sabato 15 novembre 2008

Corriere della Sera 15.11.08
Da sinistra Lo storico: questi ragazzi non mettono in discussione i poteri dello Stato
Asor Rosa: clima molto diverso dal '68
di Alessandra Arachi


ROMA — Alberto Asor Rosa li ha visti da vicino questi ragazzi che protestano. All'università, ovviamente. «Non ieri perché ero fuori Roma, ma li ho visti spesso». Con simpatia, sicuramente.
Non c'è dubbio: il famoso storico della letteratura guarda con benevolenza a questo neonato movimento di protesta. Dice: «Mi sembrano poco ideologizzati, molto concreti. Però certamente molto lontani dalle esperienze precedenti».
Esperienze precedenti? A cosa allude Asor Rosa? «Al Sessantotto, per esempio. Quello era tutta un'altra cosa: era il tentativo di cambiare attraverso le lotte studentesche il sistema politico e sociale. E non dimentichiamoci che alle lotte studentesche all'epoca si affiancarono le lotte operaie». Questa volta è diverso, secondo Alberto Asor Rosa. «Questi ragazzi non mettono in discussione i poteri dello Stato. Guardano al lavoro, al futuro, al clima civile. Hanno obiettivi mirati». Ma sono totalmente privi di modelli da seguire.
Asor Rosa ci pensa su. Poi annuisce: «Sì, è così. Il fatto è che i giovani hanno sempre alle spalle un certo tipo di mondo. E di certo quello che stava alle spalle del Sessantotto era molto diverso da oggi. C'era il Vietnam, ad esempio, con tutto il suo richiamo patriottico comunista. Un forte richiamo per quella generazione».
E oggi che succede? Che richiamo hanno questi ragazzi che protestano? Quali prospettive a lunga scadenza? «I giovani oggi si confrontano con una realtà che li porta ad essere confusi. Hanno prospettive più ravvicinate, necessariamente ». Però Asor Rosa sembra non volersi scoraggiare: «Io credo che comunque questo movimento sia destinato a crescere».
E questo a dispetto delle prospettive brevi o della totale mancanza di modelli di riferimento? Asor Rosa sospira: «Beh evidentemente sono fatti così, questi ragazzi. Ad una manifestazione mi risulta che gli studenti abbiano voluto cacciare via Beppe Grillo. Forse sono riluttanti a trovare modelli, gente che venga da fuori».
Però forse Grillo non è proprio un modello di riferimento adatto per una protesta come la loro? «In effetti. A pensarci bene anche oggi i modelli ce li avrebbero, se soltanto volessero ». Qual è uno che le viene in mente, professore? «Barak Obama. Chissà perché questi ragazzi non ci hanno proprio pensato di prendere almeno lui come modello».

Corriere della Sera 15.11.08
Incontri Alla vigilia degli 88 anni, lo studioso ripercorre le tappe della sua carriera e dimostra come competenza e eclettismo non siano antitetici
Starobinski
«Un testo è una voce che ci parla una critica troppo tecnica lo uccide»
di Nuccio Ordine


«Avevo sedici anni quando mio padre mi regalò per il compleanno la Pléiade degli Essais di Montaigne con la prefazione di Albert Thibaudet. Fu un "incontro" che lasciò un segno profondo. Da allora la letteratura mi ha accompagnato per tutta la vita». Jean Starobinski, una delle voci più importanti e originali della critica letteraria contemporanea, festeggerà lunedì il suo ottantottesimo compleanno. In sessant'anni di febbrile attività, i suoi celebri saggi su Montaigne, Baudelaire, Rousseau, Montesquieu, Diderot gli hanno procurato prestigiosi premi (Institut de France, Balzan, Goethe) e numerose lauree honoris causa (l'ultima, il prossimo 19 dicembre, dall'Orientale di Napoli).
L'appuntamento con il critico ginevrino è nel suo nuovo appartamento di Avenue Champel, a Ginevra. «Ho vissuto — dice sorridendo — in un ambiente dominato dall'interesse per la medicina e per la letteratura. Mio padre, mia madre e mia zia erano medici. Ma in casa non arrivavano solo le riviste scientifiche. I miei genitori erano anche abbonati alla Nouvelle Revue Française
che mi ha fatto precocemente conoscere i lavori di Gide, Rivière, Thibaudet».
E proprio lungo questo doppio binario scientifico e umanistico, Starobinski (affettuosamente chiamato Starò dagli amici e dagli allievi) compie il suo percorso di formazione. Prima la laurea in Lettere classiche a Ginevra nel 1941 e poi quella in Medicina nel 1951. «Dopo la laurea in Lettere mi resi conto che non c'erano buone prospettive di lavoro. Così, incoraggiato anche dalla mia famiglia, decisi di iscrivermi a Medicina. E quando nel 1946 divenni assistente di Marcel Raymond continuai i miei studi di psichiatria, indirizzandomi però verso la storia delle scienze. Alla Johns Hopkins University, infatti, insegnavo letteratura francese e frequentavo i corsi di due maestri, Temkin e Edelstein, presso l'Istituto di Storia della medicina. Poi Georges Bataille e Eric Weil mi chiesero di collaborare a Critique con una serie di saggi in cui mettevo a frutto le mie competenze scientifiche e letterarie».
Non a caso Starobinski, nel corso della sua lunga carriera, ha attraversato in lungo e in largo le più diverse discipline, utilizzando strumenti della psicoanalisi e della linguistica, della filosofia e dello strutturalismo, della fenomenologia e della storia delle scienze. Ma si è trattato di un dialogo che non ha mai generato la scelta esclusiva di un metodo. «Ho sempre cercato di piazzarmi nel movimento dei diversi orientamenti della ricerca. Il critico deve prestare molta attenzione alle trasformazioni delle conoscenze. Deve saper ascoltare il dibattito sui metodi e sulle idee, cercando di appropriarsi di ciò che può essere utile al suo lavoro di indagine».
Ma l'attitudine all'ascolto e l'attenzione alle «variazioni» — coltivate, probabilmente, sin dalla giovinezza anche nella sua passione per la musica e per il pianoforte — hanno soprattutto guidato il rapporto che Starobinski, volta per volta, ha intrecciato con i classici di cui si è occupato. «Per prima cosa bisogna accogliere il testo così com'è e, soprattutto, saperlo ascoltare, perché un testo è una voce che ci parla. In lui c'è qualcosa di immediatamente ricevibile: il sistema delle immagini, dei ritmi, delle rime e la stessa materialità del linguaggio. Il testo ci interroga, ci domanda di rendergli giustizia riconoscendo la sua direzione, la tensione di fondo che lo anima. Si crea una sorta di va e vieni tra una ricezione generosa, accogliente, interrogativa e, successivamente, un'iniziativa che bisogna prendere poiché non possiamo accontentarci di essere passivamente l'eco del testo. Spetta al critico, insomma, avere un progetto e sapere dove vuole andare una volta che ha accolto il testo. E, in questa fase, l'individuazione di un tema, di un motivo, di un'immagine può essere determinante per interrogare un'opera o una serie di opere. Devo molto a Marcel Raymond e a Georges Poulet».
Per Starobinski, insomma, l'analisi dello specifico testuale, della sua forma, deve essere sapientemente coniugata con l'analisi dei contenuti. La letteratura non può essere considerata come un universo chiuso in sé, come autoreferenziale: essa ci parla sempre e comunque del mondo, raccontando i sentimenti e le contraddizioni che animano il genere umano. «Nessuno vuole negare che la letteratura ha sempre avuto relazioni con la letteratura precedente e che essa cerca di costituirsi come un corpo indipendente. Ma questo non significa che la letteratura designi solo se stessa. Essa è sempre in rapporto con la realtà anche quando esprime un rifiuto del mondo. Non ci può essere letteratura senza lettori e senza una relazione tra lo scrittore e suoi lettori. Perciò non sono stato mai tentato dall'idea di autoreferenzialità della letteratura, un modello che non mi pare abbia prodotto risultati significativi ».
Il critico ginevrino esprime anche preoccupazione per gli eccessi di specialismo. La sua doppia formazione lo ha sempre incoraggiato a superare i limiti dei ristretti perimetri disciplinari per abbracciare i saperi più diversi. «Un eccesso di specializzazione può rendere incomprensibile il nostro lavoro: un critico deve essere sufficientemente istruito nei singoli domini e, nello stesso tempo, però capace di filtrare e decantare ogni forma estrema di tecnicismo. Se la critica diventa fine a se stessa (il sapere per il sapere) si corre il pericolo di uccidere la letteratura. Ma la stessa preoccupazione riguarda altre discipline: i filosofi analitici non rischiano di uccidere la filosofia?».
Le pagine esemplari che Starobinski ha dedicato alla malinconia testimoniano la ricerca di un equilibrio tra letteratura e medicina. Nel corso dei secoli la stessa parola ha significato cose opposte: il genio energico e fantasioso in preda all'ispirazione creatrice e il malato apatico in preda ai pensieri di morte. «Si tratta di un tema affascinante cui ho dedicato la mia tesi di Medicina quando diventai psichiatra. In quegli anni c'era molta attenzione per la depressione e per le cure chimiche che si andavano sperimentando. Partendo dagli studi di Panofsky, Saxl e Klibansky ho ripercorso la storia della malinconia nei testi letterari e nei trattati di medicina fino all'Ottocento».
«L'insegnamento — conclude il critico — mi manca. Ma i progetti da portare a termine riempiono tutta la mia giornata. Sto risistemando una serie di saggi su Diderot e Rousseau. E poi vorrei realizzare un libro su un tema che mi attrae tantissimo: la descrizione nei testi letterari di una giornata tipo».

Corriere della Sera 15.11.08
Escono in italiano gli scritti del filosofo francese sull'arte di edificare la città
L'architettura processa Derrida
«Cattivo maestro» o «utopista», ha armato la mano delle archistar
di Pierluigi Panza


La storia dei grattacieli storti, disassati, antisimmetrici — prima invocati per non escludere l'Italia dalla
nouvelle vogue architettonica, poi denunciati come edifici alla moda e incompatibili con il contesto urbano della città europea —, ha una data di inizio, che si può fissare nel 1985. È l'anno in cui l'architetto Bernard Tschumi, vincitore del concorso per costruire il Parc de la Villette a Parigi, chiese al filosofo Jacques Derrida di collaborare con lui e con Peter Eisenman. Preso alla sprovvista, Derrida pensò che il suo propagandato «oltrepassamento della metafisica» attraverso la decostruzione della «traccia» potesse sperimentarsi anche in architettura. Dalla collaborazione con Eisenman nacque un abbozzo non realizzato, ma Derrida scrisse la presentazione dell'intervento al parco parigino realizzato da Tschumi intitolandola Point de folie - maintenant l'architecture, poi pubblicata in
Psyché nel 1987 (parzialmente tradotta in italiano nell'antologia Estetica dell'Architettura
edita da Guerini nel 1996). I «punti di follia» di cui parla Derrida sono rappresentati materialmente dalle folies, ovvero 42 casotti quadrati di colore rosso disseminati nel parco secondo una griglia rigida, uguali di misura ma ogni volta decostruiti, con funzioni d'uso diverse e arricchiti con differenti elementi pop: ora un gigantesco orologio, ora un sottomarino che fa da hall di ingresso, ora la ruota di un mulino (nella foto).
L'intervento di Derrida suscitò un dibattito che trovò nuovo esito quando, nel 1988 al Moma di New York, Philip Johnson e Mark Wigley realizzarono una mostra di nuovi progetti intitolandola «Deconstructiviste Architecture». A quel punto il cortocircuito era avvenuto, e le «archistar» misero mano alla matita.
Quell'intervento di Derrida, insieme ai dibattiti che ne seguirono, e ad altre riflessioni del filosofo sull'architettura, trovano ora definitiva pubblicazione italiana in un libro a cura di Francesco Vitale ( Adesso l'architettura,
Scheiwiller, pp. 372, e 24).
Questi saggi si configurano come un rapsodico commentario teorico all'architettura decostruttivista, non come una teoria. Il filosofo francese, non immune dallo scivolare in contorti esercizi di stile, lancia più che altro spunti di riflessione, argomenti senza però, come suo proprio stile, arrivare a definire un nuovo metodo e, ancor meno, statuti costitutivi di una disciplina. Come evidenzia nel saggio poi raccolto in Psyché, ciò che sarebbe da decostruire per Derrida è l'idea stessa che «l'architettura debba avere un senso, debba presentarlo e significare qualcosa». L'esperienza della decostruzione deve intervenire sul senso dell'abitare, sulla gerarchia dell'organizzazione architettonica, sull'idea che l'architettura debba essere al servizio di qualcos'altro e in vista di un fine. E anche sull'idea che l'architettura rientri nel campo delle belle arti, aspetto quest'ultimo che però, secondo l'antropologo Franco La Cecla, il decostruttivismo «ha invece favorito». «Il concetto di architettura è esso stesso un constructum mentale— scrive Derrida —. Un'assiomatica attraversa, impassibile, imperturbabile, la storia dell'architettura. Un'assiomatica, cioè un insieme organizzato di valutazioni fondamentali sempre presupposte. Questa gerarchia si è fissata nella pietra, informa ormai tutto lo spazio sociale». Per Derrida questa assiomatica, che coincide con l'intera storia del vitruvianesimo, ovvero quella che il critico inglese John Summerson ha definito Il linguaggio classico dell'architettura (1966) è da decostruire.
A distanza di una ventina d'anni da queste proposte teoriche, l'uscita in italiano di questi testi è l'occasione per una prima verifica della stagione alla quale hanno fornito supporto teorico, prima che tutti gli studenti di architettura si mettano a laurearsi solo su edifici storti. Questa stagione è fatta di «oggetti» riusciti (Guggenheim di Bilbao di Gehry), parzialmente riusciti (Museo ebraico di Berlino di Libeskind), falliti (uffici al Mit di Gehry), in arrivo (grattacieli storti di Libeskind, Isozaki e Hadid a Milano), edifici riusciti e altri mostruosi nella provincia italiana. Decostruire il vitruvianesimo ha voluto dire superare la storia della trattatistica, dimenticare abdicare di fronte a metodi, tipologie, logiche urbanistiche per aprirsi a alla «chance», all'heideggeriano «far spazio». Una direzione scelta ancora da Aaron Betsky nell'ultima Biennale di architettura, nella quale si vuole «andare oltre l'edificio perché gli edifici ormai sono tombe», afferma Betsky, che vede in Derrida una carica di utile utopismo. Si tratta di una dimensione nella quale il relativismo nichilista si presenta come alternativa alla costruzione razionale. Il gioco, prende il posto della meccanica razionale e la dimensione nietzschiana della Gaia scienza e del dionisiaco il posto dell'illuministico «rigorismo » architettonico. Tanto che un teorico che punta tutto sulla geometria, come Nikos Salingaros, boccia senza mezzi termini Derrida come «cattivo maestro»: «Le sue sono parole vuote. Derrida ha decostruito prima la letteratura e la lingua, tagliando i legami tra significati che formano la base della comunicazione. Poi, ha voluto applicare lo stesso metodo distruttivo all'architettura. Solo che non era nemmeno capace di farlo, perché non sapeva niente di geometria. Il suo discorso con Eisenmann per il Parc de la Villette è assurdo. Senza volerlo, Eisenman ha mostrato che le idee di Derrida sono un metodo per distruggere, non per costruire».

venerdì 14 novembre 2008

Il Giornale 14.11.08
Il «Berti-bossi» seppellisce il comunismo
di Luca Telese


Roma. Quindici tesi per rifondare la sinistra, scritte in una lingua di mezzo, a metà fra il «bertinottese» stretto e il «neopadano». C’è qualcosa di curioso nel percorso di «reinserimento» di Fausto Bertinotti nella società, dopo la traumatica (per lui) esperienza alla presidenza della Camera. Certo, non è facile per nessuno: per provarlo basta ricordare la parabola dolorosa di Irene Pivetti, che transitò in meno di un mese dai foularini color pastello ultra-istituzionali, alla passerella in camicia verde ultraleghista, alla fondazione di un partito di cui non si ricorda più nessuno (l’Orso!), all’ipotesi centrista della lista Dini, per approdare a una nuova vita televisiva con rubrica delle lettere del cuore su La7, fino alla conduzione di prime serate Mediaset, e servizi fotografici vestita in lattice nero come Catwoman, o accompagnata dai pettorali scolpiti di Costantino Vitagliano. Si dirà: a Bertinotti è andata meglio. Una trombatura sontuosa come candidato premier della lista Arcobaleno e il faticoso tentativo di ritagliarsi il ruolo di «grande saggio» a sinistra.
Percorso non impossibile: poche interviste mirate, la direzione di una pensosa rivista (Alternative), qualche centellinata riflessione da leader super partes. Senonché il digiuno mediatico è difficile per tutti. Dopo uno struggente addio ai monti, o meglio a Porta a Porta («È la mia ultima puntata, mi ritiro dalla politica»), l’astinenza dal palcoscenico è faticosa. Così Bertinotti non resiste agli inviti del suo amico Massimo Fagioli, e le sue folle di «fagiolini» (gli ultimi che non gli lesinano applausi). E nemmeno alle richieste di intervista di Bruno Vespa. Così Bertinotti aveva appena archiviato la disastrosa sconfitta subìta al congresso di Rifondazione (il suo candidato, Nichi Vendola, è stato messo incredibilmente in minoranza con il 47%, anche e sopratutto per l’ostilità che si era accumulata contro di lui) ha fatto un altro scivolone imperdonabile agli occhi degli ex compagni: ha incautamente dichiarato - in una intervista per l’ultimo libro di Bruno Vespa Viaggio in una italia diversa - che «il comunismo è ormai indicibile». Ora, a parte che Vespa è uno che ai politici italiani riesce a strappare qualunque cosa, i militanti del Prc non l’hanno presa bene, e Bertinotti è a rischio fischiaggio in molte sedi del suo partito (gli è successo anche il 12 ottobre al corteo antigovernativo promosso da Rifondazione).
Incivili, certo. Ma per tornare a «volare alto» Fausto doveva trovare il modo di far dimenticare quelle revisioni vagamente gossipare dell’utopia comunista. Così, ieri, su Liberazione, ha pubblicato il suo nuovo manifesto, una sorta di vademecum per risollevare le sorti della sinistra. E qui, per chi si è pazientemente letto la doppia lenzuolata bertinottiana, qualche sorpresa è arrivata. Per esempio alla tesi numero 8): «Era già evidente dopo la sconfitta che la rinascista della sinistra sarebbe dovuta essere, in realtà, un cominciare da capo. Tutto ciò che accade, avvalora questa tesi. Il rinnovamento nella continuità che sarebbe stato possibile fino a ieri - avverte Bertinotti - oggi è impossibile». Seconda doccia scozzese per i militanti, al punto 11): «Si tratta di ricominciare da capo... Non sarà un caso che nel rinascimento della sinistra latinoamericana, nessuna grande formazione politica che lì ha condotto alla vittoria, nei diversi Paesi, la sinistra e i popoli del continente si chiami comunista». Quindi, se mai non fosse chiaro, l’ennesimo certificato di morte per la storia politica del «comunismo». Punto 12) «Il Pd non è di sinistra, non per la composizione della sua base sociale, ma per la natura intrinseca del partito e del suo progetto politico». Nostalgie uliviste? Macché, al punto 13) Bertinotti stila un altro certificato di decesso, quasi impietoso: «Il centrosinistra è finito, ed è finito insieme alla sua tormentata, speranzosa, ma al fondo fallimentare stagione». Caspita.
Ma è il punto 15), l’ultimo, quello che stupisce più di tutti, non solo per il contenuto politico, ma addirittura per le scelte lessicali. Se non ci fosse la firma di Bertinotti, infatti, leggendo un singolo passo, sembrerebbe di sentire parlare Umberto Bossi, il leader del Carroccio in persona. Scrive infatti Bertinotti: «Il centralismo romanocentrico, figlio non più dell’esigenza nazionale di una formazione compatta di combattimento, bensì della governamentalità, e della centralità delle istituzioni della politica va spezzato in radice, dalle fondamenta». Morale della favola? «Va fatta, nell’organizzazione della politica della sinistra - scrive Bertinotti - la scelta di un modello federativo partecipato, fondato sulla pianificazione dei ruoli dirigenti tra autonome strutture regionali, la sinistra sarda, campana, lombarda, toscana, pugliese, eccetera». Parola di Fausto Bertinotti - pardon - Bertibossi.

il manifesto 13.11.08
Bertinotti frena la scissione Alle europee sinistra unita
Nelle tesi dell'ex segretario liste aperte sotto la falce e martello
di Matteo Bartocci


Quindici tesi per la sinistra. Oggi su Liberazione Fausto Bertinotti prova a riprendere il filo unitario rotto con la disastrosa sconfitta di aprile. Non per marcare le differenze e sollecitare scissioni di corrente ma per ritrovare «l'uscita a sinistra dalla crisi del movimento operaio del '900». Come titolo alle sue tesi Bertinotti riparte da se stesso agli stati generali di dicembre: «Per imparare a nuotare bisogna buttarsi in acqua», disse allora alla Fiera di Roma prima del disastro arcobaleno e ripete oggi, con un aforisma che Google attribuisce nientemeno che al guru Sai Baba.
E' un invito all'unità della sinistra, a tutta la sinistra, a costruire quel big-bang necessario alla sua rinascita. Tesi dove la parola comunismo non è indicibile ma nondimeno deve essere maneggiata con cura. In una sinistra in cui le identità contano e vengono da lontano ma devono avere il coraggio di «fare massa critica» se vogliono ambire a trasformare la società. E' una sinistra che deve tornare a imparare, andando a lezione dal movimento della scuola, e ritrovare voce sul terreno sindacale (con la Cgil in primis) e su altre contraddizioni fondamentali, oltre a quella generata dal capitale, come quelle ambientale e di genere.
Nelle ultime due tesi la lunga analisi sulla società e la sconfitta epocale di aprile precipitano nel futuro e nella forma della possibile reazione. Si legge chiaramente l'invito a un'impresa comune per una «forza politica unitaria e plurale così com'è oggi possibile» e a scegliere le primarie o comunque la partecipazione «una testa, un voto» per decidere tutto, a cominciare dai gruppi dirigenti.
Non è il là alla scissione di Rifondazione verso Sinistra democratica. Né certamente la sua sconfessione. E' la prima forma pubblica, certo autorevole, della tregua che un po' goffamente l'area Vendola ha chiesto e ottenuto all'interno del partito pur impegnandosi ufficialmente nell'associazione con Fava e compagni.
Una tregua che per Bertinotti può prendere due forme. In alto, alle elezioni europee, con una lista nazionale in cui, dice, è preziosa l'esperienza della Sinistra europea. Un precedente dove, anche se l'ex segretario non lo ricorda esplicitamente, la metà delle liste furono di iscritti al Prc e l'altra metà aperta all'esterno (movimenti, associazioni e stavolta, chissà, anche altri partiti o pezzi di essi) fino al clamoroso successo del «disobbediente» Nunzio d'Erme. In basso, insiste però Bertinotti, l'unità si può fare con un modello federativo dove rappresentanze territoriali e direzione centrale contino allo stesso modo (una sinistra lombarda, pugliese, etc. accanto a quella nazionale).
Per le reazioni bisognerà attendere. Martedì intanto una riunione dell'area vendoliana «Rifondazione per la sinistra» ha registrato molti dissensi alla scissione. E non è da escludere nei prossimi giorni un documento pubblico firmato soprattutto da dirigenti di federazione ostili al salto nel buio fuori dal partito. L'idea prevalente, in questa fase piuttosto confusa, è di insistere per liste unitarie alle europee senza precludersi, là dove è possibile, liste di sinistra dal basso insieme a Sd e Verdi. Per esempio a Firenze, in Basilicata o a Bari.
Ma è un doppio binario che sicuramente troverebbe l'ostilità di tutta la maggioranza di Rifondazione inclusa la componente ferreriana.
Ieri sera il segretario nulla sapeva delle tesi di Bertinotti in uscita sul quotidiano del suo partito. Ma certo è che almeno per Ferrero dal congresso di Chianciano è uscito con chiarezza da un lato il no alla riproposizione dell'Arcobaleno, dall'altro il sì all'apertura delle liste di Rifondazione a soggetti comunisti e non comunisti. Sotto la falce e martello molto è possibile. Ma come spiega uno dei dirigenti a lui più vicini «non si può proprio fare che si chiede una tregua per le europee e poi ci si mette a fare la guerricciola alle amministrative dove si può». La sinistra, del resto, ha già dimostrato di buttarsi nell'acqua e finire per affogare.

l’Unità 14.11.08
Eluana, ultimo atto. «Basta accanimenti»
di Andrea Carugati


La decisione della Suprema Corte conferma la sentenza del 9 luglio scorso della Corte d’Appello di Milano. Il ricorso respinto per «difetto di legittimazione all’impugnazione». Un dramma durato 16 anni.
Dopo più di 10 anni, ha vinto Beppino Englaro. E ha vinto, soprattutto, sua figlia Eluana, la sua «straordinaria tensione verso la libertà», come hanno scritto i giudici della Cassazione nella storica sentenza di ieri in cui hanno riconosciuto che si può staccare il sondino che da 16 anni la tiene in vita in uno stato vegetativo. Dopo due giorni di camera di consiglio, i giudici hanno bocciato il ricorso della procura generale di Milano, che aveva impugnato il decreto con cui la Corte d’appello del capoluogo lombardo, nel luglio scorso, aveva dato il primo via libera a interrompere l’alimentazione artificiale. Il primo presidente della Suprema Corte, Vincenzo Carbone, ha spiegato in un comunicato che il ricorso è stato respinto «per difetto di legittimazione all’impugnazione», come aveva chiesto martedì durante l’udienza pubblica il Pg Domenico Iannelli. La sentenza, numero 27145, è lunga 21 pagine nelle quali il relatore Mario Rosario Morelli spiega il perché del rigetto: la vicenda in questione non riguarda un «interesse generale e pubblico ma una tutela soggettiva e individuale» di Eluana. L’intervento del pm, nelle cause civili, si giustifica solo se il caso riguarda un interesse pubblico, ma stavolta si trattava di un «diritto personalissimo del soggetto, di spessore costituzionale come il diritto di autodeterminazione terapeutica in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale».
Soddisfatti i legali della famiglia Englaro. «È quello che ci aspettavamo e non poteva andare diversamente. La Cassazione ha fatto giustizia», dice Franca Alessio, curatrice speciale di Eluana. «Hanno vinto la giustizia e le regole del diritto», dice Vittorio Angiolini. «Ora il decreto di luglio può essere eseguito, e il padre può autorizzare lo stop ai trattamenti».
Il relatore Morelli ricostruisce nelle motivazioni la lunga vicenda giudiziaria di Eluana. Le sezioni unite evidenziano come la Corte d’Appello di Milano, il 9 luglio scorso, sia giunta alla decisione di dare l’ok a staccare il sondino «in considerazione sia della straordinaria durata dello stato vegetativo permanente (e quindi irreversibile), sia della, altrettanto straordinaria, tensione del suo carattere verso la libertà, nonché della inconciliabilità della sua concezione sulla dignità della vita con la perdita totale ed irrecuperabile delle facoltà motorie e psichiche e con la sopravvivenza solo biologica del suo corpo in uno stato di assoluta soggezione all’altrui volere». «Tutti fattori - si legge nelle motivazioni- che appaiono prevalenti su una necessità di tutela della vita biologica in sé e per sé considerata». Secondo le Sezioni unite della Cassazione, i giudici d’appello di Milano, a luglio, avevano valutato «analiticamente e approfonditamente» la documentazione sulle condizioni cliniche di Eluana. In sostanza la sentenza di ieri ha confermato quanto stabilito dalla stessa Cassazione nell’ottobre 2007, e cioè che si può “staccare la spina” solo in presenza concomitante di due circostanze: lo stato vegetativo del paziente apprezzata clinicamente come irreversibile e l’accertamento, sulla base di elementi tratti dal vissuto del paziente, che questi, se cosciente, non avrebbe prestato il suo consenso alla continuazione del trattamento.
E tuttavia la polemica, politica e clericale, contro la Cassazione è durissima. Al punto che tutti i membri togati del Csm hanno firmato per avviare una pratica a tutela dei giudici della Cassazione. Nel documento si sottolinea che la funzione «delicatissima» che spetta alla Cassazione di «mantenere l’unità del diritto nazionale», «richiede una puntuale presa di posizione da parte dell’organo di autogoverno», di fronte agli attacchi ricevuti. L’intervento del Csm servirà a «rammentare al Paese che la Cassazione non si è inventata nulla ma ha applicato la legge», spiega il consigliere Giuseppe Maria Berruti, tra i promotori dell’iniziativa. «Mai prima d’ora ci sono stati attacchi così virulenti nei confronti dell’organo supremo della giustizia italiana», aggiunge il togato Mario Fresa. Un netto stop «agli insulti e alle aggressioni contro una istituzione fondamentale del sistema giudiziario italiano» arriva dai vertici dell’Anm.

l’Unità 14.11.08
La svolta della Cassazione
«Nessuno può opporsi al rifiuto delle cure»
di Giuseppe Vittori


«Una sentenza definitiva non eseguirla è reato»
«La vicenda Englaro è definitivamente chiusa da un punto di vista giuridico. Non eseguire questa sentenza può configurare gli estremi di un reato». Parola di Amedeo Santosuosso, magistrato della Corte d’appello di Milano e componente della Consulta di bioetica, intervenuto alla presentazione del libro scritto dall’anestesista Mario Riccio sulla vicenda Welby, che ribadisce: «La sentenza e il suo percorso giungono a conclusione. A questo punto non vi sono ulteriori possibilità di ricorso da parte di chicchessia».

Il diritto all’autodeterminazione terapeutica esiste in tutte le fasi della vita anche quella terminale. Contro questo diritto personalissimo il giudice non può opporsi. La svolta della Cassazione.
Il diritto personalissimo e costituzionale all’autodeterminazione terapeutica non può essere impugnato da un giudice. È una sentenza che segna una svolta quella con la quale la Cassazione ha dato il via libera alla sospensione dell’alimentazione. Una svolta perché per la prima volta stabilisce che il diritto Costituzionale al rifiuto delle cure «prevale» su quello di altri, come ad esempio sul dovere del medico a rianimare il malato o a quello dei giudici di imporre ancora le cure. I giudici entrano nel merito, per la prima volta. E per la prima volta dicono e risolvono un conflitto normativo che ha tenuto ferme per diversi anni ben otto proposte di legge. Il passaggio cruciale dice così. Dice che «esiste un diritto di autodeterminazione terapeutica in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale. Dice che non si può fare «richiamo alla impugnazione nell’interesse della legge per accogliere il ricorso della Procura. E non si pone nemmeno il dubbio di legittimità costituzionale, in relazione ai precetti di eguaglianza e della ragionevolezza della Costituzione, stante l’evidente ragionevolezza, invece, del non identico trattamento di fattispecie in cui viene in rilievo un diritto personalissimo del soggetto di spessore costituzionale (come nella specie il diritto di autodeterminazione terapeutica in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale), all’esercizio del quale è coerente che il pm non possa contrapporsi fino al punto della impugnazione di decisione di accoglimento della domanda di tutela del titolare, solo in ragione del quale si giustifica l’attribuzione di più incisivi poteri, anche impugnatori, al pm.
Un anno fa, il 16 ottobre, la prima sezione della Cassazione aveva aperto la strada al disco verde per l’interruzione dell’alimentazione. Nella decisione i supremi giudici indicarono due condizioni concorrenti perché il giudice potesse autorizzare l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione: che lo stato vegetativo sia accertato come irreversibile e che il paziente, e cioè Eluana, avesse dimostrato il convincimento, quando era cosciente, che in un caso simile non avrebbe consentito il trattamento. Oggi ventuno pagine, sentenza 27145, hanno scritto la parola fine. Le ultime sei pagine spiegano perché l’impugnazione della Procura di Milano è inammissibile.
Come aveva detto l’avvocato generale Domenico Iannelli anche le sezioni unite hanno sostenuto che la vicenda in questione non riguardava un «interesse generale e pubblico ma una tutela soggettiva e individuale» di Eluana. Nelle cause civili,come in questo caso spiegano i supremi giudici, «la presenza del pm ha carattere eccezionale, risultando normativamente prevista solo in ipotesi di controversie coinvolgenti anche un interesse pubblico».

l’Unità 14.11.08
La polizia non paga per il G8
Assolti i vertici. «Vergogna»
di Maria Zegarelli


Nell’aula dopo pochi minuti irrompe un grido delle persone che civilmente hanno atteso per ore la sentenza del G8 di Genova: «Vergogna». Assolti i vertici della polizia, solo 13 condanne su 29 richieste.
«Se finisce così è tremendo», sussurra Vittorio Agnoletto mentre il presidente del tribunale pronuncia la sentenza. «E' finita così. In modo tremendo», ripete tra le lacrime Mark Covell, il giornalista inglese che fu quasi ammazzato quella notte del 21 luglio. Li hanno assolti. Hanno assolto gli alti funzionari di polizia accusati di falso ideologico. Hanno condannato, con pene lievi, soltanto Vincenzo Canterini, capo del VII Nucleo del I Reparto mobile di Roma, e i suoi uomini, i picchiatori della scuola Diaz. Il massacro c'è stato. Ma nessuno lo ha deciso. «Vergogna», urlano le parti civili, cioè le vittime di quel massacro. «Vergogna» urlano i genitori, gli amici. Una, due, dieci volte. Haidi Giuliani, la madre di Carlo, piange e urla. Urla e piange. «Questa sentenza significa mancanza di dignità e coraggio». Giovanni Luperi, numero due dell'antiterrorismo; Francesco Gratteri, capo dello Sco; Spartaco Mortola, dirigente Digos; Gilberto Calderozzi, numero due dello Sco: assolti perché il fatto non sussiste. Michelangelo Fournier, vice di Canterini, l'unico che in aula parlò di «macelleria messicana», due anni. Cioè nulla, con l'indulto. Non esiste il teorema su cui i pm Enrico Zucca e Francesco Albini Cardona hanno impostato la tesi accusatoria. Nessuna «politica criminale» decisa da Roma, dal capo della Polizia, Gianni De Gennaro, che quella sera disse «la Diaz non è un'ambasciata». Il giudice per le indagini preliminari, Daniela Faroggi, si avvicina ad Albini Cardona e lo abbraccia: «E' andata così», risponde lui. Enrica Bartesaghi, presidente del comitato Verità e Giustizia per Genova, tocca la mano di sua figlia, Sara, parte lesa, pestata a sangue alla Diaz, ricoverata in ospedale, prelevata dalla polizia e inghiottita per due giorni a Bolzaneto. Capelli rasta, sguardo disorientato, Sara sfugge alle telecamere. Enrica no. «E' una sentenza indegna, riconoscono il massacro ma assolvono i mandanti. Ho visto mia figlia picchiata, oggi vedo l'impunità». E' vero, riconoscono i giudici Gabrio Barone, Anna Leila Dellopreite e Fulvia Maggio, furono create prove false: le molotov le portarono gli agenti - per questo sono stati condannati Pietro Troiani e Michele Burgio -; è vero che furono provocate lesioni gravissime, che si ruppero le ossa, ma - in sostanza - fu solo responsabilità di chi compì materialmente quei reati. Una tesi ampiamente sostenuta dalla difesa degli imputati. Tredici condannati su oltre duecento agenti che fecero irruzione alla Diaz e tutti i dirigenti che quella notte erano lì. «La Costituzione italiana è stata sospesa per la seconda volta, è stata sancita l'impunità delle forze dell'ordine», dice Agnoletto davanti alla telecamere. Arnaldo Cestaro, 69 anni, quella notte fu il primo a prenderle, l'ultimo ad essere soccorso. Avrà meno di seimila euro di provvisionale. E’ arrivato con un fazzoletto rosso intorno al collo, segno di speranza, diceva nel pomeriggio. Adesso è qui che dice: «Che idea avranno i giovani della giustizia italiana? Questo è un paese che oggi dice: chi comanda non deve rispondere ad alcuno». Luciana Calamai non è parte lesa, non fu picchiata. Ma c'era qui giorni a Genova. Entrò alla Diaz la mattina dopo. Adesso è qui che chiede ai giudici "Ma voi lo avete visto il sangue, tutto il sangue che c'era in quella scuola? Cosa vi hanno insegnato Falcone e Borsellino?». Lorenzo Guadagnucci è un giornalista del Resto del Carlino, non è qui per lavoro. E' qui perché malgrado la sera del 21 luglio continuasse a gridare «sono un giornalista», gli massacrarono una mano, lo bruciarono su una spalla con la scossa elettrica. Lo torturarono. «Perché tutti gli assolti non sono qui? Sono omini di legge, sarebbero dovuti venire in forma di rispetto per questo tribunale, per la magistratura. Non sono venuti perché non hanno il coraggio di guardarci in faccia. Loro lo sanno come andarono le cose», ripete. Perché quella notte fu deciso che bisognava fare un'irruzione, fu inventato un assalto con lanci di bottiglie ad un pattugliane. E' stato provato che non ci fu quell'assalto. «Sono sempre stato sereno, ho sempre avuto la coscienza a posto e la giustizia mi ha dato ragione», dice al telefono il questore Gianni Luperi, ora numero 3 di Aisi, l'ex Sisde. E' l'unico che parla di giustizia giusta. In aula l'unico ad essersi presentato ieri è stato Alfredo Fabbrocini. «Sto zitto anche oggi, ho fiducia in questo tribunale», diceva nel pomeriggio. Anche il pm aveva chiesto per lui l'assoluzione. Ma alle nove della sera, dopo oltre 11 ore di camera di consiglio, non è l'unico assolto in questo processo. Non è azzardato prevedere sin d'ora l'esito della richiesta di rinvio a giudizio per l'ex capo della polizia e attuale numero uno del Dis, l'ufficio che coordina la nostra intelligence. L'udienza è prevista il 25 novembre. L'accusa lo ritiene responsabile di aver indotto alla falsa testimonianza l'allora questore di Genova Francesco Colucci. E' scritto su un cartello appeso intorno al collo delle parti lese. «Lo Stato non condanna se stesso». E alla fine hanno lavato anche quel sangue.

l’Unità 14.11.08
Alla fine Maroni «silura» il prefetto anti-impronte
di Mariagrazia Gerina


Dopo mesi di tensione con Alemanno e le linee del Viminale soprattutto sui temi dell’immigrazione e dell’integrazione, il funzionario viene rimosso. Al suo posto arriva Pecoraro, capo dei vigili del fuoco.
Non hanno usato nemmeno la cortesia della dissimulazione. Alle 9.15 inizia il Consiglio dei ministri, Maroni scalpita, alle 9.35 la notizia è già in agenzia: Carlo Mosca, 63 anni, alle spalle una vita a servizio dello Stato, non è più prefetto di Roma, al suo posto il governo ha nominato Giuseppe Pecoraro, capo dei Vigili del fuoco. Fatto, tolto il disturbo. Dopo tanti rinvii la decisione non poteva essere più secca. Non ci sono nemmeno le altre nomine (quella del nuovo prefetto di Napoli), attese sempre per ieri, a togliere il sapore della rimozione. Maroni può tirare un sospiro. Il sindaco di Roma anche. Mosca, con i suoi tempestivi richiami alla costituzione e al diritto, con il suo no a prendere le impronte ai bambini rom, con i suoi distinguo tra «delinquenti» e «la gente onesta a cui bisogna dare una casa», è stato una spina nel fianco per tutti e due. Neanche Berlusconi deve aver gradito le sue parole sul «diritto degli studenti a manifestare» quando lui aveva appena invocato l’intervento della polizia.
Alemanno si trova nello studio di Unomattina quando il conduttore Michele Cucuzza gli dà modo di commentare in diretta la novità: «Auguri al nuovo prefetto, ha di fronte a se una situazione difficile, ma sicuramente ci sarà una grande collaborazione istituzionale», si complimenta il sindaco di Roma, senza battere ciglio. Più tardi, a freddo, si ricorderà di aggiungere un «ringranziamento non formale a Mosca». Senza fretta. E con qualche stizza se qualcuno prova ad accennare alle frizioni dietro la scelta: «Una sciocchezza, il consiglio dei Ministri non decide in base a frizioni».
«Preferirei mi si ricordasse come una persona che ha fatto il bene dei cittadini», si schermisce lo stesso Mosca, poco a suo agio nei panni del ribelle. Anche se poi, ripercorrendo la storia di questi mesi, si lascia sfuggire: «Le impronte a Roma non le avremmo prese comunque». Dal Viminale ancora nessuno si è preoccupato di comunicargli la decisione quando Mosca la legge sulle agenzie. Non batte ciglio nemmeno lui. Infila il cappotto e rispetta il programma di una ordinaria giornata da prefetto, che ieri, ironia della sorte, alle 11 in punto lo voleva al Quirinale insieme al ministro Maroni. Quando entra nella sala dove è attesa la delegazione di «nuovi cittadini», molte tra le autorità presenti si alzano in piedi per un inusuale omaggio. Lui si imbarazza un poco. Napolitano, nel suo saluto, parla di diritti, accoglienza e rispetto per gli immigrati. Principi che Mosca non si è mai stancato di richiamare nei suoi 14 mesi da prefetto.
«Accetto la decisione, ma sono orgoglioso del lavoro fatto», rivendica da sé, facendo velo alla modestia. «Lascerà un ricordo indelebile», fanno sapere le persone che hanno lavorato con lui. Mentre il suo predecessore Serra, ora deputato del Pd, attacca: «Ingiustizia è fatta, un uomo ineccepibile e di straordinaria professionalità, che si è trovato a spiegare come certi provvedimenti non potevano essere applicati semplicemente perché il diritto non lo consentiva è stato sostituito in maniera assolutamente ingiustificata». «Cercavano un capro espiatorio», dice Serra. Mentre attestati di stima arrivano da Sant’Egidio, dalla comunità ebraica, dallo stesso Gianni Letta. E Rifondazione avverte: «La situazione a Roma è già abbastanza esplosiva».
Alle 12, Palazzo Chigi fa sapere che «il sottosegretario Letta ha sottolineato le alte doti di responsabilità, professionalità e senso dello stato che hanno caratterizzato l'intera carriera del prefetto Mosca e il Cdm gli ha rivolto un vivo ringraziamento». Per lui il governo prepara una nomina nel Consiglio di Stato. Nel frattempo, dovrà: «Riorganizzare la rete degli uffici territoriali del governo».

l’Unità 14.11.08
Carlo Mosca, il gentiluomo che ha detto no al razzismo
Ha rappresentato l’Italia civile che non piega la schiena davanti all’intolleranza, anche se viene da partiti di governo. Alla fine il Viminale e Alemanno hanno avuto la sua testa


«Io non prendo le impronte ai bambini», disse un bel giorno nel pieno della campagna per la schedatura di Sinti e Rom. Ieri il prefetto Mosca ha detto che gli piacerebbe essere ricordato per «aver fatto il bene dei cittadini» ma quella breve frase che, alla fine, gli è costata il posto, ci resterà impressa.
Quattordici mesi è durata la missione del prefetto gentiluomo Carlo Mosca a Roma. Il “licenziamento” annunciato da molte indiscrezioni è avvenuto nel modo piu’ brutale. Una sorta di prepensionamento per il servitore dello Stato di 63 anni dal portamento militare, che volentieri ricorda la sua formazione all’Accademia militare della Nunziatella a Napoli. La “colpa” per un trattamento così inusuale? Non certo l’inefficienza: il censimento degli insediamenti rom insieme alla Croce rossa si è concluso senza incidenti e con tempismo; i reati a Roma sono in calo dal gennaio 2008; dopo la devastazione delle caserme, nella notte che seguì alla uccisione di Gabriele Sandri, anche la violenza degli stadi è stata circoscritta.
Il fatto è che il volto, un po’ invecchiato negli ultimi giorni, di Carlo Mosca ha rappresentato in Europa l’Italia civile che non cede al razzismo. Costituzionalista e penalista, Mosca - nelle lunghe riunioni al Viminale - l’ha avuta vinta sul ministro Maroni: «Rigorosi con delinquenti, solidali con gli altri». Parole basate sulle leggi italiane, europee e sulla Carta dei diritti dell’infanzia.
«Sgomberi? che brutta parola...». E se prima si era inimicato il ministro Maroni, poi deve aver urtato la sensibilità del sindaco Alemanno che la chiusura di Casilino 900, il più antico insediamento rom a Roma, l’ha promesso. Con gli sgomberi - pensa il prefetto - esporti solo il problema: sul piano della sicurezza, non sai più dove vada a finire la gente; i ragazzini che vanno a scuola li perdi per strada. Le azioni di forza non gli piacevano mai quando si tratta di problemi sociali, era così anche per i movimenti di lotta per la casa, con cui trattava.
Avrebbe voluto fondi per avviare la “fase due” post censimento: moduli abitativi dignitosi, formazione, avviamento al lavoro...
«Il dissenso fa parte della democrazia». E tre. Nel pieno dell’Onda, quando il premier ventilava il pugno duro, il prefetto si è permesso di ricordare il diritto costituzionalmente garantito. Veramente indifendibile, avranno pensato a palazzo Chigi . Del resto, ad aggirare lo scoglio di quella garbata ma ferma personalità ci aveva già provato il Campidoglio, creando una «cabina di regia». Ma non si può scavalcare il presidente del comitato per l’ordine e la sicurezza.
Ieri, a chi gli chiedeva se il sindaco lo avesse chiamato, il prefetto ha risposto «no». Sono momenti in cui certi politici appaiono piccoli piccoli. E molto grandi gli uomini dello Stato che non si fanno zittire.

l’Unità 14.11.08
L’Onda diventa una marea
Cortei per salvare l’università
di Maristella Iervasi


Senza la Cisl che si è sfilata, oggi grande mobilitazione contro i tagli. Civita (Uil): dalla Gelmini nemmeno una telefonata. Nella Capitale 4 fiumi. Fino a domenica assemblea nazionale degli atenei.
È il giorno della «mareggiata» dell’Onda. La marea studentesca contro i tagli all’istruzione e per il ritiro della legge 133 oggi invaderà Roma. Allo sciopero generale indetto dai sindacati Cgil e Uil (la Cisl ha fatto dietrofront dopo la cena a casa di Berlusconi) saranno in centinaia di migliaia da tutta Italia. Oltre 100mila universitari, ricercatori e allievi dei conservatori da ieri sono in viaggio da tutti gli Ateni d’Italia, compresa una delegazione della cattolica del «Sacro Cuore». Collette e notte bianche per autofinanziarsi, a Padova anche il sindaco Flavio Zanonato avrebbe partecipato alla «baron tax» degli studenti. 30mila le persone che si muovono con la Cgil e tanti altri che arriveranno per pronto conto, per esserci. E chi non può partire bloccherà le città di residenza. Una giornata difficile, i primi segnali già ieri pomeriggio. All’improvviso la polizia ha sgomberato Giurisprudenza mentre Giuseppe Frigo, giudice costituzionale stava tenendo una relazione sul mandato di arresto europeo. «Ci hanno poi spiegato - ha detto Frigo - che lo sgombero era su ordine del questore, in tutte le facoltà della Sapienza, per il pericolo di un’occupazione studentesca imminente».
Quattro i cortei che terranno sotto scacco la capitale: i collettivi della Sapienza si muoveranno alle 9.30 da Piazzale Aldo Moro dopo aver «chiuso» i sacchi a pelo di chi già passato la prima delle 3 notti del week-end nelle facoltà occupate. Più o meno alla stessa ora si muoveranno da Piramide i ragazzi di Roma Tre e da Piazza Barberini i giovani delle superiori. Tutti confluiranno a Piazza della Repubblica, a due passi dalla stazione Termini. Non è ancora chiaro quanti e quali universitari manifesteranno in modo autonomo, di sicuro uno spezzone punta all’assedio di Montecitorio. Il concentramento dei sindacati è invece in via della Bocca della Verità, l’arrivo in piazza Navona. E anche la destra identitaria vuole la sua fetta di piazza: alle 14 dal quartiere Prati «marcerà» fin sotto al ministero in difesa della Gelmini. «Non accettiamo provocazioni dalle sigle della destra», è la risposta dei collettivi che per evitare infiltrazioni hanno organizzato un proprio servizio d’ordine.
Mimmo Pantaleo della Flc-Cgil parlerà dal palco di piazza Navona. Ci sarà anche il segretario della Confederazione dei lavoratori Guglielmo Epifani, che ieri dopo l’occupazione-lampo di Azione studentesca nella sede romana del sindacato di categoria e della Camera del Lavoro a Brescia, ha detto: «Basta con i metodi squadristi. Non tolleriamo il ritorno a provocazioni di questo segno. Non consentiremo che forme di violenze dirette o indirette possano vincere sulla forza delle idee della ragione e della giustizia». Per la Uil interverrà Michele Civita, che ieri ha detto: «Tempo scaduto. Dalla Gelmini neppure una telefonata. Confermiamo lo sciopero». Poi il microfono passerà a 2 studenti, un ricercatore, un universitario e un rappresentante dell’Afam.
Intanto, la protesta italiana arriva anche all’estero. Con lo sciopero degli studenti che seguono l’Erasmus. Sit-in dei ricercatori davanti all’ambasciata italiana a Bruxelles. Stessa cosa a Parigi, dove studenti e prof protesteranno in contemporanea con Roma sotto le finestre del Consolato italiano della capitale francese.
Tutto è pronto alla Sapienza per ospitare chi arriva da fuori. Già ieri sera molti ragazzi hanno dormito nelle aule delle facoltà occupate: Chimica, Scienze Politiche, Lettere, Fisica. Da Napoli, Bologna, Milano i primi arrivi. «Occuperemo anche i dipartimenti di Geologia e Igiene per far posto ai ragazzi» assicura Giorgio Sestili del collettivo di Fisica. Dopo la manifestazione-mareggiata dell’Onda, infatti, i ragazzi si fermeranno fino a domenica per partecipare all’assemblea nazionale degli Atenei. La bozza del manifesto dell’autoriforma degli universitari è pronta e contiene un appello dove si chiede l’abrogazione delle leggi 133 e il decreto Gelmini sul maestro unico; l’abolizione del numero chiuso, il sistema di credito e della frequenza obbligatoria ma anche la possibilità di usufruire di servizi come la casa, l’accesso alla cultura e ai trasporti. I workshop si chiuderanno domenica mattina, poi dal pomeriggio assemblea aperta anche alle scuole superiori ed elementari.

l’Unità 14.11.08
La verità secondo Cossiga
di Carlo Lucarelli


Un giorno mi si è avvicinata una studentessa svizzera che voleva chiedermi una cosa a proposito di un’intervista che il presidente emerito Francesco Cossiga aveva rilasciato a «Blu Notte». Più o meno testualmente il Presidente Emerito, parlando degli anni 70, ci aveva detto: «Quando c’era un rosso che non riuscivamo a prendere gli mandavamo addosso un ragazzotto che gli infilava di nascosto una bustina di droga nella tasca e poi, casualmente, il terrorista incontrava una pattuglia dei carabinieri all’angolo della strada che gli trovava la bustina. Così gli perquisivamo la casa per la droga e gli trovavamo le armi». La ragazza l’aveva vista dalla Svizzera italiana e voleva sapere una cosa precisa: «Cos’è successo dopo?». Scandali, interrogazioni parlamentari, revisione di processi, proteste: insomma, il Presidente Emerito aveva ammesso un reato, o quantomento esposto una prassi inquietante, qualcosa doveva essere successo, no? «No. È solo una delle tante cose che dice Cossiga», le ho spiegato, e lei «va bene, ma lo ha detto Cossiga!». E lì ho capito che avevamo due diversi modi di vedere la cosa, due modi che ora che il Presidente Emerito ha detto cose ancora più inquietanti su come usare la polizia contro gli studenti impongono una decisione. Perché o consideriamo Cossiga un vecchietto che parla a vanvera, e allora perché dargli peso, lasciamolo a lanciare i dischi come “dj K.” nel programma radiofonico di Sabelli Fioretti. Oppure lo consideriamo un politico acuto e intelligente che ha rivestito ruoli assai importanti, e allora prendiamolo sul serio quando svela meccanismi che ci ricordano momenti drammatici come la morte di Francesco Lo Russo e di Giorgiana Masi negli anni 70, o anche di Carlo Giuliani nei giorni del G8 del 2001.

l’Unità 14.11.08
Immigrati, il monito di Napolitano: «Basta pregiudizi, sono una ricchezza»
di Marcella Ciarnelli


«Gli immigrati sono una forza per il Paese» sottolinea il presidente della Repubblica davanti al ministro Maroni, esponente del partito che vorrebbe bloccare i flussi per 2 anni. Fini: «È una scelta sbagliata».
L’abbraccio «festoso» delle istituzioni ai «nuovi cittadini», ai neo italiani rappresentanti di tante etnie e culture, portatori si storie diverse, commoventi, appassionanti, anche dolorose, è nelle parole con cui il presidente della Repubblica li ha accolti ieri al Quirinale. Qualche decina in rappresentanza degli oltre 38.000 che l’anno scorso hanno raggiunto l’obbiettivo di diventare italiani a tutti gli effetti. Che del Paese che li ha accolti si sentono parte integrante, ne amano i pregi e i difetti, ne conoscono la lingua e la cultura. Che hanno vissuto un lungo itinerario di integrazione. Forse troppo lungo. Parlano tre di loro, due ragazze e un ragazzo, visibilmente emozionati per l’essere diventati italiani. E il Capo dello Stato in chiusura del suo intervento, quindi, osserva che «più si mette l’accento su forme di verifica dell’avvenuta piena adesione, da parte dei singoli stranieri, al nostro sistema di valori e di principi, meno si può irrigidire il criterio del tempo di residenza che si è trascorso in Italia». Insomma «sulle disposizioni e gli strumenti da adottare a questo riguardo la discussione è aperta» però non può certo risolversi con un ingiustificato irrigidimento.
Nel giorno della festa, a Palazzo, nel salone affrescato e scintillante, si confrontano ancora una volta il diverso approccio al tema tra chi vive l’arrivo di nuove forze e intelligenze come una ricchezza e un’occasione e chi, invece, cerca di porre ostacoli e limitazioni dietro lo scudo della lotta all’innigrazione clandestina.
Prima del Capo dello Stato ha parlato così il ministro dell’Interno, Roberto Maroni senza dimenticare di essere esponente di un partito che propone di bloccare i flussi d’ingresso degli extracomunitari per due anni. «Il rispetto dei nostri valori fondanti e la conoscenza essenziale della nostra lingua e della nostra storia devono essere accertati con serenità ed equilibrio affinchè non si giunga a concedere il beneficio della cittadinanza indistintamente a tutti attraverso valutazioni superficiali». E non c’è nessuno che l’abbia mai sostenuto. L’immigrato che arriva in Italia è vissuto in fondo come un nemico. La cittadinanza è una «concessione» non un diritto per chi spende la propria esistenza a vantaggio del Paese che hanno scelto.
Invece Napolitano ha insistito sulla necessità, certo, che le leggi vengano rispettate e che l’integrazione sia totale nella lingua e nella cultura. Ma bisogna fare i conti con la realtà «di un fenomeno che non è più temporaneo» e quindi bisogna «stabilire regole non solo per la più feconda e pacifica convivenza con gli stranieri, ma anche per l’accoglimento di un numero crescente di nuovi cittadini». Il presidente della Camera, Fini ha ascoltato ed ha condiviso. «Napolitano ha ragione. Sono maturi i tempi per una nuova legge mentre bloccare il decreto flussi sarebbe non solo paradossale, perchè alimenterebbe la clandestinità e il lavoro nero, ma sarebbe sbagliato».
Plaudono il Pd e il Vaticano. Il cardinale Raffaele Marino ha apprezzato le parole del Capo dello Stato: «Gli immigrati non sono un peso». D’accordo anche la Caritas e le Acli. Il leghista Cota, isolato, ha insistito nella versione del suo partito: «Gli italiani non ne vogliono più».

l’Unità 14.11.08
Alta tensione nel mondo del lavoro
Scontro tra Epifani e Bonanni
di Felicia Masocco


Epifani chiede al governo e ai colleghi di Cisl e Uil confronti «alla luce del sole». Bonanni stizzito: «È tolemaico, pensa di essere al centro di ogni cosa». E resta da solo a negare l’incontro di Palazzo Grazioli.
L’incontro a palazzo Grazioli senza la Cgil c’è stato. Lo confermano il premier, il ministro Scajola, lo conferma la Confindustria. Nega ancora Bonanni mentre tace dopo averlo negato, Angeletti. Se c’erano dubbi, sono stati dissipati. Ora ci vorrebbe un po’ di trasparenza. Parlando ai pensionati dello Spi, Guglielmo Epifani è tornato a chiedere «un confronto alla luce del sole». Il ministro per lo Sviluppo quasi si spazientisce, «Quanta caciara inutile - ribatte Scajola - lo incontrerò giovedì per discutere dei problemi del mio dicastero». Come se fosse la stessa cosa.
Le gentili concessioni ministeriali non basteranno comunque a rimettere insieme i cocci che le tre confederazioni si ritrovano in mano. I rapporti tra Cisl e Uil e Cgil sono tesissimi. E oggi e domani la divisione sarà in piazza. Oggi scioperano scuola e università, doveva essere una protesta unitaria, ma la Cisl si è sfilata convinta dal governo. Sempre oggi, al Sud e alle isole si terrà lo sciopero die dipendenti pubblici: anche questo era stato proclamato unitariamente, ma 70 euro lordi di aumento mensile (meno della metà dell’inflazione) sono bastati a Cisl e Uil per rompere le righe. Sabato ancora uno sciopero, quello del commercio, contro il contratto separato che Cisl e Uil hanno firmato, la Cgil no. Il clou ci sarà il 12 dicembre, quando lo sciopero sarà generale. della Cgil, da sola. «È velleitario, sbagliato, antiunitario», accusa Raffaele Bonanni. «Non lottiamo tanto per lottare - spiega Epifani -. La storia ci ha insegnato che nessuno ti regala niente. Ogni cosa, nel nostro Paese ce la siamo conquistata con la lotta». La Cgil non vede nelle scelte del governo le risposte «che andavano e vanno date alla crisi».
Nella polemica interviene la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia. «Polemica inutile», asserisce, «gli incontri informali ci sono sempre stati. Io stessa ne ho avuti con Epifani». La differenza è che né la Confindustria né la Cgil sono il governo. In ogni caso per Marcegaglia sarebbe il caso che «maggioranza e opposizione, banche, imprese e sindacati, avessero la capacità di unirsi per aiutare imprese e famiglie a uscire dalla crisi».
Pur simpatizzando ora con la Cisl ora con la Cgil, le varie anime dl Pd si ritrovano nell’accusare il governo: «L’unità delle forze del lavoro è un bene in sé e chi prova a dividere i lavoratori e le loro organizzazioni commette un errore enorme», dice Marina Sereni vicepresidente dei deputati Pd.
E parla di «errore», anzi di «miopia» e «autolesionismo» uno che ci è passato: «Il lupo perde il pelo ma non il vizio - afferma il sindaco di Bologna, ex leader Cgil Sergio Cofferati -. Dalla pessima abitudine di provare a dividere i sindacati Berlusconi non riesce ad affrancarsi».

l’Unità 14.11.08
Non si uccide così un sindacato
di Marco Simoni


La storia politica dell’Italia del dopoguerra è scandita dalle dinamiche tra le confederazioni sindacali. Nel 2002 Berlusconi riuscì a dividerle, come era riuscito a Craxi negli anni ‘80, interrompendo dieci anni di unità. Tuttavia, si giovò solo parzialmente del risultato. La battaglia per la difesa dell’art. 18 fu troppo contraddittoria per generare un coerente programma alternativo, ma un efficace catalizzatore per colpire il consenso di cui godeva Berlusconi. Le recenti mobilitazioni degli studenti hanno avuto un impatto negativo contenuto ma non trascurabile sulla popolarità del governo. Il centrodestra non può dunque rischiare un altro fronte di opposizione di massa e così si spiega la volontà di isolare la Cgil. L’incontro segreto tra il governo e i segretari di Cisl e Uil, che escono dal retro e vengono notati da tutti, sembra una trama farsesca organizzata per farsi scoprire, e forse lo è stata, dato che i suoi autori potevano prevedere la reazione della Cgil: proclamare con enfasi uno sciopero generale.
L’obiettivo del governo è chiaro: dipingere la Cgil come un sindacato che opera contro il Paese in un momento difficile, con mobilitazioni pretestuose e poco comprensibili. Se lo sciopero generale del 12 Dicembre sostenesse una generica piattaforma contro il governo, rimanendo senza una sponda politica da parte del Pd, questo obiettivo sarebbe a portata di mano. Davanti ad una recessione che appare durissima, tutto dovrebbe fare il governo tranne che fomentare divisioni tra i sindacati e aggravare la conflittualità delle relazioni industriali. Ma ciò che interessa Berlusconi è mantenere diviso, nella società e nella politica, il mondo del lavoro, base elettorale naturale per qualunque coalizione vincente di centrosinistra. Per reagire all’offensiva è necessario alzare il livello dell’opposizione al governo dentro le pieghe della società. Non cadere nell’errore di sventolare anatemi generici con linguaggio da iniziati, ma individuare le responsabilità precise: la precarietà diffusa che impoverisce le persone e depaupera le aziende; l’attacco alla scuola e all’università, motori di futuro; un federalismo che inasprisce le differenze e riduce la capacità di reagire alla crisi. Fare opposizione in modo credibile per costruire una alternativa politica non significa annacquare il messaggio da trasmettere. La diminuzione dei consensi al centrodestra non è condizione sufficiente per poter governare efficacemente, ma è una condizione necessaria. Per evitare che lo sciopero generale sia un boomerang, si trasformino due o tre priorità in comunicazione concentrata della Cgil e del Pd. Una volta raccolto il consenso di lavoratori vecchi e nuovi, il resto del sindacato dovrà tornare sui suoi passi.

Una intervista a Gian Luigi Pegolo, ex deputato Prc, dell’area L’Ernesto
avversario di Fausto Bertinotti
Pegolo, le contraddizioni di Bertinotti e delle sue “15 tesi”
di Alessandro Cardulli


Due pagine fitte fitte. Una “ improvvisata” su Liberazione e Fausto Bertinotti, abbandona la “cultura” della politica e torna a far politica a tutto campo. Lancia le “sue” tesi per la sinistra e, in un solo colpo manda in soffitta diversi documenti elaborati in questi mesi da chi vuole costruire un nuovo partito, oltre Rifondazione, come si dice in gergo. Fra questi segnaliamo quello di cui primo firmatario era Nichi Vendola dal titolo “Rifondazione per la sinistra”, mozione due in termini congressuali, e tutti quelli seguenti fino alle proposte per la “costituente” del nuovo soggetto della sinistra che andranno in scena il 13 dicembre firmate da Vendola e Claudio Fava per Sinistra democratica, insieme ad alcuni esponenti del mondo delle associazioni e della cultura che da cinque anni si riuniscono in seminari, convegni.

Perchè questa improvvisa uscita di Bertinotti? La risposta più semplice: lui vuole guidare in prima persona la costruzione del nuovo partito, perché sua è la proposta quando pensava che il primo passaggio verso questa sponda fosse Sinistra europea. Poi il fallimento di un’altra operazione di cui forse non è mai stato troppo convinto, la Sinistra-Arcobaleno. Ora, forse, sa di giocare l’ultima carta e scende in campo in prima persona. Poco si fida dei comprimari che non hanno dato bella prova di sé e che sembrano infilarsi in un imbuto da cui non si esce. Gianluigi Pegolo, della segreteria nazionale di Rifondazione comunista, nella intervista che ci rilasciato e di seguito riportiamo, si misura a tutto campo con il documento di Bertinotti, reclamizzato fin dalla prima pagina di Liberazione.

Un progetto politico per la sinistra è senza dubbio tema anche culturalmente stimolante. Penso che anche tu sia stato preso alla sprovvista da questa sortita di cui si cerca di capire il perché dandone diverse interpretazioni. Qual è la tua opinione in proposito? Che impressione ne hai tratto?
Si, anch’io sono stato colto di sorpresa, visti gli attuali protagonisti del dibattito dentro e fuori Rifondazione. Più fuori devo dire. Ma preferisco non avventurarmi sul terreno del politichese e dare una lettura critica del documento. Si tratta di un testo molto ambizioso, espresso in termini di tesi, che si propone di disegnare nell’attuale fase di crisi e dopo la sconfitta elettorale il ruolo della sinistra in Italia. Dal punto di vista analitico contiene molte affermazioni condivisibili, anche se non tutte; dal punto di vista propositivo non mi convince, ed anzi colgo una contraddizione esplicita fra i due piani.

Forse è una specie di vizio storico della sinistra quello di non riuscire a coniugare l’analisi con lr proposte, i progetti, i programmi. Ma dove stanno le contraddizioni di cui parli?
Nel senso che sul piano analitico vi è il riconoscimento di alcuni elementi condivisibili. Per esempio: la portata della crisi, la necessità di un programma che oltrepassi l’orizzonte classico del keynesismo per proporsi di intervenire su un nuovo modello di sviluppo, la riscoperta del ruolo del lavoro, l’esigenza di un salto di qualità nelle modalità dell’opposizione sociale, la necessità di un ruolo più autonomo dal PD. Faccio presente che su questi temi Bertinotti corregge non poche delle posizioni che ha assunto negli scorsi anni. Quando si passa, però, alla proposta la contraddizione con la premessa analitica è evidente.

La tua valutazione è molto secca, non lascia margini di dubbio e, se capisco, riguarda la prospettiva, il che fare prendendo a prestito uno scritto di Lenin che ogni tanto sarebbe bene rileggere.
A mio parere la critica anticapitalista che ispira la parte analitica si traduce nella proposta in un approccio poco credibile. Quale è in sostanza la tesi di Bertinotti? Che di fronte alla portata della crisi il comunismo ha poco da dire. Egli sostiene che, per alcuni versi, il riferimento al comunismo è troppo, per altri è troppo poco. Ne consegue – a suo avviso- che l’unica prospettiva è quella di dar vita ad un nuovo soggetto della sinistra. L’elemento visibilmente contraddittorio è che questa sinistra appare oggi assai poco credibile come soggetto compiutamente anticapitalista e, pertanto, non in grado di rispondere a quella domanda di profondo cambiamento che la stessa crisi pone.

Si ricade cioè nell’”arcobalenismo”? Sembra, cioè, di tornare a ripercorrere strade ormai vecchie che non portano da nessuna parte. Questo vuoi dire?
Per l’appunto. Anche se per ovviare alla critica naturale che gli si potrebbe muovere – e cioè il fallimento di quel progetto – Bertinotti si cura di modificarne l’impostazione, enfatizzandone il carattere processuale, dal basso, democratico, ma l’assunto fondamentale resta quello del congresso ed è pertanto poco convincente. In primo luogo, come dicevo, perché la proposta del nuovo soggetto della sinistra ha già subito un’evidente sconfessione dagli elettori. Ma vi è anche un secondo motivo. Non è un caso che quando Bertinotti affronta il tema del soggetto della sinistra si sofferma essenzialmente sulle modalità del percorso che conduce alla sua realizzazione, anziché sui contenuti del suo progetto politico.

Ma Bertinotti nella parte iniziale del suo documento allude ad alcuni contenuti di un progetto per la sinistra. Non parla solo di forma del soggetto, indica delle scelte.
Sì, ma il punto è che quando parla della sinistra le attribuisce la capacità di sostenere quel progetto, prescindendo completamento dalla realtà dei fatti. Parliamoci chiaro: quando mai Sinistra Democratica ha teorizzato un ruolo alternativo al PD? Quando mai i Verdi hanno condiviso un’esplicita critica anticapitalista? La verità è che queste forze, nel migliore dei casi, si attestano su una critica al neo-liberismo e si muovono, sul piano politico, in un’ottica “migliorista”. Sono per molti versi una variante di quello che furono i DS. Farci un partito insieme significa imprigionarsi in una visione meramente compatibilista, con buona pace dei propositi di trasformazione radicale.

Ma Bertinotti scrive che occorre evitare il “politicismo.”Anche se talora lo si dice proprio per mettere le mani avanti. In questo caso,forse, per evitare di indicare i tempi del processo oltre Rifondazione ?
Già, ma ho proprio l’impressione che, in effetti, si riferisca più ai tempi del processo che ai suoi contenuti. Ciò può significare che si vuole evitare la fusione a freddo accelerata con Sinistra Democratica. O che l’ipotesi di scissione da Rifondazione è considerata - almeno nel breve periodo - poco credibile e che per le europee va evitata la rottura. Il che è in se’ positivo, ma non fa venir meno la negatività di una proposta che allude pur sempre - anche se in modo non così rozzo come si è fatto nei mesi scorsi - al superamento di Rifondazione Comunista.

Nella parte finale del documento si parla della ricostruzione della sinistra dai territori.. Che significato attribuisci a queste affermazioni, anche alla luce delle prossime elezioni amministrative?
E’ la parte che francamente mi inquieta di più ed anzi temo che possa tirare la volata ad opzioni scissioniste non dichiarate, ma praticate. Cosa significa, infatti, la scelta di un modello federativo partecipato, in cui si formano sinistre locali che approdano poi ad una direzione nazionale? Premetto che mi vengono i brividi a sentir parlare di “federalismo” perché vi leggo un’impostazione localistica che dà spazio ad un eclettismo di esperienze che rischia di enfatizzare - non tanto la partecipazione - quanto l’opportunismo di ceti politici locali in cerca di visibilità. Il punto è che questa impostazione sembra fatta su misura per lanciare le liste civiche di sinistra alle prossime amministrative, entrando quindi in rotta di collisione con le scelte di Rifondazione Comunista che – vorrei sottolinearlo - intende presentare proprie liste alle prossime amministrative.
da Dazebao 14.11.08


The Lancet Volume 372, Issue 9651 15 November 2008
Obama and health: change can happen


A palpable sense of optimism, “opportunity, and unyielding hope” has emanated from the USA since President-elect Barack Obama's victory speech on the the historic night of Nov 4. With such great expectations comes huge responsibility. Obama deserves the support of everyone who yearns for a more equitable America and a fairer world. Health, currently one of the most divisive of political issues, could become a symbolic uniting force for the new administration.
The leadership appointments to four key US health institutions will send crucial messages about what the Obama administration does, and does not, stand for. The next director of the National Institutes of Health should be an internationally renowned scientist passionate about putting science at the heart of government decision making. A public-health specialist who is committed to promoting public-health principles should take the helm at the Centers for Disease Control and Prevention. The new director of the Food and Drug Administration should be determined to take a robust safety approach to regulation. And the next Secretary of the Department of Health and Human Services (DHHS) must be ready, willing, and able to reach out to health policy makers.
Health system strengthening must be a top priority for the new administration if 46 million uninsured US residents are to have access to health care. Obama's plans to offer a range of payment choices, his commitment to ensure that all children have health insurance, and the requirement that insurance companies cover pre-existing conditions are positive steps towards an inclusive health system. In addition, Medicaid and Medicare must be rebuilt, reinforced, and fully supported.
Michael Marmot and colleagues have shown that ill-health in US residents has a particularly strong socioeconomic gradient. The current state of migrant health in the USA is a notorious example of health and social injustice. The final report from WHO's Commission on the Social Determinants of Health is a credible platform to address health and social inequalities. It was encouraging to hear UK Prime Minister Gordon Brown say at last week's international conference on the Social Determinants of Health in London that Barack Obama is committed to tackling domestic and global inequality.
The agenda for Obama on global health is complex and includes climate change, conflict—particularly the wars in Iraq and Afghanistan—and trade, including intellectual property rights on essential medicines. But there are several steps towards advancing global health that could be quickly implemented. First, health equity and human security should be a stated objective of foreign policy. Second, the DHHS Director of Global Health Affairs, Bill Steiger—who has badly hurt America's reputation in global health—should be replaced with a more experienced and appropriate politician. Third, Mark Dybul, the head of PEPFAR—the President's Emergency Plan for AIDS Relief, undoubtedly the biggest triumph of the Bush administration despite its controversies—will likely be swiftly replaced. Strong leadership from a respected international expert, such as Jim Kim, could help to negate PEPFAR's dogmatic and damaging policies—for example, its preference for abstinence-until-marriage programmes.
Fourth, just as George W Bush reinstated the global gag rule—a law that forces recipients of federal funding to agree that they will not perform or promote abortion as a method of family planning—in his first day in office, Obama could reverse this decision as soon as he is inaugurated and so improve women's access to sexual and reproductive health in a single stroke. Fifth, a public commitment to agree to spend the internationally agreed target of 0·7% of gross national income on aid by 2015 would set a good example to the international community. Sixth, as a signal that the USA is committed to human rights, Obama could bring the USA in line with most other UN member states by ratifying the UN Convention on the Rights of the Child and the International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights.
The new administration must also reach out to the global community and rebuild damaged relationships caused by the antagonism and harassment shown towards the whole UN system by the previous administration. The choice of the next UN Ambassador is pivotal to improving these relationships, in health as well as in other domains. An increase in support—including financial support—for WHO would be a sign that the USA wishes to re-engage with the global health community.
President-elect Obama is a reminder about what is great about the USA and that, indeed, “change can happen”. The fruits of that change will be judged by tangible improvements to the welfare and health of Americans—and those affected by American foreign policy.

The Lancet, Volume 372, Issue 9651 15 November 2008
Evolution of China's health-care system
by Zhe Dong, Michael R Phillips


A nation's health and the health-care services provided to its citizens are determined by inter-related ecological, economic, political, and sociocultural factors. Ongoing changes in these conditions guide the evolution of health and health services in a community. Here we describe major transitions in China since 1949. Five phases are described, but other divisions could also be valid1 and the timing and characteristics of each phase vary in different parts of the country.
The first phase was post liberation (1949—65). The conflict with Japan and a protracted civil war before the establishment of the People's Republic of China in 1949 had greatly weakened the health-care system. Following the model of other socialist economies, the Government gradually took over all health-care services, organised a centralised three-tier delivery system, and made all health providers state employees. Emphasis was placed on preventive services, integration of western and traditional Chinese medicine, and the use of mass mobilisation campaigns (eg, for schistosomiasis eradication). The organisation and funding of urban and rural services were fundamentally different: urban services were mainly provided at government-funded hospitals while basic rural services were provided at village and township clinics by the commune-based Cooperative Medical System.2 Many new medical and nursing schools were established but most graduates worked in urban areas. With the exception of massive famines during the Great Leap Forward (1958—60), the health of the nation advanced dramatically, mainly because of improved sanitation, water quality, and nutrition.
Phase two was the Cultural Revolution (1966—76). All institutions in the country were profoundly affected by the upheaval of the Cultural Revolution when different factions vied for political control. Universities and medical schools were closed for 5 years and their students and faculty members sent to the countryside.3 The provision of health care became part of the process of politicising the population: in many psychiatric hospitals drug treatment was replaced by political education sessions with use of Mao's Little Red Book.4 Mao initiated the programme of barefoot doctors that gave 3—6 months of medical training to tens of thousands of peasants and urban youth who provided preventive and basic health services to rural residents.5 Health statistics were politicised, so few reliable data on the status of the nation's health over this period are available.
The next phase was the early reform period (1977—89). Deng Xiaoping's return to power heralded a period of rapid economic development, decentralisation of political and economic power, and opening up to the global economy that fundamentally transformed the nation. Economic improvements and well-coordinated public-health initiatives resulted in dramatic decreases in the rates of most infectious diseases, decreased infant mortality, and a corresponding increase in longevity. Chronic illnesses (mainly heart disease, cancer, stroke, and mental illnesses) became the leading causes of death and disability. The one-child per family policy accelerated the rate of ageing of the population and focused public attention on child health. Many rural residents moved to urban areas for work, which created an underclass of migrant workers that was not well covered by traditional health services. Financial responsibility for managing health care was decentralised to the provinces, which exacerbated disparities between rich and poor regions. Ownership of health services remained public, but financing was gradually privatised.1, 2 Price caps for basic drugs and services resulted in excessive use of expensive drugs and high-tech services, a rapid increase in costs, a substantial increase in the proportion of costs paid by consumers, and the replacement of the prevention-focused rural Cooperative Medical System by under-trained fee-for-service village doctors, who had no incentive to provide preventive services. Many families could not afford health care and few had medical insurance to protect them from catastrophic medical expenses.
The fourth phase was the late reform period (1990—2002). The Government's attempts to reign in accelerating health-care costs, to provide more community-based health services in urban areas, and to provide insurance coverage to the uninsured were largely unsuccessful,6, 7 partly because of powerful interests (eg, drug companies, large general hospitals) and partly because poorer provinces did not have the resources needed to implement central policies. For similar reasons policies aimed at decreasing the negative health consequences of economic development (increased tobacco use, obesity, traffic injuries, mining and industrial accidents, the health effects of pollution, etc) were not effective. The rising urban middle class demanded higher-quality services (and became increasingly litigious), while disgruntled rural communities focused on poor health services as a key marker of the inequitable distribution of social resources.8 A small but growing number of private health-care providers and facilities (some funded by foreign corporations) started to address the unmet health needs of an increasingly health-conscious urban elite. The rapid decline in infectious diseases seen previously reached a plateau and the rates of some previously controlled diseases increased (eg, sexually transmitted infections, HIV/AIDS, hepatitis B, and schistosomiasis).
The final phase was after the epidemic of severe acute respiratory distress syndrome (SARS), from 2003 to the present. The SARS epidemic, played out in the glare of the international press, was a national wake-up call that highlighted the weakened state of China's public-health infrastructur e and the increasing inequity of its health-care system.9 This watershed event and rising public discontent generated the political will to fundamentally reform the system, including a partial resumption of central management of public-health services and a major reallocation of central resources to address inequities in health.10 The outcome of these post-SARS reforms remains uncertain, but there are reasons for optimism. Central funding is supporting the re-introduction of a New Cooperative Medical System in rural areas11 and a parallel programme for the uninsured in urban areas that plans to achieve universal coverage by 2020. The exemplary national monitoring system for infectious diseases implemented after the SARS epidemic (which provides real-time reports of cases across the country) and the effective public-health response to the earthquake in Sichuan12 are examples of what China can accomplish in health. The most important task ahead is to focus attention and resources on improving the quality, comprehensiveness, and cost-effectiveness of services.
We are project coordinators for the Lancet—CMB China series. We declare that we have no conflict of interest.
References
1 Blumenthal D, Hsiao W. Privatization and its discontents—the evolving Chinese Health Care System. N Engl J Med 2005; 353: 1165-1170. CrossRef | PubMed
2 Ma S, Sood N. A comparison of the health systems in China and India. http://www.rand.org/pubs/occasional_papers/2008/RAND_OP212.pdf. (accessed Aug 22, 2008).
3 Hesketh T, Wei XZ. Health in China: from Mao to market reform. BMJ 1997; 314: 1543-1545. PubMed
4 Phillips MR. The transformation of China's mental health services. China J 1998; 39: 1-36. PubMed
5 Sidel R, Sidel VW. The health of China. Boston, MA: Beacon Press, 1982.
6 Eggleston K, Li L, Meng QY, Lindelow M, Wagstaff M. Health service delivery in China: a literature review. Health Econ 2008; 17: 149-165. CrossRef | PubMed
7 Hougaard JL, Osterdal LP, Yu Y. The Chinese health care system: structure, problems and challenges. http://www.econ.ku.dk/Research/Publications/pink/2008/0801.pdf. (accessed Aug 21, 2008).
8 Wang HL, Xu TD, Jin X. Factors contributing to high costs and inequity in China's health care system. JAMA 2007; 298: 1928-1930. CrossRef | PubMed
9 Shaw K. The 2003 SARS outbreak and its impact on infection control practices. Public Health 2006; 120: 8-14. PubMed
10 Yip W, Hsiao WC. The Chinese health system at a crossroads. Health Aff (Millwood) 2008; 27: 460-468. CrossRef | PubMed
11 Dib HH, Pan XL, Zhang H. Evaluation of the new rural cooperative medical system in China: is it working or not?. Int J Equity Health 2008; 7: 17. PubMed
12 Chan EYY. The untold stories of the Sichuan earthquake. Lancet 2008; 372: 359-362. Full Text | PDF(42KB) | CrossRef | PubMed
a Peking University Health Sciences Centre and Peking University Institute for Global Health, Beijing, China
b WHO Coordinating Centre for Research and Training in Suicide Prevention, Beijing Suicide Research and Prevention Centre, Beijing Hui Long Guan Hospital, Beijing 100096, China
c Departments of Psychiatry and Epidemiology, Columbia University, New York, NY, USA

giovedì 13 novembre 2008

Liberazione 13.11.08
Da dove ripartire?
15 tesi per la sinistra
di Fausto Bertinotti


1. Dopo la disastrosa sconfitta elettorale e la cancellazione della sinistra in Italia si è posta l'esigenza inderogabile della sua rinascita. Il rischio, in caso contrario, è la sua scomparsa dal panorama politico del paese per un lungo periodo.

2. Da allora, in pochi mesi, sono avvenuti eventi che hanno mutato profondamente la situazione, sia a livello mondiale, che del paese; sia nella sfera dell'economia, che in quella sociale, che in quella politica (seppure in questo caso lontano dall'Europa, come per la vittoria di Barack Obama). Ognuno di questi mutamenti, e tutti insieme reclamano una nuova, radicalmente nuova, presenza della sinistra in Italia e in Europa, rendendo persino più acuta l'esigenza, già emersa drammaticamente dopo il voto, di mettersi al lavoro per riempire un vuoto orribile.

3. Il precipitare della crisi, che ha investito il capitalismo finanziario globalizzato e che si estende dagli Usa al mondo intero, sottolinea duramente il vuoto di sinistra in Europa e propone, in tutta la sua portata storica, il tema della costruzione di una sinistra europea. E' stato detto giustamente che, se non sa mettere in campo, di fronte a questa crisi, una proposta di politica economica alternativa a quella dei governi, la sinistra non esiste.

4. La risposta alla crisi del capitalismo finanziario globalizzato è dunque un banco di prova obbligato, tanto più per le spaventose conseguenze sociali e di pesante ristrutturazione del lavoro che, in sua assenza, si produrrebbero. Una traccia di proposta è già presente nel mondo degli economisti critici. La necessità del sistema di ricorrere all'intervento pubblico porta la contesa sulla natura dell'intervento pubblico e del ruolo dello Stato. Una proposta della sinistra dovrebbe cogliere l'occasione davvero straordinaria per rivendicare un intervento pubblico nell'economia finalizzato ad una prima riforma di quel modello di sviluppo che ha generato la crisi attuale, per andare nella direzione di un modello alternativo di economia più equa, più ecologica e meno instabile. L'intervento pubblico dovrebbe perciò essere massiccio, quanto precisamente finalizzato. E' stato giustamente sottolineato che la sfida che si ripropone è sul cosa, come, dove e per chi produrre. E' concreta la possibilità di cogliere l'occasione della nazionalizzazione della finanza per rivendicare un piano del lavoro che faccia dello Stato il garante di una programmazione per il pieno impiego e un lavoro di qualità che superi la sua precarizzazione.
Alla sua base vanno individuate, e scelte, le grandi questioni irrisolte della società e i bisogni maturi e non soddisfatti. La guida di questa svolta nella politica economica sta nella organizzazione della domanda dove più stretta è la relazione tra le problematiche economiche, quelle della qualità e stabilità del lavoro e quelle ecologiche, per costruire delle risposte che sollecitino uno sviluppo qualificato della ricerca, della ricerca applicata, della tecnologia e di nuove forme di organizzazione del lavoro. La dimensione necessaria per questa riforma della politica economica è certo quella europea, ma già il livello nazionale va investito da una forte iniziativa politica e sociale. L'occasione è quella di una terribile difficoltà, ma anche quella propizia alla rinascita della sinistra, nel cimento su un passaggio così difficile. Si tratta ora di immettere questo schema di proposta con forza nel dibattito e nello scontro politico. Su questa traccia va contemporaneamente messa all'opera una comunità scientifica allargata, all'esperienza sociale in primo luogo, da cui nasca una proposta condivisa che possa entrare in relazione con tutti i fronti di lotta.

5. Il movimento di lotta di queste ultime settimane di straordinaria mobilitazione nella scuola ha dimostrato quel che si doveva già sapere, che nessun consenso di opinione mette al riparo i governi dall'insorgere del conflitto sociale, ma, contemporaneamente, ci fa scoprire una nuova dimensione possibile del conflitto, quella della sua indipendenza dalle forze politiche e della sua irrappresentabilità. Si tratta di un movimento del tutto inedito, assai diverso non solo da quelli del '68 e del '77, ma anche da quello della Pantera, un movimento diverso per composizione, organizzazione e forme di crescita anche dal movimento altermondista. Esso promuove l'azione collettiva della popolazione di un comparto della società, qui la scuola, sulla base della denuncia della lesione di un suo diritto condiviso. Avevamo già visto che senza la sinistra non c'è opposizione politico-sociale, ora impariamo che neppure l'opposizione sociale rimette più in piedi la sinistra. Si sono consumate tutte le rendite di posizione della politica. Senza un'idea di sé, del suo rapporto con i movimenti e con la società la sinistra non esiste e non rinasce.

6. Il lavoro sarà investito da una nuova fase di ristrutturazione promossa dalla crisi, e sulla base della recessione e dell'attacco all'occupazione. Il padronato si prepara a gestirla facendola precedere da un a-fondo sul sistema contrattuale con lo scopo di ridurre non solo il lavoro, ma anche il sindacato a variabile dipendente della competitività aziendale. Sebbene possa sembrare troppo radicale ed estremista, l'obiettivo confindustriale è proprio quello di cancellare l'autonomia rivendicativa e contrattuale del sindacato per sostituirlo con la sua istituzionalizzazione neocorporativa: un cambio della sua natura per sottomettere "definitivamente" il lavoro all'impresa e al capitalismo. Cambiano, anche assai profondamente, i cicli economici e la composizione del lavoro, ma il lavoro, la contesa sul lavoro e la soggettività delle lavoratrici e dei lavoratori, cioè il concreto manifestarsi delle lotte di classe, torna come uno degli snodi decisivi per l'esistenza della sinistra. Non c'è nessun automatismo né alcuna esclusività da proporre, né alcuna collocazione gerarchica da rivendicare rispetto ad altre contraddizioni, prima tra tutte quella ambientale. Semplicemente senza una sua politica su questo snodo la sinistra non esiste. La stessa questione sindacale acquista un peso del tutto particolare sia rispetto alla questione sociale che a quella politica. Se la Cgil si sottrarrà all'esito voluto dalla Confindustria e dal Governo niente rimarrà come è stato dal 1992 ad oggi, e comincerà una nuova seppur difficile storia del sindacato e del conflitto di lavoro in Italia.

7. Sia che si guardino le già grandi novità intervenute, dopo la storica sconfitta, dal punto di vista strutturale che dal punto di vista dei processi politici, si vede emergere quale tema prioritario, connesso con la questione delle proposte sulla natura del nuovo intervento pubblico nell'economia, quello dell'efficacia dell'opposizione ai fini di impedire che il cerchio si chiuda, con l'irreversibile cancellazione per l'intero medio periodo della sinistra e con la sistematica separazione tra il sociale e il politico, tra la vita delle persone e la politica. La qualità e l'ampiezza dell'opposizione debbono porsi all'altezza di un disegno regressivo di restaurazione che vede progressivamente soppiantare la Carta fondamentale della Repubblica da una costituzione materiale che ne rovescia il senso, facendosi accompagnare da una rivoluzione conservatrice guidata dalla nuova destra. L'esito di un "regime leggero", a fondamento di un assetto a-democratico della società, può essere impedito solo da un'opposizione di sinistra, popolare, di massa e capace di risalire, per metterle in discussione, alle cause strutturali del disagio sociale e della crisi economica. Ripensare a fondo l'agire collettivo, attivare tutte le forme della democrazia partecipativa, andare a lezione dai movimenti emergenti, rivoluzionare la grammatica dei rapporti tra forze politiche e movimenti, scegliere i tempi e i modi di proprie campagne di mobilitazione e di lotta che facciano venire alla luce potenzialità latenti, far coesistere esperienze diverse solo disposte a riconoscersi reciprocamente, rileggere le esperienze di democrazia diretta a partire dall'uso mirato del referendum, costituire autonomi comitati di scopo, sono solo alcune delle pratiche necessarie di un piano di lavoro politico che associ chiunque ci stia sulla base della selezione politica operata unicamente dalla condivisione dell'obiettivo.

8. Era già evidente dopo la sconfitta che la rinascita della sinistra sarebbe dovuta essere in realtà un cominciare da capo. Tutto ciò che accade avvalora questa tesi. Il rinnovamento nella continuità, che sarebbe stato possibile fino a ieri è oggi impossibile. Lo sarebbe stato, con particolare forza, di fronte ai grandi passaggi storici mancati, come la primavera di Praga, il '68-'69, lo stesso '89, per lo straordinario accumulo di storia e di esperienze fin lì a disposizione e che avrebbero potuto permettere un'uscita da sinistra dalle crisi del movimento operaio. Allora sarebbe stato possibile quel che oggi non è più possibile. Ancora, in tutt'affatto diverse condizioni, di fronte al costituirsi del movimento altermondista, un'estrema possibilità si era venuta proponendo alla politica. Ma oggi, dopo la sconfitta storica e la scomparsa della sinistra politica come forza attrattiva, questa ipotesi di lavoro non è più possibile. Quel che resta vivo dei tentativi, anche coraggiosamente tentati di fronte ai precedenti passaggi critici, è l'esigenza di fondo, quella di un'uscita da sinistra dalla crisi del movimento operaio. Ma ora è necessario che sia un'uscita da sinistra capace di essere praticata da nuove grandi organizzazioni politiche. La sinistra di cui c'è bisogno è perciò una sinistra di società, cioè capace di essere portatrice di una rinnovata critica del modo di produzione capitalistico e di un'alternativa di società e, contemporaneamente, per forza organizzata, capace di influenzare il corso generale in atto e le scelte della politica: una forza politica di cambiamento e di trasformazione.

9. Ricominciare politicamente da capo per ricostruire la sinistra in Italia e in Europa non vuol dire contrarre la malattia del nuovismo che è un'apologetica dell'innovazione che ora si fa addirittura grottesca di fronte ad una realtà come quella attuale che fa dire come scriveva Gorz "Non è un capitalismo in crisi, ma è la crisi del capitalismo che scuote profondamente la realtà". Essa genera a sua volta una crisi di civiltà e un rischio per l'umanità tutta. Un'adesione all'attuale modernizzazione è semplicemente insensata. Né vuol dire essere dimentichi del passato. Il movimento operaio del '900 è il mondo da cui veniamo. Delle tre grandi direttrici su cui si è sviluppato, la prima è morta nella tragedia, ed è quella che, sulla rottura rivoluzionaria, ha fondato la costruzione dello stato e di ciò che è stato chiamato il comunismo reale; la seconda è molto, molto malata, ed è quella che, in tutta la seconda metà del secolo, specie in Europa, ha continuato a porsi il tema della trasformazione della società capitalista diventando protagonista del compromesso democratico dei 30 anni gloriosi; la terza è ancora vitale (anche per la conferma, seppur anche spiazzante, che le viene dalle grandi mutazioni di cui il capitalismo è capace per riconfermarsi) ed è il nucleo forte della critica al capitalismo proprio dell'impianto marxiano. Proprio in ragione della sua vitalità convince ancora la tesi propagata da grandi intellettuali marxisti già alla fine del secolo scorso di andare oltre Marx, tesi che pretende una duplice opposizione, sia nei confronti di chi ne propone l'abbandono, sia di chi ne propone una acritica nuova adozione. Si può pensare di mettere a frutto la vitalità della teoria, consapevoli anche della sua maturità, proprio cercando la relazione con due contraddizioni altrettanto decisive nella critica al nuovo capitalismo totalizzante, quella tra ambiente e sviluppo e quella di genere. Un forte spirito di ricerca nella teoria critica del capitalismo dovrebbe alimentare una tendenza culturale e politica necessaria, insieme ad altre, alla rinascita politica della sinistra.

10. Il movimento operaio del Novecento vive dal '17 agli anni '80 su ciò che è stato definita l'alleanza, o la fusione, tra la classe operaia e una teoria, quella marxista-leninista. Per averne conferma basti pensare soltanto al fatto che il partito comunista dalla storia nazionale forse più autonoma di ogni altro, il Pci, modifica, nel suo statuto, il riferimento al marxismo-leninismo solo nel 1979. Il peso dell'alleanza in questo movimento operaio, quello del '900, quand'anche in esso siano cresciute esperienze diverse, è forte e innegabile. Ma questa non è la sola storia del movimento operaio possibile. Né è stata la sola. Ce ne sono state di diverse già nel corso della storia, si pensi al ciclo che precedette la Comune di Parigi, e dunque altre ce ne potranno essere, sempreché lo sfruttamento esistente sia considerabile politicamente significativo. Ad un nuovo movimento operaio la sinistra dovrebbe lavorare, nel tempo di una nuova rivoluzione capitalistica, anche modificando i contraenti l'alleanza e la sua stessa base teorica. A richiedere un soggetto capace di proporsi, su scala mondiale e in un processo storico, il superamento del capitalismo è la natura di questo capitalismo totalizzante, sono le forme concrete di sfruttamento e di alienazione che esso genera e la sua attuale proprietà di fare innovazione e contemporaneamente di produrre crisi di civiltà e di umanità. A questa ricerca non può essere estraneo il processo di costruzione della sinistra in Europa e in Italia che, tuttavia, deve disporre di un'autonoma fondazione politica, quella della definizione di un programma fondamentale in cui possano riconoscersi una molteplicità di soggetti e una pluralità di culture politiche, capace di costituire, come insieme, il fatto nuovo nella politica.

11. In politica è certo importante come chiamarsi. I simboli, i segni di una comunità scelta parlano di un'identità, di un'appartenenza. In questo nostro tempo l'identità, se vuole contrastare, anche in sé, il codice dell'esclusione che è quello oggi prevalente nella società (basti pensare, per la sua presenza nefasta e corruttiva, al riemergere del razzismo), deve essere aperta e formarsi in progresso, fermo solo il punto di avvio. I grandi nomi definitori dei partiti sono indistinguibili dalla loro storia. Parlano il linguaggio della politica solo quando sono riconoscibili ai grandi numeri, alle persone comuni e sanno trasmettere il senso dell'appartenenza ad un'impresa comune, ad un campo significativo di forze. Non è la stessa cosa dichiarare di militare personalmente per una causa o fare di essa il programma di un partito. Comunista è una parola molto impegnativa, da maneggiare con cura e misura. Essa è insieme troppo e troppo poco per definire, oggi e qui, un nuovo soggetto politico. Troppo, perché se il programma del comunismo è, come è, la liberazione del e dal lavoro salariato esso non può trovare posto (seppure possa illuminarne la ricerca) nella dimensione storica concreta a cui deve rispondere il programma fondamentale della sinistra, che non può che essere, realisticamente, ma anche ambiziosamente, quella della ricerca sul socialismo del XXI secolo. Troppo poco, perché quand'anche dichiarata l'ipotesi finalistica comunista, non potrebbe dirci granché delle ragioni, concrete, sempre quelle del qui e ora, per cui deve costituirsi la sinistra oggi, dopo la distruzione. Altro è stato, e sarebbe, il caso dell'intervento sul nome di formazioni già esistenti dove il rispetto della storia, delle storie che l'hanno animato e la loro costituzione materiale, danno conto direttamente e storicamente di un percorso e delle sue aperture, basti pensare a quello del Pci. Altro è dar vita ad un nuovo progetto politico. La sinistra è stata l'origine della politica di libertà e di giustizia nella storia moderna, cosa che consente la rammemorazione sempre necessaria per prendere il nuovo slancio. Ma è contemporaneamente anche la riaffermazione, nel presente, di un clivage, senza il quale non c'è più la politica, non c'è più scelta, il clivage tra destra e sinistra. La sinistra parla di una famiglia politica potenzialmente così ampia da poter comprendere tutti coloro che vogliono costituire una forza politica capace di tornare a declinare, in Europa, nel secolo XXI, di fronte al capitalismo totalizzante del nostro tempo, i temi di libertà e eguaglianza e che sanno che, dopo la sconfitta, si tratta di cominciare da capo. Non sarà casuale che dopo la caduta delle dittature militari in America Latina, nel rinascimento della sinistra latinoamericana, nessuna grande formazione politica che lì ha condotto alla vittoria, nei diversi paesi, la sinistra e i popoli del continente si chiami comunista, nessuna dal Ptt di Lula al Mas di Evo Morales, pur avendo tutte al loro interno socialisti e comunisti.

12. Nessuna forza politica in Italia ha in sé oggi la forza e la cultura politiche sufficienti per questo necessario big - bang da cui possa rinascere la sinistra. Il Pd non è sinistra, e non per la composizione della sua base sociale, ma per la natura intrinseca del partito e del suo progetto politico. I partiti che hanno dato vita all'arcobaleno di sinistra lo sono, ma, separati, non hanno la massa critica necessaria per l'impresa, e, dopo la sconfitta, sono imprigionati anche rispetto alla capacità di innovazione da pesanti derive neo-identitarie. Il tema del tutto inedito, nel nuovo ciclo politico e che prende forza dall'esigenza di uscire da questo quadro impotente, è quello della ristrutturazione delle forze oggi di opposizione per dar vita ad una nuova grande sinistra di alternativa, unitaria, plurale, fondata imprescindibilmente sulla democrazia della partecipazione. La situazione, prima caratterizzata dall'esistenza di due sinistre in competizione, conflitto e possibile alleanza tra loro, è stata sostituita da una nuova situazione senza più sinistra. Sulla base dell'analisi di fatto la priorità delle priorità diventa perciò la rinascita della sinistra. Ma bisogna riconoscere che, ancora sulla base dell'analisi delle soggettività politiche in campo, quest'ipotesi, matura come grande esigenza per le forze di cambiamento e per la democrazia, è immatura soggettivamente. Ciò non toglie che debba essere indicata come meta da perseguire, non già con qualche scorciatoia politicista, per altro impossibile, ma attraverso la messa in campo di una ambiziosa e complessa operazione sociale, culturale e politica, di cui il primo passo possa essere la rottura degli steccati per cimentarsi con realtà dure e difficili come le questioni del lavoro, della scuola e della risposta da dare alla crisi, alla recessione e all'attacco all'occupazione.

13. Per affrontare questa sfida non solo vanno evitate le scorciatoie politiciste, ma ci si deve altresì precludere la via alla ricerca di un assetto delle forze di opposizione che non solo non costituirebbe uno stadio intermedio rispetto alla ristrutturazione e alla rinascita della sinistra, ma ne contraddirebbe l'ispirazione di fondo. E' l'ipotesi secondo la quale, alla crisi del centro-sinistra degli ultimi 10 anni, si dovrebbe sostituire il rapporto tra l'attuale Pd e una forza alla sua sinistra che assuma il compito di condizionarne le politiche e per riaprire, su questa base, la prospettiva di governo. Questo esito, che rappresenterebbe nient'altro che uno sviluppo moderato dell'attuale situazione di vuoto, è da contrastare nettamente. Esso ha una sola verità interna ed è che, nella attuale immaturità della ristrutturazione, deve essere perseguito l'obiettivo della costruzione da subito, si potrebbe dire da ieri, di una forza di sinistra. Ma questa nuova forza di sinistra per esistere deve disporre di un progetto autonomo, capace di delineare, per un intero ciclo, il suo compito nella società italiana ed europea. L'ispirazione della sua azione deve essere proiettata nel futuro (la rinascita della grande sinistra di cui costituisce la prima tappa) e non risucchiata nel passato del centro-sinistra. Il centro-sinistra è finito, ed è finito insieme alla sua tormentata, speranzosa ma, al fondo, fallimentare stagione. La cultura prevalente che l'ha promossa - governare la globalizzazione attraverso un corpo di regole e una classe dirigente moderna - non solo è all'origine del fallimento dei due governi Prodi, ma è stata sepolta dall'esplodere della crisi del capitalismo finanziario globalizzato. Certo il tema del governo va ripensato invece che abbandonato, ma per farlo bisogna ripartire dalla sinistra, dalla sua forza nella società, dalla sua capacità di produrre egemonia, senso comune, da un progetto riformatore della società, dell'economia e della democrazia capace di essere condiviso da grandi masse.

14. La costruzione di una forza politica unitaria e plurale della sinistra, così com'è oggi possibile, mettendo insieme e portando a unità, in un'impresa da costruire insieme, le forze e le persone che sentono fortemente questa esigenza, è un passaggio difficile quanto necessario. Necessario, prima che il quadro politico del paese si chiuda nel soffocante bipartitismo che avanza. Questo processo costituente di una forza di sinistra sarebbe la prima tappa di un cammino ancor più ambizioso, ma intanto indispensabile per non morire tra moderatismo, da un lato, chiusura identitaria, da un altro, ed esodo dalla politica, da un altro ancora. La realtà sociale del paese è ancora viva, anche se, in parte assai considerevole, drammaticamente depoliticizzata. Nei corpi intermedi della società italiana, sindacati, associazioni, centri sociali, volontariato, vive un patrimonio di esperienze e saperi che parla le lingue della sinistra, quand'anche questa sia, come oggi, muta. Nei movimenti puoi assistere a fenomeni imprevisti, del tutto imprevisti, anche fino a pochissimo tempo dal loro manifestarsi, come quello della scuola. Nell'intellettualità del paese, negli operatori di cultura, arte e spettacolo, in alcuni giornali di sinistra c'è il deposito di resistenze, spesso condannate alla solitudine, eppure non trascurabile. Se si riuscisse a profonderle tutte e ognuna in un'impresa comune, da questa nascerebbe la sinistra di oggi e di domani. Allora questo va fatto, rompendo gli indugi. C'è una sola condizione che tutte e tutti coloro che sentono il bisogno di sinistra hanno il diritto di porre per poter prendere parte paritariamente al processo costituente ed è la certezza della democrazia. La sinistra, per esistere, deve ora essere irriducibilmente democratica. Occorre qui una discontinuità secca col suo passato lontano e anche recente. Non c'è più la legittimazione che nei precedenti gruppi dirigenti, quelli usciti dalla Resistenza, consisteva nella loro storia; ogni cooptazione diventa arbitraria e divide; ogni intesa oligarchica diventa un ulteriore fattore di ulteriore distacco della politica dalla società e dai soggetti in essa attivi. L'impegno deve quindi, su questo terreno, essere irrevocabile: ogni funzione dirigente, ogni funzione di rappresentanza, fin dall'inizio del processo, deve essere attribuita con la partecipazione di tutti i rappresentati con voto segreto, su scheda bianca, tutte e tutti elettori ed eleggibili e tutti revocabili: inesorabilmente e rigorosamente una testa un voto.

15. La sinistra deve avere l'ambizione di essere anche una comunità scelta, un insieme di luoghi e di relazioni che fanno accoglienza e cura della persona. In essa devi poterci stare bene. Devi poter avere voglia di partecipare. La pratica della nonviolenza deve improntare le sue relazioni sia esterne che interne. La creazione di forme di autogoverno e di partecipazione deve costituire, in essa, il suo modo di essere e deve investire i vari aspetti del vivere, del produrre, del consumare, del convivere e del fare politica. C'è, a questo fine, da conquistare una sorta di precondizione, la rottura dell'individualismo competitivo che ha investito tutte le nostre relazioni individuali e collettive per sostituirlo, se non con un comportamento altruistico, almeno con uno improntato all'"egoismo maturo", cioè alla consapevolezza che o ce la si fa insieme o non ce la si fa. Si potrebbe cominciare, nei rapporti interpersonali, nei luoghi di confronto politico e di formazione delle decisioni, col sostituire il troppo abusato "non sono d'accordo" con il "sono d'accordo, ma…". Alla riforma della soggettività da investire nell'impresa bisogna, affinché si possa produrre e sia efficace, una altrettanto riforma strutturale del modo di essere della sinistra. Il centralismo romanocentrico, figlio non più dell'esigenza nazionale di una formazione compatta di combattimento, bensì della "governamentalità" e della centralità delle istituzioni nella politica, va spezzato in radice, dalle fondamenta. La sinistra deve saper avvolgere la dimensione nazionale in due altre dimensioni strategiche, in alto, quella europea (dove continua ad essere preziosa l'esperienza del partito della sinistra europea) e in basso, ma fondativo, il territorio. Il territorio, non già nella sua cattiva lettura basista o peggio nella sua pessima lettura populista, ma la contrario come terreno culturale, civile, di storia e di esperienza (l'Italia delle cento città) che può indurre la politica a ricominciare dalla messa in discussione dei concreti e differenziati manifestarsi di un modello di sviluppo la cui contestazione è la ragione prima della rinascita della sinistra. Perciò va fatta, nell'organizzazione della politica della sinistra, la scelta di un modello federativo partecipato, fondato sulla parificazione dei ruoli dirigenti tra autonome strutture regionali (la sinistra sarda, campana, lombarda, toscana, pugliese, etc.) e la direzione nazionale che deve essere da esse compartecipata. La rinascita della sinistra dai territori, in un disegno nazionalmente condiviso, è la via maestra per dare vita al suo primo compito ai fini di sconfiggere l'egemonia nella società conquistata dalla nuova destra. La realizzazione della riforma della società civile mediante la produzione di culture, di pratiche sociali, di luoghi e forme di convivenza, di organizzazioni civili, sociali ed economiche che contengono una critica vissuta al primato dell'impresa e del mercato, è parte decisiva di questo compito storico. E' anche da qui, dalla rottura culturale e fattuale con ogni centralismo, che rinasce la sinistra.