La scuola e le sue spine
La scuola le proteste e la verità sulla riforma
di Mario Pirani
Nei cortei di questi giorni anche parole d´ordine vaghe Ma sul maestro unico le proposte del governo possono essere confutate
I bambini e le mamme del Nord avranno risorse che saranno decurtate al Sud
L´avversione al decreto potenziata dalle prepotenti e sciocche minacce berlusconiane
Venezia agli albori del Novecento conobbe il primo sciopero generale spontaneo della sua storia. La manifestazione in piazza S. Marco indetta dai nascenti sindacati vide, però, una partecipazione preponderante di donne. La ragione di questa presenza, straordinaria e sorprendente per l´epoca, risiedeva nel fatto che la protesta era scoppiata per un motivo davvero singolare: una puerpera era stata costretta a partorire, senza soccorso, sui gradini dell´Ospedale Maggiore, all´aria aperta. Il fatto venne assunto a simbolo di qualcosa di molto più generale: l´insopportabilità dell´assenza, al di fuori delle opere di carità cattoliche, di qualsiasi forma di pubblica assistenza. Il Welfare State era, infatti, al di là da venire.
Questo lontanissimo episodio mi è venuto alla mente riflettendo sulla tumultuosa e massiccia protesta del mondo della scuola dilagata in questi giorni in tutta Italia in odio al decreto Gelmini. Eppure quel decreto, tradotto ora in legge, non conteneva minacce tanto dirompenti da giustificarne il crucifige, anche se su un punto ? il maestro unico alle elementari e le diminuzioni di insegnanti che ciò implica ? meritava un ripensamento di fondo, di cui parleremo più avanti. L´avversione al decreto, potenziata dalle prepotenti quanto sciocche minacce berlusconiane, si è invece caricata di ben altri significati ? appunto come quel parto davanti all´ospedale ? e ha dato alle manifestazioni studentesche motivazioni assai più ampie, pur se confuse, che spaziavano dalle elementari all´Università. Comunque, tra tutte, la più forte, in parte giusta e in parte sbagliata, è stata quella contro tutti i tagli previsti (non dalla Gelmini ma dalla Finanziaria, approvata senza che nessuno fiatasse tre mesi orsono). Di tutto questo si è appropriata l´opposizione e non è pensabile che facesse altrimenti.
Assurdo, quindi, ogni biasimo sulla carenza di fair play riformista, dimostrata in questa contingenza da Walter Veltroni. Quel che per contro potrebbe essere rilevata criticamente è l´assunzione, senza beneficio d´inventario, della proteiforme nebulosa protestataria, rinunciando in partenza ad un intervento per darle uno sbocco razionale e positivo, interpretando il disagio reale della scuola, ancorché sotteso a slogan inconsistenti, studiando e scegliendo obiettivi possibili e immediati, quanto prospettando mete di riordino a più lungo termine. Così non è stato. Alcun ascolto ha trovato, inoltre, l´appello di Giorgio Napolitano, pronunciato all´apertura dell´anno scolastico, perché si affrontassero con «senso della misura e realismo le questioni più spinose, compresi gli impegni finanziari... L´Italia - specificava per maggior chiarezza il Capo dello Stato - nel suo stesso vitale interesse deve ridurre a zero nei prossimi anni il suo deficit pubblico... nessuna parte sociale e politica può sfuggire a questo imperativo ed esso comporta anche - inutile negarlo - un contenimento della spesa per la scuola... l´obbiettivo non può prevalere su tutti gli altri e va formulato, punto per punto, con grande attenzione, in un clima di dialogo. Ma ciò non può risolversi nel rifiuto di ogni revisione necessaria a fini di risparmio».
La risposta non poteva essere più deludente: Berlusconi ha inteso l´invito al confronto come un incentivo alla minaccia poliziesca, Veltroni ha preferito la deriva populista di facile presa ma scarsa prospettiva, ribadendo un No preclusivo a tutti i tagli e annunciando un discutibilissimo referendum anti-Gelmini, peraltro improponibile in materia finanziaria. Per contro era possibile avanzare contro proposte convincenti sia sul maestro unico e sugli sprechi, elencati voce per voce in un dossier di «TuttoscuolA», l´ottima agenzia indipendente che su Internet monitorizza quotidianamente la vita scolastica.
Il decreto Gelmini, peraltro, nel suo impianto globale si muoveva esplicitamente lungo il solco della correzione di rotta già impresso da Fioroni e Bastico, ministro e vice ministro del governo Prodi, per riportare un minimo d´ordine e di serietà negli studi. Lo prova le lettura degli otto articoli della legge che riguardano nell´ordine l´introduzione dell´insegnamento su «Cittadinanza e Costituzione», la conferma della revisione anti-bullismo dello Statuto degli studenti, messa a punto da Fioroni con la valutazione in pagella e in sede di scrutinio finale del comportamento, un tempo chiamato «condotta», la misura in decimi del voto, la necessità di conseguire almeno la media del 6 per la promozione e l´ammissione all´esame di Stato, l´obbligo per gli editori di adottare libri di testo validi per cinque anni, così da non costringere le famiglie a continui esborsi per inutili aggiornamenti, l´abilitazione all´insegnamento nelle scuole elementari e dell´infanzia per chi abbia ottenuto la laurea in scienza della formazione primaria, infine una modifica delle norme di accesso alle scuole di specializzazione medica.
Veniamo al contestato articolo sul maestro unico che, in realtà, sarebbe più giusto definire come una disposizione sul tempo-scuola, ridotto a 24 ore settimanali, come era fino al 1990. Qui incidono i tagli destinati a risparmiare su precari-supplenti. Ma, per un giudizio motivato, è utile ricordare cosa si proponeva la riforma della mitica ministra Falcucci, dc doc mai abbastanza rimpianta. Per ampliare il ventaglio di conoscenze già nell´età infantile e, ad un tempo, per consentire al più gran numero di madri di entrare nel mercato del lavoro, venne deciso di procedere gradualmente e attraverso sperimentazioni e verifiche a una modifica radicale, portando inizialmente l´orario normale da 24 a 27 ore e, via via a 30, mano a mano che le scuole si mettevano in grado di assumere un insegnante per la lingua straniera, la cui introduzione era il vero clou della riforma. Questo avrebbe comportato due ritorni pomeridiani la settimana o l´organizzazione di una mensa scolastica ad opera dei Comuni. Un servizio indispensabile nel momento in cui andava a regime il secondo pilastro della riforma, un tempo pieno di 40 ore settimanali, compresa la pausa pranzo.
Anche l´insegnamento variava di tenore tra le lezioni mattutine e le attività pomeridiane. Fu una stagione di forte innovazione pedagogica - come rievoca sul suo blog Marco Rossi-Doria, fondatore del movimento dei «maestri di strada» nei Quartieri Spagnoli di Napoli - generata da molti fattori, dalla spinta all´accesso al lavoro di nuove generazioni femminili in un contesto economico in evoluzione all´esigenza di aprire un fronte precoce contro l´analfabetismo che nasce dalla povertà e la genera a sua volta, largamente diffuso nel Mezzogiorno. L´idea di più docenti per classe nacque dalla verifica delle urgenze educative enormi che il Paese cominciava a sentire, ma la loro progressiva introduzione era stata immaginata e sperimentata come una costellazione che, soltanto dalla terza elementare in poi, avrebbe ruotato attorno alla figura-chiave della maestra centrale (i maestri sono solo il 4%) affiancata dagli insegnanti specializzati per la lingua straniera, l´educazione motoria e il sostegno ai disabili, liberati dalle classi differenziate, l´educazione musicale e artistica. Su questo impianto, mentre i Comuni dovevano assicurare le mense scolastiche, la riforma Falcucci prolungava l´orario e introduceva di massima i «moduli» di tre insegnanti per due classi, così da consentire il tempo pieno e una formazione più articolata, con «classi aperte». Solo a questo punto ci fu l´improvvido intervento negativo dei sindacati e di quasi tutto l´associazionismo cattolico e laico, sostenuto alla fine dal centro-sinistra e dal Pci. Fu un attacco volgare contro la «maestra chioccia», in nome dell´eguaglianza fra gli insegnanti, che divennero per legge tutti «contitolari» della classe. Alla collaborazione fra docenti, che si svolgeva nelle «classi aperte» fra alunni di vario grado, una forma dell´autonomia che aveva cominciato a funzionare benissimo sulla base di un autentico rinnovamento pedagogico, si sostituirono «moduli» rigidi e decisi dal centro. In realtà questa organizzazione, che ingessò la riforma in una gabbia burocratica e aumentò l´organico oltre il necessario, venne suggerita non da valutazioni educative ma dalla paura che la curva demografica, segnata dal calo in pochi anni degli alunni delle elementari da quasi cinque milioni a 3.247.000, decurtasse inevitabilmente anche il numero degli insegnanti. Da qui, dunque, si poteva ripartire oggi per un confronto che recuperasse il senso profondo della riforma Falcucci, risparmiando dove era giusto ma senza annullare tutto con un tratto di penna.
Non voglio, peraltro, ignorare l´impegno proclamato dall´on. Gelmini, secondo cui il tempo pieno, per chi già ne gode, non verrà scalfito. È una verità parziale che nasconde una realtà molto amara. La nuova legge, infatti, riduce le ore di scuola per i bambini dai 3 ai 10 anni e lo fa.... dove non c´è tempo pieno. Questo, infatti, non è distribuito egualmente nel territorio: a Milano copre l´89,5% degli alunni, a Torino il 65,5, a Roma il 54,4 ma a Napoli solo l´1,5 e in tutto il Sud non raggiunge il 9% delle scuole. La legge fotografa e congela questa situazione. I bambini e le mamme del Nord avranno il mantenimento delle risorse che saranno decurtate al Sud. Qui i bambini usciranno alle 12,30 già l´anno prossimo e l´effetto seguiterà a ricadere sulle madri meridionali, che tanto per il 62% sono fuori del mercato del lavoro. E Comuni e Regioni potranno seguitare a trascurare l´organizzazione delle mense scolastiche.
Un ultimo post scriptum: se invece di compiacersi del gran casino, l´opposizione riformista volesse avanzare delle controproposte in materia di tagli, perché non affrontare la possibilità di abolire, come in tutti i paesi europei, il quinto anno delle superiori e permettere ai giovani italiani di ottenere il diploma a 17 anni, come francesi, tedeschi e inglesi, invece di restare nei banchi fino a 18 ed avviarsi al lavoro o alle Università a 19?
Corriere della Sera 10.11.08
Tre fattori distorsivi
Le malattie della scola
di Giovanni Sartori
Berlusconi non è Churchill — non promette lacrime ma felicità perenne — e non ama lo scontro sulle piazze che incrina la sua popolarità «di massa». Così rinvia in parte la preannunziata riforma dell'Università. Approfitto della pausa per approfondire il poco approfondito, e cioè i problemi originari di una scuola che è, a tutti i livelli, un malato anziano, un malato di vecchia data. E se non ricordiamo agli imberbi e alle giovanette (tra le quali la appena 36enne ministro del-l'Istruzione) come e perché la malattia è cominciata, non si vede proprio come siano in grado di curarla. Supposto, beninteso, che questo sia l'intento.
All'origine di tutti i mali del nostro sistema educativo c'è la scoperta (dico così per dire) che la scuola coinvolge un enorme serbatoio di voti. Chi la tocca, contenta o disturba tutti i giovani in età scolastica, le loro famiglie, e anche un'armata di insegnanti, anch'essi con famiglie. Se non si tratta di metà del Paese, poco ci manca. Aggiungi che il tasto della scuola è altamente emotivo e infiammabile; in ballo c'è il futuro dei giovani, giovani che sono anche i nostri figli. Pertanto non è un caso se la Dc non ha mai lasciato ad altri, finché ha regnato, il ministero dell'Istruzione di viale Trastevere.
Intendiamoci: la prima Dc di ispirazione degasperiana ha avuto ministri dell'Istruzione bravi e responsabili che avevano davvero a cuore gli interessi della scuola, e che non li sottoponevano agli interessi di partito. Mi piace ricordare, tra questi, il ministro Gui, un gran signore veneto, fatto fuori da uno dei giovani macachi emergenti (Bisaglia) di quegli anni; e mi piace anche ricordare il ministro Malfatti che potrebbe confermare, se non fosse scomparso prematuramente, la mia battaglia, in una commissione ministeriale, per l'abolizione del valore legale del titolo di studio. Malfatti mi dava ragione, ma mi disse in tutta franchezza (non era un tipo Moro): sarebbe da fare, ma «politicamente non lo posso fare». Già. La caccia al voto o, viceversa, il terrore del voto erano già diventati, a quel tempo, la preoccupazione dominante dei gestori del sistema educativo. Poi arrivò il '68 e da allora vige e impera la demagogia scolastica. Della quale sono finalmente venuti al pettine i nodi.
Ciò premesso, i fattori distorsivi specifici del cattivo riformismo della scuola sono tre. Il primo è stato, appunto, il Sessantottismo, che è stato esiziale perché ha predicato l'ignoranza del passato, così recidendo quella trasmissione del sapere che dovrebbe essere la prima missione dell'educatore; ed esiziale perché, cavalcando la tigre dell'antielitismo, ha distrutto il principio del merito producendo la «società del demerito» che premia i peggiori e gli incapaci a danno dei competenti e dei migliori. Davvero formidabili quei ragazzi.
Il secondo fattore distorsivo è stato il progressivismo pedagogico (largamente di ispirazione psicoanalitica), che ha infestato tutta la disciplina, ma che ha avuto il suo più dannoso rappresentante nel celebre dottor Benjamin Spock, il guru che ha convertito al permissivismo tutte le madri dell'Occidente con la dottrina che il bambino non doveva essere frustrato da punizioni. E' vero che poi Spock ha rinnegato, da ultimo, la sua dottrina; ma era troppo tardi. In passato i genitori erano dalla parte dei maestri; ora li assaltano nel chiedere la promozione ad ogni costo dei loro poveri figli. Prima la scuola media si reggeva sull'alleanza genitori-maestri. Ora i maestri che resistono all'andazzo «mammistico» sono lasciati soli e sono vilipesi come «repressivi ». Davvero formidabili quei genitori.
C'è infine un fattore distorsivo che sfugge ai più: la teoria della società post-industriale come «società dei servizi» fondata sul sapere, o quantomeno su alti livelli di istruzione. D'accordo; ma il post-industriale non doveva e non poteva sostituire l'industriale, vale a dire il nocciolo duro della produzione della ricchezza. Senza contare che la società dei servizi si trasforma facilmente in una società parassitaria di «piena occupazione » fasulla (tale anche perché gli economisti misurano bene la produttività industriale, ma assai meno bene la produttività di un universo burocratico). Il punto è, comunque, che è proprio l'idea della società dei servizi nella quale nessuno si sporca le mani che alimenta la insensata corsa universale al «pezzo di carta» del titolo universitario. Se ogni tanto ci fermassimo a pensare, ci dovremmo chiedere: ma perché tutti devono andare all'Università? C'è chi proprio non è tagliato per studi superiori (che difatti si sono «abbassati» per accoglierlo). Nemmeno è vero, poi, che il lavoro «terziario » dia più felicità. Anzi. Più si moltiplicano gli attestati cartacei che creano alte aspettative, e più creiamo legioni di scontenti senza lavoro, o costretti a un lavoro che considerano indegno del loro rango.
Fin qui gli antefatti che hanno prodotto la crisi e le malattie della scuola. Verrò ai fatti a una prossima occasione.
Repubblica 10.11.08
Diaz, la notte nera della democrazia il giorno del giudizio per 29 poliziotti
di Giuseppe D’Avanzo
«Uno Stato che vessa e maltratta le persone private della libertà non è uno Stato democratico. Una polizia che usa la forza non per impedire reati, ma per commetterne, non può essere considerata "forza dell´ordine". Fatti di questo genere distruggono la credibilità delle istituzioni più di tanti insuccessi dei poteri pubblici». Valerio Onida, giudice emerito della Corte Costituzionale. Sono parole che bisogna tenere a mente ora che il processo per le violenze della polizia nella scuola "Diaz", durante i giorni del G8 di Genova, è prossimo alla sentenza.
«Uno Stato che vessa e maltratta le persone private della libertà non è uno Stato democratico. Una polizia che usa la forza non per impedire reati, ma per commetterne, non può essere considerata "forza dell´ordine". Fatti di questo genere distruggono la credibilità delle istituzioni più di tanti insuccessi dei poteri pubblici». Valerio Onida, giudice emerito della Corte Costituzionale. Sono parole che bisogna tenere a mente ora che il processo per le violenze della polizia nella scuola "Diaz", durante i giorni del G8 di Genova, è prossimo alla sentenza.
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Il 21 luglio del 2001 è il giorno più tragico del G8 di Genova. È morto Carlo Giuliani in piazza Alimonda in una città distrutta dai black bloc ? che riescono inspiegabilmente a colpire indisturbati e a dileguarsi senza patemi. Per tutto il giorno, Genova è insanguinata dai pestaggi della polizia, dei carabinieri, dei "gruppi scelti" della guardia di finanza contro cittadini inermi, donne, ragazzi, anche anziani, spesso con le braccia alzate verso il cielo e sulla bocca un sorriso. Ora, più o meno, è mezzanotte. Mark Covell, 33 anni, inglese, giornalista di Indymedia.uk, ozia davanti al cancello della scuola Diaz, diventato un dormitorio dopo che i campeggi sono stati abbandonati per la pioggia. Covell si accorge che la polizia sta "chiudendo" la strada. Avverte subito il pericolo. Estrae l´accredito stampa, lo mostra, lo agita. I poliziotti, che lo raggiungono per primi (sono della Celere, del VII nucleo antisommossa del Reparto Mobile di Roma), lo colpiscono con i "tonfa" o "telescopic baton", più che un manganello un´arma tradizionale delle arti marziali: rigido e non di caucciù, a forma di croce: «può uccidere», se ne vanta chi lo usa. Colpiscono Mark senza motivo. Come, senza ragione, un altro poliziotto con lo scudo lo schiaccia ? subito dopo ? contro il cancello mentre un altro, come un indemoniato, lo picchia alle costole. Gli gridano in inglese: «You are black bloc, we kill black bloc» («Tu sei un black, noi ti uccidiamo»).Covell cade finalmente a terra. E´ semisvenuto, in posizione fetale. Potrebbe bastare anche se fosse un incubo, ma per Mark il calvario non è ancora finito. Tutti i "celerini" che corrono verso la scuola lo colpiscono a terra con calci (il pestaggio di Covell è ripreso da una videocamera). Covell rimarrà, esanime, circondato dall´indifferenza, in quell´angolo di via Cesare Battisti, al quartiere di Albaro, per oltre venti minuti. Ha una grave emorragia interna, un polmone perforato, il polso spezzato, otto fratture alle costole, dieci denti in meno. Quando si sveglia in ospedale, viene arrestato per resistenza aggravata a pubblico ufficiale, concorso in detenzione di arma da guerra e associazione a delinquere. (E´ ancora aperta l´indagine per individuare i poliziotti che lo hanno quasi ucciso. L´accusa: tentato omicidio).
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Distruggere. Annientare. E´ con questo obiettivo che, dopo aver abbattuto con un blindato Magnum il cancello, le prime tre squadre del Reparto Mobile di Roma (trenta uomini) invadono, a testuggine, il pianoterra della scuola. Arnaldo Cestaro, «un vecchietto», è sulla destra dell´ingresso. Viene travolto. Lo gettano contro il muro. Lo picchiano con i "tonfa". Gli spezzano un braccio e una gamba. Ora ci sono urla e baccano. Nella palestra, ai piani superiori ragazzi e ragazze - anche chi si è già infilato nel sacco al pelo per dormire - comprendono che cosa sta accadendo. Tutti raccolgono le loro cose, il bagaglio leggero che si portano dietro da giorni. Si sistemano con le spalle al muro; chi in ginocchio; chi in piedi; tutti con le braccia alzate in segno di resa; chi ha voglia di un´ultima "provocazione" mostra al più indice e medio a V. Daniel Mc Quillan, quando vede le divise, si alza in piedi e dice: «Noi siamo pacifici, niente violenza». «Come se fossero un branco di cani impazziti, sono su di lui in un istante e lo colpiscono, lo colpiscono, lo colpiscono?», dicono i testimoni. La furia dei celerini si scatena contro chiunque e dovunque, irragionevolmente, con furore (si vede uno che mena colpi con una specie di mazza da baseball). Melanie Jonach racconterà di essere svenuta subito al primo colpo che la raggiunge alla testa. Gli altri, che vedono la bastonatura inflittale, ricordano i suoi occhi aperti ma incrociati, le contrazioni spastiche del corpo. Anche in queste condizioni, continuano a picchiarla e a prenderla a calci. Un ultimo calcio sbatte la sua testa contro un armadio: ora è "aperta" come un melone. Il comandante del VII nucleo, a quel punto, grida «Basta!». Raggiunge la ragazza. «La tocca con la punta dello stivale. Melanie non dà segni di vita e quello ordina che venga chiamata un´autoambulanza». (Melanie Jonach ci arriverà in codice rosso con una frattura cranica nella regione temporale sinistra). Nicola Doherty ancora piange in aula mentre racconta: «Hanno cominciato a picchiarci immediatamente. C´era gente che piangeva e implorava i poliziotti di fermarsi. Anch´io piangevo e chiedevo che la smettessero. Uno mi è venuto vicino e con fare dolce mi ha detto "Poverina!" e mi ha colpito ancora. Sembrava che ci odiassero. Ho visto un poliziotto con un coltello in mano, bloccava le ragazze, i ragazzi e tagliava una ciocca di capelli con il coltello». Voleva il suo personale trofeo di guerra. Altri continuano a gridare, dopo aver picchiato duro: «Dì, che sei una merda». Mentre colpiscono gridano: «Frocio!», «Comunista!», «Volevate scherzare con la polizia?», «Nessuno sa che siamo qui e ora vi ammazziamo tutti!».Lena Zulkhe, colpita alle spalle e alla testa, cade subito. Le danno calci alla schiena, alle gambe, tra le gambe. «Mentre picchiavano, ho avuto la sensazione che si divertissero». La trascinano per le scale afferrandola per i capelli e tenendola a faccia in giù. Continuano a picchiarla mentre cade. La rovesciano quasi di peso verso il pianoterra. «Non vedevo niente, soltanto macchie nere. Credo di essere per un attimo svenuta. Ricordo soltanto - ma quanto tempo era passato? - che sono stata gettata su altre due persone, non si sono mossi e io gli ho chiesto se erano vivi. Non hanno risposto, sono stata sdraiata sopra di loro e non riuscivo a muovermi e mi sono accorta che avevo sangue sulla faccia, il braccio destro era inclinato e non riuscivo a muoverlo mentre il sinistro si muoveva ma non ero più in grado di controllarlo. Avevo tantissima paura e pensavo che sicuramente mi avrebbero ammazzata».
Dei 93 ospiti della "Diaz" arrestati, 82 sono feriti, 63 ricoverati ospedale (tre, le prognosi riservate), 20 subiscono fratture ossee (alle mani e alle costole soprattutto, e poi alla mandibola, agli zigomi, al setto nasale, al cranio).
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Che cosa ha provocato questa violenza rabbiosa e omicida? Come è stata possibile pensarla, organizzarla, realizzarla. Il 22 luglio, il portavoce del capo della polizia convoca una conferenza stampa e distribuisce un brevecomunicato che vale la pena di ricordare per intero: «Anche a seguito di violenze commesse contro pattuglie della Polizia di Stato nella serata di ieri in via Cesare Battisti, si è deciso, previa informazione all´autorità giudiziaria, di procedere a perquisizione della scuola Diaz che ospitava numerosi giovani tra i quali quelli che avevano bersagliato le pattuglie con lancio di bottiglie e pietre. Nella scuola Diaz sono stati trovati 92 giovani, in gran parte di nazionalità straniera, dei quali 61 con evidenti e pregresse contusioni e ferite. In vari locali dello stabile sono stati sequestrati armi, oggetti da offesa ed altro materiale che ricollegano il gruppo dei giovani in questione ai disordini e alle violenze scatenate dai Black Bloc a Genova nei giorni 20 e 21. Tutti i 92 giovani sono stati tratti in arresto per associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e saccheggio e detenzione di bottiglie molotov. All´atto dell´irruzione uno degli occupanti ha colpito con un coltello un agente di Polizia che non ha riportato lesioni perché protetto da un corpetto. Tutti i feriti sono stati condotti per le cure in ospedali cittadini». Il portavoce mostra anche le due molotov che sarebbero state trovate nell´ingresso della scuola, «nella disponibilità degli occupanti».
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Il processo di Genova ha dimostrato ragionevolmente (e spesso con la qualità della certezza) che nessuna delle circostanze descritte dal portavoce del capo della polizia (capo della polizia era all´epoca Gianni De Gennaro) corrisponde al vero. Quelle accuse sono false, quelle ragioni sono inventate di sana pianta. Si dice che l´assalto (la «perquisizione») fu organizzato dopo che un corteo di auto e blindati della polizia era stato, poco prima della mezzanotte, assalito in via Cesare Battisti con pietre, bottiglie e bastoni. Il processo ha dimostrato che non c´è stata nessuna pattuglia aggredita. Si dice che gli ospiti della Diaz fossero già feriti, quindi coinvolti negli scontri in città. Nessuno dei 93 arrestati era ferito prima di essere bastonato dai "celerini". Poliziotti, comandanti, dirigenti hanno riferito che, mentre entravano nella scuola, c´è stata contro di loro una sassaiola e addirittura il lancio di un maglio spaccapietre. I filmati hanno dimostrato che non fu lanciata alcun sasso e nessun maglio. Il comandante del Reparto Mobile di Roma ha scritto in un verbale che ci fu una vigorosa resistenza da parte di «alcuni degli occupanti, armati di spranghe, bastoni e quant´altro». Assicura che nella scuola (entra tra i primi) sono stati «abbandonati a terra, numerosi e vari attrezzi atti ad offendere, tipo bastoni, catene e anche un grosso maglio». Nella scuola non c´è stata alcuna colluttazione, nessuna resistenza, soltanto un pestaggio. Nessuno degli occupanti ha tentato di uccidere con una coltellata il poliziotto Massimo Nucera. Due perizie dei carabinieri del Ris hanno smentito che lo sbrego nel suo corpetto possa essere il frutto di una coltellata. Nella scuola non c´erano molotov. Come ha testimoniato il vicequestore che le ha sequestrate, quelle due molotov furono ritrovate da lui non nella scuola la notte del 22 luglio, ma sul lungomare di Corso Italia nel pomeriggio del giorno precedente. La prova falsa, manipolata, è stata inspiegabilmente distrutta, durante il processo, nella questura di Genova.* * *
In settimana il tribunale deciderà delle responsabilità personali dei 29 imputati (poliziotti, dirigenti, comandanti, alti funzionari della polizia di Stato) accusati di falso ideologico, abuso di ufficio, arresto illegale e calunnia. Quel che qui conta dire è che la responsabilità non penale, ma tecnico-politica di chi, impotente a fronteggiare i black bloc, si è abbandonato (per vendetta? per frustrazione? con quali ordini e di chi?) a pestaggi ingiustificati e indiscriminati, non può e non deve essere liquidata da questa sentenza. Centinaia di agenti, sottufficiali, ufficiali, dirigenti di polizia, funzionari del Dipartimento di pubblica sicurezza hanno mentito durante le indagini e al processo. E chi non ha mentito, ha negato, taciuto o dissimulato quel che ha visto e saputo. Dell´assalto alla "Diaz" non inquieta soltanto il massacro di 93 cittadini inermi diventati in una notte «criminali» a cui non si riconosce alcuna garanzia e diritto. Quel che angoscia è anche questo silenzio arrogante, l´omertà indecorosa che manipola prove; costruisce a tavolino colpevoli; nasconde le responsabilità; sfida, senza alcuna lealtà istituzionale, il potere destinato ad accertare i fatti. Le apprensioni di sette anni raddoppiano ora che, decreto dopo decreto, si fa avanti un «diritto di polizia». Il Paese ha bisogno di sapere se il giuramento alla Costituzione delle forze dell´ordine non sia una impudente finzione. Perché quel che è accaduto a Mark Covell e ai suoi 92 occasionali compagni di sventura rende chiaro, più di qualsiasi riflessione, come uno Stato che si presenta nelle vesti di sbirro e carnefice fa assai presto a diventare uno Stato criminale quando il dissidente, il non conforme, l´altro diventa un «nemico» da annientare.Repubblica 10.11.08
Prove false e omertà duecento "picchiatori" restano senza nome
di Massimo Calandri
GENOVA. Alla vigilia della sentenza la procura del capoluogo ligure ha svelato un altro "mistero". Un´altra vergogna, per dirla con le parole dei magistrati. Il mistero dell´agente Coda di Cavallo, picchiatore impunito: riconosciuto solo dopo sette lunghissimi anni, nonostante l´omertà di colleghi e superiori. Non è purtroppo l´ultimo degli enigmi di questa scomoda storia, ma ormai non c´è più tempo per fare chiarezza. La prima sezione del tribunale di Genova, presieduta da Gabrio Barone, entrerà in camera di consiglio giovedì mattina. Qualche ora dopo sapremo. Per i protagonisti della sciagurata irruzione nella scuola Diaz, durante il G8 del luglio 2001, i pubblici ministeri hanno chiesto 109 anni e 9 mesi complessivi di reclusione. Gli imputati sono 29, tra agenti e super-poliziotti. Responsabili a diverso titolo del massacro ingiustificato e ingiustificabile di 93 no-global, arrestati illegalmente con un verbale farcito di prove false.
Sotto accusa ci sono anche e soprattutto i vertici del ministero dell´Interno. Prima complici "di una della pagine più nere nella storia della Polizia di Stato". Poi, sempre secondo i pm Francesco Cardona Albini ed Enrico Zucca, ispiratori e registi della "sistematica corruzione per una nobile causa". Menzogne e versioni concordate, che tra l´altro sono costate un procedimento parallelo a Gianni De Gennaro, ex capo della polizia accusato di aver istigato a mentire il vecchio questore di Genova, Francesco Colucci.
Si chiude un processo inquieto ed inquietante che l´altro giorno stava finendo in rissa, in un paradossale ribaltamento dei ruoli: con gli avvocati difensori ? le cui parcelle, in caso di assoluzione, ammonteranno in tutto a circa dieci milioni di euro: pagherà il ministero - ad aggredire verbalmente i pm, accusandoli di aver violato sistematicamente il codice. E quelli a denunciare le "minacce" subìte. Si chiude un processo che ha sfiancato la procura, costretta a fare i conti con il catenaccio degli imputati. Nel corso del dibattimento quasi nessuno degli accusati si è presentato in aula per spiegare, chiarire. Nessuno dei Grandi Accusati. Non Francesco Gratteri, ora ai vertici dell´Antiterrorismo. Non Gilberto Cadarozzi, protagonista della cattura di Bernardo Provenzano. Chi ha scelto di parlare lo ha fatto solo per offrire "dichiarazioni spontanee", senza contraddittorio. Come Giovanni Luperi, attuale direttore dell´Aisi, l´ex Sisde. Che davanti ai giudici ha ammesso: "La Diaz è stata una pagina orribile", ma incalzato dai pm ha detto che quella notte era stanco, che non partecipò attivamente all´organizzazione dell´intervento perché più che altro pensava a dove portare a cena i colleghi. Se l´era presa con "quel vigliacco che ha portato le bottiglie incendiarie nella scuola", e ricordava di aver passato il sacchetto con le molotov ? quando ancora erano nel cortile - ad una funzionaria. Che a sua volta le aveva passate ad un misterioso ispettore della Digos di Napoli. Che le aveva portate nell´istituto. E che naturalmente è scomparso. Una versione tra Ionesco e De Filippo, come ha ironizzato Alfredo Biondi, avvocato di Pietro Troiani, il vice-questore bollato come l´ "uomo delle molotov". Il fotogramma-simbolo di questa storia è stato estrapolato da un filmato depositato nel corso del dibattimento il mese scorso. In lontananza, sulla sinistra, si vede il fantomatico ispettore che entra dalla porta laterale della scuola, con il sacchetto azzurro in mano. La regina delle prove false.
Falsa come la successiva collaborazione nelle indagini da parte della stessa polizia, sostiene la procura. Che cita l´ultimo emblematico caso. Coda di Cavallo, appunto. E´ un agente in borghese, viene filmato mentre ai piani superiori della Diaz prende a manganellate alcuni ragazzi inermi. Il volto è inquadrato in primo piano, e poi ci sono i capelli, raccolti in quella inconfondibile coda di cavallo. I magistrati chiedono ai poliziotti di dare un nome al loro collega. L´immagine per sette anni e mezzo fa il giro di tutte le questure d´Italia. Nessuno risponde. E però, nei giorni scorsi arriva il colpo di scena. Sono gli stessi magistrati a dargli un nome, perché l´agente Coda di Cavallo, con i capelli debitamente tagliati, ha l´arroganza di prendere posto tra il pubblico nel corso di alcune udienze. Di chi si tratta? Di un sottufficiale della Digos di Genova. L´ufficio incaricato di identificare i protagonisti della sciagurata irruzione. A proposito: la maggior parte di loro, oltre duecento, resta senza nome. Come senza nome sono i poliziotti che all´esterno dell´istituto sfondarono a calci i polmoni ad un giornalista inglese, Mark Cowell, uno dei 93 che poi risultò "ufficialmente" essere stato catturato nella scuola. Il fascicolo per tentato omicidio nei suoi confronti resta a carico di ignoti. Ed ignota è ancora la quattordicesima firma nel verbale d´arresto dei 93 no-global: un documento pieno di bugie che è costato il processo a 13 dei 29, ma non a quello che vigliaccamente ? non essendo possibile decifrare la sua scrittura ? ha preferito rimanere nel buio, un altro mistero di una notte vergognosa. La notte più buia della polizia che i pm riassumono amaramente: "Pensavano di fare il loro dovere. Ma hanno agito secondo una logica perversa. Fiduciosi che la loro illegalità sarebbe comunque stata tollerata, in tutte le sedi istituzionali".
Corriere della Sera 10.11.08
I sogni, l'inganno: autocritica a sinistra /1
Edmondo Berselli: poco realisti Incapaci di ascoltare la società
di Dino Messina
Di sinistra si nasce. Ed Edmondo Berselli modestamente lo nacque. Così, parafrasando Totò, il brillante critico del nostro costume chiude la sua più recente e forse più sofferta fatica, Sinistrati
(Mondadori, pagine 189, e 17,50). Un tormentone umoristico, un flusso di battute intrise nell'amarezza di chi ha davvero sofferto nell'assistere alla caduta di Romano Prodi nel 1998 e di vedere ripetere la stessa masochistica scena dieci anni dopo. A un certo punto un intellettuale di sinistra, un giornalista impegnato, uno studioso che è anche direttore della rivista Il Mulino, non può fare a meno di porsi alcune domande, le più crudeli.
Com'è che il governo Prodi dopo aver seriamente anche se litigiosamente operato per un paio d'anni, s'è ritrovato a raccogliere «pernacchie»? Com'è che il nuovo Partito democratico, in cui alla vigilia delle elezioni circolava la voce «non diciamolo troppo in giro ma stiamo rimontando, mancano due o tre punti percentuali », all'indomani del voto si è ritrovato come uno di quei pugili suonati sconfitti per ko e che si rialzano senza aver realizzato la batosta, senza sapere nemmeno dove stanno?
Una esilarante risposta Berselli la trova nella teoria elaborata da Marcello Marchesi, il signore di mezz'età che riassumeva così il dramma del tecnico: capire un tubo, e nient'altro. Proprio come gli intellettuali di sinistra che, mentre la destra recuperava terreno, riuscivano ad andare allo scontro come a un pranzo di gala. Attenti a costruire un programma che tenesse insieme «l'eolico e l'atomico», per «contemperare ogni contraddizione possibile» e non scontentare nessuno. «Mercato e solidarietà, libertà e tutela, concorrenza e protezione». Un'operazione di «realismo magico» in grado di lasciar tiepido l'elettorato di centro e nello stesso tempo perdere tutti, ma proprio tutti i pezzi della sinistra radicale.
Così quei «sinistrati» non necessariamente comunisti che ai tempi di Craxi dichiaravano «socialista sì, ma lombardiano » e che oggi vedono interi pezzi del partito di Craxi nella compagine berlusconiana, quei cattolici in dubbio tra Ratzinger e Habermas, quegli eredi di Berlinguer che ti zittiscono con aria di sufficienza perché «ben altro è il problema», tutti insieme sono costretti a chiedersi: dove abbiamo sbagliato? Tra una battuta corrosiva e un'altra, che non risparmia la «destra da Bagaglino» dei La Russa e Gasparri, Berselli accompagna la pars destruens del suo discorso a una pars construens.
Insomma, il suo libro non è scritto soltanto per fustigare e divertire. Il suggerimento dell'autore, in estrema sintesi, è di abbandonare i vizi da «casta» in cui è caduta la sinistra e ritornare ad ascoltare la società, a essere vicini ai suoi bisogni.
C'è una certa specularità, suggerisce l'autore quando abbandona il tono scanzonato e sarcastico che abbiamo già apprezzato in altre opere come
Venerati maestri, tra un Paese invecchiato in cui i giovani sono relegati a un ruolo marginale e il teatrino politico che ripropone per esempio lo stanco duello D'Alema-Veltroni, come se dai tempi della Federazione giovanile comunista non fossero passati trent'anni. Consideriamo tuttavia, suggerisce Berselli, che quando la sinistra attraversa la strada c'è sempre di mezzo un tram.
Corriere della Sera 10.11.08
I sogni, l'inganno: autocritica a sinistra /2
Riccardo Barenghi: tutti colpevoli. Sempre pronti a tendersi agguati
di Ranieri Polese
Dopo le elezioni dell'aprile scorso, parlando di Veltroni, Jena aveva scritto: «Bisognerà dargli atto di aver conseguito una vittoria assolutamente straordinaria: ha distrutto la sinistra». Jena altri non è che Riccardo Barenghi, già direttore del manifesto e ora editorialista alla Stampa.
Su Veltroni Jena-Barenghi non ha cambiato idea. La sua scelta di lasciare la segreteria del Pds per diventare sindaco di Roma (2001) fu esiziale; e l'anno scorso, la creazione del Pd che «correrà da solo» è stato il colpo di grazia per il governo Prodi. Che, certo, non era un granché: coalizione pasticciata di tutto e il contrario di tutto (da Mastella a Bertinotti), nato su un programma di ben 300 pagine che nessuno degli elettori poteva leggere, viveva sull'impossibile principio di dare un contentino a tutti. Da qui la cifra esorbitante dei 103 sottosegretari.
A un mese di distanza dall'antologia, uscita da Fazi, dei corsivi scritti da Jena in questi ultimi otto anni, sempre Fazi pubblica il nuovo libro di Barenghi, Eutanasia della sinistra (131 pagine, e 14). È il pamphlet amarissimo di uno che nella sinistra ci credeva, ma poi si è dovuto accorgere che i suoi politici di riferimento sono totalmente incapaci di capire il presente, di parlare alla gente, convinti che la colpa è sempre degli altri (i famigerati poteri forti, la stampa ecc.) e sempre pronti a tendersi agguati. Così oggi la vede Giovanni, una specie di alter ego di Barenghi, cresciuto nella cultura del Pci e animato dal desiderio di un Paese più giusto. Non vuole pensare che la sinistra si sta annientando, ma alla fine disperato va perfino al «vaffaday » di Beppe Grillo.
Per spiegare ai tanti Giovanni come siamo arrivati a questo risultato, Barenghi torna indietro nel tempo per rileggere tutti gli errori che ci hanno portato a oggi. Dalla nascita di Rifondazione ('91) al fallimento della Bicamerale alle varie primarie «finte», l'elenco è lungo e impietoso. Il principio della fine è nel 1998, quando Bertinotti (alcuni dicono d'accordo con D'Alema) fa cadere il primo governo Prodi. Poi, 2001, grazie anche al «sindaco» Veltroni, il Paese finisce nelle mani di Berlusconi. Dopo i cinque, lunghissimi anni del governo di destra si arriva alle elezioni del 2006. Vince Prodi, ma per soli 24 mila voti. E la sinistra commette un altro errore, quello di mascherare una sconfitta da vittoria. Ed è insensato non voler prendere atto della rimonta di Berlusconi, del suo istinto populista di saper dire le cose che la gente vuol sentire. Il nuovo governo traballa in Senato, sta insieme solo per l'idea di essere «contro» Berlusconi, ma non sa proporre niente di concreto. Il carico fiscale tocca livelli altissimi, sul piano dei diritti civili (i Dico) non si fa niente, poi arrivano le intercettazioni delle telefonate con Unipol di D'Alema e Fassino e anche tra i più fedeli ormai si fa strada l'anti- politica, l'odio della casta. Alla fine ecco Veltroni con il suo Pd: i giorni di Prodi sono contati. Dopo l'uscita di Mastella, il governo cade. Si va alle elezioni, con i noti risultati.
Di questa sinistra, Barenghi non salva nessuno: non certo Bertinotti in versione salotto continuo, e neppure Diliberto che propone la Costituente dei comunisti. Con Prodi, dormiglione bofonchiatore, è spietato. Le ambizioni contrapposte di Veltroni e D'Alema portano solo disastri. Il primo crede solo alle sue illusioni (Yes, we can), l'altro solo nella sua astuzia. E intanto Berlusconi non ha solo conquistato il potere ma ha anche l'egemonia culturale del Paese.
Repubblica 10.11.08
Il governo cinese mette in campo il 20% del Pil: in due anni tagli alle tasse e più investimenti pubblici
di Federico Rampini
L´incubo recessione arriva a Pechino via alla manovra shock da 600 miliardi
La mossa punta a prevenire una esplosione della conflittualità sociale
È sfumata l´illusione che le potenze emergenti potessero restare immuni dalla crisi
Contro la recessione globale scende in campo la Cina, con una manovra di rilancio della crescita che supera per le sue dimensioni quelle approvate dagli Stati Uniti e diversi paesi europei.
E´ segno che il governo di Pechino è in allerta per la minaccia alla stabilità sociale e politica del paese: ieri il Consiglio di Stato ha annunciato una terapia d´urto senza precedenti. La Repubblica Popolare mette in campo 586 miliardi di dollari di risorse statali in un biennio, l´equivalente del 20% del Pil cinese. (Il paragone non va fatto coi 700 miliardi del piano Paulson destinati a ricapitalizzare le banche ma coi 200 miliardi di dollari di sostegno alla crescita varati quest´anno negli Usa).
Il clima di emergenza che regna tra i leader cinesi è sottolineato dall´annuncio fatto di domenica, dopo aver richiamato improvvisamente a Pechino per "impegni prioritari" il ministro delle Finanze, che stava partecipando al vertice G20 in Brasile. «Negli ultimi due mesi - si legge nel comunicato diffuso ieri a Pechino - la crisi finanziaria globale ha avuto un´accelerazione giorno dopo giorno. Di fronte a questa minaccia dobbiamo aumentare gli investimenti pubblici in modo energico e rapido». Il Consiglio di Stato, un organo dell´esecutivo, preannuncia una «politica fiscale aggressiva» fatta di maggiore spesa pubblica e sgravi d´imposte, insieme con una «politica monetaria espansiva» (nuovi tagli dei tassi, dopo che la banca centrale ha già ridotto per ben tre volte il costo del denaro da metà settembre). La terapia shock sarà mirata anzitutto a «migliorare le condizioni di vita della popolazione, perché possa aumentare i consumi».
L´annuncio cinese rappresenta una svolta che era attesa nel resto del mondo. Il ruolo della Cina è fondamentale per trovare una via d´uscita dalla recessione globale. L´anno scorso, secondo il Fondo monetario internazionale, la Repubblica Popolare ha contribuito per il 27% alla crescita dell´economia mondiale. E´ una locomotiva di cui l´Occidente non può fare a meno. Ma fino a qualche mese fa l´atteggiamento dei leader cinesi era improntato alla cautela. Per tutto il primo semestre del 2008 sugli schermi radar dei dirigenti comunisti il pericolo numero uno era l´inflazione: i forti rincari di tutte le materie prime (dal petrolio ai metalli, dalle derrate agricole al legname) avevano messo sotto pressione un´economia di trasformazione manifatturiera come quella cinese, oltre a creare tensioni sociali per l´aumento del costo della vita. Solo dopo l´estate Pechino ha cominciato ad aggiustare il tiro. E da un paio di mesi è sfumata definitivamente l´illusione del "decoupling", l´idea cioè che le potenze emergenti potessero "sganciarsi" da questa recessione e restarne sostanzialmente immuni. Il presidente Hu Jintao e il premier Wen Jiabao inoltre hanno seguito con inquietudine le dichiarazioni di Barack Obama in campagna elettorale: i toni protezionisti, e la richiesta alla Cina di rivalutare la sua moneta. Tra una settimana i leader di Pechino vogliono presentarsi al vertice G14 di Washington con le carte in regola, mostrando che stanno facendo la loro parte per rilanciare lo sviluppo economico nel mondo intero. Un aumento dei consumi delle famiglie cinesi è sempre stato considerato dai governi dell´Occidente come la via maestra perché la Cina eserciti un effetto benefico sulla crescita globale (una parte di quei consumi infatti si traduce in importazioni di prodotti europei, americani, giapponesi).
La maximanovra varata ieri risponde anche a impellenti necessità interne. Anche l´economia cinese sta perdendo colpi vistosamente. La decelerazione della crescita è impressionante. L´anno scorso il Pil aumentò dell´11,7% segnando un record storico. Nel primo semestre di quest´anno il tasso di crescita era già passato al 10%. Nel trimestre scorso (da luglio a settembre) la crescita si è attestata al 9%. Per il 2009 le stime più attendibili prevedono un "magro" +7,5%, il minimo da vent´anni. Una crescita superiore al 7% farebbe sognare ogni altro paese al mondo, ma per la Cina è motivo di allarme. Ogni anno in media 15 milioni di contadini cinesi abbandonano le campagne per cercare lavoro in città. Ad essi vanno aggiunti i giovani che escono dalla scuola e appartengono ancora a generazioni numerose, una "gobba" demografica che ancora non sconta gli effetti della denatalità. In totale se la crescita cinese non riesce a creare almeno venti milioni di nuovi posti di lavoro all´anno, ci sono tutte le condizioni per un´esplosione di conflittualità sociale. E´ quello che in effetti si sta già verificando in alcune zone del paese. Il Guangdong, la regione meridionale che ha la più alta densità di industrie, è da mesi l´epicentro di tensioni. Migliaia di fabbriche hanno chiuso per fallimento - soprattutto nel settore tessile-abbigliamento e nella produzione di giocattoli - e i licenziamenti di massa hanno scatenato proteste diffuse. Ancora pochi giorni fa la ricca metropoli industriale di Shenzhen è stata il teatro di scene di guerriglia urbana, migliaia di manifestanti hanno affrontato la polizia. Il detonatore di quest´ultima rivolta - almeno secondo le ricostruzioni dei mass media ufficiali - sembra essere stato un banale diverbio dopo un incidente stradale, ma la sensazione è che le difficoltà economiche stiano trasformando quell´area in una polveriera.
Ora con la maximanovra di politica economica il governo spera di aggiungere due punti alla crescita del Pil dell´anno prossimo. La terapia d´urto include nuovi investimenti pubblici nell´edilizia popolare, l´accelerazione della costruzione di ferrovie e aeroporti; investimenti nelle energie rinnovabili; spese sociali a favore delle fasce più indigenti; prestiti alle piccole e medie imprese; detassazione sugli acquisti di macchinari industriali. E´ una lunga lista di provvedimenti che hanno un denominatore comune: fare affluire il più rapidamente possibile nuovo potere d´acquisto alla popolazione, prima che sia troppo tardi. Il bilancio pubblico cinese è abbastanza solido da poter reggere un boom di nuove spese. Il dubbio semmai riguarda il peso della corruzione, che può limitare la parte degli aiuti che finirà veramente a beneficio della popolazione.
Repubblica 10.11.08
Pane amore e Dna
Nasce in Svizzera una maxi banca dati con i profili genetici di chi cerca il partner perfetto È l´ultima evoluzione delle vecchie agenzie matrimoniali. Che ora puntano sulla scienza
di Andrea Tarquini
Una spesa di duecento dollari e un tampone di saliva: così si viene registrati
Milioni di dati comparati al computer per individuare l´anima gemella
L´amore perfetto non si trova più con le blind dates o con le feste per cuori solitari, non si incontra più sul lavoro né la sera in discoteca o in locali per single né con un annuncio, ma con una ricerca comparata del proprio patrimonio genetico grazie alla banca dati di una piccola società di Zurigo. Secondo un´inchiesta di Welt am Sonntag, è questa la promessa degli svizzeri di Genepartner. Un trend destinato a diffondersi: presto le tradizionali agenzie matrimoniali o aziende di ricerca dell´anima gemella non avranno più futuro.
Addio al fascino dell´incontro imprevisto. A farci trovare l´anima gemella non sarà più la favola di vedere improvvisamente insieme il "raggio verde", come narrò il regista Eric Rohmer nel suo omonimo, memorabile film. No, adesso tutto sarà determinato dalle analisi comparate del Dna dei candidati partner, che ? sempre e rigorosamente su base volontaria ? chiederanno alle nuove agenzie matrimoniali del genoma di trovare per loro la partner o il partner perfetto.
La storia ha un po´ di sapore inquietante. Impossibile non evocare scenari di un futuro ipercontrollato, tutto preprogrammato, perfetto e senza emozioni, come ne "Il mondo nuovo" di Aldous Huxley. Ma gli scienziati ? a cominciare da Tamara Brown, biologa molecolare, e da Michael von Arx, fondatore di Genepartner, assicurano di crederci. Funziona così: ci si mette in contatto con la società svizzera, appunto la Genepartner (indirizzo Schlossgasse numero 9, nell´opulenta Zurigo), si pagano circa 200 dollari, e la ditta effettua un semplicissimo prelievo di saliva per avere i dati fondamentali del patrimonio genetico del candidato.
È solo il primo passo. Segue la comparazione del proprio profilo genetico con gli altri contenuti nei computer dell´azienda, alla ricerca di possibili patrimoni compatibili. E solo alla fine, quando Genepartner ha trovato un partner o una partner ideale, arriva la proposta di combinare un incontro. La stessa Tamara Brown in persona ha provato a sperimentare su se stessa la tecnica della ricerca su banca dati genetica del partner perfetto: ha il suo numero di codice dei propri dati genetici (115 00 21 88). Nove cifre: col codice ognuno può cercare nella banca dati il partner genetico ideale.
Fin qui è almeno tutto chiaro, anche se troppo freddo e scientifico rispetto all´emotività indispensabile all´amore. Ma come funziona la ricerca genetica della compatibilità? Semplice: i patrimoni genetici dei due candidati non devono essere così simili tra di loro. Al contrario, devono avere differenze significative che li distanzino. Insomma, gli opposti si attraggono e possono avere insieme sesso felice, fedeltà di lunga durata e una bella prole. Lo confermano anche i test effettuati dagli svizzeri con l´olfatto: a gruppi di donne in cerca del partner sono state fatte odorare t-shirts di diversi uomini. E guarda caso, loro si sentivano più attratte dall´odore delle t-shirts dei maschi il cui patrimonio genetico era abbastanza diverso dal loro.
Resta da capire se davvero valga la pena affidarsi all´inquietante sogno dell´accoppiamento guidato dalla scienza perfetta (un sogno dipinto come incubo da tanti romanzieri e registi, e inseguito da non poche dittature totalitarie) invece che invitare una collega o un´amica, a un caffè o a una cena, spendendo anche meno di quanto richiesto dagli ingegneri genetici delle coppie perfette.
Corriere della Sera 10.11.08
Esce una nuova edizione della tragedia di Sofocle con un commento di Giulio Guidorizzi
Edipo, l'angoscia dell'uomo non trova una tregua
di Giorgio Montefoschi
Due sono gli enigmi che accompagnano la fine di Edipo, il peccatore innocente, nell'Edipo a Colono (Mondadori-Lorenzo Valla, a cura di Guido Avezzù, commento di Giulio Guidorizzi, pp. 428, e 27), la tragedia che Sofocle scrisse novantenne poco prima della morte. Riguardano il tema del male, il primo; il tema della «conoscibilità della morte», il secondo. Duemilaquattrocento anni di storia del pensiero occidentale non sono riusciti a risolverli.
Quando arriva nel borgo di Colono alla periferia di Atene, condotto per mano da sua figlia Antigone, cercando di fuggire con la morte al buio che lo tormenta, Edipo è l'incarnazione del male: ha ucciso suo padre Laio, è entrato nel letto di sua madre Giocasta e dall'unione incestuosa sono nati dei figli. I vecchi che stanno attorno all'altare delle Eumenidi e al santuario di Posidone, poiché sanno chi è, lo guardano atterriti, «muovendo», come scrive nella sua magnifica traduzione Giovanni Cerri, «le labbra nel pensiero silenzioso». Per lui, più che per ogni altro, vale la riflessione che ad alta voce pronunceranno più tardi («Quando uno ha passato la giovinezza con le sue leggere follie, quale pena si tiene alla larga, quale sofferenza manca?), nella quale è rappresentato il dolore del mondo. Edipo è anche innocente però. E lo vuole ricordare ai suoi ospiti. Il male che ho fatto, dice, io l'ho subito: «nulla di tutto questo fu scelto da me». In altre parole: se il male esiste, se esiste una volontà «altra» rispetto alla volontà individuale, una volontà che stabilisce il mio destino, una volontà che addirittura mi ha reso ignaro e inconsapevole, qual è la mia responsabilità? E questo non è il solo aspetto dell'enigma. Ce n'è un secondo. Edipo si è accecato per non vedere più l'orrore commesso ed è stato cacciato da Tebe come peccatore. Lui è venuto ad Atene: vuole porre fine ai suoi giorni lì. Ma Creonte, il re di Tebe, lo insegue: la città pretende il corpo del morto. Come Atene. Solo che, mentre Atene lo vuole in omaggio alle profezie e alle estreme leggi dell'ospitalità (dunque, per motivi «giusti»), le ragioni dei tebani rimangono incomprensibili. A meno di non considerare codesta resipiscenza come una salvifica consapevolezza dell'inevitabilità del male, della inevitabile imperfezione dell'uomo.
Veniamo, così, al secondo enigma: quello che riguarda la morte. Quando si ode il primo tuono e il dio chiama Edipo («Edipo, Edipo...»), annunciandogli che è venuta l'ora, lui dapprima congeda le figlie (con le medesime parole del Vangelo di Giovanni: «Nessuno vi ha amato più di me»), poi si allontana con il solo Teseo, il re di Atene, al quale comunque ingiunge di non raccontare le cose inverosimili e misteriose alle quali assisterà. In tal modo, il racconto della morte — uno dei brani più splendidi e commoventi della letteratura di ogni tempo — è affidato al messaggero. Senonché, da questo stesso racconto, noi apprendiamo che neppure Teseo ha visto. Perché, essendosi voltato dopo l'ultimo tuono, il messaggero lo scorge con una mano davanti agli occhi: come accecato da un evento irricevibile. Edipo è scomparso: non sappiamo se la terra si è dolcemente spalancata per accoglierlo, o una guida divina è venuta a prenderlo. Teseo ha veduto e conosciuto fino al limite, fino a che gli è stato concesso. Poi su di lui, come su ogni uomo, è calato l'enigma della morte. Che, forse, in quanto inconoscibile, possiamo considerare inesistente.
Repubblica 10.11.08
Arnaldo Pomodoro
Nel cuore segreto della sfera
Una grande esposizione allestita nella Fondazione omonima di via Solari a Milano. Tra i capolavori il "Grande Portale" e "Le battaglie"
Le rotture sono la forma del primitivo e del profondo
Il disegno geometrico rappresenta la ragione astratta
Una storia scritta con lettere che non saranno mai decifrate
MILANO. Di ritorno dalla grande mostra che Arnaldo Pomodoro ha allestito nel magnifico, sconfinato spazio della sua Fondazione di via Solari a Milano (tremila metri quadri espositivi, quasi interamente occupati oggi da un´unica immensa navata, alta quindici metri, progettata da Pierluigi Cerri), riprendo in mano un piccolo fascicolo del 1957, il numero 3-4 della rivista L´esperienza moderna, dove ricordavo d´aver trovato riprodotta un´opera giovanile (Tempo fermo, 1957) di Pomodoro. Un groviglio di segni brulica nelle figure geometriche del cerchio e del quadrato, entro le quali quei segni sono iscritti. D´altronde tutte le immagini della rivista, nel breve tempo in cui uscì, parlano della ricerca attorno al "segno", modo della pittura e della scultura che artisti d´Europa e d´Oltreoceano mettevano, allora, a cardine della loro ricerca (Perilli e Novelli, che la rivista dirigevano, Fontana e Turcato, Capogrossi e Accardi, Bryen e Boille, Scanavino e Dova, Alechinski e Corneille, Tápies e Canogar, e tanti altri con loro). Un segno che non era più il grande gesto trovato a New York dai pittori d´azione (la cui prima eroica stagione era stata chiusa dalla morte di Pollock, l´anno avanti), non più lo scavo rabdomantico nelle viscere della terra di Klee, né quello nella notte della coscienza dei surrealisti, ma qualcosa di meno orgoglioso, meno esistenzialmente coinvolto: una minima traccia («un graffio, una screpolatura, una macchia», scriveva Cesare Vivaldi sulla medesima rivista) dell´intenzione creativa, un grumo di volontà ideativa.
Tanto tempo è passato, da quell´opera aurorale di Pomodoro alla sua mostra d´oggi, e al lavoro che lo scultore ha disseminato negli anni per tutti i continenti, in forme e dimensioni cento volte più assertive, cento volte maggiori. A Milano e a Roma, a New York e a Los Angeles, a Brisbane e a Darmstadt, a Honolulu e a Tokyo, a Dublino e a Copenaghen, e ancora a Torino a Modena a Pavia, a Spoleto a Rimini a Lampedusa, Pomodoro ha lasciato sue opere che occupano ora vasti luoghi pubblici, ovunque nel mondo.
Eppure quella sua nascenza, in un alveo di cultura figurativa che delegava soltanto alla breve monade di un segno senza alfabeto, e senza referenzialità diretta con la natura, l´ansia di dire, oltre le dilacerazioni dell´informale, tutti i viluppi, gli scontri, i nascondimenti dell´animo, quella sua lontana nascenza gli è rimasta attiva, e feconda.
«Una storia scritta con lettere che non saranno mai decifrate, ma che comunque sanno trasmettere un sottile malessere, come fossero segnali di torture antiche e allo stesso tempo simboli di nuove scoperte»: così Gillo Dorfles ha detto della natura duplice degli ingranaggi che occupano il cuore segreto delle sfere, delle colonne, delle torri, delle spirali, degli obelischi di Pomodoro.
Altri - e lui stesso, talora - hanno letto in essi memorie di forme e figure che tornano all´oggi da secoli trascorsi, da civiltà remote: «Nelle mie sculture geometrizzanti, che hanno una grossa rottura dentro, io pensavo un tempo di mettere in evidenza le contraddizioni di oggi. E invece ritengo ora che il tratto geometrico presenta le forme della ragione astratta, e anche tecnologica; mentre le rotture, nelle mie opere, sono le forme del primitivo, del profondo e del materiale». Ha preso distanza dunque, Pomodoro, dall´urgenza della testimonianza, dal più implicato coinvolgimento emotivo, restituendo alle sue scelte linguistiche un valore eminentemente formale.
Venuto dal Montefeltro a Milano a metà degli anni Cinquanta, era stato subito astratto, né mai intese sconfessare questa sua fondamentale vocazione; ma una componente della sua formazione (che è stata nominata, forse imperfettamente, "surrealista", e che meglio credo s´individuerebbe tra Wols, Michaux e il Dubuffet dei Corps de dames) l´ha presto spinto a coniugare il macchinismo preveggente delle sue figure con l´emergere di un sostrato antico, classico o - più oltre, e più radicalmente - primitivo. Denti, ruote spezzate, cunei, ingranaggi, frecce, punte di lancia s´affastellano allora al cuore dell´immagine; compressi e a stento trattenuti sul filo della parete, o racchiusi nelle cavità squarciate di una forma geometrica (la sfera, la colonna, il cubo) che ha smarrito, come per un´interna esplosione, la sua integrità.
La tecnica è, imprevedibilmente, quella della cera persa: che con i suoi lunghi passaggi (dall´argilla, sostenuta da un´armatura di legno, al gesso; da questo alla cera, e infine al bronzo) sembrava inadatta sia alle dimensioni gigantesche delle figure scultoree, sia all´empito fabbrile che visibilmente le accompagna. Ma solo in questa tecnica antica, in questo tempo lento e come sdoppiato, poteva forse calarsi l´ambiguità semantica che queste sculture implicano: incerte sempre fra bellezza e minaccia, fra costruzione e crollo. Fra antico e futuro, ancora: come esemplificano il Grande Portale, la cui prima idea nacque a Siena, in occasione d´una rappresentazione dell´Oedipus Rex di Stravinsky e Cocteau (spesso il lavoro per il teatro ha avuto per Pomodoro un ruolo di positiva ricarica inventiva); ovvero una delle sculture più seducenti della mostra odierna: Le battaglie, un oscuro pannello lungo dodici metri, nel quale i segni più tipici di Pomodoro si accalcano e si sovrappongono l´un l´altro, sopra e sotto una fascia di silenzio e d´attesa: e fanno da un canto scoperta allusione alla folle iperbole prospettica delle Battaglie di San Romano di Paolo Uccello, dall´altro precipitano chi guarda nelle atmosfere inquietanti del film di Kubrick o del Lucas di Guerre stellari.
Repubblica 10.11.08
Da Schifano a De Dominicis. Una rassegna a Roma
Quando il fuoco diventa creativo
di Achille Bonito Oliva
Anticipiamo parte del saggio di dal catalogo della mostra «I fuochi dell´arte» (Skira) che si apre mercoledì all´Auditorium di Roma (chiusura il 10 gennaio 2009)
Esistono molti esempi di nonchalance di artisti moderni verso la propria opera. Ne ricordo due in particolare: Duchamp che non batte ciglio di fronte alla rottura del Grande vetro, Munch che lascia alle intemperie del "freddo nordico" le sue tele, sottoponendole alla rigida disciplina dell´en plein air. Eppure attorno all´arte contemporanea esiste un atteggiamento sacrale e protettivo che ricorda quello verso l´arte antica. (...) L´atto di ossequio filologico del restauro è anche una forma di rispetto per il progetto dell´artista, del suo desiderio di durare attraverso un´opera compilata "a regola d´arte", con tecniche e materiali appartenenti a quella tradizione che voleva appunto celebrare il presente proiettandolo nel futuro.
L´arte contemporanea invece, proprio quella del nostro secolo, fa mostra di un intento trasgressivo rispetto alla tradizione, anche nell´uso di tecniche e materiali extrartistici, per inseguire l´equivalenza tra arte e vita adotta materie degradabili, più sotto l´incubo del presente che sotto il sol dell´avvenire. Dagli oggetti belli e fatti di Duchamp alle serate futuriste e dadaiste, dagli assemblaggi di Rauschenberg agli happening americani, dalle opere dei nouveaux réalistes francesi ai poveristi italiani, molta arte di oggi sembra non voler accettare la retorica della durata, il respiro lungo dell´immortalità che, invece, alimenta quella antica. Ecco allora un catalogo variopinto di orinatoi, stracci, terra, tubi, plastica e catrame, neon e fratelli gemelli.
Eppure, intorno a questo mondo si sente lo stesso affannarsi di assistenza che intorno all´arte antica, sullo stesso piano l´Ultima cena di Leonardo e il Sacco di Burri, i Prigioni di marmo di Michelangelo e le scatole Brill di Warhol, la luce dipinta di Caravaggio e quella al neon di Flavin. Come mai il restauro non si interroga sull´uso poetico dei materiali, le ragioni filosofiche ed estetiche che hanno portato l´artista a operare con materie sintetiche, effimere e dichiaratamente degradabili, spesso accompagnate da un disinvolto e agghiacciante "Senza titolo"? La risposta negativa sta nel carattere logocentrico della civiltà occidentale. Infatti la storia dell´arte è vista come una sequenza di opere giudicate per lo scheletro concettuale che le sorregge. La materia è soltanto il veicolo di un valore mentale che sarebbe altrimenti invisibile. (...)
Ma che cosa avviene quando il fuoco attacca la vita, minaccia i nostri beni ed arriva ad assediare molto da vicino e materialmente l´integrità dell´arte? Questo è avvenuto ai danni di un grande amateur dell´arte, un appassionato collezionista che ha visto danneggiato il suo patrimonio di opere per un incendio scoppiato nel suo deposito. Opere di Schifano, Cucchi, De Dominicis, Aristide Sartori sono state attaccate dalle fiamme, alcune totalmente distrutte altre danneggiate in maniera irreparabile ed altre ancora invece soltanto lambite e ferite dalla temperatura incandescente del fuoco.
Gli artisti (Schifano e Cucchi) hanno reagito con estrema apertura, incuriositi dall´apporto del caso sulla forma precedentemente da loro allestita. Il fuoco ha messo sulla graticola le opere d´arte e, come San Lorenzo, sembrano queste acquistare una sorta di santità, un´estetica che coniuga intenzionalità creativa ed irruzione del caso. Insomma un´aura nuova aleggia su questo corpo di opere toccate dal fuoco. E gli artisti stessi hanno convenuto e riconosciuto come il fuoco sia stata da una parte un elemento distruttore ma dall´altra ha spinto l´opera verso un potenziamento espressivo prima imprevedibile. Per questo i fuochi dell´arte costituiscono un´originale proposta espositiva che vuole evidenziare una sorta di paradossale immortalità non soltanto concettuale ma anche materiale dell´arte contemporanea, disposta con felice spudoratezza ad esibire le proprie stimmate, ad accettare che le proprie ferite entrino a far parte di un´aura allargata, un territorio anche di riflessione che riguarda l´intera sistema dell´arte.
Corriere della Sera 10.11.08
Anteprima Dopo cinque anni è ormai concluso il restauro della volta e delle pareti. Intervento finale sui capolavori del Buonarroti
I tormenti e la Grazia Michelangelo svelato
Tornano alla luce i colori della Cappella Paolina
di Arturo Carlo Quintavalle
L'ultimo Michelangelo, quello più nascosto, quello che il pubblico non conosce, quello della Cappella Paolina con i due grandi affreschi «La conversione di Paolo» e «La crocifissione di Pietro» rivela per la prima volta i suoi segreti. Il colore ritrovato arrotonda i corpi, scandisce luci ed ombre, segna i profili. Rispetto al «Giudizio» della Sistina, il senso è diverso. Gli affreschi sono infatti una riflessione finale sul mondo, sulla grazia, sulla salvezza, ma anche sulla morte.
Per capire cominciamo da qualche dato: la Cappella Paolina, voluta da Paolo III Farnese, viene apprestata da Perin del Vaga per la parte degli stucchi e del soffitto, peraltro distrutto nell'incendio del 1545. Michelangelo inizia a dipingere «La conversione di Paolo» nel novembre del 1542 e la conclude nel luglio del 1545; «La crocifissione di Pietro », iniziata forse nello stesso anno, viene conclusa attorno al 1550. Paolo III la vedrà poco prima di morire, ancora incompiuta. La cappella è un sistema complesso, gli affreschi di Michelangelo sono solo un decimo circa delle superfici dipinte, il resto si deve a Federico Zuccari e a Lorenzo Sabbatini; ambedue operano una ventina di anni dopo la fine dei lavori di Michelangelo. Il papa che programma la sistemazione finale della cappella è quel Gregorio XIII Boncompagni, bolognese, che aveva commissionato a Antonio Danti la «Sala delle Carte Geografiche» (1580-1583) arricchita da questi stessi stucchi, colori, dorature.
Il restauro della volta e delle pareti è ormai concluso e adesso, dopo cinque anni dall'inizio dei lavori, il capo restauratore del Vaticano Maurizio De Luca e la sua prima assistente Maria Puska iniziano a restaurare Michelangelo. Vediamo qui le prime
finestre di pulitura, lo stato di conservazione è buono, la pittura di Michelangelo si legge perfettamente. «Non ci sono trasferimenti dal cartone alla parete con l'incisione dei contorni come alla Sistina; qui il pittore utilizza lo spolvero, fa passare carbone sui fori del cartone lungo i contorni e poi unisce i puntini con sottili pennellate» spiega De Luca. E poi mostra il segno delle giornate (cioè delle stesure di intonaco fresco che devono essere dipinte in un solo giorno) e sottolinea (fra una giornata e l'altra) le pennellate ricche di colore, malachite, bruno, rosso, giallo dati a secco o (per meglio dire) dati con colore molto diluito.
Vediamo da vicino i due grandi affreschi (6,60x6,25 metri ciascuno) e il loro significato. La «caduta» di Paolo sulla via di Damasco è il dipinto che più si avvicina all'ultima parte del «Giudizio» della Sistina; in alto, volano angeli senza ali disposti a raggiera attorno al Cristo che colpisce Paolo, che cade accecato in primo piano, col vibrante, giallo raggio di luce. Lo spazio attorno è vuoto. Perché questo ritmo diverso fra figure e paesaggio? Michelangelo con le figure costruisce un discorso complesso: cita i cavalli del Quirinale nell'animale che fugge al fondo; cita il Raffaello delle «Stanze» come nel guerriero con scudo alla sinistra che evoca la «Cacciata di Eliodoro». Ma basta vedere «L'incontro fra Leone Magno e Attila», sempre nella stanza di Eliodoro, per capire che tutto quello che in Raffaello è storia, ritratto, documento, in Michelangelo diventa racconto sospeso fuori del tempo, spazio assoluto.
«La crocifissione di San Pietro» è invece una valle di colli azzurri sotto un cielo plumbeo di nubi; in basso, attorno alla croce, si schierano gruppi di figure a semicerchio mentre una figura di vecchio fuori scala (a destra) rimane isolata dalle altre. Michelangelo usa punti di vista diversi per ogni gruppo per aumentare la durata del racconto e nega ogni rapporto prospettico «diminuendo» le figure anche se in primo piano: la loro dimensione delle figure è simbolica e tutto converge attorno a Pietro che evoca quello enorme del «Giudizio» della Sistina. Questa rottura di ogni norma prospettica è evidente nella croce: un braccio più corto, il destro; l'altro fuori asse (De Luca mostra anche il ripensamento della mano sinistra del santo che prima debordava e che poi è stata riportata all'interno del legno).
Quale è, allora, il senso di queste immagini? Qui non sono rappresentati eventi ma meditazioni: lo spazio è senza storia, Michelangelo elimina vegetazione e dettagli, edifici e ogni riferimento al tempo umano. Restano solo le tensioni possibili fra le figure, gesti sospesi di un teatro drammatico senza tempo. I colori che ora si stanno felicemente riscoprendo (rossi, verdi, azzurri, bruni, gialli) sono i colori dei quattro elementi (terra, aria, acqua, fuoco). Dunque Michelangelo propone qui una simbologia cosmica. E Paolucci giustamente precisa: sono i colori di Pontormo. Ma il colore insiste su forme e figure legate all'ellenismo dei sarcofagi e del «Laocoonte », il gruppo scoperto nel 1506 che tanto pesa sul giovane scultore e pittore, come del resto su Raffaello. Il momento in cui Michelangelo dipinge i due affreschi è però anche quello della scomparsa di due amici e protettori, Luigi del Riccio nel 1546 e la poetessa Vittoria Colonna nel 1547. La Colonna era legata a una riflessione sulla Grazia come luce e quindi, attraverso Sant'Agostino, al neoplatonismo, professando una religiosità cristiana improntata a un dialogo diretto col divino, come qui appunto appare nei freschi di Paolo e di Pietro.
Michelangelo aderiva a questo gruppo di intellettuali ma percepiva anche la propria inadeguatezza, il peccato, la debolezza della carne. Ecco perché egli dipinge questo spazio senza storia: da questi «vuoti cieli» solo la Grazia, la luce del raggio e il volto corrusco di Pietro portano ordine e speranza. Per capire conviene rileggere qualche riga amarissima di un componimento dell'artista scritto nel 1546: dopo aver descritto il decadimento del proprio corpo Michelangelo conclude: «L'arte pregiata, ov'alcun tempo fui/ di tant'opinion, mi rec'a questo,/ povero e vecchio e servo in forz'altrui,/ ch'i son disfatto, s'i non muoio presto». Ebbene, la figura alla estrema destra della «Crocifissione di Pietro», quel personaggio fuori scena, è forse proprio Michelangelo che medita sulla fine. E la salvezza è espressa proprio dai vibranti colori che si stanno recuperando: anche attraverso di essi la Grazia divina si rappresenta nel mondo.
Corriere della Sera 10.11.08
L'intervista
Antonio Paolucci «Abbiamo cercato un'unità di stile»
di A.C.Q.
Il restauro della Cappella Paolina (iniziato 5 anni fa e interamente finanziato dai cattolici americani) costerà un milione e mezzo di euro. A guidarlo sono Antonio Paolucci (direttore dei Musei Vaticani), Arnold Nesselrath e il restauratore Maurizio De Luca. L'impegno preso con la Casa Pontificia è che la messa papale nella Cappella Paolina restaurata possa essere celebrata il 29 giugno del 2009, festa dei santi Pietro e Paolo. Spiega Paolucci: «La cappella racconta con gli affreschi di Michelangelo, Lorenzo Sabbatini, Federico Zuccari la storia dei protoapostoli. Al restauro hanno lavorato una ventina di persone dello staff dei Vaticani "controllati" da una commissione internazionale di studiosi. Lo scopo è di restituire unità di stile alla cappella, dove Michelangelo non è il protagonista esclusivo».
Professor Paolucci, come definire il rapporto di Michelangelo con Zuccari e Sabbatini?
«Zuccari e Sabbatini intervengono venti anni dopo Michelangelo e sono intimiditi dalla contiguità del maestro, ormai divinizzato da Vasari nelle Vite,
tanto è vero che hanno cercato di adeguarsi, compiendo un'opera di alto mimetismo. Essendo divisi da pochi anni, gli affreschi di Michelangelo e quelli dei prosecutori sono invecchiati in modo omogeneo. Compito dei restauratori era fare intendere la loro unità stilistica e la loro omogeneità di colori, di patina, di suggestione». Questi, dice il direttore dei Musei Vaticani, i criteri dell'intervento: «La Cappella Paolina è affrescata per buona parte, ma per una parte altrettanto grande è decorata con stucchi dipinti e dorati nello stile e gusto della volta della "Galleria delle Carte Geografiche" fatta realizzare da Gregorio XIII. Noi ci siamo adeguati a quel modello di decorazione: sono gli stessi anni, lo stesso Papa, lo stesso gusto; così abbiamo cercato di restituire l'insieme della volta e delle pareti».
Che significato assume questo restauro? «Il risultato sarà il recupero di una delle due cappelle papali, l'altra è la Sistina». Ma, precisa Paolucci, «la Paolina ha un carattere più raccolto e religioso, era la cappella del Santissimo Sacramento, il cuore teologico della dottrina cattolica ed è illustrata dalla rappresentazione della vita dei protoapostoli, Pietro e Paolo. Alta dunque è anche la sua valenza simbolica e liturgica». Quali saranno, dunque, le scelte tecniche per la presentazione della Cappella Paolina? «Quando la Paolina verrà restituita al culto, manterrà anche nell'illuminazione questo suo carattere di omogeneità: gli affreschi di Michelangelo avranno insomma lo stesso registro luminoso di ciò che gli sta attorno».