martedì 11 novembre 2008

il Riformista 11.11.08
Walter cerca il dialogo, Mariastella apre
Ma intanto i tagli all'istruzione restano
di Sonia Oranges


LETTERA. Veltroni scrive a Gelmini e Tremonti: sulla scuola sospendete tutto e confrontiamoci. La risposta dal ministero: disponibili, ma soltanto con chi vuole fare la riforma. La mobilitazione continua.

Ha chiesto di «sospendere gli effetti del decreto Gelmini oramai approvato e di modificare con la Legge Finanziaria le scelte di bilancio sulla scuola e sull'università»: sarà che verba volant mentre scripta manent, ma con l'approssimarsi della discussione (semmai ci sarà) sulla manovra economica il segretario del Pd Walter Veltroni ha preso carta e penna e ha scritto al ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini e al collega dell'Economia Giulio Tremonti, proponendo loro «di dar vita a un tavolo al quale partecipino le parti sociali, il mondo della scuola e le forze di opposizione», in cui cercare una soluzione condivisa per la riforma di scuola e università. Insomma: confrontatevi e poi decidete. «Se c'è un settore, una materia su cui un Paese e la sua classe dirigente dovrebbero cercare sempre e in ogni modo di superare divisioni e polemiche per individuare le soluzioni migliori, questo è il settore che comprende la scuola, la ricerca e l'università - ha scritto il leader pd - È un settore che, non c'è dubbio, ha bisogno nel nostro Paese di una profonda innovazione, di una radicale riforma. partendo da un principio: quello di investire su di esso maggiori risorse, non minori; quello di riqualificare la spesa, e non semplicemente di tagliarla».
E la Gelmini non si è sottratta. «Sono disponibile a un confronto che abbia come obiettivo riformare e migliorare l'istruzione in Italia - ha risposto la titolare di viale Trastevere - Sono disponibile in particolare a discutere con tutte quelle forze riformiste che pensano che non si possa esclusivamente difendere lo status quo». Lo stesso principio, secondo il ministro, su cui si basano le linee guida della riforma del sistema universitario, «base di un dibattito che ponga al centro i temi della riaffermazione del merito, della promozione dei giovani talenti e della trasparenza». Dibattito che, per la Gelmini, avverrà in Parlamento dove «arriveranno proposte e suggerimenti indispensabili per una riforma che ci auguriamo condivisa».
Una risposta certamente d'apertura, ma ancora troppo ambigua per essere convincente. Almeno secondo Giuseppe Fioroni, già ministro dell'Istruzione del governo Prodi: «Restano come macigni i tagli già decisi dal governo e di cui il ministro non fa alcun cenno». Con i tagli che seguono il loro corso, dunque, non è possibile alcun confronto.
Intanto, però, viale Trastevere non è rimasto sordo alla piazza. Oggi i rappresentanti di Cgil, Cisl e Uil del settore università e ricerca (che hanno proclamato uno sciopero generale per venerdì prossimo, cui parteciperanno anche studenti universitari e medi) saranno ricevuti dalla Gelmini. Anche i sindacati chiedono l'apertura di un tavolo di confronto sull'università, soprattutto dopo l'approvazione del decreto della scorsa settimana, che fa la lista degli atenei buoni e di quelli cattivi, dettando a seconda dei casi nuove regole per i concorsi.
E se ieri la conferenza nazionale dei presidi delle facoltà di Scienze e tecnologie italiane chiedeva di stralciare o sospendere i tagli al finanziamento pubblico dell'università, altrove il sottosegretario all'Economia Giuseppe Vegas assicurava che, come garantito a inizio mese dallo stesso premier Silvio Berlusconi, per la scuola privata i problemi saranno risolti e che il paventato taglio di 130 milioni di euro alle paritarie, in un modo o nell'altro, non ci sarà.
La partita, dunque, è ancora in corso. Come pure la protesta in scuole e atenei. In vista dell'appuntamento del 14 novembre, la mobilitazione resta alta. A Cagliari continuano le lezioni in piazza, mentre a Milano gli studenti del Conservatorio suonano per protesta davanti al Comune. E oggi torna in scena pure Sabina Guzzanti. O meglio in cattedra, all'università di Cosenza.

il Riformista 11.11.08
Aborto e vescovo gay
I dubbi della Chiesa su Obama presidente
di Paolo Rodari


Preoccupati. Ai vescovi cattolici non piacciono le promesse elettorali all'anglicano Robinson, la posizione sulla vita e sulle staminali embrionali.

L'assemblea plenaria dei vescovi statunitensi in corso da ieri (fino a giovedì) al Marriott Waterfront Hotel di Baltimora avviene per volti versi nel momento opportuno. Il tempo, infatti, è propizio affinché l'episcopato d'oltre Atlantico possa riflettere sull'elezione di Barack Obama e soprattutto esprimersi circa le posizione pro-choice sull'aborto del nuovo presidente. In parte, l'ha già cominciato a fare ieri mattina il cardinale arcivescovo di Chicago e presidente della conferenza episcopale Francis George quando, aprendo i lavori della plenaria, si è congratulato con Obama per la vittoria ma, nello stesso tempo, ha ricordato tra gli applausi dei presuli come il "no" all'aborto sia uno dei pilastri dell'insegnamento cattolico. E, in effetti, è innanzitutto sulle posizione abortiste di Obama - sullo sfondo incombe la firma del Freedom of Choice Act, la legge sull'aborto che permetterà a tutte le donne di abortire in ogni momento della gravidanza, in qualsiasi Stato e a ogni età, anche al di sotto dei 18 anni - che i vescovi intendono discutere a Baltimora. L'ha confermato venerdì scorso anche la portavoce dei vescovi Mary Ann Walsh quando ha detto che «la conferenza espiscopale statunitense si ritroverà per discutere di vari temi, tra questi l'aborto e le future politiche in merito».
Ma c'è di più. Pare che sul tavolo della conferenza episcopale presieduta da circa un anno dal cardinale George vi sia anche il «dossier Virtueonline». Molto, infatti, ha fatto discutere i vescovi la notizia apparsa su quella che è la voce dell'ortodossia anglicana - Virtueonline, appunto, ripreso in merito anche dal Times - secondo la quale, durante la recente campagna elettorale, Obama ha incontrato per ben tre volte monsignor Gene Robinson, il primo vescovo episcopaliano dichiaratamente gay che tanto aveva fatto discutere di sé anche la scorsa estate nell'incontro di Lambeth della Chiesa anglicana: a motivo delle sue posizioni liberal non era stato ammesso all'assise. Proprio a lui Obama, nonostante esprimendosi successivamente sui referendum in California, Arizona e Florida non abbia dimostrato di voler fare molto in merito, ha assicurato che, una volta approdato alla Casa Bianca, avrebbe appoggiato appieno le battaglie in favore dei diritti delle coppie omosessuali. È vero, Obama ci ha sempre tenuto a separare diritti in favore delle coppie gay (su questi il neo presidente è d'accordo) e legalizzazione dei matrimoni gay (su questi si è sempre mostrato più freddo) - e in questo senso la posizione tenuta durante i recenti referendum non contraddice più di tanto con quanto egli ha promesso a Robinson - ma la notizia del triplice incontro non è stata comunque recepita bene dalla gerarchia ecclesiastica tanto che anche di questo a Baltimora i vescovi vogliono discutere. Tra l'altro, seppure è vero che oltre il cinquanta per cento di coloro che si dichiarano cattolici ha votato per Obama, pare sia altrettanto vero che la maggior parte di questi, avendo bocciato in California, Arizona e Florida i referendum, non ha preso bene, a poche ore dal voto, la notizia del triplice incontro e delle conseguenti promesse.
È principalmente sui temi cosiddetti etici che l'amministrazione Obama rischia il frontale con la Chiesa cattolica statunitense, fedeli inclusi. E anche con la diplomazia vaticana la quale, per il momento, sta alla finestra e proprio dal cardinale George attende notizie dettagliate sul nuovo corso alla Casa Bianca.
A preoccupare ci sono anche le decisioni che Obama è chiamato a prendere intorno alla ricerca sulle cellule staminali embrionali. Infatti, secondo quanto hanno annunciato i più stretti collaboratori del neo presidente, Washington si starebbe apprestando a dare di nuovo il via libera - dopo i limiti imposti da Bush - ai fondi federali per la ricerca sulle cellule staminali embrionali.
A ben vedere, dunque, i timori dei vescovi sono giustificati. Anche perché risulta parecchio difficile che su questi temi la figura del cattolico Joe Biden possa rassicurarli. Biden, infatti, nei mesi scorsi, ha dovuto subire dure invettive da parte dei presuli di Madison, Robert C. Morlino, e di Denver, Charles J. Caput, proprio a motivo delle sue prese di posizione controverse sull'aborto. Tanto che, di qui in avanti, la strategia dei vescovi statunitensi pare sia quella di affidarsi alle proprie risorse, cominciando a prevenire il nuovo corso obamiano in merito alle tematiche cosiddette eticamente sensibili (aborto, unioni gay, ricerca sulle cellule staminale embrionali) mettendo innanzitutto in campo una campagna preventiva di informazione culturale incentrata attorno al valore unico della vita umana.

il Riformista 11.11.08
Michelle e Sarah
La novità femminile della politica Usa
di Ritanna Armeni


Queste elezioni nelle quali è stato eletto un uomo sono state caratterizzate dalla presenza femminile. Questo desiderio di contare e di essere rappresentate sarà convogliato sulla donna che da gennaio entrerà alla Casa Bianca

C'è qualcosa nell'immaginario collettivo più rivoluzionario di un afroamericano eletto alla presidenza degli Stati Uniti? Sì, anche se pochi per il momento se ne rendono conto. È ancora più rivoluzionario il ruolo di First Lady occupato da Michelle, una donna nera, più nera di Obama, più simile di lui nell'aspetto, nel comportamento, nell'abbigliamento a quella minoranza che dalle elezioni del nuovo presidente si sente finalmente riscattata. E che di questo è assolutamente consapevole se, parlando dei suoi anni all'università ha affermato: «La mia esperienza a Princeston mi ha reso molto più cosciente della mia blackness di quanto fossi mai stata prima… A prescindere dalle circostanze per cui io avevo a che fare con i bianchi a Princeston spesso sembrava che per loro io sarei stata sempre una nera e poi una studentessa».
Michelle non è solo la moglie nera di un presidente afro-americano. Se così fosse l'elezione del marito riassumerebbe ogni carica innovatrice. E lei sarebbe esclusivamente un'appendice. Il fatto è che negli Stati Uniti le consorti dei presidenti hanno un ruolo istituzionale, hanno degli uffici alla Casa Bianca, hanno uno staff, fanno più o meno formalmente politica. Naturalmente ciascuna copre questo ruolo come può o come meglio ritiene. C'è chi si occupa di beneficenza come ha fatto Laura Bush, chi, come Hillary Clinton, pensa di poter produrre e proporre la riforma sanitaria, chi gioca il ruolo di nonna d'America come Barbara Bush, chi punta a diventare il simbolo di un nuovo stile e di una nuova eleganza come Jacqueline Kennedy.
Che ruolo avrà Michelle? Certamente è tutto da costruire, ma non potrà non essere nuovo e inedito perché nuova e inedita è la figura della First Lady per il colore della pelle, per la storia personale di donna di umili origini che si fa da sola, per le caratteristiche di concretezza e di forza mostrate nella campagna elettorale, per il suo rapporto paritario e ironico col marito presidente.
Ma c'è anche un altro motivo per cui la sua figura merita molta attenzione. Oggi la politica negli Stati Uniti, ma non solo negli Usa, si fa attraverso un uso sapiente del simbolico. Essa passa in gran parte attraverso la vita personale dei leader e delle loro mogli, dei loro figli, del loro entourage che viene esaminata e assume una rilevanza che le parole e le proposte non hanno più. Sicuramente Barak Obama è stato eletto per la fortissima carica simbolica di rottura rappresentata dalla sua persona, dall'essere il primo afro-americano a concorrere alla presidenza. Ora sarà giudicato anche dai fatti. Ma la carica simbolica della sua persona e della sua vita personale avranno ancora molta importanza. E di questo simbolico - nel bene o nel male - Michelle, i suoi comportamenti, il modo in cui gestirà il ruolo di First Lady saranno indicativi. Tanto più indicativi - ancora una volta è bene non dimenticarlo - perché lei è la prima First Lady nera. Prendete, ad esempio, il modo in cui si guarda il suo abbigliamento. Di Michelle non si giudica solo l'eleganza, ma anche quanto in quella eleganza vi sia di folk e popolare, quanto anche attraverso i vestiti lei rappresenti una cesura con la tradizione delle donne bianche che l'hanno preceduta alla Casa Bianca.
Ma c'è un terzo motivo per cui a Michelle si guarderà con particolare attenzione. Queste elezioni nelle quali è stato eletto un uomo sono state caratterizzate dalla presenza femminile. Hillary Clinton, sconfitta da Obama alle primarie, è stata la prima donna che ha tentato la scalata alla Casa Bianca. Il suo tentativo rimarrà nella storia e probabilmente conterà nella politica futura degli Stati Uniti. Sarah Palin, l'esponente della destra americana più conservatrice, è stata la prima donna repubblicana candidata alla vicepresidenza. Ha annunciato che non si ritirerà in Alaska, ma tornerà a far politica a livello nazionale. Entrambe hanno attivato e modificato un immaginario, entrambe hanno rappresentato modelli femminili che fino a oggi non erano entrati a far parte della vita politica degli Stati Uniti. Questo immaginario, questo desiderio di contare e di essere rappresentate sarà convogliato sulla donna che da gennaio entrerà alla Casa Bianca. Inevitabilmente Michelle Obama si troverà a rappresentare non solo le mogli e le madri, ma le donne americane. E anche se per il momento ha deciso di avere un ruolo più discreto e più appartato di quanto il suo carattere e le sue capacità promettono non dubitiamo che nei prossimi mesi ci riserverà delle sorprese. Forza Michelle.

il Riformista 11.11.08
Svolta. Manovra da capogiro per rilanciare i consumi e scongiurare l'incubo della rivolta
La Cina ribolle per la crisi, Pechino offre un New Deal
di Ilaria Maria Sala


REPORTAGE. Nelle città del boom, le aziende chiudono una dopo l'altra. E scoppiano disordini, spesso violenti. Il regime punta sulla domanda interna. Per dare un segnale agli altri Grandi. Perché se non corre a perdifiato, il miracolo economico può sfociare in una resa dei conti.

Hong Kong. Il pacchetto finanziario proposto da Pechino per rilanciare i consumi e l'economia interna ha cifre da capogiro: 4 trilioni di yuan, ovvero circa 580 miliardi di dollari, che dovrebbero stimolare la domanda interna e, stando alle parole speranzose con cui è stato presentato, aiutare a scongiurare una recessione mondiale.
Un pacchetto che prevede sia spese nuove, sia altre che erano inevitabili e già annunciate, come la ricostruzione nelle aree del Sichuan colpite dal sisma a maggio scorso (che dovrebbe costare un trilione di yuan), così come altre ancora di cui si parlava da tempo, discusse a più riprese dalla dirigenza del paese, in particolare nella sanità e nel welfare sociale.
In parte, per la Cina, si tratterà di fare con ancor più decisione quello che già viene fatto da decenni, ovvero, continuare a costruire in modo massiccio: secondo una prima analisi della Credit Suisse del pacchetto, infatti, il 60% circa dell'imponente stanziamento finanziario verrà consacrato alle spese per le infrastrutture nel settore dei trasporti e della costruzione di abitazioni non di lusso, in particolare autostrade, aeroporti e ferrovie. Questo a sua volta dovrebbe poter stimolare ulteriormente l'industria dell'automobile e quella dell'immobiliare (che ha subito un grosso arresto nel corso dell'anno, con, in alcune città, un meno 40% delle transazioni effettuate), rilanciando i consumi interni.
Davanti al crollo improvviso delle Borse domestiche e internazionali, infatti, i consumatori cinesi hanno reagito con estrema prudenza, tenendo ben chiuso il portafoglio. Il pacchetto dovrebbe poter offrire un rapido cerotto per lenire le ferite riportate dalle zone costiere, in particolare, le più sviluppate economicamente ma anche le più esposte agli scossoni mondiali, nella speranza che riprendano a consumare anche quando la domanda mondiale rallenta.
Nella ricca fascia costiera infatti, tanto nella regione del Guangdong adiacente a Hong Kong, come nella regione che circonda Shanghai, due fra le zone più industrializzate del paese, si contano già a migliaia il numero di aziende che producono per l'estero che hanno chiuso i battenti negli ultimi mesi.
L'inquietudine di chi ha perso il lavoro da un giorno all'altro - spesso senza preavviso, trovandosi semplicemente davanti ai cancelli chiusi della fabbrica - è già esplosa in manifestazioni e barricate a macchia di leopardo, e il timore di un espandersi dei disordini sociali è stato sicuramente ben presente nel redigere il pacchetto di stimolo economico.
Dopo il lungo periodo di "armonia comandata" che si è avuto in preparazione delle Olimpiadi e in concomitanza dei Giochi, infatti, sembra che in alcuni casi la pazienza cinese sia arrivata al suo limite, e nelle ultime settimane le notizie di disordini arrivano da varie città del Guangdong e da Chongqing, fino a piccole località del Zhejiang.
Quelle che erano fino a ieri le "boomtown" meridionali di Dongguan e Shenzhen, per esempio, e che si apprestavano ad abbandonare la manifattura di giocattoli e calzature a buon mercato per avventurarsi nell'high-tech, si ritrovano ora a fare una rapida marcia indietro, dato il calo verticale delle esportazioni degli ultimi mesi. E in mezzo all'improvvisa incertezza economica, crescono gli episodi di tragica violenza individuale: un camionista che schiaccia cinque persone per «vendicarsi della società», tassisti inferociti che attaccano i vigili, folle furiose che si slanciano contro una stazione di polizia per vendicare la morte di un giovane motociclista.
Questo rapido correre ai ripari, gettando denaro sulle fiamme di un inquietante scontento, può sorprendere per un'economia che, scossoni internazionali a parte, continua nondimeno a crescere del 9%: ma secondo economisti cinesi e non, per continuare a creare posti di lavoro e limitare possibili tensioni sociali date dagli enormi scompensi economici, la crescita minima indispensabile è dell'8% annuo.
Pechino dunque si appresta a celebrare il trentesi9mo anniversario del lancio delle riforme economiche impegnandosi in un ambizioso progetto di investimenti - che potrebbe però risultare troppo ambizioso. Da più di vent'anni, infatti, gli investimenti in infrastrutture in Cina sono cresciuti del 20 percento annuo, e alcuni analisti temono che si possa arrivare presto ad una temporanea saturazione. Ma la scelta sembra imporsi in modo netto: la dirigenza cinese, infatti, a livello domestico sa di avere vita relativamente facile fintanto che la crescita economica non si inceppa. A livello internazionale, invece, conta di poter aumentare il suo prestigio mostrandosi capace di rispondere con prontezza, trilioni alla mano, all'attuale crisi.

il Riformista 11.11.08
Losurdo, Canfora e il tentativo di riabilitare Stalin
di Andrea Romano


Il meglio lo dà il filologo dell'antichità che paragona il dittatore sovietico a Pericle e si indigna con chi ricorda i milioni di morti: «L'imputazione quasi giudiziaria che grava su Stalin è quella della smisurata falcidia di vite umane»

Vittima del nostro entusiasmo per l'elezione di Obama, la settimana scorsa è stato trascurato un anniversario a cui persino i riformisti del Riformista restano affezionati. Tanto più coloro che, come il sottoscritto, evocano nel titolo della propria rubrica un protagonista non secondario dei postumi di quella data (tutti sanno che Koba fu il primo nome di battaglia di Iosif Vissarionovich Dzhugasvili, successivamente noto come Stalin). L'anniversario mancato era quello del 7 novembre. Quando a Pietrogrado, 91 anni fa, un colpo di mano del partito bolscevico diede inizio alla vicenda storica del comunismo. L'unico comunismo dotato di una sua realtà concreta, quello sovietico e in parte anche nostro. Vale la pena ricordare l'ottobre del 1917 nell'Italia del 2008? Certamente sì, perché finalmente in questo Paese il comunismo ha raggiunto il rango della neutralità. Elevato sopra le nostre passioni fino a diventare oggetto estraneo al conflitto. Evocato senza temere alcuna reale conseguenza, positiva o negativa, e tutt'al più utilizzato per abbellire una costruzione retorica.
Sospettavo della neutralità italiana del comunismo già da tempo, guardando alla fissità del tema anticomunista nella retorica berlusconiana. Ne ho avuto conferma leggendo un libro che si pone né più né meno l'obiettivo di riabilitare Stalin. L'ha scritto Domenico Losurdo, ha per titolo "Stalin. Storia e critica di una leggenda nera" (Carocci). Entrati in possesso del volume, la prima sensazione è di una qualche simpatia per questo docente di Storia della filosofia che si prende tanta briga. Viene da pensare: «Però, mica male il Losurdo. Chissà come se la cava nell'inerpicarsi su un tema così scivoloso». E si inizia a leggere animati da curiosità. Salvo essere precipitati dopo poche pagine in una sorta di fiction saggistica. Dove trozkisti e stalinisti combattono ancora come se ci trovassimo a Barcellona nel 1937, giacché da una parte a intaccare il mito losurdiano di Stalin vi sarebbero «le rivelazioni (in cui) trovavano conforto gli intellettuali che avevano in Trockij il loro punto di riferimento» e dall'altra a tenerlo tenacemente in piedi «le speranze e le certezze che avevano accompagnato la rivoluzione bolscevica e che rinviavano a Marx». E dove la storiografia sull'Unione Sovietica, che pure ha prodotto un discreto corpo di studi nel corso di decenni, viene confinata nel campo degli strumenti al servizio dell'imperialismo statunitense. Perché al Losurdo è chiaro che «negli Usa la sovietologia aveva manifestato la tendenza a svilupparsi attorno alla Cia e ad altre agenzie militari e di intelligence, previa rimozione degli elementi sospettati di nutrire simpatie per il Paese scaturito dalla Rivoluzione d'ottobre». Ma si capisce che il Losurdo, per quanto temerario, non deve avere molta fiducia né dimestichezza con gli strumenti della ricerca storica. Perché anche solo scorrendo la bibliografia del suo volume si nota l'assenza pressoché totale degli storici e dei titoli che hanno raccontato cos'era davvero l'Urss di Stalin. E dire che ce ne sono tanti, anche recenti e ancora in commercio. E persino tradotti nelle lingue che il Losurdo frequenta di sicuro. Ma niente da fare. Il Losurdo non si interessa di cosa sia stato davvero lo stalinismo (almeno per quanto ci dicano gli archivi, le fonti e la discussione storiografica). A lui preme mettere in chiaro che «a partire dallo scoppio della Guerra fredda, per decenni la campagna anticomunista dell'occidente ha ruotato attorno alla demonizzazione di Stalin».
Passi per il Losurdo, che almeno ispirava simpatia nel suo acrobatico tentativo di rimettere in piedi il totalitarismo staliniano. Chi risulta assai meno simpatico è il più celebre Luciano Canfora, che ha scritto una postfazione che l'editore nobilita in copertina come "saggio" (le postfazioni valgono meno dei saggi). Dieci pagine in cui Canfora aggiunge del suo al Losurdo. Ad esempio ricordandoci che anche gli americani a volte sbagliano, perché «se Time nel 1944 proclamò Stalin "uomo dell'anno" una qualche ragione ci ha da essere». Oppure bacchettando quei sempliciotti che si limitano a ricordare i milioni di vittime dello stalinismo (perché «l'imputazione quasi giudiziaria che grava su Stalin è quella della smisurata falcidia di vite umane»). E infine equiparando Stalin a Pericle, come solo può fare chi come Canfora ha fatto della filologia il suo mestiere e il timone della sua visione civile. Viene da domandarsi quali testi o documenti il filologo Canfora abbia filologicamente compulsato per questa sua lezione di stalinismo. Ma è una tentazione che dura un attimo. Perché poi ci ricorda che nell'Italia del 2008 si è finalmente liberi di dirsi stalinisti senza tema di conseguenze. Magari ridendone e facendone ridere, beatamente lontani come si è non solo da Stalin ma anche dai vincoli della storiografia.

Corriere della Sera 11.11.08
Università e docenti, chi ha paura del sorteggio
di Francesco Giavazzi


Gli studenti di Trieste hanno avuto un'idea brillante. Tutto è nato sul loro blog dove uno si è chiesto perché in tante università rettori e professori partecipino alle manifestazioni contro i «tagli del governo»: «Può essere che utilizzino il nostro movimento non per il bene dell'università, ma per proteggere qualche loro interesse, magari per impedire che si modifichi il sistema con cui vengono reclutati i professori?». E così sono andati sui siti dove vengono riportate le pubblicazioni scientifiche dei loro docenti e quanto ciascuna è citata in altri lavori. Ad esempio «Publish or perish» che usa i dati di Google Scholar ed è disponibile sul sito www.harzing.com o semplicemente i dati delle valutazioni del Civr disponibili sul sito del ministero dell'Università. Racconta Maddalena Rebecca sul Piccolo che da quel giorno si vedono pochi professori alle assemblee degli studenti triestini.
Alcune «anime belle» criticano il decreto del ministro Gelmini che prevede una nuova modalità per la scelta dei commissari nei concorsi universitari: elezione di un numero pari a tre volte i commissari necessari e poi sorteggio. «In Gran Bretagna, dove l'università funziona, i dipartimenti scelgono i professori senza bisogno di un concorso ». Lo so bene, ma lì il titolo di studio non ha valore legale e i fondi pubblici vengono assegnati alle università non a seconda del numero degli studenti iscritti, ma in funzione della qualità della ricerca: ricerca che nessuno cita, niente fondi e il dipartimento chiude.
Se i critici vogliono essere coerenti dicano che sono pronti a cancellare il valore legale del titolo di studio (come ha fatto ieri sul Corriere Giovanni Sartori) e ad accettare che vengano chiusi i dipartimenti scadenti. E dicano anche che preferirebbero che i concorsi banditi venissero tutti rimandati in attesa di una riforma dell'università.
In realtà temo che le critiche tradiscano la rabbia per un decreto che ha fatto saltare gli accordi con i quali i professori si erano divisi i 6.000 posti a concorso prima ancora che si svolgessero le elezioni per la scelta dei commissari. Ne è un segno il tentativo (fortunatamente fallito) di modificare in extremis il testo del decreto per consentire ai professori associati di partecipare alle commissioni. Un vecchio trucco: gli associati devono ancora essere giudicati (per diventare ordinari) quindi sono facilmente ricattabili. E infatti a premere per estendere l'eleggibilità ai più giovani erano gli anziani non gli stessi associati.
Vorrei avanzare una modesta proposta. Fra poco più di un mese in tutte le università si voterà secondo le nuove modalità, cioè per costituire un pool di candidati fra i quali poi avverrà il sorteggio. Affinché si possa votare con sufficiente informazione, le diverse discipline dovrebbero prendere esempio dagli studenti triestini e pubblicare un elenco dei professori eleggibili e della loro produttività scientifica. Poiché esistono diversi criteri (l'impact factor e altri) si potrebbero pubblicare indici diversi. Io mi impegno a farlo per le materie economiche e statistiche e sono certo altri lo faranno per altre discipline, soprattutto quelle meno abituate a standard internazionali.
Poi si vedrà, sia quali discipline non avranno ritenuto utile dare questa informazione sia quelle che, pur avendo stilato gli elenchi, voteranno per candidati non particolarmente brillanti.

Repubblica 11.11.08
Come porre rimedio ai disastri
I beni culturali sempre più a rischio: per tutelarli il potere resti allo Stato
Salviamo l’arte dal federalismo
di Eugenio Scalfari


La mancata tutela del territorio, dell´ambiente e del paesaggio va di pari passo con la scarsa attenzione all´arte e all´archeologia
Investire nella cultura significa anche rafforzare il turismo con tutto l´indotto

Può sembrare anacronistico occuparsi di tutela dei beni culturali e del paesaggio mentre infuria una tempesta economica senza precedenti che diffonde incertezza, paura e sfiducia e chiede risposte urgenti ed efficaci. Eppure non si tratta d´un tema peregrino, tantomeno d´un pretesto per parlar d´altro evadendo quelli che più ci riguardano. Si tratta invece d´un tema estremamente pertinente. Viviamo giorni e mesi di decisioni radicali che da un lato tendono a mettere in atto misure di tamponamento che garantiscano nell´immediato i depositi bancari, il patrimonio di banche e di imprese, il sostegno della domanda e dei redditi più deboli. Ma dall´altro configurino nuovi assetti e nuovi equilibri nei meccanismi di produzione e di distribuzione della ricchezza. Configurino anche una società diversa da quella attuale, una maggiore trasparenza e più incisivi controlli per bilanciare il necessario rafforzarsi dei poteri rispetto ai diritti.
In questo profondo rimescolio esiste il pericolo che la cultura, cui si continua a tributare omaggio di parole, costituisca nei fatti l´anello debole e addirittura la vittima sacrificale. Cultura, ricerca, beni culturali, patrimonio pubblico, paesaggio, sono infatti considerati come altrettanti elementi opzionali dei quali si può tranquillamente fare a meno. I tagli di spesa più cocenti sono avvenuti proprio in questi settori non soltanto per eliminare sprechi ma per recuperare risorse dirottandole verso altre destinazioni. Non si è considerato che non si tratta di spese ma di investimenti che, proprio per la loro natura, non possono essere interrotti senza causare nocumento e deperimento gravissimi.
La totalità di questi beni, la loro salvaguardia e la loro valorizzazione, hanno tra l´altro effetti diretti sull´economia del Paese poiché sono connessi all´industria del turismo che rappresenta una delle maggiori risorse del nostro territorio. Il turismo, dal punto di vista della bilancia commerciale, equivale all´esportazione di beni e servizi, procura entrate di valuta nelle casse dell´erario, con una differenza: non escono merci e servizi dal territorio nazionale ma entrano persone e con esse ricchezza e sostegno della domanda interna. Una flessione del turismo comporta una flessione immediata della domanda e della ricchezza prodotta.
Fino a poco tempo fa l´alto livello dell´euro in termini di dollari scoraggiava il turismo internazionale verso l´Europa, ma è proprio qui che entrava in gioco la valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici di ciascuno dei Paesi europei con spiccata vocazione turistica. Abbiamo assistito negli anni di più elevato tasso di cambio dell´euro al decadimento del turismo diretto verso l´Italia a vantaggio di quello canalizzato verso la Spagna, la Francia, la Grecia: stessa moneta, quindi stesse difficoltà per i portatori di un dollaro debole rispetto all´euro, ma diversa attrattiva dovuta alla migliore valorizzazione del paesaggio, del territorio, dei beni culturali che lo animano.
Ora il cambio euro-dollaro è tornato a livelli meno penalizzanti per il turismo europeo, anche se la crisi economica internazionale ha provocato una diminuzione del movimento turistico complessivo. Proprio a causa di questa flessione congiunturale la concorrenza è diventata ancor più severa ed è quindi tanto più necessario investire sulla cultura in tutte le sue articolazioni.
Ma questo non avviene, anzi sta avvenendo il contrario. Ho già accennato al problema d´una mentalità che considera i consumi culturale come un fatto opzionale. Si tratta d´una mentalità economicamente distorta che va denunciata e combattuta
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La condizione in cui versano ormai da anni le nostre Sovrintendenze preposte alla tutela dei beni paesaggistici e culturali è quanto di più misero si possa immaginare: personale ridotto al minimo, sedi vacanti da tempo, servizi pressoché inesistenti. Il ministro competente promette di colmare almeno i vuoti più drammatici e cerca soldi che compensino i pesanti tagli effettuati dalla Finanziaria triennale varata fin dallo scorso luglio. Li cerca ma finora non li ha trovati e dubito molto che possa riuscirvi nel prossimo futuro.
Il guaio è che, risorse finanziarie a parte, il ministro tergiversa anche a compiere alcuni adempimenti che non comportano spese ma che sarebbero necessari per chiarire una normativa confusa, fonte di abusi continui che hanno devastato il nostro territorio da almeno trent´anni in qua, disseminando mostri architettonici, lasciando deperire monumenti di importanza mondiale, occultando il mare con una cortina edilizia che ne ha confiscato la visibilità e la pubblica fruizione.
Questi abusi sono il frutto di inefficienza delle istituzioni di controllo, di scarsissima sensibilità nella pubblica opinione, dell´indifferenza dei «media» e, soprattutto, di una normativa che ha disperso i poteri di controllo tra tre diversi ministeri (Beni culturali, Ambiente, Lavori pubblici) e tre diversi livelli istituzionali: Stato, Regioni, Comuni.
Aggiungete a questa dispersione dei poteri di controllo e di programmazione la scarsità delle risorse e capirete le dimensioni di un disastro che ha mostrificato l´ambiente e si prepara a peggiorarlo ulteriormente con l´avvento di un federalismo che disperderà fino al limite estremo competenze e saperi.
* * *
Il più attento conoscitore del disastro culturale e ambientale italiano è Salvatore Settis, che lotta da decenni per la tutela e la valorizzazione dell´immenso e negletto patrimonio che il Paese possiede e trascuratamente dilapida.
E´ sua la definizione dell´unicità concettuale e pratica di questa nostra ricchezza, della sua manutenzione, della sua fruizione pubblica, di ciò che potrebbe e dovrebbe essere e invece non è. La definizione è questa: Esiste un «territorio» senza paesaggio e senza ambiente? Esiste un «ambiente» senza territorio e senza paesaggio? Esiste un «paesaggio» senza territorio e senza ambiente?».
Da questo triplice interrogativo, retorico perché presuppone una risposta negativa alle tre domande, nasce l´esigenza di una politica di tutela e di valorizzazione che sia unificata nei poteri e nelle competenze; tale unificazione non può avvenire che in capo allo Stato, il solo tra i vari enti istituzionali che sia depositario d´una visione generale, che viene inevitabilmente persa di vista man mano che si discende nei livelli locali, la Regione e ancora di più il Comune.
Purtroppo la situazione attuale ha già attribuito gran parte delle competenze alle Regioni consentendo ad esse di delegare ai Comuni una parte rilevante delle competenze e dei poteri propri. Le Sovrintendenze sono state in larga misura svuotate dei loro poteri di controllo e totalmente dei loro poteri di valorizzazione. La pianificazione urbanistica da tempo ha preso il sopravvento su quella paesaggistica e ambientale; a loro volta gli interessi propriamente edilizi hanno stravolto la pianificazione urbanistica; in tali condizioni anche la collusione, la corruzione e il lassismo sono stati oggettivamente incoraggiati.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: il disastro ambientale, paesaggistico, urbanistico che ha deturpato il paesaggio, l´ambiente e il territorio.
Il federalismo, in mancanza d´una normativa chiara e netta che si richiami all´articolo 9 della Costituzione («La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione») e alla giurisprudenza costituzionale che ne è seguita, porterà inevitabilmente questo triplice scempio se l´opinione pubblica non ne farà un obiettivo prioritario del proprio impegno civile.

l’Unità Roma 11.11.08
Da Rembrandt a Vermeer
La poesia si fa arte
di Flavia Matitti


Inaugurata ieri negli spazi di via del Corso, la mostra è curata da Bernd Wolfgang Lindemann, direttore della Gemäldegalerie di Berlino, istituzione da cui provengono tutti i 55 dipinti esposti.
Marcel Proust era un grande ammiratore di Johannes Vermeer, cui accenna in vari passi della Recherche. E ancora oggi gli interni domestici raffigurati dal maestro di Delft, dominati da un’atmosfera luminosa, rarefatta, sospesa, appaiono favorire uno stato d’animo incline all’esercizio della memoria e a quella ricerca del tempo perduto, come scavo introspettivo, così cara allo scrittore francese.
In questi giorni uno dei capolavori di Vermeer, la Ragazza con collana di perle, si può ammirare esposto a Roma nella rassegna intitolata «Da Rembrandt a Vermeer. Valori civili nella pittura fiamminga e olandese del ‘600». La mostra è curata da Bernd Wolfgang Lindemann, direttore della Gemäldegalerie di Berlino, istituzione da cui provengono tutti i 55 dipinti esposti, scelti per offrire un’ampia panoramica del periodo olandese, oltre a qualche esempio di pittura fiamminga tra cui Rubens, presente con un «romantico» Paesaggio con l’impiccato e Van Dyck con due splendidi ritratti.
«La decisione della Fondazione Roma di contribuire ad “esportare” a Berlino la mostra di Sebastiano del Piombo presentata a Palazzo Venezia – spiega l’avvocato Emmanuele Francesco Maria Emanuele, presidente della Fondazione Roma – ha fatto sì che nascesse una collaborazione privilegiata con la Gemäldegalerie, che ora ha prestato un nucleo significativo delle proprie raccolte».
L’esposizione è ordinata nelle sale del Museo del Corso, da oggi ribattezzato Museo Fondazione Roma, e l’allestimento intende ricreare l’atmosfera degli interni delle case olandesi. Numerosi dipinti rappresentano infatti scene d’interni e illustrano le tipiche attività della vita quotidiana della borghesia operosa e del popolo. Non mancano comunque in mostra gli altri generi artistici: dalla natura morta al paesaggio al ritratto. E figura anche L’uomo con l’elmo d’oro, un quadro di grande fascino sebbene dopo essere stato a lungo annoverato tra i capolavori di Rembrandt, nel 1986, in seguito ad analisi tecnologiche approfondite, è stato espunto dal catalogo del pittore e degradato a opera di bottega.
Fino al 15 febbraio 2009. Via del Corso, 320 Orario: tutti i giorni dalle 10.00 alle 20.00 (chiuso lunedì) Tel. 06.6613462.

Corriere della Sera 11.11.08
Alla Tate Gallery appese al contrario opere dell'astrattista americano. Ma ci sono precedenti
Rothko, Van Gogh, Dalí: se la tela è rovesciata
di Guido Santevecchi


LONDRA — La Tate Modern di Londra è molto orgogliosa della sua Rothko Room, la sala dove sono esposti i «luminosi rettangoli saturati di colori» dipinti dall'artista morto suicida nel 1970 a New York. Il museo creato in una centrale elettrica sul Tamigi ha aperto una mostra retrospettiva dei capolavori di Mark Rothko, presentandola come il «must-see» dell'anno. Ma ora si scopre che i curatori hanno appeso al contrario due delle opere più note, che fanno parte della serie Black on Maroon: si tratta di grandi strisce nere su fondo marrone. Il punto è che le strisce, nel disegno del pittore espressionista astratto, sarebbero state immaginate come orizzontali, mentre sulla parete della Tate sono esposte in verticale.
L'errore sembra evidente: «elementare », come dice il critico Richard Dormand del Daily Telegraph. Si sa che quando Rothko spedì le sue tele al direttore della Tate le accompagnò con una serie di richieste dettagliate sulla loro esposizione, chiedendo anche di essere consultato sull'architettura della sala.
Oltretutto, la firma sul retro dei quadri dovrebbe far capire il giusto senso. Nel 1970 quindi i due Black on Maroon furono appesi in orizzontale. Ma qualche anno dopo la morte dell'artista, nel 1979, il direttore della Tate cambiò idea e le fece ruotare in verticale, sostenendo che negli scritti di Rothko era stato trovato un passaggio che evidenziava un ripensamento. Nuovo cambio di direzione nel 1987, quando i curatori scrissero nel catalogo che effettivamente la firma di Rothko sul retro non lasciava dubbi sulla sua volontà orizzontale. E adesso un'altra inversione di rotta: meglio ammirare le strisce in verticale.
La personalità di Mark Rothko, nato come Markus Rotkowics in Lettonia nel 1903, era sicuramente complessa: «C'è più forza nel dire poco che nel dire tutto», amava ripetere. E non si riconosceva nemmeno nella definizione di «espressionista astratto». Anche i critici sono incerti. Lo storico dell'arte Tim Marlow dice: «Penso che Rothko fosse in conflitto interiore con i grandi spazi, così c'è dell'ambiguità nelle sue opere. E in questo direi che la Tate abbia uno spazio di manovra». Waldemar Januszczak, critico del Sunday Times, osserva che «il modo in cui sono appesi i due quadri a me sembra corretto. Ma se invece è sicuro che Rothko li voleva in orizzontale quelli della Tate sono pazzi».
Ragionamenti sofisticati, da critici sofisticati. Qualche opinione di gente comune, incontrata di fronte ai quadri in questione: «Io non capisco che cosa rappresentino queste strisce, né in verticale né se fossero in orizzontale e magari è proprio questo il bello dell'arte astratta», dice una turista italiana. «Il verso cambia l'interpretazione: è assurdo come appendere un paesaggio capovolto, una cosa mai vista», risponde la giovane inglese Laura Wilkinson.
Che però sbaglia: si è già visto perché nel 1965 la National Gallery riuscì a rovesciare un Prato con farfalle dipinto da Vincent van Gogh a Saint-Rémy nel 1890, prima di essere avvertita dell'errore da una bambina in visita scolastica. E nel 1994 anche un Salvador Dalí ( Quattro mogli di pescatori di Cadice) finì a testa in giù alla Hayward Gallery di Londra.
Per quanto riguarda i due Rothko, sembra che i curatori della Tate non abbiano fretta di sciogliere l'enigma. Non sono previsti ulteriori cambi di direzione almeno fino a febbraio, quando si concluderà la retrospettiva.

Corriere della Sera 11.11.08
Una retrospettiva dell'artista umbro che svelò il cuore delle cose inerti
Burri, la materia e l'anima
di Roberta Scorranese


La pittura non deve essere spiegata.
Le mie immagini sono un equivalente della parola. E come spiegare la poesia?

Alberto Burri studiava medicina e forse sarebbe diventato un chirurgo se un giorno non avesse guardato il mondo dalla finestra di una prigione. Fu nel '43, nel campo di concentramento di Hereford (Texas), che divenne un artista. Forse perché vide il mondo come puoi vederlo solo quando sei senza speranza: come fosse la prima volta. Solo allora scopri che la sabbia ha una consistenza finissima, sembra oro; che un sacco racchiude misteriose sfumature di colore e che non esiste un solo tipo di nero. Lui scoprì la materia e ne fece poesia. Ed eccoli i sacchi, le sabbie e i neri di Burri, nella retrospettiva che la Triennale di Milano dedica al grande artista umbro.
«Lui non ci sarebbe venuto— scherza Chiara Sarteanesi, curatrice della mostra insieme a Maurizio Calvesi e anima della Fondazione Burri a Città di Castello —. Preferiva parlare attraverso le opere». Ed è questa la grandezza di Burri: l'aver dato voce alle cose, facendosi da parte. Vivificando la materia, mai accontentandosi del colore. Ecco perché le cascate di segatura che vedrete della serie «Cellotex» sembrano montagne d'oro e le plastiche bruciacchiate dei «Rossi» paiono polmoni irrorati: nelle sue mani le cose si animano, codificano personalissimi alfabeti. In casa Sarteanesi, a Città di Castello, lui era uno di famiglia: «Odiava parlare di sé — dice la curatrice — piuttosto se ne stava in veranda e osservava le colline». Assorbiva il mondo: la forma della collina si ritrova nell'onda di acrilico nella serie «Bianco/nero».
Ma non cercate le ossessioni nei suoi quadri: lui ne avrebbe riso. I suoi pezzi di sacco incollati alla tela non sono tanto apologie del pauperismo francescano, né metafisica povera: sono un omaggio al sacco stesso, alla sua capacità di miscelare, tra tinte e tessuto, un marrone perfetto che il semplice colore non riusciva a dargli. Non lo capì l'Italia degli anni Sessanta, che gridò allo scandalo per quegli «stracci antigienici », così come i benpensanti sconsigliavano alle donne incinte di andare a vedere le mostre di Picasso, paventando il rischio di traumi dall'impatto con quei volti deformati. «Dai "sacchi" — spiega Maurizio Calvesi — passò a materie più umili, come il ferro e il legno, in una incessante ricerca». Anche se, orgoglioso e fiero, si arrabbiava quando gli nominavano il precedente dei futuristi, anch'essi polimaterici e sperimentatori arditi. Così, in «Ferro» del 1958, lascia che dal metallo si origini un'improvvisa suggestione: sembra un brullo paesaggio vulcanico. Più tardi, nella serie dei «Cretti», ricreerà l'effetto delle terre arse dal sole. Bruciando plastica trasparente (nella serie delle «Plastiche », negli anni Sessanta) riuscì ad animare questo materiale inerte: brilla come cartilagine viva. Anche da lui prenderà le mosse Damien Hirst.
Poi si stufava e cambiava materiale. «Il mio ultimo quadro è uguale al primo», diceva e si appassionava alle combustioni su legno. Come un bambino scopre le mille possibilità dei Lego, lui sperimentava le onde del catrame sulla tela, nella omonima serie in mostra: vuoi vedere che spostando l'onda calda della pece si scopre un nuovo punto di fuga? Vuoi vedere che, graffiando la superficie, si scopre una nuova sfumatura di nero, come nei «Neri» (1986 -1987) mai esposti prima. Diversamente da Lucio Fontana, quella di Burri non è tanto drammaturgia del gesto, ma è piuttosto dedizione al gesto, scandaglio della materia, cura artigianale. «Amore!», esclama Sarteanesi indicando uno dei primi lavori, della serie dei «Gobbi » (1950) composizioni gibbose, con supporti interni, dove la pittura gioca a fare la scultura. Come in Piero della Francesca, il suo preferito, per vedere il quale si faceva cento chilometri in bici fino a Urbino. Amore, appunto.
Al resto della vita dedicò una distratta attenzione. Dopo la guerra (venne fatto prigioniero in Tunisia), i movimenti artistici lo sfiorarono appena, preferì Parigi a Roma e divenne famoso in America. Lavorò anche per il teatro e in mostra vedrete bozzetti e teatrini, ma anche un lato meno conosciuto, quello della grafica di qualità, che egli mai rinnegò. Un matrimonio, un (inevitabile) pendolarismo sentimentale tra Los Angeles e Castello, la decisione di non avere figli. E come poteva, visto che fece da padre ai suoi quadri? Li seguì uno ad uno, scelse le «location » delle mostre e poi, non pago, se li ricomprava sognando un tempio in cui i suoi sacchi, le sue muffe e i suoi legni potessero riposare come in una necropoli privata. Il tempio giunse negli anni Ottanta, con la Fondazione e le sue sedi di Palazzo Albizzini e agli ex Seccatoi di tabacco, a Castello. Ed eccolo, sornione davanti ai Seccatoi, nelle belle foto (firmate da Amendola, Basilico e Contino) in mostra. Una si distingue: l'artista in piedi, ripreso di fronte, il volto coperto dalla fiamma ossidrica con la quale sta lavorando. Ecco: lui bruciò nelle cose.

Corriere della Sera 11.11.08
«Religulous» si scaglia contro i predicatori e le celebrità che ostentano la fede
Attacco laico
Le religioni in un documentario «comico» Cristiani, ebrei e musulmani nel mirino
di Giovanna Grassi


LOS ANGELES — «La religione è una sovrastruttura dell'uomo e del potere. È sempre foriera di traumi, inibizioni, gerarchie. Non solo è pericolosa, ma nasconde anche una ricattatoria fandonia: quella di far diventare gli esseri umani buoni». Questo è l'assioma che sostiene Bill Maher nel documentario che ha scritto e prodotto, Religulous, e di cui ha affidato la regia a Larry Charles ( Borat) — il miglior amico di Michael Moore — che, ironia della sorte, con la sua gran barba e sempre vestito di nero sembra proprio un predicatore.
Maher è il «comedian/reporter » più politicamente scorretto d'America: nato a New York nel 1956, è figlio di un noto giornalista della Nbc di adamantina fede cattolica e di una signora di religione ebraica. È stato radiato dalla ABC, con il suo popolare show di interviste e dibattiti (intitolato Politically Incorrect), dopo aver innescato uno scandalo nazionale per aver detto che i terroristi dell'attacco alle Due Torri non erano «vili né codardi ».
Religulous non sarà sicuramente in corsa per gli Oscar, ma resta nella top ten degli incassi Usa a diverse settimane dal debutto; in Italia uscirà il 5 dicembre, dopo essere passato al morettiano Festival di Torino. Il New York Times lo ha definito «il più irriverente, divertente documento sulla fede», ma è anche molto angoscioso e «foriero di interrogativi profondi», ha ribattuto il Los Angeles Times.
Il film è imperniato su una carrellata di predicatori, sette, religioni ufficiali, ortodosse e non dell' America. Racconta Bill: «Da sempre volevo girare un documentario sulla fede essendo io stato segnato da una crescita divisa tra due religioni. Ho girato il mondo e volevo, non è un paradosso, che il nostro lavoro fosse anche divertente e che, nell'analizzare il potere spesso corrotto che si nasconde dietro tanti culti, instaurasse un dibattito tra intelligenza e stupidità con i suoi discutibili idoli, spesso simili a rock star nella loro leva sulle folle. Ho intervistato centinaia di persone, scienziati, letterati, intellettuali, vescovi, ciarlatani... Ho utilizzato migliaia di spezzoni, compresi quelli di Bush quando afferma, per i suoi tornaconti e crimini di guerra «Dio e Gesù Cristo sono esistiti per dare libertà agli uomini». E anche McCain, che di religione non parla, ma dichiara di credere al diavolo. Tom Cruise seguace di Scientology ha rifiutato l'incontro, ma appare in alcune sue dichiarazioni, come John Travolta, adepto della fede di L. Ron Hubbard».
Che cosa ha divertito e preoccupato di più l'indomito Bill, che da bambino litigava con la madre ebrea e con il padre cattolico, decisi entrambi a imporgli la loro fede (ma per rispetto e amore ha dedicato il film a mamma Julie, defunta)? «Sicuramente — risponde — gli incontri con i predicatori americani, che hanno migliaia e migliaia di fedeli ». Ed ecco gli esempi che più l'hanno colpito: «Due soprattutto rappresentano l'assurdità del bisogno di fede. Il miliardario predicatore Josè Luis de Jesus Mirada che, coperto di oro e con abiti di sartoria ("Perché Cristo è stato e resta una icona fashion") proclama di essere il nuovo Gesù a folle adoranti; l'ex leader gay oggi sposato John Wescott, che ha creato il suo business di fede per convertire tutti i gay alla cristianità e che nega che Gesù abbia mai parlato della materia. E, poi, gli islamici integralisti da me intervistati, i cittadini dell' America profonda che dichiarano di aver parlato con il loro angelo custode, gli scienziati, gli analisti della religione autori di best seller, il capo della Cannaba Religion, Ferre van Beveren".
Ce n'è per tutti e genitori e figli fanno la fila per vedere e contestare il documentario con striscioni «God helps us» (Dio ci aiuta) o poster irridenti. Dice Maher: «Mi interessa molto la reazione della platea italiana, cattolica e no. Perché avevo solo un obiettivo nel realizzare il nostro lavoro. Far confrontare i popoli con la fede, quindi con la politica, il potere e la propria coscienza ». Scusi, una o due regole di fede per lei?: «Stimolare controversie, essere frugale e sempre ragionare con i fatti».

Il Mattino 11.11.08
La genetica va di moda è boom di test inutili
Solo una donna su 5 esegue l’amniocentesi mentre c’è un exploit di altri esami prenatali
di Manuela Correra


Roma. Troppi test genetici effettuati senza un reale bisogno ma solo per moda ed un proliferare di centri e laboratori in Italia del tutto «ingiustificato» e in vari casi a discapito di sicurezza e qualità delle prestazioni. È questa l’istantanea che emerge dal censimento 2007 sui test e le strutture di genetica in Italia, promosso dalla Società italiana di genetica medica e dall’Istituto Css-Mendel. Dal 2004 ad oggi si è registrato un aumento del 30% dei test genetici. Ed è allerta, ha avvertito il genetista e direttore scientifico dell’Istituto Css-Mendel, Bruno Dallapiccola, per i pericoli che arrivano da Internet: «Si offrono pacchetti di test genetici del tutto inaffidabili». Un «no» alle diagnosi genetiche fai da te arriva anche dal sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella, che ha messo in guardia dai rischi di un «atteggiamento di consumismo» sui test genetici. I dati sono significativi. Una donna su 5 in Italia effettua tecniche invasive di diagnosi prenatale come amniocentesi o villocentesi (102.000 test nel 2007). Ma sono circa 60.000 le donne che scelgono di non effettuare tali analisi pur avendo un’età a rischio. Al contempo, aumentano invece i test molecolari prenatali per singole malattie: oltre 20.000 nel 2007. E il più delle volte sono effettuati senza una reale indicazione e quindi inutili. Sono affidabili i test che misurano singole malattie dovute a mutazione di un solo gene, avverte Dallapiccola, ma i test spesso pubblicizzati in rete per patologie complesse come diabete, ipertensione, osteoporosi «sono inaffidabili. Nel 2007 sono stati eseguiti complessivamente circa 560.000 test genetici, ma le consulenze di genetisti clinici sono state solo 70.154 (13%). Dato che preoccupa, poiché la consulenza è fondamentale per interpretare i test. Un altro dato che preoccupa, denuncia il genetista, è che solo il 28% dei laboratori è certificato secondo norme internazionali e solo il 35% partecipa a controlli esterni di qualità. Il numero delle strutture di genetica «è in continuo e ingiustificato aumento». Sono stati censiti 388 laboratori in 278 strutture. Solo 70 strutture (il 28%) sono certificate secondo la norma Iso-9001. Il 64% delle strutture al Nord è certificato con un sistema di qualità, cifra che al Sud scende al 12%.

lunedì 10 novembre 2008

Repubblica 10.11.08
La scuola e le sue spine
La scuola le proteste e la verità sulla riforma
di Mario Pirani


Nei cortei di questi giorni anche parole d´ordine vaghe Ma sul maestro unico le proposte del governo possono essere confutate
I bambini e le mamme del Nord avranno risorse che saranno decurtate al Sud
L´avversione al decreto potenziata dalle prepotenti e sciocche minacce berlusconiane

Venezia agli albori del Novecento conobbe il primo sciopero generale spontaneo della sua storia. La manifestazione in piazza S. Marco indetta dai nascenti sindacati vide, però, una partecipazione preponderante di donne. La ragione di questa presenza, straordinaria e sorprendente per l´epoca, risiedeva nel fatto che la protesta era scoppiata per un motivo davvero singolare: una puerpera era stata costretta a partorire, senza soccorso, sui gradini dell´Ospedale Maggiore, all´aria aperta. Il fatto venne assunto a simbolo di qualcosa di molto più generale: l´insopportabilità dell´assenza, al di fuori delle opere di carità cattoliche, di qualsiasi forma di pubblica assistenza. Il Welfare State era, infatti, al di là da venire.
Questo lontanissimo episodio mi è venuto alla mente riflettendo sulla tumultuosa e massiccia protesta del mondo della scuola dilagata in questi giorni in tutta Italia in odio al decreto Gelmini. Eppure quel decreto, tradotto ora in legge, non conteneva minacce tanto dirompenti da giustificarne il crucifige, anche se su un punto ? il maestro unico alle elementari e le diminuzioni di insegnanti che ciò implica ? meritava un ripensamento di fondo, di cui parleremo più avanti. L´avversione al decreto, potenziata dalle prepotenti quanto sciocche minacce berlusconiane, si è invece caricata di ben altri significati ? appunto come quel parto davanti all´ospedale ? e ha dato alle manifestazioni studentesche motivazioni assai più ampie, pur se confuse, che spaziavano dalle elementari all´Università. Comunque, tra tutte, la più forte, in parte giusta e in parte sbagliata, è stata quella contro tutti i tagli previsti (non dalla Gelmini ma dalla Finanziaria, approvata senza che nessuno fiatasse tre mesi orsono). Di tutto questo si è appropriata l´opposizione e non è pensabile che facesse altrimenti.
Assurdo, quindi, ogni biasimo sulla carenza di fair play riformista, dimostrata in questa contingenza da Walter Veltroni. Quel che per contro potrebbe essere rilevata criticamente è l´assunzione, senza beneficio d´inventario, della proteiforme nebulosa protestataria, rinunciando in partenza ad un intervento per darle uno sbocco razionale e positivo, interpretando il disagio reale della scuola, ancorché sotteso a slogan inconsistenti, studiando e scegliendo obiettivi possibili e immediati, quanto prospettando mete di riordino a più lungo termine. Così non è stato. Alcun ascolto ha trovato, inoltre, l´appello di Giorgio Napolitano, pronunciato all´apertura dell´anno scolastico, perché si affrontassero con «senso della misura e realismo le questioni più spinose, compresi gli impegni finanziari... L´Italia - specificava per maggior chiarezza il Capo dello Stato - nel suo stesso vitale interesse deve ridurre a zero nei prossimi anni il suo deficit pubblico... nessuna parte sociale e politica può sfuggire a questo imperativo ed esso comporta anche - inutile negarlo - un contenimento della spesa per la scuola... l´obbiettivo non può prevalere su tutti gli altri e va formulato, punto per punto, con grande attenzione, in un clima di dialogo. Ma ciò non può risolversi nel rifiuto di ogni revisione necessaria a fini di risparmio».
La risposta non poteva essere più deludente: Berlusconi ha inteso l´invito al confronto come un incentivo alla minaccia poliziesca, Veltroni ha preferito la deriva populista di facile presa ma scarsa prospettiva, ribadendo un No preclusivo a tutti i tagli e annunciando un discutibilissimo referendum anti-Gelmini, peraltro improponibile in materia finanziaria. Per contro era possibile avanzare contro proposte convincenti sia sul maestro unico e sugli sprechi, elencati voce per voce in un dossier di «TuttoscuolA», l´ottima agenzia indipendente che su Internet monitorizza quotidianamente la vita scolastica.
Il decreto Gelmini, peraltro, nel suo impianto globale si muoveva esplicitamente lungo il solco della correzione di rotta già impresso da Fioroni e Bastico, ministro e vice ministro del governo Prodi, per riportare un minimo d´ordine e di serietà negli studi. Lo prova le lettura degli otto articoli della legge che riguardano nell´ordine l´introduzione dell´insegnamento su «Cittadinanza e Costituzione», la conferma della revisione anti-bullismo dello Statuto degli studenti, messa a punto da Fioroni con la valutazione in pagella e in sede di scrutinio finale del comportamento, un tempo chiamato «condotta», la misura in decimi del voto, la necessità di conseguire almeno la media del 6 per la promozione e l´ammissione all´esame di Stato, l´obbligo per gli editori di adottare libri di testo validi per cinque anni, così da non costringere le famiglie a continui esborsi per inutili aggiornamenti, l´abilitazione all´insegnamento nelle scuole elementari e dell´infanzia per chi abbia ottenuto la laurea in scienza della formazione primaria, infine una modifica delle norme di accesso alle scuole di specializzazione medica.
Veniamo al contestato articolo sul maestro unico che, in realtà, sarebbe più giusto definire come una disposizione sul tempo-scuola, ridotto a 24 ore settimanali, come era fino al 1990. Qui incidono i tagli destinati a risparmiare su precari-supplenti. Ma, per un giudizio motivato, è utile ricordare cosa si proponeva la riforma della mitica ministra Falcucci, dc doc mai abbastanza rimpianta. Per ampliare il ventaglio di conoscenze già nell´età infantile e, ad un tempo, per consentire al più gran numero di madri di entrare nel mercato del lavoro, venne deciso di procedere gradualmente e attraverso sperimentazioni e verifiche a una modifica radicale, portando inizialmente l´orario normale da 24 a 27 ore e, via via a 30, mano a mano che le scuole si mettevano in grado di assumere un insegnante per la lingua straniera, la cui introduzione era il vero clou della riforma. Questo avrebbe comportato due ritorni pomeridiani la settimana o l´organizzazione di una mensa scolastica ad opera dei Comuni. Un servizio indispensabile nel momento in cui andava a regime il secondo pilastro della riforma, un tempo pieno di 40 ore settimanali, compresa la pausa pranzo.
Anche l´insegnamento variava di tenore tra le lezioni mattutine e le attività pomeridiane. Fu una stagione di forte innovazione pedagogica - come rievoca sul suo blog Marco Rossi-Doria, fondatore del movimento dei «maestri di strada» nei Quartieri Spagnoli di Napoli - generata da molti fattori, dalla spinta all´accesso al lavoro di nuove generazioni femminili in un contesto economico in evoluzione all´esigenza di aprire un fronte precoce contro l´analfabetismo che nasce dalla povertà e la genera a sua volta, largamente diffuso nel Mezzogiorno. L´idea di più docenti per classe nacque dalla verifica delle urgenze educative enormi che il Paese cominciava a sentire, ma la loro progressiva introduzione era stata immaginata e sperimentata come una costellazione che, soltanto dalla terza elementare in poi, avrebbe ruotato attorno alla figura-chiave della maestra centrale (i maestri sono solo il 4%) affiancata dagli insegnanti specializzati per la lingua straniera, l´educazione motoria e il sostegno ai disabili, liberati dalle classi differenziate, l´educazione musicale e artistica. Su questo impianto, mentre i Comuni dovevano assicurare le mense scolastiche, la riforma Falcucci prolungava l´orario e introduceva di massima i «moduli» di tre insegnanti per due classi, così da consentire il tempo pieno e una formazione più articolata, con «classi aperte». Solo a questo punto ci fu l´improvvido intervento negativo dei sindacati e di quasi tutto l´associazionismo cattolico e laico, sostenuto alla fine dal centro-sinistra e dal Pci. Fu un attacco volgare contro la «maestra chioccia», in nome dell´eguaglianza fra gli insegnanti, che divennero per legge tutti «contitolari» della classe. Alla collaborazione fra docenti, che si svolgeva nelle «classi aperte» fra alunni di vario grado, una forma dell´autonomia che aveva cominciato a funzionare benissimo sulla base di un autentico rinnovamento pedagogico, si sostituirono «moduli» rigidi e decisi dal centro. In realtà questa organizzazione, che ingessò la riforma in una gabbia burocratica e aumentò l´organico oltre il necessario, venne suggerita non da valutazioni educative ma dalla paura che la curva demografica, segnata dal calo in pochi anni degli alunni delle elementari da quasi cinque milioni a 3.247.000, decurtasse inevitabilmente anche il numero degli insegnanti. Da qui, dunque, si poteva ripartire oggi per un confronto che recuperasse il senso profondo della riforma Falcucci, risparmiando dove era giusto ma senza annullare tutto con un tratto di penna.
Non voglio, peraltro, ignorare l´impegno proclamato dall´on. Gelmini, secondo cui il tempo pieno, per chi già ne gode, non verrà scalfito. È una verità parziale che nasconde una realtà molto amara. La nuova legge, infatti, riduce le ore di scuola per i bambini dai 3 ai 10 anni e lo fa.... dove non c´è tempo pieno. Questo, infatti, non è distribuito egualmente nel territorio: a Milano copre l´89,5% degli alunni, a Torino il 65,5, a Roma il 54,4 ma a Napoli solo l´1,5 e in tutto il Sud non raggiunge il 9% delle scuole. La legge fotografa e congela questa situazione. I bambini e le mamme del Nord avranno il mantenimento delle risorse che saranno decurtate al Sud. Qui i bambini usciranno alle 12,30 già l´anno prossimo e l´effetto seguiterà a ricadere sulle madri meridionali, che tanto per il 62% sono fuori del mercato del lavoro. E Comuni e Regioni potranno seguitare a trascurare l´organizzazione delle mense scolastiche.
Un ultimo post scriptum: se invece di compiacersi del gran casino, l´opposizione riformista volesse avanzare delle controproposte in materia di tagli, perché non affrontare la possibilità di abolire, come in tutti i paesi europei, il quinto anno delle superiori e permettere ai giovani italiani di ottenere il diploma a 17 anni, come francesi, tedeschi e inglesi, invece di restare nei banchi fino a 18 ed avviarsi al lavoro o alle Università a 19?

Corriere della Sera 10.11.08
Tre fattori distorsivi
Le malattie della scola
di Giovanni Sartori


Berlusconi non è Churchill — non promette lacrime ma felicità perenne — e non ama lo scontro sulle piazze che incrina la sua popolarità «di massa». Così rinvia in parte la preannunziata riforma dell'Università. Approfitto della pausa per approfondire il poco approfondito, e cioè i problemi originari di una scuola che è, a tutti i livelli, un malato anziano, un malato di vecchia data. E se non ricordiamo agli imberbi e alle giovanette (tra le quali la appena 36enne ministro del-l'Istruzione) come e perché la malattia è cominciata, non si vede proprio come siano in grado di curarla. Supposto, beninteso, che questo sia l'intento.
All'origine di tutti i mali del nostro sistema educativo c'è la scoperta (dico così per dire) che la scuola coinvolge un enorme serbatoio di voti. Chi la tocca, contenta o disturba tutti i giovani in età scolastica, le loro famiglie, e anche un'armata di insegnanti, anch'essi con famiglie. Se non si tratta di metà del Paese, poco ci manca. Aggiungi che il tasto della scuola è altamente emotivo e infiammabile; in ballo c'è il futuro dei giovani, giovani che sono anche i nostri figli. Pertanto non è un caso se la Dc non ha mai lasciato ad altri, finché ha regnato, il ministero dell'Istruzione di viale Trastevere.
Intendiamoci: la prima Dc di ispirazione degasperiana ha avuto ministri dell'Istruzione bravi e responsabili che avevano davvero a cuore gli interessi della scuola, e che non li sottoponevano agli interessi di partito. Mi piace ricordare, tra questi, il ministro Gui, un gran signore veneto, fatto fuori da uno dei giovani macachi emergenti (Bisaglia) di quegli anni; e mi piace anche ricordare il ministro Malfatti che potrebbe confermare, se non fosse scomparso prematuramente, la mia battaglia, in una commissione ministeriale, per l'abolizione del valore legale del titolo di studio. Malfatti mi dava ragione, ma mi disse in tutta franchezza (non era un tipo Moro): sarebbe da fare, ma «politicamente non lo posso fare». Già. La caccia al voto o, viceversa, il terrore del voto erano già diventati, a quel tempo, la preoccupazione dominante dei gestori del sistema educativo. Poi arrivò il '68 e da allora vige e impera la demagogia scolastica. Della quale sono finalmente venuti al pettine i nodi.
Ciò premesso, i fattori distorsivi specifici del cattivo riformismo della scuola sono tre. Il primo è stato, appunto, il Sessantottismo, che è stato esiziale perché ha predicato l'ignoranza del passato, così recidendo quella trasmissione del sapere che dovrebbe essere la prima missione dell'educatore; ed esiziale perché, cavalcando la tigre dell'antielitismo, ha distrutto il principio del merito producendo la «società del demerito» che premia i peggiori e gli incapaci a danno dei competenti e dei migliori. Davvero formidabili quei ragazzi.
Il secondo fattore distorsivo è stato il progressivismo pedagogico (largamente di ispirazione psicoanalitica), che ha infestato tutta la disciplina, ma che ha avuto il suo più dannoso rappresentante nel celebre dottor Benjamin Spock, il guru che ha convertito al permissivismo tutte le madri dell'Occidente con la dottrina che il bambino non doveva essere frustrato da punizioni. E' vero che poi Spock ha rinnegato, da ultimo, la sua dottrina; ma era troppo tardi. In passato i genitori erano dalla parte dei maestri; ora li assaltano nel chiedere la promozione ad ogni costo dei loro poveri figli. Prima la scuola media si reggeva sull'alleanza genitori-maestri. Ora i maestri che resistono all'andazzo «mammistico» sono lasciati soli e sono vilipesi come «repressivi ». Davvero formidabili quei genitori.
C'è infine un fattore distorsivo che sfugge ai più: la teoria della società post-industriale come «società dei servizi» fondata sul sapere, o quantomeno su alti livelli di istruzione. D'accordo; ma il post-industriale non doveva e non poteva sostituire l'industriale, vale a dire il nocciolo duro della produzione della ricchezza. Senza contare che la società dei servizi si trasforma facilmente in una società parassitaria di «piena occupazione » fasulla (tale anche perché gli economisti misurano bene la produttività industriale, ma assai meno bene la produttività di un universo burocratico). Il punto è, comunque, che è proprio l'idea della società dei servizi nella quale nessuno si sporca le mani che alimenta la insensata corsa universale al «pezzo di carta» del titolo universitario. Se ogni tanto ci fermassimo a pensare, ci dovremmo chiedere: ma perché tutti devono andare all'Università? C'è chi proprio non è tagliato per studi superiori (che difatti si sono «abbassati» per accoglierlo). Nemmeno è vero, poi, che il lavoro «terziario » dia più felicità. Anzi. Più si moltiplicano gli attestati cartacei che creano alte aspettative, e più creiamo legioni di scontenti senza lavoro, o costretti a un lavoro che considerano indegno del loro rango.
Fin qui gli antefatti che hanno prodotto la crisi e le malattie della scuola. Verrò ai fatti a una prossima occasione.

Repubblica 10.11.08
Diaz, la notte nera della democrazia il giorno del giudizio per 29 poliziotti
di Giuseppe D’Avanzo


«Uno Stato che vessa e maltratta le persone private della libertà non è uno Stato democratico. Una polizia che usa la forza non per impedire reati, ma per commetterne, non può essere considerata "forza dell´ordine". Fatti di questo genere distruggono la credibilità delle istituzioni più di tanti insuccessi dei poteri pubblici». Valerio Onida, giudice emerito della Corte Costituzionale. Sono parole che bisogna tenere a mente ora che il processo per le violenze della polizia nella scuola "Diaz", durante i giorni del G8 di Genova, è prossimo alla sentenza.

«Uno Stato che vessa e maltratta le persone private della libertà non è uno Stato democratico. Una polizia che usa la forza non per impedire reati, ma per commetterne, non può essere considerata "forza dell´ordine". Fatti di questo genere distruggono la credibilità delle istituzioni più di tanti insuccessi dei poteri pubblici». Valerio Onida, giudice emerito della Corte Costituzionale. Sono parole che bisogna tenere a mente ora che il processo per le violenze della polizia nella scuola "Diaz", durante i giorni del G8 di Genova, è prossimo alla sentenza.
* * *
Il 21 luglio del 2001 è il giorno più tragico del G8 di Genova. È morto Carlo Giuliani in piazza Alimonda in una città distrutta dai black bloc ? che riescono inspiegabilmente a colpire indisturbati e a dileguarsi senza patemi. Per tutto il giorno, Genova è insanguinata dai pestaggi della polizia, dei carabinieri, dei "gruppi scelti" della guardia di finanza contro cittadini inermi, donne, ragazzi, anche anziani, spesso con le braccia alzate verso il cielo e sulla bocca un sorriso. Ora, più o meno, è mezzanotte. Mark Covell, 33 anni, inglese, giornalista di Indymedia.uk, ozia davanti al cancello della scuola Diaz, diventato un dormitorio dopo che i campeggi sono stati abbandonati per la pioggia. Covell si accorge che la polizia sta "chiudendo" la strada. Avverte subito il pericolo. Estrae l´accredito stampa, lo mostra, lo agita. I poliziotti, che lo raggiungono per primi (sono della Celere, del VII nucleo antisommossa del Reparto Mobile di Roma), lo colpiscono con i "tonfa" o "telescopic baton", più che un manganello un´arma tradizionale delle arti marziali: rigido e non di caucciù, a forma di croce: «può uccidere», se ne vanta chi lo usa. Colpiscono Mark senza motivo. Come, senza ragione, un altro poliziotto con lo scudo lo schiaccia ? subito dopo ? contro il cancello mentre un altro, come un indemoniato, lo picchia alle costole. Gli gridano in inglese: «You are black bloc, we kill black bloc» («Tu sei un black, noi ti uccidiamo»).
Covell cade finalmente a terra. E´ semisvenuto, in posizione fetale. Potrebbe bastare anche se fosse un incubo, ma per Mark il calvario non è ancora finito. Tutti i "celerini" che corrono verso la scuola lo colpiscono a terra con calci (il pestaggio di Covell è ripreso da una videocamera). Covell rimarrà, esanime, circondato dall´indifferenza, in quell´angolo di via Cesare Battisti, al quartiere di Albaro, per oltre venti minuti. Ha una grave emorragia interna, un polmone perforato, il polso spezzato, otto fratture alle costole, dieci denti in meno. Quando si sveglia in ospedale, viene arrestato per resistenza aggravata a pubblico ufficiale, concorso in detenzione di arma da guerra e associazione a delinquere. (E´ ancora aperta l´indagine per individuare i poliziotti che lo hanno quasi ucciso. L´accusa: tentato omicidio).
* * *
Distruggere. Annientare. E´ con questo obiettivo che, dopo aver abbattuto con un blindato Magnum il cancello, le prime tre squadre del Reparto Mobile di Roma (trenta uomini) invadono, a testuggine, il pianoterra della scuola. Arnaldo Cestaro, «un vecchietto», è sulla destra dell´ingresso. Viene travolto. Lo gettano contro il muro. Lo picchiano con i "tonfa". Gli spezzano un braccio e una gamba. Ora ci sono urla e baccano. Nella palestra, ai piani superiori ragazzi e ragazze - anche chi si è già infilato nel sacco al pelo per dormire - comprendono che cosa sta accadendo. Tutti raccolgono le loro cose, il bagaglio leggero che si portano dietro da giorni. Si sistemano con le spalle al muro; chi in ginocchio; chi in piedi; tutti con le braccia alzate in segno di resa; chi ha voglia di un´ultima "provocazione" mostra al più indice e medio a V. Daniel Mc Quillan, quando vede le divise, si alza in piedi e dice: «Noi siamo pacifici, niente violenza». «Come se fossero un branco di cani impazziti, sono su di lui in un istante e lo colpiscono, lo colpiscono, lo colpiscono?», dicono i testimoni. La furia dei celerini si scatena contro chiunque e dovunque, irragionevolmente, con furore (si vede uno che mena colpi con una specie di mazza da baseball). Melanie Jonach racconterà di essere svenuta subito al primo colpo che la raggiunge alla testa. Gli altri, che vedono la bastonatura inflittale, ricordano i suoi occhi aperti ma incrociati, le contrazioni spastiche del corpo. Anche in queste condizioni, continuano a picchiarla e a prenderla a calci. Un ultimo calcio sbatte la sua testa contro un armadio: ora è "aperta" come un melone. Il comandante del VII nucleo, a quel punto, grida «Basta!». Raggiunge la ragazza. «La tocca con la punta dello stivale. Melanie non dà segni di vita e quello ordina che venga chiamata un´autoambulanza». (Melanie Jonach ci arriverà in codice rosso con una frattura cranica nella regione temporale sinistra). Nicola Doherty ancora piange in aula mentre racconta: «Hanno cominciato a picchiarci immediatamente. C´era gente che piangeva e implorava i poliziotti di fermarsi. Anch´io piangevo e chiedevo che la smettessero. Uno mi è venuto vicino e con fare dolce mi ha detto "Poverina!" e mi ha colpito ancora. Sembrava che ci odiassero. Ho visto un poliziotto con un coltello in mano, bloccava le ragazze, i ragazzi e tagliava una ciocca di capelli con il coltello». Voleva il suo personale trofeo di guerra. Altri continuano a gridare, dopo aver picchiato duro: «Dì, che sei una merda». Mentre colpiscono gridano: «Frocio!», «Comunista!», «Volevate scherzare con la polizia?», «Nessuno sa che siamo qui e ora vi ammazziamo tutti!».
Lena Zulkhe, colpita alle spalle e alla testa, cade subito. Le danno calci alla schiena, alle gambe, tra le gambe. «Mentre picchiavano, ho avuto la sensazione che si divertissero». La trascinano per le scale afferrandola per i capelli e tenendola a faccia in giù. Continuano a picchiarla mentre cade. La rovesciano quasi di peso verso il pianoterra. «Non vedevo niente, soltanto macchie nere. Credo di essere per un attimo svenuta. Ricordo soltanto - ma quanto tempo era passato? - che sono stata gettata su altre due persone, non si sono mossi e io gli ho chiesto se erano vivi. Non hanno risposto, sono stata sdraiata sopra di loro e non riuscivo a muovermi e mi sono accorta che avevo sangue sulla faccia, il braccio destro era inclinato e non riuscivo a muoverlo mentre il sinistro si muoveva ma non ero più in grado di controllarlo. Avevo tantissima paura e pensavo che sicuramente mi avrebbero ammazzata».
Dei 93 ospiti della "Diaz" arrestati, 82 sono feriti, 63 ricoverati ospedale (tre, le prognosi riservate), 20 subiscono fratture ossee (alle mani e alle costole soprattutto, e poi alla mandibola, agli zigomi, al setto nasale, al cranio).
* * *
Che cosa ha provocato questa violenza rabbiosa e omicida? Come è stata possibile pensarla, organizzarla, realizzarla. Il 22 luglio, il portavoce del capo della polizia convoca una conferenza stampa e distribuisce un breve
comunicato che vale la pena di ricordare per intero: «Anche a seguito di violenze commesse contro pattuglie della Polizia di Stato nella serata di ieri in via Cesare Battisti, si è deciso, previa informazione all´autorità giudiziaria, di procedere a perquisizione della scuola Diaz che ospitava numerosi giovani tra i quali quelli che avevano bersagliato le pattuglie con lancio di bottiglie e pietre. Nella scuola Diaz sono stati trovati 92 giovani, in gran parte di nazionalità straniera, dei quali 61 con evidenti e pregresse contusioni e ferite. In vari locali dello stabile sono stati sequestrati armi, oggetti da offesa ed altro materiale che ricollegano il gruppo dei giovani in questione ai disordini e alle violenze scatenate dai Black Bloc a Genova nei giorni 20 e 21. Tutti i 92 giovani sono stati tratti in arresto per associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e saccheggio e detenzione di bottiglie molotov. All´atto dell´irruzione uno degli occupanti ha colpito con un coltello un agente di Polizia che non ha riportato lesioni perché protetto da un corpetto. Tutti i feriti sono stati condotti per le cure in ospedali cittadini». Il portavoce mostra anche le due molotov che sarebbero state trovate nell´ingresso della scuola, «nella disponibilità degli occupanti».
* * *
Il processo di Genova ha dimostrato ragionevolmente (e spesso con la qualità della certezza) che nessuna delle circostanze descritte dal portavoce del capo della polizia (capo della polizia era all´epoca Gianni De Gennaro) corrisponde al vero. Quelle accuse sono false, quelle ragioni sono inventate di sana pianta. Si dice che l´assalto (la «perquisizione») fu organizzato dopo che un corteo di auto e blindati della polizia era stato, poco prima della mezzanotte, assalito in via Cesare Battisti con pietre, bottiglie e bastoni. Il processo ha dimostrato che non c´è stata nessuna pattuglia aggredita. Si dice che gli ospiti della Diaz fossero già feriti, quindi coinvolti negli scontri in città. Nessuno dei 93 arrestati era ferito prima di essere bastonato dai "celerini". Poliziotti, comandanti, dirigenti hanno riferito che, mentre entravano nella scuola, c´è stata contro di loro una sassaiola e addirittura il lancio di un maglio spaccapietre. I filmati hanno dimostrato che non fu lanciata alcun sasso e nessun maglio. Il comandante del Reparto Mobile di Roma ha scritto in un verbale che ci fu una vigorosa resistenza da parte di «alcuni degli occupanti, armati di spranghe, bastoni e quant´altro». Assicura che nella scuola (entra tra i primi) sono stati «abbandonati a terra, numerosi e vari attrezzi atti ad offendere, tipo bastoni, catene e anche un grosso maglio». Nella scuola non c´è stata alcuna colluttazione, nessuna resistenza, soltanto un pestaggio. Nessuno degli occupanti ha tentato di uccidere con una coltellata il poliziotto Massimo Nucera. Due perizie dei carabinieri del Ris hanno smentito che lo sbrego nel suo corpetto possa essere il frutto di una coltellata. Nella scuola non c´erano molotov. Come ha testimoniato il vicequestore che le ha sequestrate, quelle due molotov furono ritrovate da lui non nella scuola la notte del 22 luglio, ma sul lungomare di Corso Italia nel pomeriggio del giorno precedente. La prova falsa, manipolata, è stata inspiegabilmente distrutta, durante il processo, nella questura di Genova.
* * *
In settimana il tribunale deciderà delle responsabilità personali dei 29 imputati (poliziotti, dirigenti, comandanti, alti funzionari della polizia di Stato) accusati di falso ideologico, abuso di ufficio, arresto illegale e calunnia. Quel che qui conta dire è che la responsabilità non penale, ma tecnico-politica di chi, impotente a fronteggiare i black bloc, si è abbandonato (per vendetta? per frustrazione? con quali ordini e di chi?) a pestaggi ingiustificati e indiscriminati, non può e non deve essere liquidata da questa sentenza. Centinaia di agenti, sottufficiali, ufficiali, dirigenti di polizia, funzionari del Dipartimento di pubblica sicurezza hanno mentito durante le indagini e al processo. E chi non ha mentito, ha negato, taciuto o dissimulato quel che ha visto e saputo. Dell´assalto alla "Diaz" non inquieta soltanto il massacro di 93 cittadini inermi diventati in una notte «criminali» a cui non si riconosce alcuna garanzia e diritto. Quel che angoscia è anche questo silenzio arrogante, l´omertà indecorosa che manipola prove; costruisce a tavolino colpevoli; nasconde le responsabilità; sfida, senza alcuna lealtà istituzionale, il potere destinato ad accertare i fatti. Le apprensioni di sette anni raddoppiano ora che, decreto dopo decreto, si fa avanti un «diritto di polizia». Il Paese ha bisogno di sapere se il giuramento alla Costituzione delle forze dell´ordine non sia una impudente finzione. Perché quel che è accaduto a Mark Covell e ai suoi 92 occasionali compagni di sventura rende chiaro, più di qualsiasi riflessione, come uno Stato che si presenta nelle vesti di sbirro e carnefice fa assai presto a diventare uno Stato criminale quando il dissidente, il non conforme, l´altro diventa un «nemico» da annientare.

Repubblica 10.11.08
Prove false e omertà duecento "picchiatori" restano senza nome
di Massimo Calandri


GENOVA. Alla vigilia della sentenza la procura del capoluogo ligure ha svelato un altro "mistero". Un´altra vergogna, per dirla con le parole dei magistrati. Il mistero dell´agente Coda di Cavallo, picchiatore impunito: riconosciuto solo dopo sette lunghissimi anni, nonostante l´omertà di colleghi e superiori. Non è purtroppo l´ultimo degli enigmi di questa scomoda storia, ma ormai non c´è più tempo per fare chiarezza. La prima sezione del tribunale di Genova, presieduta da Gabrio Barone, entrerà in camera di consiglio giovedì mattina. Qualche ora dopo sapremo. Per i protagonisti della sciagurata irruzione nella scuola Diaz, durante il G8 del luglio 2001, i pubblici ministeri hanno chiesto 109 anni e 9 mesi complessivi di reclusione. Gli imputati sono 29, tra agenti e super-poliziotti. Responsabili a diverso titolo del massacro ingiustificato e ingiustificabile di 93 no-global, arrestati illegalmente con un verbale farcito di prove false.
Sotto accusa ci sono anche e soprattutto i vertici del ministero dell´Interno. Prima complici "di una della pagine più nere nella storia della Polizia di Stato". Poi, sempre secondo i pm Francesco Cardona Albini ed Enrico Zucca, ispiratori e registi della "sistematica corruzione per una nobile causa". Menzogne e versioni concordate, che tra l´altro sono costate un procedimento parallelo a Gianni De Gennaro, ex capo della polizia accusato di aver istigato a mentire il vecchio questore di Genova, Francesco Colucci.
Si chiude un processo inquieto ed inquietante che l´altro giorno stava finendo in rissa, in un paradossale ribaltamento dei ruoli: con gli avvocati difensori ? le cui parcelle, in caso di assoluzione, ammonteranno in tutto a circa dieci milioni di euro: pagherà il ministero - ad aggredire verbalmente i pm, accusandoli di aver violato sistematicamente il codice. E quelli a denunciare le "minacce" subìte. Si chiude un processo che ha sfiancato la procura, costretta a fare i conti con il catenaccio degli imputati. Nel corso del dibattimento quasi nessuno degli accusati si è presentato in aula per spiegare, chiarire. Nessuno dei Grandi Accusati. Non Francesco Gratteri, ora ai vertici dell´Antiterrorismo. Non Gilberto Cadarozzi, protagonista della cattura di Bernardo Provenzano. Chi ha scelto di parlare lo ha fatto solo per offrire "dichiarazioni spontanee", senza contraddittorio. Come Giovanni Luperi, attuale direttore dell´Aisi, l´ex Sisde. Che davanti ai giudici ha ammesso: "La Diaz è stata una pagina orribile", ma incalzato dai pm ha detto che quella notte era stanco, che non partecipò attivamente all´organizzazione dell´intervento perché più che altro pensava a dove portare a cena i colleghi. Se l´era presa con "quel vigliacco che ha portato le bottiglie incendiarie nella scuola", e ricordava di aver passato il sacchetto con le molotov ? quando ancora erano nel cortile - ad una funzionaria. Che a sua volta le aveva passate ad un misterioso ispettore della Digos di Napoli. Che le aveva portate nell´istituto. E che naturalmente è scomparso. Una versione tra Ionesco e De Filippo, come ha ironizzato Alfredo Biondi, avvocato di Pietro Troiani, il vice-questore bollato come l´ "uomo delle molotov". Il fotogramma-simbolo di questa storia è stato estrapolato da un filmato depositato nel corso del dibattimento il mese scorso. In lontananza, sulla sinistra, si vede il fantomatico ispettore che entra dalla porta laterale della scuola, con il sacchetto azzurro in mano. La regina delle prove false.
Falsa come la successiva collaborazione nelle indagini da parte della stessa polizia, sostiene la procura. Che cita l´ultimo emblematico caso. Coda di Cavallo, appunto. E´ un agente in borghese, viene filmato mentre ai piani superiori della Diaz prende a manganellate alcuni ragazzi inermi. Il volto è inquadrato in primo piano, e poi ci sono i capelli, raccolti in quella inconfondibile coda di cavallo. I magistrati chiedono ai poliziotti di dare un nome al loro collega. L´immagine per sette anni e mezzo fa il giro di tutte le questure d´Italia. Nessuno risponde. E però, nei giorni scorsi arriva il colpo di scena. Sono gli stessi magistrati a dargli un nome, perché l´agente Coda di Cavallo, con i capelli debitamente tagliati, ha l´arroganza di prendere posto tra il pubblico nel corso di alcune udienze. Di chi si tratta? Di un sottufficiale della Digos di Genova. L´ufficio incaricato di identificare i protagonisti della sciagurata irruzione. A proposito: la maggior parte di loro, oltre duecento, resta senza nome. Come senza nome sono i poliziotti che all´esterno dell´istituto sfondarono a calci i polmoni ad un giornalista inglese, Mark Cowell, uno dei 93 che poi risultò "ufficialmente" essere stato catturato nella scuola. Il fascicolo per tentato omicidio nei suoi confronti resta a carico di ignoti. Ed ignota è ancora la quattordicesima firma nel verbale d´arresto dei 93 no-global: un documento pieno di bugie che è costato il processo a 13 dei 29, ma non a quello che vigliaccamente ? non essendo possibile decifrare la sua scrittura ? ha preferito rimanere nel buio, un altro mistero di una notte vergognosa. La notte più buia della polizia che i pm riassumono amaramente: "Pensavano di fare il loro dovere. Ma hanno agito secondo una logica perversa. Fiduciosi che la loro illegalità sarebbe comunque stata tollerata, in tutte le sedi istituzionali".

Corriere della Sera 10.11.08
I sogni, l'inganno: autocritica a sinistra /1
Edmondo Berselli: poco realisti Incapaci di ascoltare la società
di Dino Messina


Di sinistra si nasce. Ed Edmondo Berselli modestamente lo nacque. Così, parafrasando Totò, il brillante critico del nostro costume chiude la sua più recente e forse più sofferta fatica, Sinistrati
(Mondadori, pagine 189, e 17,50). Un tormentone umoristico, un flusso di battute intrise nell'amarezza di chi ha davvero sofferto nell'assistere alla caduta di Romano Prodi nel 1998 e di vedere ripetere la stessa masochistica scena dieci anni dopo. A un certo punto un intellettuale di sinistra, un giornalista impegnato, uno studioso che è anche direttore della rivista Il Mulino, non può fare a meno di porsi alcune domande, le più crudeli.
Com'è che il governo Prodi dopo aver seriamente anche se litigiosamente operato per un paio d'anni, s'è ritrovato a raccogliere «pernacchie»? Com'è che il nuovo Partito democratico, in cui alla vigilia delle elezioni circolava la voce «non diciamolo troppo in giro ma stiamo rimontando, mancano due o tre punti percentuali », all'indomani del voto si è ritrovato come uno di quei pugili suonati sconfitti per ko e che si rialzano senza aver realizzato la batosta, senza sapere nemmeno dove stanno?
Una esilarante risposta Berselli la trova nella teoria elaborata da Marcello Marchesi, il signore di mezz'età che riassumeva così il dramma del tecnico: capire un tubo, e nient'altro. Proprio come gli intellettuali di sinistra che, mentre la destra recuperava terreno, riuscivano ad andare allo scontro come a un pranzo di gala. Attenti a costruire un programma che tenesse insieme «l'eolico e l'atomico», per «contemperare ogni contraddizione possibile» e non scontentare nessuno. «Mercato e solidarietà, libertà e tutela, concorrenza e protezione». Un'operazione di «realismo magico» in grado di lasciar tiepido l'elettorato di centro e nello stesso tempo perdere tutti, ma proprio tutti i pezzi della sinistra radicale.
Così quei «sinistrati» non necessariamente comunisti che ai tempi di Craxi dichiaravano «socialista sì, ma lombardiano » e che oggi vedono interi pezzi del partito di Craxi nella compagine berlusconiana, quei cattolici in dubbio tra Ratzinger e Habermas, quegli eredi di Berlinguer che ti zittiscono con aria di sufficienza perché «ben altro è il problema», tutti insieme sono costretti a chiedersi: dove abbiamo sbagliato? Tra una battuta corrosiva e un'altra, che non risparmia la «destra da Bagaglino» dei La Russa e Gasparri, Berselli accompagna la pars destruens del suo discorso a una pars construens.
Insomma, il suo libro non è scritto soltanto per fustigare e divertire. Il suggerimento dell'autore, in estrema sintesi, è di abbandonare i vizi da «casta» in cui è caduta la sinistra e ritornare ad ascoltare la società, a essere vicini ai suoi bisogni.
C'è una certa specularità, suggerisce l'autore quando abbandona il tono scanzonato e sarcastico che abbiamo già apprezzato in altre opere come
Venerati maestri, tra un Paese invecchiato in cui i giovani sono relegati a un ruolo marginale e il teatrino politico che ripropone per esempio lo stanco duello D'Alema-Veltroni, come se dai tempi della Federazione giovanile comunista non fossero passati trent'anni. Consideriamo tuttavia, suggerisce Berselli, che quando la sinistra attraversa la strada c'è sempre di mezzo un tram.

Corriere della Sera 10.11.08
I sogni, l'inganno: autocritica a sinistra /2
Riccardo Barenghi: tutti colpevoli. Sempre pronti a tendersi agguati
di Ranieri Polese


Dopo le elezioni dell'aprile scorso, parlando di Veltroni, Jena aveva scritto: «Bisognerà dargli atto di aver conseguito una vittoria assolutamente straordinaria: ha distrutto la sinistra». Jena altri non è che Riccardo Barenghi, già direttore del manifesto e ora editorialista alla Stampa.
Su Veltroni Jena-Barenghi non ha cambiato idea. La sua scelta di lasciare la segreteria del Pds per diventare sindaco di Roma (2001) fu esiziale; e l'anno scorso, la creazione del Pd che «correrà da solo» è stato il colpo di grazia per il governo Prodi. Che, certo, non era un granché: coalizione pasticciata di tutto e il contrario di tutto (da Mastella a Bertinotti), nato su un programma di ben 300 pagine che nessuno degli elettori poteva leggere, viveva sull'impossibile principio di dare un contentino a tutti. Da qui la cifra esorbitante dei 103 sottosegretari.
A un mese di distanza dall'antologia, uscita da Fazi, dei corsivi scritti da Jena in questi ultimi otto anni, sempre Fazi pubblica il nuovo libro di Barenghi, Eutanasia della sinistra (131 pagine, e 14). È il pamphlet amarissimo di uno che nella sinistra ci credeva, ma poi si è dovuto accorgere che i suoi politici di riferimento sono totalmente incapaci di capire il presente, di parlare alla gente, convinti che la colpa è sempre degli altri (i famigerati poteri forti, la stampa ecc.) e sempre pronti a tendersi agguati. Così oggi la vede Giovanni, una specie di alter ego di Barenghi, cresciuto nella cultura del Pci e animato dal desiderio di un Paese più giusto. Non vuole pensare che la sinistra si sta annientando, ma alla fine disperato va perfino al «vaffaday » di Beppe Grillo.
Per spiegare ai tanti Giovanni come siamo arrivati a questo risultato, Barenghi torna indietro nel tempo per rileggere tutti gli errori che ci hanno portato a oggi. Dalla nascita di Rifondazione ('91) al fallimento della Bicamerale alle varie primarie «finte», l'elenco è lungo e impietoso. Il principio della fine è nel 1998, quando Bertinotti (alcuni dicono d'accordo con D'Alema) fa cadere il primo governo Prodi. Poi, 2001, grazie anche al «sindaco» Veltroni, il Paese finisce nelle mani di Berlusconi. Dopo i cinque, lunghissimi anni del governo di destra si arriva alle elezioni del 2006. Vince Prodi, ma per soli 24 mila voti. E la sinistra commette un altro errore, quello di mascherare una sconfitta da vittoria. Ed è insensato non voler prendere atto della rimonta di Berlusconi, del suo istinto populista di saper dire le cose che la gente vuol sentire. Il nuovo governo traballa in Senato, sta insieme solo per l'idea di essere «contro» Berlusconi, ma non sa proporre niente di concreto. Il carico fiscale tocca livelli altissimi, sul piano dei diritti civili (i Dico) non si fa niente, poi arrivano le intercettazioni delle telefonate con Unipol di D'Alema e Fassino e anche tra i più fedeli ormai si fa strada l'anti- politica, l'odio della casta. Alla fine ecco Veltroni con il suo Pd: i giorni di Prodi sono contati. Dopo l'uscita di Mastella, il governo cade. Si va alle elezioni, con i noti risultati.
Di questa sinistra, Barenghi non salva nessuno: non certo Bertinotti in versione salotto continuo, e neppure Diliberto che propone la Costituente dei comunisti. Con Prodi, dormiglione bofonchiatore, è spietato. Le ambizioni contrapposte di Veltroni e D'Alema portano solo disastri. Il primo crede solo alle sue illusioni (Yes, we can), l'altro solo nella sua astuzia. E intanto Berlusconi non ha solo conquistato il potere ma ha anche l'egemonia culturale del Paese.

Repubblica 10.11.08
Il governo cinese mette in campo il 20% del Pil: in due anni tagli alle tasse e più investimenti pubblici
di Federico Rampini


L´incubo recessione arriva a Pechino via alla manovra shock da 600 miliardi
La mossa punta a prevenire una esplosione della conflittualità sociale
È sfumata l´illusione che le potenze emergenti potessero restare immuni dalla crisi

Contro la recessione globale scende in campo la Cina, con una manovra di rilancio della crescita che supera per le sue dimensioni quelle approvate dagli Stati Uniti e diversi paesi europei.
E´ segno che il governo di Pechino è in allerta per la minaccia alla stabilità sociale e politica del paese: ieri il Consiglio di Stato ha annunciato una terapia d´urto senza precedenti. La Repubblica Popolare mette in campo 586 miliardi di dollari di risorse statali in un biennio, l´equivalente del 20% del Pil cinese. (Il paragone non va fatto coi 700 miliardi del piano Paulson destinati a ricapitalizzare le banche ma coi 200 miliardi di dollari di sostegno alla crescita varati quest´anno negli Usa).
Il clima di emergenza che regna tra i leader cinesi è sottolineato dall´annuncio fatto di domenica, dopo aver richiamato improvvisamente a Pechino per "impegni prioritari" il ministro delle Finanze, che stava partecipando al vertice G20 in Brasile. «Negli ultimi due mesi - si legge nel comunicato diffuso ieri a Pechino - la crisi finanziaria globale ha avuto un´accelerazione giorno dopo giorno. Di fronte a questa minaccia dobbiamo aumentare gli investimenti pubblici in modo energico e rapido». Il Consiglio di Stato, un organo dell´esecutivo, preannuncia una «politica fiscale aggressiva» fatta di maggiore spesa pubblica e sgravi d´imposte, insieme con una «politica monetaria espansiva» (nuovi tagli dei tassi, dopo che la banca centrale ha già ridotto per ben tre volte il costo del denaro da metà settembre). La terapia shock sarà mirata anzitutto a «migliorare le condizioni di vita della popolazione, perché possa aumentare i consumi».
L´annuncio cinese rappresenta una svolta che era attesa nel resto del mondo. Il ruolo della Cina è fondamentale per trovare una via d´uscita dalla recessione globale. L´anno scorso, secondo il Fondo monetario internazionale, la Repubblica Popolare ha contribuito per il 27% alla crescita dell´economia mondiale. E´ una locomotiva di cui l´Occidente non può fare a meno. Ma fino a qualche mese fa l´atteggiamento dei leader cinesi era improntato alla cautela. Per tutto il primo semestre del 2008 sugli schermi radar dei dirigenti comunisti il pericolo numero uno era l´inflazione: i forti rincari di tutte le materie prime (dal petrolio ai metalli, dalle derrate agricole al legname) avevano messo sotto pressione un´economia di trasformazione manifatturiera come quella cinese, oltre a creare tensioni sociali per l´aumento del costo della vita. Solo dopo l´estate Pechino ha cominciato ad aggiustare il tiro. E da un paio di mesi è sfumata definitivamente l´illusione del "decoupling", l´idea cioè che le potenze emergenti potessero "sganciarsi" da questa recessione e restarne sostanzialmente immuni. Il presidente Hu Jintao e il premier Wen Jiabao inoltre hanno seguito con inquietudine le dichiarazioni di Barack Obama in campagna elettorale: i toni protezionisti, e la richiesta alla Cina di rivalutare la sua moneta. Tra una settimana i leader di Pechino vogliono presentarsi al vertice G14 di Washington con le carte in regola, mostrando che stanno facendo la loro parte per rilanciare lo sviluppo economico nel mondo intero. Un aumento dei consumi delle famiglie cinesi è sempre stato considerato dai governi dell´Occidente come la via maestra perché la Cina eserciti un effetto benefico sulla crescita globale (una parte di quei consumi infatti si traduce in importazioni di prodotti europei, americani, giapponesi).
La maximanovra varata ieri risponde anche a impellenti necessità interne. Anche l´economia cinese sta perdendo colpi vistosamente. La decelerazione della crescita è impressionante. L´anno scorso il Pil aumentò dell´11,7% segnando un record storico. Nel primo semestre di quest´anno il tasso di crescita era già passato al 10%. Nel trimestre scorso (da luglio a settembre) la crescita si è attestata al 9%. Per il 2009 le stime più attendibili prevedono un "magro" +7,5%, il minimo da vent´anni. Una crescita superiore al 7% farebbe sognare ogni altro paese al mondo, ma per la Cina è motivo di allarme. Ogni anno in media 15 milioni di contadini cinesi abbandonano le campagne per cercare lavoro in città. Ad essi vanno aggiunti i giovani che escono dalla scuola e appartengono ancora a generazioni numerose, una "gobba" demografica che ancora non sconta gli effetti della denatalità. In totale se la crescita cinese non riesce a creare almeno venti milioni di nuovi posti di lavoro all´anno, ci sono tutte le condizioni per un´esplosione di conflittualità sociale. E´ quello che in effetti si sta già verificando in alcune zone del paese. Il Guangdong, la regione meridionale che ha la più alta densità di industrie, è da mesi l´epicentro di tensioni. Migliaia di fabbriche hanno chiuso per fallimento - soprattutto nel settore tessile-abbigliamento e nella produzione di giocattoli - e i licenziamenti di massa hanno scatenato proteste diffuse. Ancora pochi giorni fa la ricca metropoli industriale di Shenzhen è stata il teatro di scene di guerriglia urbana, migliaia di manifestanti hanno affrontato la polizia. Il detonatore di quest´ultima rivolta - almeno secondo le ricostruzioni dei mass media ufficiali - sembra essere stato un banale diverbio dopo un incidente stradale, ma la sensazione è che le difficoltà economiche stiano trasformando quell´area in una polveriera.
Ora con la maximanovra di politica economica il governo spera di aggiungere due punti alla crescita del Pil dell´anno prossimo. La terapia d´urto include nuovi investimenti pubblici nell´edilizia popolare, l´accelerazione della costruzione di ferrovie e aeroporti; investimenti nelle energie rinnovabili; spese sociali a favore delle fasce più indigenti; prestiti alle piccole e medie imprese; detassazione sugli acquisti di macchinari industriali. E´ una lunga lista di provvedimenti che hanno un denominatore comune: fare affluire il più rapidamente possibile nuovo potere d´acquisto alla popolazione, prima che sia troppo tardi. Il bilancio pubblico cinese è abbastanza solido da poter reggere un boom di nuove spese. Il dubbio semmai riguarda il peso della corruzione, che può limitare la parte degli aiuti che finirà veramente a beneficio della popolazione.

Repubblica 10.11.08
Pane amore e Dna
Nasce in Svizzera una maxi banca dati con i profili genetici di chi cerca il partner perfetto È l´ultima evoluzione delle vecchie agenzie matrimoniali. Che ora puntano sulla scienza
di Andrea Tarquini


Una spesa di duecento dollari e un tampone di saliva: così si viene registrati
Milioni di dati comparati al computer per individuare l´anima gemella

L´amore perfetto non si trova più con le blind dates o con le feste per cuori solitari, non si incontra più sul lavoro né la sera in discoteca o in locali per single né con un annuncio, ma con una ricerca comparata del proprio patrimonio genetico grazie alla banca dati di una piccola società di Zurigo. Secondo un´inchiesta di Welt am Sonntag, è questa la promessa degli svizzeri di Genepartner. Un trend destinato a diffondersi: presto le tradizionali agenzie matrimoniali o aziende di ricerca dell´anima gemella non avranno più futuro.
Addio al fascino dell´incontro imprevisto. A farci trovare l´anima gemella non sarà più la favola di vedere improvvisamente insieme il "raggio verde", come narrò il regista Eric Rohmer nel suo omonimo, memorabile film. No, adesso tutto sarà determinato dalle analisi comparate del Dna dei candidati partner, che ? sempre e rigorosamente su base volontaria ? chiederanno alle nuove agenzie matrimoniali del genoma di trovare per loro la partner o il partner perfetto.
La storia ha un po´ di sapore inquietante. Impossibile non evocare scenari di un futuro ipercontrollato, tutto preprogrammato, perfetto e senza emozioni, come ne "Il mondo nuovo" di Aldous Huxley. Ma gli scienziati ? a cominciare da Tamara Brown, biologa molecolare, e da Michael von Arx, fondatore di Genepartner, assicurano di crederci. Funziona così: ci si mette in contatto con la società svizzera, appunto la Genepartner (indirizzo Schlossgasse numero 9, nell´opulenta Zurigo), si pagano circa 200 dollari, e la ditta effettua un semplicissimo prelievo di saliva per avere i dati fondamentali del patrimonio genetico del candidato.
È solo il primo passo. Segue la comparazione del proprio profilo genetico con gli altri contenuti nei computer dell´azienda, alla ricerca di possibili patrimoni compatibili. E solo alla fine, quando Genepartner ha trovato un partner o una partner ideale, arriva la proposta di combinare un incontro. La stessa Tamara Brown in persona ha provato a sperimentare su se stessa la tecnica della ricerca su banca dati genetica del partner perfetto: ha il suo numero di codice dei propri dati genetici (115 00 21 88). Nove cifre: col codice ognuno può cercare nella banca dati il partner genetico ideale.
Fin qui è almeno tutto chiaro, anche se troppo freddo e scientifico rispetto all´emotività indispensabile all´amore. Ma come funziona la ricerca genetica della compatibilità? Semplice: i patrimoni genetici dei due candidati non devono essere così simili tra di loro. Al contrario, devono avere differenze significative che li distanzino. Insomma, gli opposti si attraggono e possono avere insieme sesso felice, fedeltà di lunga durata e una bella prole. Lo confermano anche i test effettuati dagli svizzeri con l´olfatto: a gruppi di donne in cerca del partner sono state fatte odorare t-shirts di diversi uomini. E guarda caso, loro si sentivano più attratte dall´odore delle t-shirts dei maschi il cui patrimonio genetico era abbastanza diverso dal loro.
Resta da capire se davvero valga la pena affidarsi all´inquietante sogno dell´accoppiamento guidato dalla scienza perfetta (un sogno dipinto come incubo da tanti romanzieri e registi, e inseguito da non poche dittature totalitarie) invece che invitare una collega o un´amica, a un caffè o a una cena, spendendo anche meno di quanto richiesto dagli ingegneri genetici delle coppie perfette.

Corriere della Sera 10.11.08
Esce una nuova edizione della tragedia di Sofocle con un commento di Giulio Guidorizzi
Edipo, l'angoscia dell'uomo non trova una tregua
di Giorgio Montefoschi


Due sono gli enigmi che accompagnano la fine di Edipo, il peccatore innocente, nell'Edipo a Colono (Mondadori-Lorenzo Valla, a cura di Guido Avezzù, commento di Giulio Guidorizzi, pp. 428, e 27), la tragedia che Sofocle scrisse novantenne poco prima della morte. Riguardano il tema del male, il primo; il tema della «conoscibilità della morte», il secondo. Duemilaquattrocento anni di storia del pensiero occidentale non sono riusciti a risolverli.
Quando arriva nel borgo di Colono alla periferia di Atene, condotto per mano da sua figlia Antigone, cercando di fuggire con la morte al buio che lo tormenta, Edipo è l'incarnazione del male: ha ucciso suo padre Laio, è entrato nel letto di sua madre Giocasta e dall'unione incestuosa sono nati dei figli. I vecchi che stanno attorno all'altare delle Eumenidi e al santuario di Posidone, poiché sanno chi è, lo guardano atterriti, «muovendo», come scrive nella sua magnifica traduzione Giovanni Cerri, «le labbra nel pensiero silenzioso». Per lui, più che per ogni altro, vale la riflessione che ad alta voce pronunceranno più tardi («Quando uno ha passato la giovinezza con le sue leggere follie, quale pena si tiene alla larga, quale sofferenza manca?), nella quale è rappresentato il dolore del mondo. Edipo è anche innocente però. E lo vuole ricordare ai suoi ospiti. Il male che ho fatto, dice, io l'ho subito: «nulla di tutto questo fu scelto da me». In altre parole: se il male esiste, se esiste una volontà «altra» rispetto alla volontà individuale, una volontà che stabilisce il mio destino, una volontà che addirittura mi ha reso ignaro e inconsapevole, qual è la mia responsabilità? E questo non è il solo aspetto dell'enigma. Ce n'è un secondo. Edipo si è accecato per non vedere più l'orrore commesso ed è stato cacciato da Tebe come peccatore. Lui è venuto ad Atene: vuole porre fine ai suoi giorni lì. Ma Creonte, il re di Tebe, lo insegue: la città pretende il corpo del morto. Come Atene. Solo che, mentre Atene lo vuole in omaggio alle profezie e alle estreme leggi dell'ospitalità (dunque, per motivi «giusti»), le ragioni dei tebani rimangono incomprensibili. A meno di non considerare codesta resipiscenza come una salvifica consapevolezza dell'inevitabilità del male, della inevitabile imperfezione dell'uomo.
Veniamo, così, al secondo enigma: quello che riguarda la morte. Quando si ode il primo tuono e il dio chiama Edipo («Edipo, Edipo...»), annunciandogli che è venuta l'ora, lui dapprima congeda le figlie (con le medesime parole del Vangelo di Giovanni: «Nessuno vi ha amato più di me»), poi si allontana con il solo Teseo, il re di Atene, al quale comunque ingiunge di non raccontare le cose inverosimili e misteriose alle quali assisterà. In tal modo, il racconto della morte — uno dei brani più splendidi e commoventi della letteratura di ogni tempo — è affidato al messaggero. Senonché, da questo stesso racconto, noi apprendiamo che neppure Teseo ha visto. Perché, essendosi voltato dopo l'ultimo tuono, il messaggero lo scorge con una mano davanti agli occhi: come accecato da un evento irricevibile. Edipo è scomparso: non sappiamo se la terra si è dolcemente spalancata per accoglierlo, o una guida divina è venuta a prenderlo. Teseo ha veduto e conosciuto fino al limite, fino a che gli è stato concesso. Poi su di lui, come su ogni uomo, è calato l'enigma della morte. Che, forse, in quanto inconoscibile, possiamo considerare inesistente.

Repubblica 10.11.08
Arnaldo Pomodoro
Nel cuore segreto della sfera


Una grande esposizione allestita nella Fondazione omonima di via Solari a Milano. Tra i capolavori il "Grande Portale" e "Le battaglie"
Le rotture sono la forma del primitivo e del profondo
Il disegno geometrico rappresenta la ragione astratta
Una storia scritta con lettere che non saranno mai decifrate

MILANO. Di ritorno dalla grande mostra che Arnaldo Pomodoro ha allestito nel magnifico, sconfinato spazio della sua Fondazione di via Solari a Milano (tremila metri quadri espositivi, quasi interamente occupati oggi da un´unica immensa navata, alta quindici metri, progettata da Pierluigi Cerri), riprendo in mano un piccolo fascicolo del 1957, il numero 3-4 della rivista L´esperienza moderna, dove ricordavo d´aver trovato riprodotta un´opera giovanile (Tempo fermo, 1957) di Pomodoro. Un groviglio di segni brulica nelle figure geometriche del cerchio e del quadrato, entro le quali quei segni sono iscritti. D´altronde tutte le immagini della rivista, nel breve tempo in cui uscì, parlano della ricerca attorno al "segno", modo della pittura e della scultura che artisti d´Europa e d´Oltreoceano mettevano, allora, a cardine della loro ricerca (Perilli e Novelli, che la rivista dirigevano, Fontana e Turcato, Capogrossi e Accardi, Bryen e Boille, Scanavino e Dova, Alechinski e Corneille, Tápies e Canogar, e tanti altri con loro). Un segno che non era più il grande gesto trovato a New York dai pittori d´azione (la cui prima eroica stagione era stata chiusa dalla morte di Pollock, l´anno avanti), non più lo scavo rabdomantico nelle viscere della terra di Klee, né quello nella notte della coscienza dei surrealisti, ma qualcosa di meno orgoglioso, meno esistenzialmente coinvolto: una minima traccia («un graffio, una screpolatura, una macchia», scriveva Cesare Vivaldi sulla medesima rivista) dell´intenzione creativa, un grumo di volontà ideativa.
Tanto tempo è passato, da quell´opera aurorale di Pomodoro alla sua mostra d´oggi, e al lavoro che lo scultore ha disseminato negli anni per tutti i continenti, in forme e dimensioni cento volte più assertive, cento volte maggiori. A Milano e a Roma, a New York e a Los Angeles, a Brisbane e a Darmstadt, a Honolulu e a Tokyo, a Dublino e a Copenaghen, e ancora a Torino a Modena a Pavia, a Spoleto a Rimini a Lampedusa, Pomodoro ha lasciato sue opere che occupano ora vasti luoghi pubblici, ovunque nel mondo.
Eppure quella sua nascenza, in un alveo di cultura figurativa che delegava soltanto alla breve monade di un segno senza alfabeto, e senza referenzialità diretta con la natura, l´ansia di dire, oltre le dilacerazioni dell´informale, tutti i viluppi, gli scontri, i nascondimenti dell´animo, quella sua lontana nascenza gli è rimasta attiva, e feconda.
«Una storia scritta con lettere che non saranno mai decifrate, ma che comunque sanno trasmettere un sottile malessere, come fossero segnali di torture antiche e allo stesso tempo simboli di nuove scoperte»: così Gillo Dorfles ha detto della natura duplice degli ingranaggi che occupano il cuore segreto delle sfere, delle colonne, delle torri, delle spirali, degli obelischi di Pomodoro.
Altri - e lui stesso, talora - hanno letto in essi memorie di forme e figure che tornano all´oggi da secoli trascorsi, da civiltà remote: «Nelle mie sculture geometrizzanti, che hanno una grossa rottura dentro, io pensavo un tempo di mettere in evidenza le contraddizioni di oggi. E invece ritengo ora che il tratto geometrico presenta le forme della ragione astratta, e anche tecnologica; mentre le rotture, nelle mie opere, sono le forme del primitivo, del profondo e del materiale». Ha preso distanza dunque, Pomodoro, dall´urgenza della testimonianza, dal più implicato coinvolgimento emotivo, restituendo alle sue scelte linguistiche un valore eminentemente formale.
Venuto dal Montefeltro a Milano a metà degli anni Cinquanta, era stato subito astratto, né mai intese sconfessare questa sua fondamentale vocazione; ma una componente della sua formazione (che è stata nominata, forse imperfettamente, "surrealista", e che meglio credo s´individuerebbe tra Wols, Michaux e il Dubuffet dei Corps de dames) l´ha presto spinto a coniugare il macchinismo preveggente delle sue figure con l´emergere di un sostrato antico, classico o - più oltre, e più radicalmente - primitivo. Denti, ruote spezzate, cunei, ingranaggi, frecce, punte di lancia s´affastellano allora al cuore dell´immagine; compressi e a stento trattenuti sul filo della parete, o racchiusi nelle cavità squarciate di una forma geometrica (la sfera, la colonna, il cubo) che ha smarrito, come per un´interna esplosione, la sua integrità.
La tecnica è, imprevedibilmente, quella della cera persa: che con i suoi lunghi passaggi (dall´argilla, sostenuta da un´armatura di legno, al gesso; da questo alla cera, e infine al bronzo) sembrava inadatta sia alle dimensioni gigantesche delle figure scultoree, sia all´empito fabbrile che visibilmente le accompagna. Ma solo in questa tecnica antica, in questo tempo lento e come sdoppiato, poteva forse calarsi l´ambiguità semantica che queste sculture implicano: incerte sempre fra bellezza e minaccia, fra costruzione e crollo. Fra antico e futuro, ancora: come esemplificano il Grande Portale, la cui prima idea nacque a Siena, in occasione d´una rappresentazione dell´Oedipus Rex di Stravinsky e Cocteau (spesso il lavoro per il teatro ha avuto per Pomodoro un ruolo di positiva ricarica inventiva); ovvero una delle sculture più seducenti della mostra odierna: Le battaglie, un oscuro pannello lungo dodici metri, nel quale i segni più tipici di Pomodoro si accalcano e si sovrappongono l´un l´altro, sopra e sotto una fascia di silenzio e d´attesa: e fanno da un canto scoperta allusione alla folle iperbole prospettica delle Battaglie di San Romano di Paolo Uccello, dall´altro precipitano chi guarda nelle atmosfere inquietanti del film di Kubrick o del Lucas di Guerre stellari.

Repubblica 10.11.08
Da Schifano a De Dominicis. Una rassegna a Roma
Quando il fuoco diventa creativo
di Achille Bonito Oliva


Anticipiamo parte del saggio di dal catalogo della mostra «I fuochi dell´arte» (Skira) che si apre mercoledì all´Auditorium di Roma (chiusura il 10 gennaio 2009)

Esistono molti esempi di nonchalance di artisti moderni verso la propria opera. Ne ricordo due in particolare: Duchamp che non batte ciglio di fronte alla rottura del Grande vetro, Munch che lascia alle intemperie del "freddo nordico" le sue tele, sottoponendole alla rigida disciplina dell´en plein air. Eppure attorno all´arte contemporanea esiste un atteggiamento sacrale e protettivo che ricorda quello verso l´arte antica. (...) L´atto di ossequio filologico del restauro è anche una forma di rispetto per il progetto dell´artista, del suo desiderio di durare attraverso un´opera compilata "a regola d´arte", con tecniche e materiali appartenenti a quella tradizione che voleva appunto celebrare il presente proiettandolo nel futuro.
L´arte contemporanea invece, proprio quella del nostro secolo, fa mostra di un intento trasgressivo rispetto alla tradizione, anche nell´uso di tecniche e materiali extrartistici, per inseguire l´equivalenza tra arte e vita adotta materie degradabili, più sotto l´incubo del presente che sotto il sol dell´avvenire. Dagli oggetti belli e fatti di Duchamp alle serate futuriste e dadaiste, dagli assemblaggi di Rauschenberg agli happening americani, dalle opere dei nouveaux réalistes francesi ai poveristi italiani, molta arte di oggi sembra non voler accettare la retorica della durata, il respiro lungo dell´immortalità che, invece, alimenta quella antica. Ecco allora un catalogo variopinto di orinatoi, stracci, terra, tubi, plastica e catrame, neon e fratelli gemelli.
Eppure, intorno a questo mondo si sente lo stesso affannarsi di assistenza che intorno all´arte antica, sullo stesso piano l´Ultima cena di Leonardo e il Sacco di Burri, i Prigioni di marmo di Michelangelo e le scatole Brill di Warhol, la luce dipinta di Caravaggio e quella al neon di Flavin. Come mai il restauro non si interroga sull´uso poetico dei materiali, le ragioni filosofiche ed estetiche che hanno portato l´artista a operare con materie sintetiche, effimere e dichiaratamente degradabili, spesso accompagnate da un disinvolto e agghiacciante "Senza titolo"? La risposta negativa sta nel carattere logocentrico della civiltà occidentale. Infatti la storia dell´arte è vista come una sequenza di opere giudicate per lo scheletro concettuale che le sorregge. La materia è soltanto il veicolo di un valore mentale che sarebbe altrimenti invisibile. (...)
Ma che cosa avviene quando il fuoco attacca la vita, minaccia i nostri beni ed arriva ad assediare molto da vicino e materialmente l´integrità dell´arte? Questo è avvenuto ai danni di un grande amateur dell´arte, un appassionato collezionista che ha visto danneggiato il suo patrimonio di opere per un incendio scoppiato nel suo deposito. Opere di Schifano, Cucchi, De Dominicis, Aristide Sartori sono state attaccate dalle fiamme, alcune totalmente distrutte altre danneggiate in maniera irreparabile ed altre ancora invece soltanto lambite e ferite dalla temperatura incandescente del fuoco.
Gli artisti (Schifano e Cucchi) hanno reagito con estrema apertura, incuriositi dall´apporto del caso sulla forma precedentemente da loro allestita. Il fuoco ha messo sulla graticola le opere d´arte e, come San Lorenzo, sembrano queste acquistare una sorta di santità, un´estetica che coniuga intenzionalità creativa ed irruzione del caso. Insomma un´aura nuova aleggia su questo corpo di opere toccate dal fuoco. E gli artisti stessi hanno convenuto e riconosciuto come il fuoco sia stata da una parte un elemento distruttore ma dall´altra ha spinto l´opera verso un potenziamento espressivo prima imprevedibile. Per questo i fuochi dell´arte costituiscono un´originale proposta espositiva che vuole evidenziare una sorta di paradossale immortalità non soltanto concettuale ma anche materiale dell´arte contemporanea, disposta con felice spudoratezza ad esibire le proprie stimmate, ad accettare che le proprie ferite entrino a far parte di un´aura allargata, un territorio anche di riflessione che riguarda l´intera sistema dell´arte.

Corriere della Sera 10.11.08
Anteprima Dopo cinque anni è ormai concluso il restauro della volta e delle pareti. Intervento finale sui capolavori del Buonarroti
I tormenti e la Grazia Michelangelo svelato
Tornano alla luce i colori della Cappella Paolina
di Arturo Carlo Quintavalle


L'ultimo Michelangelo, quello più nascosto, quello che il pubblico non conosce, quello della Cappella Paolina con i due grandi affreschi «La conversione di Paolo» e «La crocifissione di Pietro» rivela per la prima volta i suoi segreti. Il colore ritrovato arrotonda i corpi, scandisce luci ed ombre, segna i profili. Rispetto al «Giudizio» della Sistina, il senso è diverso. Gli affreschi sono infatti una riflessione finale sul mondo, sulla grazia, sulla salvezza, ma anche sulla morte.
Per capire cominciamo da qualche dato: la Cappella Paolina, voluta da Paolo III Farnese, viene apprestata da Perin del Vaga per la parte degli stucchi e del soffitto, peraltro distrutto nell'incendio del 1545. Michelangelo inizia a dipingere «La conversione di Paolo» nel novembre del 1542 e la conclude nel luglio del 1545; «La crocifissione di Pietro », iniziata forse nello stesso anno, viene conclusa attorno al 1550. Paolo III la vedrà poco prima di morire, ancora incompiuta. La cappella è un sistema complesso, gli affreschi di Michelangelo sono solo un decimo circa delle superfici dipinte, il resto si deve a Federico Zuccari e a Lorenzo Sabbatini; ambedue operano una ventina di anni dopo la fine dei lavori di Michelangelo. Il papa che programma la sistemazione finale della cappella è quel Gregorio XIII Boncompagni, bolognese, che aveva commissionato a Antonio Danti la «Sala delle Carte Geografiche» (1580-1583) arricchita da questi stessi stucchi, colori, dorature.
Il restauro della volta e delle pareti è ormai concluso e adesso, dopo cinque anni dall'inizio dei lavori, il capo restauratore del Vaticano Maurizio De Luca e la sua prima assistente Maria Puska iniziano a restaurare Michelangelo. Vediamo qui le prime
finestre di pulitura, lo stato di conservazione è buono, la pittura di Michelangelo si legge perfettamente. «Non ci sono trasferimenti dal cartone alla parete con l'incisione dei contorni come alla Sistina; qui il pittore utilizza lo spolvero, fa passare carbone sui fori del cartone lungo i contorni e poi unisce i puntini con sottili pennellate» spiega De Luca. E poi mostra il segno delle giornate (cioè delle stesure di intonaco fresco che devono essere dipinte in un solo giorno) e sottolinea (fra una giornata e l'altra) le pennellate ricche di colore, malachite, bruno, rosso, giallo dati a secco o (per meglio dire) dati con colore molto diluito.
Vediamo da vicino i due grandi affreschi (6,60x6,25 metri ciascuno) e il loro significato. La «caduta» di Paolo sulla via di Damasco è il dipinto che più si avvicina all'ultima parte del «Giudizio» della Sistina; in alto, volano angeli senza ali disposti a raggiera attorno al Cristo che colpisce Paolo, che cade accecato in primo piano, col vibrante, giallo raggio di luce. Lo spazio attorno è vuoto. Perché questo ritmo diverso fra figure e paesaggio? Michelangelo con le figure costruisce un discorso complesso: cita i cavalli del Quirinale nell'animale che fugge al fondo; cita il Raffaello delle «Stanze» come nel guerriero con scudo alla sinistra che evoca la «Cacciata di Eliodoro». Ma basta vedere «L'incontro fra Leone Magno e Attila», sempre nella stanza di Eliodoro, per capire che tutto quello che in Raffaello è storia, ritratto, documento, in Michelangelo diventa racconto sospeso fuori del tempo, spazio assoluto.
«La crocifissione di San Pietro» è invece una valle di colli azzurri sotto un cielo plumbeo di nubi; in basso, attorno alla croce, si schierano gruppi di figure a semicerchio mentre una figura di vecchio fuori scala (a destra) rimane isolata dalle altre. Michelangelo usa punti di vista diversi per ogni gruppo per aumentare la durata del racconto e nega ogni rapporto prospettico «diminuendo» le figure anche se in primo piano: la loro dimensione delle figure è simbolica e tutto converge attorno a Pietro che evoca quello enorme del «Giudizio» della Sistina. Questa rottura di ogni norma prospettica è evidente nella croce: un braccio più corto, il destro; l'altro fuori asse (De Luca mostra anche il ripensamento della mano sinistra del santo che prima debordava e che poi è stata riportata all'interno del legno).
Quale è, allora, il senso di queste immagini? Qui non sono rappresentati eventi ma meditazioni: lo spazio è senza storia, Michelangelo elimina vegetazione e dettagli, edifici e ogni riferimento al tempo umano. Restano solo le tensioni possibili fra le figure, gesti sospesi di un teatro drammatico senza tempo. I colori che ora si stanno felicemente riscoprendo (rossi, verdi, azzurri, bruni, gialli) sono i colori dei quattro elementi (terra, aria, acqua, fuoco). Dunque Michelangelo propone qui una simbologia cosmica. E Paolucci giustamente precisa: sono i colori di Pontormo. Ma il colore insiste su forme e figure legate all'ellenismo dei sarcofagi e del «Laocoonte », il gruppo scoperto nel 1506 che tanto pesa sul giovane scultore e pittore, come del resto su Raffaello. Il momento in cui Michelangelo dipinge i due affreschi è però anche quello della scomparsa di due amici e protettori, Luigi del Riccio nel 1546 e la poetessa Vittoria Colonna nel 1547. La Colonna era legata a una riflessione sulla Grazia come luce e quindi, attraverso Sant'Agostino, al neoplatonismo, professando una religiosità cristiana improntata a un dialogo diretto col divino, come qui appunto appare nei freschi di Paolo e di Pietro.
Michelangelo aderiva a questo gruppo di intellettuali ma percepiva anche la propria inadeguatezza, il peccato, la debolezza della carne. Ecco perché egli dipinge questo spazio senza storia: da questi «vuoti cieli» solo la Grazia, la luce del raggio e il volto corrusco di Pietro portano ordine e speranza. Per capire conviene rileggere qualche riga amarissima di un componimento dell'artista scritto nel 1546: dopo aver descritto il decadimento del proprio corpo Michelangelo conclude: «L'arte pregiata, ov'alcun tempo fui/ di tant'opinion, mi rec'a questo,/ povero e vecchio e servo in forz'altrui,/ ch'i son disfatto, s'i non muoio presto». Ebbene, la figura alla estrema destra della «Crocifissione di Pietro», quel personaggio fuori scena, è forse proprio Michelangelo che medita sulla fine. E la salvezza è espressa proprio dai vibranti colori che si stanno recuperando: anche attraverso di essi la Grazia divina si rappresenta nel mondo.

Corriere della Sera 10.11.08
L'intervista
Antonio Paolucci «Abbiamo cercato un'unità di stile»
di A.C.Q.


Il restauro della Cappella Paolina (iniziato 5 anni fa e interamente finanziato dai cattolici americani) costerà un milione e mezzo di euro. A guidarlo sono Antonio Paolucci (direttore dei Musei Vaticani), Arnold Nesselrath e il restauratore Maurizio De Luca. L'impegno preso con la Casa Pontificia è che la messa papale nella Cappella Paolina restaurata possa essere celebrata il 29 giugno del 2009, festa dei santi Pietro e Paolo. Spiega Paolucci: «La cappella racconta con gli affreschi di Michelangelo, Lorenzo Sabbatini, Federico Zuccari la storia dei protoapostoli. Al restauro hanno lavorato una ventina di persone dello staff dei Vaticani "controllati" da una commissione internazionale di studiosi. Lo scopo è di restituire unità di stile alla cappella, dove Michelangelo non è il protagonista esclusivo».
Professor Paolucci, come definire il rapporto di Michelangelo con Zuccari e Sabbatini?
«Zuccari e Sabbatini intervengono venti anni dopo Michelangelo e sono intimiditi dalla contiguità del maestro, ormai divinizzato da Vasari nelle Vite,
tanto è vero che hanno cercato di adeguarsi, compiendo un'opera di alto mimetismo. Essendo divisi da pochi anni, gli affreschi di Michelangelo e quelli dei prosecutori sono invecchiati in modo omogeneo. Compito dei restauratori era fare intendere la loro unità stilistica e la loro omogeneità di colori, di patina, di suggestione». Questi, dice il direttore dei Musei Vaticani, i criteri dell'intervento: «La Cappella Paolina è affrescata per buona parte, ma per una parte altrettanto grande è decorata con stucchi dipinti e dorati nello stile e gusto della volta della "Galleria delle Carte Geografiche" fatta realizzare da Gregorio XIII. Noi ci siamo adeguati a quel modello di decorazione: sono gli stessi anni, lo stesso Papa, lo stesso gusto; così abbiamo cercato di restituire l'insieme della volta e delle pareti».
Che significato assume questo restauro? «Il risultato sarà il recupero di una delle due cappelle papali, l'altra è la Sistina». Ma, precisa Paolucci, «la Paolina ha un carattere più raccolto e religioso, era la cappella del Santissimo Sacramento, il cuore teologico della dottrina cattolica ed è illustrata dalla rappresentazione della vita dei protoapostoli, Pietro e Paolo. Alta dunque è anche la sua valenza simbolica e liturgica». Quali saranno, dunque, le scelte tecniche per la presentazione della Cappella Paolina? «Quando la Paolina verrà restituita al culto, manterrà anche nell'illuminazione questo suo carattere di omogeneità: gli affreschi di Michelangelo avranno insomma lo stesso registro luminoso di ciò che gli sta attorno».