mercoledì 12 novembre 2008

l’Unità 12.11.08
Per i redditi e il lavoro la Cgil prepara lo sciopero generale
di Felicia Masocco


La Cgil «unifica le lotte». Lo ha proposto Epifani al Direttivo. Lo sciopero generale si terrà probabilmente il 12 dicembre. La crisi è drammatica: «Le banche sospendano le rate dei mutui a chi va in cig o perde il lavoro».
«Unificazione delle lotte», un modo per dire sciopero generale. La Cgil lo farà a dicembre, Epifani ha proposto di mettere insieme tutte le proteste ieri al Direttivo che oggi dovrebbe dare mandato alla segreteria per decidere i dettagli. La data, innanzitutto. Molto probabilmente sarà quella del 12 dicembre già fissata dai metalmeccanici della Fiom per il loro stop e su cui anche i lavoratori pubblici di Fp faranno confluire lo sciopero nazionale. La segreteria deciderà anche la durata, 4 ore al momento la più gettonata.
Gli argomenti non mancano. C’è una crisi che rischia di trasformarsi in uno tsunami per occupazione e redditi e c’è un governo che continua a tentennare e a ritardare risposte adeguate. «A differenza di altri governi, non dà segno di percepire la gravità della crisi», per dirla con Epifani. Si pensi soltanto al fatto che le ore di cassa integrazione richieste dalle aziende stanno aumentano in modo esponenziale, a Mirafiori nel mese di novembre si lavorerà una settimana soltanto: ma il governo si ostina a considerare valida la detassazione degli straordinari (previsione di spesa 1 miliardo), sui cui anche il governatore di Bankitalia ha avuto da ridire, presentando un sondaggio nel quale le aziende dicevano chiaro e tondo che servirà a far calare l’occupazione. Un esempio lampante del tanto che non va.
Ieri Epifani lo ha ricordato intervenendo al Direttivo rilanciando il piano anticrisi della Cgil e battendo sulla necessità, ad esempio, che le banche sospendano per un periodo il pagamento delle rate del mutuo a chi va in cassa integrazione o a chi perde il lavoro. «Mostrino sensibilità sociale», è il suo appello. Sarebbe una rivoluzione: com’è noto la solidarietà non genera profitti.
C’è il governo che seleziona i suoi interlocutori e anche ieri ha incontrato Bonanni e Angeletti a palazzo Grazioli; c’è l’accordo separato sui contratti della Funzione pubblica che dopo gli scioperia al Nord e al Centro, venerdì sciopera al Sud, c’è il contratto separato del commercio contro il quale la Filcams sciopera sabato. C’è la riforma della contrattazione decisa da Confindustria da Cisl e Uil, senza la Cgil. E ci sono tante categorie alle prese con le loro vertenze, a cominciare da scuola, università e trasporti. C’è insomma un conflitto diffuso e articolato figlio di un disagio crescente tra i lavoratori e ta i pensionati, anche loro mobilitati, che che porta il leader della Cgil a parlare della necessità «unificazione delle lotte». Intervenendo ieri al Direttivo Epifani non ha usato il termine sciopero generale, anche se sta nei fatti, la sua è stata piuttosto una chiamata alle armi a rivolta a tutta l’organizzazione, in particolare alle camere del lavoro, anche le più piccole. Oggi il direttivo dovrebbe dare il mandato alla segreteria che proclamerà lo sciopero lunedì prossimo. Una scelta «lessicale», quella di Epifani, dovuta in parte a logiche interne, in parte al tentativo di salvaguardare quel che resta dell’unità con Cisl e Uil. Si pensi all’università che venerdì scenderà in piazza con tutte e tre le sigle sindacali.

Repubblica 12.11.08
"Sospendete lo sciopero dell´università" appello della Gelmini, la Cgil dice no
Cisl e Uil aspettano Brunetta. L´Onda prepara il corteo del 14
Il sindacato guidato da Epifani conferma la protesta di venerdì prossimo
di Mario Reggio


ROMA - Università, ricerca, sciopero nazionale di venerdì 14 novembre. L´incontro del ministro Mariastella Gelmini con Cgil, Cisl e Uil si è concluso ieri sera in un´atmosfera kafkiana. Il ministro: «Chiedo ai sindacati di revocare lo sciopero del 14 novembre. Il decreto sulle misure urgenti per l´università e la ricerca è stato pubblicato oggi sulla Gazzetta Ufficiale, mentre la stabilizzazione dei precari degli enti di ricerca ed il contratto nazionale della categoria e dei non docenti dell´università - afferma - sono un problema che riguarda il ministro Brunetta. Infine sui tagli all´università decisi nella finanziaria la competenza è del ministro Tremonti. Cercherò con loro di trovare una soluzione. Ma le decisioni finali spettano al governo». La Cgil ha confermato lo sciopero del 14 febbraio. Cisl e Uil non nascondono che si tratta di una «missione impossibile», ma hanno dato tempo al ministro Brunetta fino a giovedì mattina prima di prendere una decisione definitiva. Intanto, ieri, il Senato ha approvato l´emendamento che blocca il taglio delle scuole con meno di 50 studenti.
Intanto gli universitari si stanno organizzando: con pullman, treni e viaggi ?fai da te´. Venerdì, a prescindere dalla decisione che prenderanno i sindacati, arriveranno a Roma da tutta Italia per partecipare alla manifestazione nazionale organizzata contro i tagli dei finanziamenti e le riforme ipotizzate dal ministro Gelmini. Una protesta, quella dell´Onda che è restata in piedi nonostante il decreto legge «tecnico» varato giovedì scorso dal consiglio dei ministri, e pubblicato ieri in Gazzetta Ufficiale, che detta nuove norme sui concorsi, alleggerisce il blocco del turn over, destina risorse per gli atenei migliori, ma senza investimenti aggiuntivi, e incrementa borse di studio e posti letto per gli studenti. «Ho proposto di rinviare lo sciopero di venerdì, programmato prima che il Governo approvasse le linee guida e il decreto, e di continuare un proficuo lavoro di approfondimento dei problemi» ha dichiarato Mariastella Gelmini.
Chiusura da parte della Cgil: «Sono del tutto insufficienti le proposte del Ministro» ha commentato il segretario generale della Flc, Mimmo Pantaleo, che ha confermato sciopero e manifestazione del 14. «Pur apprezzando alcune dichiarazioni di buona volontà del ministro ad affrontare alcune criticità relative al problema del precariato e dei contratti - ha spiegato - complessivamente vengono riconfermati i tagli previsti dalla legge 133 e l´impianto del decreto Brunetta». Intanto le iniziative di protesta degli studenti sono proseguite anche ieri. A Firenze è partita una 24 ore non stop di lezioni per protesta. Nelle università di Cosenza, Catanzaro e Reggio Calabria gli universitari anche ieri hanno raccolto le adesioni alla manifestazione e si sono dati da fare per racimolare i soldi necessari a pagare l´affitto degli autobus per raggiungere Roma. Altri pullman sono previsti dall´Abruzzo e una delegazione partirà dalla Sardegna dove venerdì, in contemporanea con la manifestazione romana, è in programma un corteo a Cagliari. Circa 4.000 ragazzi dovrebbero arrivare nella Capitale da Napoli con i treni e altre partenze si stanno organizzando nelle altre regioni.

Repubblica 12.11.08
L’aggressività del nuovo potere temporale
di Stefano Rodotà


DI FRONTE ai segni di un possibile rafforzarsi delle politiche dei diritti la Chiesa interviene con durezza e con un tempismo preoccupante. I giudici della Corte di cassazione sono in camera di consiglio per discutere il ricorso del Procuratore generale di Milano contro il provvedimento che ha autorizzato l´interruzione dei trattamenti per Eluana Englaro.
NelLo stesso momento il cardinale Barragan, presidente del Pontificio consiglio per la salute, afferma che saremmo di fronte a "una mostruosità disumana e un assassinio". Lo stesso cardinale ha "espresso preoccupazione" per l´annuncio secondo il quale il nuovo Presidente degli Stati Uniti si accinge a revocare il divieto, imposto da Bush, di finanziamenti federali alle ricerche sulle cellule staminali embrionali, sostenendo che "non servono a nulla".
Colpisce, in questi interventi, una aggressività di linguaggio che nega ogni legittimità alle posizioni altrui, presentate in modo caricaturale e criticate con toni sprezzanti e truculenti. Questo atteggiamento, nel caso della Corte di cassazione, si traduce in una assoluta mancanza di rispetto per le istituzioni della Repubblica italiana da parte di un "ministro" di uno Stato estero. Si interviene proprio nel momento in cui la più alta magistratura sta decidendo su una questione della più grande rilevanza umana e sociale, sì che massimi dovrebbero essere il silenzio e il rispetto. Che cosa sarebbe successo se, in una situazione analoga, un qualsiasi governo straniero avesse definito "assassino" un giudice italiano per una sua possibile decisione?
Conosciamo la risposta. La Chiesa agisce nell´esercizio della sua potestà spirituale, dunque ad essa non sono applicabili categorie che riguardano la sfera della politica. Ma, per il modo in cui ormai ordinariamente agisce, la Chiesa si è costituita proprio in soggetto politico, pratica un nuovo "temporalismo", pretende un potere di governo sociale che cancella il principio che vuole lo Stato e la Chiesa, "ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani" (articolo 7 della Costituzione). Due parti autonome e distinte, dunque. E questo, lo espresse con parole chiare e misurate Giuseppe Dossetti all´Assemblea costituente, vuol dire che "nessuna di esse delega o attribuisce poteri all´altra o può, per contro, in qualsiasi modo, divenire strumento dell´altra". Nel mentre esercita il suo potere di fare giustizia, lo Stato italiano ha diritto di pretendere che siano rispettate la sua indipendenza e la sua sovranità perché, in un caso come questo, così vuole la sua Costituzione. Siamo, dunque, di fronte ad una violazione grave che, in governanti forniti di un minimo senso dello Stato, avrebbe dovuto determinare una immediata e ferma risposta.
Se, guardando al di là di questo fondamentale aspetto di politica costituzionale, si considerano le argomentazioni adoperate, lo sconcerto, se possibile, cresce. Nulla del dibattito scientifico sull´idratazione e l´alimentazione forzata è degnato di una pur minima attenzione dalla posizione vaticana. Si tace colpevolmente dei risultati di una commissione istituita da Umberto Veronesi quand´era ministro; delle pazienti spiegazioni mille volte date da Ignazio Marino, mostrando come non corrisponda alla realtà clinica la rappresentazione di una "terribile morte per fame e per sete"; delle opinioni espresse, in tutto il mondo, da autorevoli studiosi. Vi è solo una invettiva, nella quale è vano scorgere le ragioni della fede e, dove, invece, compare un sommo disprezzo per l´intelligenza delle persone, evidentemente considerate del tutto ignoranti, incapaci di trovare le informazioni corrette in materie così importanti.
Non diversa è la linea argomentativa (si fa per dire) della critica a Obama, per l´annunciata volontà di consentire il finanziamento delle ricerche sulle cellule staminali embrionali con fondi federali. Cito solo una frase pronunciata ieri dal cardinale Barragan. "Gli scienziati lo dicono chiaramente: fino adesso le cellule staminali embrionali non servono a nulla e finora non c´è mai stata una guarigione". Ma la ricerca scientifica serve appunto a far avanzare le conoscenze, a scoprire opportunità fino a ieri sconosciute, a far diventare utile quel che ieri non lo era, a lavorare perché siano possibili guarigioni oggi fuori della nostra portata. Proprio per questo gli scienziati fanno esattamente l´opposto di quel che ci comunica il cardinale. Ricercano intensamente, esplorano nuove strade, ricevono finanziamenti dall´Unione europea ed è bene che li ricevano anche dall´amministrazione americana, perché la ricerca finanziata da fondi pubblici è più libera, sottratta ai possibili condizionamenti del finanziamento privato (chi vuole informarsi ricorra al recentissimo libro di Armando Massarenti, Staminalia, Guanda, Parma 2008).
Scrivo queste righe con gran pena. Conosco e pratico un mondo cattolico diverso, anche nelle sue gerarchie, aperto al mondo e ai suoi drammi, che accompagna con intelligenza e cristiana pietà. E´ questo il mondo che può darci il necessario dialogo, negato ieri da una cieca e inaccettabile chiusura.

Repubblica 12.11.08
Englaro
Il padre: la Chiesa dica ciò che vuole ormai io so qual è la mia strada
di Piero Colaprico


"Resisto e basta, non rispondo più a nessuno, chiedo solo di uscire di scena"
"Credo allo stato di diritto, alla fine gli unici che mi hanno dato retta sono i magistrati"

ROMA - La Corte si è ritirata in camera di consiglio e Beppino Englaro invita per una veloce colazione gli avvocati. Non vuole interviste, ma non c´è alcun patto da violare: questo papà, nell´attesa di una «parola giusta», a sua volta ha consumato le sue parole. «Resisto e basta, mi rasserena un po´ ? dice ? aver fatto tutto il possibile e alla luce del sole e se poi sto male non mi va di dirlo in giro. E non rispondo al Vaticano, non rispondo a nessuno, ognuno dica quello che vuole, ormai io la mia strada so qual è e la percorro con la coscienza pulita, con la voce più limpida che posso, con il totale rispetto di quello che voleva mia figlia Eluana», ripete.
Ed è, poco o tanto che sia, tutto qui, perché bisognerebbe, in effetti, essere dotati di un immenso vocabolario; oppure essere molto stupidi, per disporre sempre di parole appropriate quando da più di dieci anni si esprimono, con pudore, gli stessi sentimenti. Il pudore c´è anche nei rapporti umani di Beppino, che dà (ancora) del lei all´avvocato Vittorio Angiolini, che gli siede di fronte. Dà del lei al professor Carlo Alberto Defanti, che telefona da Bergamo per capire meglio la situazione. Beppino scherza con Franca Alessio perché è la curatrice legale di sua figlia Eluana. Ed è la donna che ha detto anni fa, dopo un´inchiesta: «Sì, Beppino, hai ragione a chiedere di lasciarla morire». Ogni cinque minuti squilla il telefono e c´è qualcuno che chiama per un´intervista: «No, grazie, lasciatemi uscire di scena, no, a Barragan ho già risposto su Micromega, vi passo gli avvocati», replica.
Poco prima, nel palazzaccio di via Cavour, aveva ascoltato le parole dei magistrati con un´attenzione da scolaro. Una spiegazione di questo atteggiamento c´è: «Io ? dice Beppino ? credo allo Stato di diritto e alla fine gli unici che mi hanno dato retta, tra ricorsi e controricorsi, dicendo ogni volta che cosa era e che cosa non era consentito per Eluana, sono stati i magistrati, solo loro». La sua causa è la numero 37. Prima sono sfilati avvocati a decine, in questa aula magna dalla pessima acustica e dal magnifico lucernario. Quando tocca ai suoi, si siede in prima fila. Giacca blu, camicia a righe, senza cravatta, si china e non vuole perdere una sillaba: nelle parole che ascolta c´è un enorme pezzo della sua vita, ma anche ? è così davvero ? la sua sete di sapere giuridico. Il professor Angiolini parla a braccio, spiega perché «non sussiste» il ricorso della procura e ricorda come la stessa Cassazione ritenga sufficiente un «accertamento prognostico» dell´irreversibilità dello stato vegetativo.
Lancia poi un segnale di pericolo: se passasse l´idea di lasciare il paziente nelle mani del medico si finirebbe, ipotizza, in un «accertamento perenne», mentre su un punto la giurisprudenza non transige: «Non ci può essere un altro che prolunga la vita se il paziente non vuole». Il papà vorrebbe restare inespressivo, ma è il concetto di «accertamento perenne» che lo fa sobbalzare.
È andata così, con la non-vita o non-morte di Eluana, con quello che è o come la si vuole definire: Eluana in un letto perenne, con il sondino perenne, con un´assistenza perenne che lei, la figlia, non avrebbe mai accettato. Il professore, che è cattolico, conclude i suoi sette minuti citando anche la parabola di Lazzaro, mentre l´avvocato Alessio parla appena due minuti. Tanti gliene bastano per definire «del tutto impietoso rispetto ad Eluana Englaro» l´opporsi alla fine delle cure: «È ora ? dice ? di lasciarla andare».
Che cosa sosterrà adesso il procuratore generale? Englaro sembra perforarlo con gli occhi, come se volesse leggergli il pensiero. Il magistrato esordisce con grande chiarezza: «Inammissibile per difetto di legittimazione». Englaro resta come in trance finché l´assistente dell´avvocato Alessio, Lella Creti, non gli dà una leggera gomitata e gli sorride. Il papà di Eluana ricambia, ma torna a non muovere un muscolo. Ascolta le tante ragioni giuridiche, sussulta quando nonostante le premesse sente dire che comunque «se si ammettesse» il ricorso della procura, allora andrebbe limitato alla sola parte che riguarda l´irreversibilità dello stato vegetativo.
È uno dei pochi argomenti che Beppino, all´uscita, commenta con i legali: «Certo che Eluana è irreversibile, io e mia moglie abbiamo contato i giorni e se ci fosse stata una minima possibilità sarebbe emersa». Ma non è emersa. Mai e, mentre il telefono continua a squillare, il papà torna a Lecco. Andrà a parlare con la suora che accudisce la figlia: con la religiosa che, ogni volta che lo vede, gli offre dell´acqua fresca e non gli chiede niente.

Repubblica 12.11.08
Staminali e aborto, stop a Obama
Il cardinale Barragan: "Il no alle sperimentazioni vale per tutti"
La Chiesa e l´America
di Marco Politi


È il primo segnale di scontento nei confronti del nuovo staff statunitense

CITTÀ DEL VATICANO - La Chiesa avverte Obama: no alla liberalizzazione della ricerca sulle cellule embrionali staminali.
E´ il primo segnale di scontento vaticano all´annuncio dello staff del presidente eletto di voler cancellare norme ideologiche introdotte a suo tempo dal presidente Bush. Il no all´utilizzo degli embrioni, ha dichiarato il cardinale Lozano Barragan presidente del Consiglio pontificio per la pastorale della Salute, «vale per tutti» e quindi anche per gli Stati Uniti. Il porporato ha proseguito, ribadendo che la questione va esaminata in base ai risultati scientifici concreti. «Gli scienziati lo dicono chiaramente, finora le cellule staminali embrionali non servono a nulla e finora non c´è mai stata una guarigione». Invece risultati positivi sono stati raggiunti utilizzando cellule prelevate dal cordone ombelicale.
In ogni caso Barragan ha ribadito le obiezioni morali alla sperimentazione con le cellule embrionali. Verrebbe colpito il diritto alla vita e la dignità dell´embrione, che per il Vaticano ha già lo status di persona umana.
Un´altra questione che preoccupa il Vaticano all´indomani delle presidenziali americane è la posizione pro-choice, cioè a favore della libertà di aborto, di Obama e della sua squadra. Il futuro presidente riprenderà con grande probabilità a concedere finanziamenti federali alle organizzazioni non governative che nel Terzo Mondo si battono per l´aborto legale «sano e sicuro».
E tuttavia la Curia vaticana sta ancora studiando gli effetti della grande svolta, ben consapevole della grande massa di cattolici, che hanno votato per Obama e il suo programma, incuranti delle posizioni minoritarie di alcuni vescovi come quello di Kansas City, intenzionato a impedire un voto in suo favore (perché pro-aborto) agitando persino il fantasma dell´inferno. Per la Santa Sede sarebbe un autogol mettersi frontalmente contro un presidente che suscita tante speranze in patria e riscuote plauso internazionale.
La prudenza del Vaticano si riflette in un articolo apparso pochi giorni fa sull´Osservatore Romano e dedicato alle riflessioni di un cattolico doc: Carl Anderson, capo dei Cavalieri di Colombo. Anderson (rimuovendo a priori il tema di un contraddittorio tra Vaticano e il futuro inquilino della Casa Bianca) ha messo l´accento sulla responsabilità dei cattolici americani nella nuova fase politica. E´ urgente, ha rilevato, che i cattolici siano più «assertivi» nei confronti della futura amministrazione per quanto riguarda le grandi questioni della vita, della famiglia, del matrimonio: "I cattolici devono chiarire cosa sono questi valori e prender posizione in maniera forte sulla necessità che i maggiori partiti li riflettano". Solo così, conclude Anderson riferendosi esplicitamente anche alla questione dell´aborto, si può arrivare ad un cambiamento della società e delle sue tendenze.
Per il capo dei Cavalieri di Colombo vi sarebbe negli Stati Uniti una maggioranza disposta di fatto a restringere le opzioni per l´interruzione di gravidanza.
La conferenza episcopale americana, riunita in assemblea plenaria, ha già iniziato a chiamare a raccolta i fedeli. Il presidente cardinale Francis George, pur elogiando il significato simbolico e storico dell´elezione di Obama, ha sottolineato che «il bene comune non può mai incarnarsi adeguatamente in una società, quando coloro che attendono di nascere possono essere uccisi legalmente». Difesa della vita e della dignità di ogni essere umano saranno al centro dell´attività pastorale della Chiesa statunitense nei prossimi anni. I cattolici, ha lamentato il cardinale, non sono ancora «considerati pieni partner nell´esperienza americana, a meno di essere disponibili a mettere da parte qualche insegnamento della Chiesa sulla morale o sulla politica». In questo senso ha rivolto un appello bipartisan ai politici cattolici perché agiscano «in piena comunione con la Chiesa».
Va detto peraltro che l´episcopato statunitense ha tradizione di non essere partigiano, perché capace di confrontarsi o criticare presidenti sia repubblicani che democratici.

Repubblica 12.11.08
James Martin, condirettore della rivista cattolica "America": vicini solo su no alla guerra e lotta alla povertà
"Tra la nuova Casa Bianca e il Vaticano la collisione era già annunciata"
di Alix Van Buren


D´altra parte la conferenza episcopale era stata chiara e aveva invitato a non votarlo

Il rapporto fra il Vaticano e il presidente-eletto Obama sembra volgere a burrasca se è vero che la Conferenza episcopale americana s´è riunita in queste ore per meditare l´approccio con la Casa Bianca, fautrice di nuove libertà in fatto di aborto e di cellule staminali. Padre James Martin, gesuita, condirettore di America, una delle riviste cattoliche più popolari d´oltreoceano, non è affatto sorpreso: «Che la Chiesa cattolica e Obama siano avviati verso una rotta di collisione è quasi scontato. Del resto la politica di entrambi era chiarissima già durante la campagna elettorale».
E qual era, reverendo padre Martin?
«Obama aveva esplicitate le sue posizioni fin dall´inizio: chi avesse voluto leggerle poteva andare sul suo sito online. Quanto ai vescovi, un anno fa avevano prodotto un documento rivolto ai cittadini americani con linee guida rigorose riguardo all´aborto e alla ricerca sulle cellule staminali. L´aborto era una linea invalicabile, e per questo erano intervenuti con forza chiedendo di non votare Obama».
Così tramonta la luna di miele che s´era instaurata fra l´Amministrazione Bush e Papa Ratzinger?
«Dipende da quale di due versanti prevarrà. Infatti per un lato le posizioni di Obama e della Chiesa cattolica si sovrappongono, e penso alla lotta alla povertà, all´avversione alla guerra, al desiderio di riannodare i rapporti con la comunità internazionale, alla vicinanza personale del presidente-eletto agli insegnamenti della Chiesa. Dall´altro lato, però, sul principio della vita né il Vaticano né la Conferenza episcopale americana vorranno scendere a patti».
Il voto cattolico ha privilegiato la piattaforma di Obama, anziché il richiamo dei vescovi. S´è creata una frattura anche nella Chiesa americana?
«Io non parlerei di frattura. E´ vero: solo i più praticanti hanno ascoltato i vescovi e votato per McCain, mentre i più liberali della East Coast hanno seguito l´indicazione dei Kennedy a favore di Obama. Però alla fine è prevalso un altro fattore: il portafoglio, la crisi economica. Le questioni di bioetica nelle urne sono divenute marginali».

il Riformista 12.11.08
La Chiesa e il Dio di Obama
Così la Costituzione americana tiene Dio al suo posto
di Claudia Mancina


Obama ha ottenuto il consenso anche della maggioranza dell'elettorato cattolico, come non era riuscito a Kerry, perché evidentemente la sua proposta politica ha convinto, al di là delle barriere etiche e religiose

Uno degli aspetti più interessanti dell'elezione del nuovo presidente americano è quello relativo al voto dei cattolici. Nonostante la freddezza delle gerarchie e l'esplicita sconfessione del candidato alla vicepresidenza, il cattolico Joe Biden, per le sue posizioni pro-choice, il ticket democratico ha raccolto tra i cattolici la stessa percentuale che ha raccolto sul voto generale: il 53%. Merito (o colpa) della grave crisi economica, certamente. Ma forse anche segno di una certa stanchezza nei confronti dell'estremismo etico di cui il presidente uscente si è fatto portatore. Non ci sarebbe in fondo niente di strano se al congedo dalle posizioni più conservatrici dei repubblicani si accompagnasse anche il congedo dalle posizioni più di destra in campo etico. In questo senso, a quanto sembra, andranno i primi passi del nuovo presidente.
Tra le varie voci uscite dal suo staff, infatti, c'è quella di alcuni interventi (addirittura duecento, si è detto) intesi ad abolire provvedimenti legislativi presi da Bush. Tra questi, quello che ha vietato il finanziamento federale alla ricerca sulle staminali embrionali, e provvedimenti restrittivi sull'aborto. La notizia ha già sollevato preoccupazioni tra i vescovi americani e in Vaticano, dove il rammarico per la fine dell'alleanza speciale con Bush sulle questioni della vita si è fatto anche troppo sentire: il Vaticano non ha partecipato alla grande emozione del mondo intero per l'elezione del primo presidente di colore, ma si è posto in attesa. A differenza dei cattolici americani, che hanno investito su Obama pensando evidentemente che le sue dichiarazioni a favore della libertà di scelta, e per l'impegno a eliminare le cause sociali dell'aborto, definissero una posizione etica accettabile.
Non possiamo sapere adesso se Obama prenderà davvero questi provvedimenti. Ma se lo farà, entrerà in contraddizione con le sue ripetute affermazioni di voler essere non-partisan, di voler superare le divisioni di partito e unire gli americani? Come ha osservato Vittorio Emanuele Parsi sulla Stampa, non c'è contraddizione, ma anzi un riequilibrio al centro: erano i provvedimenti di Bush a essere estremisti, perché traducevano in legge le convinzioni proprie della destra religiosa più conservatrice. Nel suo complesso il voto per Obama, che si accompagna alla bocciatura dei matrimoni gay in California, esprime una collocazione centrale e moderata dell'elettorato, che probabilmente si rifletterà nelle scelte del nuovo presidente. Ciò che è interessante per noi è che queste considerazioni attraversano pacificamente anche l'elettorato cattolico. Il che dimostra che è la politica, e solo la politica, a definire il peso politico comparativo delle scelte etico-religiose. Bush era riuscito a saldare alla sua coalizione la destra religiosa, perché la sua proposta politica appariva convincente a questa porzione di elettorato. Obama ha ottenuto il consenso anche della maggioranza dell'elettorato cattolico, come non era riuscito a Kerry, perché evidentemente la sua proposta politica ha convinto, al di là delle barriere etiche e religiose. Questo voto mette in questione proprio la supposta affinità tra cattolici e destra evangelica: un punto sul quale forse il Vaticano farebbe bene a riflettere.
Queste considerazioni hanno delle implicazioni anche riguardo a un altro tema molto trattato in questi giorni: quello della presenza di Dio nella politica americana. Una presenza certamente molto forte; ma non si può dimenticare che essa è l'altra faccia dell'assenza di una religione ufficiale e della separazione di Stato e Chiese, sancita fin dal Primo emendamento del 1791. Solo a queste condizioni è possibile il riferimento a Dio con un ruolo essenziale nel discorso pubblico, e quindi quella particolare laicità, non aggressiva, non escludente, che è tipica della sfera pubblica americana e molto diversa dalla laicità europea.
Ernesto Galli Della Loggia ha sostenuto che la forza dell'America sta nel guardare a Dio come fonte di speranza indomita, secondo la promessa biblica. Ma ascoltiamo la prima frase del discorso di Chicago: «Se c'è ancora qualcuno che dubita che l'America sia un luogo dove tutto è possibile, che ancora si chiede se il sogno dei nostri Fondatori sia vivo nella nostra epoca, che ancora mette in dubbio la forza della nostra democrazia, questa notte è la vostra risposta». La vera eccezionalità americana sta nel miracolo di una nazione - peraltro multietnica e multiculturale - che ancora si riconosce nella sua Costituzione vecchia di più di duecento anni, e trova in essa una ispirazione intatta per riorganizzarsi, per ripartire, per reinterpretare i propri valori fondamentali.
La forza della democrazia americana non è nel richiamo a Dio: è nel richiamo alla Costituzione, che dà anche a Dio il suo posto.

l’Unità 12.11.08
Liberazione sciopera. L’editore vuole tagliare mezza redazione


ROMA Sciopero a «Liberazione»: oggi il quotidiano di Rifondazione non è in edicola per protestare contro il piano di ristrutturazione annunciato dalla società editrice, «che prevede un taglio di 'oltre la metà del costo del personalè e non sana la situazione dei precari», denuncia in una nota il comitato di redazione. I lavoratori erano in attesa dell’avvio delle trattative da parte dell’editore , ma la proprietà (il partito azionista unico) ha presentato il piano che dimezza la redazione. Piano che la direzione (il segretario Ferrero) avrebbe confermato oggi. Così l’assemblea ha deciso per il terzo sciopero. I lavoratori vogliono «chiarezza» e rifiutano il «tentativo di far ricadere sulle loro spalle i costi delle difficoltà economiche e anche degli errori gestionali».
Solidarietà ai colleghi dalla Fnsi, da Stampa Romana e dal Cdr de l’Unità.

l’Unità 12.11.08
Il governo abbassa i sipari
Zero fondi, lo spettacolo chiude
di Luca Del Fra


Il ministro della cultura Bondi incontra i rappresentanti dei maggiori teatri lirici italiani, sotto accusa per le spese eccessive: un diversivo per nascondere i tagli che metteranno in ginocchio il settore spettacolo.
Lo spettacolo va incontro a una crisi di tali proporzioni che il caso Alitalia a confronto rischia di impallidire. Il governo Prodi per il 2008 aveva stanziato per finanziamenti (Fus, il Fondo unico per lo spettacolo) circa 560 milioni di euro, forse scarsi rispetto all’inflazione, ma appena entrato in carica il governo Berlusconi ha ridotto questo fondo a 380 milioni per quest’anno e a 300 per il 2009. Le risorse dello Stato che sono vitali per cinema, teatro, musica, danza, spettacoli viaggianti, circhi e perfino le giostre crolleranno del 40% in meno di 19 mesi.
Di fronte a ciò il ministro dei Beni e delle attività culturali, tuona, strepita e incandesce: ma non per i tagli. È contro l’acuto spendaccionismo teatrale italiano Sandro Bondi: la colpa esimia è dei sindacati e delle orchestre, e lui minaccia la riforma, brandisce come una clava provvedimenti che hanno il lucore dell’urgenza. Sì, insomma, il solito decreto legge, da portare nei prossimi giorni in Consiglio dei Ministri, dopo aver ascoltato le parti sociali. Oggi incontrerà i sindaci e i sovrintedenti dei maggiori teatri italiani, le Fondazioni liriche, per cantargliele.
Ma la canzone, questa degli sprechi delle fondazioni liriche, non priva di fondamento, si è già sentita talmente tante volte da essersi trasformata da una mezza verità in una mezza bugia. Stavolta la fandonia è diventata completa e per rendersene conto basta leggere l’intervista a Bondi pubblicata da La Stampa il 5 ottobre scorso: «Accanto a lui (a Bondi) tenendo in mano tabelle di dati siede Salvatore Nastasi, suo capo di Gabinetto», scrive sul quotidiano torinese Sandro Cappelletto, che poi domanda di quali privilegi godano le orchestre dei grandi teatri italiani. Risponde sicuro Bondi: «I contratti delle Fondazioni lirico sinfoniche prevedono 16 ore di lavoro a settimana...». Peccato però che il contratto nazionale prevede non 16 ma 28 ore di lavoro per settimana! Lecito chiedersi che razza di carte gli abbia passato il suo capo Gabinetto. Bondi in verità sembra ispirarsi alla riedizione di Mariastella Gelmini delle «armi di distrazione di massa»: di fronte ai tagli di Tremonti, il ministro dell’Istruzione millanta una riforma della scuola, mentre quello della cultura, che è anche poeta, se la prende con lo spendaccionismo e minaccia provvedimenti; se nei mesi estivi corsivisti e seriosi pedagoghi hanno decantato croci e delizie del grembiule, del 5 in condotta e del maestro unico, oggi sulla lirica i giornali discettano se sia giusto o mettere in scena un troppo costoso Parsifal.
GROTTESCHI ESCAMOTAGE
Nelle 13 fondazioni lavorano 4.673 dipendenti: dai 226 di Santa Cecilia (Roma) ai 729 della Scala. Il costo medio varia dai 76mila euro l’anno a Santa Cecilia ai 49mila del Carlo Felice di Genova. Cifre lorde. Non da capogiro. Il movimento degli studenti, con genitori e insegnanti, ha messo al centro dell’attenzione come dietro le mentite spoglie della riforma Gelmini si nascondessero tagli che riporteranno la scuola indietro di 50 anni, ma per ora nessuno ha chiarito come stanno realmente le cose con le attività culturali. I sindacati protestano, i sindaci e i sovrintendenti dei teatri marciano in ordine sparso, quando non battibeccano tra loro a mezzo stampa, come ha fatto Marco Tutino, del Comunale di Bologna contro Francesco Ernani dell’Opera di Roma. Lo stesso sindaco Sergio Cofferati è intervenuto nel dibattito, ma a Bologna hanno buoni motivi per essere nervosi, il loro teatro potrebbe essere il prossimo a subire il commissariamento: il quinto in pochi anni, a causa dei dissesti provocati dai tagli ai finanziamenti operati dal precedente governo Berlusconi (2001-2006). La pseudoriforma della lirica per decreto minacciata da Bondi non solo è sbagliata nei presupposti, ma è un grottesco escamotage per coprire un nuovo taglio a tutto il settore. Una decurtazione che non ha pari in nessun settore produttivo nella storia dell’Italia repubblicana. Più volte Bondi ha dichiarato di voler impiegare i fondi del ministro per i siti archeologici, ma se la sua pseudoriforma andrà in porto dello spettacolo non resteranno che rovine, come quelle a Pompei.

Ieri i lavoratori del Maggio fiorentino hanno protestato per le vie della città e alla Pergola. Anche a Torino il teatro Regio sarà aperto tutto domani per protesta. Domani sempre nella capitale appuntamento dei sindacati confederali al Teatro Valle contro la «smobilitazione del settore culturale». Parteciperanno la danza, la prosa, l’audiovisivo e la musica.

Dopo aver fatto saltare ieri l’audizione in commissione cultura del Senato, il ministro Sandro Bondi oggi incontra i sovrintedenti e i sindaci delle città dei maggiori teatri lirici italiani. Domani sarà invece la volta dei sindacati. In preparazione provvedimenti urgenti per far fronte ai tagli ai finanziamenti allo spettacolo operati dal ministro Giulio Tremonti.

l’Unità 12.11.08
La lunga notte dei Cristalli aveva il sorriso dei nazisti
di Toni Jop


Settant’anni dopo, nella Nuova Sinagoga di Berlino, è stata allestita una mostra fotografica sulla «Notte dei Cristalli». I nazisti colpirono oltre mille siti e deportarono 30mila ebrei. Sarà aperta fino al primo marzo.
Bisogna vederla, perché è un’esperienza dell’anima questa massa di mattoni rossastri scura, scavata, sfilata, enorme, severa come chi o cosa non ha avuto, dall’esistenza, chance diverse da una dolorosa introversione. Così, la Sinagoga Nuova di Berlino risuona come un «mi-basso» continuo in Oranienburgerstrasse; e, non bastassero la sua stazza, la sua capacità di assorbire la luce della strada, sopporta anche oggi paziente un piccolo assedio: polizia e steccati, misure di protezione, atroce poesia di una cautela che marca tempi nuovi e insieme condizioni di rischio ancora in vita. Settant’anni dopo il rogo che la svuotò ma non la distrusse, nonostante la necessità che venisse cancellata dalle fiamme accese dai criminali nazisti nel corso di quella terribile notte graziata da un bellissimo nome, «La notte dei cristalli». La notte in cui migliaia di siti con la stella di David furono aggrediti in tutto il territorio tedesco in una sorta di battesimo ufficiale della tragedia totale che sarebbe seguita. Settant’anni dopo, c’è una modesta, silenziosa coda che supera lentamente i metal detector, le perquisizioni d’ingresso alla grande sinagoga. Tira un’aria gentile, spettina i capelli, vorrebbe piovere. Gruppi di ragazzi italiani, cittadini tedeschi, spagnoli, francesi e altro alzano le braccia per lasciarsi perquisire, depositano gli oggetti nella vaschetta, proprio come all’aeroporto. Ma qui non siamo all’aeroporto. Non manca il motivo, è evidente; il problema è che il motivo c’è ed è questo movente che rubrica male i nostri tempi. Esiste un «dopo», oppure siamo sempre pericolosamente allo stesso punto? Intanto, rivediamo il passato: in una sala del pianoterra è stata allestita una mostra fotografica, immagini di allora, di quella notte, dei roghi che hanno acceso le piazze della Germania nazista. Non solo fuoco e macerie, anche corpi di uomini e donne, vivi ma trascinati per strada con la stella di David al collo, spesso in numeroso corteo obbligato dalle guardie naziste. E la gente che, attorno, guarda e guarda. Non siamo all’epilogo, alle immagini dei corpi straziati nei campi, questa «cerimonia» punta per ora allo spirito degli ebrei tedeschi, vuole cancellarne ogni eventuale «presunzione» di dignità. Il tutto viene raccontato chiedendo al visitatore di compiere un piccolo sforzo: puoi fermarti alla lettura di una gigantografia sgranata che dice di fiamme e muri sgretolati dal calore, ma se ti avvicini, se fai scivolare lo sguardo in una fessura che solca l’immagine grande, ecco che metti a fuoco un percorso di «scatti» che inseguono quel sincronismo industriale con cui i nazisti operarono la distruzione nell’arco di poche ore. E i fatti sono loquaci, soprattutto sono i volti degli interpreti che raccontano le storie di quella notte. Se si vuole, si possono anche ascoltare le voci dei testimoni diretti, voci registrate: basta tirar su quei telefoni legati alle colonnine e stare a sentire. Ma è dura. Torniamo a quei volti fotografati perché c’è qualcosa che non torna, soprattutto in ciò che emerge al di sopra delle divise dei carnefici, sopra il collo delle camice grige. Non torna quell’aria da scampagnata cameratesca che cementa le espressività degli agenti con la croce uncinata al braccio. Spesso sorridono, a volte magari sanno di essere inquadrati dall’obiettivo, ma il più delle volte non è così e sorridono mentre trascinano uomini e donne con cognomi ebrei per la strada, giusto per mostrare al «popolo» quanto siano bestie indegne e niente umane. Lo stanno facendo oppure lo hanno fatto da poco. C’è una coppia di immagini meravigliose, datate Erlangen, 10 novembre 1938; uno scatto ferma accanto a una casa un gruppo di ebrei rastrellati, volti degni, bellissimi tristi e cari come la facciata severa della Sinagoga; accostata, una graziosa foto di gruppo di nazisti inebetiti e sorridenti. Perché sorridono a quel modo? Forse perché non si può chiedere a nessun essere umano di fare quel che stanno facendo loro senza farlo pagare con la perdita della sensibilità, dell’intelligenza, dell’amore per sé. E forse quel ghigno senza speranza è proprio il segno di un bliglietto pagato: corpi vuoti, cervelli sbiaditi, cuori bruciati, quel che resta di un uomo se gli succhi l’anima. A quel punto conviene sorridere, non hai alternative, come la Sinagoga che non ha alternative alla sua severità. Se poi rifletti sul fatto che questa storia, questa morale, questa diagnosi deve per forza essere difesa dai poliziotti e dai metal detector in via in Via Oranienburger Strasse nel novembre del 2008, devi accettare di subire un modesto cortocircuito. Cosa manca, allo scopo di raggiungere quel sorriso vuoto, a quei ragazzi che in Italia hanno minacciato giornalisti e famiglie accusati di aver mostrato i loro volti durante un raid violento? Il problema è come uscirne, ancora.

Repubblica 12.11.08
Bertinotti fa l´elogio di Fanfani "Fu un pioniere degli anti-global"


ROMA - «In un momento in cui il capitalismo finanziario globalizzato rivela la sua crisi, la lezione politica di Amintore Fanfani potrebbe essere una guida politica del nostro tempo». Ne è certo Fausto Bertinotti, che colloca Fanfani nel Pantheon dei pensatori anti-globalizzazione. Sala della Lupa di Montecitorio, storici e politici alla tavola rotonda per discutere di «Fanfani alla Costituente». Padroni di casa il presidente della Camera Gianfranco Fini e il suo predecessore Bertinotti, presidente della Fondazione Camera. L´ex leader di An traccia il profilo «del politico di razza» e sottolinea l´attualità del suo pensiero economico «anche nei G8 di oggi». Ma a tessere a sorpresa l´elogio dello statista democristiano citando a più riprese il suo «Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo», scritto da Fanfani nel 1934, è anche l´ex leader del Prc. «Ho provato con molti miei conoscenti a leggere dei brani di quel libro senza dire da chi fosse stato scritto - racconta Bertinotti - Tutti hanno pensato che fosse un testo scritto in questi anni, a ridosso della crisi del capitalismo globalizzato».

Repubblica 12.11.08
Antonio junior a Mosca ha rinvenuto un pacco di missive dal carcere mai recapitate
Il nipote di Gramsci e le lettere ritrovate "Quante bugie anticomuniste sul nonno"
di Umberto Rosso


Presentato il libro sull´album familiare del fondatore dell´Unità

ROMA - Però non ha ancora detto una parola su Berlusconi... «Politica italiana? Mica ne so tanto. Posso dire solo che in Russia la battuta su Obama abbronzato è piaciuta molto, soprattutto alle signore, ha fatto proprio divertire». Per uno che di nome fa Antonio, e di cognome Gramsci, sia pure accompagnando il tutto con un pudico junior, non è male. Come a dire: a Gramsci Berlusconi fa ridere. Giunto all´età di 43 anni, nella sua Mosca, sopraffatto alla fine da cotanta storia familiare, ha deciso che era giunto il momento di mettersi di persona a rovistare nei cassetti e nei bauli del nonno, «quante carte, ma un pacco là, uno qua, che disordine».
Dopo un anno, "junior" è riemerso con un fascio di lettere inedite e un giallo: missive scritte in carcere da nonno Antonio, alla fine degli anni Venti, e mai arrivate nelle mani dell´adorata destinataria, e cioè la moglie Giulia Schucht che da Mosca combatteva contro il fascismo ma anche coi fantasmi della sua malattia. Bloccate a metà strada dalla gelosia della sorella Tatiana? Intercettate dalla rabbia dell´altra sorella, Eugenia? O invece dirottate da qualche manona politica (dal Comintern a Togliatti, all´epoca ampia scelta) piuttosto che dai triangoli amorosi?
Gramsci junior promette di scriverci un secondo libro sul mistero delle lettere mai recapitate, per il momento ce n´è un assaggio in questo suo primo che ruota invece sulla saga di una dinastia borghese e comunista. «La Russia di mio nonno. L´album familiare degli Schucht», edito dalla Fondazione Gramsci, in vendita anche con L´Unità, presentato a Roma insieme ad Oliviero Diliberto, segretario del Pdci, «il partito che in Italia sta dalle parte delle masse operaie, e scusate se parlo che sembro Breznev», ride il piccolo Antonio incespicando un poco nel suo italiano. Gramsci junior, figlio di Giuliano (il secondogenito di Antonio), e come il padre musicista, con il comunismo non ha rotto: in tasca la tessera del partito di Zuganov, e molta poca simpatia per Putin: «Nella Russia contemporanea del capitalismo selvaggio, comincio a comprendere meglio le speranze rivoluzionarie dei miei familiari».
Architrave, conseguente, del libro: quante bugie anti-comuniste su mio nonno. Falso che sia stato abbandonato al suo destino dall´Urss, «l´hanno sempre sostenuto economicamente, attraverso la zia Tatiana, pagando anche i costosi ricoveri alla clinica Quisisana a Roma». Falso che sia morto avvelenato, come ha scritto anche la sorellastra Olga, che vive in Svezia, «sempre a caccia di falsi scoop». Falso che nonna Giulia fosse una spia di Stalin, «come ha perfino riportato Bruno Vespa». Falso che il bisnonno Apollon lamentasse l´occhiuto controllo del regime sovietico, «una frase estrapolata ad arte, io ho recuperato il testo originale».
E la feroce polemica della sua famiglia contro Togliatti, gli appelli, le inascoltate suppliche a Stalin perché non finissero sul tavolo del Migliore tutte le carte del nonno? «Faccio il biologo, oltre che il musicista. Perciò, come uno scienziato ho cercato di costruire il libro. Senza schierarmi da una parte o dall´altra». Pausa. «Certo che però...». Però? «Come politico fece bene, Togliatti, ad accentrare tutti gli scritti di nonno. Ma quante sofferenze provocate in famiglia. Come quella volta che senza permesso fece rovistare nell´archivio a Roma di zia Tatiana. Più gentile, poteva esserlo».
La saga, con tutta la sua coda infinita di polemiche storiche, può continuare. Con una sola eccezione. Basta con gli Antonio o le Giulia. «Mio figlio l´ho chiamato Tarquinio. Mia figlia Galatea. Perché? Ho una passione sfrenata per gli etruschi».

Repubblica 12.11.08
Il parere dei periti psichiatrici del Tribunale di Bologna
"La Franzoni può compiere gesti violenti niente visite ai figli fuori dal carcere"
di Paola Cascella


BOLOGNA - C´è il rischio che Anna Maria Franzoni possa compiere nuovi gesti violenti. La sua incapacità di controllare gli impulsi e di gestire le emozioni sono indicatori di pericolo. Attualmente non soffre di patologie mentali di alcun genere, ma in situazione di particolare disagio, probabilmente ripeterebbe un gesto d´impeto.
Sono le conclusioni dei periti psichiatrici Renato Ariatti e Giovanni Camerini, incaricati dal giudice di sorveglianza di valutare la capacità genitoriale di Anna Maria Franzoni che a luglio ha chiesto di usufruire dei domiciliari, o comunque di incontri all´esterno del carcere con i figli Davide e Gioele. Attenzione, scrivono i consulenti nella loro relazione di una settantina di pagine. Attenzione prima di tutto per il rischio di recidiva, documentato da specifici test. E poi perché comunque Anna Maria, pur essendo una madre affettuosa, attenta e molto ben organizzata nella cura dei suoi bambini, mostra una totale negazione del suo coinvolgimento nel caso che l´ha portata alla ribalta: l´omicidio del figlio Samuele, nel 2002 a Cogne. «Sono vittima dell´accanimento giudiziario», dice di sé. Minimizzando o banalizzando i disturbi di cui soffriva in quel periodo, come attacchi di panico e ansia per cui lei stessa chiese di essere portata in ospedale. Sostenendo poi di non aver avuto nessun disagio psichico: «In ospedale ci si va anche per rilassarsi».
Per i periti è incapace di autocritica e priva di consapevolezza in relazione al funzionamento dei propri meccanismi psicologici. La richiesta di Franzoni era comunque in salita. L´alt è venuto dal presidente del Tribunale di Sorveglianza Franco Maisto: la legge stabilisce che la detenuta abbia scontato un terzo della pena. Anna Maria condannata a 16 anni, è in carcere da maggio.

Corriere della Sera 12.11.08
Biologia Lewis Wolpert svela una conseguenza dell'evoluzione, e il funzionamento, del nostro cervello
Impossibile non dirci creduloni
La mente umana è istintivamente frettolosa nel trarre conclusioni e tende sempre a considerare come vero quello che le piace di più
di Edoardo Boncinelli


Qualche anno fa si diffuse fra gli adolescenti la moda di un gioco di ruolo chiamato Dungeons & Dragons. I ragazzi si riunivano in gruppetti più o meno fissi che giocavano con una certa frequenza. Ad un certo momento si affacciò negli Stati Uniti la preoccupazione per gli effetti di questo gioco. Si registrarono infatti 28 suicidi fra i suoi praticanti abituali. Messa in questi termini, la preoccupazione sembra fondata. Se si considera però il quadro complessivo, si vede che non c'è probabilmente niente di cui preoccuparsi. Il fatto è che il tasso di suicidio medio tra gli adolescenti statunitensi è di 1 su 10.000 e poiché i praticanti abituali di tale gioco erano all'incirca tre milioni, il numero di suicidi attesi senza fare alcuna ipotesi aggiuntiva sarebbe di 300, una cifra ben superiore a 28. L'errore nasceva dal limitarsi a una rilevazione superficiale, senza considerare il quadro di riferimento complessivo, e questo tipo di omissione è alla base di un numero incredibile di errori individuali e di miti metropolitani che caratterizzano la nostra epoca, in tutti i campi. Si tratta in sostanza di un giudizio frettoloso, peraltro a noi tanto caro.
La nostra mente è infatti istintivamente frettolosa. E ama saltare alle conclusioni sulla base di poche informazioni. Siamo fatti così, e tendiamo a comportarci in questa maniera anche quando qualcuno ci ha messo in guardia contro abitudini mentali del genere. Lo sappiamo da almeno un paio di decenni e molto si è detto e scritto su tale argomento. Molti bei libri trattano di questo tema dal punto di vista teorico, di come cioè ci inganniamo e ci lasciamo ingannare dalle apparenze e dalle circostanze, sulla base di una nostra innata propensione a valutare le cose in fretta e «all'ingrosso», fondandoci su informazioni insufficienti e su impressioni «istintive» e irriflesse. Non che non siamo capaci, all'occorrenza, di essere più avveduti e razionali, ma questo ci costa fatica e lo facciamo solo in un secondo momento e soltanto se riteniamo che sia proprio necessario. Si è anche parlato di due sistemi mentali che presiederebbero alle nostre valutazioni, e secondariamente alle nostre scelte. Un sistema 1, approssimato, superficiale, sempre pronto a scattare e a operare sotto spinte istintive ed emotive, e un sistema 2, più lento, riflessivo e ponderato, ma chiamato in causa solo raramente e comunque in un secondo momento.
Lontano da questi aspetti teorici e ricco invece di esempi e di aneddoti sui nostri abbagli delle più diverse specie è l'ultimo libro di Lewis Wolpert
Sei cose impossibili prima di colazione
(Codice Edizioni, pp. IX-209, euro 21), dove viene dispiegata e spiegata tutta l'umana credulità. Già dal titolo, che trae spunto da un brano di
Attraverso lo specchio dell'incredibile e impagabile Lewis Carroll. Ad Alice che afferma di non riuscire a credere a una cosa impossibile, la Regina Bianca dice: «Mi sembra che tu non abbia molta pratica. Alla tua età io mi esercitavo mezz'ora al giorno. Certe volte arrivavo a credere anche a sei cose impossibili prima di colazione».
Alla nostra innata approssimazione e frettolosità di giudizio si aggiunge anche l'universale propensione a credere a ciò che ci fa più piacere credere. Già Terenzio dice: «Tu credi in ciò che speri ardentemente» e gli fa eco Francesco Bacone: «L'uomo preferisce credere ciò che preferisce sia vero». Soprattutto si crede vero ciò di cui si è convinti. Le nostre convinzioni, o credenze — come le chiama l'autore — sono tra le cose alle quali siamo più affezionati e senza le quali, per dir la verità, non sapremmo vivere. E il nostro cervello non ce le fa certo mancare. Di tutto ci facciamo una convinzione, al punto che il grande neurobiologo Michael Gazzaniga ha potuto scrivere che «il nostro cervello è una macchina per produrre credenze» e qualcuno è arrivato a ipotizzare l'esistenza nella nostra testa di un vero proprio meccanismo «generatore di credenze».
«Una caratteristica comune delle credenze è il fatto che spiegano la causa di un evento o in che modo accadrà qualcosa in futuro». Ma che cosa sono effettivamente le credenze? Non è facile da dirsi. Se nel Settecento David Hume sentenzia: «Finora questo atto della mente non è mai stato spiegato da nessun filosofo», pure oggi non lo sapremmo dire con precisione, anche se siamo convinti del fatto che questa continua generazione di convinzioni è una delle esigenze più vitali della nostra mente, nel suo continuo sforzo di comprendere il mondo e di cercare di comportarsi nella maniera più appropriata. In parole povere, avere delle convinzioni è necessario e fondamentale per la sopravvivenza, anche se avere delle convinzioni sbagliate non è obbligatorio. Ma quali e quante sono le convinzioni sbagliate! Wolpert ne cita e ce ne illustra un numero enorme, da quelle sulle diverse cause dei fenomeni a quelle, perniciosissime e spesso ridicolissime, sulla salute.
L'autore, che si professa materialista e riduzionista, insiste particolarmente sulle false convinzioni a proposito dell'idea di causa e sulle più diffuse pseudospiegazioni dei vari fenomeni e conclude con Virgilio: «Felice è chi ha potuto conoscere le cause delle cose». Le cause vere ovviamente.

Corriere della Sera 12.11.08
Nel nuovo libro della scrittrice i tormenti del pittore veneziano sul letto di morte
L'ultimo rimorso di Tintoretto Una figlia sacrificata al genio
Melania Mazzucco: il segreto di Marietta, un profilo inedito dell'artista
di Paolo Di Stefano


Il nuovo romanzo di Melania Mazzucco, dopo i successi di Vita e di Un giorno perfetto, si può definire a tutti gli effetti un romanzo storico: un genere che la scrittrice ha già ampiamente frequentato. I moltissimi personaggi che vi compaiono hanno una loro attendibilità verificata sui documenti, così come gli ambienti interni e gli scenari aperti in cui essi si muovono. La lunga attesa dell'angelo racconta la vita di Jacomo Robusti, detto il Tintoretto: una vita, che percorre buona parte del Cinquecento, narrata da lui stesso, immobile a letto nei suoi ultimi quindici giorni di febbre e di insonnia (tra il 17 e il 31 maggio 1594), con una visionarietà spesso allucinata che prende la forma di una lunga confessione al Signore («Signore» è invocazione ricorrente). «Ho lavorato a questa storia per cinque anni — dice Melania Mazzucco — e anche l'ultimo barcaiolo di cui parlo è esistito davvero». La folla dei personaggi è sterminata: nobili, cortigiane, gioiellieri, medici, gondolieri, monache e frati, camerlenghi, attori, girovaghi, venditori ambulanti, ambasciatori, nani, ladri, pittori geniali e imbrattatele. Anonime comparse e protagonisti celebrati dalla storia. Come il duca di Mantova, Michelangelo e Tiziano, il grande rivale di Tintoretto. Prima di essere un romanzo storico,
La lunga attesa dell'angelo è però un romanzo sulla paternità, perché la dorsale della narrazione è il rapporto d'amore tra un padre e una figlia (illegittima): tra l'artista e Marietta (che diverrà artista a sua volta), concepita con la giovane tedesca Cornelia, una passione segreta e infelice. Anzi, si tratta di un romanzo su tante paternità quanti sono i figli del protagonista: quattro femmine (oltre a Marietta) e quattro maschi. Rispetto ai quali Tintoretto stabilisce una rete di relazioni diverse come sono diversissime le loro personalità e i loro caratteri.
«Una ventina d'anni fa mi sono imbattuta nella Presentazione della Vergine al Tempio, che si trova alla Madonna dell'Orto di Venezia. Rimasi turbata dalla bambina di spalle che si trova ai piedi della scala e alla quale sua madre indica Maria, in alto. Quel quadro lo chiamano l'architettura che cammina, perché è come se si mettesse in movimento». Intanto ha messo in movimento, in Melania Mazzucco, l'idea di un libro su Tintoretto: «Non sapevo nulla di Tintoretto e tanto meno di sua figlia Marietta. Un paio d'anni dopo ho avuto tra le mani una biografia di lei e ho scoperto che era diventato un mito, specie nell'Ottocento, e che il mito fu creato da suo padre». Marietta, a sua volta, coltiva il mito del padre, che è suo maestro di pittura e di vita, idolo vivente, con tutte le sue contraddizioni, al cui amore finirà per sacrificare la propria esistenza di donna socialmente anticonvenzionale e scandalosa: sarà Tintoretto a decidere per lei il marito, le passioni, la casa in cui abitare, persino il luogo in cui morire. Il padre possiede la vita della figlia, non per antico uso patriarcale ma per una spontanea e reciproca adesione elettiva: perché è vero che Marietta dipende intimamente da Tintoretto fino ad annullarsi in lui, ma è anche vero il contrario. La più amata è lei, la figlia illegittima, indomabile da tutti tranne che dal padre, che la vestiva da maschietto per permetterle di aggirare i divieti imposti alle donne. «È un amore totale, assoluto — dice Melania Mazzucco — come se l'uno volesse vivere per far felice l'altro».
La più amata è lei, fino a suscitare nel lettore un lieve sospetto di sensualità incestuosa: «Anima mia, tu sei il mio capolavoro», le dirà Tintoretto. Poi vengono gli altri, che incarnano aspetti vari di Tintoretto, emanazioni ed enfasi di singoli aspetti del suo carattere inafferrabile, burbero, canagliesco, orgoglioso, ribelle e fedele insieme, furbo e ingenuo, dolce e amaro, impetuoso e calcolatore, eccessivo e temperato, contemplativo e materialista, ambizioso e monomaniaco (pittura, nient'altro che pittura, oltre a Marietta, certo...). Il figlio perfetto, o quasi, è Dominico, ubbidiente fino all'autofrustrazione. Sarà lui, talentuoso quanto basta, l'erede di Tintoretto, sarà lui a dirigere lo studio, ormai avviato alla grande e centro di commissioni prestigiose. Il figlio odiato e recuperato in extremis è Marco, fannullone, arrogante, oppiomane, incapace. Poi ci sono le donne avviate alla vita monastica, c'è Giovanni che farà una brutta fine, eccetera: figli lasciati per lo più alle cure, più affidabili, della moglie Faustina. Quella di Tintoretto è una paternità modernissima, venata di ambiguità e corrosa dai sensi di colpa e dalla consapevolezza postuma di essere stato un genitore assente, troppo proiettato sulla carriera e sulle curiosità di un'esistenza piena di (poche) gioie e di (molti) tormenti (bellissime le pagine strazianti che rievocano la morte dell'unico nipote).
«Mi sono innamorata di questa storia», dice Melania Mazzucco. Al punto che mentre lavorava al romanzo, si è dedicata in parallelo a un «libro gemello», una biografia familiare, la cui uscita è prevista in primavera: «Spesso le opere di Tintoretto sono doppie: per esempio, accanto a un quadro esposto esternamente sulle portelle di un organo c'è un secondo quadro segreto nascosto all'interno. Diciamo che il romanzo è lo sportello visibile della storia di Tintoretto, la monografia sarà l'altra faccia del dittico: da un lato c'è la visione e l'interpretazione libera dei fatti, dall'altra la ricerca di una verità storica». La verità storica attraversa un secolo nel romanzo, quasi due secoli nella biografia familiare, dove vengono seguite anche le vite dei discendenti. Intanto, però, già qui appare la ricostruzione, a volte grandiosa, di ampi squarci storici saldamente tenuti sotto controllo nella narrazione: Melania Mazzucco è molto brava nel narrare le scene di massa, come il Carnevale o la Festa dei Tori a San Felice, dove Tintoretto incontra Cornelia, tra scoppi di petardi, clamore di tamburi, palchi rovesciati e boati di paura. Il che dà il senso della visione ampia di un'epoca e di un contesto fisico e mentale: la Venezia postridentina, diffidente e violenta, centro cosmopolita del commercio e del-l'arte, intrico di canali, con le sue fondamenta nebbiose, le piogge puzzolenti, le sagome di palazzi nobiliari e fatiscenti, la ragnatela delle calli.
A proposito di arte, va detto che nel romanzo corre il filo tenace dell'autoriflessione estetica, perché Tintoretto ci racconta il farsi delle sue opere, in modo tale che il lettore le possa osservare appena abbozzate e poi via via portate a compimento. «Ho voluto raccontare il rapporto con ciò che si crea. Leggendo le teorie estetiche del tempo, ho tratto parecchi insegnamenti: invenzione è dare una luce, «destacare», separare gli oggetti dallo sfondo, decidere da che distanza guardarli. Tintoretto è un maestro dell'inquadratura, ha un modo folgorante di guardare da molto vicino. Infatti qualcuno gli rimprovera che guardando da troppo vicino i personaggi importanti che ritrae finisce per mettere a nudo i loro difetti: sono questioni che toccano anche la letteratura». Dunque, La lunga attesa dell'angelo è un romanzo che intreccia a una delicata storia intima (d'amore, si direbbe) e familiare, motivi storici e sociali (le cruente zuffe da taverna, la piaga della peste che invade la città, la prostituzione...), pensieri sull'ossessivo e mai risolto rapporto con Dio, teorie sull'arte: il tutto dosando puntualissime nozioni di vita materiale (esemplare la precisione con cui viene reso il lavoro negli studi pittorici del tempo) e impennate metaforiche, sentenziose o filosofico-edificanti. Senza dimenticare che i molteplici piani narrativi, nel riflettere a regola d'arte l'alternarsi di delirio e lucidità nella mente del narratore, producono un continuo e vertiginoso slittamento del passato nel presente e viceversa. Il che mette quasi il lettore nelle stesse condizioni febbricitanti di chi narra. Resta da dire qualcosa sullo stile, molto sostenuto (per via di metafore) nella cornice ( Exitus) e nei capitoli iniziali, e poi via via più fluido con la sobria immissione di parole locali o gergali, e anche qua e là icasticamente cruento nelle zone più aspre (e molto efficaci) del racconto. È il linguaggio ondeggiante dell'animo, troppo libero e insieme troppo disperato, di un uomo che spegnendosi, dopo aver compiuto a ritroso un percorso forzato nella memoria, trova il suo angelo. Quale che sia.

martedì 11 novembre 2008

il Riformista 11.11.08
Walter cerca il dialogo, Mariastella apre
Ma intanto i tagli all'istruzione restano
di Sonia Oranges


LETTERA. Veltroni scrive a Gelmini e Tremonti: sulla scuola sospendete tutto e confrontiamoci. La risposta dal ministero: disponibili, ma soltanto con chi vuole fare la riforma. La mobilitazione continua.

Ha chiesto di «sospendere gli effetti del decreto Gelmini oramai approvato e di modificare con la Legge Finanziaria le scelte di bilancio sulla scuola e sull'università»: sarà che verba volant mentre scripta manent, ma con l'approssimarsi della discussione (semmai ci sarà) sulla manovra economica il segretario del Pd Walter Veltroni ha preso carta e penna e ha scritto al ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini e al collega dell'Economia Giulio Tremonti, proponendo loro «di dar vita a un tavolo al quale partecipino le parti sociali, il mondo della scuola e le forze di opposizione», in cui cercare una soluzione condivisa per la riforma di scuola e università. Insomma: confrontatevi e poi decidete. «Se c'è un settore, una materia su cui un Paese e la sua classe dirigente dovrebbero cercare sempre e in ogni modo di superare divisioni e polemiche per individuare le soluzioni migliori, questo è il settore che comprende la scuola, la ricerca e l'università - ha scritto il leader pd - È un settore che, non c'è dubbio, ha bisogno nel nostro Paese di una profonda innovazione, di una radicale riforma. partendo da un principio: quello di investire su di esso maggiori risorse, non minori; quello di riqualificare la spesa, e non semplicemente di tagliarla».
E la Gelmini non si è sottratta. «Sono disponibile a un confronto che abbia come obiettivo riformare e migliorare l'istruzione in Italia - ha risposto la titolare di viale Trastevere - Sono disponibile in particolare a discutere con tutte quelle forze riformiste che pensano che non si possa esclusivamente difendere lo status quo». Lo stesso principio, secondo il ministro, su cui si basano le linee guida della riforma del sistema universitario, «base di un dibattito che ponga al centro i temi della riaffermazione del merito, della promozione dei giovani talenti e della trasparenza». Dibattito che, per la Gelmini, avverrà in Parlamento dove «arriveranno proposte e suggerimenti indispensabili per una riforma che ci auguriamo condivisa».
Una risposta certamente d'apertura, ma ancora troppo ambigua per essere convincente. Almeno secondo Giuseppe Fioroni, già ministro dell'Istruzione del governo Prodi: «Restano come macigni i tagli già decisi dal governo e di cui il ministro non fa alcun cenno». Con i tagli che seguono il loro corso, dunque, non è possibile alcun confronto.
Intanto, però, viale Trastevere non è rimasto sordo alla piazza. Oggi i rappresentanti di Cgil, Cisl e Uil del settore università e ricerca (che hanno proclamato uno sciopero generale per venerdì prossimo, cui parteciperanno anche studenti universitari e medi) saranno ricevuti dalla Gelmini. Anche i sindacati chiedono l'apertura di un tavolo di confronto sull'università, soprattutto dopo l'approvazione del decreto della scorsa settimana, che fa la lista degli atenei buoni e di quelli cattivi, dettando a seconda dei casi nuove regole per i concorsi.
E se ieri la conferenza nazionale dei presidi delle facoltà di Scienze e tecnologie italiane chiedeva di stralciare o sospendere i tagli al finanziamento pubblico dell'università, altrove il sottosegretario all'Economia Giuseppe Vegas assicurava che, come garantito a inizio mese dallo stesso premier Silvio Berlusconi, per la scuola privata i problemi saranno risolti e che il paventato taglio di 130 milioni di euro alle paritarie, in un modo o nell'altro, non ci sarà.
La partita, dunque, è ancora in corso. Come pure la protesta in scuole e atenei. In vista dell'appuntamento del 14 novembre, la mobilitazione resta alta. A Cagliari continuano le lezioni in piazza, mentre a Milano gli studenti del Conservatorio suonano per protesta davanti al Comune. E oggi torna in scena pure Sabina Guzzanti. O meglio in cattedra, all'università di Cosenza.

il Riformista 11.11.08
Aborto e vescovo gay
I dubbi della Chiesa su Obama presidente
di Paolo Rodari


Preoccupati. Ai vescovi cattolici non piacciono le promesse elettorali all'anglicano Robinson, la posizione sulla vita e sulle staminali embrionali.

L'assemblea plenaria dei vescovi statunitensi in corso da ieri (fino a giovedì) al Marriott Waterfront Hotel di Baltimora avviene per volti versi nel momento opportuno. Il tempo, infatti, è propizio affinché l'episcopato d'oltre Atlantico possa riflettere sull'elezione di Barack Obama e soprattutto esprimersi circa le posizione pro-choice sull'aborto del nuovo presidente. In parte, l'ha già cominciato a fare ieri mattina il cardinale arcivescovo di Chicago e presidente della conferenza episcopale Francis George quando, aprendo i lavori della plenaria, si è congratulato con Obama per la vittoria ma, nello stesso tempo, ha ricordato tra gli applausi dei presuli come il "no" all'aborto sia uno dei pilastri dell'insegnamento cattolico. E, in effetti, è innanzitutto sulle posizione abortiste di Obama - sullo sfondo incombe la firma del Freedom of Choice Act, la legge sull'aborto che permetterà a tutte le donne di abortire in ogni momento della gravidanza, in qualsiasi Stato e a ogni età, anche al di sotto dei 18 anni - che i vescovi intendono discutere a Baltimora. L'ha confermato venerdì scorso anche la portavoce dei vescovi Mary Ann Walsh quando ha detto che «la conferenza espiscopale statunitense si ritroverà per discutere di vari temi, tra questi l'aborto e le future politiche in merito».
Ma c'è di più. Pare che sul tavolo della conferenza episcopale presieduta da circa un anno dal cardinale George vi sia anche il «dossier Virtueonline». Molto, infatti, ha fatto discutere i vescovi la notizia apparsa su quella che è la voce dell'ortodossia anglicana - Virtueonline, appunto, ripreso in merito anche dal Times - secondo la quale, durante la recente campagna elettorale, Obama ha incontrato per ben tre volte monsignor Gene Robinson, il primo vescovo episcopaliano dichiaratamente gay che tanto aveva fatto discutere di sé anche la scorsa estate nell'incontro di Lambeth della Chiesa anglicana: a motivo delle sue posizioni liberal non era stato ammesso all'assise. Proprio a lui Obama, nonostante esprimendosi successivamente sui referendum in California, Arizona e Florida non abbia dimostrato di voler fare molto in merito, ha assicurato che, una volta approdato alla Casa Bianca, avrebbe appoggiato appieno le battaglie in favore dei diritti delle coppie omosessuali. È vero, Obama ci ha sempre tenuto a separare diritti in favore delle coppie gay (su questi il neo presidente è d'accordo) e legalizzazione dei matrimoni gay (su questi si è sempre mostrato più freddo) - e in questo senso la posizione tenuta durante i recenti referendum non contraddice più di tanto con quanto egli ha promesso a Robinson - ma la notizia del triplice incontro non è stata comunque recepita bene dalla gerarchia ecclesiastica tanto che anche di questo a Baltimora i vescovi vogliono discutere. Tra l'altro, seppure è vero che oltre il cinquanta per cento di coloro che si dichiarano cattolici ha votato per Obama, pare sia altrettanto vero che la maggior parte di questi, avendo bocciato in California, Arizona e Florida i referendum, non ha preso bene, a poche ore dal voto, la notizia del triplice incontro e delle conseguenti promesse.
È principalmente sui temi cosiddetti etici che l'amministrazione Obama rischia il frontale con la Chiesa cattolica statunitense, fedeli inclusi. E anche con la diplomazia vaticana la quale, per il momento, sta alla finestra e proprio dal cardinale George attende notizie dettagliate sul nuovo corso alla Casa Bianca.
A preoccupare ci sono anche le decisioni che Obama è chiamato a prendere intorno alla ricerca sulle cellule staminali embrionali. Infatti, secondo quanto hanno annunciato i più stretti collaboratori del neo presidente, Washington si starebbe apprestando a dare di nuovo il via libera - dopo i limiti imposti da Bush - ai fondi federali per la ricerca sulle cellule staminali embrionali.
A ben vedere, dunque, i timori dei vescovi sono giustificati. Anche perché risulta parecchio difficile che su questi temi la figura del cattolico Joe Biden possa rassicurarli. Biden, infatti, nei mesi scorsi, ha dovuto subire dure invettive da parte dei presuli di Madison, Robert C. Morlino, e di Denver, Charles J. Caput, proprio a motivo delle sue prese di posizione controverse sull'aborto. Tanto che, di qui in avanti, la strategia dei vescovi statunitensi pare sia quella di affidarsi alle proprie risorse, cominciando a prevenire il nuovo corso obamiano in merito alle tematiche cosiddette eticamente sensibili (aborto, unioni gay, ricerca sulle cellule staminale embrionali) mettendo innanzitutto in campo una campagna preventiva di informazione culturale incentrata attorno al valore unico della vita umana.

il Riformista 11.11.08
Michelle e Sarah
La novità femminile della politica Usa
di Ritanna Armeni


Queste elezioni nelle quali è stato eletto un uomo sono state caratterizzate dalla presenza femminile. Questo desiderio di contare e di essere rappresentate sarà convogliato sulla donna che da gennaio entrerà alla Casa Bianca

C'è qualcosa nell'immaginario collettivo più rivoluzionario di un afroamericano eletto alla presidenza degli Stati Uniti? Sì, anche se pochi per il momento se ne rendono conto. È ancora più rivoluzionario il ruolo di First Lady occupato da Michelle, una donna nera, più nera di Obama, più simile di lui nell'aspetto, nel comportamento, nell'abbigliamento a quella minoranza che dalle elezioni del nuovo presidente si sente finalmente riscattata. E che di questo è assolutamente consapevole se, parlando dei suoi anni all'università ha affermato: «La mia esperienza a Princeston mi ha reso molto più cosciente della mia blackness di quanto fossi mai stata prima… A prescindere dalle circostanze per cui io avevo a che fare con i bianchi a Princeston spesso sembrava che per loro io sarei stata sempre una nera e poi una studentessa».
Michelle non è solo la moglie nera di un presidente afro-americano. Se così fosse l'elezione del marito riassumerebbe ogni carica innovatrice. E lei sarebbe esclusivamente un'appendice. Il fatto è che negli Stati Uniti le consorti dei presidenti hanno un ruolo istituzionale, hanno degli uffici alla Casa Bianca, hanno uno staff, fanno più o meno formalmente politica. Naturalmente ciascuna copre questo ruolo come può o come meglio ritiene. C'è chi si occupa di beneficenza come ha fatto Laura Bush, chi, come Hillary Clinton, pensa di poter produrre e proporre la riforma sanitaria, chi gioca il ruolo di nonna d'America come Barbara Bush, chi punta a diventare il simbolo di un nuovo stile e di una nuova eleganza come Jacqueline Kennedy.
Che ruolo avrà Michelle? Certamente è tutto da costruire, ma non potrà non essere nuovo e inedito perché nuova e inedita è la figura della First Lady per il colore della pelle, per la storia personale di donna di umili origini che si fa da sola, per le caratteristiche di concretezza e di forza mostrate nella campagna elettorale, per il suo rapporto paritario e ironico col marito presidente.
Ma c'è anche un altro motivo per cui la sua figura merita molta attenzione. Oggi la politica negli Stati Uniti, ma non solo negli Usa, si fa attraverso un uso sapiente del simbolico. Essa passa in gran parte attraverso la vita personale dei leader e delle loro mogli, dei loro figli, del loro entourage che viene esaminata e assume una rilevanza che le parole e le proposte non hanno più. Sicuramente Barak Obama è stato eletto per la fortissima carica simbolica di rottura rappresentata dalla sua persona, dall'essere il primo afro-americano a concorrere alla presidenza. Ora sarà giudicato anche dai fatti. Ma la carica simbolica della sua persona e della sua vita personale avranno ancora molta importanza. E di questo simbolico - nel bene o nel male - Michelle, i suoi comportamenti, il modo in cui gestirà il ruolo di First Lady saranno indicativi. Tanto più indicativi - ancora una volta è bene non dimenticarlo - perché lei è la prima First Lady nera. Prendete, ad esempio, il modo in cui si guarda il suo abbigliamento. Di Michelle non si giudica solo l'eleganza, ma anche quanto in quella eleganza vi sia di folk e popolare, quanto anche attraverso i vestiti lei rappresenti una cesura con la tradizione delle donne bianche che l'hanno preceduta alla Casa Bianca.
Ma c'è un terzo motivo per cui a Michelle si guarderà con particolare attenzione. Queste elezioni nelle quali è stato eletto un uomo sono state caratterizzate dalla presenza femminile. Hillary Clinton, sconfitta da Obama alle primarie, è stata la prima donna che ha tentato la scalata alla Casa Bianca. Il suo tentativo rimarrà nella storia e probabilmente conterà nella politica futura degli Stati Uniti. Sarah Palin, l'esponente della destra americana più conservatrice, è stata la prima donna repubblicana candidata alla vicepresidenza. Ha annunciato che non si ritirerà in Alaska, ma tornerà a far politica a livello nazionale. Entrambe hanno attivato e modificato un immaginario, entrambe hanno rappresentato modelli femminili che fino a oggi non erano entrati a far parte della vita politica degli Stati Uniti. Questo immaginario, questo desiderio di contare e di essere rappresentate sarà convogliato sulla donna che da gennaio entrerà alla Casa Bianca. Inevitabilmente Michelle Obama si troverà a rappresentare non solo le mogli e le madri, ma le donne americane. E anche se per il momento ha deciso di avere un ruolo più discreto e più appartato di quanto il suo carattere e le sue capacità promettono non dubitiamo che nei prossimi mesi ci riserverà delle sorprese. Forza Michelle.

il Riformista 11.11.08
Svolta. Manovra da capogiro per rilanciare i consumi e scongiurare l'incubo della rivolta
La Cina ribolle per la crisi, Pechino offre un New Deal
di Ilaria Maria Sala


REPORTAGE. Nelle città del boom, le aziende chiudono una dopo l'altra. E scoppiano disordini, spesso violenti. Il regime punta sulla domanda interna. Per dare un segnale agli altri Grandi. Perché se non corre a perdifiato, il miracolo economico può sfociare in una resa dei conti.

Hong Kong. Il pacchetto finanziario proposto da Pechino per rilanciare i consumi e l'economia interna ha cifre da capogiro: 4 trilioni di yuan, ovvero circa 580 miliardi di dollari, che dovrebbero stimolare la domanda interna e, stando alle parole speranzose con cui è stato presentato, aiutare a scongiurare una recessione mondiale.
Un pacchetto che prevede sia spese nuove, sia altre che erano inevitabili e già annunciate, come la ricostruzione nelle aree del Sichuan colpite dal sisma a maggio scorso (che dovrebbe costare un trilione di yuan), così come altre ancora di cui si parlava da tempo, discusse a più riprese dalla dirigenza del paese, in particolare nella sanità e nel welfare sociale.
In parte, per la Cina, si tratterà di fare con ancor più decisione quello che già viene fatto da decenni, ovvero, continuare a costruire in modo massiccio: secondo una prima analisi della Credit Suisse del pacchetto, infatti, il 60% circa dell'imponente stanziamento finanziario verrà consacrato alle spese per le infrastrutture nel settore dei trasporti e della costruzione di abitazioni non di lusso, in particolare autostrade, aeroporti e ferrovie. Questo a sua volta dovrebbe poter stimolare ulteriormente l'industria dell'automobile e quella dell'immobiliare (che ha subito un grosso arresto nel corso dell'anno, con, in alcune città, un meno 40% delle transazioni effettuate), rilanciando i consumi interni.
Davanti al crollo improvviso delle Borse domestiche e internazionali, infatti, i consumatori cinesi hanno reagito con estrema prudenza, tenendo ben chiuso il portafoglio. Il pacchetto dovrebbe poter offrire un rapido cerotto per lenire le ferite riportate dalle zone costiere, in particolare, le più sviluppate economicamente ma anche le più esposte agli scossoni mondiali, nella speranza che riprendano a consumare anche quando la domanda mondiale rallenta.
Nella ricca fascia costiera infatti, tanto nella regione del Guangdong adiacente a Hong Kong, come nella regione che circonda Shanghai, due fra le zone più industrializzate del paese, si contano già a migliaia il numero di aziende che producono per l'estero che hanno chiuso i battenti negli ultimi mesi.
L'inquietudine di chi ha perso il lavoro da un giorno all'altro - spesso senza preavviso, trovandosi semplicemente davanti ai cancelli chiusi della fabbrica - è già esplosa in manifestazioni e barricate a macchia di leopardo, e il timore di un espandersi dei disordini sociali è stato sicuramente ben presente nel redigere il pacchetto di stimolo economico.
Dopo il lungo periodo di "armonia comandata" che si è avuto in preparazione delle Olimpiadi e in concomitanza dei Giochi, infatti, sembra che in alcuni casi la pazienza cinese sia arrivata al suo limite, e nelle ultime settimane le notizie di disordini arrivano da varie città del Guangdong e da Chongqing, fino a piccole località del Zhejiang.
Quelle che erano fino a ieri le "boomtown" meridionali di Dongguan e Shenzhen, per esempio, e che si apprestavano ad abbandonare la manifattura di giocattoli e calzature a buon mercato per avventurarsi nell'high-tech, si ritrovano ora a fare una rapida marcia indietro, dato il calo verticale delle esportazioni degli ultimi mesi. E in mezzo all'improvvisa incertezza economica, crescono gli episodi di tragica violenza individuale: un camionista che schiaccia cinque persone per «vendicarsi della società», tassisti inferociti che attaccano i vigili, folle furiose che si slanciano contro una stazione di polizia per vendicare la morte di un giovane motociclista.
Questo rapido correre ai ripari, gettando denaro sulle fiamme di un inquietante scontento, può sorprendere per un'economia che, scossoni internazionali a parte, continua nondimeno a crescere del 9%: ma secondo economisti cinesi e non, per continuare a creare posti di lavoro e limitare possibili tensioni sociali date dagli enormi scompensi economici, la crescita minima indispensabile è dell'8% annuo.
Pechino dunque si appresta a celebrare il trentesi9mo anniversario del lancio delle riforme economiche impegnandosi in un ambizioso progetto di investimenti - che potrebbe però risultare troppo ambizioso. Da più di vent'anni, infatti, gli investimenti in infrastrutture in Cina sono cresciuti del 20 percento annuo, e alcuni analisti temono che si possa arrivare presto ad una temporanea saturazione. Ma la scelta sembra imporsi in modo netto: la dirigenza cinese, infatti, a livello domestico sa di avere vita relativamente facile fintanto che la crescita economica non si inceppa. A livello internazionale, invece, conta di poter aumentare il suo prestigio mostrandosi capace di rispondere con prontezza, trilioni alla mano, all'attuale crisi.

il Riformista 11.11.08
Losurdo, Canfora e il tentativo di riabilitare Stalin
di Andrea Romano


Il meglio lo dà il filologo dell'antichità che paragona il dittatore sovietico a Pericle e si indigna con chi ricorda i milioni di morti: «L'imputazione quasi giudiziaria che grava su Stalin è quella della smisurata falcidia di vite umane»

Vittima del nostro entusiasmo per l'elezione di Obama, la settimana scorsa è stato trascurato un anniversario a cui persino i riformisti del Riformista restano affezionati. Tanto più coloro che, come il sottoscritto, evocano nel titolo della propria rubrica un protagonista non secondario dei postumi di quella data (tutti sanno che Koba fu il primo nome di battaglia di Iosif Vissarionovich Dzhugasvili, successivamente noto come Stalin). L'anniversario mancato era quello del 7 novembre. Quando a Pietrogrado, 91 anni fa, un colpo di mano del partito bolscevico diede inizio alla vicenda storica del comunismo. L'unico comunismo dotato di una sua realtà concreta, quello sovietico e in parte anche nostro. Vale la pena ricordare l'ottobre del 1917 nell'Italia del 2008? Certamente sì, perché finalmente in questo Paese il comunismo ha raggiunto il rango della neutralità. Elevato sopra le nostre passioni fino a diventare oggetto estraneo al conflitto. Evocato senza temere alcuna reale conseguenza, positiva o negativa, e tutt'al più utilizzato per abbellire una costruzione retorica.
Sospettavo della neutralità italiana del comunismo già da tempo, guardando alla fissità del tema anticomunista nella retorica berlusconiana. Ne ho avuto conferma leggendo un libro che si pone né più né meno l'obiettivo di riabilitare Stalin. L'ha scritto Domenico Losurdo, ha per titolo "Stalin. Storia e critica di una leggenda nera" (Carocci). Entrati in possesso del volume, la prima sensazione è di una qualche simpatia per questo docente di Storia della filosofia che si prende tanta briga. Viene da pensare: «Però, mica male il Losurdo. Chissà come se la cava nell'inerpicarsi su un tema così scivoloso». E si inizia a leggere animati da curiosità. Salvo essere precipitati dopo poche pagine in una sorta di fiction saggistica. Dove trozkisti e stalinisti combattono ancora come se ci trovassimo a Barcellona nel 1937, giacché da una parte a intaccare il mito losurdiano di Stalin vi sarebbero «le rivelazioni (in cui) trovavano conforto gli intellettuali che avevano in Trockij il loro punto di riferimento» e dall'altra a tenerlo tenacemente in piedi «le speranze e le certezze che avevano accompagnato la rivoluzione bolscevica e che rinviavano a Marx». E dove la storiografia sull'Unione Sovietica, che pure ha prodotto un discreto corpo di studi nel corso di decenni, viene confinata nel campo degli strumenti al servizio dell'imperialismo statunitense. Perché al Losurdo è chiaro che «negli Usa la sovietologia aveva manifestato la tendenza a svilupparsi attorno alla Cia e ad altre agenzie militari e di intelligence, previa rimozione degli elementi sospettati di nutrire simpatie per il Paese scaturito dalla Rivoluzione d'ottobre». Ma si capisce che il Losurdo, per quanto temerario, non deve avere molta fiducia né dimestichezza con gli strumenti della ricerca storica. Perché anche solo scorrendo la bibliografia del suo volume si nota l'assenza pressoché totale degli storici e dei titoli che hanno raccontato cos'era davvero l'Urss di Stalin. E dire che ce ne sono tanti, anche recenti e ancora in commercio. E persino tradotti nelle lingue che il Losurdo frequenta di sicuro. Ma niente da fare. Il Losurdo non si interessa di cosa sia stato davvero lo stalinismo (almeno per quanto ci dicano gli archivi, le fonti e la discussione storiografica). A lui preme mettere in chiaro che «a partire dallo scoppio della Guerra fredda, per decenni la campagna anticomunista dell'occidente ha ruotato attorno alla demonizzazione di Stalin».
Passi per il Losurdo, che almeno ispirava simpatia nel suo acrobatico tentativo di rimettere in piedi il totalitarismo staliniano. Chi risulta assai meno simpatico è il più celebre Luciano Canfora, che ha scritto una postfazione che l'editore nobilita in copertina come "saggio" (le postfazioni valgono meno dei saggi). Dieci pagine in cui Canfora aggiunge del suo al Losurdo. Ad esempio ricordandoci che anche gli americani a volte sbagliano, perché «se Time nel 1944 proclamò Stalin "uomo dell'anno" una qualche ragione ci ha da essere». Oppure bacchettando quei sempliciotti che si limitano a ricordare i milioni di vittime dello stalinismo (perché «l'imputazione quasi giudiziaria che grava su Stalin è quella della smisurata falcidia di vite umane»). E infine equiparando Stalin a Pericle, come solo può fare chi come Canfora ha fatto della filologia il suo mestiere e il timone della sua visione civile. Viene da domandarsi quali testi o documenti il filologo Canfora abbia filologicamente compulsato per questa sua lezione di stalinismo. Ma è una tentazione che dura un attimo. Perché poi ci ricorda che nell'Italia del 2008 si è finalmente liberi di dirsi stalinisti senza tema di conseguenze. Magari ridendone e facendone ridere, beatamente lontani come si è non solo da Stalin ma anche dai vincoli della storiografia.

Corriere della Sera 11.11.08
Università e docenti, chi ha paura del sorteggio
di Francesco Giavazzi


Gli studenti di Trieste hanno avuto un'idea brillante. Tutto è nato sul loro blog dove uno si è chiesto perché in tante università rettori e professori partecipino alle manifestazioni contro i «tagli del governo»: «Può essere che utilizzino il nostro movimento non per il bene dell'università, ma per proteggere qualche loro interesse, magari per impedire che si modifichi il sistema con cui vengono reclutati i professori?». E così sono andati sui siti dove vengono riportate le pubblicazioni scientifiche dei loro docenti e quanto ciascuna è citata in altri lavori. Ad esempio «Publish or perish» che usa i dati di Google Scholar ed è disponibile sul sito www.harzing.com o semplicemente i dati delle valutazioni del Civr disponibili sul sito del ministero dell'Università. Racconta Maddalena Rebecca sul Piccolo che da quel giorno si vedono pochi professori alle assemblee degli studenti triestini.
Alcune «anime belle» criticano il decreto del ministro Gelmini che prevede una nuova modalità per la scelta dei commissari nei concorsi universitari: elezione di un numero pari a tre volte i commissari necessari e poi sorteggio. «In Gran Bretagna, dove l'università funziona, i dipartimenti scelgono i professori senza bisogno di un concorso ». Lo so bene, ma lì il titolo di studio non ha valore legale e i fondi pubblici vengono assegnati alle università non a seconda del numero degli studenti iscritti, ma in funzione della qualità della ricerca: ricerca che nessuno cita, niente fondi e il dipartimento chiude.
Se i critici vogliono essere coerenti dicano che sono pronti a cancellare il valore legale del titolo di studio (come ha fatto ieri sul Corriere Giovanni Sartori) e ad accettare che vengano chiusi i dipartimenti scadenti. E dicano anche che preferirebbero che i concorsi banditi venissero tutti rimandati in attesa di una riforma dell'università.
In realtà temo che le critiche tradiscano la rabbia per un decreto che ha fatto saltare gli accordi con i quali i professori si erano divisi i 6.000 posti a concorso prima ancora che si svolgessero le elezioni per la scelta dei commissari. Ne è un segno il tentativo (fortunatamente fallito) di modificare in extremis il testo del decreto per consentire ai professori associati di partecipare alle commissioni. Un vecchio trucco: gli associati devono ancora essere giudicati (per diventare ordinari) quindi sono facilmente ricattabili. E infatti a premere per estendere l'eleggibilità ai più giovani erano gli anziani non gli stessi associati.
Vorrei avanzare una modesta proposta. Fra poco più di un mese in tutte le università si voterà secondo le nuove modalità, cioè per costituire un pool di candidati fra i quali poi avverrà il sorteggio. Affinché si possa votare con sufficiente informazione, le diverse discipline dovrebbero prendere esempio dagli studenti triestini e pubblicare un elenco dei professori eleggibili e della loro produttività scientifica. Poiché esistono diversi criteri (l'impact factor e altri) si potrebbero pubblicare indici diversi. Io mi impegno a farlo per le materie economiche e statistiche e sono certo altri lo faranno per altre discipline, soprattutto quelle meno abituate a standard internazionali.
Poi si vedrà, sia quali discipline non avranno ritenuto utile dare questa informazione sia quelle che, pur avendo stilato gli elenchi, voteranno per candidati non particolarmente brillanti.

Repubblica 11.11.08
Come porre rimedio ai disastri
I beni culturali sempre più a rischio: per tutelarli il potere resti allo Stato
Salviamo l’arte dal federalismo
di Eugenio Scalfari


La mancata tutela del territorio, dell´ambiente e del paesaggio va di pari passo con la scarsa attenzione all´arte e all´archeologia
Investire nella cultura significa anche rafforzare il turismo con tutto l´indotto

Può sembrare anacronistico occuparsi di tutela dei beni culturali e del paesaggio mentre infuria una tempesta economica senza precedenti che diffonde incertezza, paura e sfiducia e chiede risposte urgenti ed efficaci. Eppure non si tratta d´un tema peregrino, tantomeno d´un pretesto per parlar d´altro evadendo quelli che più ci riguardano. Si tratta invece d´un tema estremamente pertinente. Viviamo giorni e mesi di decisioni radicali che da un lato tendono a mettere in atto misure di tamponamento che garantiscano nell´immediato i depositi bancari, il patrimonio di banche e di imprese, il sostegno della domanda e dei redditi più deboli. Ma dall´altro configurino nuovi assetti e nuovi equilibri nei meccanismi di produzione e di distribuzione della ricchezza. Configurino anche una società diversa da quella attuale, una maggiore trasparenza e più incisivi controlli per bilanciare il necessario rafforzarsi dei poteri rispetto ai diritti.
In questo profondo rimescolio esiste il pericolo che la cultura, cui si continua a tributare omaggio di parole, costituisca nei fatti l´anello debole e addirittura la vittima sacrificale. Cultura, ricerca, beni culturali, patrimonio pubblico, paesaggio, sono infatti considerati come altrettanti elementi opzionali dei quali si può tranquillamente fare a meno. I tagli di spesa più cocenti sono avvenuti proprio in questi settori non soltanto per eliminare sprechi ma per recuperare risorse dirottandole verso altre destinazioni. Non si è considerato che non si tratta di spese ma di investimenti che, proprio per la loro natura, non possono essere interrotti senza causare nocumento e deperimento gravissimi.
La totalità di questi beni, la loro salvaguardia e la loro valorizzazione, hanno tra l´altro effetti diretti sull´economia del Paese poiché sono connessi all´industria del turismo che rappresenta una delle maggiori risorse del nostro territorio. Il turismo, dal punto di vista della bilancia commerciale, equivale all´esportazione di beni e servizi, procura entrate di valuta nelle casse dell´erario, con una differenza: non escono merci e servizi dal territorio nazionale ma entrano persone e con esse ricchezza e sostegno della domanda interna. Una flessione del turismo comporta una flessione immediata della domanda e della ricchezza prodotta.
Fino a poco tempo fa l´alto livello dell´euro in termini di dollari scoraggiava il turismo internazionale verso l´Europa, ma è proprio qui che entrava in gioco la valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici di ciascuno dei Paesi europei con spiccata vocazione turistica. Abbiamo assistito negli anni di più elevato tasso di cambio dell´euro al decadimento del turismo diretto verso l´Italia a vantaggio di quello canalizzato verso la Spagna, la Francia, la Grecia: stessa moneta, quindi stesse difficoltà per i portatori di un dollaro debole rispetto all´euro, ma diversa attrattiva dovuta alla migliore valorizzazione del paesaggio, del territorio, dei beni culturali che lo animano.
Ora il cambio euro-dollaro è tornato a livelli meno penalizzanti per il turismo europeo, anche se la crisi economica internazionale ha provocato una diminuzione del movimento turistico complessivo. Proprio a causa di questa flessione congiunturale la concorrenza è diventata ancor più severa ed è quindi tanto più necessario investire sulla cultura in tutte le sue articolazioni.
Ma questo non avviene, anzi sta avvenendo il contrario. Ho già accennato al problema d´una mentalità che considera i consumi culturale come un fatto opzionale. Si tratta d´una mentalità economicamente distorta che va denunciata e combattuta
* * *
La condizione in cui versano ormai da anni le nostre Sovrintendenze preposte alla tutela dei beni paesaggistici e culturali è quanto di più misero si possa immaginare: personale ridotto al minimo, sedi vacanti da tempo, servizi pressoché inesistenti. Il ministro competente promette di colmare almeno i vuoti più drammatici e cerca soldi che compensino i pesanti tagli effettuati dalla Finanziaria triennale varata fin dallo scorso luglio. Li cerca ma finora non li ha trovati e dubito molto che possa riuscirvi nel prossimo futuro.
Il guaio è che, risorse finanziarie a parte, il ministro tergiversa anche a compiere alcuni adempimenti che non comportano spese ma che sarebbero necessari per chiarire una normativa confusa, fonte di abusi continui che hanno devastato il nostro territorio da almeno trent´anni in qua, disseminando mostri architettonici, lasciando deperire monumenti di importanza mondiale, occultando il mare con una cortina edilizia che ne ha confiscato la visibilità e la pubblica fruizione.
Questi abusi sono il frutto di inefficienza delle istituzioni di controllo, di scarsissima sensibilità nella pubblica opinione, dell´indifferenza dei «media» e, soprattutto, di una normativa che ha disperso i poteri di controllo tra tre diversi ministeri (Beni culturali, Ambiente, Lavori pubblici) e tre diversi livelli istituzionali: Stato, Regioni, Comuni.
Aggiungete a questa dispersione dei poteri di controllo e di programmazione la scarsità delle risorse e capirete le dimensioni di un disastro che ha mostrificato l´ambiente e si prepara a peggiorarlo ulteriormente con l´avvento di un federalismo che disperderà fino al limite estremo competenze e saperi.
* * *
Il più attento conoscitore del disastro culturale e ambientale italiano è Salvatore Settis, che lotta da decenni per la tutela e la valorizzazione dell´immenso e negletto patrimonio che il Paese possiede e trascuratamente dilapida.
E´ sua la definizione dell´unicità concettuale e pratica di questa nostra ricchezza, della sua manutenzione, della sua fruizione pubblica, di ciò che potrebbe e dovrebbe essere e invece non è. La definizione è questa: Esiste un «territorio» senza paesaggio e senza ambiente? Esiste un «ambiente» senza territorio e senza paesaggio? Esiste un «paesaggio» senza territorio e senza ambiente?».
Da questo triplice interrogativo, retorico perché presuppone una risposta negativa alle tre domande, nasce l´esigenza di una politica di tutela e di valorizzazione che sia unificata nei poteri e nelle competenze; tale unificazione non può avvenire che in capo allo Stato, il solo tra i vari enti istituzionali che sia depositario d´una visione generale, che viene inevitabilmente persa di vista man mano che si discende nei livelli locali, la Regione e ancora di più il Comune.
Purtroppo la situazione attuale ha già attribuito gran parte delle competenze alle Regioni consentendo ad esse di delegare ai Comuni una parte rilevante delle competenze e dei poteri propri. Le Sovrintendenze sono state in larga misura svuotate dei loro poteri di controllo e totalmente dei loro poteri di valorizzazione. La pianificazione urbanistica da tempo ha preso il sopravvento su quella paesaggistica e ambientale; a loro volta gli interessi propriamente edilizi hanno stravolto la pianificazione urbanistica; in tali condizioni anche la collusione, la corruzione e il lassismo sono stati oggettivamente incoraggiati.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: il disastro ambientale, paesaggistico, urbanistico che ha deturpato il paesaggio, l´ambiente e il territorio.
Il federalismo, in mancanza d´una normativa chiara e netta che si richiami all´articolo 9 della Costituzione («La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione») e alla giurisprudenza costituzionale che ne è seguita, porterà inevitabilmente questo triplice scempio se l´opinione pubblica non ne farà un obiettivo prioritario del proprio impegno civile.

l’Unità Roma 11.11.08
Da Rembrandt a Vermeer
La poesia si fa arte
di Flavia Matitti


Inaugurata ieri negli spazi di via del Corso, la mostra è curata da Bernd Wolfgang Lindemann, direttore della Gemäldegalerie di Berlino, istituzione da cui provengono tutti i 55 dipinti esposti.
Marcel Proust era un grande ammiratore di Johannes Vermeer, cui accenna in vari passi della Recherche. E ancora oggi gli interni domestici raffigurati dal maestro di Delft, dominati da un’atmosfera luminosa, rarefatta, sospesa, appaiono favorire uno stato d’animo incline all’esercizio della memoria e a quella ricerca del tempo perduto, come scavo introspettivo, così cara allo scrittore francese.
In questi giorni uno dei capolavori di Vermeer, la Ragazza con collana di perle, si può ammirare esposto a Roma nella rassegna intitolata «Da Rembrandt a Vermeer. Valori civili nella pittura fiamminga e olandese del ‘600». La mostra è curata da Bernd Wolfgang Lindemann, direttore della Gemäldegalerie di Berlino, istituzione da cui provengono tutti i 55 dipinti esposti, scelti per offrire un’ampia panoramica del periodo olandese, oltre a qualche esempio di pittura fiamminga tra cui Rubens, presente con un «romantico» Paesaggio con l’impiccato e Van Dyck con due splendidi ritratti.
«La decisione della Fondazione Roma di contribuire ad “esportare” a Berlino la mostra di Sebastiano del Piombo presentata a Palazzo Venezia – spiega l’avvocato Emmanuele Francesco Maria Emanuele, presidente della Fondazione Roma – ha fatto sì che nascesse una collaborazione privilegiata con la Gemäldegalerie, che ora ha prestato un nucleo significativo delle proprie raccolte».
L’esposizione è ordinata nelle sale del Museo del Corso, da oggi ribattezzato Museo Fondazione Roma, e l’allestimento intende ricreare l’atmosfera degli interni delle case olandesi. Numerosi dipinti rappresentano infatti scene d’interni e illustrano le tipiche attività della vita quotidiana della borghesia operosa e del popolo. Non mancano comunque in mostra gli altri generi artistici: dalla natura morta al paesaggio al ritratto. E figura anche L’uomo con l’elmo d’oro, un quadro di grande fascino sebbene dopo essere stato a lungo annoverato tra i capolavori di Rembrandt, nel 1986, in seguito ad analisi tecnologiche approfondite, è stato espunto dal catalogo del pittore e degradato a opera di bottega.
Fino al 15 febbraio 2009. Via del Corso, 320 Orario: tutti i giorni dalle 10.00 alle 20.00 (chiuso lunedì) Tel. 06.6613462.

Corriere della Sera 11.11.08
Alla Tate Gallery appese al contrario opere dell'astrattista americano. Ma ci sono precedenti
Rothko, Van Gogh, Dalí: se la tela è rovesciata
di Guido Santevecchi


LONDRA — La Tate Modern di Londra è molto orgogliosa della sua Rothko Room, la sala dove sono esposti i «luminosi rettangoli saturati di colori» dipinti dall'artista morto suicida nel 1970 a New York. Il museo creato in una centrale elettrica sul Tamigi ha aperto una mostra retrospettiva dei capolavori di Mark Rothko, presentandola come il «must-see» dell'anno. Ma ora si scopre che i curatori hanno appeso al contrario due delle opere più note, che fanno parte della serie Black on Maroon: si tratta di grandi strisce nere su fondo marrone. Il punto è che le strisce, nel disegno del pittore espressionista astratto, sarebbero state immaginate come orizzontali, mentre sulla parete della Tate sono esposte in verticale.
L'errore sembra evidente: «elementare », come dice il critico Richard Dormand del Daily Telegraph. Si sa che quando Rothko spedì le sue tele al direttore della Tate le accompagnò con una serie di richieste dettagliate sulla loro esposizione, chiedendo anche di essere consultato sull'architettura della sala.
Oltretutto, la firma sul retro dei quadri dovrebbe far capire il giusto senso. Nel 1970 quindi i due Black on Maroon furono appesi in orizzontale. Ma qualche anno dopo la morte dell'artista, nel 1979, il direttore della Tate cambiò idea e le fece ruotare in verticale, sostenendo che negli scritti di Rothko era stato trovato un passaggio che evidenziava un ripensamento. Nuovo cambio di direzione nel 1987, quando i curatori scrissero nel catalogo che effettivamente la firma di Rothko sul retro non lasciava dubbi sulla sua volontà orizzontale. E adesso un'altra inversione di rotta: meglio ammirare le strisce in verticale.
La personalità di Mark Rothko, nato come Markus Rotkowics in Lettonia nel 1903, era sicuramente complessa: «C'è più forza nel dire poco che nel dire tutto», amava ripetere. E non si riconosceva nemmeno nella definizione di «espressionista astratto». Anche i critici sono incerti. Lo storico dell'arte Tim Marlow dice: «Penso che Rothko fosse in conflitto interiore con i grandi spazi, così c'è dell'ambiguità nelle sue opere. E in questo direi che la Tate abbia uno spazio di manovra». Waldemar Januszczak, critico del Sunday Times, osserva che «il modo in cui sono appesi i due quadri a me sembra corretto. Ma se invece è sicuro che Rothko li voleva in orizzontale quelli della Tate sono pazzi».
Ragionamenti sofisticati, da critici sofisticati. Qualche opinione di gente comune, incontrata di fronte ai quadri in questione: «Io non capisco che cosa rappresentino queste strisce, né in verticale né se fossero in orizzontale e magari è proprio questo il bello dell'arte astratta», dice una turista italiana. «Il verso cambia l'interpretazione: è assurdo come appendere un paesaggio capovolto, una cosa mai vista», risponde la giovane inglese Laura Wilkinson.
Che però sbaglia: si è già visto perché nel 1965 la National Gallery riuscì a rovesciare un Prato con farfalle dipinto da Vincent van Gogh a Saint-Rémy nel 1890, prima di essere avvertita dell'errore da una bambina in visita scolastica. E nel 1994 anche un Salvador Dalí ( Quattro mogli di pescatori di Cadice) finì a testa in giù alla Hayward Gallery di Londra.
Per quanto riguarda i due Rothko, sembra che i curatori della Tate non abbiano fretta di sciogliere l'enigma. Non sono previsti ulteriori cambi di direzione almeno fino a febbraio, quando si concluderà la retrospettiva.

Corriere della Sera 11.11.08
Una retrospettiva dell'artista umbro che svelò il cuore delle cose inerti
Burri, la materia e l'anima
di Roberta Scorranese


La pittura non deve essere spiegata.
Le mie immagini sono un equivalente della parola. E come spiegare la poesia?

Alberto Burri studiava medicina e forse sarebbe diventato un chirurgo se un giorno non avesse guardato il mondo dalla finestra di una prigione. Fu nel '43, nel campo di concentramento di Hereford (Texas), che divenne un artista. Forse perché vide il mondo come puoi vederlo solo quando sei senza speranza: come fosse la prima volta. Solo allora scopri che la sabbia ha una consistenza finissima, sembra oro; che un sacco racchiude misteriose sfumature di colore e che non esiste un solo tipo di nero. Lui scoprì la materia e ne fece poesia. Ed eccoli i sacchi, le sabbie e i neri di Burri, nella retrospettiva che la Triennale di Milano dedica al grande artista umbro.
«Lui non ci sarebbe venuto— scherza Chiara Sarteanesi, curatrice della mostra insieme a Maurizio Calvesi e anima della Fondazione Burri a Città di Castello —. Preferiva parlare attraverso le opere». Ed è questa la grandezza di Burri: l'aver dato voce alle cose, facendosi da parte. Vivificando la materia, mai accontentandosi del colore. Ecco perché le cascate di segatura che vedrete della serie «Cellotex» sembrano montagne d'oro e le plastiche bruciacchiate dei «Rossi» paiono polmoni irrorati: nelle sue mani le cose si animano, codificano personalissimi alfabeti. In casa Sarteanesi, a Città di Castello, lui era uno di famiglia: «Odiava parlare di sé — dice la curatrice — piuttosto se ne stava in veranda e osservava le colline». Assorbiva il mondo: la forma della collina si ritrova nell'onda di acrilico nella serie «Bianco/nero».
Ma non cercate le ossessioni nei suoi quadri: lui ne avrebbe riso. I suoi pezzi di sacco incollati alla tela non sono tanto apologie del pauperismo francescano, né metafisica povera: sono un omaggio al sacco stesso, alla sua capacità di miscelare, tra tinte e tessuto, un marrone perfetto che il semplice colore non riusciva a dargli. Non lo capì l'Italia degli anni Sessanta, che gridò allo scandalo per quegli «stracci antigienici », così come i benpensanti sconsigliavano alle donne incinte di andare a vedere le mostre di Picasso, paventando il rischio di traumi dall'impatto con quei volti deformati. «Dai "sacchi" — spiega Maurizio Calvesi — passò a materie più umili, come il ferro e il legno, in una incessante ricerca». Anche se, orgoglioso e fiero, si arrabbiava quando gli nominavano il precedente dei futuristi, anch'essi polimaterici e sperimentatori arditi. Così, in «Ferro» del 1958, lascia che dal metallo si origini un'improvvisa suggestione: sembra un brullo paesaggio vulcanico. Più tardi, nella serie dei «Cretti», ricreerà l'effetto delle terre arse dal sole. Bruciando plastica trasparente (nella serie delle «Plastiche », negli anni Sessanta) riuscì ad animare questo materiale inerte: brilla come cartilagine viva. Anche da lui prenderà le mosse Damien Hirst.
Poi si stufava e cambiava materiale. «Il mio ultimo quadro è uguale al primo», diceva e si appassionava alle combustioni su legno. Come un bambino scopre le mille possibilità dei Lego, lui sperimentava le onde del catrame sulla tela, nella omonima serie in mostra: vuoi vedere che spostando l'onda calda della pece si scopre un nuovo punto di fuga? Vuoi vedere che, graffiando la superficie, si scopre una nuova sfumatura di nero, come nei «Neri» (1986 -1987) mai esposti prima. Diversamente da Lucio Fontana, quella di Burri non è tanto drammaturgia del gesto, ma è piuttosto dedizione al gesto, scandaglio della materia, cura artigianale. «Amore!», esclama Sarteanesi indicando uno dei primi lavori, della serie dei «Gobbi » (1950) composizioni gibbose, con supporti interni, dove la pittura gioca a fare la scultura. Come in Piero della Francesca, il suo preferito, per vedere il quale si faceva cento chilometri in bici fino a Urbino. Amore, appunto.
Al resto della vita dedicò una distratta attenzione. Dopo la guerra (venne fatto prigioniero in Tunisia), i movimenti artistici lo sfiorarono appena, preferì Parigi a Roma e divenne famoso in America. Lavorò anche per il teatro e in mostra vedrete bozzetti e teatrini, ma anche un lato meno conosciuto, quello della grafica di qualità, che egli mai rinnegò. Un matrimonio, un (inevitabile) pendolarismo sentimentale tra Los Angeles e Castello, la decisione di non avere figli. E come poteva, visto che fece da padre ai suoi quadri? Li seguì uno ad uno, scelse le «location » delle mostre e poi, non pago, se li ricomprava sognando un tempio in cui i suoi sacchi, le sue muffe e i suoi legni potessero riposare come in una necropoli privata. Il tempio giunse negli anni Ottanta, con la Fondazione e le sue sedi di Palazzo Albizzini e agli ex Seccatoi di tabacco, a Castello. Ed eccolo, sornione davanti ai Seccatoi, nelle belle foto (firmate da Amendola, Basilico e Contino) in mostra. Una si distingue: l'artista in piedi, ripreso di fronte, il volto coperto dalla fiamma ossidrica con la quale sta lavorando. Ecco: lui bruciò nelle cose.

Corriere della Sera 11.11.08
«Religulous» si scaglia contro i predicatori e le celebrità che ostentano la fede
Attacco laico
Le religioni in un documentario «comico» Cristiani, ebrei e musulmani nel mirino
di Giovanna Grassi


LOS ANGELES — «La religione è una sovrastruttura dell'uomo e del potere. È sempre foriera di traumi, inibizioni, gerarchie. Non solo è pericolosa, ma nasconde anche una ricattatoria fandonia: quella di far diventare gli esseri umani buoni». Questo è l'assioma che sostiene Bill Maher nel documentario che ha scritto e prodotto, Religulous, e di cui ha affidato la regia a Larry Charles ( Borat) — il miglior amico di Michael Moore — che, ironia della sorte, con la sua gran barba e sempre vestito di nero sembra proprio un predicatore.
Maher è il «comedian/reporter » più politicamente scorretto d'America: nato a New York nel 1956, è figlio di un noto giornalista della Nbc di adamantina fede cattolica e di una signora di religione ebraica. È stato radiato dalla ABC, con il suo popolare show di interviste e dibattiti (intitolato Politically Incorrect), dopo aver innescato uno scandalo nazionale per aver detto che i terroristi dell'attacco alle Due Torri non erano «vili né codardi ».
Religulous non sarà sicuramente in corsa per gli Oscar, ma resta nella top ten degli incassi Usa a diverse settimane dal debutto; in Italia uscirà il 5 dicembre, dopo essere passato al morettiano Festival di Torino. Il New York Times lo ha definito «il più irriverente, divertente documento sulla fede», ma è anche molto angoscioso e «foriero di interrogativi profondi», ha ribattuto il Los Angeles Times.
Il film è imperniato su una carrellata di predicatori, sette, religioni ufficiali, ortodosse e non dell' America. Racconta Bill: «Da sempre volevo girare un documentario sulla fede essendo io stato segnato da una crescita divisa tra due religioni. Ho girato il mondo e volevo, non è un paradosso, che il nostro lavoro fosse anche divertente e che, nell'analizzare il potere spesso corrotto che si nasconde dietro tanti culti, instaurasse un dibattito tra intelligenza e stupidità con i suoi discutibili idoli, spesso simili a rock star nella loro leva sulle folle. Ho intervistato centinaia di persone, scienziati, letterati, intellettuali, vescovi, ciarlatani... Ho utilizzato migliaia di spezzoni, compresi quelli di Bush quando afferma, per i suoi tornaconti e crimini di guerra «Dio e Gesù Cristo sono esistiti per dare libertà agli uomini». E anche McCain, che di religione non parla, ma dichiara di credere al diavolo. Tom Cruise seguace di Scientology ha rifiutato l'incontro, ma appare in alcune sue dichiarazioni, come John Travolta, adepto della fede di L. Ron Hubbard».
Che cosa ha divertito e preoccupato di più l'indomito Bill, che da bambino litigava con la madre ebrea e con il padre cattolico, decisi entrambi a imporgli la loro fede (ma per rispetto e amore ha dedicato il film a mamma Julie, defunta)? «Sicuramente — risponde — gli incontri con i predicatori americani, che hanno migliaia e migliaia di fedeli ». Ed ecco gli esempi che più l'hanno colpito: «Due soprattutto rappresentano l'assurdità del bisogno di fede. Il miliardario predicatore Josè Luis de Jesus Mirada che, coperto di oro e con abiti di sartoria ("Perché Cristo è stato e resta una icona fashion") proclama di essere il nuovo Gesù a folle adoranti; l'ex leader gay oggi sposato John Wescott, che ha creato il suo business di fede per convertire tutti i gay alla cristianità e che nega che Gesù abbia mai parlato della materia. E, poi, gli islamici integralisti da me intervistati, i cittadini dell' America profonda che dichiarano di aver parlato con il loro angelo custode, gli scienziati, gli analisti della religione autori di best seller, il capo della Cannaba Religion, Ferre van Beveren".
Ce n'è per tutti e genitori e figli fanno la fila per vedere e contestare il documentario con striscioni «God helps us» (Dio ci aiuta) o poster irridenti. Dice Maher: «Mi interessa molto la reazione della platea italiana, cattolica e no. Perché avevo solo un obiettivo nel realizzare il nostro lavoro. Far confrontare i popoli con la fede, quindi con la politica, il potere e la propria coscienza ». Scusi, una o due regole di fede per lei?: «Stimolare controversie, essere frugale e sempre ragionare con i fatti».

Il Mattino 11.11.08
La genetica va di moda è boom di test inutili
Solo una donna su 5 esegue l’amniocentesi mentre c’è un exploit di altri esami prenatali
di Manuela Correra


Roma. Troppi test genetici effettuati senza un reale bisogno ma solo per moda ed un proliferare di centri e laboratori in Italia del tutto «ingiustificato» e in vari casi a discapito di sicurezza e qualità delle prestazioni. È questa l’istantanea che emerge dal censimento 2007 sui test e le strutture di genetica in Italia, promosso dalla Società italiana di genetica medica e dall’Istituto Css-Mendel. Dal 2004 ad oggi si è registrato un aumento del 30% dei test genetici. Ed è allerta, ha avvertito il genetista e direttore scientifico dell’Istituto Css-Mendel, Bruno Dallapiccola, per i pericoli che arrivano da Internet: «Si offrono pacchetti di test genetici del tutto inaffidabili». Un «no» alle diagnosi genetiche fai da te arriva anche dal sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella, che ha messo in guardia dai rischi di un «atteggiamento di consumismo» sui test genetici. I dati sono significativi. Una donna su 5 in Italia effettua tecniche invasive di diagnosi prenatale come amniocentesi o villocentesi (102.000 test nel 2007). Ma sono circa 60.000 le donne che scelgono di non effettuare tali analisi pur avendo un’età a rischio. Al contempo, aumentano invece i test molecolari prenatali per singole malattie: oltre 20.000 nel 2007. E il più delle volte sono effettuati senza una reale indicazione e quindi inutili. Sono affidabili i test che misurano singole malattie dovute a mutazione di un solo gene, avverte Dallapiccola, ma i test spesso pubblicizzati in rete per patologie complesse come diabete, ipertensione, osteoporosi «sono inaffidabili. Nel 2007 sono stati eseguiti complessivamente circa 560.000 test genetici, ma le consulenze di genetisti clinici sono state solo 70.154 (13%). Dato che preoccupa, poiché la consulenza è fondamentale per interpretare i test. Un altro dato che preoccupa, denuncia il genetista, è che solo il 28% dei laboratori è certificato secondo norme internazionali e solo il 35% partecipa a controlli esterni di qualità. Il numero delle strutture di genetica «è in continuo e ingiustificato aumento». Sono stati censiti 388 laboratori in 278 strutture. Solo 70 strutture (il 28%) sono certificate secondo la norma Iso-9001. Il 64% delle strutture al Nord è certificato con un sistema di qualità, cifra che al Sud scende al 12%.