giovedì 13 novembre 2008

Liberazione 13.11.08
Da dove ripartire?
15 tesi per la sinistra
di Fausto Bertinotti


1. Dopo la disastrosa sconfitta elettorale e la cancellazione della sinistra in Italia si è posta l'esigenza inderogabile della sua rinascita. Il rischio, in caso contrario, è la sua scomparsa dal panorama politico del paese per un lungo periodo.

2. Da allora, in pochi mesi, sono avvenuti eventi che hanno mutato profondamente la situazione, sia a livello mondiale, che del paese; sia nella sfera dell'economia, che in quella sociale, che in quella politica (seppure in questo caso lontano dall'Europa, come per la vittoria di Barack Obama). Ognuno di questi mutamenti, e tutti insieme reclamano una nuova, radicalmente nuova, presenza della sinistra in Italia e in Europa, rendendo persino più acuta l'esigenza, già emersa drammaticamente dopo il voto, di mettersi al lavoro per riempire un vuoto orribile.

3. Il precipitare della crisi, che ha investito il capitalismo finanziario globalizzato e che si estende dagli Usa al mondo intero, sottolinea duramente il vuoto di sinistra in Europa e propone, in tutta la sua portata storica, il tema della costruzione di una sinistra europea. E' stato detto giustamente che, se non sa mettere in campo, di fronte a questa crisi, una proposta di politica economica alternativa a quella dei governi, la sinistra non esiste.

4. La risposta alla crisi del capitalismo finanziario globalizzato è dunque un banco di prova obbligato, tanto più per le spaventose conseguenze sociali e di pesante ristrutturazione del lavoro che, in sua assenza, si produrrebbero. Una traccia di proposta è già presente nel mondo degli economisti critici. La necessità del sistema di ricorrere all'intervento pubblico porta la contesa sulla natura dell'intervento pubblico e del ruolo dello Stato. Una proposta della sinistra dovrebbe cogliere l'occasione davvero straordinaria per rivendicare un intervento pubblico nell'economia finalizzato ad una prima riforma di quel modello di sviluppo che ha generato la crisi attuale, per andare nella direzione di un modello alternativo di economia più equa, più ecologica e meno instabile. L'intervento pubblico dovrebbe perciò essere massiccio, quanto precisamente finalizzato. E' stato giustamente sottolineato che la sfida che si ripropone è sul cosa, come, dove e per chi produrre. E' concreta la possibilità di cogliere l'occasione della nazionalizzazione della finanza per rivendicare un piano del lavoro che faccia dello Stato il garante di una programmazione per il pieno impiego e un lavoro di qualità che superi la sua precarizzazione.
Alla sua base vanno individuate, e scelte, le grandi questioni irrisolte della società e i bisogni maturi e non soddisfatti. La guida di questa svolta nella politica economica sta nella organizzazione della domanda dove più stretta è la relazione tra le problematiche economiche, quelle della qualità e stabilità del lavoro e quelle ecologiche, per costruire delle risposte che sollecitino uno sviluppo qualificato della ricerca, della ricerca applicata, della tecnologia e di nuove forme di organizzazione del lavoro. La dimensione necessaria per questa riforma della politica economica è certo quella europea, ma già il livello nazionale va investito da una forte iniziativa politica e sociale. L'occasione è quella di una terribile difficoltà, ma anche quella propizia alla rinascita della sinistra, nel cimento su un passaggio così difficile. Si tratta ora di immettere questo schema di proposta con forza nel dibattito e nello scontro politico. Su questa traccia va contemporaneamente messa all'opera una comunità scientifica allargata, all'esperienza sociale in primo luogo, da cui nasca una proposta condivisa che possa entrare in relazione con tutti i fronti di lotta.

5. Il movimento di lotta di queste ultime settimane di straordinaria mobilitazione nella scuola ha dimostrato quel che si doveva già sapere, che nessun consenso di opinione mette al riparo i governi dall'insorgere del conflitto sociale, ma, contemporaneamente, ci fa scoprire una nuova dimensione possibile del conflitto, quella della sua indipendenza dalle forze politiche e della sua irrappresentabilità. Si tratta di un movimento del tutto inedito, assai diverso non solo da quelli del '68 e del '77, ma anche da quello della Pantera, un movimento diverso per composizione, organizzazione e forme di crescita anche dal movimento altermondista. Esso promuove l'azione collettiva della popolazione di un comparto della società, qui la scuola, sulla base della denuncia della lesione di un suo diritto condiviso. Avevamo già visto che senza la sinistra non c'è opposizione politico-sociale, ora impariamo che neppure l'opposizione sociale rimette più in piedi la sinistra. Si sono consumate tutte le rendite di posizione della politica. Senza un'idea di sé, del suo rapporto con i movimenti e con la società la sinistra non esiste e non rinasce.

6. Il lavoro sarà investito da una nuova fase di ristrutturazione promossa dalla crisi, e sulla base della recessione e dell'attacco all'occupazione. Il padronato si prepara a gestirla facendola precedere da un a-fondo sul sistema contrattuale con lo scopo di ridurre non solo il lavoro, ma anche il sindacato a variabile dipendente della competitività aziendale. Sebbene possa sembrare troppo radicale ed estremista, l'obiettivo confindustriale è proprio quello di cancellare l'autonomia rivendicativa e contrattuale del sindacato per sostituirlo con la sua istituzionalizzazione neocorporativa: un cambio della sua natura per sottomettere "definitivamente" il lavoro all'impresa e al capitalismo. Cambiano, anche assai profondamente, i cicli economici e la composizione del lavoro, ma il lavoro, la contesa sul lavoro e la soggettività delle lavoratrici e dei lavoratori, cioè il concreto manifestarsi delle lotte di classe, torna come uno degli snodi decisivi per l'esistenza della sinistra. Non c'è nessun automatismo né alcuna esclusività da proporre, né alcuna collocazione gerarchica da rivendicare rispetto ad altre contraddizioni, prima tra tutte quella ambientale. Semplicemente senza una sua politica su questo snodo la sinistra non esiste. La stessa questione sindacale acquista un peso del tutto particolare sia rispetto alla questione sociale che a quella politica. Se la Cgil si sottrarrà all'esito voluto dalla Confindustria e dal Governo niente rimarrà come è stato dal 1992 ad oggi, e comincerà una nuova seppur difficile storia del sindacato e del conflitto di lavoro in Italia.

7. Sia che si guardino le già grandi novità intervenute, dopo la storica sconfitta, dal punto di vista strutturale che dal punto di vista dei processi politici, si vede emergere quale tema prioritario, connesso con la questione delle proposte sulla natura del nuovo intervento pubblico nell'economia, quello dell'efficacia dell'opposizione ai fini di impedire che il cerchio si chiuda, con l'irreversibile cancellazione per l'intero medio periodo della sinistra e con la sistematica separazione tra il sociale e il politico, tra la vita delle persone e la politica. La qualità e l'ampiezza dell'opposizione debbono porsi all'altezza di un disegno regressivo di restaurazione che vede progressivamente soppiantare la Carta fondamentale della Repubblica da una costituzione materiale che ne rovescia il senso, facendosi accompagnare da una rivoluzione conservatrice guidata dalla nuova destra. L'esito di un "regime leggero", a fondamento di un assetto a-democratico della società, può essere impedito solo da un'opposizione di sinistra, popolare, di massa e capace di risalire, per metterle in discussione, alle cause strutturali del disagio sociale e della crisi economica. Ripensare a fondo l'agire collettivo, attivare tutte le forme della democrazia partecipativa, andare a lezione dai movimenti emergenti, rivoluzionare la grammatica dei rapporti tra forze politiche e movimenti, scegliere i tempi e i modi di proprie campagne di mobilitazione e di lotta che facciano venire alla luce potenzialità latenti, far coesistere esperienze diverse solo disposte a riconoscersi reciprocamente, rileggere le esperienze di democrazia diretta a partire dall'uso mirato del referendum, costituire autonomi comitati di scopo, sono solo alcune delle pratiche necessarie di un piano di lavoro politico che associ chiunque ci stia sulla base della selezione politica operata unicamente dalla condivisione dell'obiettivo.

8. Era già evidente dopo la sconfitta che la rinascita della sinistra sarebbe dovuta essere in realtà un cominciare da capo. Tutto ciò che accade avvalora questa tesi. Il rinnovamento nella continuità, che sarebbe stato possibile fino a ieri è oggi impossibile. Lo sarebbe stato, con particolare forza, di fronte ai grandi passaggi storici mancati, come la primavera di Praga, il '68-'69, lo stesso '89, per lo straordinario accumulo di storia e di esperienze fin lì a disposizione e che avrebbero potuto permettere un'uscita da sinistra dalle crisi del movimento operaio. Allora sarebbe stato possibile quel che oggi non è più possibile. Ancora, in tutt'affatto diverse condizioni, di fronte al costituirsi del movimento altermondista, un'estrema possibilità si era venuta proponendo alla politica. Ma oggi, dopo la sconfitta storica e la scomparsa della sinistra politica come forza attrattiva, questa ipotesi di lavoro non è più possibile. Quel che resta vivo dei tentativi, anche coraggiosamente tentati di fronte ai precedenti passaggi critici, è l'esigenza di fondo, quella di un'uscita da sinistra dalla crisi del movimento operaio. Ma ora è necessario che sia un'uscita da sinistra capace di essere praticata da nuove grandi organizzazioni politiche. La sinistra di cui c'è bisogno è perciò una sinistra di società, cioè capace di essere portatrice di una rinnovata critica del modo di produzione capitalistico e di un'alternativa di società e, contemporaneamente, per forza organizzata, capace di influenzare il corso generale in atto e le scelte della politica: una forza politica di cambiamento e di trasformazione.

9. Ricominciare politicamente da capo per ricostruire la sinistra in Italia e in Europa non vuol dire contrarre la malattia del nuovismo che è un'apologetica dell'innovazione che ora si fa addirittura grottesca di fronte ad una realtà come quella attuale che fa dire come scriveva Gorz "Non è un capitalismo in crisi, ma è la crisi del capitalismo che scuote profondamente la realtà". Essa genera a sua volta una crisi di civiltà e un rischio per l'umanità tutta. Un'adesione all'attuale modernizzazione è semplicemente insensata. Né vuol dire essere dimentichi del passato. Il movimento operaio del '900 è il mondo da cui veniamo. Delle tre grandi direttrici su cui si è sviluppato, la prima è morta nella tragedia, ed è quella che, sulla rottura rivoluzionaria, ha fondato la costruzione dello stato e di ciò che è stato chiamato il comunismo reale; la seconda è molto, molto malata, ed è quella che, in tutta la seconda metà del secolo, specie in Europa, ha continuato a porsi il tema della trasformazione della società capitalista diventando protagonista del compromesso democratico dei 30 anni gloriosi; la terza è ancora vitale (anche per la conferma, seppur anche spiazzante, che le viene dalle grandi mutazioni di cui il capitalismo è capace per riconfermarsi) ed è il nucleo forte della critica al capitalismo proprio dell'impianto marxiano. Proprio in ragione della sua vitalità convince ancora la tesi propagata da grandi intellettuali marxisti già alla fine del secolo scorso di andare oltre Marx, tesi che pretende una duplice opposizione, sia nei confronti di chi ne propone l'abbandono, sia di chi ne propone una acritica nuova adozione. Si può pensare di mettere a frutto la vitalità della teoria, consapevoli anche della sua maturità, proprio cercando la relazione con due contraddizioni altrettanto decisive nella critica al nuovo capitalismo totalizzante, quella tra ambiente e sviluppo e quella di genere. Un forte spirito di ricerca nella teoria critica del capitalismo dovrebbe alimentare una tendenza culturale e politica necessaria, insieme ad altre, alla rinascita politica della sinistra.

10. Il movimento operaio del Novecento vive dal '17 agli anni '80 su ciò che è stato definita l'alleanza, o la fusione, tra la classe operaia e una teoria, quella marxista-leninista. Per averne conferma basti pensare soltanto al fatto che il partito comunista dalla storia nazionale forse più autonoma di ogni altro, il Pci, modifica, nel suo statuto, il riferimento al marxismo-leninismo solo nel 1979. Il peso dell'alleanza in questo movimento operaio, quello del '900, quand'anche in esso siano cresciute esperienze diverse, è forte e innegabile. Ma questa non è la sola storia del movimento operaio possibile. Né è stata la sola. Ce ne sono state di diverse già nel corso della storia, si pensi al ciclo che precedette la Comune di Parigi, e dunque altre ce ne potranno essere, sempreché lo sfruttamento esistente sia considerabile politicamente significativo. Ad un nuovo movimento operaio la sinistra dovrebbe lavorare, nel tempo di una nuova rivoluzione capitalistica, anche modificando i contraenti l'alleanza e la sua stessa base teorica. A richiedere un soggetto capace di proporsi, su scala mondiale e in un processo storico, il superamento del capitalismo è la natura di questo capitalismo totalizzante, sono le forme concrete di sfruttamento e di alienazione che esso genera e la sua attuale proprietà di fare innovazione e contemporaneamente di produrre crisi di civiltà e di umanità. A questa ricerca non può essere estraneo il processo di costruzione della sinistra in Europa e in Italia che, tuttavia, deve disporre di un'autonoma fondazione politica, quella della definizione di un programma fondamentale in cui possano riconoscersi una molteplicità di soggetti e una pluralità di culture politiche, capace di costituire, come insieme, il fatto nuovo nella politica.

11. In politica è certo importante come chiamarsi. I simboli, i segni di una comunità scelta parlano di un'identità, di un'appartenenza. In questo nostro tempo l'identità, se vuole contrastare, anche in sé, il codice dell'esclusione che è quello oggi prevalente nella società (basti pensare, per la sua presenza nefasta e corruttiva, al riemergere del razzismo), deve essere aperta e formarsi in progresso, fermo solo il punto di avvio. I grandi nomi definitori dei partiti sono indistinguibili dalla loro storia. Parlano il linguaggio della politica solo quando sono riconoscibili ai grandi numeri, alle persone comuni e sanno trasmettere il senso dell'appartenenza ad un'impresa comune, ad un campo significativo di forze. Non è la stessa cosa dichiarare di militare personalmente per una causa o fare di essa il programma di un partito. Comunista è una parola molto impegnativa, da maneggiare con cura e misura. Essa è insieme troppo e troppo poco per definire, oggi e qui, un nuovo soggetto politico. Troppo, perché se il programma del comunismo è, come è, la liberazione del e dal lavoro salariato esso non può trovare posto (seppure possa illuminarne la ricerca) nella dimensione storica concreta a cui deve rispondere il programma fondamentale della sinistra, che non può che essere, realisticamente, ma anche ambiziosamente, quella della ricerca sul socialismo del XXI secolo. Troppo poco, perché quand'anche dichiarata l'ipotesi finalistica comunista, non potrebbe dirci granché delle ragioni, concrete, sempre quelle del qui e ora, per cui deve costituirsi la sinistra oggi, dopo la distruzione. Altro è stato, e sarebbe, il caso dell'intervento sul nome di formazioni già esistenti dove il rispetto della storia, delle storie che l'hanno animato e la loro costituzione materiale, danno conto direttamente e storicamente di un percorso e delle sue aperture, basti pensare a quello del Pci. Altro è dar vita ad un nuovo progetto politico. La sinistra è stata l'origine della politica di libertà e di giustizia nella storia moderna, cosa che consente la rammemorazione sempre necessaria per prendere il nuovo slancio. Ma è contemporaneamente anche la riaffermazione, nel presente, di un clivage, senza il quale non c'è più la politica, non c'è più scelta, il clivage tra destra e sinistra. La sinistra parla di una famiglia politica potenzialmente così ampia da poter comprendere tutti coloro che vogliono costituire una forza politica capace di tornare a declinare, in Europa, nel secolo XXI, di fronte al capitalismo totalizzante del nostro tempo, i temi di libertà e eguaglianza e che sanno che, dopo la sconfitta, si tratta di cominciare da capo. Non sarà casuale che dopo la caduta delle dittature militari in America Latina, nel rinascimento della sinistra latinoamericana, nessuna grande formazione politica che lì ha condotto alla vittoria, nei diversi paesi, la sinistra e i popoli del continente si chiami comunista, nessuna dal Ptt di Lula al Mas di Evo Morales, pur avendo tutte al loro interno socialisti e comunisti.

12. Nessuna forza politica in Italia ha in sé oggi la forza e la cultura politiche sufficienti per questo necessario big - bang da cui possa rinascere la sinistra. Il Pd non è sinistra, e non per la composizione della sua base sociale, ma per la natura intrinseca del partito e del suo progetto politico. I partiti che hanno dato vita all'arcobaleno di sinistra lo sono, ma, separati, non hanno la massa critica necessaria per l'impresa, e, dopo la sconfitta, sono imprigionati anche rispetto alla capacità di innovazione da pesanti derive neo-identitarie. Il tema del tutto inedito, nel nuovo ciclo politico e che prende forza dall'esigenza di uscire da questo quadro impotente, è quello della ristrutturazione delle forze oggi di opposizione per dar vita ad una nuova grande sinistra di alternativa, unitaria, plurale, fondata imprescindibilmente sulla democrazia della partecipazione. La situazione, prima caratterizzata dall'esistenza di due sinistre in competizione, conflitto e possibile alleanza tra loro, è stata sostituita da una nuova situazione senza più sinistra. Sulla base dell'analisi di fatto la priorità delle priorità diventa perciò la rinascita della sinistra. Ma bisogna riconoscere che, ancora sulla base dell'analisi delle soggettività politiche in campo, quest'ipotesi, matura come grande esigenza per le forze di cambiamento e per la democrazia, è immatura soggettivamente. Ciò non toglie che debba essere indicata come meta da perseguire, non già con qualche scorciatoia politicista, per altro impossibile, ma attraverso la messa in campo di una ambiziosa e complessa operazione sociale, culturale e politica, di cui il primo passo possa essere la rottura degli steccati per cimentarsi con realtà dure e difficili come le questioni del lavoro, della scuola e della risposta da dare alla crisi, alla recessione e all'attacco all'occupazione.

13. Per affrontare questa sfida non solo vanno evitate le scorciatoie politiciste, ma ci si deve altresì precludere la via alla ricerca di un assetto delle forze di opposizione che non solo non costituirebbe uno stadio intermedio rispetto alla ristrutturazione e alla rinascita della sinistra, ma ne contraddirebbe l'ispirazione di fondo. E' l'ipotesi secondo la quale, alla crisi del centro-sinistra degli ultimi 10 anni, si dovrebbe sostituire il rapporto tra l'attuale Pd e una forza alla sua sinistra che assuma il compito di condizionarne le politiche e per riaprire, su questa base, la prospettiva di governo. Questo esito, che rappresenterebbe nient'altro che uno sviluppo moderato dell'attuale situazione di vuoto, è da contrastare nettamente. Esso ha una sola verità interna ed è che, nella attuale immaturità della ristrutturazione, deve essere perseguito l'obiettivo della costruzione da subito, si potrebbe dire da ieri, di una forza di sinistra. Ma questa nuova forza di sinistra per esistere deve disporre di un progetto autonomo, capace di delineare, per un intero ciclo, il suo compito nella società italiana ed europea. L'ispirazione della sua azione deve essere proiettata nel futuro (la rinascita della grande sinistra di cui costituisce la prima tappa) e non risucchiata nel passato del centro-sinistra. Il centro-sinistra è finito, ed è finito insieme alla sua tormentata, speranzosa ma, al fondo, fallimentare stagione. La cultura prevalente che l'ha promossa - governare la globalizzazione attraverso un corpo di regole e una classe dirigente moderna - non solo è all'origine del fallimento dei due governi Prodi, ma è stata sepolta dall'esplodere della crisi del capitalismo finanziario globalizzato. Certo il tema del governo va ripensato invece che abbandonato, ma per farlo bisogna ripartire dalla sinistra, dalla sua forza nella società, dalla sua capacità di produrre egemonia, senso comune, da un progetto riformatore della società, dell'economia e della democrazia capace di essere condiviso da grandi masse.

14. La costruzione di una forza politica unitaria e plurale della sinistra, così com'è oggi possibile, mettendo insieme e portando a unità, in un'impresa da costruire insieme, le forze e le persone che sentono fortemente questa esigenza, è un passaggio difficile quanto necessario. Necessario, prima che il quadro politico del paese si chiuda nel soffocante bipartitismo che avanza. Questo processo costituente di una forza di sinistra sarebbe la prima tappa di un cammino ancor più ambizioso, ma intanto indispensabile per non morire tra moderatismo, da un lato, chiusura identitaria, da un altro, ed esodo dalla politica, da un altro ancora. La realtà sociale del paese è ancora viva, anche se, in parte assai considerevole, drammaticamente depoliticizzata. Nei corpi intermedi della società italiana, sindacati, associazioni, centri sociali, volontariato, vive un patrimonio di esperienze e saperi che parla le lingue della sinistra, quand'anche questa sia, come oggi, muta. Nei movimenti puoi assistere a fenomeni imprevisti, del tutto imprevisti, anche fino a pochissimo tempo dal loro manifestarsi, come quello della scuola. Nell'intellettualità del paese, negli operatori di cultura, arte e spettacolo, in alcuni giornali di sinistra c'è il deposito di resistenze, spesso condannate alla solitudine, eppure non trascurabile. Se si riuscisse a profonderle tutte e ognuna in un'impresa comune, da questa nascerebbe la sinistra di oggi e di domani. Allora questo va fatto, rompendo gli indugi. C'è una sola condizione che tutte e tutti coloro che sentono il bisogno di sinistra hanno il diritto di porre per poter prendere parte paritariamente al processo costituente ed è la certezza della democrazia. La sinistra, per esistere, deve ora essere irriducibilmente democratica. Occorre qui una discontinuità secca col suo passato lontano e anche recente. Non c'è più la legittimazione che nei precedenti gruppi dirigenti, quelli usciti dalla Resistenza, consisteva nella loro storia; ogni cooptazione diventa arbitraria e divide; ogni intesa oligarchica diventa un ulteriore fattore di ulteriore distacco della politica dalla società e dai soggetti in essa attivi. L'impegno deve quindi, su questo terreno, essere irrevocabile: ogni funzione dirigente, ogni funzione di rappresentanza, fin dall'inizio del processo, deve essere attribuita con la partecipazione di tutti i rappresentati con voto segreto, su scheda bianca, tutte e tutti elettori ed eleggibili e tutti revocabili: inesorabilmente e rigorosamente una testa un voto.

15. La sinistra deve avere l'ambizione di essere anche una comunità scelta, un insieme di luoghi e di relazioni che fanno accoglienza e cura della persona. In essa devi poterci stare bene. Devi poter avere voglia di partecipare. La pratica della nonviolenza deve improntare le sue relazioni sia esterne che interne. La creazione di forme di autogoverno e di partecipazione deve costituire, in essa, il suo modo di essere e deve investire i vari aspetti del vivere, del produrre, del consumare, del convivere e del fare politica. C'è, a questo fine, da conquistare una sorta di precondizione, la rottura dell'individualismo competitivo che ha investito tutte le nostre relazioni individuali e collettive per sostituirlo, se non con un comportamento altruistico, almeno con uno improntato all'"egoismo maturo", cioè alla consapevolezza che o ce la si fa insieme o non ce la si fa. Si potrebbe cominciare, nei rapporti interpersonali, nei luoghi di confronto politico e di formazione delle decisioni, col sostituire il troppo abusato "non sono d'accordo" con il "sono d'accordo, ma…". Alla riforma della soggettività da investire nell'impresa bisogna, affinché si possa produrre e sia efficace, una altrettanto riforma strutturale del modo di essere della sinistra. Il centralismo romanocentrico, figlio non più dell'esigenza nazionale di una formazione compatta di combattimento, bensì della "governamentalità" e della centralità delle istituzioni nella politica, va spezzato in radice, dalle fondamenta. La sinistra deve saper avvolgere la dimensione nazionale in due altre dimensioni strategiche, in alto, quella europea (dove continua ad essere preziosa l'esperienza del partito della sinistra europea) e in basso, ma fondativo, il territorio. Il territorio, non già nella sua cattiva lettura basista o peggio nella sua pessima lettura populista, ma la contrario come terreno culturale, civile, di storia e di esperienza (l'Italia delle cento città) che può indurre la politica a ricominciare dalla messa in discussione dei concreti e differenziati manifestarsi di un modello di sviluppo la cui contestazione è la ragione prima della rinascita della sinistra. Perciò va fatta, nell'organizzazione della politica della sinistra, la scelta di un modello federativo partecipato, fondato sulla parificazione dei ruoli dirigenti tra autonome strutture regionali (la sinistra sarda, campana, lombarda, toscana, pugliese, etc.) e la direzione nazionale che deve essere da esse compartecipata. La rinascita della sinistra dai territori, in un disegno nazionalmente condiviso, è la via maestra per dare vita al suo primo compito ai fini di sconfiggere l'egemonia nella società conquistata dalla nuova destra. La realizzazione della riforma della società civile mediante la produzione di culture, di pratiche sociali, di luoghi e forme di convivenza, di organizzazioni civili, sociali ed economiche che contengono una critica vissuta al primato dell'impresa e del mercato, è parte decisiva di questo compito storico. E' anche da qui, dalla rottura culturale e fattuale con ogni centralismo, che rinasce la sinistra.
l’Unità 13.11.08
Sindacati spaccati. Epifani: è sciopero
di Felicia Masocco


Bonanni e Angeletti partecipano a un vertice a Palazzo Grazioli, presenti mezzo governo e Confindustria. «Gravissimo» protesta Guglielmo Epifani. E il direttivo Cgil decide: sciopero generale il 12 dicembre.
«È peggio del Patto per l’Italia». L’irritazione di Guglielmo Epifani è evidente, non manda giù l’esclusione dal vertice che l’altra sera ha riunito a Palazzo Grazioli i colleghi di Cisl e Uil, la presidente di Confindustria e mezzo governo. «È gravissimo, non sarà facile da superare», dice al Direttivo Cgil che poi, con unanime convinzione, ha votato lo sciopero generale per il 12 dicembre.
Le avvisaglie non mancavano, ma nessuno si aspettava che l’unità del sindacato italiano toccasse tanto in fretta il punto più basso dal 2002, dalle divisioni sull’articolo 18 e sul Patto per l’Italia, appunto. Ora come allora, il premier è Silvio Berlusconi, i registi sono Tremonti e Sacconi. A capo della Uil c’è ancora Luigi Angeletti. A capo della Cisl c’era Savino Pezzotta che nel febbraio del 2002 passò per la lavanderia di un albergo del centro per incontrare Gianfranco Fini. Ora c’è Raffaele Bonanni, che con Angeletti è stato visto martedì sera lasciare la residenza privata del premier dalla porta posteriore. Escamotage inutile. Entrambi negano, ma le agenzie di stampa che dopo le 21 hanno battuto la notizia non rettificano alcunché.
Il solco è segnato. «Quello che accaduto, se confermato, è un fatto gravissimo, una cosa senza precedenti», attacca Epifani. Il premier «dimostra di non avere rispetto per gli interlocutori che esprimono opinioni diverse dalle sue». Sulla crisi non c’è stato nessun confronto formale, «mentre quelli riservati li tiene con alcuni soggetti, escludendo la Cgil, l’Ugl e le altre rappresentanze di impresa».
La Cgil chiede un incontro immediato con il governo e annuncia che invierà una lettera ai segretari di Cisl e Uil e alla presidente di Confindustria per «chiedere conferma» dell’incontro di Palazzo Grazioli. «Si apre un problema formale nei rapporti con le altre organizzazioni e con la Confindustria». E questo è inedito. Quanto accaduto non pone più solo un problema di «affidabilità politica», di rapporti con un governo «che cerca complicità, che nasconde, che non ha coraggio», ha detto Epifani al Parlamentino Cgil. Dati i trascorsi c’era da aspettarselo. Sorprende e ferisce di più l’atteggiamento dei leader di Cisl, Uil e di Confindustria. Con loro «si apre un problema di affidabilità personale». Ancora ieri sera dai tre nessun contatto, una telefonata, neanche da Emma Marcegaglia che pure con Epifani ha rapporti cordiali.
Divide et impera, questo per la Cgil è il disegno del governo «che spinge verso un accordo separato sulla riforma della contrattazione». Dal vertice è rimasta fuori anche l’Ugl, «pensavamo che la stagione degli incontri separati fosse terminata con la scorsa legislatura - commenta Renata Polverini-. Nel rapporto con il governo c’è ormai una questione di metodo». Non esiste per Cisl e Uil. «Non c’è stato nessun incontro», afferma Raffaele Bonanni; «Non ci sono state trattative con il governo», precisa in serata, «Epifani lo dice per coprire un suo errore, ovvero uno sciopero velleitario che farà da solo». «Non c’è stato nessun invito», gli fa eco Luigi Angeletti. Ma una conferma arriva da Sacconi: «Incontri informali ci sono e ci saranno sempre, quel che contano sono i dati politici».
La spaccatura agita il Pd, il timore è che il governo miri a un bipolarismo sociale d cui il Paese non ha bisogno. Bersani accusa il governo di «irresponsabilità». Dagli ex cislini (Marini, Baretta, Cocilovo, D’Antoni) è partito il pressing su Bonanni perché non consegni la base Cisl a Berlusconi. «È uno dei momenti più delicati della storia sindacale - afferma Pierpaolo Baretta -. La politica dovrebbe fare un passo indietro».

Repubblica 13.11.08
La svolta del leader Cgil, che tranquillizza il suo sindacato: "Il giorno dello sciopero non saremo soli"
E il moderato Guglielmo sceglie la piazza "Bisogna reagire al clima da basso impero"
di Paolo Griseri


Lo spettro ha popolato per decenni gli incubi peggiori della sinistra italiana aggirandosi nelle stanze del Pci prima e della Cgil poi. È lo spettro della "conventio ad excludendum", l´accordo per tagliare fuori l´ala sinistra della rappresentanza sociale nella speranza che l´esclusione dalle trattative faccia perdere consensi a chi si oppone al governo. Guglielmo Epifani legge così il patto di Palazzo Grazioli, la riunione riservata a casa Berlusconi cui partecipano i leader di Confindustria, Cisl e Uil. «Possibile che i commensali non si siano accorti che a quel tavolo c´era un posto vuoto?», ripete il leader della Cgil ai suoi collaboratori. Nemmeno la lettura della rassegna stampa del mattino lo convince che si sia consumato uno strappo tanto clamoroso nella costituzione materiale italiana. Epifani fa cercare Maurizio Beretta, direttore generale di Confindustria: «È vera questa storia dell´incontro segreto?». «È vera, ci siamo andati».
Con chi è più arrabbiato Epifani? Difficile rispondere per chi assiste al suo sfogo insolito. Il segretario parla di «una vicenda indecorosa che apre uno scenario inquietante sul governo e sulla nostra democrazia». Certo, si arrabbia con Angeletti e Bonanni: «Prima ammettono di aver partecipato, poi negano anche se ci sono i lanci di agenzia a testimoniare la loro presenza». Soprattutto però il segretario è irritato con Emma Marcegaglia: «Come ha fatto lei a non chiedersi perché c´erano certe assenze a quel tavolo? E non parlo solo di noi. Parlo anche di Renata Polverini dell´Ugl, tanto per fare un esempio». Per non citare «le associazioni delle piccole e medie imprese» che pure a una riunione sulla manovra anticrisi avrebbero avuto da dire la loro. Colpisce che il vertice di Confindustria accetti un´operazione di evidente collateralismo con il governo di centrodestra. Tornano i tempi di D´Amato?
Per paradosso Epifani sembra più irritato per il tradimento della sua controparte naturale che per il comportamento dei colleghi delle altre confederazioni: «Con Cisl e Uil siamo a un copione che si ripete. Dal patto della lavanderia in poi i governi di Berlusconi ci hanno provato spesso». E spesso, ma questo Epifani non lo dice ai suoi, quei tentativi portano la firma di Maurizio Sacconi, oggi ministro del Welfare, fino a due anni fa sottosegretario al Lavoro. Il riferimento al "patto della lavanderia" vuole essere in qualche modo beneaugurante per la Cgil. L´incontro segreto del 2002 tra l´allora vicepremier Gianfranco Fini e l´allora leader della Cisl Savino Pezzotta fu possibile perché l´esponente sindacale raggiunse la saletta riservata di un albergo di via del Babbuino passando dall´uscita secondaria di una lavanderia. L´intesa avrebbe portato al patto per l´Italia, un testo separato, firmato solo da Cisl e Uil e rimasto sostanzialmente lettera morta se non per le infinite discussioni che accese sull´abolizione dell´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Bonanni e Angeletti vogliono riprovarci? «Quali vantaggi ne avrebbero?», chiede Epifani ai suoi. E aggiunge: «Che cosa hanno voluto nasconderci in quella riunione?».
C´è la lettura politica, un´analisi che il segretario della Cgil ama poco ma che potrebbe fare da sfondo all´«inquietante scenario» di martedì sera. «È possibile che Berlusconi abbia voluto togliersi la soddisfazione di mettere da parte Cgil e Ugl per mandare un segnale a D´Alema e Fini, colpevoli di aver tentato un´intesa per far rinascere la bicamerale sulle riforme». Ma quello sfondo non può essere, da solo, la spiegazione dalla «conventio ad excludendum». Qual è l´oggetto dello scambio tra Cisl, Uil Confindustria e governo? «Avrei capito se avessero deciso di muoverci un attacco frontale, sul merito. Lo avremmo accettato e avremmo combattuto a viso aperto. Ma così, con le riunioni fatte sottobanco, con le fughe dalle uscite secondarie, dove pensano di andare? Si respira un´aria da basso impero». Nel basso impero la Cgil rischia di rimanere nell´angolo.
È evidente che il più grande sindacato italiano non può aspettare sul marciapiede di via del Plebiscito che arrivi una convocazione a casa Berlusconi. Così Epifani riunisce il direttivo e rilancia: a incontro separato si risponderà con lo sciopero separato. Strategia rischiosa? Il segretario tranquillizza i collaboratori: «Non credo che il 12 dicembre saremo isolati nelle piazze. E vedrete venerdì quanti ragazzi e insegnanti parteciperanno alle manifestazioni». Il dado è tratto. L´ultima battuta è principalmente contro il governo ma non risparmia Cisl e Uil: «Berlusconi non può pensare che la democrazia sia discutere solo con chi è d´accordo con lui».

Corriere della Sera 13.11.08
Nel Pd sale il gelo dell'ala filo Cisl: «Il 12 è uno sbaglio»
di Maria Teresa Meli


Il retroscena Bersani e Fassino: occorre tornare all'unità sindacale
E nel Pd spunta l'ala filo Cisl: un errore la mobilitazione Cgil
Fioroni: basta con i vecchi riti, il 12 non ci saremo

La prima reazione è uguale per tutti: sbaglia il governo a spaccare i sindacati e a tentare l'isolamento della Cgil. Premessa ovvia. A cui segue il resto. E il resto è che, seppur potrebbe apparentemente giovare al Pd, nessuno in quel partito si augura il bis del Cofferati stile 2002-2003.
Anche se per un anno almeno così rischia di essere. I vertici della Confindustria ne hanno parlato con i big del Pd e hanno espresso la loro convinzione: Guglielmo Epifani non firmerà niente, non può permetterselo, stretto com'è tra metalmeccanici e statali (che dopo i pensionati sono la parte più consistente dei suoi iscritti). Lascerà questa incombenza a chi gli succederà. Nel partito di Veltroni sono d'accordo con questa analisi. Uno sbocco, seppur non a brevissimo termine, potrebbe essere quello di candidare Epifani alle europee. «Se ne è parlato», dice il ministro ombra Andrea Martella. «E' un'ipotesi», conferma il coordinatore organizzativo del Pd Beppe Fioroni.
Nel frattempo, però, bisogna affrontare la divisione del sindacato, cosa non facilissima. «Occorre tornare all'unità », esorta Pierluigi Bersani. «C'è il rischio di una divaricazione pericolosa», gli fa eco Piero Fassino. Ma né l'uno né l'altro addebita la responsabilità della spaccatura a Bonanni e Angeletti che l'altra sera si sono attovagliati al tavolo del governo. «La linea dei duri e puri non è vincente », ammette Michele Ventura, ministro dalemiano del governo ombra. E a proposito di D'Alema chissà se era un caso la sua presenza, l'altro ieri, alla conferenza internazionale della Cisl.
Nel Pd, comunque, già ai tempi dell'Alitalia gli ex margheritini avevano fatto presente agli ex Ds che «bisogna tenere conto anche delle nostre posizioni che non si riconoscono in quelle della Cgil». E non che ora la situazione sia diversa. Fioroni, reduce da un colloquio con il segretario della Cisl Bonanni, dopo aver debitamente insultato il governo, osserva: «Non è che si può esaltare Obama e poi andare appresso a vecchi riti comunisti. Bisogna togliere le incrostazioni, la Cgil non è la cinghia di trasmissione del Pd e il suo leader non può fare come Giosuè e dire: "fermati sole". Un sindacato non fa politica ma deve fare i contratti. E questo è esattamente l'atteggiamento di Bonanni. Del resto, se il presidente del Consiglio ti invita è difficile non andarci perché un sindacato autonomo non ha governi amici o nemici».
E il 12 dicembre, al loro sciopero generale, gli uomini della Cgil non avranno al fianco il Pd (se si eccettuano le adesioni personali). «Ma siamo fuori di testa?», dice Fioroni a un compagno di partito che gli chiede se sia opportuno o meno scendere in piazza. Per Massimo Calearo, ex presidente di Federmeccanica, ora deputato del Pd, non ci sono dubbi: «La Cgil non è il sindacato, ma un sindacato». Come a dire: il Pd deve scindere le sue sorti da quelle dell'organizzazione di Epifani. Ed Enrico Letta è altrettanto determinato: «La divisione tra le confederazioni non si può evitare, è nelle cose, si può solo gestire, prendendo atto che noi e i sindacati siamo due cose diverse».
Già, il Pci non c'è più, il Pds nemmeno e anche i Ds sono scomparsi. Ora c'è il Pd il cui sindacato di riferimento non può più essere la Cgil. Toccherà ancora una volta a Walter Veltroni calarsi nei panni del paziente mediatore e tentare di evitare che la Cgil si faccia troppo male e che il solco tra l'organizzazione di Epifani e il Pd si allarghi ulteriormente.

il Riformista 13.11.08
Spaccare il sindacato accelera la riforme?


Sembra un destino ineluttabile, quello dei rapporti tra governo e sindacati. Quando il governo è di centrosinistra, non riesce a fare le riforme per tenersi buoni i sindacati (vedi assenteismo nella pubblica amministrazione). Quando il governo è di centrodestra, non riesce a fare le riforme perché spacca i sindacati. Accadde nella precedente legislatura berlusconiana quando, dopo aver firmato con Cisl e Uil il Patto per l'Italia, il centrodestra non tenne gli impegni assunti e rese dunque vana, oltre che traumatica, la spaccatura sindacale e l'isolamento della Cgil. Sta accadendo di nuovo in queste ore.
La Cgil ha dunque indetto lo sciopero generale, che covava da tempo ma che è stato annunciato al colmo di una furiosa arrabbiatura di Epifani per essere stato escluso dall'ennesima cena tra governo, Bonanni e Angeletti (è stata esclusa anche l'Ugl della Polverini, altrettanto infuriata). Dal canto loro Cisl e Uil hanno invece revocato lo sciopero sull'università, previsto per venerdì, avendo sottoscritto un documento di intenti con il ministro Gelmini che invece la Cgil non ha firmato. Se si aggiunge che la Cgil rifiuta l'accordo sul nuovo contratto con Confindustria che Cisl e Uil sono pronti a firmare, si capisce che ieri è andata definitivamente in frantumi anche quella parvenza di unità sindacale che era sopravvissuta all'avvento del centrodestra al governo.
Nel merito, la Cgil ha i suoi torti. Sia sulla contrattazione, sia sull'università, sia sul pubblico impiego, il più grande sindacato italiano resta su posizioni più conservatrici e arretrate degli altri due partner. Né si può pretendere che Cisl e Uil accettino costantemente la logica del veto Cgil. Ma nel metodo il governo ha i suoi torti. Le cene separate sono schiaffi inutili e dannosi alla dignità di quello che resta pur sempre il più grande sindacato italiano. La rottura dell'unità di azione sindacale non necessariamente accelera le riforme. Nel quinquennio berlusconiano tra il 2001 e il 2006 certamente non le accelerò. E se non le accelera, è inutile. Abbiamo l'impressione che si stia commettendo lo stesso errore anche in questa legislatura.

il Riformista 13.11.08
Il Pd al bivio storico della rottura sindacale
Sarà neutrale?
di Andrea Romano


Da oggi e fino al 12 dicembre la vera urgenza sarà politica molto più che sindacale. E investirà frontalmente il Partito democratico, che della fine del collateralismo ha fatto una delle sue ragioni costitutive. Se la Cgil ha ogni diritto a scegliersi le forme di protesta che considera più opportune (verificandone poi i risultati dal numero degli iscritti e da altri indicatori di forza e rilevanza) è il Pd a trovarsi di fronte ad un bivio storico. Per i Ds le cose erano molto più semplici, perché il legame organico con il principale sindacato confederale era una delle poche eredità ideologiche sopravvissute alla fine del Pci. A prenderlo sul serio (e questo giornale tende a prenderlo sul serio) il Partito democratico è nato invece con la missione di essere la casa comune delle più diverse appartenenze sindacali. Tra i suoi iscritti e militanti vi sono a pieno titolo membri della Cisl e della Uil, mentre la sua attenzione all'Ugl è un evidente tratto di novità. La vocazione che abbiamo ascoltato al Lingotto era quella di un partito pronto ad andare oltre il Novecento anche nel legame tra politica e movimento sindacale.
Libero il Pd di sostenere questa o quella rivendicazione, ma impegnato soprattutto nel rivolgersi ad una società fatta di cittadini e consumatori oltre che di lavoratori. Dopo il Lingotto ne sono successe tante. Compresa l'aspettativa salvifica per un "autunno caldo" che avrebbe restituito l'iniziativa politica al Pd dopo la sconfitta elettorale.
Eccoci qua, in autunno ci siamo e lo sciopero generale è lì davanti a noi.
Al Pd ora spetta l'onere della prova di una neutralità verso la Cgil che sarebbe la dimostrazione di un'autentica discontinuità con la storia del Novecento italiano. Soprattutto dinanzi ad uno scenario terribilmente complicato dalla determinazione tutta ideologica con cui Berlusconi persegue la rottura sindacale e dai sintomi di subalternità che la Confindustria sta mostrando verso il governo. Ma se le prove più difficili sono le uniche capaci di dare la sensazione di una crescita e di una direzione di marcia, il 12 dicembre può essere un vero punto di svolta per il Partito democratico.

il Riformista 13.11.08
Addio Triplice. Guerra totale tra Cgil e Cisl
di Tonia Mastrobuoni


DIVISIONI. Epifani tuona contro l'incontro riservato a palazzo Grazioli tra Berlusconi, Marcegaglia e le altre due sigle confederali: «Fatto gravissimo, senza precedenti». Poi annuncia lo sciopero generale per il 12 dicembre e coi suoi commenta: «Una spaccatura storica, peggio del Patto per l'Italia». Bonanni si sfila pure dalla mobilitazione anti-Gelmini di domani. Polverini (Ugl): «Momento drammatico per il sindacato italiano».

Persino Lula ha fatto appello all'unità sindacale italiana. Martedì, ospite dell'assemblea della Cisl, il presidente brasiliano, tradizionalmente in ottimi rapporti con il il sindacato di Raffaele Bonanni, ha fatto un commento preoccupato sulle divisioni della Triplice. Ignaro che Bonanni sarebbe stato invitato la sera stessa da Silvio Berlusconi a casa propria, a Palazzo Grazioli, assieme ad alcuni ministri, alla Uil e a Confindustria, senza la Cgil, ma neanche l'Ugl. Per affrontare dossier importanti come il presunto pacchetto per le famiglie o la riforma dei contratti.
Alle undici e un quarto, il premier deve essersi accorto di qualche assenza di troppo, così ha telefonato alla leader dell'Ugl, Renata Polverini, un'esclusa meno giustificata vista la vicinanza del sindacato ad An, un partito al governo, come dire, alleato di Berlusconi. Per placare l'irritazione di Polverini, il premier avrebbe fornito una bizzarra spiegazione: c'era l'esigenza di parlare prima con Bonanni e Angeletti, perché loro dovevano poi andare in tivvù, rispettivamente e Porta a Porta e Ballarò. Il che, a rigor di logica, non giustifica un bel niente. Ma almeno alla leader Ugl una telefonata del Cavaliere è arrivata.
Interpellata sull'incidente diplomatico di martedì sera, ma già nel mezzo della bufera di ieri, delle divisioni a geometrie variabili tra i confederali che si sono consumate nel pomeriggio, Polverini allarga il campo. «E' un momento drammatico per il sindacalismo italiano», dice al Riformista. «Io non trovo così tragico l'episodio di ieri. Trovo preoccupante invece che mentre infuria ancora il caos Alitalia, che è un caos sindacale, e mentre siamo nel mezzo di una crisi paurosa, i sindacati vadano in ordine sparso. Rischiamo di perdere ogni credibilità».
Intanto, nella mattinata, non appena Guglielmo Epifani ha appreso dai giornali dell'incontro riservato (per quanto può essere riservato un incontro nella residenza romana del presidente del Consiglio, presidiato notte e giorno dai cronisti), è esploso. «Quello che è accaduto ieri sera», ha tuonato nel corso del direttivo della sua organizzazione, «se confermato, è gravissimo, una cosa senza precedenti».
Il numero uno della Cgil ha poi chiesto un incontro con il governo ed ha annunciato una lettera ai numeri uno di Cisl, Uil e Confindustria per avere conferma della riunione, perché aprirebbe «un problema formale» nei rapporti con le altre organizzazioni sindacali e con la Confindustria. Immediato il commento di Umberto Bossi: «Io sono dalla parte di Rosi Mauro. Sai quante volte il Sindacato padano è rimasto fuori?». Per il leader lumbard a stretto rigore gli esclusi erano tre ma non c'è nulla di strano. Nessun problema neanche per uno dei presenti alle cena semi-segreta, il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi: «Incontri informali ci sono e ci saranno sempre. Quello che conta sono i dati politici». E secondo il ministro, è ormai palese che il sindacato di Epifani si è isolato dalle altre organizzazioni, a partire dalla deriva sulla riforma dei contratti.
Nel pomeriggio, le divisioni tra i quattro sindacati confederali sono esplose poi quasi in contemporanea. D'un lato, il direttivo della Cgil si è concluso con la notizia della data dello sciopero generale in solitaria, il 12 dicembre, contro la politica economica del governo. La decisione è stata votata all'unanimità e prevede quattro ore di sciopero con possibilità di otto ore con manifestazioni territoriali e una nazionale a Roma. La data coincide con lo sciopero generale della Fiom.
Durante la riunione, Epifani ha bollato l'attuale spaccatura con Cisl e Uil come peggiore di quella che si consumò sul Patto per l'Italia, nel 2002, durante il precedente governo Berlusconi. Ai suoi più stretti collaboratori il leader della Cgil ha espresso anche profonda irritazione per la presenza a Palazzo Grazioli di Emma Marcegaglia. Comprensibile che il capo degli industriali si rechi ad un incontro con il governo, se lo chiede Berlusconi, è stato il ragionamento di Epifani. Molto meno comprensibile è che non abbia interrogato Berlusconi sull'assenza del maggiore sindacato italiano a una riunione a quei livelli. E che il giorno dopo non abbia sentito l'esigenza di alzare il telefono per chiarirsi con il leader di quel sindacato.
Negli stessi minuti in cui il direttivo della Cgil decideva la data dello sciopero, la Cisl annunciava la revoca dello sciopero sulla scuola e sull'università, sin qui unitario, previsto per venerdì 14. Anche qui, una corsa solitaria: il sindacato di Bonanni si è detto soddisfatto dell'incontro avuto martedì con il ministro dell'Istruzione, Mariastella Gelmini. «Ho rispetto delle decisioni prese dalla Cisl, ma francamente non le comprendo», ha commentato Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc-Cgil. Affiancato, su questa vertenza, dalla Uil. Alberto Cirica, segretario generale Uil-università, ha spiegato che «per noi lo sciopero resta confermato, perchè gli scioperi si fanno sulle questioni di merito, e non pro o contro il governo di turno». Cirica ha poi sbottato «mi sembra che tutti cerchino di buttarla in politica, ma è solo un modo per coprire i veri problemi». Che a questo punto rischiano davvero di finire in fondo alla lista.

l’Unità 13.11.08
Tagli, l’Università in piazza
Ma la Cisl fa la fronda
di Giuseppe Vittori


La sigla di Bonanni in meno di un giorno fa la piroetta e si dice «convinta» dalla Gelmini. A Roma la manifestazione nazionale, una costola di studenti pronta a sganciarsi dal corteo per «assediare» Montecitorio.
24 ore per cambiare idea e per «strappare» con Cgil e Uil. Tanto c’ha messo la Cisl per sfilarsi dallo sciopero di domani contro i tagli all’istruzione. Una conversione a «U» dopo che martedì alla fine del vertice fiume dell’Eur tra sindacati e Gelmini le tre sigle erano uscite con la conferma della mobilitazione. «Il ministro si è impegnato a modificare alcuni passaggi importanti della manovra sull’università e a dare risposte concrete alle richieste contenute nella piattaforma per lo sciopero» spiegava ieri Antonio Marsilia, segretario generale della Federazione Università della sigla di Bonanni.
«Non comprendiamo la ragione della Cisl: noi siamo coerenti e fedeli alla piattaforma unitaria, così funziona un sindacato. Non bastano dichiarazioni di buona volontà» la risposta di Mimmo Pantaleo della Cgil. Ed il fatto che il Ministero della Funzione Pubblica ieri abbia fatto sapere che non intende incontrare i sindacati di Università e Ricerca per Pantaleo conferma che «il verbale fatto ieri all’incontro con Gelmini è pura finzione: si confermano le nostre ragioni dello sciopero». Idem dalla Uil: sul merito dalla Gelmini «nessuna garanzia sufficiente».
E mentre a stoppare arrivano anche Ugl, Confsal Snals Università Cisapuni e Snlas-Confsal Ricerca, il movimento intanto si prepara. A Roma concentramento a piazzale Aldo Moro, di fronte alla Sapienza, alle 8,30: gli studenti arriveranno da tutta Italia con pullman e treni. A Padova Trenitalia ha fissato a 15 euro il prezzo del biglietto per la Capitale, da Torino invece sono stati messi a disposizione del comitato torinese «No Gelmini» un convoglio per raggiungere la manifestazione nazionale, disponibile per andata e ritorno, a 45 euro a testa. Rischia di trasformarsi invece in un non facile problema di ordine pubblico il concentramento indetto per le 15.30 di oggi in Stazione Centrale a Milano dagli universitari che intendono recarsi a Roma domani: Trenitalia infatti non avrebbe previsto treni speciali o in affitto per gli studenti, che tra l’altro avevano rischiesto tariffe calmierate.
Nella Capitale altri due cortei prenderanno il via da Piramide (universitari di Roma Tre) e da piazza della Repubblica (studenti medi). Il corteo dei sindacati partirà invece dalla Bocca della Verità per dirigersi a P.zza Navona, alle spalle del Senato, passando per via delle Botteghe oscure e corso Vittorio Emanuele II. Una «costola» di studenti però si staccherà per dirigersi e cingere d’«assedio» Montecitorio. Ma la protesta continuerà anche sabato e domenica con le assemblee generali che si terranno all’interno delle diverse facoltà occupate: scienze politiche, lettere, fisica e chimica.

Repubblica 13.11.08
"G8, ecco l´agente che portò le molotov"
Bertinotti: De Gennaro mi disse "la Diaz non è un´ambasciata". Oggi la sentenza
di Massimo Calandri


I pm hanno chiesto 109 anni per 28 imputati. Tra di loro l´ex Sisde Luperi e Gratteri, al vertice dell´Antiterrorismo

GENOVA - Tutto suggerisce che la sentenza sarà letta al più tardi questa sera, in un tribunale che si annuncia affollato e sorvegliatissimo dalle forze dell´ordine. La prima sezione, presieduta da Gabrio Barone, si riunirà in camera di consiglio intorno a mezzogiorno. Per il blitz nella scuola Diaz gli imputati sono 29, tra agenti e super-poliziotti: i pm Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini hanno chiesto la assoluzione di un commissario di cui «non è certa la presenza nell´istituto», e 28 condanne a complessivi 109 anni e 9 mesi di reclusione. Per aver massacrato delle persone inermi, per averle arrestate illegalmente e con prove false. Sotto accusa ci sono alcuni tra i nomi più noti del ministero dell´Interno: Francesco Gratteri, oggi al vertice dell´Antiterrorismo, Giovanni Luperi, attuale capo dell´Aisi, l´ex Sisde, e Gilberto Caldarozzi, tra i protagonisti della cattura di Bernardo Provenzano. Intanto Fausto Bertinotti racconta una sua telefonata con il capo della polizia di allora, Gianni De Gennaro: "Cosa vuole che faccia, quella non e´ un´ambasciata... Non c´è extraterritorialità. Quello che sta avvenendo è una sorta di controllo del territorio. Non le posso dire altro, ma non mi può chiedere una protezione come fosse un´ambasciata". Bertinotti, che era allora segretario di Rifondazione Comunista, dà la sua testimonianza in un film-inchiesta di Beppe Cremagnani, Enrico Deaglio e Mario Portanova dal titolo "Fare un golpe e farla franca". Un estratto dell´intervista è on line sul sito Repubblica.it.
Stamani saranno presenti molte delle 93 vittime. Tra di loro Mark Covell, giornalista inglese di 40 anni. Che nel 2006, nell´aula del tribunale di Genova, mentre raccontava di come i poliziotti l´avevano quasi ammazzato a calci e bastonate, ha scorto il sorriso sprezzante di alcuni difensori degli imputati. Non riusciva a trattenere le lacrime, e intanto gli altri ridevano. La rabbia, la frustrazione, e un´inquietudine improvvisa: quella di non riuscire un giorno ad avere giustizia. È così che ha deciso di trasformarsi in un detective. Ha raccolto tutto il materiale video e fotografico della notte maledetta, è tornato nella sua città e con la collaborazione di una quindicina di tecnici ha lavorato giorno e notte a quella che ha ribattezzato la London Investigation. Oggi è in grado di raccontare tutto il percorso fatto dalle molotov. Le due bottiglie incendiarie portate dalle forze dell´ordine all´interno della Diaz dopo il blitz per «giustificare» il massacro e l´arresto, sostenendo che i no-global erano in realtà pericolosi Black Bloc. La «regina» delle prove false. Covell è riuscito ad isolare il fotogramma-simbolo di una delle pagine più nere nella storia della Polizia di Stato: il cortile della scuola, le sagome di due funzionari che si allontanano, e sullo sfondo a sinistra il profilo di un uomo sulla soglia dell´ingresso laterale. Di spalle, in borghese, con un casco protettivo. Nella mano sinistra stringe qualcosa. Il sacchetto con le bottiglie.
Le fotografie sono state depositate recentemente dalle parte civili e non fanno che reiterare le accuse della procura. «Voglio giustizia. Vogliamo giustizia. Perché le cose che sono accadute a noi della Diaz non debbano accadere a voi, un giorno». Mark Covell ? il giornalista, la vittima, il detective ? mostra ora una fotografia dietro l´altra. Indica questo e quel video, analizza ogni secondo di quei minuti drammatici e cita le rare testimonianze degli imputati. Mette insieme fotografie, filmati e verbali: «Questo è Gratteri che telefona e si avvicina all´ingresso. Ora vedete? Mortola al cellulare. Burgio, l´agente che materialmente porta le molotov fino al cortile della scuola. Poi Troiani che parla con gli altri super-poliziotti. Luperi che mostra il sacchetto. Ed eccolo ancora qui, dentro la scuola: spuntano le molotov, stanno per sistemarle su quel lenzuolo dove metteranno in mostra tutte le cose sequestrate». Luperi giurò di aver chiamato una funzionaria, Daniela Mengoni. Affidò a lei, nel cortile, le molotov. La Mengoni a sua volta disse di averle passate ad un misterioso ispettore della Digos di Napoli. Uno che non fu mai identificato. «Ma la Mengoni non appare mai nel cortile. E anche quella dell´ispettore di Napoli, che nessuno ha identificato, è una sporca bugia».
Un gruppo di «celerini» lo aveva assalito mentre si trovava in via Battisti, a cinquanta metri dalla scuola. Cominciava la «carica» alla Diaz. Inutile mostrare l´accredito da giornalista. Era rimasto agonizzante sulla strada per venti minuti. Quasi tutti i funzionari sotto accusa raccontarono di non essersi resi conto di quello che stava accadendo dentro la scuola. Però Mark si rifiutarono di vederlo. Più tardi in ospedale fu arrestato. Sostenendo che era dentro la scuola. Stamani vuole giustizia. E non si arrende. «Ho trovato altre immagini. E troverò anche il nome di quelli che mi volevano uccidere».

Repubblica 13.11.08
La denuncia: la polizia cercò di usare le maniere forti per portarli via
Il racconto dei medici-eroi "Così salvammo i feriti gravi"
Tra le vittime vi era il giornalista inglese Covell: "Era in stato di incoscienza"


GENOVA - «Quella notte i poliziotti si presentarono al pronto soccorso poco dopo i ricoveri. Volevano portare via tutti i feriti della Diaz, senza preoccuparsi delle loro condizioni. Cercarono di usare le maniere forti, ma ci rifiutammo di consegnare loro i più gravi». Medici ed infermieri dell´ospedale di genovese di San Martino ricordano la sera dell´assalto alla Diaz. E il comportamento delle forze dell´ordine. Tra di loro Giorgio Giordano, il dottore che soccorse l´inglese Mark Covell. «Era gravissimo, in stato di semi-incoscienza. Arrivarono gli agenti in divisa, dissero che era in stato di arresto. Volevano andarsene con lui. Una follia. Ci opponemmo a quello che sembrava quasi essere un sequestro di persona. Formammo una sorta di cordone umano, tra medici ed infermieri, e riuscimmo a resistere». Covell sarebbe rimasto ricoverato per altre due settimane. Volevano portarsi via anche Dolores Villlamor Herrero, una signora spagnola di settant´anni. L´ospite più anziano della scuola. Che alzò le mani per ripararsi dalle manganellate, ma un colpo dei famigerati "tonfa" le spezzò l´avambraccio destro. Dolores, minuta, i capelli bianchi, ricorda con orrore quegli istanti. «Avevo il terrore che mi portassero via. E continuai a convivere con la paura per tutti i giorni del ricovero». La maggior parte dei 61 feriti fu però costretta a lasciare il San Martino in piena notte. Li accompagnarono tutti nel "centro di detenzione temporanea" di Bolzaneto, la caserma del Reparto Mobile. La prigione del G8. Ad attenderli, per il cosiddetto "triage", c´era Giacomo Toccafondi, il medico poi condannato ad un anno e due mesi di reclusione. Quello che avevano ribattezzato "il dottor Mengele".
(m. cal.)

Repubblica 13.11.08
Vale la decisione di lasciar morire Eluana, nuovi accertamenti sullo stato vegetativo, via al decreto sulla libertà di rifiutare le cure
Almeno tre le ipotesi sul verdetto e intanto si cerca un "posto" per l´addio
In tutto il mondo non esiste un solo caso di "ritorno" alla coscienza da questa condizione


MILANO - L´attesa della sentenza a sezioni unite continua. Ci si interroga sugli scenari possibili. E sono almeno tre, ognuno con le sue conseguenze. Primo scenario: vale immediatamente la sentenza che permette di lasciar morire Eluana Englaro. Secondo: la corte stabilisce bisogna accertare l´irreversibilità dello stato vegetativo e chissà quando si torna a decidere. Terzo: bastano poche parole «nuove» da inserire nel decreto e il decreto che permette la libertà di rifiutare le cure diventa immediatamente realizzabile. Proviamo a capire concretamente, caso per caso.
Ipotesi rigetto del ricorso. L´hanno chiesto l´avvocato e il curatore speciale. Lo ha chiesto il procuratore generale presso la Cassazione. Alla stragrande maggioranza degli osservatori, la sentenza milanese del 9 luglio, che consentiva di lasciar morire Eluana - in stato vegetativo da quasi diciassette anni - era in perfetta linea con quanto stabilito dalla stessa Cassazione il dicembre scorso. Se dunque i supremi giudici dichiareranno «inammissibile» il ricorso della procura, nessun ostacolo può più inceppare la decisione della Corte civile d´appello di Milano. E quindi, dopo aver ricostruito la volontà di Eluana grazie a numerose testimonianze e aver stabilito che non ci sono margini di «recupero», il «via libera» da parte dei giudici torna valido. Subito. Un secondo dopo la Cassazione.
Con alcune condizioni burocratiche da rispettare. Infatti, è da luglio che Beppino Englaro, alcuni medici, alcuni legali cercano di trovare «un posto» per Eluana. Hanno varie possibilità. Anche se alcune fughe di notizie hanno turbato e non poco medici e politici, e addolorato il padre, che chiede invano un silenzio che non avrà, l´iter è questo: Eluana avrà un suo medico, che stilerà alcuni certificati, e sarà prelevata dalla casa di cura Beato Talamoni. Lascerà le suore che l´accudiscono dal 7 aprile del 1994 e sarà trasportata in una clinica. Le saranno sospese le cure e l´alimentazione, come accade da tempo in Italia a molte migliaia di malati terminali.
Ipotesi del parziale accoglimento del ricorso. La corte ritiene che il cosiddetto «giudicato interno» (il discorso è tecnicamente molto complesso) non sia perfetto e quindi - detto in maniera un po´ semplicistica - lo rimette a posto. Può cioè lasciare intatto il dispositivo (e quindi il decreto della Corte d´appello resta valido) e formulare una rettifica della motivazione sull´accertamento e sulla sussistenza dello stato di irreversibilità dello stato vegetativo in cui versa Eluana Englaro. Bastano poche parole, che possono scrivere direttamente i supremi giudici oppure essere scritte dalla Corte d´appello milanese. In questo caso, i tempi si allungano, ma non di molto.
Ipotesi dell´accoglimento del ricorso della procura milanese. A questa ipotesi non crede quasi nessuno, ma è bene tenerla in considerazione: i supremi giudici rimandano l´intero fascicolo a Milano perché il caso sia riaffrontato e sia disposta quanto meno una nuova perizia sullo stato vegetativo di Eluana. Ma, come sa chi ha il fascicolo, il 18 gennaio quando Eluana entrò in coma, aveva riportato lesioni gravissime alla corteccia cerebrale, alla sostanza bianca, ai centrisottocorticali e si era interrotto il collegamento tra cervello e corpo. A poco più di un mese, uscì dal coma e aprì gli occhi, ma rimase incapace di qualsiasi interazione con il mondo esterno. Vari medici e vari staff hanno diagnosticato, varie volte, lo stato vegetativo. In tutto il mondo, non esiste un solo caso di «ritorno» alla coscienza da questa condizione.
(p. col.)

Repubblica Milano 13.11.08
Botte e violenze in casa per una donna su venti
I dati 2007 del Fatebenefratelli. Più denunce
di Ilaria Carra


Il nemico non bussa alla porta: il più delle volte ha già le chiavi di casa. Perché la violenza sulle donne avviene quasi sempre tra le mura domestiche, da parte di mariti e conviventi che in Lombardia hanno aggredito, picchiato e violentato cinque donne su cento - una su 20 - solo nel 2007. Tre donne su dieci, tra i 16 e i 70 anni, sono state invece vittime di violenze almeno una volta nella vita. Violenza fisica o sessuale. Percosse, abusi, maltrattamenti, segregazione, sopraffazione. Ma anche minacce e aggressioni verbali, di cui Milano risulta essere la prima città per numero di casi. E la Lombardia, con circa un milione e mezzo di donne con almeno un maltrattamento in casa alle spalle, la quarta regione dopo Emilia Romagna, Lazio e Liguria.
Un fenomeno in continua crescita, che esce allo scoperto grazie a quel 10 per cento di vittime, in lieve aumento rispetto al passato, che ha il coraggio di denunciare l´aggressore. A dare il quadro della situazione sono gli esperti del Fatebenefratelli alla presentazione del libro «Riflessioni sulla violenza domestica per il medico di famiglia», che incoraggia i medici di base a sostenere con più dedizione le donne che per timore non denunciano. «Dati allarmanti perché la violenza si ripercuote anche all´esterno - denuncia Claudio Mencacci, primario di Psichiatria al Fatebenefratelli - i bambini la esercitano a scuola sotto forma di bullismo». Forme patologiche di gelosia e disturbi paranoici le cause principali, «oltre alle liti e all´estrema incapacità degli uomini di tollerare l´emancipazione femminile» aggiunge Mencacci. Fattori che, soprattutto a Milano dove lavora quasi il 60 per cento delle donne, portano a un´elevata conflittualità familiare. E a un altro primato nero: «Dal 2000 al 2006, 48 uxoricidi - spiega Alessandra Bramante, psicologa e criminologa - un numero molto elevato se in tutta la Lombardia sono stati 99, quasi tutti da parte di italiani. E non per un raptus: quasi sempre i segnali c´erano ma sono stati sottovalutati». Lo stile di vita di una metropoli ha un ruolo decisivo: «Diminuisce la capacità della famiglia di ammortizzare le situazioni estreme - aggiunge Claudio Mencacci - la vita condominiale schiaccia le persone tra quattro mura e porta all´isolamento sociale».

l’Unità 13.11.08
Usa, ne uccide più l’overdose di farmaci che di droghe
di Roberto Rezzo


Ne uccide più la ricetta dello spacciatore di strada. Uno studio appena pubblicato rivela che le morti per abuso di medicinali venduti in farmacia hanno superato alla grande quelle dovute a droghe illegali.
Secondo uno studio della Medical Examiner Commission della Florida dall'analisi di 168.900 autopsie risulta che le specialità che agiscono sul sistema nervoso centrale - regolarmente registrate a prontuario - hanno provocato tre volte il numero dei decessi causati da cocaina, eroina e anfetamine messe insieme. «L'abuso ha raggiunto proporzioni epidemiche - assicura Lisa McElhaney, sergente di polizia specializzata nel settore - È come un'esplosione».
Nel 2007, l'abuso di cocaina ha provocato 843 decessi, quello di eroina 121, anfetamine 25, zero per marijuana, per un totale di 989 morti. Nello stesso periodo 2.328 persone sono state uccise da antidolorifici come Vicodin e Oxycontin e 743 da ansiolitici come Valium e Xanax, per un totale di 3.071 morti. L'alcol risulta essere stata la causa di morte in 466 casi, ma la sua presenza è stata identificata in 4.179 cadaveri. E mentre rispetto al 2006 le morti per eroina sono aumentate del 14%, quelle per antidolorifici venduti in farmacia hanno registrato un balzo del 36 per cento.
La Florida è considerata all'avanguardia nelle statistiche sulle morti per droga. Il boom edilizio di Miami all'inizio degli anni '80 è stato finanziato dal narcotraffico. Facendo guadagnare alla città il soprannome di Regina della coca. Dal suo porto transita la maggior parte delle 300 tonnellate di coca che - secondo le ultime stime Onu - vengono utilizzate ogni anno negli Usa. Circa la metà dell'intero consumo mondiale. Questo studio conferma i dati pubblicati in un precedente rapporto della Drug Enforcement Agency (Dea) a Washington. Negli ultimi sei anni il numero di persone che abusa di ansiolitici e antidolorifici è aumentato dell'80% raggiungendo i 7 milioni. Sono molti più di quelli che abusano di coca, eroina e anfetamine di contrabbando messi insieme. E secondo i dati pubblicati da Drug Abuse Warning Network, il numero di ricoveri per overdose da oppiacei semi sintetici come l'Oxycontin sono aumentati negli ultimi 10 anni del 153%, mentre quelli in seguito da assunzione eccessiva di metadone del 390%.
La tendenza dei medici a prescrivere liberamente farmaci che dovrebbero essere usati in casi eccezionali e per un periodo limitato di tempo si spiega almeno in parte con le pressioni esercitate dall'industria farmaceutica. Negli Stati Uniti tutte le sostanze prescrivibili possono essere pubblicizzate. La spesa promozionale per una singola specialità come l'Oxycontin è triplicata dal 1996 e il 2001, per stabilizzarsi attorno ai 30 milioni di dollari l'anno. Eddie Howard, farmacista di Sonora in California, senza bisogno di leggere nessun rapporto, si era accorto da un pezzo dell'aumento di questo tipo di ricette. E ammette di provare un certo disagio: «A volte ho l'impressione di essere diventato uno spacciatore a norma di legge».
Quanto all'idea che una sostanza acquistata in farmacia sia per forza più sicura - anche per sballare - si tratta di un mito da sfatare. Gli esperti spiegano che il problema sta proprio nella forma con cui viene commercializzato il principio attivo. In genere queste sostanze sono micro incapsulate in un involucro gastroresistente o miscelate ad altri ingredienti con un procedimento industriale per ritardarne l'assorbimento nell'organismo. E assicurare un'attività prolungata nel tempo che consente di ridurre il numero di pastiglie da inghiottire. Ma chi di queste sostanze fa un uso ricreativo, per ottenere subito l'effetto desiderato, deve assumere una dose eccessiva che finisce per rimanere in concentrazione stabile per un periodo sino a 24 ore. Rimanendo così vittima di una specie di overdose a catena.

Repubblica 13.11.08
Austerity per i dirigenti
Rifondazione autoriduce le paghe Ferrero scende da 5300 a 3000 euro


ROMA - Da 5300 a 3000 euro al mese: così si ridurrà lo stipendio mensile di Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista, per effetto del piano-austerity varato ieri dalla direzione del partito. L´obiettivo è garantire i posti di lavoro dopo il tracollo elettorale e il conseguente "dimagrimento" delle risorse finanziarie. I membri della segreteria passano da 2.500 a 2.200 euro. «È un´operazione che ha un significato sul piano economico - ha spiegato Ferrero - ma contiene anche un segnale politico. La forbice delle retribuzioni passa dai 1.500 euro di un nuovo assunto con mansioni di segreteria ai 3mila del segretario. Mi sembra un buon segnale». Ferrero ha anche incontrato i dipendenti di Liberazione, al quale il partito ha deciso di dimezzare i fondi.

l’Unità 13.11.08
Saggi «Speranze», il libro anti-utopico del filosofo Paolo Rossi contro le Grandi Illusioni
La polemica Ma l’aspirazione a un mondo altro e diverso è inseparabile da ogni agire politico
Non possiamo uccidere Utopia
di Bruno Gravagnolo


Tutta la storia occidentale è intrisa di grandi attese, senza le quali non vi sarebbe stato alcun innesco della modernità, incluse la democrazia e il metodo scientifico. Mentre oggi dagli Usa torna il Mito del New Deal...
Davvero l’Utopia è all’origine di tutti i mali dell’umanità, incluso il totalitarismo e dintorni? E occorre buttarla al macero? A lungo si è risposto sempre di sì. Con l’argomento che Utopia, mascherata di scienza e di tecnica, è indistricabilmente connessa al dispotismo della Filosofia della Storia. Storia a disegno. Con fini divinati da chierici dispotici e pronti a tutto pur di realizzarli. A prescindere dai costi umani.
A riaffermare questa tesi, che nel 900 ha illustri natali liberali in pensatori come Talmon e Popper (ma anche Marx criticava il comunismo da caserma) arriva un saggio dal titolo laconico: Speranze (Il Mulino, pp. 146). Scritto da un eminente storico e filosofo della scienza, Paolo Rossi, tra i massimi studiosi del seicentesco Francesco Bacone Verulamio, nonché dell’evo scientifico moderno. Titolo dimesso, per una requisitoria implacabile. Che sullo sfondo ha inevitabilmente i fallimenti delle società comuniste all’est, squadernati dal 1989.
Peccato però che queste pagine arrivino in un momento tutto particolare. Esattamente nel momento in cui proprio il corso del mondo sembra ribadire due cose. Primo: esiste, sia pur reversibile e precario, un corso del mondo. Corso «globale» che in qualche mondo tutto agguanta e mette in risonanza. All’insegna di crisi geopolitiche, ambientali, demografiche e finanziarie. Secondo: dal cuore economico e finanziario del mondo tornano parole come «sogno», «visione», «speranza». E «cambiamento» in grande, che si può e deve fare. E nel lessico di un presidente eletto afro e americano, benché post-razziale, ma altresì sintesi (globale!) di «transculturalità». Infatti tale appare come imaging Barack Obama, di là dei suoi propositi economici, che peraltro richiamano una Grande Speranza novecentesca: il New Deal di Roosevelt. Che cosa si vuol dire? Esattamente questo: che per Utopia (e per le visioni generali) i giochi non sono fatti. E l’ultima parola non è ancora pronunciata.
Ma torniamo al libro e ai suoi argomenti. L’idea di fondo è presto detta: non si può divinare filosoficamente o scientificamente il futuro. E pretendere di farlo è non solo antiscientifico, ma anche disumano e illusorio. Un residuo ideologico della promessa biblica giudaico-cristiana, che ci induce a scoprire la Provvidenza nei sussulti casuali e sempre in bilico della Storia. Che come tale, scritta con la maiuscola, è un incubo destinato a disastri e dispotismi.
Impossibile ovviamente non tener conto di questo caveat, che ha dalla sua molte buone ragioni. In primo luogo il dispotismo stesso implicito in ogni visione conchiusa e in ogni storia a tema, gerarchicamente custodita da élites «ideocratiche» e autoinvestite da violenza e populismo: gli scienziati sociali che avverano con la forza la loro verità utopico-scientifica. E tuttavia è giocoforza ricordare che l’intera età moderna fu intrisa dall’inizio di Utopia. Dalla prefigurazione di «altri mondi» sistemici immaginati e da far valere. Con le buone o le cattive. Non solo fascismo e comunismo quindi. Ma, a partire da molto prima, già il mondo liberale in embrione fece valere le sue Utopie. Nel contrastare ad esempio l’Assolutismo e i suoi miti (utopici) di buon governo organico e pacificato. Intanto Utopia, come «non luogo» e isola felice di uomini addomesticati e felici, fu invenzione di Tommaso Moro nel ‘500 contro la dimensione conflittuale del nuovo mondo, tra monarchia assoluta inglese e nuova società civile. Poi Utopia fu rilanciata come teocrazia eretica da Campanella nel Seicento con la sua Città del Sole. Poi ancora fu Hobbes a utopizzare l’Ordine assoluto del Leviatano come Stato che inglobava e domesticava le lotte dell’«individualismo possessivo» neoborghese. Via via fino a Locke, Fergusson, Smith, che immaginavano ordini civili virtuosi, dove le passioni potevano essere sublimate e agite, a base del progresso e della «ricchezza delle nazioni». Con lo Stato mero «guardiano notturno», mite e garantista. E sullo sfondo però schiavismo, cittadini passivi senza proprietà e diritti, urbanesimo miserabile e lavoro dei fanciulli. Per inciso: anche il modernissimo Bacone, reazionario in politica, era un utopista, con la sua Nuova Atlantide. Fatta di inventori che comandavano e diffondevano le mirabilie della tecnica onnipotente e senza limiti.
Insomma tutta la modernità fu utopica, inclusi i progenitori del metodo scientifico, per non dire di sociologi e scienziati sociali come Comte e Saint-Simon. Del resto, volgendo lo sguardo molto indietro, da sempre o quasi l’«ottimo governo» aristotelico o la Repubblica platonica furono a loro modo sinonimo di Utopie anzitempo. Per non parlare delle comunità cristiane o dei movimenti ereticali, che schiudono interi mondi storici. L’ascesi intramondana del lavoro e il monachesimo, le prime. Il calvinismo e il nuovo mondo americano le seconde, come vide Max Weber. Giusta quindi l’avvertenza di Rossi contro i rischi di Utopia. E nondimeno però, perché su Marx e Heidegger fare di tutta l’erba un fascio? Marx fu sì anche totalizzante, ma pure critico e libertario: contro il feticismo di finanza e merci.
E Heidegger fu sì anticapitalista-romantico. Ma anche «decostruttivo» e nemico dei «Valori» e dell’idolatria massificata della Volontà. In conclusione l’Utopia è inestirpabile. Purché la si intenda come «Eutopia», buon luogo possibile, progetto razionale. Critica del Potere e Ideale regolativo della ragione a servizio della liberazione di tutti e di ciascuno. Qui, ora e subito sul pianeta, attorno ai beni comuni, e non nell’al di là. Al modo in cui la intendeva Kant, citato da Rossi, ma non ben compreso, visto che parlava di «pace perpetua». Più utopista di così!

Repubblica 13.11.08
Chiediamolo a Giotto
Un saggio di Chiara Frugoni su Enrico Scrovegni e la cappella di famiglia che fece affrescare
Un ricco bussa in paradiso
di Jacques Le Goff


Il padre di Enrico era un uomo d´affari e Dante lo mette all´Inferno tra gli usurai
Il grammatico e pedagogo Boncompagno da Signa ispirò il grande pittore

CHIARA FRUGONI - che più che un´iconografa e una storica dell´arte è una grande storica tout court, come ha dimostrato in modo eccellente a proposito di San Francesco d´Assisi - ha appena pubblicato un nuovo capolavoro che si intitola: L´affare migliore di Enrico. Giotto e la Cappella Scrovegni (Einaudi, pagg. XVI-386, euro 65). Se quest´opera magistralmente illustrata è per buona parte una descrizione e una spiegazione dettagliata dei famosi affreschi giotteschi - realizzati con ogni probabilità tra il 1304 e il 1307, nella cappella costruita dal ricco uomo d´affari Enrico Scrovegni a Padova - in maniera non priva di un certo aspetto paradossale il protagonista principale ne è Enrico Scrovegni. In effetti, Chiara Frugoni spiega la mentalità e gli obiettivi di questa committenza di opere a Giotto, dando un´interpretazione inedita e persuasiva della natura e del comportamento di questo personaggio che ella innalza al ruolo di primo rango storico di mecenate. Del resto c´è mancato poco che ci fosse impossibile conoscere questi magnifici affreschi: in realtà la nobile famiglia Gradenigo, proprietaria nel XIX secolo della cappella e dei luoghi circostanti ma indifferente ai valori artistici delle opere che essa custodiva, dopo aver fatto abbattere il portico a tripla arcata addossato alla facciata della cappella e dopo aver lasciato marcire a partire dal 1829 la cappella stessa, nel 1868 si disse disposta ad accettare di venderla e trasferire al Victoria and Albert Museum di Londra gli affreschi di Giotto.
Per fortuna, in massa i padovani, guidati dal sindaco Antonio Tolomei, fecero dichiarare nel 1879 che la cappella era un edificio pubblico, posto sotto la tutela della comunità e questa all´unanimità decise di acquisire tutti i possedimenti dei Gradenigo situati nell´area dell´Arena intorno alla cappella. Gli affreschi furono restaurati nel 1892, e soltanto due di essi - Gesù tra i dottori e La salita al Calvario-, troppo danneggiati dall´umidità, furono prelevati dalla loro sede e sistemati altrove. Questa fu la felice conclusione di una vicenda carica di paradossi e di disavventure sin dall´inizio. Il committente della cappella, Enrico Scrovegni, era infatti figlio di un uomo d´affari già molto ricco di suo che, ritenuto un usuraio, era stato collocato da Dante nel suo Inferno (Divina Commedia, Inferno XVII, versi 64-70).
Probabilmente è proprio la reputazione di questo padre che fino a oggi ha fatto considerare la decisione di Enrico Scrovegni di costruire la cappella alla stregua di un gesto riparatore ed espiatore per il comportamento di suo padre e dei suoi antenati. Ebbene, Chiara Frugoni dimostra invece che le intenzioni di Enrico erano assai diverse, che la sua non fu un´iniziativa riparatrice, bensì un´opera di misericordia e che tramite essa intendeva meritarsi il Paradiso non col pentimento, ma affermando il valore spirituale del buon uso della ricchezza. Si comprende a questo punto in che modo, dopo essere stata la grande storica del Santo Francesco di Assisi, Chiara Frugoni dimostri come a distanza di meno di un secolo l´arte permetteva non più un´apologia della povertà, bensì la celebrazione della ricchezza. Ciò significa che quest´opera mette in luce in modo emozionante il grande cambiamento di mentalità che la cristianità o quanto meno l´Italia vissero alla svolta del XIII-XIV secolo, in riferimento alla ricchezza. La cappella era stata dedicata a Santa Maria della Carità: di conseguenza questo capolavoro che celebra la ricchezza era destinato altresì a una spiritualità religiosa che in quella stessa epoca stava conoscendo un nuovo grande impulso, il culto mariano.
In questa ostentazione oculata del buon uso della ricchezza, su richiesta di Enrico Scrovegni Giotto mostra negli affreschi della cappella la storia di Gesù, quella di Maria e del Redentore, e in un grande affresco in fondo il Giudizio universale, tra gli eletti del quale si indovina la presenza di Enrico Scrovegni. Ma ciò che permette a Chiara Frugoni di illustrare al meglio la propria tesi e la parte più originale di quest´opera appassionante è il modo col quale ci mostra come da una parte si rappresentassero le scritture ma dall´altra come la rappresentazione consueta all´epoca dei vizi e delle virtù comportasse elementi originali che illustrano la mentalità e le intenzioni di Enrico Scrovegni. Questa presentazione dei vizi e delle virtù è del resto nello spirito di un personaggio che ha ispirato Giotto, infondendogli lo spirito della nuova cultura urbana e borghese. Si tratta del grammatico e pedagogo Boncompagno da Signa, autore di una Rhetorica novissima scritta e pubblicata a Bologna nel 1235, che comprende sia un elogio della memoria artificiale che permette al buon cristiano di ricordarsi sempre delle ricompense del Paradiso e dei tormenti perpetui dell´Inferno, sia un elenco di vizi e di virtù, per altro diverso da quella che Giotto userà per affrescare la Cappella degli Scrovegni. Tra le virtù la più importante è Iusticia, accompagnata da Karitas e Spes, laddove Karitas rammenta che il buon uso delle ricchezze apporta benefici a colui che le distribuisce con prodigalità mentre Spes che indossa una corona mostra che contrariamente al suo significato tradizionale essa apporta la certezza, come dice Sant´Agostino, che la giustizia dispensa a ciascuno ciò che gli è dovuto. La Iusticia è l´unica virtù a indossare gioielli, un cappuccio ornato di perle, una spilla per chiudere il mantello e una cintura di metalli preziosi. La Iusticia è una regina, perché indossa una corona. Le virtù e i vizi, insomma, sono definiti dal corretto o dallo scorretto uso delle ricchezze e dietro a Cristo e alla Madonna appare un´immagine positiva ed elogiativa che Giotto ha dipinto in questa raffigurazione dei vizi e delle virtù su richiesta di Scrovegni. Al contrario, l´Iniustitia è rappresentata dal despota Ezzelino da Romano, che aveva dominato Padova dal 1237 al 1256.
Tra i vizi, l´Invidia prende il posto tradizionalmente riservato all´Avaritia, che potrebbe evocare in modo eccessivo la ricchezza di Scrovegni. Quanto al Giudizio universale, Chiara Frugoni ipotizza che ogni volta che Scrovegni si è ammirato tra le fila degli eletti, avrà sicuramente pensato che quella rappresentazione non era che un´anticipazione delle gioie paradisiache che gli sarebbero state riservate in considerazione del fatto che aveva usato in modo giusto e oculato le sue ricchezze, e gli affreschi e quella cappella ne erano la prova tangibile.
La magnifica dimostrazione di Chiara Frugoni è seguita da un dossier che offre al lettore tutte le informazioni su ciò che c´è da sapere sul capolavoro dell´Arena, e contiene il testamento che Enrico Scrovegni scrisse poco prima della sua morte avvenuta nel 1336 a Venezia (per la precisione a Murano), dove conduceva da tempo i propri affari e dove aveva trovato rifugio quando il dispotismo si abbatté nuovamente su Padova nel 1320 - pubblicato integralmente nella sua versione originale e nella traduzione italiana con un pregevole commento di Attilio Bartoli Langeli - , e infine un saggio di Riccardo Luisi che spiega il significato dei marmi trompe-l´oeil dipinti sugli affreschi di Padova da Giotto, che era anche architetto e amava gli effetti ottici.
Questa magnifica opera che arricchisce la storia dell´arte, la storia delle idee e la storia sociale, mostra in modo eccellente perché Enrico Scrovegni facendosi costruire la cappella dell´Arena e facendola decorare da Giotto di fatto concluse «il suo affare migliore».
(Traduzione di Anna Bissanti)

«Aveva detto che non si sarebbe occupato dell'attualità politica, ma non ce l'ha fatta: Fausto Bertinotti torna oggi in campo»
Apcom 13.11.08 ore 18
Sinistra/ In campo Bertinotti, rilancia 'processo costituente'
"Comunismo è troppo e troppo poco, priorità rinascita sinistra"


Roma, 13 nov. (Apcom) - Aveva detto che non si sarebbe occupato dell'attualità politica, ma non ce l'ha fatta: Fausto Bertinotti torna oggi in campo, pubblicando su Liberazione, il quotidiano del Prc, 'Quindici tesi per la sinistra', un vero e proprio manifesto politico, per rilanciare la necessità di "ricominciare politicamente da capo per ricostruire la sinistra in Italia e in Europa".
L'ex presidente della Camera affronta tra le altre cose il tema dell'identità: "Comunista - scrive - è una parola molto impegnativa, da maneggiare con cura e misura. Essa è, insieme, troppo e troppo poco per definire, oggi e qui, un nuovo soggetto politico". Del resto, sottolinea l'ex leader di Rifondazione, "non sarà casuale che dopo la caduta delle dittature militari in America latina, nessuna grande formazione politica che lì ha condotto alla vittoria, nei diversi paesi, la sinistra e i popoli del continente si chiami comunista".
Bertinotti bacchetta i partiti della sinistra ex Arcobaleno "imprigionati anche rispetto alla capacità di innovazione da pesanti derive neo-identitarie". Ma avverte anche i 'bertinottiani', alcuni dei quali stanno lavorando a ricostruire i rapporti con il Pd: "Il Pd non è sinistra", spiega, ma soprattutto mette in guardia contro l'ipotesi "da contrastare nettamente" secondo la quale "alla crisi del centro-sinistra degli ultimi 10 anni si dovrebbe sostituire il rapporto tra l'attuale Pd e una forza alla sua sinistra che assuma il compito di condizionarne le politiche e per riaprire su questa base la prospettiva di governo". Se non fosse chiaro a sufficienza, Bertinotti ribadisce poche righe dopo che "il centro-sinistra è finito".
Il suo appello, comunque, è per la "costruzione di una forza politica unitaria e plurale della sinistra", anche se il "processo costituente di una forza di sinistra sarebbe la prima tappa di un cammino ancor più ambizioso". Ad una condizione: che la nuova sinistra sia "irriducibilmente democratica", e quindi, tramontata la "legittimazione che nei precedenti gruppi dirigenti, quelli usciti dalla Resistenza, consisteva nella loro storia", oggi non può che legittimarsi attraverso meccanismi simili alle primarie: "Ogni funzione dirigente, ogni funzione di rappresentanza, fin dall'inizio del processo - scrive Bertinotti - deve essere attribuita con la partecipazione di tutti i rappresentati con voto segreto, su scheda bianca, tutte e tutti elettori ed eleggibili e tutti revocabili: inesorabilmente e rigorosamente una testa un voto".
Non basta, perché il potere, ammonisce l'ex leader del Prc, dovrà essere decentrato: "Perciò va fatta, nell'organizzazione politica della sinistra, la scelta di un modello federativo partecipato, fondato sulla parificazione dei ruoli dirigenti fra autonome strutture regionali (la sinistra sarda, campana, lombarda, toscana, pugliese etc.) e la direzione nazionale che deve essere da esse compartecipata".

Agi 13.11.08
Bertinotti: La nuova Sinistra, oltre il comunismo, e federalista


Roma, 13 nov. - Quindici tesi per costruire una nuova sinistra in Italia, dopo la sconfitta elettorale e gli eventi che in questi ultimi mesi hanno profondamente cambiato la scena della politica, anche internazionale. Fausto Bertinotti, ex candidato premier della Sinistra Arcobaleno, organizza la sua proposta su cosa fare e da dove ripartire per "riempire un vuoto orribile", quello lasciato dalla sinistra che, se non si pone "l'esigenza inderogabile della sua rinascita", rischia "la scomparsa". Bertinotti disegna una nuova sinistra che punta a un "socialismo del XXI secolo", che vada oltre il comunismo e si fondi su due punti cardine: la democrazia e il modello federativo. Ma la sinistra dovra' anche "mettere in campo, di fronte alla crisi, una proposta di politica economica alternativa a quella dei governi", a partire "dall'occasione davvero straordinaria di rivendicare un intervento pubblico in economia massiccio, quanto precisamente finalizzato", altrimenti anche in questo caso "non esiste". L'ex presidente della Camera rileva che "il processo di costruzione della sinistra in Europa e in Italia deve disporre di una sua autonoma fondazione politica: quella della definizione di un programma fondamentale in cui possano riconoscersi una molteplicita' di soggetti e una pluralita' di culture politiche, capace di costruire il fatto nuovo della politica". Importante in questa direzione quanto accaduto in America latina e, nota Bertinotti, "non sara' casuale che nel Rinascimento della sinistra latino-americana nessuna grande formazione politica che ha condotto alla vittoria la sinistra e i popoli del continente si chiami comunista. Comunista e' una parola molto impegnativa, da maneggiare con cura e misura. Essa e' insieme troppo e troppo poco per definire, oggi e qui, un nuovo soggetto politico".

mercoledì 12 novembre 2008

l’Unità 12.11.08
Per i redditi e il lavoro la Cgil prepara lo sciopero generale
di Felicia Masocco


La Cgil «unifica le lotte». Lo ha proposto Epifani al Direttivo. Lo sciopero generale si terrà probabilmente il 12 dicembre. La crisi è drammatica: «Le banche sospendano le rate dei mutui a chi va in cig o perde il lavoro».
«Unificazione delle lotte», un modo per dire sciopero generale. La Cgil lo farà a dicembre, Epifani ha proposto di mettere insieme tutte le proteste ieri al Direttivo che oggi dovrebbe dare mandato alla segreteria per decidere i dettagli. La data, innanzitutto. Molto probabilmente sarà quella del 12 dicembre già fissata dai metalmeccanici della Fiom per il loro stop e su cui anche i lavoratori pubblici di Fp faranno confluire lo sciopero nazionale. La segreteria deciderà anche la durata, 4 ore al momento la più gettonata.
Gli argomenti non mancano. C’è una crisi che rischia di trasformarsi in uno tsunami per occupazione e redditi e c’è un governo che continua a tentennare e a ritardare risposte adeguate. «A differenza di altri governi, non dà segno di percepire la gravità della crisi», per dirla con Epifani. Si pensi soltanto al fatto che le ore di cassa integrazione richieste dalle aziende stanno aumentano in modo esponenziale, a Mirafiori nel mese di novembre si lavorerà una settimana soltanto: ma il governo si ostina a considerare valida la detassazione degli straordinari (previsione di spesa 1 miliardo), sui cui anche il governatore di Bankitalia ha avuto da ridire, presentando un sondaggio nel quale le aziende dicevano chiaro e tondo che servirà a far calare l’occupazione. Un esempio lampante del tanto che non va.
Ieri Epifani lo ha ricordato intervenendo al Direttivo rilanciando il piano anticrisi della Cgil e battendo sulla necessità, ad esempio, che le banche sospendano per un periodo il pagamento delle rate del mutuo a chi va in cassa integrazione o a chi perde il lavoro. «Mostrino sensibilità sociale», è il suo appello. Sarebbe una rivoluzione: com’è noto la solidarietà non genera profitti.
C’è il governo che seleziona i suoi interlocutori e anche ieri ha incontrato Bonanni e Angeletti a palazzo Grazioli; c’è l’accordo separato sui contratti della Funzione pubblica che dopo gli scioperia al Nord e al Centro, venerdì sciopera al Sud, c’è il contratto separato del commercio contro il quale la Filcams sciopera sabato. C’è la riforma della contrattazione decisa da Confindustria da Cisl e Uil, senza la Cgil. E ci sono tante categorie alle prese con le loro vertenze, a cominciare da scuola, università e trasporti. C’è insomma un conflitto diffuso e articolato figlio di un disagio crescente tra i lavoratori e ta i pensionati, anche loro mobilitati, che che porta il leader della Cgil a parlare della necessità «unificazione delle lotte». Intervenendo ieri al Direttivo Epifani non ha usato il termine sciopero generale, anche se sta nei fatti, la sua è stata piuttosto una chiamata alle armi a rivolta a tutta l’organizzazione, in particolare alle camere del lavoro, anche le più piccole. Oggi il direttivo dovrebbe dare il mandato alla segreteria che proclamerà lo sciopero lunedì prossimo. Una scelta «lessicale», quella di Epifani, dovuta in parte a logiche interne, in parte al tentativo di salvaguardare quel che resta dell’unità con Cisl e Uil. Si pensi all’università che venerdì scenderà in piazza con tutte e tre le sigle sindacali.

Repubblica 12.11.08
"Sospendete lo sciopero dell´università" appello della Gelmini, la Cgil dice no
Cisl e Uil aspettano Brunetta. L´Onda prepara il corteo del 14
Il sindacato guidato da Epifani conferma la protesta di venerdì prossimo
di Mario Reggio


ROMA - Università, ricerca, sciopero nazionale di venerdì 14 novembre. L´incontro del ministro Mariastella Gelmini con Cgil, Cisl e Uil si è concluso ieri sera in un´atmosfera kafkiana. Il ministro: «Chiedo ai sindacati di revocare lo sciopero del 14 novembre. Il decreto sulle misure urgenti per l´università e la ricerca è stato pubblicato oggi sulla Gazzetta Ufficiale, mentre la stabilizzazione dei precari degli enti di ricerca ed il contratto nazionale della categoria e dei non docenti dell´università - afferma - sono un problema che riguarda il ministro Brunetta. Infine sui tagli all´università decisi nella finanziaria la competenza è del ministro Tremonti. Cercherò con loro di trovare una soluzione. Ma le decisioni finali spettano al governo». La Cgil ha confermato lo sciopero del 14 febbraio. Cisl e Uil non nascondono che si tratta di una «missione impossibile», ma hanno dato tempo al ministro Brunetta fino a giovedì mattina prima di prendere una decisione definitiva. Intanto, ieri, il Senato ha approvato l´emendamento che blocca il taglio delle scuole con meno di 50 studenti.
Intanto gli universitari si stanno organizzando: con pullman, treni e viaggi ?fai da te´. Venerdì, a prescindere dalla decisione che prenderanno i sindacati, arriveranno a Roma da tutta Italia per partecipare alla manifestazione nazionale organizzata contro i tagli dei finanziamenti e le riforme ipotizzate dal ministro Gelmini. Una protesta, quella dell´Onda che è restata in piedi nonostante il decreto legge «tecnico» varato giovedì scorso dal consiglio dei ministri, e pubblicato ieri in Gazzetta Ufficiale, che detta nuove norme sui concorsi, alleggerisce il blocco del turn over, destina risorse per gli atenei migliori, ma senza investimenti aggiuntivi, e incrementa borse di studio e posti letto per gli studenti. «Ho proposto di rinviare lo sciopero di venerdì, programmato prima che il Governo approvasse le linee guida e il decreto, e di continuare un proficuo lavoro di approfondimento dei problemi» ha dichiarato Mariastella Gelmini.
Chiusura da parte della Cgil: «Sono del tutto insufficienti le proposte del Ministro» ha commentato il segretario generale della Flc, Mimmo Pantaleo, che ha confermato sciopero e manifestazione del 14. «Pur apprezzando alcune dichiarazioni di buona volontà del ministro ad affrontare alcune criticità relative al problema del precariato e dei contratti - ha spiegato - complessivamente vengono riconfermati i tagli previsti dalla legge 133 e l´impianto del decreto Brunetta». Intanto le iniziative di protesta degli studenti sono proseguite anche ieri. A Firenze è partita una 24 ore non stop di lezioni per protesta. Nelle università di Cosenza, Catanzaro e Reggio Calabria gli universitari anche ieri hanno raccolto le adesioni alla manifestazione e si sono dati da fare per racimolare i soldi necessari a pagare l´affitto degli autobus per raggiungere Roma. Altri pullman sono previsti dall´Abruzzo e una delegazione partirà dalla Sardegna dove venerdì, in contemporanea con la manifestazione romana, è in programma un corteo a Cagliari. Circa 4.000 ragazzi dovrebbero arrivare nella Capitale da Napoli con i treni e altre partenze si stanno organizzando nelle altre regioni.

Repubblica 12.11.08
L’aggressività del nuovo potere temporale
di Stefano Rodotà


DI FRONTE ai segni di un possibile rafforzarsi delle politiche dei diritti la Chiesa interviene con durezza e con un tempismo preoccupante. I giudici della Corte di cassazione sono in camera di consiglio per discutere il ricorso del Procuratore generale di Milano contro il provvedimento che ha autorizzato l´interruzione dei trattamenti per Eluana Englaro.
NelLo stesso momento il cardinale Barragan, presidente del Pontificio consiglio per la salute, afferma che saremmo di fronte a "una mostruosità disumana e un assassinio". Lo stesso cardinale ha "espresso preoccupazione" per l´annuncio secondo il quale il nuovo Presidente degli Stati Uniti si accinge a revocare il divieto, imposto da Bush, di finanziamenti federali alle ricerche sulle cellule staminali embrionali, sostenendo che "non servono a nulla".
Colpisce, in questi interventi, una aggressività di linguaggio che nega ogni legittimità alle posizioni altrui, presentate in modo caricaturale e criticate con toni sprezzanti e truculenti. Questo atteggiamento, nel caso della Corte di cassazione, si traduce in una assoluta mancanza di rispetto per le istituzioni della Repubblica italiana da parte di un "ministro" di uno Stato estero. Si interviene proprio nel momento in cui la più alta magistratura sta decidendo su una questione della più grande rilevanza umana e sociale, sì che massimi dovrebbero essere il silenzio e il rispetto. Che cosa sarebbe successo se, in una situazione analoga, un qualsiasi governo straniero avesse definito "assassino" un giudice italiano per una sua possibile decisione?
Conosciamo la risposta. La Chiesa agisce nell´esercizio della sua potestà spirituale, dunque ad essa non sono applicabili categorie che riguardano la sfera della politica. Ma, per il modo in cui ormai ordinariamente agisce, la Chiesa si è costituita proprio in soggetto politico, pratica un nuovo "temporalismo", pretende un potere di governo sociale che cancella il principio che vuole lo Stato e la Chiesa, "ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani" (articolo 7 della Costituzione). Due parti autonome e distinte, dunque. E questo, lo espresse con parole chiare e misurate Giuseppe Dossetti all´Assemblea costituente, vuol dire che "nessuna di esse delega o attribuisce poteri all´altra o può, per contro, in qualsiasi modo, divenire strumento dell´altra". Nel mentre esercita il suo potere di fare giustizia, lo Stato italiano ha diritto di pretendere che siano rispettate la sua indipendenza e la sua sovranità perché, in un caso come questo, così vuole la sua Costituzione. Siamo, dunque, di fronte ad una violazione grave che, in governanti forniti di un minimo senso dello Stato, avrebbe dovuto determinare una immediata e ferma risposta.
Se, guardando al di là di questo fondamentale aspetto di politica costituzionale, si considerano le argomentazioni adoperate, lo sconcerto, se possibile, cresce. Nulla del dibattito scientifico sull´idratazione e l´alimentazione forzata è degnato di una pur minima attenzione dalla posizione vaticana. Si tace colpevolmente dei risultati di una commissione istituita da Umberto Veronesi quand´era ministro; delle pazienti spiegazioni mille volte date da Ignazio Marino, mostrando come non corrisponda alla realtà clinica la rappresentazione di una "terribile morte per fame e per sete"; delle opinioni espresse, in tutto il mondo, da autorevoli studiosi. Vi è solo una invettiva, nella quale è vano scorgere le ragioni della fede e, dove, invece, compare un sommo disprezzo per l´intelligenza delle persone, evidentemente considerate del tutto ignoranti, incapaci di trovare le informazioni corrette in materie così importanti.
Non diversa è la linea argomentativa (si fa per dire) della critica a Obama, per l´annunciata volontà di consentire il finanziamento delle ricerche sulle cellule staminali embrionali con fondi federali. Cito solo una frase pronunciata ieri dal cardinale Barragan. "Gli scienziati lo dicono chiaramente: fino adesso le cellule staminali embrionali non servono a nulla e finora non c´è mai stata una guarigione". Ma la ricerca scientifica serve appunto a far avanzare le conoscenze, a scoprire opportunità fino a ieri sconosciute, a far diventare utile quel che ieri non lo era, a lavorare perché siano possibili guarigioni oggi fuori della nostra portata. Proprio per questo gli scienziati fanno esattamente l´opposto di quel che ci comunica il cardinale. Ricercano intensamente, esplorano nuove strade, ricevono finanziamenti dall´Unione europea ed è bene che li ricevano anche dall´amministrazione americana, perché la ricerca finanziata da fondi pubblici è più libera, sottratta ai possibili condizionamenti del finanziamento privato (chi vuole informarsi ricorra al recentissimo libro di Armando Massarenti, Staminalia, Guanda, Parma 2008).
Scrivo queste righe con gran pena. Conosco e pratico un mondo cattolico diverso, anche nelle sue gerarchie, aperto al mondo e ai suoi drammi, che accompagna con intelligenza e cristiana pietà. E´ questo il mondo che può darci il necessario dialogo, negato ieri da una cieca e inaccettabile chiusura.

Repubblica 12.11.08
Englaro
Il padre: la Chiesa dica ciò che vuole ormai io so qual è la mia strada
di Piero Colaprico


"Resisto e basta, non rispondo più a nessuno, chiedo solo di uscire di scena"
"Credo allo stato di diritto, alla fine gli unici che mi hanno dato retta sono i magistrati"

ROMA - La Corte si è ritirata in camera di consiglio e Beppino Englaro invita per una veloce colazione gli avvocati. Non vuole interviste, ma non c´è alcun patto da violare: questo papà, nell´attesa di una «parola giusta», a sua volta ha consumato le sue parole. «Resisto e basta, mi rasserena un po´ ? dice ? aver fatto tutto il possibile e alla luce del sole e se poi sto male non mi va di dirlo in giro. E non rispondo al Vaticano, non rispondo a nessuno, ognuno dica quello che vuole, ormai io la mia strada so qual è e la percorro con la coscienza pulita, con la voce più limpida che posso, con il totale rispetto di quello che voleva mia figlia Eluana», ripete.
Ed è, poco o tanto che sia, tutto qui, perché bisognerebbe, in effetti, essere dotati di un immenso vocabolario; oppure essere molto stupidi, per disporre sempre di parole appropriate quando da più di dieci anni si esprimono, con pudore, gli stessi sentimenti. Il pudore c´è anche nei rapporti umani di Beppino, che dà (ancora) del lei all´avvocato Vittorio Angiolini, che gli siede di fronte. Dà del lei al professor Carlo Alberto Defanti, che telefona da Bergamo per capire meglio la situazione. Beppino scherza con Franca Alessio perché è la curatrice legale di sua figlia Eluana. Ed è la donna che ha detto anni fa, dopo un´inchiesta: «Sì, Beppino, hai ragione a chiedere di lasciarla morire». Ogni cinque minuti squilla il telefono e c´è qualcuno che chiama per un´intervista: «No, grazie, lasciatemi uscire di scena, no, a Barragan ho già risposto su Micromega, vi passo gli avvocati», replica.
Poco prima, nel palazzaccio di via Cavour, aveva ascoltato le parole dei magistrati con un´attenzione da scolaro. Una spiegazione di questo atteggiamento c´è: «Io ? dice Beppino ? credo allo Stato di diritto e alla fine gli unici che mi hanno dato retta, tra ricorsi e controricorsi, dicendo ogni volta che cosa era e che cosa non era consentito per Eluana, sono stati i magistrati, solo loro». La sua causa è la numero 37. Prima sono sfilati avvocati a decine, in questa aula magna dalla pessima acustica e dal magnifico lucernario. Quando tocca ai suoi, si siede in prima fila. Giacca blu, camicia a righe, senza cravatta, si china e non vuole perdere una sillaba: nelle parole che ascolta c´è un enorme pezzo della sua vita, ma anche ? è così davvero ? la sua sete di sapere giuridico. Il professor Angiolini parla a braccio, spiega perché «non sussiste» il ricorso della procura e ricorda come la stessa Cassazione ritenga sufficiente un «accertamento prognostico» dell´irreversibilità dello stato vegetativo.
Lancia poi un segnale di pericolo: se passasse l´idea di lasciare il paziente nelle mani del medico si finirebbe, ipotizza, in un «accertamento perenne», mentre su un punto la giurisprudenza non transige: «Non ci può essere un altro che prolunga la vita se il paziente non vuole». Il papà vorrebbe restare inespressivo, ma è il concetto di «accertamento perenne» che lo fa sobbalzare.
È andata così, con la non-vita o non-morte di Eluana, con quello che è o come la si vuole definire: Eluana in un letto perenne, con il sondino perenne, con un´assistenza perenne che lei, la figlia, non avrebbe mai accettato. Il professore, che è cattolico, conclude i suoi sette minuti citando anche la parabola di Lazzaro, mentre l´avvocato Alessio parla appena due minuti. Tanti gliene bastano per definire «del tutto impietoso rispetto ad Eluana Englaro» l´opporsi alla fine delle cure: «È ora ? dice ? di lasciarla andare».
Che cosa sosterrà adesso il procuratore generale? Englaro sembra perforarlo con gli occhi, come se volesse leggergli il pensiero. Il magistrato esordisce con grande chiarezza: «Inammissibile per difetto di legittimazione». Englaro resta come in trance finché l´assistente dell´avvocato Alessio, Lella Creti, non gli dà una leggera gomitata e gli sorride. Il papà di Eluana ricambia, ma torna a non muovere un muscolo. Ascolta le tante ragioni giuridiche, sussulta quando nonostante le premesse sente dire che comunque «se si ammettesse» il ricorso della procura, allora andrebbe limitato alla sola parte che riguarda l´irreversibilità dello stato vegetativo.
È uno dei pochi argomenti che Beppino, all´uscita, commenta con i legali: «Certo che Eluana è irreversibile, io e mia moglie abbiamo contato i giorni e se ci fosse stata una minima possibilità sarebbe emersa». Ma non è emersa. Mai e, mentre il telefono continua a squillare, il papà torna a Lecco. Andrà a parlare con la suora che accudisce la figlia: con la religiosa che, ogni volta che lo vede, gli offre dell´acqua fresca e non gli chiede niente.

Repubblica 12.11.08
Staminali e aborto, stop a Obama
Il cardinale Barragan: "Il no alle sperimentazioni vale per tutti"
La Chiesa e l´America
di Marco Politi


È il primo segnale di scontento nei confronti del nuovo staff statunitense

CITTÀ DEL VATICANO - La Chiesa avverte Obama: no alla liberalizzazione della ricerca sulle cellule embrionali staminali.
E´ il primo segnale di scontento vaticano all´annuncio dello staff del presidente eletto di voler cancellare norme ideologiche introdotte a suo tempo dal presidente Bush. Il no all´utilizzo degli embrioni, ha dichiarato il cardinale Lozano Barragan presidente del Consiglio pontificio per la pastorale della Salute, «vale per tutti» e quindi anche per gli Stati Uniti. Il porporato ha proseguito, ribadendo che la questione va esaminata in base ai risultati scientifici concreti. «Gli scienziati lo dicono chiaramente, finora le cellule staminali embrionali non servono a nulla e finora non c´è mai stata una guarigione». Invece risultati positivi sono stati raggiunti utilizzando cellule prelevate dal cordone ombelicale.
In ogni caso Barragan ha ribadito le obiezioni morali alla sperimentazione con le cellule embrionali. Verrebbe colpito il diritto alla vita e la dignità dell´embrione, che per il Vaticano ha già lo status di persona umana.
Un´altra questione che preoccupa il Vaticano all´indomani delle presidenziali americane è la posizione pro-choice, cioè a favore della libertà di aborto, di Obama e della sua squadra. Il futuro presidente riprenderà con grande probabilità a concedere finanziamenti federali alle organizzazioni non governative che nel Terzo Mondo si battono per l´aborto legale «sano e sicuro».
E tuttavia la Curia vaticana sta ancora studiando gli effetti della grande svolta, ben consapevole della grande massa di cattolici, che hanno votato per Obama e il suo programma, incuranti delle posizioni minoritarie di alcuni vescovi come quello di Kansas City, intenzionato a impedire un voto in suo favore (perché pro-aborto) agitando persino il fantasma dell´inferno. Per la Santa Sede sarebbe un autogol mettersi frontalmente contro un presidente che suscita tante speranze in patria e riscuote plauso internazionale.
La prudenza del Vaticano si riflette in un articolo apparso pochi giorni fa sull´Osservatore Romano e dedicato alle riflessioni di un cattolico doc: Carl Anderson, capo dei Cavalieri di Colombo. Anderson (rimuovendo a priori il tema di un contraddittorio tra Vaticano e il futuro inquilino della Casa Bianca) ha messo l´accento sulla responsabilità dei cattolici americani nella nuova fase politica. E´ urgente, ha rilevato, che i cattolici siano più «assertivi» nei confronti della futura amministrazione per quanto riguarda le grandi questioni della vita, della famiglia, del matrimonio: "I cattolici devono chiarire cosa sono questi valori e prender posizione in maniera forte sulla necessità che i maggiori partiti li riflettano". Solo così, conclude Anderson riferendosi esplicitamente anche alla questione dell´aborto, si può arrivare ad un cambiamento della società e delle sue tendenze.
Per il capo dei Cavalieri di Colombo vi sarebbe negli Stati Uniti una maggioranza disposta di fatto a restringere le opzioni per l´interruzione di gravidanza.
La conferenza episcopale americana, riunita in assemblea plenaria, ha già iniziato a chiamare a raccolta i fedeli. Il presidente cardinale Francis George, pur elogiando il significato simbolico e storico dell´elezione di Obama, ha sottolineato che «il bene comune non può mai incarnarsi adeguatamente in una società, quando coloro che attendono di nascere possono essere uccisi legalmente». Difesa della vita e della dignità di ogni essere umano saranno al centro dell´attività pastorale della Chiesa statunitense nei prossimi anni. I cattolici, ha lamentato il cardinale, non sono ancora «considerati pieni partner nell´esperienza americana, a meno di essere disponibili a mettere da parte qualche insegnamento della Chiesa sulla morale o sulla politica». In questo senso ha rivolto un appello bipartisan ai politici cattolici perché agiscano «in piena comunione con la Chiesa».
Va detto peraltro che l´episcopato statunitense ha tradizione di non essere partigiano, perché capace di confrontarsi o criticare presidenti sia repubblicani che democratici.

Repubblica 12.11.08
James Martin, condirettore della rivista cattolica "America": vicini solo su no alla guerra e lotta alla povertà
"Tra la nuova Casa Bianca e il Vaticano la collisione era già annunciata"
di Alix Van Buren


D´altra parte la conferenza episcopale era stata chiara e aveva invitato a non votarlo

Il rapporto fra il Vaticano e il presidente-eletto Obama sembra volgere a burrasca se è vero che la Conferenza episcopale americana s´è riunita in queste ore per meditare l´approccio con la Casa Bianca, fautrice di nuove libertà in fatto di aborto e di cellule staminali. Padre James Martin, gesuita, condirettore di America, una delle riviste cattoliche più popolari d´oltreoceano, non è affatto sorpreso: «Che la Chiesa cattolica e Obama siano avviati verso una rotta di collisione è quasi scontato. Del resto la politica di entrambi era chiarissima già durante la campagna elettorale».
E qual era, reverendo padre Martin?
«Obama aveva esplicitate le sue posizioni fin dall´inizio: chi avesse voluto leggerle poteva andare sul suo sito online. Quanto ai vescovi, un anno fa avevano prodotto un documento rivolto ai cittadini americani con linee guida rigorose riguardo all´aborto e alla ricerca sulle cellule staminali. L´aborto era una linea invalicabile, e per questo erano intervenuti con forza chiedendo di non votare Obama».
Così tramonta la luna di miele che s´era instaurata fra l´Amministrazione Bush e Papa Ratzinger?
«Dipende da quale di due versanti prevarrà. Infatti per un lato le posizioni di Obama e della Chiesa cattolica si sovrappongono, e penso alla lotta alla povertà, all´avversione alla guerra, al desiderio di riannodare i rapporti con la comunità internazionale, alla vicinanza personale del presidente-eletto agli insegnamenti della Chiesa. Dall´altro lato, però, sul principio della vita né il Vaticano né la Conferenza episcopale americana vorranno scendere a patti».
Il voto cattolico ha privilegiato la piattaforma di Obama, anziché il richiamo dei vescovi. S´è creata una frattura anche nella Chiesa americana?
«Io non parlerei di frattura. E´ vero: solo i più praticanti hanno ascoltato i vescovi e votato per McCain, mentre i più liberali della East Coast hanno seguito l´indicazione dei Kennedy a favore di Obama. Però alla fine è prevalso un altro fattore: il portafoglio, la crisi economica. Le questioni di bioetica nelle urne sono divenute marginali».

il Riformista 12.11.08
La Chiesa e il Dio di Obama
Così la Costituzione americana tiene Dio al suo posto
di Claudia Mancina


Obama ha ottenuto il consenso anche della maggioranza dell'elettorato cattolico, come non era riuscito a Kerry, perché evidentemente la sua proposta politica ha convinto, al di là delle barriere etiche e religiose

Uno degli aspetti più interessanti dell'elezione del nuovo presidente americano è quello relativo al voto dei cattolici. Nonostante la freddezza delle gerarchie e l'esplicita sconfessione del candidato alla vicepresidenza, il cattolico Joe Biden, per le sue posizioni pro-choice, il ticket democratico ha raccolto tra i cattolici la stessa percentuale che ha raccolto sul voto generale: il 53%. Merito (o colpa) della grave crisi economica, certamente. Ma forse anche segno di una certa stanchezza nei confronti dell'estremismo etico di cui il presidente uscente si è fatto portatore. Non ci sarebbe in fondo niente di strano se al congedo dalle posizioni più conservatrici dei repubblicani si accompagnasse anche il congedo dalle posizioni più di destra in campo etico. In questo senso, a quanto sembra, andranno i primi passi del nuovo presidente.
Tra le varie voci uscite dal suo staff, infatti, c'è quella di alcuni interventi (addirittura duecento, si è detto) intesi ad abolire provvedimenti legislativi presi da Bush. Tra questi, quello che ha vietato il finanziamento federale alla ricerca sulle staminali embrionali, e provvedimenti restrittivi sull'aborto. La notizia ha già sollevato preoccupazioni tra i vescovi americani e in Vaticano, dove il rammarico per la fine dell'alleanza speciale con Bush sulle questioni della vita si è fatto anche troppo sentire: il Vaticano non ha partecipato alla grande emozione del mondo intero per l'elezione del primo presidente di colore, ma si è posto in attesa. A differenza dei cattolici americani, che hanno investito su Obama pensando evidentemente che le sue dichiarazioni a favore della libertà di scelta, e per l'impegno a eliminare le cause sociali dell'aborto, definissero una posizione etica accettabile.
Non possiamo sapere adesso se Obama prenderà davvero questi provvedimenti. Ma se lo farà, entrerà in contraddizione con le sue ripetute affermazioni di voler essere non-partisan, di voler superare le divisioni di partito e unire gli americani? Come ha osservato Vittorio Emanuele Parsi sulla Stampa, non c'è contraddizione, ma anzi un riequilibrio al centro: erano i provvedimenti di Bush a essere estremisti, perché traducevano in legge le convinzioni proprie della destra religiosa più conservatrice. Nel suo complesso il voto per Obama, che si accompagna alla bocciatura dei matrimoni gay in California, esprime una collocazione centrale e moderata dell'elettorato, che probabilmente si rifletterà nelle scelte del nuovo presidente. Ciò che è interessante per noi è che queste considerazioni attraversano pacificamente anche l'elettorato cattolico. Il che dimostra che è la politica, e solo la politica, a definire il peso politico comparativo delle scelte etico-religiose. Bush era riuscito a saldare alla sua coalizione la destra religiosa, perché la sua proposta politica appariva convincente a questa porzione di elettorato. Obama ha ottenuto il consenso anche della maggioranza dell'elettorato cattolico, come non era riuscito a Kerry, perché evidentemente la sua proposta politica ha convinto, al di là delle barriere etiche e religiose. Questo voto mette in questione proprio la supposta affinità tra cattolici e destra evangelica: un punto sul quale forse il Vaticano farebbe bene a riflettere.
Queste considerazioni hanno delle implicazioni anche riguardo a un altro tema molto trattato in questi giorni: quello della presenza di Dio nella politica americana. Una presenza certamente molto forte; ma non si può dimenticare che essa è l'altra faccia dell'assenza di una religione ufficiale e della separazione di Stato e Chiese, sancita fin dal Primo emendamento del 1791. Solo a queste condizioni è possibile il riferimento a Dio con un ruolo essenziale nel discorso pubblico, e quindi quella particolare laicità, non aggressiva, non escludente, che è tipica della sfera pubblica americana e molto diversa dalla laicità europea.
Ernesto Galli Della Loggia ha sostenuto che la forza dell'America sta nel guardare a Dio come fonte di speranza indomita, secondo la promessa biblica. Ma ascoltiamo la prima frase del discorso di Chicago: «Se c'è ancora qualcuno che dubita che l'America sia un luogo dove tutto è possibile, che ancora si chiede se il sogno dei nostri Fondatori sia vivo nella nostra epoca, che ancora mette in dubbio la forza della nostra democrazia, questa notte è la vostra risposta». La vera eccezionalità americana sta nel miracolo di una nazione - peraltro multietnica e multiculturale - che ancora si riconosce nella sua Costituzione vecchia di più di duecento anni, e trova in essa una ispirazione intatta per riorganizzarsi, per ripartire, per reinterpretare i propri valori fondamentali.
La forza della democrazia americana non è nel richiamo a Dio: è nel richiamo alla Costituzione, che dà anche a Dio il suo posto.

l’Unità 12.11.08
Liberazione sciopera. L’editore vuole tagliare mezza redazione


ROMA Sciopero a «Liberazione»: oggi il quotidiano di Rifondazione non è in edicola per protestare contro il piano di ristrutturazione annunciato dalla società editrice, «che prevede un taglio di 'oltre la metà del costo del personalè e non sana la situazione dei precari», denuncia in una nota il comitato di redazione. I lavoratori erano in attesa dell’avvio delle trattative da parte dell’editore , ma la proprietà (il partito azionista unico) ha presentato il piano che dimezza la redazione. Piano che la direzione (il segretario Ferrero) avrebbe confermato oggi. Così l’assemblea ha deciso per il terzo sciopero. I lavoratori vogliono «chiarezza» e rifiutano il «tentativo di far ricadere sulle loro spalle i costi delle difficoltà economiche e anche degli errori gestionali».
Solidarietà ai colleghi dalla Fnsi, da Stampa Romana e dal Cdr de l’Unità.

l’Unità 12.11.08
Il governo abbassa i sipari
Zero fondi, lo spettacolo chiude
di Luca Del Fra


Il ministro della cultura Bondi incontra i rappresentanti dei maggiori teatri lirici italiani, sotto accusa per le spese eccessive: un diversivo per nascondere i tagli che metteranno in ginocchio il settore spettacolo.
Lo spettacolo va incontro a una crisi di tali proporzioni che il caso Alitalia a confronto rischia di impallidire. Il governo Prodi per il 2008 aveva stanziato per finanziamenti (Fus, il Fondo unico per lo spettacolo) circa 560 milioni di euro, forse scarsi rispetto all’inflazione, ma appena entrato in carica il governo Berlusconi ha ridotto questo fondo a 380 milioni per quest’anno e a 300 per il 2009. Le risorse dello Stato che sono vitali per cinema, teatro, musica, danza, spettacoli viaggianti, circhi e perfino le giostre crolleranno del 40% in meno di 19 mesi.
Di fronte a ciò il ministro dei Beni e delle attività culturali, tuona, strepita e incandesce: ma non per i tagli. È contro l’acuto spendaccionismo teatrale italiano Sandro Bondi: la colpa esimia è dei sindacati e delle orchestre, e lui minaccia la riforma, brandisce come una clava provvedimenti che hanno il lucore dell’urgenza. Sì, insomma, il solito decreto legge, da portare nei prossimi giorni in Consiglio dei Ministri, dopo aver ascoltato le parti sociali. Oggi incontrerà i sindaci e i sovrintedenti dei maggiori teatri italiani, le Fondazioni liriche, per cantargliele.
Ma la canzone, questa degli sprechi delle fondazioni liriche, non priva di fondamento, si è già sentita talmente tante volte da essersi trasformata da una mezza verità in una mezza bugia. Stavolta la fandonia è diventata completa e per rendersene conto basta leggere l’intervista a Bondi pubblicata da La Stampa il 5 ottobre scorso: «Accanto a lui (a Bondi) tenendo in mano tabelle di dati siede Salvatore Nastasi, suo capo di Gabinetto», scrive sul quotidiano torinese Sandro Cappelletto, che poi domanda di quali privilegi godano le orchestre dei grandi teatri italiani. Risponde sicuro Bondi: «I contratti delle Fondazioni lirico sinfoniche prevedono 16 ore di lavoro a settimana...». Peccato però che il contratto nazionale prevede non 16 ma 28 ore di lavoro per settimana! Lecito chiedersi che razza di carte gli abbia passato il suo capo Gabinetto. Bondi in verità sembra ispirarsi alla riedizione di Mariastella Gelmini delle «armi di distrazione di massa»: di fronte ai tagli di Tremonti, il ministro dell’Istruzione millanta una riforma della scuola, mentre quello della cultura, che è anche poeta, se la prende con lo spendaccionismo e minaccia provvedimenti; se nei mesi estivi corsivisti e seriosi pedagoghi hanno decantato croci e delizie del grembiule, del 5 in condotta e del maestro unico, oggi sulla lirica i giornali discettano se sia giusto o mettere in scena un troppo costoso Parsifal.
GROTTESCHI ESCAMOTAGE
Nelle 13 fondazioni lavorano 4.673 dipendenti: dai 226 di Santa Cecilia (Roma) ai 729 della Scala. Il costo medio varia dai 76mila euro l’anno a Santa Cecilia ai 49mila del Carlo Felice di Genova. Cifre lorde. Non da capogiro. Il movimento degli studenti, con genitori e insegnanti, ha messo al centro dell’attenzione come dietro le mentite spoglie della riforma Gelmini si nascondessero tagli che riporteranno la scuola indietro di 50 anni, ma per ora nessuno ha chiarito come stanno realmente le cose con le attività culturali. I sindacati protestano, i sindaci e i sovrintendenti dei teatri marciano in ordine sparso, quando non battibeccano tra loro a mezzo stampa, come ha fatto Marco Tutino, del Comunale di Bologna contro Francesco Ernani dell’Opera di Roma. Lo stesso sindaco Sergio Cofferati è intervenuto nel dibattito, ma a Bologna hanno buoni motivi per essere nervosi, il loro teatro potrebbe essere il prossimo a subire il commissariamento: il quinto in pochi anni, a causa dei dissesti provocati dai tagli ai finanziamenti operati dal precedente governo Berlusconi (2001-2006). La pseudoriforma della lirica per decreto minacciata da Bondi non solo è sbagliata nei presupposti, ma è un grottesco escamotage per coprire un nuovo taglio a tutto il settore. Una decurtazione che non ha pari in nessun settore produttivo nella storia dell’Italia repubblicana. Più volte Bondi ha dichiarato di voler impiegare i fondi del ministro per i siti archeologici, ma se la sua pseudoriforma andrà in porto dello spettacolo non resteranno che rovine, come quelle a Pompei.

Ieri i lavoratori del Maggio fiorentino hanno protestato per le vie della città e alla Pergola. Anche a Torino il teatro Regio sarà aperto tutto domani per protesta. Domani sempre nella capitale appuntamento dei sindacati confederali al Teatro Valle contro la «smobilitazione del settore culturale». Parteciperanno la danza, la prosa, l’audiovisivo e la musica.

Dopo aver fatto saltare ieri l’audizione in commissione cultura del Senato, il ministro Sandro Bondi oggi incontra i sovrintedenti e i sindaci delle città dei maggiori teatri lirici italiani. Domani sarà invece la volta dei sindacati. In preparazione provvedimenti urgenti per far fronte ai tagli ai finanziamenti allo spettacolo operati dal ministro Giulio Tremonti.

l’Unità 12.11.08
La lunga notte dei Cristalli aveva il sorriso dei nazisti
di Toni Jop


Settant’anni dopo, nella Nuova Sinagoga di Berlino, è stata allestita una mostra fotografica sulla «Notte dei Cristalli». I nazisti colpirono oltre mille siti e deportarono 30mila ebrei. Sarà aperta fino al primo marzo.
Bisogna vederla, perché è un’esperienza dell’anima questa massa di mattoni rossastri scura, scavata, sfilata, enorme, severa come chi o cosa non ha avuto, dall’esistenza, chance diverse da una dolorosa introversione. Così, la Sinagoga Nuova di Berlino risuona come un «mi-basso» continuo in Oranienburgerstrasse; e, non bastassero la sua stazza, la sua capacità di assorbire la luce della strada, sopporta anche oggi paziente un piccolo assedio: polizia e steccati, misure di protezione, atroce poesia di una cautela che marca tempi nuovi e insieme condizioni di rischio ancora in vita. Settant’anni dopo il rogo che la svuotò ma non la distrusse, nonostante la necessità che venisse cancellata dalle fiamme accese dai criminali nazisti nel corso di quella terribile notte graziata da un bellissimo nome, «La notte dei cristalli». La notte in cui migliaia di siti con la stella di David furono aggrediti in tutto il territorio tedesco in una sorta di battesimo ufficiale della tragedia totale che sarebbe seguita. Settant’anni dopo, c’è una modesta, silenziosa coda che supera lentamente i metal detector, le perquisizioni d’ingresso alla grande sinagoga. Tira un’aria gentile, spettina i capelli, vorrebbe piovere. Gruppi di ragazzi italiani, cittadini tedeschi, spagnoli, francesi e altro alzano le braccia per lasciarsi perquisire, depositano gli oggetti nella vaschetta, proprio come all’aeroporto. Ma qui non siamo all’aeroporto. Non manca il motivo, è evidente; il problema è che il motivo c’è ed è questo movente che rubrica male i nostri tempi. Esiste un «dopo», oppure siamo sempre pericolosamente allo stesso punto? Intanto, rivediamo il passato: in una sala del pianoterra è stata allestita una mostra fotografica, immagini di allora, di quella notte, dei roghi che hanno acceso le piazze della Germania nazista. Non solo fuoco e macerie, anche corpi di uomini e donne, vivi ma trascinati per strada con la stella di David al collo, spesso in numeroso corteo obbligato dalle guardie naziste. E la gente che, attorno, guarda e guarda. Non siamo all’epilogo, alle immagini dei corpi straziati nei campi, questa «cerimonia» punta per ora allo spirito degli ebrei tedeschi, vuole cancellarne ogni eventuale «presunzione» di dignità. Il tutto viene raccontato chiedendo al visitatore di compiere un piccolo sforzo: puoi fermarti alla lettura di una gigantografia sgranata che dice di fiamme e muri sgretolati dal calore, ma se ti avvicini, se fai scivolare lo sguardo in una fessura che solca l’immagine grande, ecco che metti a fuoco un percorso di «scatti» che inseguono quel sincronismo industriale con cui i nazisti operarono la distruzione nell’arco di poche ore. E i fatti sono loquaci, soprattutto sono i volti degli interpreti che raccontano le storie di quella notte. Se si vuole, si possono anche ascoltare le voci dei testimoni diretti, voci registrate: basta tirar su quei telefoni legati alle colonnine e stare a sentire. Ma è dura. Torniamo a quei volti fotografati perché c’è qualcosa che non torna, soprattutto in ciò che emerge al di sopra delle divise dei carnefici, sopra il collo delle camice grige. Non torna quell’aria da scampagnata cameratesca che cementa le espressività degli agenti con la croce uncinata al braccio. Spesso sorridono, a volte magari sanno di essere inquadrati dall’obiettivo, ma il più delle volte non è così e sorridono mentre trascinano uomini e donne con cognomi ebrei per la strada, giusto per mostrare al «popolo» quanto siano bestie indegne e niente umane. Lo stanno facendo oppure lo hanno fatto da poco. C’è una coppia di immagini meravigliose, datate Erlangen, 10 novembre 1938; uno scatto ferma accanto a una casa un gruppo di ebrei rastrellati, volti degni, bellissimi tristi e cari come la facciata severa della Sinagoga; accostata, una graziosa foto di gruppo di nazisti inebetiti e sorridenti. Perché sorridono a quel modo? Forse perché non si può chiedere a nessun essere umano di fare quel che stanno facendo loro senza farlo pagare con la perdita della sensibilità, dell’intelligenza, dell’amore per sé. E forse quel ghigno senza speranza è proprio il segno di un bliglietto pagato: corpi vuoti, cervelli sbiaditi, cuori bruciati, quel che resta di un uomo se gli succhi l’anima. A quel punto conviene sorridere, non hai alternative, come la Sinagoga che non ha alternative alla sua severità. Se poi rifletti sul fatto che questa storia, questa morale, questa diagnosi deve per forza essere difesa dai poliziotti e dai metal detector in via in Via Oranienburger Strasse nel novembre del 2008, devi accettare di subire un modesto cortocircuito. Cosa manca, allo scopo di raggiungere quel sorriso vuoto, a quei ragazzi che in Italia hanno minacciato giornalisti e famiglie accusati di aver mostrato i loro volti durante un raid violento? Il problema è come uscirne, ancora.

Repubblica 12.11.08
Bertinotti fa l´elogio di Fanfani "Fu un pioniere degli anti-global"


ROMA - «In un momento in cui il capitalismo finanziario globalizzato rivela la sua crisi, la lezione politica di Amintore Fanfani potrebbe essere una guida politica del nostro tempo». Ne è certo Fausto Bertinotti, che colloca Fanfani nel Pantheon dei pensatori anti-globalizzazione. Sala della Lupa di Montecitorio, storici e politici alla tavola rotonda per discutere di «Fanfani alla Costituente». Padroni di casa il presidente della Camera Gianfranco Fini e il suo predecessore Bertinotti, presidente della Fondazione Camera. L´ex leader di An traccia il profilo «del politico di razza» e sottolinea l´attualità del suo pensiero economico «anche nei G8 di oggi». Ma a tessere a sorpresa l´elogio dello statista democristiano citando a più riprese il suo «Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo», scritto da Fanfani nel 1934, è anche l´ex leader del Prc. «Ho provato con molti miei conoscenti a leggere dei brani di quel libro senza dire da chi fosse stato scritto - racconta Bertinotti - Tutti hanno pensato che fosse un testo scritto in questi anni, a ridosso della crisi del capitalismo globalizzato».

Repubblica 12.11.08
Antonio junior a Mosca ha rinvenuto un pacco di missive dal carcere mai recapitate
Il nipote di Gramsci e le lettere ritrovate "Quante bugie anticomuniste sul nonno"
di Umberto Rosso


Presentato il libro sull´album familiare del fondatore dell´Unità

ROMA - Però non ha ancora detto una parola su Berlusconi... «Politica italiana? Mica ne so tanto. Posso dire solo che in Russia la battuta su Obama abbronzato è piaciuta molto, soprattutto alle signore, ha fatto proprio divertire». Per uno che di nome fa Antonio, e di cognome Gramsci, sia pure accompagnando il tutto con un pudico junior, non è male. Come a dire: a Gramsci Berlusconi fa ridere. Giunto all´età di 43 anni, nella sua Mosca, sopraffatto alla fine da cotanta storia familiare, ha deciso che era giunto il momento di mettersi di persona a rovistare nei cassetti e nei bauli del nonno, «quante carte, ma un pacco là, uno qua, che disordine».
Dopo un anno, "junior" è riemerso con un fascio di lettere inedite e un giallo: missive scritte in carcere da nonno Antonio, alla fine degli anni Venti, e mai arrivate nelle mani dell´adorata destinataria, e cioè la moglie Giulia Schucht che da Mosca combatteva contro il fascismo ma anche coi fantasmi della sua malattia. Bloccate a metà strada dalla gelosia della sorella Tatiana? Intercettate dalla rabbia dell´altra sorella, Eugenia? O invece dirottate da qualche manona politica (dal Comintern a Togliatti, all´epoca ampia scelta) piuttosto che dai triangoli amorosi?
Gramsci junior promette di scriverci un secondo libro sul mistero delle lettere mai recapitate, per il momento ce n´è un assaggio in questo suo primo che ruota invece sulla saga di una dinastia borghese e comunista. «La Russia di mio nonno. L´album familiare degli Schucht», edito dalla Fondazione Gramsci, in vendita anche con L´Unità, presentato a Roma insieme ad Oliviero Diliberto, segretario del Pdci, «il partito che in Italia sta dalle parte delle masse operaie, e scusate se parlo che sembro Breznev», ride il piccolo Antonio incespicando un poco nel suo italiano. Gramsci junior, figlio di Giuliano (il secondogenito di Antonio), e come il padre musicista, con il comunismo non ha rotto: in tasca la tessera del partito di Zuganov, e molta poca simpatia per Putin: «Nella Russia contemporanea del capitalismo selvaggio, comincio a comprendere meglio le speranze rivoluzionarie dei miei familiari».
Architrave, conseguente, del libro: quante bugie anti-comuniste su mio nonno. Falso che sia stato abbandonato al suo destino dall´Urss, «l´hanno sempre sostenuto economicamente, attraverso la zia Tatiana, pagando anche i costosi ricoveri alla clinica Quisisana a Roma». Falso che sia morto avvelenato, come ha scritto anche la sorellastra Olga, che vive in Svezia, «sempre a caccia di falsi scoop». Falso che nonna Giulia fosse una spia di Stalin, «come ha perfino riportato Bruno Vespa». Falso che il bisnonno Apollon lamentasse l´occhiuto controllo del regime sovietico, «una frase estrapolata ad arte, io ho recuperato il testo originale».
E la feroce polemica della sua famiglia contro Togliatti, gli appelli, le inascoltate suppliche a Stalin perché non finissero sul tavolo del Migliore tutte le carte del nonno? «Faccio il biologo, oltre che il musicista. Perciò, come uno scienziato ho cercato di costruire il libro. Senza schierarmi da una parte o dall´altra». Pausa. «Certo che però...». Però? «Come politico fece bene, Togliatti, ad accentrare tutti gli scritti di nonno. Ma quante sofferenze provocate in famiglia. Come quella volta che senza permesso fece rovistare nell´archivio a Roma di zia Tatiana. Più gentile, poteva esserlo».
La saga, con tutta la sua coda infinita di polemiche storiche, può continuare. Con una sola eccezione. Basta con gli Antonio o le Giulia. «Mio figlio l´ho chiamato Tarquinio. Mia figlia Galatea. Perché? Ho una passione sfrenata per gli etruschi».

Repubblica 12.11.08
Il parere dei periti psichiatrici del Tribunale di Bologna
"La Franzoni può compiere gesti violenti niente visite ai figli fuori dal carcere"
di Paola Cascella


BOLOGNA - C´è il rischio che Anna Maria Franzoni possa compiere nuovi gesti violenti. La sua incapacità di controllare gli impulsi e di gestire le emozioni sono indicatori di pericolo. Attualmente non soffre di patologie mentali di alcun genere, ma in situazione di particolare disagio, probabilmente ripeterebbe un gesto d´impeto.
Sono le conclusioni dei periti psichiatrici Renato Ariatti e Giovanni Camerini, incaricati dal giudice di sorveglianza di valutare la capacità genitoriale di Anna Maria Franzoni che a luglio ha chiesto di usufruire dei domiciliari, o comunque di incontri all´esterno del carcere con i figli Davide e Gioele. Attenzione, scrivono i consulenti nella loro relazione di una settantina di pagine. Attenzione prima di tutto per il rischio di recidiva, documentato da specifici test. E poi perché comunque Anna Maria, pur essendo una madre affettuosa, attenta e molto ben organizzata nella cura dei suoi bambini, mostra una totale negazione del suo coinvolgimento nel caso che l´ha portata alla ribalta: l´omicidio del figlio Samuele, nel 2002 a Cogne. «Sono vittima dell´accanimento giudiziario», dice di sé. Minimizzando o banalizzando i disturbi di cui soffriva in quel periodo, come attacchi di panico e ansia per cui lei stessa chiese di essere portata in ospedale. Sostenendo poi di non aver avuto nessun disagio psichico: «In ospedale ci si va anche per rilassarsi».
Per i periti è incapace di autocritica e priva di consapevolezza in relazione al funzionamento dei propri meccanismi psicologici. La richiesta di Franzoni era comunque in salita. L´alt è venuto dal presidente del Tribunale di Sorveglianza Franco Maisto: la legge stabilisce che la detenuta abbia scontato un terzo della pena. Anna Maria condannata a 16 anni, è in carcere da maggio.

Corriere della Sera 12.11.08
Biologia Lewis Wolpert svela una conseguenza dell'evoluzione, e il funzionamento, del nostro cervello
Impossibile non dirci creduloni
La mente umana è istintivamente frettolosa nel trarre conclusioni e tende sempre a considerare come vero quello che le piace di più
di Edoardo Boncinelli


Qualche anno fa si diffuse fra gli adolescenti la moda di un gioco di ruolo chiamato Dungeons & Dragons. I ragazzi si riunivano in gruppetti più o meno fissi che giocavano con una certa frequenza. Ad un certo momento si affacciò negli Stati Uniti la preoccupazione per gli effetti di questo gioco. Si registrarono infatti 28 suicidi fra i suoi praticanti abituali. Messa in questi termini, la preoccupazione sembra fondata. Se si considera però il quadro complessivo, si vede che non c'è probabilmente niente di cui preoccuparsi. Il fatto è che il tasso di suicidio medio tra gli adolescenti statunitensi è di 1 su 10.000 e poiché i praticanti abituali di tale gioco erano all'incirca tre milioni, il numero di suicidi attesi senza fare alcuna ipotesi aggiuntiva sarebbe di 300, una cifra ben superiore a 28. L'errore nasceva dal limitarsi a una rilevazione superficiale, senza considerare il quadro di riferimento complessivo, e questo tipo di omissione è alla base di un numero incredibile di errori individuali e di miti metropolitani che caratterizzano la nostra epoca, in tutti i campi. Si tratta in sostanza di un giudizio frettoloso, peraltro a noi tanto caro.
La nostra mente è infatti istintivamente frettolosa. E ama saltare alle conclusioni sulla base di poche informazioni. Siamo fatti così, e tendiamo a comportarci in questa maniera anche quando qualcuno ci ha messo in guardia contro abitudini mentali del genere. Lo sappiamo da almeno un paio di decenni e molto si è detto e scritto su tale argomento. Molti bei libri trattano di questo tema dal punto di vista teorico, di come cioè ci inganniamo e ci lasciamo ingannare dalle apparenze e dalle circostanze, sulla base di una nostra innata propensione a valutare le cose in fretta e «all'ingrosso», fondandoci su informazioni insufficienti e su impressioni «istintive» e irriflesse. Non che non siamo capaci, all'occorrenza, di essere più avveduti e razionali, ma questo ci costa fatica e lo facciamo solo in un secondo momento e soltanto se riteniamo che sia proprio necessario. Si è anche parlato di due sistemi mentali che presiederebbero alle nostre valutazioni, e secondariamente alle nostre scelte. Un sistema 1, approssimato, superficiale, sempre pronto a scattare e a operare sotto spinte istintive ed emotive, e un sistema 2, più lento, riflessivo e ponderato, ma chiamato in causa solo raramente e comunque in un secondo momento.
Lontano da questi aspetti teorici e ricco invece di esempi e di aneddoti sui nostri abbagli delle più diverse specie è l'ultimo libro di Lewis Wolpert
Sei cose impossibili prima di colazione
(Codice Edizioni, pp. IX-209, euro 21), dove viene dispiegata e spiegata tutta l'umana credulità. Già dal titolo, che trae spunto da un brano di
Attraverso lo specchio dell'incredibile e impagabile Lewis Carroll. Ad Alice che afferma di non riuscire a credere a una cosa impossibile, la Regina Bianca dice: «Mi sembra che tu non abbia molta pratica. Alla tua età io mi esercitavo mezz'ora al giorno. Certe volte arrivavo a credere anche a sei cose impossibili prima di colazione».
Alla nostra innata approssimazione e frettolosità di giudizio si aggiunge anche l'universale propensione a credere a ciò che ci fa più piacere credere. Già Terenzio dice: «Tu credi in ciò che speri ardentemente» e gli fa eco Francesco Bacone: «L'uomo preferisce credere ciò che preferisce sia vero». Soprattutto si crede vero ciò di cui si è convinti. Le nostre convinzioni, o credenze — come le chiama l'autore — sono tra le cose alle quali siamo più affezionati e senza le quali, per dir la verità, non sapremmo vivere. E il nostro cervello non ce le fa certo mancare. Di tutto ci facciamo una convinzione, al punto che il grande neurobiologo Michael Gazzaniga ha potuto scrivere che «il nostro cervello è una macchina per produrre credenze» e qualcuno è arrivato a ipotizzare l'esistenza nella nostra testa di un vero proprio meccanismo «generatore di credenze».
«Una caratteristica comune delle credenze è il fatto che spiegano la causa di un evento o in che modo accadrà qualcosa in futuro». Ma che cosa sono effettivamente le credenze? Non è facile da dirsi. Se nel Settecento David Hume sentenzia: «Finora questo atto della mente non è mai stato spiegato da nessun filosofo», pure oggi non lo sapremmo dire con precisione, anche se siamo convinti del fatto che questa continua generazione di convinzioni è una delle esigenze più vitali della nostra mente, nel suo continuo sforzo di comprendere il mondo e di cercare di comportarsi nella maniera più appropriata. In parole povere, avere delle convinzioni è necessario e fondamentale per la sopravvivenza, anche se avere delle convinzioni sbagliate non è obbligatorio. Ma quali e quante sono le convinzioni sbagliate! Wolpert ne cita e ce ne illustra un numero enorme, da quelle sulle diverse cause dei fenomeni a quelle, perniciosissime e spesso ridicolissime, sulla salute.
L'autore, che si professa materialista e riduzionista, insiste particolarmente sulle false convinzioni a proposito dell'idea di causa e sulle più diffuse pseudospiegazioni dei vari fenomeni e conclude con Virgilio: «Felice è chi ha potuto conoscere le cause delle cose». Le cause vere ovviamente.

Corriere della Sera 12.11.08
Nel nuovo libro della scrittrice i tormenti del pittore veneziano sul letto di morte
L'ultimo rimorso di Tintoretto Una figlia sacrificata al genio
Melania Mazzucco: il segreto di Marietta, un profilo inedito dell'artista
di Paolo Di Stefano


Il nuovo romanzo di Melania Mazzucco, dopo i successi di Vita e di Un giorno perfetto, si può definire a tutti gli effetti un romanzo storico: un genere che la scrittrice ha già ampiamente frequentato. I moltissimi personaggi che vi compaiono hanno una loro attendibilità verificata sui documenti, così come gli ambienti interni e gli scenari aperti in cui essi si muovono. La lunga attesa dell'angelo racconta la vita di Jacomo Robusti, detto il Tintoretto: una vita, che percorre buona parte del Cinquecento, narrata da lui stesso, immobile a letto nei suoi ultimi quindici giorni di febbre e di insonnia (tra il 17 e il 31 maggio 1594), con una visionarietà spesso allucinata che prende la forma di una lunga confessione al Signore («Signore» è invocazione ricorrente). «Ho lavorato a questa storia per cinque anni — dice Melania Mazzucco — e anche l'ultimo barcaiolo di cui parlo è esistito davvero». La folla dei personaggi è sterminata: nobili, cortigiane, gioiellieri, medici, gondolieri, monache e frati, camerlenghi, attori, girovaghi, venditori ambulanti, ambasciatori, nani, ladri, pittori geniali e imbrattatele. Anonime comparse e protagonisti celebrati dalla storia. Come il duca di Mantova, Michelangelo e Tiziano, il grande rivale di Tintoretto. Prima di essere un romanzo storico,
La lunga attesa dell'angelo è però un romanzo sulla paternità, perché la dorsale della narrazione è il rapporto d'amore tra un padre e una figlia (illegittima): tra l'artista e Marietta (che diverrà artista a sua volta), concepita con la giovane tedesca Cornelia, una passione segreta e infelice. Anzi, si tratta di un romanzo su tante paternità quanti sono i figli del protagonista: quattro femmine (oltre a Marietta) e quattro maschi. Rispetto ai quali Tintoretto stabilisce una rete di relazioni diverse come sono diversissime le loro personalità e i loro caratteri.
«Una ventina d'anni fa mi sono imbattuta nella Presentazione della Vergine al Tempio, che si trova alla Madonna dell'Orto di Venezia. Rimasi turbata dalla bambina di spalle che si trova ai piedi della scala e alla quale sua madre indica Maria, in alto. Quel quadro lo chiamano l'architettura che cammina, perché è come se si mettesse in movimento». Intanto ha messo in movimento, in Melania Mazzucco, l'idea di un libro su Tintoretto: «Non sapevo nulla di Tintoretto e tanto meno di sua figlia Marietta. Un paio d'anni dopo ho avuto tra le mani una biografia di lei e ho scoperto che era diventato un mito, specie nell'Ottocento, e che il mito fu creato da suo padre». Marietta, a sua volta, coltiva il mito del padre, che è suo maestro di pittura e di vita, idolo vivente, con tutte le sue contraddizioni, al cui amore finirà per sacrificare la propria esistenza di donna socialmente anticonvenzionale e scandalosa: sarà Tintoretto a decidere per lei il marito, le passioni, la casa in cui abitare, persino il luogo in cui morire. Il padre possiede la vita della figlia, non per antico uso patriarcale ma per una spontanea e reciproca adesione elettiva: perché è vero che Marietta dipende intimamente da Tintoretto fino ad annullarsi in lui, ma è anche vero il contrario. La più amata è lei, la figlia illegittima, indomabile da tutti tranne che dal padre, che la vestiva da maschietto per permetterle di aggirare i divieti imposti alle donne. «È un amore totale, assoluto — dice Melania Mazzucco — come se l'uno volesse vivere per far felice l'altro».
La più amata è lei, fino a suscitare nel lettore un lieve sospetto di sensualità incestuosa: «Anima mia, tu sei il mio capolavoro», le dirà Tintoretto. Poi vengono gli altri, che incarnano aspetti vari di Tintoretto, emanazioni ed enfasi di singoli aspetti del suo carattere inafferrabile, burbero, canagliesco, orgoglioso, ribelle e fedele insieme, furbo e ingenuo, dolce e amaro, impetuoso e calcolatore, eccessivo e temperato, contemplativo e materialista, ambizioso e monomaniaco (pittura, nient'altro che pittura, oltre a Marietta, certo...). Il figlio perfetto, o quasi, è Dominico, ubbidiente fino all'autofrustrazione. Sarà lui, talentuoso quanto basta, l'erede di Tintoretto, sarà lui a dirigere lo studio, ormai avviato alla grande e centro di commissioni prestigiose. Il figlio odiato e recuperato in extremis è Marco, fannullone, arrogante, oppiomane, incapace. Poi ci sono le donne avviate alla vita monastica, c'è Giovanni che farà una brutta fine, eccetera: figli lasciati per lo più alle cure, più affidabili, della moglie Faustina. Quella di Tintoretto è una paternità modernissima, venata di ambiguità e corrosa dai sensi di colpa e dalla consapevolezza postuma di essere stato un genitore assente, troppo proiettato sulla carriera e sulle curiosità di un'esistenza piena di (poche) gioie e di (molti) tormenti (bellissime le pagine strazianti che rievocano la morte dell'unico nipote).
«Mi sono innamorata di questa storia», dice Melania Mazzucco. Al punto che mentre lavorava al romanzo, si è dedicata in parallelo a un «libro gemello», una biografia familiare, la cui uscita è prevista in primavera: «Spesso le opere di Tintoretto sono doppie: per esempio, accanto a un quadro esposto esternamente sulle portelle di un organo c'è un secondo quadro segreto nascosto all'interno. Diciamo che il romanzo è lo sportello visibile della storia di Tintoretto, la monografia sarà l'altra faccia del dittico: da un lato c'è la visione e l'interpretazione libera dei fatti, dall'altra la ricerca di una verità storica». La verità storica attraversa un secolo nel romanzo, quasi due secoli nella biografia familiare, dove vengono seguite anche le vite dei discendenti. Intanto, però, già qui appare la ricostruzione, a volte grandiosa, di ampi squarci storici saldamente tenuti sotto controllo nella narrazione: Melania Mazzucco è molto brava nel narrare le scene di massa, come il Carnevale o la Festa dei Tori a San Felice, dove Tintoretto incontra Cornelia, tra scoppi di petardi, clamore di tamburi, palchi rovesciati e boati di paura. Il che dà il senso della visione ampia di un'epoca e di un contesto fisico e mentale: la Venezia postridentina, diffidente e violenta, centro cosmopolita del commercio e del-l'arte, intrico di canali, con le sue fondamenta nebbiose, le piogge puzzolenti, le sagome di palazzi nobiliari e fatiscenti, la ragnatela delle calli.
A proposito di arte, va detto che nel romanzo corre il filo tenace dell'autoriflessione estetica, perché Tintoretto ci racconta il farsi delle sue opere, in modo tale che il lettore le possa osservare appena abbozzate e poi via via portate a compimento. «Ho voluto raccontare il rapporto con ciò che si crea. Leggendo le teorie estetiche del tempo, ho tratto parecchi insegnamenti: invenzione è dare una luce, «destacare», separare gli oggetti dallo sfondo, decidere da che distanza guardarli. Tintoretto è un maestro dell'inquadratura, ha un modo folgorante di guardare da molto vicino. Infatti qualcuno gli rimprovera che guardando da troppo vicino i personaggi importanti che ritrae finisce per mettere a nudo i loro difetti: sono questioni che toccano anche la letteratura». Dunque, La lunga attesa dell'angelo è un romanzo che intreccia a una delicata storia intima (d'amore, si direbbe) e familiare, motivi storici e sociali (le cruente zuffe da taverna, la piaga della peste che invade la città, la prostituzione...), pensieri sull'ossessivo e mai risolto rapporto con Dio, teorie sull'arte: il tutto dosando puntualissime nozioni di vita materiale (esemplare la precisione con cui viene reso il lavoro negli studi pittorici del tempo) e impennate metaforiche, sentenziose o filosofico-edificanti. Senza dimenticare che i molteplici piani narrativi, nel riflettere a regola d'arte l'alternarsi di delirio e lucidità nella mente del narratore, producono un continuo e vertiginoso slittamento del passato nel presente e viceversa. Il che mette quasi il lettore nelle stesse condizioni febbricitanti di chi narra. Resta da dire qualcosa sullo stile, molto sostenuto (per via di metafore) nella cornice ( Exitus) e nei capitoli iniziali, e poi via via più fluido con la sobria immissione di parole locali o gergali, e anche qua e là icasticamente cruento nelle zone più aspre (e molto efficaci) del racconto. È il linguaggio ondeggiante dell'animo, troppo libero e insieme troppo disperato, di un uomo che spegnendosi, dopo aver compiuto a ritroso un percorso forzato nella memoria, trova il suo angelo. Quale che sia.