Walter cerca il dialogo, Mariastella apre
Ma intanto i tagli all'istruzione restano
di Sonia Oranges
LETTERA. Veltroni scrive a Gelmini e Tremonti: sulla scuola sospendete tutto e confrontiamoci. La risposta dal ministero: disponibili, ma soltanto con chi vuole fare la riforma. La mobilitazione continua.
Ha chiesto di «sospendere gli effetti del decreto Gelmini oramai approvato e di modificare con la Legge Finanziaria le scelte di bilancio sulla scuola e sull'università»: sarà che verba volant mentre scripta manent, ma con l'approssimarsi della discussione (semmai ci sarà) sulla manovra economica il segretario del Pd Walter Veltroni ha preso carta e penna e ha scritto al ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini e al collega dell'Economia Giulio Tremonti, proponendo loro «di dar vita a un tavolo al quale partecipino le parti sociali, il mondo della scuola e le forze di opposizione», in cui cercare una soluzione condivisa per la riforma di scuola e università. Insomma: confrontatevi e poi decidete. «Se c'è un settore, una materia su cui un Paese e la sua classe dirigente dovrebbero cercare sempre e in ogni modo di superare divisioni e polemiche per individuare le soluzioni migliori, questo è il settore che comprende la scuola, la ricerca e l'università - ha scritto il leader pd - È un settore che, non c'è dubbio, ha bisogno nel nostro Paese di una profonda innovazione, di una radicale riforma. partendo da un principio: quello di investire su di esso maggiori risorse, non minori; quello di riqualificare la spesa, e non semplicemente di tagliarla».
E la Gelmini non si è sottratta. «Sono disponibile a un confronto che abbia come obiettivo riformare e migliorare l'istruzione in Italia - ha risposto la titolare di viale Trastevere - Sono disponibile in particolare a discutere con tutte quelle forze riformiste che pensano che non si possa esclusivamente difendere lo status quo». Lo stesso principio, secondo il ministro, su cui si basano le linee guida della riforma del sistema universitario, «base di un dibattito che ponga al centro i temi della riaffermazione del merito, della promozione dei giovani talenti e della trasparenza». Dibattito che, per la Gelmini, avverrà in Parlamento dove «arriveranno proposte e suggerimenti indispensabili per una riforma che ci auguriamo condivisa».
Una risposta certamente d'apertura, ma ancora troppo ambigua per essere convincente. Almeno secondo Giuseppe Fioroni, già ministro dell'Istruzione del governo Prodi: «Restano come macigni i tagli già decisi dal governo e di cui il ministro non fa alcun cenno». Con i tagli che seguono il loro corso, dunque, non è possibile alcun confronto.
Intanto, però, viale Trastevere non è rimasto sordo alla piazza. Oggi i rappresentanti di Cgil, Cisl e Uil del settore università e ricerca (che hanno proclamato uno sciopero generale per venerdì prossimo, cui parteciperanno anche studenti universitari e medi) saranno ricevuti dalla Gelmini. Anche i sindacati chiedono l'apertura di un tavolo di confronto sull'università, soprattutto dopo l'approvazione del decreto della scorsa settimana, che fa la lista degli atenei buoni e di quelli cattivi, dettando a seconda dei casi nuove regole per i concorsi.
E se ieri la conferenza nazionale dei presidi delle facoltà di Scienze e tecnologie italiane chiedeva di stralciare o sospendere i tagli al finanziamento pubblico dell'università, altrove il sottosegretario all'Economia Giuseppe Vegas assicurava che, come garantito a inizio mese dallo stesso premier Silvio Berlusconi, per la scuola privata i problemi saranno risolti e che il paventato taglio di 130 milioni di euro alle paritarie, in un modo o nell'altro, non ci sarà.
La partita, dunque, è ancora in corso. Come pure la protesta in scuole e atenei. In vista dell'appuntamento del 14 novembre, la mobilitazione resta alta. A Cagliari continuano le lezioni in piazza, mentre a Milano gli studenti del Conservatorio suonano per protesta davanti al Comune. E oggi torna in scena pure Sabina Guzzanti. O meglio in cattedra, all'università di Cosenza.
il Riformista 11.11.08
Aborto e vescovo gay
I dubbi della Chiesa su Obama presidente
di Paolo Rodari
Preoccupati. Ai vescovi cattolici non piacciono le promesse elettorali all'anglicano Robinson, la posizione sulla vita e sulle staminali embrionali.
L'assemblea plenaria dei vescovi statunitensi in corso da ieri (fino a giovedì) al Marriott Waterfront Hotel di Baltimora avviene per volti versi nel momento opportuno. Il tempo, infatti, è propizio affinché l'episcopato d'oltre Atlantico possa riflettere sull'elezione di Barack Obama e soprattutto esprimersi circa le posizione pro-choice sull'aborto del nuovo presidente. In parte, l'ha già cominciato a fare ieri mattina il cardinale arcivescovo di Chicago e presidente della conferenza episcopale Francis George quando, aprendo i lavori della plenaria, si è congratulato con Obama per la vittoria ma, nello stesso tempo, ha ricordato tra gli applausi dei presuli come il "no" all'aborto sia uno dei pilastri dell'insegnamento cattolico. E, in effetti, è innanzitutto sulle posizione abortiste di Obama - sullo sfondo incombe la firma del Freedom of Choice Act, la legge sull'aborto che permetterà a tutte le donne di abortire in ogni momento della gravidanza, in qualsiasi Stato e a ogni età, anche al di sotto dei 18 anni - che i vescovi intendono discutere a Baltimora. L'ha confermato venerdì scorso anche la portavoce dei vescovi Mary Ann Walsh quando ha detto che «la conferenza espiscopale statunitense si ritroverà per discutere di vari temi, tra questi l'aborto e le future politiche in merito».
Ma c'è di più. Pare che sul tavolo della conferenza episcopale presieduta da circa un anno dal cardinale George vi sia anche il «dossier Virtueonline». Molto, infatti, ha fatto discutere i vescovi la notizia apparsa su quella che è la voce dell'ortodossia anglicana - Virtueonline, appunto, ripreso in merito anche dal Times - secondo la quale, durante la recente campagna elettorale, Obama ha incontrato per ben tre volte monsignor Gene Robinson, il primo vescovo episcopaliano dichiaratamente gay che tanto aveva fatto discutere di sé anche la scorsa estate nell'incontro di Lambeth della Chiesa anglicana: a motivo delle sue posizioni liberal non era stato ammesso all'assise. Proprio a lui Obama, nonostante esprimendosi successivamente sui referendum in California, Arizona e Florida non abbia dimostrato di voler fare molto in merito, ha assicurato che, una volta approdato alla Casa Bianca, avrebbe appoggiato appieno le battaglie in favore dei diritti delle coppie omosessuali. È vero, Obama ci ha sempre tenuto a separare diritti in favore delle coppie gay (su questi il neo presidente è d'accordo) e legalizzazione dei matrimoni gay (su questi si è sempre mostrato più freddo) - e in questo senso la posizione tenuta durante i recenti referendum non contraddice più di tanto con quanto egli ha promesso a Robinson - ma la notizia del triplice incontro non è stata comunque recepita bene dalla gerarchia ecclesiastica tanto che anche di questo a Baltimora i vescovi vogliono discutere. Tra l'altro, seppure è vero che oltre il cinquanta per cento di coloro che si dichiarano cattolici ha votato per Obama, pare sia altrettanto vero che la maggior parte di questi, avendo bocciato in California, Arizona e Florida i referendum, non ha preso bene, a poche ore dal voto, la notizia del triplice incontro e delle conseguenti promesse.
È principalmente sui temi cosiddetti etici che l'amministrazione Obama rischia il frontale con la Chiesa cattolica statunitense, fedeli inclusi. E anche con la diplomazia vaticana la quale, per il momento, sta alla finestra e proprio dal cardinale George attende notizie dettagliate sul nuovo corso alla Casa Bianca.
A preoccupare ci sono anche le decisioni che Obama è chiamato a prendere intorno alla ricerca sulle cellule staminali embrionali. Infatti, secondo quanto hanno annunciato i più stretti collaboratori del neo presidente, Washington si starebbe apprestando a dare di nuovo il via libera - dopo i limiti imposti da Bush - ai fondi federali per la ricerca sulle cellule staminali embrionali.
A ben vedere, dunque, i timori dei vescovi sono giustificati. Anche perché risulta parecchio difficile che su questi temi la figura del cattolico Joe Biden possa rassicurarli. Biden, infatti, nei mesi scorsi, ha dovuto subire dure invettive da parte dei presuli di Madison, Robert C. Morlino, e di Denver, Charles J. Caput, proprio a motivo delle sue prese di posizione controverse sull'aborto. Tanto che, di qui in avanti, la strategia dei vescovi statunitensi pare sia quella di affidarsi alle proprie risorse, cominciando a prevenire il nuovo corso obamiano in merito alle tematiche cosiddette eticamente sensibili (aborto, unioni gay, ricerca sulle cellule staminale embrionali) mettendo innanzitutto in campo una campagna preventiva di informazione culturale incentrata attorno al valore unico della vita umana.
il Riformista 11.11.08
Michelle e Sarah
La novità femminile della politica Usa
di Ritanna Armeni
Queste elezioni nelle quali è stato eletto un uomo sono state caratterizzate dalla presenza femminile. Questo desiderio di contare e di essere rappresentate sarà convogliato sulla donna che da gennaio entrerà alla Casa Bianca
C'è qualcosa nell'immaginario collettivo più rivoluzionario di un afroamericano eletto alla presidenza degli Stati Uniti? Sì, anche se pochi per il momento se ne rendono conto. È ancora più rivoluzionario il ruolo di First Lady occupato da Michelle, una donna nera, più nera di Obama, più simile di lui nell'aspetto, nel comportamento, nell'abbigliamento a quella minoranza che dalle elezioni del nuovo presidente si sente finalmente riscattata. E che di questo è assolutamente consapevole se, parlando dei suoi anni all'università ha affermato: «La mia esperienza a Princeston mi ha reso molto più cosciente della mia blackness di quanto fossi mai stata prima… A prescindere dalle circostanze per cui io avevo a che fare con i bianchi a Princeston spesso sembrava che per loro io sarei stata sempre una nera e poi una studentessa».
Michelle non è solo la moglie nera di un presidente afro-americano. Se così fosse l'elezione del marito riassumerebbe ogni carica innovatrice. E lei sarebbe esclusivamente un'appendice. Il fatto è che negli Stati Uniti le consorti dei presidenti hanno un ruolo istituzionale, hanno degli uffici alla Casa Bianca, hanno uno staff, fanno più o meno formalmente politica. Naturalmente ciascuna copre questo ruolo come può o come meglio ritiene. C'è chi si occupa di beneficenza come ha fatto Laura Bush, chi, come Hillary Clinton, pensa di poter produrre e proporre la riforma sanitaria, chi gioca il ruolo di nonna d'America come Barbara Bush, chi punta a diventare il simbolo di un nuovo stile e di una nuova eleganza come Jacqueline Kennedy.
Che ruolo avrà Michelle? Certamente è tutto da costruire, ma non potrà non essere nuovo e inedito perché nuova e inedita è la figura della First Lady per il colore della pelle, per la storia personale di donna di umili origini che si fa da sola, per le caratteristiche di concretezza e di forza mostrate nella campagna elettorale, per il suo rapporto paritario e ironico col marito presidente.
Ma c'è anche un altro motivo per cui la sua figura merita molta attenzione. Oggi la politica negli Stati Uniti, ma non solo negli Usa, si fa attraverso un uso sapiente del simbolico. Essa passa in gran parte attraverso la vita personale dei leader e delle loro mogli, dei loro figli, del loro entourage che viene esaminata e assume una rilevanza che le parole e le proposte non hanno più. Sicuramente Barak Obama è stato eletto per la fortissima carica simbolica di rottura rappresentata dalla sua persona, dall'essere il primo afro-americano a concorrere alla presidenza. Ora sarà giudicato anche dai fatti. Ma la carica simbolica della sua persona e della sua vita personale avranno ancora molta importanza. E di questo simbolico - nel bene o nel male - Michelle, i suoi comportamenti, il modo in cui gestirà il ruolo di First Lady saranno indicativi. Tanto più indicativi - ancora una volta è bene non dimenticarlo - perché lei è la prima First Lady nera. Prendete, ad esempio, il modo in cui si guarda il suo abbigliamento. Di Michelle non si giudica solo l'eleganza, ma anche quanto in quella eleganza vi sia di folk e popolare, quanto anche attraverso i vestiti lei rappresenti una cesura con la tradizione delle donne bianche che l'hanno preceduta alla Casa Bianca.
Ma c'è un terzo motivo per cui a Michelle si guarderà con particolare attenzione. Queste elezioni nelle quali è stato eletto un uomo sono state caratterizzate dalla presenza femminile. Hillary Clinton, sconfitta da Obama alle primarie, è stata la prima donna che ha tentato la scalata alla Casa Bianca. Il suo tentativo rimarrà nella storia e probabilmente conterà nella politica futura degli Stati Uniti. Sarah Palin, l'esponente della destra americana più conservatrice, è stata la prima donna repubblicana candidata alla vicepresidenza. Ha annunciato che non si ritirerà in Alaska, ma tornerà a far politica a livello nazionale. Entrambe hanno attivato e modificato un immaginario, entrambe hanno rappresentato modelli femminili che fino a oggi non erano entrati a far parte della vita politica degli Stati Uniti. Questo immaginario, questo desiderio di contare e di essere rappresentate sarà convogliato sulla donna che da gennaio entrerà alla Casa Bianca. Inevitabilmente Michelle Obama si troverà a rappresentare non solo le mogli e le madri, ma le donne americane. E anche se per il momento ha deciso di avere un ruolo più discreto e più appartato di quanto il suo carattere e le sue capacità promettono non dubitiamo che nei prossimi mesi ci riserverà delle sorprese. Forza Michelle.
il Riformista 11.11.08
Svolta. Manovra da capogiro per rilanciare i consumi e scongiurare l'incubo della rivolta
La Cina ribolle per la crisi, Pechino offre un New Deal
di Ilaria Maria Sala
REPORTAGE. Nelle città del boom, le aziende chiudono una dopo l'altra. E scoppiano disordini, spesso violenti. Il regime punta sulla domanda interna. Per dare un segnale agli altri Grandi. Perché se non corre a perdifiato, il miracolo economico può sfociare in una resa dei conti.
Hong Kong. Il pacchetto finanziario proposto da Pechino per rilanciare i consumi e l'economia interna ha cifre da capogiro: 4 trilioni di yuan, ovvero circa 580 miliardi di dollari, che dovrebbero stimolare la domanda interna e, stando alle parole speranzose con cui è stato presentato, aiutare a scongiurare una recessione mondiale.
Un pacchetto che prevede sia spese nuove, sia altre che erano inevitabili e già annunciate, come la ricostruzione nelle aree del Sichuan colpite dal sisma a maggio scorso (che dovrebbe costare un trilione di yuan), così come altre ancora di cui si parlava da tempo, discusse a più riprese dalla dirigenza del paese, in particolare nella sanità e nel welfare sociale.
In parte, per la Cina, si tratterà di fare con ancor più decisione quello che già viene fatto da decenni, ovvero, continuare a costruire in modo massiccio: secondo una prima analisi della Credit Suisse del pacchetto, infatti, il 60% circa dell'imponente stanziamento finanziario verrà consacrato alle spese per le infrastrutture nel settore dei trasporti e della costruzione di abitazioni non di lusso, in particolare autostrade, aeroporti e ferrovie. Questo a sua volta dovrebbe poter stimolare ulteriormente l'industria dell'automobile e quella dell'immobiliare (che ha subito un grosso arresto nel corso dell'anno, con, in alcune città, un meno 40% delle transazioni effettuate), rilanciando i consumi interni.
Davanti al crollo improvviso delle Borse domestiche e internazionali, infatti, i consumatori cinesi hanno reagito con estrema prudenza, tenendo ben chiuso il portafoglio. Il pacchetto dovrebbe poter offrire un rapido cerotto per lenire le ferite riportate dalle zone costiere, in particolare, le più sviluppate economicamente ma anche le più esposte agli scossoni mondiali, nella speranza che riprendano a consumare anche quando la domanda mondiale rallenta.
Nella ricca fascia costiera infatti, tanto nella regione del Guangdong adiacente a Hong Kong, come nella regione che circonda Shanghai, due fra le zone più industrializzate del paese, si contano già a migliaia il numero di aziende che producono per l'estero che hanno chiuso i battenti negli ultimi mesi.
L'inquietudine di chi ha perso il lavoro da un giorno all'altro - spesso senza preavviso, trovandosi semplicemente davanti ai cancelli chiusi della fabbrica - è già esplosa in manifestazioni e barricate a macchia di leopardo, e il timore di un espandersi dei disordini sociali è stato sicuramente ben presente nel redigere il pacchetto di stimolo economico.
Dopo il lungo periodo di "armonia comandata" che si è avuto in preparazione delle Olimpiadi e in concomitanza dei Giochi, infatti, sembra che in alcuni casi la pazienza cinese sia arrivata al suo limite, e nelle ultime settimane le notizie di disordini arrivano da varie città del Guangdong e da Chongqing, fino a piccole località del Zhejiang.
Quelle che erano fino a ieri le "boomtown" meridionali di Dongguan e Shenzhen, per esempio, e che si apprestavano ad abbandonare la manifattura di giocattoli e calzature a buon mercato per avventurarsi nell'high-tech, si ritrovano ora a fare una rapida marcia indietro, dato il calo verticale delle esportazioni degli ultimi mesi. E in mezzo all'improvvisa incertezza economica, crescono gli episodi di tragica violenza individuale: un camionista che schiaccia cinque persone per «vendicarsi della società», tassisti inferociti che attaccano i vigili, folle furiose che si slanciano contro una stazione di polizia per vendicare la morte di un giovane motociclista.
Questo rapido correre ai ripari, gettando denaro sulle fiamme di un inquietante scontento, può sorprendere per un'economia che, scossoni internazionali a parte, continua nondimeno a crescere del 9%: ma secondo economisti cinesi e non, per continuare a creare posti di lavoro e limitare possibili tensioni sociali date dagli enormi scompensi economici, la crescita minima indispensabile è dell'8% annuo.
Pechino dunque si appresta a celebrare il trentesi9mo anniversario del lancio delle riforme economiche impegnandosi in un ambizioso progetto di investimenti - che potrebbe però risultare troppo ambizioso. Da più di vent'anni, infatti, gli investimenti in infrastrutture in Cina sono cresciuti del 20 percento annuo, e alcuni analisti temono che si possa arrivare presto ad una temporanea saturazione. Ma la scelta sembra imporsi in modo netto: la dirigenza cinese, infatti, a livello domestico sa di avere vita relativamente facile fintanto che la crescita economica non si inceppa. A livello internazionale, invece, conta di poter aumentare il suo prestigio mostrandosi capace di rispondere con prontezza, trilioni alla mano, all'attuale crisi.
il Riformista 11.11.08
Losurdo, Canfora e il tentativo di riabilitare Stalin
di Andrea Romano
Il meglio lo dà il filologo dell'antichità che paragona il dittatore sovietico a Pericle e si indigna con chi ricorda i milioni di morti: «L'imputazione quasi giudiziaria che grava su Stalin è quella della smisurata falcidia di vite umane»
Vittima del nostro entusiasmo per l'elezione di Obama, la settimana scorsa è stato trascurato un anniversario a cui persino i riformisti del Riformista restano affezionati. Tanto più coloro che, come il sottoscritto, evocano nel titolo della propria rubrica un protagonista non secondario dei postumi di quella data (tutti sanno che Koba fu il primo nome di battaglia di Iosif Vissarionovich Dzhugasvili, successivamente noto come Stalin). L'anniversario mancato era quello del 7 novembre. Quando a Pietrogrado, 91 anni fa, un colpo di mano del partito bolscevico diede inizio alla vicenda storica del comunismo. L'unico comunismo dotato di una sua realtà concreta, quello sovietico e in parte anche nostro. Vale la pena ricordare l'ottobre del 1917 nell'Italia del 2008? Certamente sì, perché finalmente in questo Paese il comunismo ha raggiunto il rango della neutralità. Elevato sopra le nostre passioni fino a diventare oggetto estraneo al conflitto. Evocato senza temere alcuna reale conseguenza, positiva o negativa, e tutt'al più utilizzato per abbellire una costruzione retorica.
Sospettavo della neutralità italiana del comunismo già da tempo, guardando alla fissità del tema anticomunista nella retorica berlusconiana. Ne ho avuto conferma leggendo un libro che si pone né più né meno l'obiettivo di riabilitare Stalin. L'ha scritto Domenico Losurdo, ha per titolo "Stalin. Storia e critica di una leggenda nera" (Carocci). Entrati in possesso del volume, la prima sensazione è di una qualche simpatia per questo docente di Storia della filosofia che si prende tanta briga. Viene da pensare: «Però, mica male il Losurdo. Chissà come se la cava nell'inerpicarsi su un tema così scivoloso». E si inizia a leggere animati da curiosità. Salvo essere precipitati dopo poche pagine in una sorta di fiction saggistica. Dove trozkisti e stalinisti combattono ancora come se ci trovassimo a Barcellona nel 1937, giacché da una parte a intaccare il mito losurdiano di Stalin vi sarebbero «le rivelazioni (in cui) trovavano conforto gli intellettuali che avevano in Trockij il loro punto di riferimento» e dall'altra a tenerlo tenacemente in piedi «le speranze e le certezze che avevano accompagnato la rivoluzione bolscevica e che rinviavano a Marx». E dove la storiografia sull'Unione Sovietica, che pure ha prodotto un discreto corpo di studi nel corso di decenni, viene confinata nel campo degli strumenti al servizio dell'imperialismo statunitense. Perché al Losurdo è chiaro che «negli Usa la sovietologia aveva manifestato la tendenza a svilupparsi attorno alla Cia e ad altre agenzie militari e di intelligence, previa rimozione degli elementi sospettati di nutrire simpatie per il Paese scaturito dalla Rivoluzione d'ottobre». Ma si capisce che il Losurdo, per quanto temerario, non deve avere molta fiducia né dimestichezza con gli strumenti della ricerca storica. Perché anche solo scorrendo la bibliografia del suo volume si nota l'assenza pressoché totale degli storici e dei titoli che hanno raccontato cos'era davvero l'Urss di Stalin. E dire che ce ne sono tanti, anche recenti e ancora in commercio. E persino tradotti nelle lingue che il Losurdo frequenta di sicuro. Ma niente da fare. Il Losurdo non si interessa di cosa sia stato davvero lo stalinismo (almeno per quanto ci dicano gli archivi, le fonti e la discussione storiografica). A lui preme mettere in chiaro che «a partire dallo scoppio della Guerra fredda, per decenni la campagna anticomunista dell'occidente ha ruotato attorno alla demonizzazione di Stalin».
Passi per il Losurdo, che almeno ispirava simpatia nel suo acrobatico tentativo di rimettere in piedi il totalitarismo staliniano. Chi risulta assai meno simpatico è il più celebre Luciano Canfora, che ha scritto una postfazione che l'editore nobilita in copertina come "saggio" (le postfazioni valgono meno dei saggi). Dieci pagine in cui Canfora aggiunge del suo al Losurdo. Ad esempio ricordandoci che anche gli americani a volte sbagliano, perché «se Time nel 1944 proclamò Stalin "uomo dell'anno" una qualche ragione ci ha da essere». Oppure bacchettando quei sempliciotti che si limitano a ricordare i milioni di vittime dello stalinismo (perché «l'imputazione quasi giudiziaria che grava su Stalin è quella della smisurata falcidia di vite umane»). E infine equiparando Stalin a Pericle, come solo può fare chi come Canfora ha fatto della filologia il suo mestiere e il timone della sua visione civile. Viene da domandarsi quali testi o documenti il filologo Canfora abbia filologicamente compulsato per questa sua lezione di stalinismo. Ma è una tentazione che dura un attimo. Perché poi ci ricorda che nell'Italia del 2008 si è finalmente liberi di dirsi stalinisti senza tema di conseguenze. Magari ridendone e facendone ridere, beatamente lontani come si è non solo da Stalin ma anche dai vincoli della storiografia.
Corriere della Sera 11.11.08
Università e docenti, chi ha paura del sorteggio
di Francesco Giavazzi
Gli studenti di Trieste hanno avuto un'idea brillante. Tutto è nato sul loro blog dove uno si è chiesto perché in tante università rettori e professori partecipino alle manifestazioni contro i «tagli del governo»: «Può essere che utilizzino il nostro movimento non per il bene dell'università, ma per proteggere qualche loro interesse, magari per impedire che si modifichi il sistema con cui vengono reclutati i professori?». E così sono andati sui siti dove vengono riportate le pubblicazioni scientifiche dei loro docenti e quanto ciascuna è citata in altri lavori. Ad esempio «Publish or perish» che usa i dati di Google Scholar ed è disponibile sul sito www.harzing.com o semplicemente i dati delle valutazioni del Civr disponibili sul sito del ministero dell'Università. Racconta Maddalena Rebecca sul Piccolo che da quel giorno si vedono pochi professori alle assemblee degli studenti triestini.
Alcune «anime belle» criticano il decreto del ministro Gelmini che prevede una nuova modalità per la scelta dei commissari nei concorsi universitari: elezione di un numero pari a tre volte i commissari necessari e poi sorteggio. «In Gran Bretagna, dove l'università funziona, i dipartimenti scelgono i professori senza bisogno di un concorso ». Lo so bene, ma lì il titolo di studio non ha valore legale e i fondi pubblici vengono assegnati alle università non a seconda del numero degli studenti iscritti, ma in funzione della qualità della ricerca: ricerca che nessuno cita, niente fondi e il dipartimento chiude.
Se i critici vogliono essere coerenti dicano che sono pronti a cancellare il valore legale del titolo di studio (come ha fatto ieri sul Corriere Giovanni Sartori) e ad accettare che vengano chiusi i dipartimenti scadenti. E dicano anche che preferirebbero che i concorsi banditi venissero tutti rimandati in attesa di una riforma dell'università.
In realtà temo che le critiche tradiscano la rabbia per un decreto che ha fatto saltare gli accordi con i quali i professori si erano divisi i 6.000 posti a concorso prima ancora che si svolgessero le elezioni per la scelta dei commissari. Ne è un segno il tentativo (fortunatamente fallito) di modificare in extremis il testo del decreto per consentire ai professori associati di partecipare alle commissioni. Un vecchio trucco: gli associati devono ancora essere giudicati (per diventare ordinari) quindi sono facilmente ricattabili. E infatti a premere per estendere l'eleggibilità ai più giovani erano gli anziani non gli stessi associati.
Vorrei avanzare una modesta proposta. Fra poco più di un mese in tutte le università si voterà secondo le nuove modalità, cioè per costituire un pool di candidati fra i quali poi avverrà il sorteggio. Affinché si possa votare con sufficiente informazione, le diverse discipline dovrebbero prendere esempio dagli studenti triestini e pubblicare un elenco dei professori eleggibili e della loro produttività scientifica. Poiché esistono diversi criteri (l'impact factor e altri) si potrebbero pubblicare indici diversi. Io mi impegno a farlo per le materie economiche e statistiche e sono certo altri lo faranno per altre discipline, soprattutto quelle meno abituate a standard internazionali.
Poi si vedrà, sia quali discipline non avranno ritenuto utile dare questa informazione sia quelle che, pur avendo stilato gli elenchi, voteranno per candidati non particolarmente brillanti.
Repubblica 11.11.08
Come porre rimedio ai disastri
I beni culturali sempre più a rischio: per tutelarli il potere resti allo Stato
Salviamo l’arte dal federalismo
di Eugenio Scalfari
La mancata tutela del territorio, dell´ambiente e del paesaggio va di pari passo con la scarsa attenzione all´arte e all´archeologia
Investire nella cultura significa anche rafforzare il turismo con tutto l´indotto
Può sembrare anacronistico occuparsi di tutela dei beni culturali e del paesaggio mentre infuria una tempesta economica senza precedenti che diffonde incertezza, paura e sfiducia e chiede risposte urgenti ed efficaci. Eppure non si tratta d´un tema peregrino, tantomeno d´un pretesto per parlar d´altro evadendo quelli che più ci riguardano. Si tratta invece d´un tema estremamente pertinente. Viviamo giorni e mesi di decisioni radicali che da un lato tendono a mettere in atto misure di tamponamento che garantiscano nell´immediato i depositi bancari, il patrimonio di banche e di imprese, il sostegno della domanda e dei redditi più deboli. Ma dall´altro configurino nuovi assetti e nuovi equilibri nei meccanismi di produzione e di distribuzione della ricchezza. Configurino anche una società diversa da quella attuale, una maggiore trasparenza e più incisivi controlli per bilanciare il necessario rafforzarsi dei poteri rispetto ai diritti.
In questo profondo rimescolio esiste il pericolo che la cultura, cui si continua a tributare omaggio di parole, costituisca nei fatti l´anello debole e addirittura la vittima sacrificale. Cultura, ricerca, beni culturali, patrimonio pubblico, paesaggio, sono infatti considerati come altrettanti elementi opzionali dei quali si può tranquillamente fare a meno. I tagli di spesa più cocenti sono avvenuti proprio in questi settori non soltanto per eliminare sprechi ma per recuperare risorse dirottandole verso altre destinazioni. Non si è considerato che non si tratta di spese ma di investimenti che, proprio per la loro natura, non possono essere interrotti senza causare nocumento e deperimento gravissimi.
La totalità di questi beni, la loro salvaguardia e la loro valorizzazione, hanno tra l´altro effetti diretti sull´economia del Paese poiché sono connessi all´industria del turismo che rappresenta una delle maggiori risorse del nostro territorio. Il turismo, dal punto di vista della bilancia commerciale, equivale all´esportazione di beni e servizi, procura entrate di valuta nelle casse dell´erario, con una differenza: non escono merci e servizi dal territorio nazionale ma entrano persone e con esse ricchezza e sostegno della domanda interna. Una flessione del turismo comporta una flessione immediata della domanda e della ricchezza prodotta.
Fino a poco tempo fa l´alto livello dell´euro in termini di dollari scoraggiava il turismo internazionale verso l´Europa, ma è proprio qui che entrava in gioco la valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici di ciascuno dei Paesi europei con spiccata vocazione turistica. Abbiamo assistito negli anni di più elevato tasso di cambio dell´euro al decadimento del turismo diretto verso l´Italia a vantaggio di quello canalizzato verso la Spagna, la Francia, la Grecia: stessa moneta, quindi stesse difficoltà per i portatori di un dollaro debole rispetto all´euro, ma diversa attrattiva dovuta alla migliore valorizzazione del paesaggio, del territorio, dei beni culturali che lo animano.
Ora il cambio euro-dollaro è tornato a livelli meno penalizzanti per il turismo europeo, anche se la crisi economica internazionale ha provocato una diminuzione del movimento turistico complessivo. Proprio a causa di questa flessione congiunturale la concorrenza è diventata ancor più severa ed è quindi tanto più necessario investire sulla cultura in tutte le sue articolazioni.
Ma questo non avviene, anzi sta avvenendo il contrario. Ho già accennato al problema d´una mentalità che considera i consumi culturale come un fatto opzionale. Si tratta d´una mentalità economicamente distorta che va denunciata e combattuta
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La condizione in cui versano ormai da anni le nostre Sovrintendenze preposte alla tutela dei beni paesaggistici e culturali è quanto di più misero si possa immaginare: personale ridotto al minimo, sedi vacanti da tempo, servizi pressoché inesistenti. Il ministro competente promette di colmare almeno i vuoti più drammatici e cerca soldi che compensino i pesanti tagli effettuati dalla Finanziaria triennale varata fin dallo scorso luglio. Li cerca ma finora non li ha trovati e dubito molto che possa riuscirvi nel prossimo futuro.Il guaio è che, risorse finanziarie a parte, il ministro tergiversa anche a compiere alcuni adempimenti che non comportano spese ma che sarebbero necessari per chiarire una normativa confusa, fonte di abusi continui che hanno devastato il nostro territorio da almeno trent´anni in qua, disseminando mostri architettonici, lasciando deperire monumenti di importanza mondiale, occultando il mare con una cortina edilizia che ne ha confiscato la visibilità e la pubblica fruizione.
Questi abusi sono il frutto di inefficienza delle istituzioni di controllo, di scarsissima sensibilità nella pubblica opinione, dell´indifferenza dei «media» e, soprattutto, di una normativa che ha disperso i poteri di controllo tra tre diversi ministeri (Beni culturali, Ambiente, Lavori pubblici) e tre diversi livelli istituzionali: Stato, Regioni, Comuni.
Aggiungete a questa dispersione dei poteri di controllo e di programmazione la scarsità delle risorse e capirete le dimensioni di un disastro che ha mostrificato l´ambiente e si prepara a peggiorarlo ulteriormente con l´avvento di un federalismo che disperderà fino al limite estremo competenze e saperi.
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Il più attento conoscitore del disastro culturale e ambientale italiano è Salvatore Settis, che lotta da decenni per la tutela e la valorizzazione dell´immenso e negletto patrimonio che il Paese possiede e trascuratamente dilapida.E´ sua la definizione dell´unicità concettuale e pratica di questa nostra ricchezza, della sua manutenzione, della sua fruizione pubblica, di ciò che potrebbe e dovrebbe essere e invece non è. La definizione è questa: Esiste un «territorio» senza paesaggio e senza ambiente? Esiste un «ambiente» senza territorio e senza paesaggio? Esiste un «paesaggio» senza territorio e senza ambiente?».
Da questo triplice interrogativo, retorico perché presuppone una risposta negativa alle tre domande, nasce l´esigenza di una politica di tutela e di valorizzazione che sia unificata nei poteri e nelle competenze; tale unificazione non può avvenire che in capo allo Stato, il solo tra i vari enti istituzionali che sia depositario d´una visione generale, che viene inevitabilmente persa di vista man mano che si discende nei livelli locali, la Regione e ancora di più il Comune.
Purtroppo la situazione attuale ha già attribuito gran parte delle competenze alle Regioni consentendo ad esse di delegare ai Comuni una parte rilevante delle competenze e dei poteri propri. Le Sovrintendenze sono state in larga misura svuotate dei loro poteri di controllo e totalmente dei loro poteri di valorizzazione. La pianificazione urbanistica da tempo ha preso il sopravvento su quella paesaggistica e ambientale; a loro volta gli interessi propriamente edilizi hanno stravolto la pianificazione urbanistica; in tali condizioni anche la collusione, la corruzione e il lassismo sono stati oggettivamente incoraggiati.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: il disastro ambientale, paesaggistico, urbanistico che ha deturpato il paesaggio, l´ambiente e il territorio.
Il federalismo, in mancanza d´una normativa chiara e netta che si richiami all´articolo 9 della Costituzione («La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione») e alla giurisprudenza costituzionale che ne è seguita, porterà inevitabilmente questo triplice scempio se l´opinione pubblica non ne farà un obiettivo prioritario del proprio impegno civile.
l’Unità Roma 11.11.08
Da Rembrandt a Vermeer
La poesia si fa arte
di Flavia Matitti
Inaugurata ieri negli spazi di via del Corso, la mostra è curata da Bernd Wolfgang Lindemann, direttore della Gemäldegalerie di Berlino, istituzione da cui provengono tutti i 55 dipinti esposti.
Marcel Proust era un grande ammiratore di Johannes Vermeer, cui accenna in vari passi della Recherche. E ancora oggi gli interni domestici raffigurati dal maestro di Delft, dominati da un’atmosfera luminosa, rarefatta, sospesa, appaiono favorire uno stato d’animo incline all’esercizio della memoria e a quella ricerca del tempo perduto, come scavo introspettivo, così cara allo scrittore francese.
In questi giorni uno dei capolavori di Vermeer, la Ragazza con collana di perle, si può ammirare esposto a Roma nella rassegna intitolata «Da Rembrandt a Vermeer. Valori civili nella pittura fiamminga e olandese del ‘600». La mostra è curata da Bernd Wolfgang Lindemann, direttore della Gemäldegalerie di Berlino, istituzione da cui provengono tutti i 55 dipinti esposti, scelti per offrire un’ampia panoramica del periodo olandese, oltre a qualche esempio di pittura fiamminga tra cui Rubens, presente con un «romantico» Paesaggio con l’impiccato e Van Dyck con due splendidi ritratti.
«La decisione della Fondazione Roma di contribuire ad “esportare” a Berlino la mostra di Sebastiano del Piombo presentata a Palazzo Venezia – spiega l’avvocato Emmanuele Francesco Maria Emanuele, presidente della Fondazione Roma – ha fatto sì che nascesse una collaborazione privilegiata con la Gemäldegalerie, che ora ha prestato un nucleo significativo delle proprie raccolte».
L’esposizione è ordinata nelle sale del Museo del Corso, da oggi ribattezzato Museo Fondazione Roma, e l’allestimento intende ricreare l’atmosfera degli interni delle case olandesi. Numerosi dipinti rappresentano infatti scene d’interni e illustrano le tipiche attività della vita quotidiana della borghesia operosa e del popolo. Non mancano comunque in mostra gli altri generi artistici: dalla natura morta al paesaggio al ritratto. E figura anche L’uomo con l’elmo d’oro, un quadro di grande fascino sebbene dopo essere stato a lungo annoverato tra i capolavori di Rembrandt, nel 1986, in seguito ad analisi tecnologiche approfondite, è stato espunto dal catalogo del pittore e degradato a opera di bottega.
Fino al 15 febbraio 2009. Via del Corso, 320 Orario: tutti i giorni dalle 10.00 alle 20.00 (chiuso lunedì) Tel. 06.6613462.
Corriere della Sera 11.11.08
Alla Tate Gallery appese al contrario opere dell'astrattista americano. Ma ci sono precedenti
Rothko, Van Gogh, Dalí: se la tela è rovesciata
di Guido Santevecchi
LONDRA — La Tate Modern di Londra è molto orgogliosa della sua Rothko Room, la sala dove sono esposti i «luminosi rettangoli saturati di colori» dipinti dall'artista morto suicida nel 1970 a New York. Il museo creato in una centrale elettrica sul Tamigi ha aperto una mostra retrospettiva dei capolavori di Mark Rothko, presentandola come il «must-see» dell'anno. Ma ora si scopre che i curatori hanno appeso al contrario due delle opere più note, che fanno parte della serie Black on Maroon: si tratta di grandi strisce nere su fondo marrone. Il punto è che le strisce, nel disegno del pittore espressionista astratto, sarebbero state immaginate come orizzontali, mentre sulla parete della Tate sono esposte in verticale.
L'errore sembra evidente: «elementare », come dice il critico Richard Dormand del Daily Telegraph. Si sa che quando Rothko spedì le sue tele al direttore della Tate le accompagnò con una serie di richieste dettagliate sulla loro esposizione, chiedendo anche di essere consultato sull'architettura della sala.
Oltretutto, la firma sul retro dei quadri dovrebbe far capire il giusto senso. Nel 1970 quindi i due Black on Maroon furono appesi in orizzontale. Ma qualche anno dopo la morte dell'artista, nel 1979, il direttore della Tate cambiò idea e le fece ruotare in verticale, sostenendo che negli scritti di Rothko era stato trovato un passaggio che evidenziava un ripensamento. Nuovo cambio di direzione nel 1987, quando i curatori scrissero nel catalogo che effettivamente la firma di Rothko sul retro non lasciava dubbi sulla sua volontà orizzontale. E adesso un'altra inversione di rotta: meglio ammirare le strisce in verticale.
La personalità di Mark Rothko, nato come Markus Rotkowics in Lettonia nel 1903, era sicuramente complessa: «C'è più forza nel dire poco che nel dire tutto», amava ripetere. E non si riconosceva nemmeno nella definizione di «espressionista astratto». Anche i critici sono incerti. Lo storico dell'arte Tim Marlow dice: «Penso che Rothko fosse in conflitto interiore con i grandi spazi, così c'è dell'ambiguità nelle sue opere. E in questo direi che la Tate abbia uno spazio di manovra». Waldemar Januszczak, critico del Sunday Times, osserva che «il modo in cui sono appesi i due quadri a me sembra corretto. Ma se invece è sicuro che Rothko li voleva in orizzontale quelli della Tate sono pazzi».
Ragionamenti sofisticati, da critici sofisticati. Qualche opinione di gente comune, incontrata di fronte ai quadri in questione: «Io non capisco che cosa rappresentino queste strisce, né in verticale né se fossero in orizzontale e magari è proprio questo il bello dell'arte astratta», dice una turista italiana. «Il verso cambia l'interpretazione: è assurdo come appendere un paesaggio capovolto, una cosa mai vista», risponde la giovane inglese Laura Wilkinson.
Che però sbaglia: si è già visto perché nel 1965 la National Gallery riuscì a rovesciare un Prato con farfalle dipinto da Vincent van Gogh a Saint-Rémy nel 1890, prima di essere avvertita dell'errore da una bambina in visita scolastica. E nel 1994 anche un Salvador Dalí ( Quattro mogli di pescatori di Cadice) finì a testa in giù alla Hayward Gallery di Londra.
Per quanto riguarda i due Rothko, sembra che i curatori della Tate non abbiano fretta di sciogliere l'enigma. Non sono previsti ulteriori cambi di direzione almeno fino a febbraio, quando si concluderà la retrospettiva.
Corriere della Sera 11.11.08
Una retrospettiva dell'artista umbro che svelò il cuore delle cose inerti
Burri, la materia e l'anima
di Roberta Scorranese
La pittura non deve essere spiegata.
Le mie immagini sono un equivalente della parola. E come spiegare la poesia?
Alberto Burri studiava medicina e forse sarebbe diventato un chirurgo se un giorno non avesse guardato il mondo dalla finestra di una prigione. Fu nel '43, nel campo di concentramento di Hereford (Texas), che divenne un artista. Forse perché vide il mondo come puoi vederlo solo quando sei senza speranza: come fosse la prima volta. Solo allora scopri che la sabbia ha una consistenza finissima, sembra oro; che un sacco racchiude misteriose sfumature di colore e che non esiste un solo tipo di nero. Lui scoprì la materia e ne fece poesia. Ed eccoli i sacchi, le sabbie e i neri di Burri, nella retrospettiva che la Triennale di Milano dedica al grande artista umbro.
«Lui non ci sarebbe venuto— scherza Chiara Sarteanesi, curatrice della mostra insieme a Maurizio Calvesi e anima della Fondazione Burri a Città di Castello —. Preferiva parlare attraverso le opere». Ed è questa la grandezza di Burri: l'aver dato voce alle cose, facendosi da parte. Vivificando la materia, mai accontentandosi del colore. Ecco perché le cascate di segatura che vedrete della serie «Cellotex» sembrano montagne d'oro e le plastiche bruciacchiate dei «Rossi» paiono polmoni irrorati: nelle sue mani le cose si animano, codificano personalissimi alfabeti. In casa Sarteanesi, a Città di Castello, lui era uno di famiglia: «Odiava parlare di sé — dice la curatrice — piuttosto se ne stava in veranda e osservava le colline». Assorbiva il mondo: la forma della collina si ritrova nell'onda di acrilico nella serie «Bianco/nero».
Ma non cercate le ossessioni nei suoi quadri: lui ne avrebbe riso. I suoi pezzi di sacco incollati alla tela non sono tanto apologie del pauperismo francescano, né metafisica povera: sono un omaggio al sacco stesso, alla sua capacità di miscelare, tra tinte e tessuto, un marrone perfetto che il semplice colore non riusciva a dargli. Non lo capì l'Italia degli anni Sessanta, che gridò allo scandalo per quegli «stracci antigienici », così come i benpensanti sconsigliavano alle donne incinte di andare a vedere le mostre di Picasso, paventando il rischio di traumi dall'impatto con quei volti deformati. «Dai "sacchi" — spiega Maurizio Calvesi — passò a materie più umili, come il ferro e il legno, in una incessante ricerca». Anche se, orgoglioso e fiero, si arrabbiava quando gli nominavano il precedente dei futuristi, anch'essi polimaterici e sperimentatori arditi. Così, in «Ferro» del 1958, lascia che dal metallo si origini un'improvvisa suggestione: sembra un brullo paesaggio vulcanico. Più tardi, nella serie dei «Cretti», ricreerà l'effetto delle terre arse dal sole. Bruciando plastica trasparente (nella serie delle «Plastiche », negli anni Sessanta) riuscì ad animare questo materiale inerte: brilla come cartilagine viva. Anche da lui prenderà le mosse Damien Hirst.
Poi si stufava e cambiava materiale. «Il mio ultimo quadro è uguale al primo», diceva e si appassionava alle combustioni su legno. Come un bambino scopre le mille possibilità dei Lego, lui sperimentava le onde del catrame sulla tela, nella omonima serie in mostra: vuoi vedere che spostando l'onda calda della pece si scopre un nuovo punto di fuga? Vuoi vedere che, graffiando la superficie, si scopre una nuova sfumatura di nero, come nei «Neri» (1986 -1987) mai esposti prima. Diversamente da Lucio Fontana, quella di Burri non è tanto drammaturgia del gesto, ma è piuttosto dedizione al gesto, scandaglio della materia, cura artigianale. «Amore!», esclama Sarteanesi indicando uno dei primi lavori, della serie dei «Gobbi » (1950) composizioni gibbose, con supporti interni, dove la pittura gioca a fare la scultura. Come in Piero della Francesca, il suo preferito, per vedere il quale si faceva cento chilometri in bici fino a Urbino. Amore, appunto.
Al resto della vita dedicò una distratta attenzione. Dopo la guerra (venne fatto prigioniero in Tunisia), i movimenti artistici lo sfiorarono appena, preferì Parigi a Roma e divenne famoso in America. Lavorò anche per il teatro e in mostra vedrete bozzetti e teatrini, ma anche un lato meno conosciuto, quello della grafica di qualità, che egli mai rinnegò. Un matrimonio, un (inevitabile) pendolarismo sentimentale tra Los Angeles e Castello, la decisione di non avere figli. E come poteva, visto che fece da padre ai suoi quadri? Li seguì uno ad uno, scelse le «location » delle mostre e poi, non pago, se li ricomprava sognando un tempio in cui i suoi sacchi, le sue muffe e i suoi legni potessero riposare come in una necropoli privata. Il tempio giunse negli anni Ottanta, con la Fondazione e le sue sedi di Palazzo Albizzini e agli ex Seccatoi di tabacco, a Castello. Ed eccolo, sornione davanti ai Seccatoi, nelle belle foto (firmate da Amendola, Basilico e Contino) in mostra. Una si distingue: l'artista in piedi, ripreso di fronte, il volto coperto dalla fiamma ossidrica con la quale sta lavorando. Ecco: lui bruciò nelle cose.
Corriere della Sera 11.11.08
«Religulous» si scaglia contro i predicatori e le celebrità che ostentano la fede
Attacco laico
Le religioni in un documentario «comico» Cristiani, ebrei e musulmani nel mirino
di Giovanna Grassi
LOS ANGELES — «La religione è una sovrastruttura dell'uomo e del potere. È sempre foriera di traumi, inibizioni, gerarchie. Non solo è pericolosa, ma nasconde anche una ricattatoria fandonia: quella di far diventare gli esseri umani buoni». Questo è l'assioma che sostiene Bill Maher nel documentario che ha scritto e prodotto, Religulous, e di cui ha affidato la regia a Larry Charles ( Borat) — il miglior amico di Michael Moore — che, ironia della sorte, con la sua gran barba e sempre vestito di nero sembra proprio un predicatore.
Maher è il «comedian/reporter » più politicamente scorretto d'America: nato a New York nel 1956, è figlio di un noto giornalista della Nbc di adamantina fede cattolica e di una signora di religione ebraica. È stato radiato dalla ABC, con il suo popolare show di interviste e dibattiti (intitolato Politically Incorrect), dopo aver innescato uno scandalo nazionale per aver detto che i terroristi dell'attacco alle Due Torri non erano «vili né codardi ».
Religulous non sarà sicuramente in corsa per gli Oscar, ma resta nella top ten degli incassi Usa a diverse settimane dal debutto; in Italia uscirà il 5 dicembre, dopo essere passato al morettiano Festival di Torino. Il New York Times lo ha definito «il più irriverente, divertente documento sulla fede», ma è anche molto angoscioso e «foriero di interrogativi profondi», ha ribattuto il Los Angeles Times.
Il film è imperniato su una carrellata di predicatori, sette, religioni ufficiali, ortodosse e non dell' America. Racconta Bill: «Da sempre volevo girare un documentario sulla fede essendo io stato segnato da una crescita divisa tra due religioni. Ho girato il mondo e volevo, non è un paradosso, che il nostro lavoro fosse anche divertente e che, nell'analizzare il potere spesso corrotto che si nasconde dietro tanti culti, instaurasse un dibattito tra intelligenza e stupidità con i suoi discutibili idoli, spesso simili a rock star nella loro leva sulle folle. Ho intervistato centinaia di persone, scienziati, letterati, intellettuali, vescovi, ciarlatani... Ho utilizzato migliaia di spezzoni, compresi quelli di Bush quando afferma, per i suoi tornaconti e crimini di guerra «Dio e Gesù Cristo sono esistiti per dare libertà agli uomini». E anche McCain, che di religione non parla, ma dichiara di credere al diavolo. Tom Cruise seguace di Scientology ha rifiutato l'incontro, ma appare in alcune sue dichiarazioni, come John Travolta, adepto della fede di L. Ron Hubbard».
Che cosa ha divertito e preoccupato di più l'indomito Bill, che da bambino litigava con la madre ebrea e con il padre cattolico, decisi entrambi a imporgli la loro fede (ma per rispetto e amore ha dedicato il film a mamma Julie, defunta)? «Sicuramente — risponde — gli incontri con i predicatori americani, che hanno migliaia e migliaia di fedeli ». Ed ecco gli esempi che più l'hanno colpito: «Due soprattutto rappresentano l'assurdità del bisogno di fede. Il miliardario predicatore Josè Luis de Jesus Mirada che, coperto di oro e con abiti di sartoria ("Perché Cristo è stato e resta una icona fashion") proclama di essere il nuovo Gesù a folle adoranti; l'ex leader gay oggi sposato John Wescott, che ha creato il suo business di fede per convertire tutti i gay alla cristianità e che nega che Gesù abbia mai parlato della materia. E, poi, gli islamici integralisti da me intervistati, i cittadini dell' America profonda che dichiarano di aver parlato con il loro angelo custode, gli scienziati, gli analisti della religione autori di best seller, il capo della Cannaba Religion, Ferre van Beveren".
Ce n'è per tutti e genitori e figli fanno la fila per vedere e contestare il documentario con striscioni «God helps us» (Dio ci aiuta) o poster irridenti. Dice Maher: «Mi interessa molto la reazione della platea italiana, cattolica e no. Perché avevo solo un obiettivo nel realizzare il nostro lavoro. Far confrontare i popoli con la fede, quindi con la politica, il potere e la propria coscienza ». Scusi, una o due regole di fede per lei?: «Stimolare controversie, essere frugale e sempre ragionare con i fatti».
Il Mattino 11.11.08
La genetica va di moda è boom di test inutili
Solo una donna su 5 esegue l’amniocentesi mentre c’è un exploit di altri esami prenatali
di Manuela Correra
Roma. Troppi test genetici effettuati senza un reale bisogno ma solo per moda ed un proliferare di centri e laboratori in Italia del tutto «ingiustificato» e in vari casi a discapito di sicurezza e qualità delle prestazioni. È questa l’istantanea che emerge dal censimento 2007 sui test e le strutture di genetica in Italia, promosso dalla Società italiana di genetica medica e dall’Istituto Css-Mendel. Dal 2004 ad oggi si è registrato un aumento del 30% dei test genetici. Ed è allerta, ha avvertito il genetista e direttore scientifico dell’Istituto Css-Mendel, Bruno Dallapiccola, per i pericoli che arrivano da Internet: «Si offrono pacchetti di test genetici del tutto inaffidabili». Un «no» alle diagnosi genetiche fai da te arriva anche dal sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella, che ha messo in guardia dai rischi di un «atteggiamento di consumismo» sui test genetici. I dati sono significativi. Una donna su 5 in Italia effettua tecniche invasive di diagnosi prenatale come amniocentesi o villocentesi (102.000 test nel 2007). Ma sono circa 60.000 le donne che scelgono di non effettuare tali analisi pur avendo un’età a rischio. Al contempo, aumentano invece i test molecolari prenatali per singole malattie: oltre 20.000 nel 2007. E il più delle volte sono effettuati senza una reale indicazione e quindi inutili. Sono affidabili i test che misurano singole malattie dovute a mutazione di un solo gene, avverte Dallapiccola, ma i test spesso pubblicizzati in rete per patologie complesse come diabete, ipertensione, osteoporosi «sono inaffidabili. Nel 2007 sono stati eseguiti complessivamente circa 560.000 test genetici, ma le consulenze di genetisti clinici sono state solo 70.154 (13%). Dato che preoccupa, poiché la consulenza è fondamentale per interpretare i test. Un altro dato che preoccupa, denuncia il genetista, è che solo il 28% dei laboratori è certificato secondo norme internazionali e solo il 35% partecipa a controlli esterni di qualità. Il numero delle strutture di genetica «è in continuo e ingiustificato aumento». Sono stati censiti 388 laboratori in 278 strutture. Solo 70 strutture (il 28%) sono certificate secondo la norma Iso-9001. Il 64% delle strutture al Nord è certificato con un sistema di qualità, cifra che al Sud scende al 12%.