domenica 9 novembre 2008

il manifesto 8.11.08
La memoria come risorsa antifascista
di Enzo Collotti

È proprio vero che i fatti della seconda guerra mondiale non meritano che l'oblio? E' questa la domanda che si è tentati di porsi di fronte alle tante manifestazioni di insofferenza che accompagnano la riesumazione di episodi editi o inediti relativi a questo evento epocale con i suoi caratteri di scontro frontale nella lotta per la civiltà, nel momento in cui invece il fronte della memoria sembra ricompattarsi nell'appagamento della riconciliazione nel ricordo della fine della prima guerra mondiale. Il ricordo della guerra più lontana non sembra soffrire le lacerazioni che la guerra più vicina ancora evoca. Le prese di posizione ambigue degli esponenti dell'attuale maggioranza rendono lo stato della situazione particolarmente confuso. Approssimandosi il settantesimo anniversario delle leggi razziste del fascismo e il giorno della memoria possiamo prevedere che nella caterva di dichiarazioni cui andiamo incontro queste contraddizioni raggiungeranno l'apice dell'esasperazione.
Dal mese di aprile in poi non è passato quasi un giorno che non si siano succedute prese di distanza da atti della politica fascista (precipuamente la persecuzione degli ebrei) e contemporaneamente affermazioni e gesti di riabilitazione parziale o totale del regime del ventennio e della sua continuazione nella R.S.I. Ne viene messa in evidenza da una parte l'incerta identità democratica di una parte rilevante del ceto politico del centro-destra, ma dall'altra anche l'indissociabile legame che esso ha con le sue radici e quindi la sua difficoltà a disfarsene, posto che lo voglia. Per chi si è nutrito sino all'altro ieri dei simboli e dei teoremi di un aristocratico della razza come Evola è impresa ardua riciclarsi sul terreno dell'antirazzismo e della democrazia, come è dimostrato dalla quotidianità politico-culturale.
Si potrà dire che sviluppando argomentazioni del genere continuiamo a condurre una battaglia di retroguardia. Siamo consapevoli dei rischi che corriamo, ma è pur sempre meglio condurre una battaglia di retroguardia che non affrontare nessuna battaglia. Siamo anche consapevoli che di fronte alla potenza della tirannia mediatica che è, almeno da noi, lo strumento formatore e livellatore delle coscienze e spesso l'unica fonte d'informazione per un largo pubblico, le nostre parole sono povera cosa. Ma sono convinto che spetti ai superstiti della mia generazione coltivare il filo della memoria che tiene unite esperienze così lontane alla sensibilità delle generazioni più giovani. Certo, per un corrispondente della Faz che da sempre fa il diffamatore della resistenza e dell'antifascismo, sarebbe molto più comodo un Presidente della Repubblica che si militasse a ricordare in maniera neutra le vittime della guerra senza emettere giudizi sulla natura delle forze in campo e senza quindi rischiare di attualizzare confronti di valutazioni, anche se dovrebbe sapere che oggi anche a casa sua sulla guerra nazista non esistono più i tabù di 20 o 30 anni fa.
Il discorso su una identità europea oggi è certamente un discorso complesso e non suscettibile di un unico sbocco, perché rispecchia le divisioni che l'Europa ha attraversato negli ultimi decenni e lacerazioni politico-culturali che persistono tuttora. Ma buona parte dell'Europa, dall'Atlantico ai territorio dell'ex Unione sovietica ha conosciuto l'esperienza del Nuovo ordine nazista e fascista. Della formazione di una identità europea fa parte anche questa esperienza, lo vogliano o no ammettere tutti gli odierni stati soggetti del panorama europeo e di questa esperienza fanno parte integrante, perché hanno accomunato le popolazioni europee sotto un unico destino di breve durata ma di radicale intensità, fenomeni come la Shoah ma anche i colossali sconvolgimenti demografici e sociali provocati da immani spostamenti forzati di popolazione. Oggi si tende, e giustamente, a studiare gli spostamenti avvenuti a seguito della guerra, ma come dimenticare le decine di milioni di uomini e donne sradicate forzatamente dalle proprie case in nome del Nuovo ordine europeo? Al di là della shoah, i deportati per il lavoro forzato o per rappresaglia per la partecipazione alla resistenza («Notte e nebbia») o per gli scioperi operai contro l'economia di guerra nazista, cui si devono aggiungere i milioni di militari polacchi, francesi, sovietici, italiani e di altre nazionalità catturati e trattati al di fuori di ogni tutela prevista per i prigionieri di guerra, sono stati tra i testimoni viventi della tragedia che ha travolto e devastato l'Europa. Oggi non c'è paese d'Europa in cui non siano presenti i superstiti di questa immensa schiera di deportati, vittime di questo prodotto della guerra totale, non certo sconosciuto al primo conflitto mondiale ma diventato aspetto centrale del secondo conflitto.
E' possibile dimenticare tutto questo? Il quesito è meramente retorico, se solo si considera la massa enorme di individui, uomini e donne, che la deportazione ha messo in movimento in Europa. Se pensiamo alla difficoltà con la quale nei primi anni del dopoguerra chi era sopravvissuto alla deportazione riusciva a farsi ascoltare e quindi alla reticenza di raccontare esperienze cui spesso non si voleva prestare orecchio, l'esplosione di racconti dagli anni '80 in poi fa concludere che ci troviamo invece in presenza di una ipertrofia di memorie, cui non coincide necessariamente un adeguato indice di memoria collettiva. Tuttavia i germi diffusi nelle diverse società nazionali dalla consapevolezza degli ex deportati di avere vissuto un tratto irripetibile di percorso comune ne ha fatto dei buoni europei e messaggi insostituibili di un avvenire di pace. Da noi Primo Levi è stato non l'unico ma forse l'esempio più alto di questo tipo umano; altrove, da Semprun a Langbein, la voce degli ex deportati ha anticipato aspirazioni di pace contro gli interessi imperialistici delle potenze.
Che senso ha ricordare oggi tutto questo? In un momento di grandi incertezze politico-culturali, di opacità di pensiero e di prospettive, l'elaborazione della memoria è una risorsa. L'apprendere dal passato non può essere mai un'operazione passiva, non può essere l'attesa della ripetizione di circostanze che non ritorneranno mai come prima, ma è uno strumento prezioso per affinare la sensibilità e l'intelligenza a sapere cogliere anche nel nuovo (o nell'apparente nuovo) ciò che di vecchio si ripresenta sotto spoglie inedite.

l’Unità 9.11.08
Homeless schedati e senza diritti. Reato di clandestinità e 18 mesi per l’identificazione
Le ronde legalizzate. Sindaci sceriffi e pseudo poliziotti a occuparsi di ordine pubblico
Governo a muso duro con poveri e immigrati
di Luigi Manconi e Federico Resta


Persino il matrimonio è subordinato al permesso di soggiorno
Via tutti i diritti

Sarà in aula da martedì a Palazzo Madama il disegno di legge sula sicurezza. Ronde istituzionali, reato di clandestinità per gli immigrati e schedatura dei clochard. Così si tagliano i diritti dei più poveri.
Il complesso delle misure disegna una strategia e un'ideologia affidate a un sistema di intimidazione ed esclusione. Questi i punti più significativi.
La schedatura dei clochard
Si istituisce il registro delle persone che non hanno fissa dimora, rimettendone a un mero decreto del Ministro dell'interno la disciplina di funzionamento. La norma contrasta con il principio di eguaglianza, assoggettando a una sorta di schedatura persone per il solo fatto di essere «senza fissa dimora». Non si specificano poi le finalità che dovrebbero legittimare questo trattamento discriminatorio, gravemente lesivo della dignità personale.
Le ronde e il presidio
Gli enti locali potranno avvalersi «della collaborazione di associazioni tra cittadini» al fine, tra l'altro, di «cooperare nello svolgimento dell'attività di presidio del territorio»; finalità, questa, prevalente,tanto da comparire nel «titolo» della norma. Ora, coinvolgere privati nell'esercizio di una delle funzioni principali della sovranità dello Stato contrasta con il monopolio statuale della forza. Né si prevede espressamente il carattere pacifico (non in armi) di tali associazioni. Se quindi esse perseguissero anche indirettamente scopi politici (il che non è escluso dalla norma), incorrerebbero anche nel divieto di cui all'art. 18 Cost..
Il permesso a punti
Si subordina il rilascio (e il rinnovo) del permesso di soggiorno alla stipula di un «accordo di integrazione» e si prevede l'espulsione immediata nel caso di perdita dei «crediti», senza neppure la deroga per asilanti e rifugiati. Contrasta con il diritto internazionale subordinare uno status soggettivo (la presenza in uno Stato) alla valutazione (necessariamente discrezionale) del grado di integrazione della persona. Giudizio complesso, che l'autorità amministrativa fatalmente esprimerebbe con criteri arbitrari: tanto più che non sono previsti dalla legge parametri certi né i fatti che determinano la perdita dei crediti (si rinvia a un regolamento, in contrasto con la riserva di legge di cui all'art. 10 Cost.).
L'immigrazione irregolare è un reato
Benché «derubricato» da delitto (com'era in origine) a contravvenzione, questo reato resta inaccettabile. Non si comprende infatti l'esigenza di incriminare l'immigrazione irregolare quando (e per fortuna) la sola misura applicabile resta quella dell'espulsione, la cui esecuzione impedisce la prosecuzione dell'azione penale, salvo riattivarla in caso di reingresso. Inoltre - fatto gravissimo- non si prevedono cause di non punibilità o di sospensione del processo per le vittime di tratta, o per i titolari di un permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale. Ancora: questo reato sarebbe difficilmente compatibile con lo jus migrandi sancito quale libertà fondamentale (e non mero diritto alla fuga) dal diritto internazionale. Infine, la norma sarebbe allo stato inapplicabile, poichè le disposizioni del d.lgs. sul giudice di pace richiamate ai fini del procedimento… non esistono.
Nei centri identificazione per 18 mesi
È prevista la detenzione nei centri fino a 18 mesi in caso di difficoltà nell'accertamento dell'identità e della nazionalità dello straniero, o nell'acquisizione dei documenti per il viaggio. La direttiva Ce migration policy, invocata dal Governo italiano a sostegno della misura, prevede che il termine massimo di 18 mesi valga per la sola resistenza all'identificazione, il che è diverso dalla mera difficoltà nell'accertamento. Inoltre, la direttiva sancisce il carattere di extrema ratio del trattenimento, prevedendo la liberazione dello straniero qualora non esistano verosimili possibilità di esecuzione dell'espulsione. Correttivi, questi, assenti dal disegno di legge, nonostante la Commissione de Mistura abbia dimostrato che i tempi per l'identificazione dello straniero non superano mai i 60 giorni. Perché allora legittimare una simile estensione della detenzione amministrativa, per un tempo pari a quello di pene previste per reati anche di una certa gravità, invece di promuovere gli accordi di riammissione che, essi soli, rendono effettive le espulsioni? E come giustificare tale privazione della libertà motivata solo da circostanze estranee alla condotta individuale, quali sono l'indisponibilità dei documenti di viaggio o l'impossibilità di identificare lo straniero?
Quelli sinora esposti sono i contenuti principali del disegno di legge. Altre norme, altrettanto illiberali, prevedono l'obbligatorietà della custodia cautelare anche per i reati informatici, nonostante la Consulta e Strasburgo non abbiano censurato tale disciplina solo perché sinora limitata ai reati di mafia; e prevedono, poi, il rimpatrio dei minori comunitari che esercitano la prostituzione, senza assicurare loro possibilità di accoglienza e protezione in Italia. Si è infine subordinata la possibilità di contrarre matrimonio- diritto fondamentale e non legato alla cittadinanza - al possesso del permesso di soggiorno.

l’Unità 9.11.08
L’Onda: vogliono sfiancarci ma noi non ci fermiamo, siamo uniti
di Tommaso Galgani


Il movimento si parla, discute. Elaborato il documento per la partecipazione alla manifestazione del 14 novembre, promossa dal sindacato per la difesa dell’università. Voci dall’Onda che non si ferma.
Seduta di autocoscienza per l'Onda studentesca, ieri alla prima assemblea nazionale del movimento universitario a Firenze, nel plesso didattico occupato di viale Morgagni. Alla fine è stato approvato un documento unitario che sarà esaminato dagli atenei in protesta e che invita tutti a partecipare in «modo unitario e autonomo» alla manifestazione nazionale di venerdì a Roma, in cui gli studenti saranno assieme a sindacati e lavoratori dell’università per dire no alla 133.
Venerdì e sabato invece alla Sapienza ci sarà l'assemblea nazionale; il documento ribadisce: «Ci saremo tutti, il movimento è unito». Intanto ieri c'è stato l'assaggio: 300 studenti universitari sono venuti a Firenze da ogni parte d'Italia. Presenti rappresentanti degli atenei toscani, torinesi, campani, abruzzesi, la Statale di Milano, Genova, Bologna, Palermo, Bari, Lecce, Ancona, Ferrara, Brescia, Pavia.
Mancavano esponenti di Tor Vergata e della Sapienza di Roma, ma c’era una delegazione del sindacato studentesco di Roma Tre venuta ad osservare i lavori dell'assemblea: gli "atenei romani in mobilitazione" avevano annunciato di non partecipare perché critici verso le modalità di organizzazione dell'appuntamento. «Non capiamo le ragioni di questo incontro. Non vorremmo che qualcuno stesse pensando di costruire un'assemblea di una parte del movimento, lontano dallo spirito unitario che ha generato l'Onda», avevano detto. Il movimento inizia a spaccarsi? Francesco Epifani, leader degli Studenti di sinistra toscani e fra gli organizzatori della riunione fiorentina, risponde che «con Roma c'è stato un fraintendimento ma non una rottura. In viale Morgagni è stato un incontro per iniziare a dare forma al movimento. Ricordo che a Firenze, al Polo scientifico di Sesto, il 6 ottobre c'è stata la prima occupazione».
Voci dall’assemblea, dove qualcuno teme che la protesta inizi a sentire stanchezza in mancanza di proposte: Marco e Salvo, dell'università di Palermo, lanciano un appello per saldare la protesta studentesca con quella dei lavoratori: «Non ci si dimentichi dei metalmeccanici e dipendenti pubblici che il 12 dicembre scenderanno in piazza». Per Emanuele di Milano «la lotta sarà lunga, anche se il governo spera di sfiancarci. Non abbiamo bandiere, ma la mobilitazione non è bipartisan. In piazza Navona c'è chi le ha date e chi le ha prese. Facciamo dimettere la Gelmini». Molti interventi spiegano: «Il movimento è apolitico, pacifista, antifascista». Ma altri, come Francesca Stefano di Siena, ribadiscono: «Servono proposte politiche per dare respiro». Rocco, di Pisa, rivendica l'occupazione dei binari della stazione di venerdì che ha bloccato i treni toscani, mentre da qualcuno non mancano curiose idee di protesta: «Venerdì ogni studente porti una gomma, facciamone un cumulo e diciamo al governo: "Ora cancellateci tutti"». E alla fine si vocifera anche che i collettivi antagonisti vogliano fare addirittura un partito.

Repubblica Roma 9.11.08
L’Onda rilancia: venerdì sarà "mareggiata"
di Tea Maisto e Laura Mari


La Sapienza diserta l´assemblea di Firenze, è polemica. Democrito occupato solo il sabato

L´Onda prepara la grande mareggiata. Dopo i cortei di venerdì e gli scontri con le forze dell´ordine davanti alla stazione Ostiense, sono ripresi i preparativi per il mega-corteo nazionale degli universitari che venerdì prossimo vedrà confluire a Roma migliaia di studenti provenienti dagli atenei italiani in mobilitazione. Una manifestazione a cui sabato e domenica seguirà, sempre alla Sapienza, l´assemblea nazionale dell´Onda che produrrà il documento della "controriforma Gelmini". «Ieri abbiamo disertato l´assemblea nazionale di Firenze - hanno fatto sapere in una nota i leader della Sapienza - perché non siamo stati contattati e non abbiamo capito di cosa si discuteva». E a chi parla di rotture nel movimento dell´Onda, gli studenti toscani rispondono: «C´è stato solo un fraintendimento: il 14, il 15 e il 16 novembre saremo nella Capitale per la grande protesta e la mega-assemblea».
Le mobilitazioni dunque non accennano a diminuire e, anzi, rafforzano la rete studentesca formata da universitari, liceali e insegnanti delle elementari. «La nostra è una battaglia per la cultura» annunciano una trentina di studenti dell´istituto Democrito di Casalpalocco che ieri, dopo l´orario scolastico, ha occupato la scuola, ma solo per il weeekend. «Riporteremo la protesta nelle scuole e bloccheremo la didattica» hanno annunciato gli studenti in un´assemblea all´istituto Galilei e a cui hanno partecipato delegazioni di diversi istituti romani tra cui Tasso, Virgilio, Cavour, De Chirico, Albertelli, Mamiani.
Si infittisce, intanto, anche il calendario degli appuntamenti culturali dell´Onda. Oggi dalle ore 10 la Sapienza aprirà le porte ai bambini e gli studenti delle facoltà occupate accoglieranno genitori e bimbi con esperimenti e convegni. Dalle 11 alle 13, invece, gli alunni del liceo Montale parteciperanno alle lezioni in piazza a Villa Pamphili, mentre martedì sera Ascanio Celestini sarà alla facoltà di Lettere di Tor Vergata. Nello stesso giorno, ma alle ore 11, il premio Nobel Dario Fo e Franca Rame saranno alla facoltà di Valle Giulia. È stata posticipata al 18 novembre, invece, la festa dell´Onda alla Sapienza.

«Un'efficace politica dell'ordine pubblico deve basarsi su un vasto consenso popolare, e il consenso si forma sulla paura, non verso le forze di polizia, ma verso i manifestanti».
Ne è convinto il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga, che, per questo, in una lettera aperta dà dei «consigli», sul filo del paradosso, al Capo della Polizia Antonio Manganelli.
Per il senatore a vita è stato «un grave errore strategico» reagire con «cariche d'alleggerimento, usando anche gli sfollagente e ferendo qualche manifestante» ai cortei che si sono fatti più minacciosi.
«A mio avviso - scrive Cossiga - dato che un lancio di bottiglie o insulti contro le forze di polizia, l'occupazione di stazioni ferroviarie, qualche automobile bruciata non è cosa poi tanto grave, il mio consiglio è che in attesa di tempi peggiori, che certamente verranno, Lei disponga che al minimo cenno di violenze di questo tipo, le forze di polizia si ritirino, in modo che qualche commerciante, qualche proprietario di automobili, e anche qualche passante, meglio se donna, vecchio o bambino, siano danneggiati e cresca nella gente comune la paura dei manifestanti e con la paura l'odio verso di essi e i loro mandanti o chi da qualche loft o da qualche redazione, ad esempio quella de L'Unità, li sorregge».
«Solo dopo che la situazione si aggravasse e colonne di studenti con militanti dei centri sociali, al canto di “Bella ciao”, devastassero strade, negozi, infrastrutture pubbliche e- scrive ancora Cossiga- aggredissero forze di polizia in tenuta ordinaria e non antisommossa e ferissero qualcuno di loro, farei intervenire massicciamente e pesantemente le forze dell'ordine contro i manifestanti, ma senza arrestare nessuno».
L’inquietante uscita del presidente emerito della Repubblica e senatore a vita fa seguito ad una intervista di qualche settimana fa in cui diceva più o meno le stesse cose.

l’Unità 9.11.08
Sinistra Democratica mette in soffitta il listone Arcobaleno
di Osvaldo Sabato


Il segretario nazionale di Sinistra Democratica Claudio Fava per le prossime europee cancella il listone della sinistra sconfitto alle ultime politiche. Mussi: «Lavoriamo all’alleanza con il Partito Democratico»
Era già svanito dopo le ultime elezioni politiche. Ma ora in vista delle prossime europee a mettere la parola fine sul listone Arcobaleno ci ha pensato il segretario di Sinistra Democratica Claudio Fava. «Vogliamo ricostruire un’idea di sinistra di cui questo Paese ha estremo bisogno» spiega l’europarlamentare a margine della prima Assemblea nazionale degli amministratori locali di Sd. «Ma non vogliamo ricostruire un altro listone Arcobaleno» aggiunge Fava. Insomma a Sinistra Democratica non interessa «una lista che metta insieme tutte le parti e i soggetti politici per le Europee». Il partito di Fava e Fabio Mussi non è disposto a ripetere l’esperienza politica dello scorso aprile perché aggiunge il segretario «crediamo che la sinistra si debba assumere la responsabilità di guardare in faccia quella sconfitta». Come dire che non è più il caso di ripeterla. «Se rispondiamo ricostruendo una lista che sia somma di sigle e di gruppi dirigenti, Sd dice no». Piuttosto «abbiamo sempre detto che noi siamo pronti a ragionare con i democratici in condizioni di assoluta autonomia, se ci sono le circostanze si lavorerà insieme al Pd con delle condizioni precise» commenta Fava. Quali? Nessun cenno di intenti verso l'Udc «perché si rimetterebbe insieme uno scipito minestrone di poche idee e molta confusione». E a chi immagina Sd sempre all’opposizione, il segretario sottolinea che il suo partito dovrà porsi anche «con responsabilità il tema del governo di questo Paese». All’assemblea degli amministratori di Sd c’era anche il sindaco di Firenze e presidente dell’Anci, Leonardo Domenici. Naturalmente non è mancato un suo cenno sugli scenari delle alleanze «la mia opinione è che bisognerebbe lavorare perché nelle realtà locali questo processo che avviene a sinistra si incontri, su basi programmatiche chiare e condivise, anche con le scelte del Partito democratico». I rapporti con Rifondazione, dopo la vittoria di Ferrero al congresso nazionale a scapito di Vendola? Per il presidente del consiglio nazionale di Sd, Fabio Mussi «allo stato dei fatti tutte le forze del centrosinistra sono in un vicolo cieco». Messa da parte l’autosufficienza del Pd «da solo non risalirà dal 30% fino ad avere la maggioranza» in aggiunta alla frammentazione della sinistra, per Mussi «se non cambia qualcosa, non ci saranno prospettive per nessuno, noi lavoriamo alla creazione di una forza di sinistra e all'alleanza con il Pd» conclude l’ex ministro del governo Prodi.

il manifesto 8.11.08
Prc,Vendola a Ferrero: «Tregua per le europee»
«Tregua per le europee» Il segretario: non scindono? bene e allora che fanno con Sd?
di Micaela Bongi


Non è l'annuncio della scissione. Neanche un passo spedito in quella direzione. Anzi, presentando con il leader di Sd Claudio Fava la nuova associazione «Per la sinistra», il leader della minoranza Nichi Vendola propone al segretario di Rifondazione, Paolo Ferrero, una tregua. Un «gesto di maturità politica», lo chiama, per «evitare l'ultimo episodio di guerra», per «non farci del male». Quello della scissione, sostiene il presidente della Puglia, è «un gossip alimentato non da me. Io parlavo di rilancio unitario». Ciò non toglie che seppure tempi e modi della rottura non sono fissati, anche perché dentro la minoranza non mancano i frenatori, l'ipotesi resta. Ma un passo alla volta.
Il leader dell'area Rifondazione per la sinistra per ora rilancia l'idea del «cartello unitario» alle europee, che eviti la competizione a sinistra, spiega Vendola. Alla presentazione del documento «Costruire la sinistra, il tempo è adesso», ci sono anche i verdi Paolo Cento e Loredana De Petris. A firmarlo, del Pdci c'è Umberto Guidoni. E poi Moni Ovadia, che illustra il progetto con Maria Luisa Boccia, e Margherita Hack, Mario Tronti, Luciano Gallino, Parisi. Un'iniziativa «senza padroni di casa e ospiti», viene detto, «orizzontale», lontana dall'esperienza tutta di ceto politico dell'Arcobaleno.
La proposta di cartello per le europee è invece il tentativo di tenere soggetto unitario e liste su piani diversi, per evitare lo scontro a Strasburgo tra la Rifondazione di Ferrero e i vendoliani, rimandando a dopo il voto la riorganizzazione della sinistra. Insomma, per affrontare la scissione dopo la chiamata alle urne di giugno. In questo modo la minoranza del Prc non dovrebbe scegliere prima di quell'appuntamento se restare nel partito, creando una frattura con Sinistra democratica che comunque presenterebbe la sua lista, o presentare una lista insieme al movimento di Fava e Mussi, andando a una rischioso scontro con il Prc. Oltretutto, argomentano tra i vendoliani, è difficile sostenere il rilancio unitario, l'allargamento, partendo da una scissione.
La soluzione del cartello dovrebbe servire a convincere chi coltiva progetti diversi dal soggetto unitario di Fava e Vendola: ognuno manterrebbe la propria identità. Ma a rispondere subito picche, dalla maggioranza del Prc, è il responsabile organizzazione Claudio Grassi: «Non capisco cosa sia un cartello, quattro simboli tutti insieme diventerebbe una cosa illeggibile. Ai compagni della minoranza dico: noi abbiamo accettato l'Arcobaleno, scelta che si è rivelata fallimentare, questa volta andiamo con il simbolo del Prc, anche perché si tratta della proposta che ha vinto il congresso, e vediamo quanto consenso ottiene. Dopo tireremo le somme». Un congresso straordinario, come propone Vendola? «Non sta né in cielo né in terra».
Il segretario Ferrero, che di europee vuole parlare solo dal prossimo anno, accoglie positivamente la proposta di tregua ma per sottolineare che qualcosa non torna: «La tregua la pratico unilateralmente dal giorno in cui è finito il congresso, ma la minoranza ha rifiutato la gestione unitaria. Non posso che felicitarmi del fatto che Vendola escluda finalmente la scissione, anche se non capisco in che relazione stanno le sue dichiarazioni con quelle di Fava, che annuncia un nuovo soggetto politico 'alleato naturale del Pd'». Perché il coordinatore di Sd sostiene che «il Pd è il nostro interlocutore principale e, stabilendo un'attenta piattaforma programmatica, nostro alleato naturale».
Dal canto suo, Ferrero deve comunque tenere conto della chiusura dei grassiani che spingono verso il Pdci. E comunque fin d'ora nella minoranza non viene vista certo come un'apertura al cartello - tutt'altro - la decisione, annunciata ieri dal segretario, di convocare per il 13 e 14 dicembre il Comitato politico del Prc. Proprio per il 13 è fissato il debutto dell'associazione «Per la sinistra» con un'assemblea a Roma. Di fonte al doppio impegno gli esponenti della minoranza che sono nel Cpn saranno costretti a scegliere. Un antipasto di quel che accadrà se, come appare più che probabile, Ferrero dirà no al cartello. Ma a questa concreta eventualità i vendoliani non sono ancora attrezzati.

l’Unità 9.11.08
Dall’Inferno al Paradiso nel «Laborintus» di Luciano Berio
di Edoardo Sanguineti


In casa non ho mezzi per ascoltare i dischi. Ho invece molte cassette, però ho poco tempo per sentirle. Devo dire che nel tempo ho raccolto una tale quantità di musica che per sentirla tutta dovrei vivere quanto ha vissuto Matusalemme. Preferisco vedere i dvd. Può servire un aneddoto che mi è capitato di recente. Ho incontrato un signore, mi pare in Sicilia, che mi ha raccontato di avere moltissime cassette registrate da lui. Ha cose anche molto preziose. Gli ho detto che se le tiene così in casa sua allora dovrebbe convertirle in compact disc o altrimenti farle girare. E cosa mi ha risposto, lo sventurato? Di non averne il tempo e che quelle registrazioni periranno con lui. Ecco, bisognerebbe avere il tempo per poter ascoltare.
Ho ascoltato musica l’ultima volta una settimana fa per un convegno a Siena su Luciano Berio. Avevo lavorato spesso con lui. Ho fatto ascoltare frammenti di alcune composizioni raccontando come erano nate. In particolare ho parlato di quattro sue opere con testi da me scritti appositamente per Luciano. In ordine di tempo, ho iniziato da un’opera del '63, anzi più correttamente direi una messinscena, dal titolo Passaggio. Andò su andò alla Piccola Scala. Poi ho discusso di un’opera del '65 che si chiama Laborintus II: era un omaggio a Dante composto per la radio francese. Il terzo lavoro si intitola A-Ronne, che vuol dire dall'a alla z e risale al 1974. Il quarto pezzo invece è parte di un’opera postuma dal titolo Stanze che Luciano ha composto su testi di sei autori, tra cui il sottoscritto, e che è eseguita nel 2003 a Parigi, dov’era stata commissionata.
Se dovessi dire quale di queste opere scegliere, allora indicherei Laborintus II. Perché? Perché mi pare il coronamento della sua ricerca fino a quel momento: è un’opera chiave, di svolta, apre la strada a quanto aveva composto fino ad allora, è una sorta di enciclopedia del suo discorso. Ed è un’opera fondamentale del secondo ‘900, in qualche modo lo riassume poiché ambisce a essere un'esplorazione globale del mondo dei suoni in tutte le sue dimensioni. Certo, riconosco che si tratta di una sorta di utopia: contiene l’improvvisazione come il madrigalismo, l’urlo come la melodia più squisita, è un’enciclopedia delle sonorità possibili. Non a caso Laborintus II era nata nel ‘65 come omaggio a Dante: infatti uno degli elementi tenuti presente da Berio come da me nella preparazione testuale era la volontà enciclopedica del poeta di abbracciare tutto il mondo dall’Inferno al Paradiso.

Repubblica 9.11.08
L'immaginario di Guillaume
di Massimo Novelli


Esattamente novant´anni fa, il 9 novembre 1918, il grande poeta moriva di influenza spagnola. Adesso un libro pubblicato in Francia, ma stampato da un editore torinese, raccoglie per la prima volta disegni e dipinti dell´autore dei "Calligrammes" Un album surreale, popolato da Arlecchini e buffi personaggi, che aiuta a capire l´opera di un innovatore che ha segnato il Novecento

Novant´anni fa, il 9 novembre del 1918, due giorni prima dell´armistizio della Germania con le potenze alleate, Guillaume Apollinaire moriva a Parigi di influenza spagnola. Se ne andava ad appena trentotto anni un grande poeta, esponente di spicco dei movimenti d´avanguardia, che era già stato gravemente ferito al fronte nel corso della guerra mondiale e che negli ultimi momenti della sua vita aveva detto a un medico: «Salvatemi, dottore! Io voglio vivere, voglio vivere. Ho tante cose da fare».
Tra le «choses à faire» c´erano di sicuro le poesie, i racconti, i drammi da scrivere, ma anche il disegno e la pittura. Fin da bambino avevano stimolato la sua fantasia e il suo talento, accompagnando e compenetrando l´attività letteraria. In particolare nel 1916, durante la convalescenza in un ospedale parigino, l´autore di Alcools e di Calligrammes si era dedicato con intensità all´acquerello inseguendo, tra le figure di Arlecchini e di Pulcinella, i nudi femminili, i ricordi d´Algeria e le immagini di soldati, quel suo ideale che lo aveva portato a dire come la pittura fosse «propriamente un linguaggio luminoso». Amico e fautore dei maggiori artisti dell´epoca (da Giorgio de Chirico a Picasso, da Chagall a Delaunay, Dufy, Duchamp, Gontcharova, Larionov, Marie Laurencin, Picabia), critico e collezionista, nel 1914 aveva lanciato a sua volta la sfida: «Et moi aussi je suis peintre!» («E ora anch´io sono pittore!»).
A differenza di quella letteraria, universalmente nota, a lungo l´opera pittorica di Apollinaire non ha avuto un adeguato riconoscimento da parte degli studiosi. A colmare il vuoto, adesso, è il libro Le dessins de Guillaume Apollinaire, appena pubblicato in Francia da Buchet/Chastel nella collana "Le Cahiers Dessinés" diretta da Frédéric Pajak, e stampato dalla casa editrice torinese Graphot. Curato da Claude Debon e Peter Read, il volume presenta per la prima volta oltre trecento tra disegni, lavori grafici, e dipinti di Apollinaire. Costituiscono, affermano i curatori, «un documento indispensabile per gli amanti del poeta, e meraviglioso per tutti i lettori curiosi». Il fantastico, il surreale, il grottesco, l´erotismo, l´amore per uomini e animali, affollano con ricchezza lussureggiante questi lavori. Soprattutto quelli del periodo estremo della sua esistenza, poi, sembrano anticipare le avanguardie degli anni Cinquanta e Sessanta. Come rileva Debon, «bisognerà attendere il movimento internazionale della poesia concreta, visuale, spaziale negli anni Cinquanta, e la sua fioritura nel colore alla fine del Ventesimo secolo, per avere la vera misura di queste innovazioni».
Apollinaire amava i pittori, da loro era riamato. Nel suo libro L´ami des peintres, lo scrittore francese Francis Carco rammenta che, quando parlava Guillaume, «i pittori l´ascoltavano perché li "liberava", li rivelava alle loro aspirazioni segrete e, sempre pieno di gaiezza, di malizia, di spirito, li persuadeva a non dubitare di nulla». Lui stesso aveva sempre disegnato, dai tempi della scuola. Era appassionato, scrive Read, «da tutto ciò che coglieva nell´arte visuale, sia antica sia moderna, popolare o di alta cultura, e diventò un critico d´arte perspicace, combattivo e dallo spirito aperto».
Dai primi quaderni dell´adolescenza alle poesie sue o di altri autori impreziosite e commentate da disegni, a mano a mano il suo tratto si affina. Passa attraverso le caricature, i ritratti, i paesaggi, approda agli interventi grafici che scandiscono la preparazione de Le Bestiaire. Sono disegni che, spiega Debon, «a più di un titolo servono a penetrare meglio la sua opera. Più immediati delle parole, esprimono in modo diverso, ma più direttamente, gli affetti che sono in gioco nella scrittura» del rinnovatore della poesia francese. Nel manoscritto-bozzetto di Calligrammes del 1917, che in apparenza pare avere il senso di una prova d´autore, Apollinare si spinge più in là, sovrapponendo poesie vecchie e nuove, disegni. Per Debon, «questa maniera di procedere dona a quella versione dei poemi un aspetto sorprendente e unico».
Apollinaire, del resto, ha imboccato con decisione la strada della pittura con gli acquerelli del 1916, realizzati anche come terapia per la lunga degenza ospedaliera. In lavori del genere, come ne Les Fraises au Mexique, annota Read, riluce e si compendia la «totalità dell´opera grafica e pittorica di Apollinaire, simultaneamente radicata in un paese lontano, collegata all´arte contemporanea, volta verso l´avvenire». Formate da «pulsioni profonde, modellate attraverso una cultura visuale espansiva ed eteroclita, le anatomie immaginarie del poeta-disegnatore, le sue creature ibride, le sue folle di visi contratti e onirici, prefigurano già l´avventura surrealista».
Un´avventura che non potrà vivere. Morirà come in un suo verso, quello sulle bandiere che sono «i ricchi vestiti dei poveri», scritto nel 1909. «Nove anni dopo - dirà Carco - altre bandiere, quelle dell´Armistizio, palpitavano alle finestre delle case di Parigi, il giorno stesso che Guillaume Apollinaire fu seppellito».

Repubblica Roma 9.11.08
Con Picasso & soci nella Parigi di inizio secolo
di Daria Galateria


S avinio incontrò Guillaume Apollinaire che correva; andava alla Prefettura, spiegò, a far firmare il visto di soggiorno. Savinio fu commosso da quella confidenza «rarissima»; Apollinaire soffriva delle sue origini «nebulose». Era nato a Roma, da un Flugi d´Aspermont - figlio di un maresciallo di campo di Ferdinando II delle Due Sicilie - che era però rimasto nell´ombra. Spettava comunque a Guillaume Apollinaire de Kostrowitzky (famiglia polacca, ma il nonno materno era cameriere d´onore di cappa e spada in Vaticano) fare gli spaghetti per gli amici, nell´abbaino al 202 di boulevard Saint-Germain; tra gli incunaboli vegliati dagli occhi a mandorla di idoli congolesi, i primi oggetti cubisti e frutti tropicali «mammelluti», il poeta intanto creava il Novecento. Li chiamarono «gli anni Apollinaire», perché, agli inizi del nuovo secolo, fu lui il "cemento" di tutte le linee di forza artistiche del moderno. Fu lui a portare Braque al "Bateau Lavoir", lo studio di Picasso a Montmartre; come tutti, Braque rimase interdetto davanti alle Demoiselles d´Avignon. Non si dava pace dell´angolo piazzato in mezzo al viso delle due donne sulla destra; «è un naso», assicurava Picasso. Matisse, che Picasso inquietava, gli regalò un ritratto di sua figlia Marguerite, che diventò un bersaglio a freccette; ma fu Matisse a mostrare «allo spagnolo» la prima statuetta di arte negra. Poi, dal «Rendez-vous dei poeti», come Picasso chiamava il suo atelier, si passava ai caffè della Butte Montmartre, e c´erano Utrillo, Modì, Braque, Van Dongen, Dupuy. Apollinaire faceva occasionalmente il critico d´arte; e scriveva, per il Salon des Indépendants del 1908: «Van Dongen manifesta brutalmente appetiti formidabili. Ci trasporta presso giganti che risolvono la questione sociale con l´impudicizia» e: «Braque con la madreperla dei suoi quadri ci rende iridescenti».
Quell´anno Apollinaire aveva anche scritto la prefazione alla mostra di Braque; ma trovava incolto il Doganiere Rousseau - il ritratto del generale Cadorna, dirà Ardengo Soffici, che faceva la fame a Parigi dal 1900, e diventò inseparabile con Apollinaire e Picasso; prima della Grande guerra li chiamavano i Tre Moschettieri. A differenza di Apollinaire, Picasso aveva un culto per il Doganiere Rousseau, e volle fare un vasto banchetto in suo onore; era il dicembre 1908, e la cena è rimasta leggendaria perché, per un malinteso, i cibi arrivarono l´indomani, e ci si arrangiò con riso e alici; i vini fecero solo più effetto. Poi Picasso, che trovava Braque «stimolante», decise di trovargli una ragazza; Braque si ritrovò sposato e contento a vita; a Apollinaire Picasso presentò invece Marie Laurencin, la pittrice («Sous le pont Mirabeau coule la Seine / et nos amours»?). Solo nel 1911 ci fu la prima vera mostra cubista, con Léger, Glaizes, Delaunay; più tardi aderì Picabia, quello che in Entr´acte di René Clair balla col barbone nero e il tutù. Nel 1913 Apollinaire celebrerà nei Peintres cubistes gli amici pittori, e il cubismo «squartato» nelle sue reincarnazioni. Coinvolgeva tutti ai martedì della Closeries de Lilas; e nel romanzo postumo La Femme assise racconterà Montparnasse, che attorno a lui diventava un capitolo, tra i più vivaci di tutti i tempi, di storia dell´arte.
A quindici anni, Apollinaire componeva già poesie che facevano corpo coi suoi disegni. Costantemente le sue raccolte alternavano versi e incisioni (di Derain, di Rouveyre). Ma con i Calligrammi il rapporto col disegno cambia natura. Apollinaire riprendeva, al suo solito, una tradizione, i carmina figurata medievali dei suoi studi eruditi; ma il senso è nuovo. L´Occidente scrive con le righe, sciogliendo i concetti e le emozioni in un ordinato scorrere di un prima e un dopo; l´esperienza invece ci assale con mille concomitanti sensazioni. Solo un disegno di parole poteva rendere la simultaneità delle percezioni. Allora Apollinaire cantò la postazione radio in cima alla Tour Eiffel, avvolgendone tratti di emissioni in un´aureola, mescolandovi cablogrammi, sirene, spezzoni di frasi («Jacques era delizioso», «Carrozza!»), il «cré cré» delle scarpe nuove del poeta; l´euforia multipla del moderno esplodeva. Da mezzo italiano, Apollinaire, dal 1911, doveva fare "il ponte" coi futuristi; nel ?13 scrisse per loro un manifesto, e da futurista cancellò dalle bozze della raccolta Alcools la punteggiatura. Ma già nel 1914 cominciava a rifiutare le formule; scriveva «cubisti, orfisti, futuristi eccetera». Partì subito volontario in guerra per far colpo su un´aristocratica, Louise detta Lou, dai seni «come obici» - e anche per avere la sospirata cittadinanza francese; ottenne entrambe, ma quasi ci rimetteva la pelle, colpito al capo nel punto indicato come un bersaglio in un ritratto profetico di de Chirico. Morì invece subito dopo la guerra, di spagnola; sopra il letto del poeta, Ungaretti notò il quadro che Picasso gli aveva regalato di recente, per il matrimonio.

Corriere della Sera 9.11.08
Gli ideali americani. Una nazione sotto l’ala di Dio
di Ernesto Galli Della Loggia


«La vera forza della nostra nazione non scaturisce dalla potenza delle nostre armi o dalla misura delle nostre ricchezze, ma dal richiamo intramontabile dei nostri ideali: democrazia, libertà, opportunità e una speranza indomita ».
E' racchiuso in queste parole, pronunciate da Barack Obama a Chicago, la notte della vittoria, il senso più vero della sua elezione alla presidenza degli Stati Uniti: il «richiamo intramontabile dei nostri ideali». Un'elezione che nella sua essenza non possiede tanto un carattere estrinsecamente politico, non ha tanto a che fare con le categorie di liberal,
di progressista, o quant'altro, ma esprime piuttosto lo straordinario bisogno della comunità americana di sentirsi intimamente animata e guidata da un'alta ispirazione ideale, e insieme la sua capacità e il suo modo peculiarissimi di soddisfare tale bisogno nei momenti di crisi, d'incertezza, quando diviene chiaro che bisogna affrontare nuovi compiti, intraprendere un cammino nuovo.
A ogni nazione capita in tali momenti di fare appello ai motivi e ai valori del proprio stare insieme: di richiamarsi cioè alla propria storia e alle sue ragioni. Le quali ragioni, tuttavia, proprio perché legate alla storia, al tempo e al suo trascorrere, sono anche, inevitabilmente, soggette spesso a consumarsi e a corrompersi. Con il risultato che il richiamarsi ad esse finisce per suonare vuoto e retorico, risultando alla fine del tutto inefficace e magari politicamente controproducente. Nel caso degli Stati Uniti ciò non avviene. Avviene anzi il contrario, avviene cioè che il richiamo al passato si manifesti costantemente come eccezionale risorsa politica, per una ragione che chiunque ha potuto percepire con chiarezza guardando le immagini della notte magica di Chicago. Perché esso non è propriamente un richiamo alla storia, a «una» storia, ma è il richiamo a una fortissima ispirazione originaria di carattere ideale, a quella ispirazione costituita dalla religione, dal Cristianesimo nella sua declinazione biblico-giudaica propria del Protestantesimo. Per riprendere forza l'America non guarda al passato, non guarda indietro, guarda in alto, a Dio. Da lì sente venire «la speranza indomita» e «la chiamata », come ha detto il neopresidente Obama con un termine che sarebbe impossibile ascoltare sulla bocca di qualunque statista europeo.
Da qui, dunque, il tono sempre obbligatoriamente profetico-visionario che in modo del tutto naturale prendono in quel Paese la «grande» politica e il suo discorso pubblico. Da qui anche — cosa ben più importante — la costante spinta alla «grandezza» che riceve la politica, sollecitata, specie nei momenti di crisi, a essere all'altezza dell'originaria ispirazione religiosa che presiede all' esistenza della comunità. Sollecitata altresì a trovare personalità nuove e carismatiche capaci di incarnare e dare voce a quell'ispirazione. Sempre da qui, infine, un altro fenomeno di straordinario rilievo: cioè il fatto che negli Stati Uniti, come è per l'appunto avvenuto con la recentissima vittoria dei democratici, ogni proposta di cambiamento, di riforma, anche quella dalla portata più radicale come l'elezione di un nero alla guida del Paese, è in grado di presentarsi facendo appello all'ideale originario.
E' quindi in grado di presentarsi sempre in una veste rassicurante, in certo senso di conservazione, non divisiva, ma anzi capace di aggregare dietro di sé una vasta maggioranza. Negli Usa ogni rivoluzione si presenta nella sostanza come una restaurazione: è l'adempimento dell'antica «promessa» giudaico-cristiana che si manifesta nella «speranza indomita» nei valori universali della persona umana. Tutto ciò sottolinea la siderale distanza che ci separa, che separa tutti noi europei, di destra, di centro e di sinistra, dal panorama umano e storico che si stende tra i due oceani. All'origine delle nostre comunità politiche non ha potuto esserci alcun covenant,
alcun patto religioso, alcuna promessa di «una città sulla collina»: e forse è proprio per questo che oggi ci tocca assistere allo spettacolo paradossale di tanti portabandiera del laicismo nostrano che piegano le ginocchia, rapiti, davanti al nuovo Mosè d'Oltreatlantico.

Corriere della Sera 9.11.08
«Un uomo che supera destra e sinistra Globale come l'imperatore Adriano»
Tremonti: Obama ha la sorte di concorrere a disegnare un nuovo modello di civiltà
intervista di Mario Sensini


Ministro Tremonti, lei da che parte colloca il nuovo presidente degli Stati Uniti?
«Molto semplicemente la risposta si trova nelle parole di Obama, che si definisce post partisan. Oltre le parti, oltre la destra, oltre la sinistra. Non basato sul passato, proiettato verso il futuro. Ed è giusto così. Non si può entrare nel XXI secolo con le categorie del XX secolo».
Può davvero cambiare il mondo?
«La "cifra politica" prevalente nel nuovo presidente è quella della novità. Non solo estetica e simbolica, l'età e la forza, e non solo dialettica, la perenne sfida americana, ma anche la novità morale e culturale.
È una "cifra" evidente tanto nella forma, quella di un linguaggio religioso ispirato dal principio del destino mani-festo, quanto nella sostanza, oltre il liberismo radicale e l'eclettismo di fine secolo».
Obama salverà l'impero americano?
«Sconfitto il comunismo, l'America ha prima spostato il suo asse portante dall'Atlantico al Pacifico, e poi fatto un patto con l'Asia, un patto basato sulla "divisione prima" del mondo: l'Asia produttrice di merci a basso costo, l'America compratrice a debito. È così che per il default della Russia sovietica, ed in absentia dell'Europa, attraverso la sua nuova proiezione asiatica, l'America ha cominciato a configurarsi come un impero. Liberale e benevolo, seduttivo e democratico. E tuttavia, quasi per sorte ripetitiva, ha rischiato di seguire la stessa parabola dell'impero romano. Roma, conquistato il Mediterraneo, ne fu a sua volta dominata: Graecia capta ferum victorem cepit. Non solo l'America è entrata nella globalizzazione, ma la globalizzazione è entrata in America con l'Asia in testa, avviando un processo progressivo di relativizzazione, confusione, contaminazione tra usi, costumi, valori, simboli. Ed è così, tra fusion e new age, che si arriva all'eclettismo di fine secolo».
Cioè a Bill Clinton?
«Il dilemma dell'America è tra due modelli: Eliogabalo e Adriano. All'impero di Eliogabalo l'America sarebbe arrivata proseguendo con Clinton sulla sua Terza Via. Ciò che è bene per Wall Street è bene per l'America, cuore a sinistra e portafoglio a destra. Non esistono valori assoluti, ma solo valori relativi, se possibile da quotare in Borsa. Gli scandali fanno parte del paesaggio e così via. Al secondo modello, ad Adriano, può corrispondere Obama, che si riporta alla tradizione dei democratici Anni '30, ai valori roosveltiani, e che ha la sorte di concorrere a disegnare un nuovo modello di civiltà. La crisi è globale e la soluzione può essere solo globale, non solo economica, ma politica, basata su un New Deal globale».
Resta il fatto che Obama è stato catapultato alla Casa Bianca soprattutto dalla crisi economica...
«Artefice o vittima del suo successo? Per avere successo, e Obama può averlo, devi capire che cosa è successo ed è per questo che quella intellettuale è la condizione delle condizioni. Prima le analisi sono mancate del tutto, e infatti la crisi è arrivata improvvisa e imprevista. Adesso si stanno formando alcune analisi, ma vedono gli effetti e non le cause della crisi. In questi termini non sono sufficienti. Se vuoi uscire dalla crisi devi risalire alle sue cause. La crisi è globale non tanto perché è estesa su scala globale, dall'America all'Europa, dall'Asia all'America Latina, quanto perché è nella globalizzazione stessa, fatta troppo presto e troppo a debito, che si radica e nella sua meccanica costitutiva».
Non è una crisi finanziaria quella che stiamo vivendo?
«Crisi di questo tipo si sviluppano solo quando si aprono i grandi spazi. È stato così secoli fa con la scoperta "geografica" dell'America, è così ora con la scoperta "economica" dell'Asia. La crisi finanziaria è in realtà essa stessa un "derivato" della globalizzazione, un effetto collaterale degli squilibri che ha portato cambiando troppo di colpo la struttura e la velocità del mondo. Tutto nasce nello scambio tra Asia e America, tra merci e capitali. L'America compra le merci creando debito interno, a partire dai mutui ipotecari, e debito esterno, attirando i capitali asiatici, frutto del commercio con l'America stessa, sui titoli americani. È su questa piattaforma finanziaria, sviluppata fuori da ogni giurisdizione nazionale e dunque fuori da ogni controllo, che si è radicata, con la sua dinamica degenerativa, la moderna "tecnofinanza": dai subprime ai nuovi bond, dagli hedge ed equity fund, ai derivati».
E la crisi si sta avvitando. Cosa dobbiamo aspettarci?
«È come essere dentro un videogame: arriva un mostro, lo batti, e mentre tiri il respiro ne arriva un secondo, diverso. E poi un terzo, ancora più grande, e un quarto. Il primo mostro sono stati i mutui, ed in qualche modo sono stati gestiti. Ora sta arrivando il secondo, le carte di credito, che in America sono carte di debito, e anche questo potrebbe essere gestito. Si sta avvicinando il terzo mostro, i finanziamenti alle imprese, inclusi i corporate bond in scadenza. E sullo sfondo si profila il supermostro, i "derivati"».
Che nessuno sa che forma abbia...
«Una massa abnorme. La catena di "creazione del valore" si basava su di una tecnica speciale e su un principio fondamentale. La tecnica "speciale" era la concessione di credito ad un fondo, la cessione del credito ad un terzo, la sua trasformazione in un prodotto finanziario, la sua moltiplicazione iperbolica, infine il suo collocamento sul "mercato", esteso dalle banche alle famiglie. Il principio fondamentale era quello della catena di Sant'Antonio, modernamente configurato sul presupposto dello sviluppo universale perpetuo».
Lei ha detto che il denaro non crea denaro. Secondo D'Alema citando Marx...
«A braccio non si fanno citazioni. Quella frase la usa in negativo anche Gordon Gekko, l'eroe di Wall Street. Ragionando come D'Alema si dovrebbe comunque concludere che, a sua volta, Marx ha copiato San Tommaso D'Aquino: Nummus non parit nummos ».
Torniamo a Sant'Antonio.
«Meglio. Come nelle catene di Sant'Antonio, la meccanica si è bloccata quando qualcuno ha smesso di spedire le cartoline. Quando la sfiducia, causata dall'eccesso di fiducia, ha bloccato la catena. Chi sapeva, e proprio perché sapeva, ha cominciato a uscire, a vendere al meglio, e a organizzarsi il soggiorno alle Cayman in attesa dell'Fbi. Meno folcloristicamente, sono i banchieri che hanno cominciato a non fidarsi più dei banchieri, bloccando la circolazione del sangue nel "corpus" della finanza».
È possibile rianimarlo?
«Tutto dipende dai tempi e dai metodi della politica, a partire dalla politica che sarà fatta dal nuovo presidente. Molto dipende dai corsi azionari, e non per caso sono le Borse gli indicatori più sensibili della crisi. Se il livello di caduta si ferma, tutto si tiene, seppure con enormi sforzi data la concentrazione sequenziale. Un conto è uno shock ogni tre anni, un conto è uno ogni tre mesi, in sequenza parossistica».
Come spiega l'ottimismo del presidente del Consiglio?
«Berlusconi conosce benissimo la situazione. Tuttavia dice che non ha mai visto un pessimista che ha successo, ed è difficile dargli torto. Va oltre l'ostacolo, traguardando con speranza il futuro».
Molto dipenderà da Obama, ma quali sono le sue opzioni di gestione della crisi?
«Ha davanti due scenari. Uno ordinario, come è stato finora: colossali swap che caricano i debiti privati sul debito pubblico e girano le perdite dal presente alle generazioni future. Oppure Obama può essere alla fine costretto dalla realtà ad andare verso uno scenario straordinario, a non ascoltare i templari della finanza fallimentare, ad applicare pensiero laterale. Staccando la finanza buona da quella cattiva, neutralizzando la massa dei derivati. Ispirando questa politica alla logica positiva dello shabbat, l'anno della remissione dei crediti e dei debiti, l'anno simbolico della ripartenza ».
A Washington si incontreranno G8 e G20. La prima pietra del nuovo ordine?
«Sta prendendo forma una nuova architettura di governo del mondo basata su principi simili a quelli del New Deal. L'idea del primato della politica sull'economia, l'idea del mercato finanziario che non si autoregola. Puoi anche scrivere un codice della strada di mille articoli, ma non funziona se non hai i semafori, i vigili e le multe. Per questo si devono vietare i paradisi legali, gli strumenti della tecnofinanza. È per questo che si deve utilizzare il Fondo Monetario anche come struttura di controllo. E tuttavia regolare la finanza non basta. Serve soprattutto un nuovo equilibrio nelle clausole commerciali, sociali e ambientali. Nel primo G8 del 2001 avevo proposto fair trade. Nei discorsi di Obama, non di altri, lei trova la parola fair trade».

Corriere della Sera 9.11.08
Pubblico impiego, ecco perché la Cgil non ha firmato
di Carlo Podda


Caro Direttore, A differenza del ministro Brunetta — che ne ha sostenuto la tesi, scrivendone in proposito sul Corriere della Sera di qualche giorno fa — non sono così sicuro che il protocollo sul pubblico impiego firmato il 30 ottobre solo da una parte delle organizzazioni sindacali sia un successo per i lavoratori, e men che mai che esso possa costituire un esempio da imitare, per le relazioni sindacali del nostro Paese come per la nostra economia.
Intanto, voglio ricordare che il protocollo non è stato sottoscritto da ben otto organizzazioni presenti al tavolo. Tra quelle che non l'hanno firmato vi sono tutti i sindacati della dirigenza, organizzazioni queste ultime non certo note per il loro estremismo o per la loro pregiudiziale ostilità al governo Berlusconi. Inoltre, le cifre messe a disposizione dal governo (art.3 ddl Finanziaria) valgono 5,071 miliardi di euro, e non 6 miliardi, come invece dice il ministro.
Vedremo con quale efficacia tale protocollo consentirà di rinnovare gli accordi per tutto il lavoro pubblico. Se i numeri non sono un'opinione, l'incremento a regime, stabilendo un semplice rapporto tra le cifre stanziate e la spesa per redditi nella Pubblica amministrazione del 2007 (164,645 miliardi, fonte Istat e Rgs), è del 3,08%. Se poi il ministro pensa di tramutare in «incrementi» la restituzione di quanto tagliato a gennaio, allora davvero siamo oltre la legittima propaganda che è consentita ad ogni parte in causa. Proverò in ogni caso a spiegare quanto incerta sia anche la sola restituzione del maltolto, a proposito di assenza di bizantinismi ed accordi poco chiari.
Qualcuno può infatti spiegarci come bisogna scrivere un contratto che prevede incrementi per la contrattazione integrativa in quantità non definite e con la speranza che la Corte dei Conti lo certifichi? E ancora, come si fa a tramutare la restituzione dei tagli, fondata su risparmi di gestione tutti da trovare e da certificare, in un articolo contrattuale esigibile? E, a proposito, come mai — a differenza dei precedenti accordi di Palazzo Chigi — questo protocollo non porta la firma del ministro dell'Economia o di un suo delegato? Forse perché non c'è la copertura finanziaria?
Infine, un semplice confronto per i ventilati incrementi economici: nei due bienni precedenti, a fronte di un'inflazione al 2%, i lavoratori pubblici hanno avuto incrementi di 103 e 101 euro. Oggi, con un'inflazione pressoché doppia, si offrono 70 euro (ma la nostra stima è di soli 68!). L'indennità di vacanza contrattuale è, come più volte ricordato dal ministro Brunetta e per colpa del governo Prodi (contro il quale, lo scorso 27 ottobre 2007, facemmo infatti uno sciopero generale e, a quell'epoca, chissà perché unitario), di 8 euro lordi mensili. Il che, per 13 mensilità, equivale a 104 euro, e non a 165, come fantasiosamente si sostiene.
Si può dire che in questa fase ci si deve accontentare, anche se schiere di economisti sostengono che, nella crisi attuale, l'unica manovra anticiclica efficace sarebbe quella di sostenere la domanda attraverso l'aumento dei salari, ma allora a un sindacato confederale e solidale la richiesta del sacrificio andava accompagnata da un'offerta che impedisse il licenziamento — avvenuto a luglio — di ben 57.000 lavoratori precari, cercando di stabilizzarli tramite concorso. Si è voluto invece aprire un conflitto, sociale e sindacale, che costerà caro, al Paese: scioperi e tempi incerti per la stipula del Ccnl. Un cattivo risultato, dunque, e un esempio tutt'altro che da imitare.
Infine, avanzo una sommessa proposta: se si vogliono evitare — oggi e per il futuro — inutili conflitti, il governo e il Parlamento, a fronte della precarietà dell'unità sindacale, emanino una legge sulla rappresentanza che sancisca il diritto dei lavoratori a votare su ogni piattaforma e su ogni accordo. In tal modo il giudizio vero e autentico dei lavoratori sarà evidente. E, si spera, incontestabile.
Segretario Generale FP-CGIL Nazionale

sabato 8 novembre 2008

l'Unità 8.11.08
L’Onda non si ferma
a Roma la polizia carica
di Maristella Iervasi


L’Onda non si arresta, la Gelmini con il suo «pacchetto» sugli Atenei non è riuscita a fermare le proteste. Universitari e liceali, come da copione, ieri hanno paralizzato tutte le città d’Italia: da Torino a Cagliari.
A Roma la manifestazione più grossa (25mila persone), finita con gli scontri tra poliziotti e studenti alla stazione Piramide per l’occupazione simbolica dei binari ferroviari. Una mossa improvvisa, che ha spiazzato la Digos, e intesa a sollecitare Trenitalia ad organizzare treni speciali per lo sciopero del 14 novembre. Ma non appena un gruppo di universitari è riuscito a bypassare il cordone delle forze dell’ordine e scavalacare i tornelli, è partita una gragnuola di manganellate. Un ragazzo di Scienze Politiche della Sapienza è finito in ospedale per i «colpi» sulla testa; Laura Mari, cronista de «La Repubblica» ha un braccio gonfio e gli occhiali spaccati. Ma per la questura «la polizia non ha fatto alcuna carica», i manifestanti «hanno lanciato bottiglie e altri oggetti verso gli agenti che hanno respinto il corteo. Numerosi gli agenti feriti».
Chi si è trovato sotto i manganelli racconta una storia diversa. Chiara G., 21 anni, fuorisede di Taranto e studentessa di Filosofia: «Volevamo pacificamente provare ad occupare i binari della stazione, ma quando ci siamo avvicinati ci hanno aggrediti. Mi hanno buttata a terra, in un angolo - racconta la ragazza - e avevo un poliziotto addosso che mi manganellava. Mi diceva: “vattene str..”». Chiara è rientrata alla «Sapienza» a bordo del camioncino dei manifestanti e ha una busta col ghiaccio sulla testa. Sul parabrezza l’immagine taroccata di Papa Ratzinger con i baffetti di Hitler. Accanto alla giovane contusa c’è un altro ragazzo dolorante. Per l’Onda parla Giorgio F., del collettivo di Fisica: «La prima carica della polizia è partita a freddo. Non è vero che siamo stati noi a lanciare oggetti e che loro si sono dovuti difendere. Noi abbiamo avanzato verso i poliziotti con le mani alzate...». In realtà un errore gli studenti l’hanno commesso: hanno confuso la stazione Piramide con l’ Ostiense.
«Vergogna! Fascisti! Rispettiamo solo i pompieri» è stato il coro che poi ha accompagnato i manifestanti alla Sapienza, dove i ragazzi si sono riuniti in assemblea per preparare l’autoriforma sull’Università che verrà votata da tutti i collettivi degli Atenei d’Italia nella due giorni di assemblea generale il 15 e il 16.
Comunque i tre cortei hanno tenuto sotto scacco Roma dalle 10 alle 17. In piazza della Repubblica, non lontana da Termini, un gruppetto di 3 ragazzi e una ragazza di Blocco studentesco, con caschi, svastiche e croci celtiche, aveva cercato di infiltrarsi tra i liceali che aspettavano gli universitari. Giorgio, dall’alto del camioncino musicale del collettivo, ha subito urlato: «Fuori!». E la Digos li ha fatti allontanare. In via Cavour Sara e Daniela di Psicologia hanno «incollato» mutande di carte sulle vetrine delle banche, altri hanno lanciato uova contro i bancomat contro il governo «che taglia i fondi agli Atenei per darli ai banchieri. Ma noi la crisi non la paghiamo». E così fino a piazza Venezia, dove dal Campidoglio sono confluiti nella manifestazione gli studenti di Roma Tre. Prossima tappa, ministero dell’Istruzione. E invece l’Onda blocca Ponte Garibaldi e lungotevere . Poi l’ennesima beffa: la polizia indossa caschi e scudi e si schiera sui gradoni del ministero della Gelmini, l’Onda grida: «Il ministero non ci interessa, blocchiamo la città». E via verso Piramide.


l'Unità Firenze 8.11.08
Contro il governo traffico bloccato dagli studenti a Firenze, Siena e Pisa
di Galgani e Giglioli


Binari occupati ieri alla stazione centrale di Pisa, mentre a Firenze in 60 si sono incatenati alla ringhiera del Battistero e a Siena un gruppo di ricercatori precari ha lavato i vetri delle auto nei pressi di Porta Romana.
È oggi a Firenze il grande giorno dell’assemblea nazionale del movimento studentesco di protesta contro le politiche del governo su scuola e università: studenti medi e universitari da tutta Italia arriveranno alle 14 al Polo di viale Morgagni. Intanto, la giornata di ieri è stata ancora contraddistinta da iniziative di protesta.
FIRENZE
Gruppi di studenti hanno manifestato in varie zone di Firenze, improvvisando volantinaggi e mini cortei, a tratti bloccando il traffico: a Novoli, in viale Forlanini, in piazza Leopoldo, in viale Redi e a Porta al Prato (viali intasati fino al tardo pomeriggio). Il corteo è stato seguito dalla Digos, che vaglierà i comportamenti dei partecipanti. Alcuni hanno occupato simbolicamente un autobus, ma c’è anche chi si è incatenato alla ringhiera intorno al Battistero: erano almeno in sessanta delle scuole superiori. «Voi incatenate la scuola pubblica, noi ci incateniamo al Battistero» lo slogan dei manifestanti. Dopo è stato preso di mira Berlusconi per la sua gaffe su Obama, gli studenti hanno raggiunto piazza della Signoria urlando: «Non siamo abbronzati». A Empoli hanno sfilato 2mila studenti ieri in una manifestazione anti Gelmini. C’erano anche alcuni rappresentanti del Csa Intifada. Mentre ieri sera al Polo di Sesto si è svolta la lezione di fisica di Umberto Guidoni.
SIENA
Un gruppo di ricercatori precari e di studenti dell’Università di Siena ieri ha protestato contro la 133 fermando il traffico a Porta Romana dove hanno lavato i vetri alle auto. Poi, studenti e ricercatori hanno raggiunto in corteo (in tutto quasi mille persone) Porta Camollia dove hanno bloccato il traffico.
PISA
Ancora una giornata di mobilitazione a Pisa, contro la legge 133. Binari bloccati alla stazione centrale ieri mattina: occupati da circa trecento studenti, medi e universitari, che hanno preso parte al corteo da piazza XX settembre. La protesta alla stazione (presenti polizia e carabinieri) è scattata intorno alle 10,45: i ragazzi se ne sono andati poco dopo mezzogiorno, con un bilancio di 5 binari occupati per un’ora e mezzo, qualche fumogeno acceso all’esterno dello snodo ferroviario e diversi ritardi e cancellazionidelle corse dei treni (anche su Firenze), senza però nessun problema di ordine pubblico (anche se per la questura ci sono state intemperanze). L’occupazione puntava a ottenere un colloquio con i responsabili delle Ferrovie sulla trasferta a Roma per la manifestazione del 14 novembre: niente di fatto ieri, ma gli studenti avrebbero ottenuto un incontro a Firenze. Il Polo Carmignani è stato liberato ieri, dopo un mese di occupazione iniziata il giorno della prima grande assemblea. Poi, un centinaio di studenti universitari dell’Assemblea del Polo ha occupato parte del Palazzo Matteucci: una forma di protesta che «non intralcerà la didattica» ma durerà una settimana. Non si fermano le lezioni in piazza.

Repubblica 8.11.08
Gli studenti riscoprono Mirafiori "Non si vedevano da trent´anni"
Gli universitari davanti ai cancelli della fabbrica torinese. Incontro con gli operai
Solo i più anziani si fermano a parlare, i giovani scivolano muti sotto la pioggia
di Curzio Maltese


TORINO - «Guarda, gli studenti! Trent´anni che non ne vedevo uno ai cancelli di Mirafiori. Dove siete stati, ragazzi?». Patrizia, operaia al reparto cambi, esce dal turno del mattino e va incontro al drappello di studenti col megafono come andasse incontro ai suoi vent´anni. È passata tanta storia davanti al cancello 20 di Mirafiori ed è trascorsa la sua vita. «Cinquantaquattro anni, trentaquattro in Fiat. Questo, se Dio vuole, è l´ultimo». Sono tanti gli operai a fermarsi, con sorpresa, al volantinaggio degli universitari torinesi. Ma sono soltanto gli anziani. I giovani, un centinaio, si stringono nei giubbotti e scivolano muti sotto la pioggia, verso il tram, casa, letto. Da lontano sembrava una scena d´altri tempi. Il fiorire di ombrelli all´uscita del turno, gli studenti col megafono, il solito cielo livido, l´eterno odore di ferrovia, le facce stanche e quelle incazzate. Da vicino si capisce che sono passati trent´anni e una rivoluzione, anche se non quella immaginata. Allora gli studenti e gli operai appartenevano a mondi lontani, ma si parlavano. Gli studenti erano travestiti da rivoluzionari, però figli di borghesi, con accento del nord. Gli operai erano vestiti normale, parlavano dialetto meridionale fra di loro, venivano da altre storie, altri luoghi, altre famiglie. Due popoli.
Oggi sembrano tutti uguali, almeno i giovani. Hanno gli stessi piercing e tatuaggi, bluse e calzoni a vita bassa. Frequentano probabilmente gli stessi locali sul lungo Po, conoscono la stessa musica, usano un vocabolario comune. Ci sono più meridionali fra gli studenti che fra gli operai. Quelli già laureati, i ricercatori, guadagnano 1000 euro al mese, contro i 1400 di uno specializzato della meccanica, straordinari compresi. Fra gli studenti c´è qualche figlio di operaio e fra gli operai qualche figlio di capo Fiat. «Perché ormai anche per entrare in fabbrica ci vuole la raccomandazione», spiega Vincenzo, 55 anni (37 in Fiat). Le facce, quelle sono diverse. Perché un ricercatore o un fuoricorso di trent´anni ne dimostra venti e un operaio di venti ne dimostra dieci di più. In ogni caso, non riescono a parlarsi.
«Oè, Peter Tosh, fai il bravo che perdo l´autobus!», dice uno e scarta di lato lo studente con trecce rasta e megafono. Il rasta ci rimane male e un anziano operaio s´avvicina per consolarlo. Si chiama Cataldo, 58 anni, «40 in Fiat». Ancora? «È per mia figlia. Per mantenersi a Legge andava a lavorare al mercato, un mazzo così per 3-400 euro al mese. Ho deciso di rinviare la pensione. I compagni giovani, sì insomma i colleghi perché compagni magari non lo sono, rimangono dei bravi ragazzi. Ma sono sotto ricatto, hanno paura di farsi vedere a far casino, per questo tirano via.».
Studenti e operai uniti nella lotta, nella Torino d´oggi, è uno slogan fuori dal tempo. «Ma i due mondi si annusano», dicono alla Fiom «e scoprono d´avere in comune lo stesso problema: il futuro». Sono stati gli operai stavolta a chiedere la solidarietà degli studenti nelle assemblee universitarie. È venuto Epifani qualche giorno fa a dire che Torino è l´epicentro della crisi. Chi sostiene ancora che l´economia reale non è stata travolta dalla "bolla" partita dall´economia di carta della finanza, dovrebbe venire qui, farsi un giro per la città più manifatturiera d´Italia, l´angolo più "reale" del Paese. Soltanto nell´ultimo mese la Motorola ha chiuso gli stabilimenti, lasciando a casa 370 persone, Pininfarina ha 1400 lavoratori in cassa integrazione a zero ore e Bertone 1224, la Seat ha annunciato 150 esuberi su 1300 posti, Daico e Michelin hanno proclamato lo stato di crisi. La città stringe la cinghia, i negozi sono deserti, quelli di via Roma come i centri commerciali in periferia.
La città guarda con il fiato sospeso a Mirafiori, spera nella tenuta della Fiat. Viale Marconi ha deciso il raddoppio della cassa integrazione da 1600 a 3200 lavoratori. «Se viene giù la Fiat e ricomincia l´incubo di anni fa, prima dell´era Marchionne, allora è la tragedia sociale, per Torino e non solo per Torino», dice Giorgio Airaudi, segretario della Fiom. Le previsioni sono nere. Secondo gli ultimi studi commissionati da viale Marconi si dovrà aspettare il 2013 per ritornare al livello di produzione auto dell´anno scorso. «Per questo penso che l´alleanza su un nuovo progetto di futuro sia inevitabile fra studenti e operai», conclude Airaudo.
Torino è da sempre un laboratorio del futuro. Qui è nata l´unità e tante altre cose, dal cinema alla televisione, dall´editoria alla ricerca applicata. Oggi il laboratorio del futuro torinese è il Politecnico, forse l´unica università davvero internazionale che abbiamo. Ai primi posti nelle classifiche europee. Il paradosso è che il Politecnico oggi lavora più per l´America che per Torino. Qui sta forse nascendo il nuovo motore che potrebbe risolvere i problemi di mercato della Fiat. Peccato che il progetto, che coinvolge nove dipartimenti del Politecnico, sia finanziato dalla General Motors. Il gigante dell´auto statunitense ha deciso di aprire proprio qui, all´interno delle mura del Politecnico, il suo più grande centro di ricerca europeo. Come si spiega l´assurdo? Lo chiedo al rettore Francesco Profumo. «La risposta è che siamo un paese per vecchi. Ed è la vera questione posta dal movimento di protesta degli studenti. La reazione a una crisi globale può essere soltanto l´investimento nella ricerca, nel futuro. Così fu nel ´29 e anche dopo. E invece qual è la risposta della politica? Quella provinciale, culturalmente miserabile, di considerare l´università un costo, invece di una risorsa». Alle due e venti il volantinaggio al cancello 20 di Mirafiori è finito, gli studenti si fermano a discutere. Marco si avvia a piedi verso la sua facoltà, Economia, a poche centinaia di metri. «Non li avevo mai percorsi prima, ma oggi è stata la miglior lezione di economia cui ho assistito nell´ultimo anno».

Repubblica 8.11.08
Ferita anche una cronista di Repubblica: urlavo fermatevi sono una giornalista, ma continuavano a colpire
Mani alzate, fughe e manganellate la battaglia della stazione Ostiense
di Laura Mari


Sono all´incirca le 15 quando gli studenti dell´Onda, dopo una giornata di cortei, arrivano alla stazione Ostiense, a Roma, per bloccare simbolicamente i binari. Stavo tentando di scavalcare i tornelli per raggiungere, assieme ai fotografi e agli altri cronisti, le banchine prima che arrivasse il resto del corteo. Ma è bastato attendere qualche frazione di secondo in più, giusto il tempo di aspettare che un cameraman oltrepassasse il tornello, per sentire le urla degli studenti dietro alle mie spalle e vedere più di una decina di agenti di polizia in tenuta antisommossa sferrare i manganelli contro di noi. Ho sentito un rumore sordo, un dolore improvviso alla testa. La prima manganellata.
Gli studenti si spintonavano per uscire dai cancelli sbarrati dalle forze dell´ordine. Urlavano agli agenti di smetterla di picchiare, tenevano le mani alzate. Ho trovato un piccolo passaggio nella ressa, mi sono coperta la testa con le mani e ho sentito il secondo colpo. Più forte, duro, secco. Sopra il gomito. Dietro di me una voce :«Di qua di qua, passate di qua» gridavano i pendolari della stazione. E mentre la polizia continuava a manganellare, sono riuscita a scappare, insieme agli studenti, dalla gabbia della stazione. Qualche ragazzo è caduto e, mentre tentava di rialzarsi, è stato colpito nuovamente dalle forze dell´ordine. A quel punto, dal corteo degli studenti che si trovavano fuori dalla stazione Ostiense sono iniziati i cori contro gli agenti di polizia. Sono volate bottiglie di plastica e di vetro, non più di una decina.
Mi sono guardata attorno: c´erano studenti che piangevano. Una ragazza si teneva la testa, un´altra si toccava il braccio dolorante. Un ragazzo perdeva sangue dalla testa. E tutto questo per aver cercato di scavalcare i tornelli e tentare di bloccare, simbolicamente, i binari di dei treni. Una decisione che gli studenti dell´Onda avevano preso almeno un´ora prima di raggiungere la stazione Ostiense. Lo avevamo capito noi giornalisti quando abbiamo visto i leader della protesta che concordavano il percorso con i dirigenti delle forze dell´ordine e ci sembrava impossibile che non lo avessero capito anche loro. Eppure, all´ingresso della stazione, gli agenti si sono schierati ai lati dell´edificio. Quasi ad attendere che gli studenti entrassero per poter poi intervenire.
Mentre mi accorgo che negli scontri mi si erano spaccati anche gli occhiali, sento una ragazza avvicinarsi e dirmi «vieni via, corri». Mi giro e mi rendo conto che gli scontri stanno ricominciando. Da fuori intravedo un fuggi fuggi davanti all´ingresso della stazione Ostiense. Poi torna la calma. E gli studenti dell´Onda tornano in corteo verso la Sapienza.

L’ipotesi di separazione si allontana, il governatore della Puglia sconfitto al congresso presenta una nuova associazione con Sd ma prende tempo. Tutto rinviato sulle liste per le Europee.
Una scissione dell’ala vendoliana di Rifondazione? Per ora l’ipotesi sembra archiviata. Lo ha fatto capire ieri Nichi Vendola, presentando a Roma l’associazione «La sinistra», che comprende oltre alla minoranza di Rc anche la Sinistra democratica di Fava e Mussi, il verde Cento, Umberto Guidoni del Pdci e numerosi intellettuali. L’associazione partirà ufficialmente il 13 dicembre, con la prima assemblea nazionale, per qualcuno (vedi Sd) dovrà diventare un soggetto politico, per altri serve per dare linfa al sogno della Grande Sinistra, ma senza troppa fretta. Anche perché tra i bertinottian-vendoliani più di uno non gradisce l’idea di una scissione e di una lista per le europee tra Vendola e Sd, uno degli sbocchi possibili dell’iniziativa. L’ha detto esplicitamente Augusto Rocchi, ma la pensano così anche Milziade Caprili («Di scissione neppure voglio sentir parlare»), Tommaso Sodano («Non sono interessato a fare un nuovo partito») e Raffaele Tecce. E Rocchi precisa: «Mi arrivano tantissime telefonate di compagni della nostra mozione che non vogliono scissioni». Non piace neppure l’idea, ribadita da Fava, che il Pd sia «alleato naturale» del nuovo soggetto di sinistra: «È un po’ più complicato», dice Caprili. Alfonso Gianni, fedelissimo di Bertinotti, ieri non c’era alla presentazione dell’associazione: «Da evitare una lista con Sd, ma Ferrero e la sua maggioranza devono ascoltare tutto il partito. Non vedo scissioni all’ordine del giorno, ma guai per tutti se ci si chiude a riccio». Lo stesso Bertinotti, in un faccia a faccia con Ferrero giovedì mattina, avrebbe rassicurato il segretario, spiegandogli che non intende sponsorizzare una scissione.
Dunque Vendola tira il freno. «Prendiamo tutti fiato», dice a Ferrero. «Io lancio un’offensiva unitaria, la scissione è un gossip». La proposta di Vendola è un «cartello elettorale» per le europee, con dentro tutta la sinistra, ognuno con la sua identità. «Ma non sarebbe la riproposizione dell’Arcobaleno». Vendola ritiene archiviato l’esito del congresso del Prc del luglio scorso, «Siamo in un’era geologica differente», e chiede al suo partito di cambiare linea con un nuovo congresso. Ferrero si rallegra: «Io la tregua la pratico da luglio, mi felicito che Vendola escluda ipotesi di scissione». Il segretario però chiude all’ipotesi di un congresso straordinario e ribadisce: «Oggi non è il momento per discutere su come andare alle europee». Poi annuncia che riunirà il parlamentino del Prc il 13 e 14 dicembre, proprio in concomitanza con il battesimo della nuova associazione. Il suo numero due Claudio Grassi è più duro: «Andremo alle europee con il nostro simbolo». Un esito verosimile: Ferrero potrebbe rinunciare all’idea di lista unitarie con il Pdci, caldeggiata da parti della sua stessa maggioranza, in cambio dello stop di Bertinotti alla scissione. Rocchi la spiega così: «Se fanno l’unità comunista allora me ne vado...».
Ieri alla presentazione l’hanno fatta da padroni i nomi della società civile, da Moni Ovadia al fisico Giorgio Parisi. Segno di quel carattere di cantiere «aperto e orizzontale» che dovrà avere la nuova sinistra. Ma Ovadia avverte: «Se fanno un altro arcobaleno non mi interessa...».

il Riformista 8.11.08
Dentro Rifondazione. Ora Bertinotti frena i suoi
«Non è tempo di scissioni»
di Alessandro De Angelis


Alfonso Gianni, uno che del "Bertinotti pensiero" è il custode, taglia corto: «La scissione non è all'ordine del giorno». Fausto è sceso in campo. Calma e gesso, ha detto ai suoi, almeno fino alle europee. Altri forzano i tempi: ieri il governatore della Puglia, presentando con il leader di Sd Fava, Paolo Cento dei Verdi e l'astronauta Umberto Guidoni del Pdci, l'associazione «La sinistra» - l'embrione del soggetto politico che verrà - ha lanciato un ultimo appello a Ferrero: un «cartello elettorale» di tutta la sinistra alle europee e un «congresso straordinario», visto che - anche grazie alla vittoria di Obama - «il quadro è cambiato». Ultimi avvisi prima di una scissione che molti - all'interno della sua corrente - preparano prima delle europee: «Se Ferrero ci dice no, ce ne andiamo».
Il "ma" si chiama: Fausto Bertinotti. L'ex presidente della Camera due giorni fa ha avuto un lungo colloquio con Ferrero. Tra i due la divergenza strategica è totale: uno vuole costruire una sinistra larga, l'altro non rinuncia alla falce e martello. Ma nel breve periodo le prospettive coincidono. Per Fausto, almeno fino alle europee, non si deve rompere. Soprattutto non serve un altro partitino tra Pd e Rifondazione. In questi mesi Bertinotti ha maturato la convinzione che i tempi per la ricostruzione della sinistra sono lunghi. E poco gli è piaciuta la gestione dell'area targata Vendola e Migliore. Pochissimo la richiesta, fatta da «Nichi», di un congresso straordinario.
Non è un caso che i suoi colonnelli sul territorio si stiano muovendo e non poco. Augusto Rocchi, ad esempio, influente in Lombardia: «Spero che nessuno pensi che l'associazione "La sinistra" sia l'embrione di una lista per le europee, o di una frazioncina subalterna al Pd. Non è il cartello elettorale l'elemento dirimente per una scissione. Dobbiamo pensare a ricostruire la sinistra. È un compito che non ha come scadenza le europee». Anche in altre regioni i bertinottiani mostrano più di una insofferenza. Tommaso Sodano, colonnello di Bertinotti in Campania afferma: «Non sono d'accordo con quel che dice Migliore. L'obiettivo di lungo periodo è costruire la sinistra, aggregando altre forze. Rifondazione serve ancora». Stessa musica tra i bertinottiani toscani. Taglia corto Milziade Caprili: «Sono d'accordo con Bertinotti per antonomasia. Non sto preparando nessuna scissione. E sbagliata è la richiesta di congresso straordinario. Se il problema della sinistra è mettere insieme Fava, Cento e Guidoni, non c'è trippa per gatti. Anche se le repliche degli uomini di Ferrero sono barbare». Fausto è tornato.

l'Unità 8.11.08
Immigrati, schiaffo della Ue all’Italia
«Contrari al principio d’uguaglianza»
Nuovo sganassone dell'Unione europea al governo italiano. Dopo la fitta corrispondenza che ha portato il ministro Maroni a una clamorosa marcia indietro sul "pacchetto sicurezza", a Palazzo Chigi e al Viminale, dove debbono aver creato speciali uffici postali per smaltire le lettere con "richieste di chiarimenti" inviate dalla Commissione, è arrivata un'altra pioggia di letterine pepate. Stavolta non è solo il ministro dell'Interno al centro dell'attenzione: ci sono anche il suo collega all'economia Tremonti, il consiglio dei ministri nella sua interezza e il garrulo titolare del dicastero dei rapporti con l'Unione europea, che non si capisce perché prenda ancora lo stipendio visto che praticamente ormai da Roma non arriva a Bruxelles provvedimento che non sia contrario alle norme dell'Unione.
Nel mirino del commissario alla Giustizia Barrot, che pure in passato ha fatto di tutto (forse anche troppo) per non litigare con il governo italiano è finita la legge 133 del 6 agosto, la manovra finanziaria che, per intenderci, ha decretato pure i tagli su scuola e università. Barrot ha fatto sapere al Parlamento europeo, rispondendo a una interrogazione della deputata Donata Gottardi (Pd-Pse), di aver "sollecitato le autorità italiane" a fornire spiegazioni su ben quattro articoli della legge (11, 20, 81 e 83) che appaiono oggettivamente discriminatòri verso gli stranieri e perciò contrari al diritto comunitario.
L'art. 11, che riguarda il cosiddetto "piano casa", stabilisce che soggetti destinatari degli interventi possano essere solo "gli immigrati…residenti da almeno 10 anni nel territorio nazionale ovvero da almeno 5 anni nella medesima regione". La limitazione - fanno notare gli uffici di Barrot - è contraria al principio dell'eguaglianza che il diritto comunitario garantisce a tutti gli "ospiti" di lunga durata nei paesi della Ue. Anche l'art. 20 (disposizioni in materia contributiva) prevede la stessa, illecita, discriminazione nei confronti di chi è in Italia da meno di 10 anni. L'art. 81 (settori petrolifero e del gas) esclude invece tutti gli stranieri da una "carta acquisti" riservata espressamente ai "residenti di cittadinanza italiana" (insomma, una specie di jus sanguinis al distributore) e l'art.83, prevedendo un programma di controllo fiscale ai residenti da meno di cinque anni, insuffla il dubbio, offensivo e soprattutto sbagliato, che gli immigrati evadano le tasse più degli italiani. Bocciato anche questo.
Che cosa succederà, ora? Sulle misure in materia di "sicurezza" Maroni ha potuto far marcia indietro, a suon di bugìe espresse e di bugìe per omissione, perché si trattava di disposizioni governative o di decreti attuativi di direttive comunitarie. Ma la 133 è una legge e modificarla alla chetichella non è possibile neppure nel paese delle facce di bronzo. L'ipotesi più probabile è che il governo Berlusconi faccia finta di nulla e rischi il procedimento di infrazione e la condanna da parte della Corte di Giustizia europea. L'Italia con il suo razzismo strisciante e l'insofferenza verso il diritto continuerà ad allontanarsi da Bruxelles.

Repubblica 8.11.08
Intervista a Gustavo Pietropolli Charmet
Non sparate sui nuovi adolescenti


In un libro dello psichiatra il sorprendente ritratto di una generazione denigrata dagli adulti che invocano il ritorno alla cultura del castigo
Se vogliamo motivarli allo studio, bisogna aumentare moltissimo competenza e capacità educativa della scuola
È improbabile che si riesca a sottometterli al rispetto delle regole con lo spauracchio di inflessibili punizioni

MILANO. Non è solo un intellettuale brillante, uno studioso serissimo, un clinico da sempre in trincea: Gustavo Pietropolli Charmet sembra il cantore di quella generazione così enigmatica, indecifrabile, composta da I nuovi adolescenti (secondo il titolo di un suo libro pubblicato anni fa da Raffaello Cortina). È uno psichiatra di formazione freudiana, ha settant´anni, ha insegnato per una vita alla "Bicocca", è ancora attivissimo a Milano con i suoi giovani pazienti, quelli che lui definisce tristi - con disarmante semplicità.
Di Charmet è uscito un tascabile ricco di idee inconsuete ma molto fondate, che traccia un sorprendente identikit di questi ex bambini prodigiosi, piccoli imperatori vezzeggiati e ora confusamente immersi nella lunga cerimonia dell´addio all´infanzia, ormai sulla ribalta del grande teatro della crescita. È un librino molto denso nella sua agilità, rigoroso e chiaro, destinato soprattutto ai tanti genitori e insegnanti spesso disorientati, spiazzati, allarmati dai comportamenti "normali" ma non per questo meno oscuri e problematici dei ragazzi alle prese con l´età incerta, fatta di rituali bizzarri, scarti, arresti, e poi improvvise accelerazioni: s´intitola Fragile e spavaldo. Ritratto dell´adolescente di oggi (Laterza, pagg. 126, euro 10).
Nelle conclusioni, Charmet accenna con qualche preoccupazione alle ricette sbrigative dell´attuale governo per il sistema al collasso dell´istruzione italiana. Non c´è traccia di un programma ma solo la volontà - malissimo dissimulata - di destrutturare la scuola pubblica, con quei "tagli" massicci e indiscriminati che colpiscono un ceto sociale squattrinato e debolissimo sul piano del prestigio sociale. Oltre alla trovata risibile del ritorno al grembiulino, alla riedizione di un´improbabile e non richiesta vicemamma nel ruolo di maestra unica, c´è qualcosa di più nelle intenzioni di questa cultura di destra che osanna la semplificazione contro il culto della complessità di una sinistra intellettuale percepita come parolaia e inconcludente. Intanto si cerca di ristabilire nelle aule un clima fondato sulla minaccia, dal ripristino del voto in luogo del giudizio: un numero secco per inchiodare i ragazzi alla mortificazione di un fallimento scolastico, alla bocciatura per il 5 in condotta: un provvedimento che non spaventerà i bulli - quelli veri, disperati e violentissimi.
Per Charmet, e non solo per lui, gli adulti hanno da un pezzo abbandonato il sistema educativo della colpa e oggi con affanno si chiedono se la relazione che gli adolescenti stabiliscono con l´autorità e soprattutto con la realtà sia adeguata. «Si sente parlare ovunque - scrive - di nuove regole da proporre ai giovani, di "paletti" da ricollocare negli snodi cruciali della crescita... C´è l´impressione che sia avvenuta una diserzione di tutti coloro che avrebbero dovuto sorvegliare affinché i paletti rimanessero al loro posto e non venissero divelti da branchi di giovani inselvatichiti». Il punto è se sia possibile ristabilire una comunicazione con questi adolescenti limitandosi a un puro salto all´indietro. O se questa operazione sia forse rassicurante per il bisogno di certezze che imperversa, e però del tutto illusoria. Da qui parte la nostra intervista con Charmet.
Si può tornare alla cultura del castigo - come se i "nuovi adolescenti" somigliassero anche solo vagamente a quelli degli anni Cinquanta?
«Mi sembra un discorso male impostato. Una scuola che parla retoricamente di regole, di principi, di valori ma non è capace di costruire una quotidianità fondata sulla relazione, sulla passione per la conoscenza, sulla partecipazione attiva - una scuola così non va bene. Per il momento si vedono solo "tagli" e trovate di sapore demagogico: nessun progetto culturale o di rifondazione della scuola italiana».
Sì, professore, ma in attesa di un progetto appena credibile, un po´ tutti ormai sembrano d´accordo sulla necessità di modelli educativi più forti, più severi: magari quelli di una volta, degli anni precedenti alla "contestazione" e al clima permissivo che ha prodotto...
«Non importa essere favorevoli o contrari al tentativo di ripristinare il vecchio ordine, perché comunque per poterlo fare i ragazzi dovrebbero essere disponibili a riconoscere alla scuola un significo etico e simbolico, ma non lo sono affatto: è del tutto improbabile che si riesca davvero a sottometterli al rispetto delle regole con lo spauracchio d´inflessibili castighi».
Cos´è allora che si dovrebbe fare per coinvolgere di più questi adolescenti descritti come campioni di nichilismo, senz´altro spesso indifferenti e svogliati?
«Se vogliamo recuperarli alla motivazione allo studio - e questo sì: a me sembra davvero uno dei problemi più gravi che abbiamo in Italia - bisogna aumentare moltissimo la competenza e la capacità educativa della scuola: lasciata così, non è all´altezza di uno scenario globale che proprio non consente scelte intellettualmente pigre. Della qualità degli studi, di un´adeguata trasmissione dei saperi, di questo si sente parlare poco e niente, mentre prevale la tendenza temibilissima a scivolare nelle semplificazioni più aberranti e anche pericolose perché illudono sulla possibilità di risolvere i problemi, e invece non fanno che rimandarli e dunque sostanzialmente aggravarli... È tutto un gran chiacchiericcio politico e anche mediatico rassicurante per la massa degli adulti più spenti, vuoti di ideali, perfettamente robotici».
Leggendo i suoi libri - e quest´ultimo, in particolare - sembra molto più severo con questi adulti che con i suoi adolescenti narcisisti, fragili e spavaldi. A lei, questi ragazzi fanno simpatia. E infatti scrive: "Chi conosce i giovani, finisce per apprezzarli". Lei li conosce: cosa apprezza di loro?
«A rischio di apparire buonista o anche idealizzante, non sono favorevole alla denigrazione massiccia che subiscono questi ragazzi che invece sì, io tendo ad apprezzare. Quando sono dentro una relazione con un adulto abbastanza competente, sono molto etici, s´impegnano sul piano della narrazione di sé, mostrano una grande capacità di ricognizione della loro mente. A dispetto delle apparenze, sono affettivi: ad esempio, la loro vita di coppia è molto più evoluta di quella degli adolescenti di un tempo, hanno un livello di autonomia reciproca elevato, non coltivano eccessivamente il sentimento della gelosia, magari hanno smarrito il senso della grande passione amorosa, onirica, a vantaggio però di una certa pacatezza e stabilità. Soprattutto hanno introdotto una pariteticità reale tra maschile e femminile che senz´altro avrà una ricaduta sui loro rapporti più maturi, sulla genitorialità futura, sulla vita familiare e nei rapporti con i figli... A me non sembra poco».
Ma chi è l´adulto "abbastanza competente". I genitori no, gli insegnanti neppure... Sarà lo specialista, il terapeuta, uno come lei?
«No, per questi adolescenti l´adulto competente è chiunque coltivi ed esprima una forte passione per "qualcosa". Ecco, quando individuano qualcuno che secondo loro va bene, in base a criteri anche difficili da decodificare, possono esserne soggiogati. Anche un docente un po´ svitato, ma realmente appassionato della sua materia, diventa un punto di riferimento, una risorsa. Gli altri adulti - quelli opachi - non sono contestati, non sono avversari da abbattere, semplicemente rimangono del tutto irrilevanti».
Lei sta parlando dei ragazzi "normali", non proprio di quelli che indulgono nelle varie condotte a rischio e conquistano i notiziari... Sembra invece piuttosto preoccupato da quello che definisce il fenomeno della reclusione volontaria: davvero può esserci il rischio di un rifugio difensivo nel mondo del virtuale?
«Sì, credo che il virtuale possa mettere al riparo dallo sviluppo di sintomi psichici gravi. Nessuno deve vedere l´adolescente troppo fragile per reggere lo sguardo dell´altro, mille volte meglio restare in relazione senza corpo: è la celebrazione della più radicale delle difese rispetto all´eventualità di sperimentare il sentimento sociale della vergogna. Sarà allora il caso di incoraggiare gli adolescenti a incamminarsi verso la condivisione, a non temere i traumi e le mortificazioni. Diversamente i nostri ragazzi seguiranno le orme dei loro colleghi giapponesi: un milione di ragazzi spariti dalla circolazione, chiusi nella loro cameretta a comunicare on line, come in un ospedalino da campo nelle retrovie della vita».

Corriere della Sera 8.11.08
Gli eroi sbagliati dell'Isola Nuda
Dunja Badnjevic racconta il padre stalinista che finì senza piegarsi nell'inferno di Tito Il dialogo Incontro con la scrittrice serba, che descrive in un romanzo le sofferenze della sua famiglia perseguitata in Jugoslavia per un falso ideale conversazione tra Claudio Magris e Dunja Badnjevic


«Goli Otok isola della pace, isola di assoluta libertà — dice il dépliant turistico — Mare straordinariamente pulito, ambiente immacolato, immerso nel silenzio». Quelle due isole paradisiache dell'alto Adriatico sono state per anni un inferno. Il regime titoista jugoslavo le aveva trasformate in due Lager, in cui finirono non solo ustascia macchiatisi di orrendi crimini durante la seconda guerra mondiale e alcuni delinquenti comuni, ma anche e soprattutto deportati politici e, in particolare, quei comunisti, compagni nella lotta di resistenza partigiana contro nazismo e fascismo, che, quando Tito nel 1948 ruppe con Stalin erano rimasti fedeli, per fede nell'idea universale marxista, al comunismo ortodosso e cioè — allora — a Stalin.Finirono così a Goli Otok, l'Isola Nuda, eroici combattenti per la causa della rivoluzione mondiale d'improvviso ferocemente perseguitati dai loro stessi compagni e dal regime jugoslavo che avevano contribuito a costruire, liberando il Paese dal nazifascismo. Fra essi c'erano anche circa duemila italiani, militanti comunisti che avevano conosciuto le galere fasciste e i Lager nazisti, che si erano battuti in Spagna contro Franco e si erano recati con entusiasmo in Jugoslavia per contribuire a edificare il socialismo nel Paese più vicino. In quell'inferno, sottoposti a maltrattamenti e torture, ignorati da tutti, resistettero eroicamente e paradossalmente in nome di Stalin, massimo inventore di Gulag. Quando, dopo alcuni anni, i superstiti furono liberati e tornarono in Italia, vennero tartassati dalla polizia quali pericolosi comunisti provenienti dall'Est e posteggiati dal Pci quali scomodi testimoni della politica stalinista del partito che si voleva dimenticare.È una storia che mi ha ossessionato per tanti anni, sulla quale ho scritto un libro, il romanzo Alla cieca; dopo essere stata a lungo rimossa e taciuta, questa vicenda è riemersa alla consapevolezza, ha dato origine a molte indagini storiche ed elaborazioni memorialistiche ed è stata resa nota soprattutto attraverso il libro di Giacomo Scotti «Goli Otok, ritorno all'isola calva» (ed. Lint), che ne documenta e illustra tutte le fasi. Anche la letteratura ha dato voce a quella tragedia, soprattutto attraverso la scrittura di testimoni sopravvissuti; fra le opere in italiano va ricordato il romanzo autobiografico Martin Muma del poeta rovignese Ligio Zanini.Ora è uscito, scritto in italiano, l'intenso, incisivo e conturbante romanzo-verità L'Isola Nuda di Dunja Badnjevic (Bollati Boringhieri), nata a Belgrado e residente da più di quarant'anni in Italia, traduttrice e promotrice nel nostro Paese di letteratura serba, bosniaca e croata, e traduttrice di autori italiani in serbo, esempio di un'identità culturale che, pur restando fedele alle proprie origini, si trasforma e si arricchisce acquisendo, attraverso l'avventura della lingua, una valenza intellettuale e umana in più. Lo specchio Adriatico, come dice un libro del poeta e saggista croato Tonko Maroevic, è stato fecondo di questi rimbalzi culturali; un altro esempio è Ljiljana Avirovic, saggista e grande traduttrice dall'italiano in croato ma anche dal croato o dal russo in italiano.L'Isola Nuda è essenzialmente la storia del padre dell'autrice, Ešref Badnjevic, comunista internazionalista e partigiano, incrollabilmente fedele agli ideali universalistici, che finisce a Goli Otok e poi in un altro Lager all'interno della Jugoslavia. Attraverso la storia del suo calvario e della diritta fierezza con cui egli lo ha affrontato, emergono, con asciutta poesia che rende più intensa una nobile e indomita sofferenza, la storia di una famiglia, in estreme difficoltà sopportate con fermezza, e la storia di tutto un Paese, che inizia a rovinare calpestando i valori che lo hanno costruito e che esso stesso mina credendo di farlo per difendersi.Lei — le dico incontrandola a Roma — ha scritto un libro forte, «vero» umanamente, storicamente e personalmente. Una testimonianza personale che diventa romanzo. Come si è posta rispetto a tale rapporto tra la bruciante verità e quel tanto di finzione necessaria per articolarla in un racconto che ha pure un suo notevole spessore letterario? È stato esistenzialmente difficile?Badnjevic — Non è stato difficile perché è un documento-verità, non c'è alcuna finzione. Era un po' come un'auto-analisi e una catarsi attraverso tutto ciò che abbiamo vissuto io, mio padre e il mio Paese. Ho perso un padre nel momento in cui ne avevo più bisogno, prima, e ho perso una patria che amavo, quasi visceralmente, dopo. Da qui il mio neologismo «apolitudine»: sentire ad un tratto cancellato tutto un vissuto e avere solo la memoria per ricordare quel che gli altri cercavano di far sparire nel nulla. Affrontare un mondo in cui le vittime di ieri oggi non si riconoscono come tali, in cui i nomi delle strade e delle città sono cambiati. Che cosa significa ora aver combattuto per la patria e per un mondo migliore, se nella storia ufficiale quello non era il mondo migliore e nemmeno la patria era più quella? La realtà dei Balcani ha superato di gran lunga ogni possibile previsione.Magris — Ciò che mi ha sempre commosso, in questa terribile vicenda, è il contrasto fra l'eroismo morale di questi uomini come suo padre e altri, pronti a sacrificare se stessi alla causa dell'umanità, e il fatto che essi si siano battuti e sacrificati (e forse pronti a sacrificare pure altri) in nome di Stalin, che, se avesse vinto, avrebbe trasformato il mondo intero in una Isola Nuda. Lei come sente questo contrasto? A parte l'amore personale per suo padre e l'oggettiva ammirazione per la sua dirittura, lo vede anche come in parte oggettivamente colpevole o almeno in errore?Badnjevic — Colpevole no, ha agito in totale buona fede, facendo male solo a se stesso e alla sua famiglia. Bisogna rapportarsi a quegli anni quando i comunisti di tutto il mondo credevano che Stalin dei gulag non sapesse niente, che le responsabilità fossero degli Jagoda, degli Ezov, dei Beria. Mio padre non è mai stato in Russia. Credeva, sbagliando, nell'internazionalismo che necessitava, almeno all'inizio, di uno Stato guida, in un mondo in cui tutti davano secondo le proprie capacità e ricevevano secondo i bisogni. Se il socialismo avesse vinto in Germania, diceva, tutto sarebbe stato molto diverso. L'Unione sovietica era un Paese troppo povero, arretrato e grande. Anche se in molti Paesi dell'Est, Russia compresa, ci sono ancora oggi coloro che credono di aver pagato un prezzo troppo alto per la fine del socialismo reale.Magris — Negli anni recenti c'è stato un intenso dibattito su questa storia che si voleva far dimenticare; studi storici, saggi, testimonianze, opere letterarie. C'è stato qualche testo o qualche autore importante per l'ispirazione di questo libro?Badnjevic — Sono usciti tanti saggi, ovviamente dopo la morte di Tito. Un testo letterario fu scritto ancora negli anni 70 da Dragoslav Mihajlovic, Quando fiorivano le zucche, ma ne fu vietata la diffusione. Il romanzo più fortunato sull'argomento fu Tren 2 di Antonije Isakovic. Mihajlovic era tra i più giovani «ospiti» del-l'Isola e ha pubblicato due grossi volumi di ricordi. Ci sono stati qualche tentativo di riabilitazione dei detenuti, qualche convegno e incontro ufficiale. A uno di questi ho preso parte: era veramente toccante vedere i vecchi superstiti rincontrarsi e ricordare. Poco dopo è arrivata la fine della Jugoslavia travolgendo tutto come un uragano. Che cosa poteva significare il destino di poche decine di migliaia di persone rispetto agli orrori di una guerra che si spalancavano davanti al Paese?Magris — Questa terribile storia è una tragedia del movimento rivoluzionario mondiale, un tramonto — temporaneo o definitivo? — del sole dell'avvenire ed è anche una tragedia jugoslava, quasi un lontano preludio della dissoluzione di quel Paese. Lei sente un nesso, sia pur lontano e simbolico? Come ha vissuto e come vive lei il tracollo del socialismo jugoslavo, la dissoluzione della Jugoslavia e la deformazione o cancellazione della sua memoria storica?Badnjevic — Ogni volta che tornavo mi sentivo, come dicevano le mie amiche, una rana buttata nell'acqua bollente, stupita ed esterrefatta. Loro invece erano state immerse in acqua fredda e portate all'ebollizione lentamente. Credo che il declino inarrestabile del socialismo inizi nel 1956 quando le incertezze del gruppo dirigente sovietico e la mediocrità della classe dirigente delle democrazie popolari impedirono il necessario e radicale mutamento e critica della teoria e della pratica politica del socialismo e il suo adeguamento ai tempi nuovi. Se si fossero date risposte serie e sincere ai tanti «perché» del '56, forse oggi non ci troveremmo in un mondo in cui non invidio la giovinezza delle mie figlie e dei miei nipoti. Io, figlia di un vecchio comunista, credevo «nel sol dell'avvenire». In quei principi elementari di solidarietà umana e di internazionalismo che avevano caratterizzato gli albori del socialismo. Lei nel suo Utopia e disincanto ha scritto: «Il mondo non può essere redento una volta per tutte e ogni generazione deve spingere, come Sisifo, il suo masso per evitare che esso le rotoli addosso schiacciandolo ».Il gulag dell'Isola Calva oggi (sopra, da un reportage di Alberto Simalan) e fotografato dal prigioniero Ante Lukateli (da «L'inferno della speranza» di Ante Zemljar)

Corriere della Sera 8.11.08
Simboli Un originale percorso proposto dallo storico della Normale di Pisa nella «Giustizia bendata»
Così la legge divenne cristiana
Nessun dualismo tra peccato e reato, Adriano Prosperi replica a Paolo Prodi
di Alberto Melloni


Il velo e lo sguardo hanno una relazione potentissima, capace di evocare i più diversi significati da un tempo remotissimo fino all'oggi.Il velo è uno strumento di seduzione, di allusione: come quello grezzo e morbido che copre l'intera testa dei protagonisti di alcuni celeberrimi ritratti di Magritte, i cui connotati rimangono nascosti e semplicemente intuiti da uno sguardo che non incontra l'altro sguardo. È un velo, anzi, una veletta quella forma secolarizzata di pudicizia che per moda deve togliere l'immediatezza allo sguardo femminile del Novecento, ponendolo al di là di una soglia alla quale dà accesso il matrimonio («salute your wife», dice il celebrante ammettendo al bacio lo sposo). Ed è un velo quello che copre i capelli e il volto delle monache bizantine che la morale islamica guarda con uno spirito di emulazione da cui evolveranno tutta una serie di simboli religiosi, dal hijab al burka. Ma il velo sugli occhi è anche la metafora di una ignoranza invincibile, incolpevole, inescusabile. È quello che nasconde la rivelazione agli increduli e che l'arte medievale caricaturerà (in senso antisemita) nel passo della seconda lettera ai Corinzi, rappresentando la sinagoga come una vecchia bendata, a fronte della bellezza di una giovane dallo sguardo chiaro e profondo che dovrebbe rappresentare l'ecclesia.Nella letteratura — perfino nel suo volgarizzamento lirico, come ci ricorda la benda con cui viene beffato Rigoletto — il velare gli occhi, sigillando la conoscenza nella interiorità, diventa il momento in cui la verità ultima diventa inaccessibile. E la Bibbia ebraica e cristiana offre altre velature simboliche, come quella di Mosè il cui viso divenuto radiante nell'incontro con l'Onnipotente viene celato perché non fulmini i suoi, o quella fornita dalle nubi delle teofanie che impediscono che la purezza dell'eterno stecchisca di colpo ciò che è mortale, o il velo pietoso che copre il volto del condannato immortalato dall'icona della veronica che imprime il viso di Gesù sulla tela, o quell'ancora più celebre del sudario che, come reclama la devozione alla sacra sindone, vela e svela l'umanità del cadavere del crocifisso.Ma c'è un velo molto particolare, specifico, al quale Adriano Prosperi s'è dedicato con l'erudizione e il senso storico che sa cavalcarla con eleganza: ed è il velo che copre gli occhi della giustizia nella rappresentazione di alcune culture. Giustizia bendata. Percorsi storici di un'immagine (Einaudi, pp. 259, e 34) cerca infatti con successo le origini di una figura che condivide con tutte le altre declinazioni la polisemia del rapporto sguardo-velo. Prosperi ha trovato l'origine di questa immagine: Basilea, 1494. Da lì, dalla bottega di un incisore né celebre né bravo, questa figura «frutto dell'umor nero di un uomo di legge e della collaborazione di un pittore o di un tipografo, in una città universitaria geograficamente centrale ma appartata » (p. 54) trova vie inattese. Alla giustizia bendata tocca il compito di interpretare un desiderio nuovo attorno ad una entità che già gli egizi avevano rappresentato con la bilancia in mano. Prosperi, infatti, è convinto che quella figura e il suo successo dipendano dalle trasformazioni che entrano nel mondo della giustizia, nella sua amministrazione, dopo la rivoluzione del diritto consumatasi con l'arrivo del diritto romano e di quello canonico al cuore delle nascenti università.Il nodo, al fondo, è la «modernità» in senso largo: quella che inizia ben prima del 1789 e della quale la teologia cristiana è assai più la balia che non la vittima. Basta leggere le pagine per Prosperi più facili (più facili perché riprendono i risultati delle sue monumentali ricerche sui tribunali della coscienza) per capire come, dietro discussioni apparentemente tecnicissime (il condannato a morte deve ricevere i sacramenti o no? e perché nel suo patibolo è iscritta così spesso, dopo la fine del Trecento, la figura stessa della passione di Cristo alla quale viene assimilato?) ci siano questioni immense.E se non mi sbaglio Prosperi in questo volume suggestivo, ricco di immagini da tutti i punti di vista, prende le distanze da un'altra opera di enorme importanza dedicata alla Storia della giustizia da Paolo Prodi alcuni anni fa, appena citata in una nota. Prodi aveva insistito sul dualismo profondo, permanente, inserito dalla fede cristiana nella civiltà giuridica europea: il dualismo fra foro esterno e foro interno, fra peccato e reato, spiegavano in quella grande ricerca movimenti, scarti, crisi della giustizia dell'Occidente. Prosperi non polemizza con quel quadro, la cui vastità in fondo esclude le coerenze dei dettagli: ma si posiziona in modo diverso. Nota cioè come «l'idea cristiana di giustizia pervenne a legittimare il potere politico e la tradizione giuridica romana conferendo loro una investitura divina» (p. 84). Al di là di tutte le ortografie dualiste, sarebbe dunque un potente motore storico quello che spinge il bisogno di giustizia sopra alle teologie della giustizia, per fornire alla società un regolatore — la giustizia, appunto — di cui la benda evoca l'imparzialità e il limite, la cecità e l'incorruttibilità, il fascino, l'ignoranza. A far da contrappeso resta solo l'angelo della storia, quello di Klee dagli occhi di infantile, apocalittica enormità. Perché come diceva Massimo il confessore «perfetta è quella mente che, in suprema ignoranza, conosce il supremo inconoscibile».L'autore Adriano Prosperi (1939) insegna Storia moderna alla Normale di Pisa. Tra i suoi libri più recenti, Dare l'anima, Einaudi (2005)

Corriere della Sera 8.11.08
Medicina I temi di oggi rivisitati con il padre fondatore
Ippocrate a confronto con l'eutanasia
di Marco Nese


Immaginiamo di chiedere a Ippocrate la sua opinione riguardo ai supremi interrogativi che oggi tormentano le coscienze. Sì o no all'eutanasia? È cosa buona e giusta prolungare le sofferenze di un corpo ridotto a vegetale? Che ne direbbe il sommo padre della medicina? Un cardiologo (Massimo Fioranelli) e un giornalista (Pietro Zullino) hanno provato a investigare gli antichi testi e a ipotizzare quali ammaestramenti avrebbe offerto la sapienza di Ippocrate (Io, Ippocrate di Kos, Laterza, pp. 140, e 19). Ne hanno ricavato un testamento fittizio nel quale il grande maestro non pronuncia sentenze decisive, ma dispensa consigli che denotano una sua saggia «way of life».Ippocrate non si sente di dire che il medico debba insistere con l'accanimento terapeutico, ma nemmeno gli riconosce il diritto di sopprimere una vita umana. Combattere il dolore è una buona missione. Quanto a ognuno di noi, il vecchio maestro sembra ammonirci a «fare amicizia con la morte», a non averne paura perché «la morte è il giusto compimento della vita» e «l'immortalità non è lo scopo della medicina». Al di là della finzione, questo libro può anche essere letto come un sorprendente testo di storia. Ippocrate si muove su uno sfondo reale: Atene e Sparta si dissanguano in guerre fratricide, i Persiani premono alle frontiere, mentre fiorisce un'epoca straordinaria di cervelli destinati a influenzare le generazioni nei secoli avvenire, Socrate, Democrito, Platone ( sopra), Tucidide, Aristofane. E lui, Ippocrate, che per primo liberò la medicina dalle pratiche magiche e dagli oracoli ai quali i sofferenti chiedevano sollievo. Invece di ricercare l'origine dei malanni negli influssi nefasti degli astri, insegnò a interrogare il corpo, ad auscultarne le pulsazioni, affidandosi al metodo empirico.

Corriere della Sera 8.11.08
Nicla Vassallo processa il mito di Simone de Beauvoir
di Antonio Carioti


Dimenticare Simone de Beauvoir? Non basta. Non è sufficiente chiarire che «non ha più nulla da dirci ». Bisogna smascherarla, denunciarne «l'alterigia, l'indifferenza, la competitività nei confronti delle donne». E soprattutto evidenziarne l'incapacità di coniugare l'universo femminile al plurale, la deleteria insistenza sul «concetto di donna» al singolare, quasi a definire un'essenza immutabile, la quale altro non è che «una finzione al servizio del maschilismo ». A stroncare in questi termini Il secondo sesso, celebre e ponderosa opera di Simone de Beauvoir ora riedita dal Saggiatore, è Nicla Vassallo, docente di Filosofia dell'Università di Genova. Il suo articolo, pubblicato dall'Indice dei libri del mese lo scorso ottobre, è un'autentica filippica, rivolta anche contro i francesi che hanno celebrato in pompa magna la loro connazionale nel centenario della nascita, da Elisabeth Badinter a Bernard-Henri Lévy. Altrettando duro il giudizio sul compagno di Simone, il filosofo Jean-Paul Sartre: la celebre coppia viene definita moralmente «infida», oltre che «priva di un'effettiva originalità intellettuale ». D'altronde certe espressioni spregiative verso le lesbiche che Nicla Vassallo cita da Il secondo sesso lasciano sgomenti, tanto da far ritenere che, firmato da un'altra autrice, quel libro sarebbe una bestia nera del mondo gay. Comunque i casi sono due. O queste accuse sono infondate, ma allora non si capisce perché nessuno finora abbia cercato di confutarle. Oppure Nicla Vassallo coglie nel segno, ma allora viene da chiedersi perché per tanto tempo il testo più noto di Simone de Beauvoir sia stato presentato come il contrario di quello che è. Urge qualche spiegazione.

Repubblica Torino 8.11.08
L'ateo Odifreddi si scopre leader Applausi alla controinaugurazione
"Il vero problema della riforma è l'ingresso dei privati che sarà devastante"
"I tagli della Gelmini valgono mezzo miliardo, l'ora di religione ci costa il doppio"
di Federica Cravero


Pochi ma buoni. Non è riuscita a mobilitare le folle la contro-manifestazione organizzata di fronte al Politecnico come risposta all´inaugurazione ufficiale dell´anno accademico che si teneva all´interno. Ma quelli che c´erano, circa trecento tra studenti, ricercatori e anche qualche docente, hanno seguito con attenzione gli oratori che dal palco parlavano in maniera critica delle trasformazioni che scuola e università sono destinate a subire con il piano di tagli previsti dal governo. Colpa forse del tempo piovigginoso, o forse del programma fiume che prevedeva appuntamenti dalle dieci del mattino a mezzanotte, incluso il monologo «teatro per ingegneri» dell´attore Beppe Rosso e un concerto di vari gruppi torinesi tra cui i Fratelli Sberlicchio, mentre Giulietto Chiesa, atteso nel pomeriggio, ha dato forfait.
Verso mezzogiorno è arrivato anche il corteo di solidarietà partito da Palazzo Nuovo occupato, che si è sistemato ai piedi del palco dove una bara con tanto di fiori e ceri simboleggiava la morte dell´università. Stesso palco da cui ha parlato anche Ciro Argentino in rappresentanza dei lavoratori Thyssenkrupp uniti nella lotta degli studenti e una rappresentante dei genitori.
A scaldare i presenti ci ha pensato Piergiorgio Odifreddi, matematico e docente di Logica, oltre che scrittore. «L´università è veramente in una situazione disastrata e va riformata ma non certamente utilizzando gli strumenti previsti da questa legge - ha detto a proposito della 133 - Il vero problema è voler fare una trasformazione verso il privato in modo indiscriminato. Ci sarà una spaccatura fra cultura scientifica e cultura umanistica, perché quale azienda vorrà investire su una ricerca nel campo della glottologia ad esempio?». Poi il discorso è finito sulla Chiesa: «I tagli di quest´anno ammontano a mezzo miliardo di euro, mentre pagare l´ora di religione nelle scuole costa allo Stato il doppio. D´accordo che non si può modificare con una legge un accordo con un paese straniero e non si può abolire quell´insegnamento, ma almeno potrebbe pagarselo la Chiesa». E poi è stato il momento della critica mirata al ministro Gelmini «che chissà come è arrivata lì, non facciamo polemiche... Ma sì facciamole, anche uno di Forza Italia come Guzzanti ha parlato di mignottocrazia». Applausi e risatine. È stato lui il «big» della mattinata, ha firmato qualche autografo, si è fermato a chiacchierare con gli studenti che lo avvicinavano, così come ha fatto con il rettore Francesco Profumo, passato a salutare, come un padre premuroso, i suoi ragazzi radunati sotto il monumento al Fante d´Italia. «Grazie per aver organizzato questo evento, per aver scelto la strada del dialogo e del confronto, anche duro, se è il caso - ha detto il rettore - Mi auguro che il governo ascolti e dia delle risposte. In questo momento ci vuole un fronte comune delle posizioni, dove si possa sentire la voce di tutti».

Il Messaggero 8.11.08
Il voto delle religioni: Barack conquista i cattolici


WASHINGTON Barack Obama, nonostante le sue posizioni a favore della libertà di aborto, ha conquistato l'elettorato cattolico statunitense: dai dati sugli exit poll diffusi dal Pew Forum on Religion and Pubblic Life (uno dei maggiori istituti statistici americani), il senatore afro-americano ha ottenuto il voto del 54% dei cattolici degli States, mentre il suo avversario repubblicano, John McCain, si è fermato al 44%.
Un salto in avanti notevole: nel 2004, il 52% dei cattolici avevano infatti votato per George W. Bush, e il 47% per il democratico John Kerry (cattolico, ma osteggiato dai vescovi perché troppo filo-abortista). Il senatore nero è avanzato anche tra i protestanti: il 45% di loro lo ha votato, anche se la maggioranza è rimasta repubblicana; nel 2004 Kerry aveva ottenuto il 40% del voto protestante.
I cristiani rappresentano la religione dominante negli Stati Uniti, ovvero circa l'82% di una popolazione di oltre 300 milioni di abitanti. Alle varie chiese protestanti tradizionali, divise in una decina di denominazioni (dai battisti agli anglicani, dai luterani ai metodisti) appartengono oltre il 50% degli statunitensi; i cattolici costituiscono il 25% circa della popolazione (un dato in continua crescita grazie ai latinos) e i restanti cristiani a comunità minori, come ad esempio i Testimoni di Geova.
Il dato interessante, sia nel caso dei protestanti che dei cattolici, è che il senatore di origine africana ha conquistato consensi tra i bianchi, anche se il guadagno più consistente è stato tra gli altri gruppi etnici. Obama è avanzato del 5% tra gli evangelici bianchi, tradizionalmente repubblicani, e del 4% tra i bianchi cattolici.
Sulla Cns, agenzia di stampa della Conferenza episcopale cattolica statunitense, si ammette che gli elettori hanno basato il loro voto in primo luogo su questioni come l'economia, l'assistenza sanitaria e la guerra in Iraq, anzichè su temi su cui tradizionalmente si incentrano le preoccupazioni religiose, come l'aborto o le unioni tra persone dello stesso sesso. Negli Stati dove i vescovi hanno martellato di più sulle questioni etiche, ad esempio in Missouri o in Pennsylvania, i cattolici hanno dato il loro voto in percentuale maggiore a McCain.
Stavolta la Conferenza episcopale americana, nella sua dichiarazione pre-elettorale Faithful Citizenship, aveva sì sottolineato l'importanza dell'aborto tra i criteri di scelta, lasciando però alla fine libertà di coscienza ai propri fedeli. Evidentemente nè il “laico” McCain nè l'ultraconservatrice Sarah Palin davano sufficienti garanzie.
Contro Kerry, invece, i presuli erano stati molto più duri, favorendo, nonostante le divergenze sull'Iraq, la vittoria di Bush junior.

Ansa 7.11.08
Cinema: Anteprima di "Contamination", il dramma dei malati psichiatrici

FIRENZE, 7 NOV - Il regista russo Rodion Nahapetov e l’attore americano Eric Roberts, fratello di Julia, hanno presentato oggi a Siena il film ’Contamination’ proiettato in anteprima al «Terra di Siena Film Festival». «Contamination’, è stato spiegato, è un thriller basato su eventi realmente accaduti che illustra ciò che è avvenuto e continua ad avvenire nelle cliniche psichiatriche. In Russia, come in molti altri paesi, milioni di persone, in seguito all’esperienza della clinica psichiatrica, perdono ogni diritto fino a non poter più lavorare, viaggiare, guidare un auto. Il film vuole contribuire a sensibilizzare l’opinione pubblica in merito ai pericoli degli istituti di igiene mentale, rivendicando diritti per il paziente e l’approvazione di leggi che permettano al malato di essere reintegrato a pieno nella società. La madre dello stesso Nahapetov, Galina Proponenko, ha raccontato il regista, è stata tra le vittime di torture psicologiche avvenute nel corso di esperimenti psichiatrici. »Ma non è un film biografico - precisa il regista - È un thriller e come tale rispetta delle regole proprie. Riguardo a mia madre va detto che nell’epoca sovietica la psichiatria era considerata come massimo strumento di punizione. Mia madre diceva che Lenin aveva sbagliato nel fare la rivoluzione e per questo motivo fu ricoverata in un istituto psichiatrico«. (ANSA). YME-GRO 07-NOV-08 16:14 NNN