capitali asiatici, frutto del commercio con l'America stessa, sui titoli americani. È su questa piattaforma finanziaria, sviluppata fuori da ogni giurisdizione nazionale e dunque fuori da ogni controllo, che si è radicata, con la sua dinamica degenerativa, la moderna "tecnofinanza": dai subprime ai nuovi bond, dagli hedge ed equity fund, ai derivati».
E la crisi si sta avvitando. Cosa dobbiamo aspettarci?
«È come essere dentro un videogame: arriva un mostro, lo batti, e mentre tiri il respiro ne arriva un secondo, diverso. E poi un terzo, ancora più grande, e un quarto. Il primo mostro sono stati i mutui, ed in qualche modo sono stati gestiti. Ora sta arrivando il secondo, le carte di credito, che in America sono carte di debito, e anche questo potrebbe essere gestito. Si sta avvicinando il terzo mostro, i finanziamenti alle imprese, inclusi i corporate bond in scadenza. E sullo sfondo si profila il supermostro, i "derivati"».
Che nessuno sa che forma abbia...
«Una massa abnorme. La catena di "creazione del valore" si basava su di una tecnica speciale e su un principio fondamentale. La tecnica "speciale" era la concessione di credito ad un fondo, la cessione del credito ad un terzo, la sua trasformazione in un prodotto finanziario, la sua moltiplicazione iperbolica, infine il suo collocamento sul "mercato", esteso dalle banche alle famiglie. Il principio fondamentale era quello della catena di Sant'Antonio, modernamente configurato sul presupposto dello sviluppo universale perpetuo».
Lei ha detto che il denaro non crea denaro. Secondo D'Alema citando Marx...
«A braccio non si fanno citazioni. Quella frase la usa in negativo anche Gordon Gekko, l'eroe di Wall Street. Ragionando come D'Alema si dovrebbe comunque concludere che, a sua volta, Marx ha copiato San Tommaso D'Aquino: Nummus non parit nummos ».
Torniamo a Sant'Antonio.
«Meglio. Come nelle catene di Sant'Antonio, la meccanica si è bloccata quando qualcuno ha smesso di spedire le cartoline. Quando la sfiducia, causata dall'eccesso di fiducia, ha bloccato la catena. Chi sapeva, e proprio perché sapeva, ha cominciato a uscire, a vendere al meglio, e a organizzarsi il soggiorno alle Cayman in attesa dell'Fbi. Meno folcloristicamente, sono i banchieri che hanno cominciato a non fidarsi più dei banchieri, bloccando la circolazione del sangue nel "corpus" della finanza».
È possibile rianimarlo?
«Tutto dipende dai tempi e dai metodi della politica, a partire dalla politica che sarà fatta dal nuovo presidente. Molto dipende dai corsi azionari, e non per caso sono le Borse gli indicatori più sensibili della crisi. Se il livello di caduta si ferma, tutto si tiene, seppure con enormi sforzi data la concentrazione sequenziale. Un conto è uno shock ogni tre anni, un conto è uno ogni tre mesi, in sequenza parossistica».
Come spiega l'ottimismo del presidente del Consiglio?
«Berlusconi conosce benissimo la situazione. Tuttavia dice che non ha mai visto un pessimista che ha successo, ed è difficile dargli torto. Va oltre l'ostacolo, traguardando con speranza il futuro».
Molto dipenderà da Obama, ma quali sono le sue opzioni di gestione della crisi?
«Ha davanti due scenari. Uno ordinario, come è stato finora: colossali swap che caricano i debiti privati sul debito pubblico e girano le perdite dal presente alle generazioni future. Oppure Obama può essere alla fine costretto dalla realtà ad andare verso uno scenario straordinario, a non ascoltare i templari della finanza fallimentare, ad applicare pensiero laterale. Staccando la finanza buona da quella cattiva, neutralizzando la massa dei derivati. Ispirando questa politica alla logica positiva dello shabbat, l'anno della remissione dei crediti e dei debiti, l'anno simbolico della ripartenza ».
A Washington si incontreranno G8 e G20. La prima pietra del nuovo ordine?
«Sta prendendo forma una nuova architettura di governo del mondo basata su principi simili a quelli del New Deal. L'idea del primato della politica sull'economia, l'idea del mercato finanziario che non si autoregola. Puoi anche scrivere un codice della strada di mille articoli, ma non funziona se non hai i semafori, i vigili e le multe. Per questo si devono vietare i paradisi legali, gli strumenti della tecnofinanza. È per questo che si deve utilizzare il Fondo Monetario anche come struttura di controllo. E tuttavia regolare la finanza non basta. Serve soprattutto un nuovo equilibrio nelle clausole commerciali, sociali e ambientali. Nel primo G8 del 2001 avevo proposto fair trade. Nei discorsi di Obama, non di altri, lei trova la parola fair trade».
Corriere della Sera 9.11.08
Pubblico impiego, ecco perché la Cgil non ha firmato
di Carlo Podda
Caro Direttore, A differenza del ministro Brunetta — che ne ha sostenuto la tesi, scrivendone in proposito sul Corriere della Sera di qualche giorno fa — non sono così sicuro che il protocollo sul pubblico impiego firmato il 30 ottobre solo da una parte delle organizzazioni sindacali sia un successo per i lavoratori, e men che mai che esso possa costituire un esempio da imitare, per le relazioni sindacali del nostro Paese come per la nostra economia.
Intanto, voglio ricordare che il protocollo non è stato sottoscritto da ben otto organizzazioni presenti al tavolo. Tra quelle che non l'hanno firmato vi sono tutti i sindacati della dirigenza, organizzazioni queste ultime non certo note per il loro estremismo o per la loro pregiudiziale ostilità al governo Berlusconi. Inoltre, le cifre messe a disposizione dal governo (art.3 ddl Finanziaria) valgono 5,071 miliardi di euro, e non 6 miliardi, come invece dice il ministro.
Vedremo con quale efficacia tale protocollo consentirà di rinnovare gli accordi per tutto il lavoro pubblico. Se i numeri non sono un'opinione, l'incremento a regime, stabilendo un semplice rapporto tra le cifre stanziate e la spesa per redditi nella Pubblica amministrazione del 2007 (164,645 miliardi, fonte Istat e Rgs), è del 3,08%. Se poi il ministro pensa di tramutare in «incrementi» la restituzione di quanto tagliato a gennaio, allora davvero siamo oltre la legittima propaganda che è consentita ad ogni parte in causa. Proverò in ogni caso a spiegare quanto incerta sia anche la sola restituzione del maltolto, a proposito di assenza di bizantinismi ed accordi poco chiari.
Qualcuno può infatti spiegarci come bisogna scrivere un contratto che prevede incrementi per la contrattazione integrativa in quantità non definite e con la speranza che la Corte dei Conti lo certifichi? E ancora, come si fa a tramutare la restituzione dei tagli, fondata su risparmi di gestione tutti da trovare e da certificare, in un articolo contrattuale esigibile? E, a proposito, come mai — a differenza dei precedenti accordi di Palazzo Chigi — questo protocollo non porta la firma del ministro dell'Economia o di un suo delegato? Forse perché non c'è la copertura finanziaria?
Infine, un semplice confronto per i ventilati incrementi economici: nei due bienni precedenti, a fronte di un'inflazione al 2%, i lavoratori pubblici hanno avuto incrementi di 103 e 101 euro. Oggi, con un'inflazione pressoché doppia, si offrono 70 euro (ma la nostra stima è di soli 68!). L'indennità di vacanza contrattuale è, come più volte ricordato dal ministro Brunetta e per colpa del governo Prodi (contro il quale, lo scorso 27 ottobre 2007, facemmo infatti uno sciopero generale e, a quell'epoca, chissà perché unitario), di 8 euro lordi mensili. Il che, per 13 mensilità, equivale a 104 euro, e non a 165, come fantasiosamente si sostiene.
Si può dire che in questa fase ci si deve accontentare, anche se schiere di economisti sostengono che, nella crisi attuale, l'unica manovra anticiclica efficace sarebbe quella di sostenere la domanda attraverso l'aumento dei salari, ma allora a un sindacato confederale e solidale la richiesta del sacrificio andava accompagnata da un'offerta che impedisse il licenziamento — avvenuto a luglio — di ben 57.000 lavoratori precari, cercando di stabilizzarli tramite concorso. Si è voluto invece aprire un conflitto, sociale e sindacale, che costerà caro, al Paese: scioperi e tempi incerti per la stipula del Ccnl. Un cattivo risultato, dunque, e un esempio tutt'altro che da imitare.
Infine, avanzo una sommessa proposta: se si vogliono evitare — oggi e per il futuro — inutili conflitti, il governo e il Parlamento, a fronte della precarietà dell'unità sindacale, emanino una legge sulla rappresentanza che sancisca il diritto dei lavoratori a votare su ogni piattaforma e su ogni accordo. In tal modo il giudizio vero e autentico dei lavoratori sarà evidente. E, si spera, incontestabile.
Segretario Generale FP-CGIL Nazionale