martedì 18 novembre 2008

dalle agenzie, 18.11.08
Fausto Bertinotti: “La missione della politica è una democrazia integrata e compiuta”


ROMA - “La missione della politica è una democrazia integrata e compiuta”, "il nostro tempo globalizzato e il primato dell'economia sulla politica mettono a dura prova le nozioni dei padri costituenti: cioè la democrazia, la politica, la società civile. Alle speranze di allora corrispondono le paure di oggi".
Vista la crisi economica mondiale, che è "crisi del capitalismo finanziario", e la "difficoltà della politica a governarla", la politica deve uscire da uno stato di "minorità", perché c'è bisogno della "maturità della politica". Occorre porre un argine al primato dell’economia sulla politica, “le Costituzioni materiali rischiano di sostituire le grandi carte fondamantali che corrono il rischio di un 'nascondimento', come se un'altra stagione politica le potesse oscurare”.
Non bisogna dimenticare “il valore delle carte fondamentali nate dall'ispirazione di uomini doversi, di culture e esperienze diverse" che hanno cercato di dar vita d una società "aperta, libera e giusta, contribuendo a quell'obiettivo di democrazia compiuta che ha bisogno di fare i conti con il concetto di uguaglianza cosi' complesso, ma anche cosi' attuale”.
Quello che non può scomparire è «l’ispirazione che uomini diversi hanno prodotto come fatto comune» e che «è stato proprio il concreto manifestarsi dei valori della libertà nella Costituzione»
E allora la lezione è quella di una politica che gioca il ruolo di "disegnare la società futura".

l’Unità 18.11.08
Sul testamento biologico l’ultima crociata integralista
di Luigi Manconi


Con la leggiadria tutta mondana e amorale delle parole buttate là e con la tetragona protervia dei fatti compiuti, il sottosegretario al Welfare per le questioni bioetiche, Eugenia Roccella, si è messa alacremente a «piantare paletti» (ma perché questo linguaggio da ingegnere del Genio civile?). I «paletti» in questione sono i confini invalicabili posti dal governo e da pressoché tutto il centrodestra all’esercizio della autonomia individuale del paziente in tema di trattamenti sanitari.
In altre parole, è altamente probabile che venga approvata una legge sul Testamento biologico che escluda la nutrizione e l’idratazione artificiali dall’ambito delle scelte sulle quali si possa esercitare la volontà del malato. Insomma, nel mio Testamento non posso dichiarare che - qualora mi trovassi in stato vegetativo persistente - non voglio essere sottoposto a nutrizione e idratazione artificiali.
Con ciò, si avrebbe una legge più arretrata rispetto all’attuale vuoto legislativo (peraltro perfettamente colmato dal dettato costituzionale e dall’intera giurisprudenza). Quel «paletto» è stato ulteriormente puntellato dal sottosegretario in un dibattito nel corso di Gr parlamento: qui, Roccella ha fatto riferimento a un documento del Comitato nazionale di bioetica (2003), dove all’«unanimità» sarebbe stata approvata la posizione cui si richiama oggi il governo.
Le cose non stanno affatto così: l’unanimità si raggiunse su un documento dove, a proposito di nutrizione e idratazione, ci si limitava a presentare due posizioni totalmente divergenti. Secondo alcuni e secondo il sottosegretario, nutrizione e idratazione sarebbero misure di sostegno vitale (dunque non interrompibili) e non trattamenti sanitari.
Bene, io e molti altri non la pensiamo così. Al di là dei numeri parlamentari, che ci sono ostili, ci sarà pure un criterio per dirimere il conflitto? Perché mai, invece, dovrebbe prevalere l’opinione di Eugenia Roccella, laureata in lettere, o quella mia, laureato in sociologia: entrambi non propriamente luminari delle scienze mediche?
Dal momento che la materia è strettamente di natura scientifica forse vale la pena ascoltare il parere del Presidente della società italiana di nutrizione artificiale e metabolismo, Maurizio Muscaritoli: «Si perpetua la confusione terminologica tra "alimentazione" (quella che consiste nella assunzione di alimenti per via naturale) con la "nutrizione" artificiale, la quale, invece si sostanzia nella somministrazione, attraverso una via di accesso artificiale, di nutrienti a persone alle quali è preclusa l’assunzione di alimenti per la via naturale. (…) Inoltre, possibili effetti collaterali indesiderati ed il controllo clinico del paziente rientrano nello specifico ambito delle competenze mediche».
Chiarissimo. Aggiungo che in tutta la letteratura scientifica internazionale, questa è la posizione larghissimamente maggioritaria. Non dico la Roccella, ma anche la Teologia morale dovrebbe saggiamente tenerne conto.

l’Unità Roma 18.11.08
L’Onda diventa musicale


Ci sono onde e onde. Quelle del mare, certo, ma anche quelle sonore. Lo sanno bene i ragazzi in mobilitazione della Sapienza che per stasera, a partire dalle 19, hanno organizzato un maxi-concerto gratuito dal titolo "Siamo in Onda". «Se non lo avessi fatto sarebbe stato "Stamo a dormì"», scrive sul suo blog Andrea Rivera, organizzatore insieme agli studenti della "serata anomala". Tanti gli ospiti sul palco: Enrico Capuano, Banda Osiris, Valerio Mastroandrea, Daniele Silvestri, Simone Cristicchi e Assalti Frontali. E ancora, Elio Germano e Le Bestie Rare, Dario Vergassola, Remo Remotti, Lillo & Greg, i Tre Allegri Ragazzi Morti e tanti altri. Non solo musica, però. Anche teatro. Sono previste, infatti, proiezioni di alcuni video di Ascanio Cestini, Moni Ovadia, Antonio Rezza e Flavia Mastrella. «Siamo in Onda perché le nostre mobilitazioni vogliono parlare a tutta la società».

Repubblica 18.11.08
Rapporto German Marshall Fund-Compagnia San Paolo: nel nostro Paese il 66% collega immigrati e criminalità
Stranieri e reati, in Italia il record della paura
Francesi e olandesi vedono invece i nuovi arrivi come un´opportunità
di Alberto D’Argenio


BRUXELLES - Gli italiani sono il popolo che più ha paura dell´immigrazione. Più degli altri europei e più degli americani. Un dato che emerge dal rapporto messo a punto dal German Marshall Fund e dalla Compagnia di San Paolo intitolato "Transatlantic trends immigration". I numeri parlano chiaro: l´86% teme l´immigrazione illegale e il 68% di essi, percentuale più alta d´Europa, pensa che la maggior parte degli stranieri siano in Italia senza permesso. Approccio che spiega perché l´82% dei nostri concittadini voglia il rimpatrio degli immigrati. E ancora, il 66%, dato record, ritiene che l´immigrazione aumenti la criminalità a fronte di una media europea del 52% e americana del 47%. Problemi, da noi, anche con gli immigrati musulmani: il 60% ritiene che non rispettino le altre culture. Sentimenti di chiusura superiori al resto d´Europa e agli Usa. Su entrambe le sponde dell´Atlantico, ad esempio, non si crede che l´immigrazione favorisca il terrorismo, con Francia e Olanda - tra i paesi con la percentuale più alta di stranieri - che vedono i nuovi arrivi più come un´opportunità che come un pericolo. Ma l´ansia resta ovunque, con europei e americani concordi sul fatto che gli stranieri andrebbero accolti solo se in possesso di lavoro e padronanza della lingua.
Oggi la Commissione europea pubblicherà un rapporto dal quale emergerà che l´allargamento a Est non ha turbato il mercato del lavoro dei vecchi paesi Ue: la temuta invasione degli idraulici polacchi, simbolo delle paure dell´Europa occidentale, non si è verificata. Il numero di romeni e bulgari, ad esempio, che si sono spostati per lavoro è passato da 1,3 milioni a 1,6 milioni dopo l´ingresso in Europa, anche se la maggioranza si è trasferita in Spagna e Italia.

Corriere della Sera 18.11.08
Domani voto sul dossier che critica Roma
L'Europarlamento: l'Italia odia i Rom Il Ppe: provocazione
di Luigi Offeddu


BRUXELLES — «Le azioni perpetrate contro i Rom ad opera delle autorità italiane violano un certo numero di obblighi assunti dall'Italia nel quadro della legge internazionale sui diritti umani... Perciò il governo italiano deve cessare immediatamente di diffondere commenti contro i Rom e di propagare l'odio verso di essi...».
Sono alcune fra le ultime righe del rapporto sulla situazione dei nomadi Rom in Italia, che sta oggi sui tavoli della Commissione Libertà civili, giustizia e affari interni del Parlamento Europeo. Domani, sarà discusso dalla stessa Commissione: e se, come sembra probabile, ne verranno confermate e ufficializzate le conclusioni, da «rapporto intermedio » qual è ora tecnicamente si trasformerà in una relazione su cui sarà chiamato a votare l'intero Parlamento.
E' un documento severo nei toni e nella sostanza, basato su tre filoni di informazione: il viaggio compiuto in settembre a Roma da una delegazione della stessa Commissione (e «movimentato » da una accesa discussione con parlamentari italiani); le relazioni di varie Organizzazioni non governative; e infine, un elenco di episodi di cronaca, dai roghi nel campo di Ponticelli alle chiusure di altri campi a Milano o nel Lazio Alla fine, le conclusioni. L'Italia viene invitata «ad adottare una campagna nazionale antirazzismo per migliorare la percezione pubblica dei Rom», a «indagare su tutti i casi presunti di maltrattamenti da parte delle forze dell'ordine», «a condannare pubblicamente tutti i pogrom anti-Rom», «a cancellare senza ritardo tutte i provvedimenti che prendano di mira negativamente i Rom». Esempi: «i Patti per la sicurezza adottati a Napoli, Roma, Milano, Firenze»; le misure di emergenza decise in maggio per i campi in Campania, e «l'iniziativa da parte del ministro dell'interno Roberto Maroni di compiere un censimento dei Rom in Italia attraverso la rilevazione delle impronte digitali, fatto che viola ulteriormente le leggi sulla protezione dei dati personali».
Le prime indiscrezioni sui contenuti nel rapporto hanno già acceso la polemica nei saloni del Parlamento. Anche perché nella Commissione libertà civili, «governata» da una maggioranza composta da socialisti, Verdi e liberali, siedono molti deputati italiani. «Ho l'impressione che questo rapporto sia prima di tutto intempestivo — dice Mario Mauro, cattolico del Ppe e vicepresidente del Parlamento — perché bisognerebbe aspettare almeno sei mesi, per giudicare i risultati delle misure adottate dal governo. Ma poi, il testo ha più che altro il senso di una provocazione ». In che senso? «Beh, pecca in parte di un approccio ideologico: vari colleghi sono andati in Italia con la voglia di applicare una lettura predefinita, piuttosto che di cercare la verità dei fatti. Che sono complessi, e antichi: perché il degrado dei campi durava da anni, non è iniziato tre giorni prima della visita della Commissione.... Poi, certo, il problema esiste: però ne parliamo oggi, solo perché questo governo ha deciso di affrontarlo. Dopo, diremo se ha agito bene o male: ma per favore giudichiamolo sui fatti, non in base ai pregiudizi».

Repubblica 18.11.08
"No alla commissione sul G8" alt del centrodestra al Pd, è scontro
Il dibattito dopo la lettera a "Repubblica" del capo della polizia Manganelli
Cossiga propone l´organismo di inchiesta. La sinistra: è troppo tardi
di Alberto Custodero


ROMA - «Manteniamo fermo il nostro "no" all´istituzione di una Commissione parlamentare d´inchiesta sui fatti del G8 di Genova». Il presidente dei deputati Pdl Fabrizio Cicchitto chiude la porta al dialogo con il leader del Pd Walter Veltroni, che ieri su Repubblica ha proposto di «accertare la verità in Parlamento» dopo la sentenza di primo grado di Genova sui pestaggi alla Diaz. E, soprattutto, dopo l´annuncio che il capo della Polizia Antonio Manganelli «è pronto a muoversi nelle sedi istituzionali» per raccontare come si sono svolti quei drammatici fatti. La maggioranza respinge la proposta di Veltroni anche per voce del vicepresidente dei senatori Gaetano Quagliariello, secondo il quale «bisogna evitare di attivare la sede parlamentare come una sorta di contropotere all´indomani di sentenze non gradite e non passate in giudicato».
Non prende posizione, al momento, il ministro dell´Interno, Roberto Maroni: «Ho scelto di non parlare e continuo a non farlo», afferma il responsabile del Viminale, che si limita a dire che aspetta di leggere le motivazioni della recente sentenza che ha mandato assolti i dirigenti della polizia che comandarono e diressero l´irruzione nella scuola Diaz. Il Pd, però, non ci sta, fa quadrato con Veltroni. Ed è scontro. Ad attaccare è il vicepresidente dei deputati del Pd, Gianclaudio Bressa, che, pur senza citarlo, chiama in causa l´ex ministro dell´Interno ai tempi del G8, Claudio Scajola, ora ministro dello Sviluppo Economico.
«Questa preclusione pregiudiziale del Pdl - tuona Bressa - sembra un mettere le mani avanti per il timore che vengano fuori cose compromettenti su esponenti dell´attuale maggioranza di Governo».
Sulla proposta di Veltroni si registra la presa di posizione del senatore a vita Francesco Cossiga secondo cui, «dopo le parole del dottor Manganelli, che ha ammesso l´esistenza di fatti ancora ignoti, o peggio tenuti nascosti, l´istituzione di questa Commissione non solo è opportuna, ma è anche assolutamente necessaria». Cossiga va oltre e, dopo aver sottolineato l´urgenza di «fare chiarezza sull´ex capo della Polizia Gianni De Gennaro, che fu responsabile della gestione operativa di quelle giornate», propone addirittura una rosa di nomi di possibili candidati alla presidenza, fra i quali i senatori a vita Carlo Azeglio Ciampi e Oscar Luigi Scalfaro. Cossiga ha escluso la propria candidatura (e anche quella di Giulio Andreotti), «avendo fatto parte di governi che una parte dell´opinione pubblica ritiene responsabili di attività oscure o antidemocratiche nella gestione della sicurezza negli anni ?60, ?70 e ?80». Quest´ultima dichiarazione è stata lo spunto per Vittorio Agnoletto, portavoce del Genoa Social Forum ai tempi del G8, per passare al contrattacco.
«La Commissione d´inchiesta va fatta - dice Agnoletto - ma sulla morte di Giorgiana Masi (la diciannovenne uccisa in una manifestazione di piazza nel ?77 da killer rimasti sconosciuti, ndr), e sulla gestione dell´ordine pubblico nel periodo nel quale Cossiga era ministro dell´Interno». «Proporre ora una Commissione d´inchiesta sui fatti di Genova - ha aggiunto Agnoletto - è semplicemente un atto provocatorio con la consapevolezza della cattiva fede». Attualmente sono due le proposte di legge per l´istituzione di una Commissione sul G8: una, a Palazzo Madama, porta la firma del senatore del Pd Roberto Della Seta, l´altra, alla Camera, è dei radicali eletti nel Pd, primo firmatario Maurizio Turco.

l’Unità 18.11.08
La Scala come l’Alitalia. E la «prima» è a rischio
di Oreste Pivetta


Gli autonomi sempre in rotta sul contratto integrativo sottoscritto dagli altri sindacati. Il consiglio d’amministrazione: non c’è più trattativa. Il sovrintendente Stèphane Lissner: resterò fino al 2013.
Da quel vecchio palco della Scala si assiste per l’ennesima volta all’incombere della minaccia sulla «prima»: sciopero e non v’è parola di cui più si abusi tra i velluti rossi del teatro piermariniano. Un’altra volta per l’integrativo, come l’ultima volta, un anno fa. La Scala, dal punto di vista dei contratti, sembra un cantiere senza fine, quello più rumoroso e fragoroso, tutto squilli di tromba, all’angolo di un altro cantiere che non si chiude mai e che si potrebbe intitolare alle fondazioni liriche o al Fus, il tormentato Fondo unico dello spettacolo, fonte di vita per decina di teatri. Solo una settimana fa il ministro Bondi aveva promesso la riforma delle fondazioni e soprattutto il rifinanziamento del Fus, per restituire nel 2009 quello che è stato tolto nel 2008, in vigore Tremonti. Intanto niente quattrini, ma liricissimo il tono del documento finale, pomposo alla maniera del ministro, riconoscendo «l’alto valore culturale dell’attività di promozione del patrimonio lirico ecc ecc».
Il caso Scala si allinea in qualche modo al caso Alitalia: un sindacato autonomo in lotta contro tutti, una ristrettissima minoranza d’elite (orchestrali e coristi, neanche l’otto per cento dell’intera truppa scaligera), che blocca le recite e minaccia appunto la gloriosa serata del 7 settembre (con il Don Carlo di Verdi).
Nel luglio scorso gli altri sindacati (con la Cgil in testa, che vanta iscritti pari al sessanta per cento delle maestranze) avevano firmato il contratto integrativo, che vale undici milioni e mezzo in quattro anni. Il Fials aveva detto no e aveva programmato i suoi scioperi. Adesso se ne annunciano altri: «Con estremo rammarico, la direzione del Teatro alla Scala rende noto al pubblico che... le ultime tre recite di Die lustige Witwe (La vedova allegra) previste per mercoledì 19 novembre 2008, venerdì 21 e domenica 23 non potranno avere luogo». I biglietti saranno rimborsati e qui si rimanda a un conto ormai pesante per il bilancio della Scala, per la fama dell’istituzione, per i salari di chi non fa l’orchestrale e si deve accontentare di uno stipendio che sta sotto i duemila euro al mese (macchinisti, falegnami, pittori, eccetera eccetera).
Il consiglio d’amministrazione proprio ieri ha comunicato che la trattativa è chiusa. Il bravissimo sovrintendente, Stéphane Lissner, che in un paio di stagioni ha riportato alla pari il bilancio, s’è guadagnato il pieno appoggio sia dentro che fuori il teatro (nello stesso consiglio d’amministreazione di ieri ha confermato che resterà in carica fino al 2013 «seguendo e realizzando il progetto ormai definito nei dettagli fino all’Anno Verdiano e Wagneriano»). Nessuno, dentro e fuori il teatro, sembra voler dare spazio agli autonomi. L’accusa è di irresponsabilità, perchè il danno di immagine ogni serata di sciopero è grande. Figurarsi se il sipario dovesse rimanere abbassato la sera della «prima». Un disastro internazionale. «Una corporazione», dice il segretario dei lavoratori dello spettacolo di Milano, Giancarlo Albori, «che rischia di distruggere un teatro che appartiene alla città di Milano, che ha ricostruito la sede dopo la guerra, che lo ha promosso come primo ente lirico pubblico in Italia».
Per che cosa? Difficile districarsi nella giungla dei redditi e delle indennità. Ci sono cose che colpiscono, come il due per cento chiesto in più, oltre l’inflazione, il che farebbe pensare a una privatissima scala mobile, di cui nessun altro lavoratore in Italia può godere. O come la storia della Filarmonica: cioè la possibilità di farsi per proprio conto una stagione sinfonica parallela.
Il guaio, oltre gli scioperi, è la tensione: il teatro è diviso e l’attendono giornate turbolente.

Repubblica 18.11.08
Scoperta in Sassonia la sepoltura di una coppia con i due figli Vissuti nell´età della pietra. Morti in guerra, furono tumulati uniti
Ecco la famiglia più antica del mondo
di Elena Dusi


Le circostanze della morte parlano di un´epoca di violenza furiosa

Ha 4.600 anni la storia d´amore più lunga. Gli archeologi hanno trovato l´uomo e la donna ancora uniti. Hanno liberato dalla terra le loro ossa intrecciate e hanno notato che tra le braccia stringevano anche due bambini. In piena età della pietra, quella venuta alla luce a Eulau in Germania è la prima famiglia umana di cui si abbia una conoscenza certificata con il test del Dna: niente a che vedere con l´uomo dalla clava in mano dei fumetti, ma un´immagine di unione e pietas familiare. Anche se le circostanze della morte della coppia e dei loro figli parlano di un´epoca di violenza furiosa fra le varie tribù di umani.
Le ultime ore della famiglia di Eulau sono state trascorse in battaglia, probabilmente con il gruppo di un altro villaggio. Il figlio minore di 4 o 5 anni ha il cranio sfondato. I genitori e il primogenito di 8 o 9 anni hanno fratture sugli avambracci, come se avessero tentato di difendersi. Attorno ai loro scheletri sono state deposte le asce e i gioielli che gli appartenevano in vita. Alcune sepolture più in là, una donna ha una punta di freccia conficcata in una vertebra. In tutto tredici individui sono stati sotterrati nella collina di Eulau. Oltre alla coppia con due figli, c´è una donna con i suoi tre bambini, un uomo con due "cuccioli" di 4 e 5 anni e un´altra madre con quello che probabilmente era suo figlio e aveva 5 anni al momento della battaglia.
Dopo la strage, qualcuno che era scappato mentre asce e lance roteavano, è tornato per ricomporre i cadaveri. E li ha sepolti tenendo conto dei loro legami familiari, sistemando in un abbraccio millenario l´uomo e la sua donna con i due bambini accoccolati al petto, come se proteggerli servisse ancora a qualcosa. «La loro unione nella morte suggerisce un´unione anche nella vita» scrivono i ricercatori inglesi e tedeschi delle università di Bristol e di Mainz guidati da Wolfgang Haak. Anche se la tomba di Eulau è stata scavata a partire dal 2005, è solo oggi che la rivista Pnas (Proceedings of the national academy of sciences) pubblica i risultati degli esami svolti con il Dna, la datazione al radiocarbonio e l´analisi delle molecole contenute nelle ossa e nei denti.
Qualche elemento in più sui rapporti fra uomo e donna nell´età della pietra arriva proprio dallo studio dei denti. La loro composizione racconta infatti di quali alimenti si sia nutrito un individuo durante l´infanzia, quando incisivi e canini si sviluppano. Tutte le donne sepolte a Eulau, hanno scoperto Haak e i colleghi, hanno seguito una dieta diversa dagli uomini e dai figli che sono nati dalle loro unioni. «Segno che erano originarie di villaggi diversi e si sono trasferite nella dimora del marito nel momento in cui hanno generato i bambini».
I ricercatori non si illudono però che nel terzo millennio avanti Cristo le famiglie umane avessero assunto una forma simile a quella codificata con il matrimonio moderno. «Quella che abbiamo scoperto è la famiglia più antica il cui legame sia stato confermato dal test del Dna» scrivono. «Ma sappiamo anche che in quel contesto e quell´epoca le unioni poligame erano prevalenti e le coppie vivevano spesso vicende personali turbolente».

Repubblica 18.11.08
Docenti stranieri per salvare l’Università
di Piergiorgio Odifreddi


L´unica vera soluzione sarebbe azzerare tutte le gerarchie accademiche. Ma può farlo solo un dittatore
Le proteste contro le decurtazioni indiscriminate non ci inducano a difendere lo status quo
Un professore che ha spesso insegnato all´estero affronta i problemi dei nostri atenei falcidiati dai tagli del governo

I recenti provvedimenti, in verità parecchio sprovveduti, presi dal governo sulla scuola e sull´università hanno avuto almeno un effetto positivo: quello di stimolare all´autocoscienza studenti e professori, e di attirare l´attenzione della popolazione sulle disastrose condizioni in cui versa l´istruzione nel nostro paese, dalle elementari ai dottorati di ricerca. La protesta contro i tagli indiscriminati ai fondi e al personale, a cui si riducono tutti i provvedimenti citati, non può però essere intesa come una difesa dello status quo e dell´organizzazione del nostro sistema scolastico e universitario, i cui molti anacronismi non trovano l´uguale in Europa e nel mondo.
Per evitare di fare un discorso accademico (un termine che, significativamente, potrebbe essere inteso sia come «universitario» che come «ozioso»), mi sia permesso di riferirmi direttamente alle mie esperienze di studio e di insegnamento all´estero: dopo essere entrato all´Università di Torino nel 1973, dapprima come borsista, e poi via via come contrattista, assistente, associato e ordinario, mi sono infatti parallelamente perfezionato alle Università dell´Illinois e della California negli Stati Uniti (1978-80) e di Novosibirsk nell´Unione Sovietica (1982-1983), e in seguito sono stato un regolare professore a contratto a Cornell (1985-2003), oltre che uno sporadico visitatore di università australiane e cinesi, nelle quali ho trascorso rispettivamente un semestre (1989) e tre (1992, 1995, 1998).
In queste lunghe visite, ho naturalmente avuto occasione di sperimentare l´organizzazione degli studi in paesi sia capitalisti che comunisti, e di scambiare informazioni e opinioni coi colleghi stranieri, sollevando dovunque la sorpresa e l´incredulità per i nostri meccanismi didattici e concorsuali. Primo fra tutti il nostro assurdo sistema di esami, che non solo è tuttora in vigore, ma viene considerato dagli studenti come un diritto acquisito, invece che il residuo fossile di un bizantinismo degno forse di altri tempi, ma sicuramente indegno del nostro. Dovunque abbia insegnato, invece, mi venivano comunicati con mesi di anticipo e in maniera tassativa non solo le date di inizio e di fine dei corsi, e l´orario delle lezioni, ma anche le date degli esami.
Anzi, la data dell´esame, perché esso avveniva inderogabilmente per scritto e in un unico giorno, con una prova uguale per tutti, a distanza più o meno di una settimana dalla fine del semestre: altro che la nostra operetta di prove orali e appelli multipli, che in molti casi arrivano fino a otto all´anno, e permettono agli studenti di ripresentarsi indefinitamente a sostenere lo stesso esame, a distanza magari di anni da quando è stato tenuto il corso! Perché ci stupiamo che metà degli studenti universitari siano fuori corso, quando siamo noi stessi a spingerli a non tenere nessun ritmo e a permettere loro di non dare gli esami nell´unico momento in cui ha senso darli?
Per quanto posso testimoniare io, non solo negli Stati Uniti, ma anche in Russia, Cina e Australia, e dunque indipendentemente dal sistema economico del paese, chi non passa l´esame al momento giusto deve ripetere il corso l´anno dopo, con tutti i costi (letterali e metaforici) che questo gli comporta. E chi si inalberasse a sentire la parola «costi», dovrebbe meditare su quelli comunque esatti dal nostro sistema: invece di un giorno di esami e uno di correzioni degli scritti, da noi ogni orale richiede infatti una media di mezz´ora per studente, e dunque spesso centinaia di ore per corso, che vanno moltiplicate per il fattore di ripetizione studentesca dell´esame e per il numero dei commissari delle commissioni. Un enorme dispendio di risorse, che potrebbero essere meglio utilizzate altrimenti.
Con un sistema del genere, che richiedesse di tornare una mezza dozzina di volte l´anno per gli appelli, io non avrei mai potuto insegnare all´estero, né avrei potuto dedicare il mio tempo alle uniche attività che un professore dovrebbe svolgere, e cioè l´insegnamento e la ricerca. A proposito delle quali, va notato che in Italia la progressione di carriera è determinata (almeno ufficialmente, a parte le distorsioni sulle quali torneremo) dalla sola ricerca, mentre gli obblighi universitari riguardano il solo insegnamento: una schizofrenia singolare, che non tiene in nessun conto il fatto che un bravo ricercatore può essere un pessimo insegnante, e viceversa.
In Unione Sovietica si evitava questa schizofrenia permettendo ai professori di ripartire il proprio impegno tra la ricerca presso l´Accademia delle Scienze e l´insegnamento presso l´Università, in proporzioni variabili, che potevano arrivare fino al cento per cento dell´una o dell´altro. Negli Stati Uniti il sistema è più complesso, ma le università in genere pagano lo stipendio soltanto per i nove mesi dell´insegnamento: i rimanenti tre mesi devono essere finanziati dalla National Science Foundation (fatte le dovute proporzioni, un analogo del nostro Consiglio Nazionale delle Ricerche) e da accordi con industrie o centri di ricerca privati.
A proposito di stipendi, una differenza sostanziale è che negli Stati Uniti essi non sono rigidamente legati a un´automatica «progressione di carriera», e vengono invece contrattati individualmente con la propria Facoltà, sulla base di parametri che tengono conto del livello e dell´impegno del docente: in particolare, le valutazioni provengono non soltanto dai colleghi locali e nazionali, ma anche dagli studenti, che alla fine di ogni corso compilano anonimamente dettagliati questionari sulla qualità generale e specifica dell´insegnamento. Una bella forma di tutela, questa, che elimina alla radice la piaga di quei professori terroristi che bocciano sistematicamente la maggioranza degli studenti, senza rendersi conto del fatto che questo la dice più lunga sul livello del loro insegnamento che su quello dell´altrui apprendimento.
Quanto al reclutamento dei professori, e sebbene questo possa sembrare inconcepibile da noi, negli Stati Uniti esso viene deciso dalle università in totale autonomia, anche se ovviamente sulla base della distribuzione di potere inter - e intradipartimentale. I candidati sono invitati a presentare un paio di «lettere di raccomandazione», e possono decidere se riservarsi o no il diritto di visionarle: naturalmente, facendolo si condannano a un giudizio asettico e tutto sommato inutile, mentre non facendolo si assoggettano all´espressione di un giudizio spassionato e spesso determinante, in ogni caso supplementato dai pareri di esperti interpellati direttamente dall´università.
Il processo mira ovviamente a selezionare il migliore, anche perché l´istituzione ha tutto l´interesse a farlo. Il valore di mercato delle lauree e dei dottorati dipende infatti dal livello delle università in cui sono conseguiti, e questo livello è certificato da apposite graduatorie nazionali, ottenute attraverso sondaggi in cui i professori di ciascuna università valutano il livello delle altre, senza poter valutare la propria. Non avendo invece nessun incentivo a selezionare i migliori, le nostre università finiscono spesso di accontentarsi dei peggiori, cooptati in base ai «criteri» clientelistici, nepotistici e favoritistici che tutti conosciamo.
Per continuare con le testimonianze personali, io stesso ho dovuto vincere la cattedra due volte, perché la prima che vinsi fu dirottata a un ricercatore che nel frattempo non era riuscito a diventare associato per mancanza di titoli! Di casi simili ogni professore ne può citare a volontà, ma le mele marce che nel frattempo sono entrate a valanghe in università, ci sono rimaste e hanno proseguito la loro carriera: quel ricercatore, ad esempio, è poi diventato preside di facoltà da qualche parte, e altri saranno arrivati anche più in alto.
Fanno dunque tenerezza, per non dir altro, i tentativi del ministro di introdurre meccanismi di sorteggio dei commissari nei concorsi a cattedre: a parte il fatto che queste pensate erano già state adottate nel passato, senza alcun effetto visibile, non si può ovviamente impedire che la mala sorte selezioni proprio le mele marce, né è da esse che ci si può sensatamente attendere un rinnovamento. L´unica vera soluzione sarebbe un immediato azzeramento di tutte le gerarchie universitarie, ma poiché nemmeno un dittatore potrebbe imporre una misura così radicale, bisogna aspettare che lo facciano gradualmente l´età e la pensione. Nell´attesa possiamo pure sorteggiare i commissari per i futuri concorsi: ma che siano stranieri, che possano portare gradualmente il nostro povero Bel Paese ai criteri e agli standard adottati nel mondo intero, dagli Stati Uniti alla Russia alla Cina all´Australia.

Corriere della Sera 18.11.08
I rapporti tra pensiero decostruzionista e progettazione
«Derrida si chiedeva: che c'entro io con l'architettura?»
di Massimiliano Fuksas


Non sono sicuro che Derrida abbia «armato» la mano degli architetti. Sicuramente non è il filosofo francese l'inventore della pessima espressione «archistar», che il titolo del pur felice articolo di Pierluigi Panza ( Corriere della Sera del 15 novembre) evoca. Il merito dell'articolo è quello di rimettere in discussione, in termini positivi, i rapporti fra filosofia e architettura. A parte la passione vibrante di Bernard Tschumi per Derrida sin dall'epoca del concorso per il Parc de la Villette da lui vinto, e di François Barré, sofisticato intellettuale allora presidente dell'Etablissement Public del Parc de la Villette, non ci sono molte spiegazioni al successo delle teorie di Jacques Derrida nel mondo dell'architettura. A questo proposito vorrei ricordare qui di seguito una mia breve nota apparsa su L'Espresso del 28 ottobre 2004.
Alcuni anni fa, Derrida disse che non riusciva a comprendere perché fosse così amato e citato dagli architetti in tutto il mondo. Alla fine di una conferenza mi confidò che aveva più inviti da gruppi di architetti che da facoltà di filosofia. L'autore di Il sogno di Benjamin, Politica dell'amicizia, L'ospitalità, Quale domani, e studioso e critico di Heidegger, amico di Foucault, di Lacan e degli strutturalisti, scomparso nel 2004, ha avuto una fortuna incredibile per chi professa la fede nel costruire! La parola chiave decostruzionismo, utilizzata da Derrida come base per una riflessione critica su gran parte della filosofia, è stata per gli architetti una parola magica. Alcuni anni fa Philip Johnson organizzò a New York una mostra con questo titolo. Chiamò un gruppo di creatori differenti tra loro, ma resi simili e omogenei dal «cappello» con cui coprì Gehry, Coop Himmelblau, Zaha Hadid e altri: tentava di riprodurre l'effetto che aveva avuto decenni prima il libro International style, in cui aveva dato limiti e contenuti a una lunga serie disomogenea di autori. Non so bene in che modo un architetto possa aver trasferito le «aporie» di Derrida nel vile mestiere dell'acciaio, del vetro, del mattone o simili. In ogni caso la parola «decostruttivismo » ha generato un movimento che probabilmente per Derrida era quanto mai semplicistico. Forse le tracce della sua influenza nel piccolo universo dell'architettura si possono trovare in concetti come il passaggio al limite, l'evento, la casualità di molti accadimenti e la difficoltà di comprenderne i meccanismi. Come diceva: «La decostruzione passa per essere iperconcettuale e certamente lo è, dal momento che fa un grande consumo di concetti, concetti che genera almeno tanto quanto eredita. Essa tenta di pensare oltre i confini stessi del concetto».

il Riformista 18.11.08
Senza Veltroni il Pd non esisterebbe più
di Ritanna Armeni


È l'unico che per il momento riesce a tenere insieme gli errori di tutti. Walter forse non è il segretario che oggi piace al Partito democratico, ma è sicuramente il segretario che quel partito, per come è nato, fino ad oggi ha meritato

Questo è un articolo in difesa di Walter Veltroni. Sì, in difesa del segretario di un partito, il Pd, che non ho votato, al quale non sono iscritta, sulla cui politica, e non solo di questi mesi, dò un giudizio pesantemente negativo. Non lo scrivo solo per un edificante istinto che spinge a difendere chi è attaccato da coloro che in precedenza lo hanno elogiato e magari incensato. Lo ammetto subito, i miei sentimenti sono meno nobili. È l'irritazione che mi provocano i suoi avversari, i loro risentimenti e la loro cecità politica. Uomini e donne che fingono di non rendersi conto di quanto l'attuale segretario sia una garanzia per il partito che insieme hanno voluto e costruito. Di quanto quel partito senza la leggerezza, il dirigismo ammantato di buonismo, l'antiberlusconismo soft mai maleducato, la tranquillità con cui si può soprassedere su questioni importanti -tutte "virtù" di Walter Veltroni - sarebbe già spaccato.
Ragionino bene coloro che attaccano. Che cosa sarebbe senza Walter Veltroni un Partito democratico in cui secondo alcuni dirigenti (non solo Paola Binetti che almeno lo dice ) gli omosessuali sono pedofili? Posizione che in altri provoca un brivido. E che contiene posizioni molto diverse su questioni come le convivenze fuori dal matrimonio, l'aborto o il testamento biologico? Walter Veltroni è riuscito soavemente a presentare come cultura pluralista l'assenza di un'opinione condivisa sulle grandi questioni etiche, ad esibire come liberalismo la mancanza di decisioni, a ricordare che nel partito democratico americano su queste questioni convivano felicemente posizioni diverse, a far dimenticare che su alcune di queste, per esempio la ricerca sulle cellule staminali embrionali, il neopresidente Barak Obama ha promesso un intervento immediato.
Che cosa sarebbe il Partito democratico senza Walter Veltroni di fronte alla proclamazione da parte della Cgil dello sciopero generale, di fronte alla divisione dei sindacati, di fronte a Cisl e Uil che flirtano più o meno segretamente con il governo? Ci sarebbero coloro che apertamente direbbero che Epifani sbaglia, quelli che difenderebbero le posizioni delle loro vecchie confederazioni di riferimento, quelli che invece sosterrebbero la necessità di uno sciopero generale contro il governo. Sarebbe discussione, divisione, conflitto.
Grazie a Walter Veltroni tutto questo non avviene. Sotto la sua direzione Enrico Letta può affermare che il Pd certo non sciopera. Sergio Chiamparino che lo sciopero generale è necessario, ma non sufficiente, Massimo D'Alema, e con lui molti altri, possono tacere sulla decisione della Cgil e fare richiami drammatici sulla gravità della crisi che richiederebbe ben altri interventi che non la piazza e la protesta.
No, non è davvero comprensibile questo tiro al piccione nei confronti del segretario del Pd. Non è assolutamente condivisibile questo scaricare su di lui le responsabilità che sono di tutti. Non vedere come lui sia l'unico che per il momento riesce a tenere insieme gli errori di tutti. In fondo Veltroni ha fatto quello che aveva promesso di fare e che tutti hanno appoggiato. Ha rafforzato nel Paese un bipolarismo che era incerto. Ha tagliato i ponti con una sinistra radicale che anche grazie a lui è stata cancellata dal Parlamento. Ha anche perso le elezioni, ma coloro che oggi lo attaccano avevano ben presente questa possibilità, e solo un anno fa, la ritenevano di gran lunga il male minore di fronte al bene rappresentato da un bipolarismo più forte e dall'annientamento della sinistra. Meglio la chiarezza, si diceva.
E allora? La chiarezza c'è. Quel che doveva essere fatto è stato fatto. Se il Pd è un partito composito, con una scarsa identità e una capacità di incidere nella vita politica italiana ancora più scarsa la responsabilità è di tutti. Quel che lo tiene insieme in positivo è una sorta di antiberlusconismo soft il cui merito è ancora una volta del segretario. L'afasia sulle questioni etiche e sociali non sarebbe bastata infatti senza questo antiberlusconismo beneducato, lontano dagli estremismi di Di Pietro che Walter Veltroni riesce ad esprimere e col quale riesce a compattare i suoi. Fra "Walter e Silvio non c'è chimica", ha affermato di recente Confalonieri. Questa mancanza di attrazione è ciò che oggi tiene unito il Pd. Ancora una volta merito di Walter. Se poi molti nel Pd ritengono giustamente che questo sia troppo poco per fare opposizione a Berlusconi e per proporsi a guidare il Paese, se pensa che limitandosi a questo si perdono consensi, questa è un'altra questione. Walter Veltroni forse non è il segretario che piace al Pd, ma è sicuramente il segretario che questo Pd fino ad oggi ha meritato.

L'Opinione 15.11.08
Dio immaginario
Cultura laica debole
di Alessandro Litta Modignani


Negli ultimi tempi, le dichiarazioni del Papa sono state particolarmente discutibili, al punto da creare imbarazzo persino nei commentatori di cultura cattolica. Si direbbe quasi che Benedetto XVI abbia perso parte della sua autorevolezza. Le uscite in occasione della crisi finanziaria (“I soldi svaniscono, solo la parola di Dio è solida”), sui ricercatori e scienziati “avidi di denaro”, sull’equiparazione fra omosessualità e pedofilia hanno suscitato un’ondata di proteste, prestando il fianco a facili sarcasmi. Molti vignettisti si sono sbizzarriti. Queste reazioni, per quanto giustificate, non affrontano però il problema alla radice. Su cosa si basano gli argomenti del Papa? Occorre coglierne il senso profondo.
”Dobbiamo cambiare il nostro concetto di realismo - ha detto Ratzinger – Realista è chi riconosce nella Parola di Dio, in questa realtà apparentemente così debole, il fondamento di tutto”. Proprio questo rovesciamento del principio di realtà è all’origine, in generale, di tutte le religioni rivelate. “Solo la Parola di Dio è fondamento di tutta la realtà”, sostiene Benedetto XVI. Questo è il nodo da sciogliere. Se il Papa, che fa il suo mestiere, indica la realtà autentica in questo rovesciamento, la cultura laica ha il dovere di proporre, a sua volta, un “rovesciamento del rovesciamento”, ricollocando la religione nella sfera che le è propria, cioè quella dell’immaginario umano.
Nel suo celebre saggio contro il cristianesimo, Friedrich Nietzsche sottolinea proprio come questo carattere “immaginario”, astratto e non realistico, sia un elemento fondativi della tradizione giudaico-cristiana.
“Né la morale né la religione vengono a contatto, nel cristianesimo, con qualsiasi punto della realtà. Cause puramente immaginarie (Dio, anima, io, spirito, libero volere); effetti puramente immaginari (peccato, redenzione, grazia, punizione, remissione dei peccati). Un commercio fra esseri immaginari (Dio, spiriti, anime); un’immaginaria scienza della natura (completa mancanza del concetto di cause naturali); un’immaginaria psicologia (un mero fraintendimento: pentimento, rimorso di coscienza, tentazione del Diavolo, vicinanza di Dio); un’immaginaria teleologia (il Regno di Dio, il giudizio universale, la vita eterna). Questo mondo di pure finzioni si differenzia, con suo notevole svantaggio, dal mondo del sogno, per il fatto che quest’ultimo rispecchia la realtà, mentre esso falsifica, svaluta, nega la realtà”. (La sintesi è nostra).
Nei suoi termini essenziali, la risposta laica alle tesi religiose potrebbe ridursi a questo: Dio come prodotto dell’immaginazione umana e del rovesciamento del principio di realtà. Così il denaro acquista un significato concreto e anche nobile, come strumento creato da menti intelligenti per regolare le relazioni economiche. Come tutti gli strumenti, esso può a volte non servire allo scopo, ma ciò non può indurre gli esseri raziocinanti a considerare solida “solo la parola di Dio”. Altrimenti ci si avvia sulla strada della follia e le conseguenze non tardano a manifestarsi: intolleranza, superstizione, odio teologico, delirio mistico, fanatismo missionario, ostilità alla scienza, persecuzione dei diversi, umiliazione della donna, repressione del corpo, paura della felicità. Non si tratta affatto di degenerazioni episodiche o di deviazioni casuali, bensì di un connotato intrinseco, “consustanziale”, al fenomeno religioso, come la storia ha abbondantemente dimostrato.
La cultura laica però non sempre ha il coraggio di raccogliere la sfida sul terreno più autentico, quello filosofico, difendendo il primato della ragione sulla fede. Per questo, quando Benedetto XVI cita il Salmo 118 (“La legge della Tua bocca più preziosa di mille pezzi d’oro”) al massimo la si mette sul ridere.

lunedì 17 novembre 2008

Repubblica 17.11.08
Fenomenologia dei Villari
di Francesco Merlo


E' difficile entusiasmarsi per Leoluca Orlando o per Riccardo Villari, scegliere tra un democristiano resuscitato e una mummia democristiana, e magari pensare che la sinistra sia incarnata dall´uno o dall´altro o da tutti e due.
Di sicuro Villari, che è stato eletto dai troiani a capo degli achei ma non si vuole dimettere, è un altro capolavoro berlusconiano, un capolavoro di mediocrità italiana. Tutti capiscono infatti che Villari non si dimette perché è un topo che da tutta la vita aspetta il suo pezzo di formaggio. E dunque, adesso, non gli importa nulla che a dargli il formaggio sia stato il gatto, che del topo è l´antagonista.
Eppure, diciamo la verità, non solo Villari non è antipatico, ma non riesce neppure a indisporre e a irritare. Non è in grado di suscitare sentimenti di alcun genere, tanto è fradiciamente democristiana, anche nella metodologia, tutta la vicenda dell´elezione del presidente della commissione di Vigilanza della Rai. C´è infatti Di Pietro che zompa sulla debolezza di Veltroni e ci sguazza. C´è Berlusconi che ha i ?mezzi´ per governare ben altri trasformismi senza pudori astuti e senza finti candori. E c´è l´intero centrosinistra che, ancora un volta, non riesce a dare segnali di vero rinnovamento, non sa neppure indicare un uomo, una figura per la quale valga la pena di battersi, per la quale sia un po´ più facile mobilitarsi, vuoi per i titoli specifici su Rai informazione e giornalismo, come nel caso per esempio di Sergio Zavoli, Furio Colombo o Giuseppe Giulietti; o vuoi per virtù di garanzia di vigilanza giuridica o culturale: dal costituzionalista Salvatore Vassallo all´ex magistrato Gerardo D´Ambrosio, dal demografo Massimo Livi Bacci allo scrittore Gianrico Carofiglio?.
Sono tanti i nomi altrettanto antiberlusconiani di Orlando ma per i quali potrebbe avere senso accendersi e dinanzi ai quali potrebbero sentirsi inadeguati anche gli Arlecchino servitori di due padroni, com´è il carneade Villari.
Per il resto, l´epatologo Villari non fa neppure sorridere quando si appella al senso dello Stato e vuole essere ricevuto dal presidente della Repubblica e da quelli delle Camere. Non gli pare vero di sentirsi parte dell´Accademia Italiana dei Saggi e degli Equilibrati. E´ anche lui un garante, un arbitro, un´authority e diceva il saggio Senofane: «Occorre un saggio per riconoscere un saggio».
E in fondo Villari non ha ancora tradito e nessuno può accusarlo fino a quando non sarà consumato l´evento. Mastella diceva: «Mando Villari che è un politico avvolgente». E a Mastella Villari diceva: «Manda me che sono sinuoso». Ebbene, anche in questa ambiguità Villari incarna un´eterna maschera italiana, quella del colpevole al quale non si può rimproverare nulla.
Il caso Villari è più vecchio della stessa Dc meridionale, e Villari non riuscirebbe a sorprenderci neppure se volesse. Democristiano di buona famiglia è ovviamente orgoglioso di inscenare, sia pure nel suo piccolo, la commedia dei due forni e delle convergenze parallele. La sua utopia politica è la moglie ubriaca e la botte piena. Lo fa impazzire di gioia l´idea di diventare l´ago della bilancia, il Centro per eccellenza.
Comunque vada a finire, sa che in futuro, tranquillo e rispettabile borghese, ispirerà una certa soggezione quando, nella sua Capri, attraverserà la strada senza ostacolo per scomparire presto dalla vista: «Quello lì un giorno è stato presidente?».
Anche fisicamente Villari rimanda a una politica fatta in casa, autentica e ruspante, che facilmente risveglia i vecchi pregiudizi dei Vicerè: «Piccoli uomini che si sentono più astuti che prudenti, litigiosi, adulatori, timidi quando trattano i propri affari ma d´incredibile temererarietà quando maneggiano la cosa pubblica e allora agiscono in tutt´altro modo: diventano avidissimi mangiatori?.». E ribaltano da sempre, prima ancora che l´Italia inventasse il trasformismo. Nel mondo dei Villari i cristiani passavano all´Islam in cambio di un lavoro nelle navi pirata e gli ebrei diventavano cattolici solo per il piacere di inquisire gli ex compagni di fede. Insomma nella terra dei convertiti e dei pentiti la mediocrissima spregiudicatezza di questo vanitoso allievo di Mastella e di De Mita non scandalizza davvero nessuno. E il finale è ancora apertissimo. Villari può esercitarsi nel finto tradimento, nel bitradimento e nel tradimento del tradimento. La presidenza della commissione di Vigilanza non sarà granché ma pur sempre di potere si tratta, ed è terribile doverlo abbandonare in questo modo: è come morire di sete accanto alla fontana.
Povero Villari e più povera ancora la sinistra. Chi avrebbe mai immaginato che oltre Amendola e Pajetta, Ingrao e Berlinguer, si sarebbe divisa tra villariani e orlandiani? E meno male che Villari ha dichiarato di confortarsi con il suo consigliere spirituale. Proprio come donna Lola che, lasciato compare Alfio (Veltroni) per compare Turiddu (Berlusconi), annuncia: «Domenica voglio andare a confessarmi perché ho sognato dell´uva nera».

Repubblica 17.11.08
Il revival al potere
di Edmondo Berselli


Care memorie, cari fantasmi, come vivremmo senza di voi? Negli ultimi giorni il ministro Mariastella Gelmini ha rievocato un nemico pericolosissimo contro cui occorre riunire le forze e passare all´attacco: «L´ideologia dell´egualitarismo, del 18 o del 6 politico a tutti». Sarà almeno una trentina d´anni che del 18 politico, questa nefanda mostruosità accademica e studentesca, si sono perse le tracce, e ci voleva quindi la medianica memoria del ministro per farla rivivere. Se ne sentiva il bisogno. Anche perché dalle polemiche gelminiane si deve dedurre che esistono ancora, rintanati da qualche parte, i sostenitori della sufficienza di classe. Il ministro ha ragione: bisogna stroncare queste ideologie. Ma perché limitare questa sacrosanta azione al "diritto" al 18? Conviene andare a fondo, e sradicare pratiche scioccamente egualitariste come l´esame di gruppo. Liquidare per sempre slogan intollerabili come «l´immaginazione al potere» o «vietato vietare», nonché impedire l´ascolto dell´insidioso inno assembleare Quarantaquattro gatti («Nella cantina di un palazzone / tutti i gattini senza padrone / organizzarono una riunione / per precisare la situazione»). E per completare l´opera cambiare il nome del ministero dell´Istruzione. Può andare «ministero del revival»?

Corriere della Sera 17.11.08
La trappola delle analogie
Né sessantotto né Ventinove
di Dario Di Vico


Le analogie sono delle gran trappole. Attraggono perché sono facili da maneggiare e comunicano velocemente un pensiero di sintesi ma spesso portano fuori strada. Prendiamo il caso dell'Onda, delle manifestazioni studentesche contro i decreti Gelmini. La coreografia ricorda giocoforza l'evento-padre di tutte le contestazioni, il Sessantotto, e l'analogia in questo caso è facile, quasi una sinecura. Spinge al raffronto anche l'angoscia che attanaglia la sinistra: teme di restar vittima di un lungo ciclo di vittorie del centrodestra ed è quindi naturalmente portata a puntare sullo spariglio, a confidare che sulla ruota della politica esca un altro '68. Ma chi ha investito sul paragone tra ieri e oggi sembra destinato a restar deluso.
Non pare che l'Onda, a vedere anche il debole impatto dell'assemblea nazionale dei collettivi universitari conclusasi ieri alla Sapienza di Roma, abbia la stessa energia creativa del movimento di 40 anni fa. Né ci sono somiglianze tra la rottura anti-consociativa che la contestazione operò nei confronti dei poteri scolastici di allora e la pratica odierna che vede studenti-outsider e professori-insider marciare a braccetto contro il governo. Perché se è giusto sottolineare come il mondo della scuola sia una comunità di valori, è anche vero che dentro di essa prevale spesso una solidarietà di tipo corporativo, da «lobby della scuola». In quanto a differenze non va trascurata, poi, una considerazione di carattere squisitamente sociologico. Il '68 fu la manifestazione politica di un ampio processo di mobilità sociale che produsse in molte famiglie il primo laureato della casa, l'Onda invece si muove dentro una società ingessata, dove i meccanismi di casta sono vivi e vegeti e le liberalizzazioni ferme.
Anche l'altra analogia, in gran voga in questi mesi, quella tra la crisi finanziaria di oggi e il crollo del '29, è suggestiva quanto ingannevole. Sostengono Alberto Alesina e Francesco Giavazzi nel loro pamphlet La crisi. Può la politica salvare il mondo? che le due situazioni non sono paragonabili. Il crac degli anni Trenta si trasformò in una tremenda e lunga depressione a causa di una clamorosa sequenza di errori di politica economica che andarono dal togliere liquidità alle banche (invece di rifornirle) all'introduzione di dazi per proteggere le industrie nazionali, da un controllo dirigistico delle contrattazioni salariali al ricorso incontrollato alla spesa pubblica. È vero che l'opinione prevalente tra gli analisti stima il 2009 e forse anche il 2010 come anni caratterizzati da forte recessione, ma vale la pena ricordare un dato: dopo il '29 il Pil americano subì un calo record del 30% e un americano su quattro finì per perdere il posto di lavoro. Oggi invece anche le previsioni più autorevoli, come quelle diffuse dal Fmi per i prossimi dodici mesi, arrivano almeno per ora a pronosticare per l'economia Usa una performance negativa dello 0,7%, e per la zona euro dello 0,5%, risultati in parte bilanciati dallo sviluppo dei Paesi emergenti che continuerà a segnare +5,1%. È chiaro che l'ordine di grandezza è totalmente diverso da quello del 1929, concludono i due economisti. Ed è difficile dar loro torto.

Corriere Economia 17.11.08
Sindacato e consenso Dopo l'accordo Alitalia la nuova strategia della confederazione
Se Epifani costruisce il partito di Main Street
Il leader della Cgil e la manifestazione del 12 dicembre Una piattaforma per «il popolo della quarta settimana»
di Enrico Marro


Come spesso è accaduto sotto la guida di Guglielmo Epifani (segretario generale dal settembre 2002) dietro la linea della Cgil non c'è un preciso disegno. Essa piuttosto è la risultante di un succedersi di scelte che Epifani ha compiuto in questi anni con l'obiettivo di mantenere gli equilibri interni e la sua stessa leadership, una volta appoggiandosi a destra e la volta dopo a sinistra. Anche la fase attuale, la nuova rottura con Cisl e Uil, e la mobilitazione solitaria fino allo sciopero generale del 12 dicembre sono arrivate un po' per caso. E così, complice l'acuta crisi economica, Epifani, scendendo in una piazza già occupata da vari movimenti più o meno organizzati, prova a interpretare il partito di Main Street.
Quando Epifani, a giugno, rimescolò i vertici di Corso Italia, puntava a formare una segreteria a sua immagine e somiglianza. Per questo costrinse a uscire alcuni segretari legati alla gestione di Cofferati (Marigia Maulucci, Mauro Guzzonato, mentre Achille Passoni e Paolo Nerozzi erano già in Parlamento col Pd), mise in un angolo Nicoletta Rocchi, portò in segreteria Susanna Camusso con l'idea di lanciarla per la sua successione e formò una squadra che, dal punto di vista politico, appariva molto vicina al leader del Pd, Walter Veltroni. Solo che, alla fine, Veltroni si è ritrovato invece che con un beneficio con una grossa grana perché la spaccatura tra Cgil e Cisl sta scuotendo il partito.
Controparte
Certo la Cgil sostiene che non è stata lei a volere la rottura, ma il governo e la Cisl e la Uil. Ma se siamo arrivati a questo punto e se oggi la Cgil si ritrova in piazza con tutte le incognite del caso (basta vedere la soddisfazione di Giorgio Cremaschi) la responsabilità non è solo di Maurizio Sacconi e Raffaele Bonanni. Dice per esempio Giuseppe Casadio, dal '96 al 2004 in segreteria e tra i protagonisti della Cgil di Cofferati: «Credo che il mio sindacato abbia fatto un errore quattro anni fa, nel luglio del 2004, rifiutando la trattativa sulla riforma del modello contrattuale proposta da Montezemolo appena diventato presidente della Confindustria. Allora c'erano un contesto economico e un interlocutore favorevoli. Ma nella Cgil ci fu un eccesso di prudenza, forse influenzato da motivazioni politiche, e in definitiva un deficit di coraggio». Al governo c'era di nuovo Berlusconi. Epifani disse c h e non e r a pronto e lasciò il tavolo. La questione rimase congelata per più di tre anni. Se ne ricominciò a parlare sul finire del governo Prodi e della presidenza Montezemolo, ma al dunque Epifani non se l'è sentita di rompere con la Fiom di Gianni Rinaldini (assolutamente contrario all'accordo). Poi il quadro, la scorsa primavera, è di nuovo cambiato: ancora il Cavaliere a Palazzo Chigi mentre a via dell'Astronomia è arrivata Emma Marcegaglia. «Fino a luglio — racconta Rocchi, che allora aveva la delega poi trasf erita a Camusso — i margini per arrivare a un accordo ci sono stati, poi le cose si sono complicate. Nel frattempo è esplosa la crisi economica e la situazione è precipitata. Ora la Cgil non ha altra scelta: non possiamo votarci all'ininfluenza». E allora di nuovo in piazza.
«Del resto — sentenzia Nerozzi — vista la gravità della crisi e il disagio che c'è tra i lavoratori dove vuole che stia la Cgil?». In Main Street, appunto. E a pensarla così sono pure i riformisti. Non solo Rocchi, ma anche Maulucci: «Il rischio di una deriva massimalista? Non lo so. Io vado in piazza da riformista: sciopero per chiedere al governo un accordo a favore dei più deboli, per sostenere salari e ammortizzatori sociali». Così anche Agostino Megale che, insieme a Camusso, ha ereditato la trattativa sul modello contrattuale: «Per me non c'è uno spostamento a sinistra della Cgil. Scioperiamo per ottenere un tavolo dal governo che invece vuole spaccare il sindacato».
Ma chi guarda dall'esterno, sia pure con simpatia, alla Cgil, come Renata Polverini, leader dell'Ugl, non ha dubbi: «È la seconda volta che la Cgil scivola nella tentazione di influire sul quadro politico. Eppure l'altra volta che ha ottenuto dopo Berlusconi? Il centrosinistra traballante di Prodi. Ora, questo è un governo con una maggioranza amplissima col quale dobbiamo fare i conti. Se oggi fai lo sciopero generale, domani che fai?». Considerazioni che sono presenti nei ragionamenti della tribù dispersa dei riformisti Cgil, ma sulle quali fa premio la convinzione che, sarà per caso, sarà per fortuna, ma adesso la Cgil si trova dalla parte giusta. «La mia anima riformista e moder ata — dice Maulucci — si ribella davanti alla proposta della Confindustria: come fa a dire che gli aumenti devono essere legati alla produttività se il suo centro studi dice che siamo in recessione?».
Parole che richiamano quelle pronunciate qualche giorno fa da Lorenzo Stanca, un economista già capo dell'ufficio studi di Unicredit e ora presidente del Gruppo Economisti d'Impresa, che, nel suo intervento in un convegno a Milano, concludeva: «Lasciano interdetti le reiterate proposte di legare i salari alla produttività, che rischierebbero di accentuare ulteriormente le sperequazioni che abbiamo di fronte ». «La verità — conclude uno dei nostri interlocutori — è che Guglielmo gode di un grade fattore c. Mentre lui lancia il conflitto il malessere sociale aumenta, la Cgil può ben rappresentarlo e i suoi argomenti sono destinati ad acquistare peso». Ma fino a quando? E per andare dove? Il disegno continua a non vedersi mentre uno studioso come Luca Ricolfi è pessimista: «La Cgil diventerà minoritaria e sarà scavalcata dagli altri sindacati e nel giro di 15 anni sparirà ».

Corriere della Sera 17.11.08
Lo psicoanalista James Hillman rivela una dimensione nascosta nella dea della bellezza
E Afrodite conquistò la bilancia della Giustizia
di Eva Cantarella


Nacque dal mare, Afrodite. O meglio, dalla spuma del mare. Particolare non irrilevante: la spuma infatti, racconta Esiodo nella Teogonia, si era formata «attorno all'immortale membro ». Vale a dire, per chi non ricordasse la storia, attorno ai genitali di Urano, tagliati da suo figlio Crono e da questi gettati tra i flutti. Una storia in verità alquanto trucida, ma molto significativa. Afrodite è la dea di un amore associato alla sessualità, sia matrimoniale (quel poco di sessualità indispensabile alla funzione riproduttiva), sia, soprattutto, irregolare. Di regola, infatti, gli amori ispirati dalla dea sono illeciti: quello di Medea, ad esempio, quelli di Fedra e di Elena. Ma è sbagliato associare Afrodite solo all'amore e alla bellezza, dice James Hillman nel testo di una conferenza tenuta a Capri, pubblicata dalla casa editrice La Conchiglia nella bella traduzione e con le note (molto opportune) di Silvia Ronchey.
Come segnala il titolo — La giustizia di Afrodite — il libro ci conduce verso terreni inaspettati, abitualmente lontani dal mondo evocato dalla dea: la Giustizia, appunto, e in particolare il suo rapporto con la Bellezza. Un rapporto difficile, osserva Hillman, che coglie un presagio di questa difficoltà nella favola di Amore e Psiche, inserita nelle Metamorfosi di Apuleio. Psiche, una donna mortale così bella da essere venerata come una dea, suscita l'oltraggiata indignazione di Afrodite (per i romani Venere), che la punisce servendosi di suo figlio Eros (per i romani Cupido). Colpita dalle frecce del dio alato, la psiche umana soffre le pene d'amore: la giustizia di Afrodite.
Il trascurato legame della dea con il mondo del castigo emerge anche dal suo rapporto con un'altra divinità, Nemesi, ovvero la retribuzione, intesa come risposta a un'offesa intollerabile, che a volte provoca una reazione così passionale da superare la misura del dovuto. Ma Nemesi — legata al regno dei morti — nel suo culto a Smirne è circondata dalle Cariti, le Grazie: Thalia, la Fiorente; Aglaia, la Splendente; Kalle, la Bella; Euphrosyne, la Gioiosa. I greci non separavano l'amore dall'eccesso, la gioia dalla tragedia.
L'amore, dunque, è legato alla Giustizia: e questa, a sua volta, è legata alla Bellezza. Nel secondo inno omerico ad Afrodite, la dea, appena nata, viene accolta dalle Horai, le Ore, che la coprono con vesti bellissime, la incoronano d'oro, ornano i suoi lobi, il suo collo e il suo petto con preziosi monili. Ma le Ore sono figlie di Themis, la legge di natura, e si chiamano Eirene, la Pace, Dike, la Giustizia, ed Eunomia, il Buon Governo. Bellezza e giustizia non sono separate, come nel nostro mondo, in cui etica ed estetica (Bellezza e Giustizia, appunto) hanno camminato e camminano per strade diverse.
La mente occidentale ha perso le sue radici mitiche, dice Hillman: nella percezione collettiva Afrodite è priva di sensibilità etica.
Dobbiamo rivedere la nostra visione del mondo, far crollare le barriere che separano le discipline. Un discorso complesso, che richiederebbe più spazio di quello possibile, e molte competenze diverse. Una considerazione, tuttavia, viene alla mente, pensando al rapporto tra sentimenti, emozioni e impulsi, da un canto, e giustizia dall'altro.
Da secoli considerata territorio della ragione, al riparo della irrazionalità delle passioni, la giustizia è oggi al centro di un ripensamento da parte di giuristi, psicologi, sociologi, economisti e antropologi. In un numero speciale di «Theorethical Criminology», del 2002, si legge tra l'altro che «per avere un dibattito più razionale sul crimine e la giustizia, dobbiamo paradossalmente prestare più attenzione alla loro dimensione emozionale».
E Martha C. Nussbaum, a cavallo tra filosofia e diritto, sostiene che per comprendere la realtà e se stessi non basta la ragione. Neppure il diritto è solo logica: in esso devono vivere anche emozioni come l'amore, l'ansia, la vergogna, che non solo non sovvertono la moralità, ma, al contrario, hanno un ruolo etico nella costruzione della vita sociale.
Afrodite sembra riavvicinarsi alla giustizia. Che questo sia un bene o un male, naturalmente, può essere ed è oggetto di discussione. Ma indica un ripensamento su temi di grande attualità e importanza che sarebbe sbagliato sottovalutare.

domenica 16 novembre 2008

Repubblica Roma 16.11.08
Da ieri assemblea nazionale del movimento. E arrivano anche tanti giovani dagli atenei d'Europa
Sapienza, l'Onda non si ferma
Gli studenti annunciano: "Martedì una festa come Woodstock"
di Tea Maisto e Laura Mari


Irrappresentabile, autonomo, non-violento. Ed ora anche globale. Il movimento dell´Onda si arricchisce di un nuovo aggettivo ed estende la sua rete all´estero. All´assemblea plenaria nazionale, da ieri in corso alla Sapienza per stilare il documento dell´autoriforma universitaria, hanno infatti partecipato anche delegazioni di studenti venuti dagli atenei tedeschi e francesi. «La protesta contro i tagli sociali e la distruzione dell´educazione pubblica cresce ovunque e, sull´esempio dei giovani romani, in tutta Europa gli studenti hanno alzato la testa per dire no alla crisi dell´economia e dell´istruzione» ha detto Sebastien Forster, studente di 26 anni di Berlino, arrivato a Roma per partecipare ai workshop da cui oggi uscirà il documento ufficiale della controriforma dell´Onda, «non una semplice carta di intenti- hanno sottolineato i leader della Sapienza- né un tentativo di burocratizzare il movimento, ma un manifesto in cui esprimere la nostra idea di università, formazione, welfare e lavoro».
E dopo la stesura della "carta costituzionale dell´Onda", la protesta continuerà anche nelle prossime settimane. «Martedì alla Sapienza ci sarà una grande festa, sarà la nostra Woodstock» annunciano i portavoce del movimento. Alla serata parteciperanno, tra gli altri, Andrea Rivera, Ascanio Celestini, Daniele Silvestri, la Banda Osiris, Dario Vergassola e i Tête de Bois.
Mercoledì, invece, gli studenti del liceo Kant e delle scuole di Centocelle hanno indetto un corteo che si concluderà a Villa Gordiani con una battaglia di cuscini «per dimostrare che gli scontri di piazza Navona non sono stati provocati dai ragazzi dell´Onda». Gli studenti, i genitori e gli insegnati del Mamiani, di Tor Vergata, della Pistelli, della scuola Ariosto e del Caitani stanno infine preparando un documentario sulle mobilitazioni.

Repubblica 16.11.08
Il segretario Cgil al contrattacco: finora solo misure inutili, servono risposte eccezionali
"Governo illiberale, vuole escluderci ma Cisl e Uil non gli basteranno"
Intervista a Guglielmo Epifani di Alberto Statera


ROMA - Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil, col suo tono sommesso, la scelta delle parole, l´eloquio lento, francamente non somiglia affatto al Marchese del Grillo («Io so´ io e voi non siete un cazzo»), né tantomeno a Lev Trotzky, cui l´hanno paragonato i suoi colleghi della Cisl e della Uil che in questi giorni l´hanno coperto di contumelie. Si tratta allora di capire anche con lui, al di là dei profili caratteriali, il senso vero della partita politica che si è aperta con la faglia nell´unità sindacale, mentre incede la crisi economica forse più grave del dopoguerra.
Però, segretario Epifani, lasciamo perdere per favore la questione della cena segreta a casa Berlusconi con i suoi colleghi Bonanni e Angeletti, e col presidente della Confindustria Emma Marcegaglia, cui lei non è stato invitato.
«Guardi, quella cena cui il maggior sindacato italiano non è stato invitato è stata organizzata da Tremonti e da quella parte del governo, di cui fa parte a pieno titolo il ministro Sacconi, che punta sistematicamente a escludere la Cgil. Per cui è difficile non tenerne conto. Se si muove Berlusconi non è per sorbire tè e pasticcini. Ed è bene che i lavoratori sappiano, infatti, che in quella cena si sono messe le basi per un accordo separato sul modello contrattuale e sulle misure contro la crisi».
Ma allora perché Bonanni e Angeletti dovrebbero continuare a negare, se poi la attaccano esplicitamente, con toni che tra i sindacati confederali non si sentivano da lustri?
«E´ un pessimo segno, fa pensar male anche chi non vorrebbe. Le sembra comunque normale discutere le sorti dei lavoratori in un paese in crisi a casa del presidente del Consiglio, escludendo il maggiore sindacato, l´Ugl, le associazioni d´impresa, a cominciare dalle piccole, e il settore commerciale che più gravemente paga e pagherà la recessione, per di più mentendo ai propri iscritti e al Paese? Se anche noi avessimo opinioni molto diverse da Cisl e Uil, proprio per questo tali opinioni andrebbero ascoltate. Tanto più che i governi responsabili nei momenti di crisi, come nota il presidente Napolitano, cercano il consenso più ampio, non gli accordi separati».
Il governo è dunque irresponsabile?
«Un governo che discute soltanto con chi è d´accordo con lui è sicuramente illiberale. Dovrebbe chiamare a raccolta tutte le proposte per uscire dalla crisi e invece assistiamo a posizioni puramente ideologiche, come quella del ministro Sacconi».
Ma se lei al tè coi pasticcini di Berlusconi non c´era, come sa quali meravigliosi provvedimenti per i lavoratori ha promesso il governo?
«A parte l´antefatto simile del 2001, quando l´allora segretario della Cisl trattò col vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini il "patto per l´Italia", poi soprannominato "patto della lavanderia", dal luogo in cui Savino Pezzotta sgusciò per non farsi scoprire, e che Berlusconi non mantenne, il governo si sottrae al confronto perché le proposte contro la crisi non sono all´altezza. Che senso ha avuto detassare gli straordinari quando i lavoratori vanno in cassa integrazione? Nessuno, come ha rilevato anche la Banca d´Italia. Al massimo vedremo una politica caritatevole, nessun allargamento significativo degli ammortizzatori sociali, il contrario di quello che ha promesso di fare Obama in America».
Allora lei accusa Cisl e Uil di fare la "cinghia di trasmissione" del governo, la stessa accusa che era rivolta una volta alla Cigil nei confronti del Pci. O, peggio, di fare il sindacato giallo.
«Vedo un collateralismo sindacale con tendenze neocorporative».
Illiberalismo, corporativismo, non vorrà pronunciare, segretario, la parola fascismo?
«Aggiungerei ideologismo, la stessa logica che presiede alla vicenda della Commissione di Vigilanza della Rai. Già sull´Alitalia Berlusconi disse: si può fare senza la Cgil. Noi abbiamo sempre detto che il governo di centrodestra è il risultato di un voto democratico, ma riconoscere questo non vuol dire cancellare il profilo delle nostre proposte. Per cui non accettiamo diktat, né un accordo fallimentare come quello della lavanderia del 2001».
Così le dicono che è bolscevico.
«La storia della Cgil è la storia di un grande corpo riformista, per cui dicano quello che vogliono, ma è falso».
Eppure, l´impressione è che lei sia troppo sensibile all´ala meno dialogante della Cgil, quella che fa capo a Giorgio Cremaschi.
«Guardi che Cremaschi è un radicale liberale, non certo un bolscevico. E´ bolscevico chi teme che le condizioni economiche e sociali si aggravino ancora, con una parte sempre più larga di lavoratori che ne soffrirà, in un paese sempre più diseguale»?
Vede il rischio che si torni agli anni cupi del terrorismo?
«Non c´è nessun segnale in questa direzione. Il movimento dei ragazzi è pacifico, salvo qualche provocazione di gruppi di destra sulla scuola. Mi sembra che ci sia forza e maturità».
Scusi Epifani, i suoi colleghi Bonanni e Angeletti dicono realisticamente: questo governo è molto forte, governerà per altri quattro anni e mezzo, se non prendiamo almeno quello che ci dà, noi che fine faremo di qui al 2013?
«La buttano in politica. Vorrei ricordare che noi facemmo lo sciopero generale contro il governo Prodi. Il fatto che il governo Berlusconi è forte e durerà non può uccidere la coerenza. E comunque noi siamo come sempre disponibili a mediare».
Su quali basi?
«Sospensione della detassazione degli straordinari, più tutela per i precari e per chi sta peggio, più cassa integrazione in deroga, politiche fiscali adeguate, cominciando dalla detassazione della tredicesima. Le sembra estremismo o il meglio della tradizione sindacale»?
Ma Berlusconi dice che con voi non tratta perché significherebbe trattare col Partito Democratico e con Veltroni, che dalla crisi tra i sindacati non trae certo vantaggio.
«Certo che no. E gli effetti sono in molti campi, a cominciare dal Parlamento, non solo nel Pd, che è un partito plurale per il quale l´unità sindacale è un punto di riferimento. Ma anche il Pd deve usare la bussola per il proprio orientamento».
Cosa direbbe a Berlusconi e Tremonti per farsi invitare a prendere almeno un cappuccino?
«A crisi eccezionale, risposte eccezionali. Conviene anche al governo»

Repubblica 16.11.08
L'assalto al futuro della nuova generazione
di Eugenio Scalfari


EPIFANI ha deciso di isolarsi. E´ un massimalista. Si aggrappa al sindacalese del secolo scorso e non capisce che siamo in un´economia globalizzata. Ha scelto il movimentismo abbandonando il riformismo. Insegue la Fiom. Si crede il centro del mondo. E´ uscito di testa ma speriamo che si ravveda. (Quest´ultimo giudizio è di Bonanni, l´uomo forte della Cisl). La sua politica favorisce Berlusconi. La Cgil non conta più niente. Il Pd prenderà le distanze. Lama si rivolterebbe nella tomba. Perfino Di Vittorio...
Venerdì sera l´ho chiamato al telefono, tanta unanimità contro di lui mi aveva incuriosito, del resto non è la prima volta per lui e non è la prima volta per chi guida il maggior sindacato italiano. Vi ricorderete Cofferati: per due anni fu la bestia nera dell´Italia benpensante. Anche lui si era isolato perché Cisl e Uil avevano firmato con Berlusconi il "patto Italia" che tuttavia restò lettera morta. Vi ricorderete Bruno Trentin, del quale tutti riconoscevano l´onestà intellettuale e tutti biasimavano la politica sindacale. E vi ricorderete Lama.
Luciano Lama è stato ricoperto di elogi (dall´Italia benpensante) quando lasciò la carica di segretario della Cgil e soprattutto quando morì. E non parliamo di Di Vittorio. "Post mortem" un generale rimpianto; da vivo invece l´avrebbero volentieri messo in galera per continua violazione dei diritti di proprietà, interruzione di pubblici servizi, resistenza alla forza pubblica.
Diffido molto della cosiddetta "Italia benpensante". Spesso pensa male, il più delle volte non pensa affatto, ripete gli "spot" dai quali viene ogni giorno bombardata e imbottita. Scopre le persone di qualità quando sono morte. Così fu per Ezio Vanoni, per Ugo La Malfa, per Aldo Moro e per Enrico Berlinguer. Da vivi preferisce i truffaldini che promettono miracoli e felicità.
Dunque Epifani. Lui non vuole isolarsi da nessuno e comunque non si sente affatto isolato. L´altro giorno fiancheggiava la manifestazione studentesca nelle strade di Roma, centomila ragazzi che chiedono una riforma vera e seria della scuola e dell´università e non i pannicelli caldi del grembiulino, del maestro unico e dei tagli.
Lo stesso giorno la Cgil insieme agli altri sindacati confederali, ha dato il disco verde alle assunzioni individuali che la Cai di Colaninno comincerà domani. Nei prossimi giorni chiederà al governo di convocare le parti sociali a Palazzo Chigi per discutere della recessione e delle urgenti misure che essa richiede. Poi bisognerà proseguire la discussione con la Confindustria sui contratti di lavoro e sulla loro eventuale riforma.
«Sembro uno che si vuole isolare? Quando il capo di un sindacato va a cena nell´abitazione privata del capo del governo è lui a rompere l´unità ed è lui che si isola».
Quella cena a Palazzo Grazioli l´ha fatto molto arrabbiare. «Non è la prima volta, ormai ci ho fatto l´abitudine, ma il fatto nuovo è stato la presenza di Emma Marcegaglia. Cisl, Uil e Confindustria a cena da Berlusconi per parlare di contratti con la voluta assenza della maggiore organizzazione sindacale. Qual è il senso? Che cosa significa?».
E quindi sciopero generale da soli il 12 dicembre. «No, quello era già previsto. Non sono così imbecille da indire lo sciopero generale per un mancato invito a cena. La motivazione è molto più seria, i lavoratori lo sanno e la loro adesione lo dimostrerà».
* * *
Uno sciopero generale è sempre politico per definizione. Se ci fosse un obiettivo specifico che interessa una specifica categoria professionale non si farebbe appello alla totalità dei lavoratori. Quando si proclama lo sciopero generale vuol dire che si vogliono affermare e conquistare diritti che riguardano tutti i lavoratori e addirittura tutti i cittadini. Riguardano l´interesse generale del paese, naturalmente visto dall´angolazione dei lavoratori. Per questo dico che si tratta d´uno sciopero politico per definizione.
Bisogna dunque capire quali sono i diritti da affermare e conquistare in questa fase dello scontro sociale che pure richiederebbe la collaborazione di tutte le forze per far fronte ad una tempesta economica che ha rari precedenti nella storia degli ultimi cent´anni.
Il diritto è quello che si legge nell´articolo uno della Costituzione: «La Repubblica italiana è fondata sul lavoro».
Sembrerà una frase rituale, mille volte invocata e mille volte elusa, che rappresenta tuttavia l´elemento portante della nostra architettura costituzionale. Tutti quelli che seguono sono diritti ai quali la Costituzione conferisce dignità e tutela giuridica, ma nessuno dei quali è definito come fondamento del patto nazionale. Il lavoro non è soltanto un diritto ma è anzitutto un valore. Così l´hanno voluto i nostri "padri costituenti": il lavoro degli operai e quello dei contadini, dei professionisti e degli imprenditori, dei docenti e dei discenti.
Ma perché proprio oggi uno sciopero per lavoro? E´ vero, la disoccupazione sta aumentando, la recessione distrugge ogni giorno posti di lavoro, le imprese riducono il personale dipendente, molte chiudono, anche il lavoro autonomo è in crisi. Ma non sarà certo uno sciopero a far invertire la tendenza. Allora perché lo sciopero generale? Bisogna esaminare con molta attenzione questa questione per capire ciò che sta accadendo.
I redditi reali dei lavoratori negli ultimi due anni e in particolare negli ultimi sei mesi sono aumentati meno dell´inflazione ufficiale e molto meno dell´inflazione reale. Ciò significa che il potere d´acquisto dei redditi inferiori ai trentamila euro annui è fortemente diminuito.
Poiché i redditi nominali sono tuttavia aumentati, di altrettanto è aumentato il prelievo fiscale. Il lavoro dipendente non può evadere e i pensionati neppure, per conseguenza il potere d´acquisto è ulteriormente diminuito.
Il lavoro precario, che negli anni scorsi è stato incoraggiato in molti modi e presentato come lo sbocco più idoneo per fronteggiare i fenomeni dell´economia globale, sarà il primo ad esser colpito sia nelle aziende private che nelle amministrazioni pubbliche. Nei prossimi mesi, ma già fin d´ora, decine di migliaia di lavoratori precari saranno licenziati senza disporre di alcuna tutela sociale.
L´intera gamma degli ammortizzatori sociali è inconsistente. La cassa integrazione non è estesa a tutti, non esiste un salario sociale minimo, il sussidio di disoccupazione è insufficiente e di breve durata, i corsi di formazione sono tuttora nella fase preliminare, privi di sostegno finanziario adeguato.
Nel frattempo la trattativa sul nuovo schema di contratto del lavoro è stata scavalcata dalla crisi recessiva in corso. Quando il negoziato tra le parti sociali ebbe inizio la crisi non era ancora scoppiata e tutti credevano di vivere nel migliore dei mondi possibili. Di qui la lunga discussione tra le parti sociali sui contratti di primo e secondo livello, quello nazionale e quelli aziendali agganciati alla produttività.
La Cgil, tra i tre sindacati confederali, era la meno entusiasta dell´idea di spostare l´asse contrattuale dalla sede nazionale a quella locale; tuttavia accettò l´aggancio alla produttività di settore e di azienda che avrebbe dato maggiore flessibilità al mercato del lavoro.
Nelle condizioni in cui ora ci troviamo, tuttavia, questa discussione è completamente fuori dalla realtà. Con la caduta della domanda e degli investimenti, con la restrizione del credito che sta soffocando il sistema delle imprese e in particolare delle più piccole, con l´aumento della disoccupazione, gli incrementi di produttività sono una giaculatoria puramente verbale, un´icona culturalmente valida ma concretamente inesistente.
Le cose reali, le rivendicazioni da mettere in campo, riguardano il sostegno e i redditi, l´espansione del credito, un sistema di ammortizzatori sociali efficace. In sostanza il rilancio della domanda, dei consumi e della produzione.
Tremonti sa benissimo che di questo si tratta ma ancora ieri ha ribadito che questa politica non si può fare aumentando il deficit e il debito. Ha perfettamente ragione. Si fa infatti riprendendo vigorosamente la lotta all´evasione che è stata di fatto abbandonata, tassando le rendite e i redditi più elevati.
Questa è la ricetta che Barack Obama si appresta a mettere in pratica non appena sarà insediato alla Casa Bianca. Del resto non c´è altra via: coi tempi che corrono la redistribuzione fiscale è lo strumento principale per rilanciare la crescita senza aumentare un debito già enorme.
I miliardi della Cassa depositi e prestiti sui quali il ministro dell´Economia fa tanto affidamento possono essere utilizzati per finanziare le infrastrutture (promesse nel 2001 con il famoso "contratto con gli italiani" stipulato in televisione da Berlusconi e completamente inevaso per tutta la legislatura) ma non possono certo essere usati per sostenere il reddito.
* * *
Una politica così configurata, che è la sola possibile per uscire dalla tempesta della crisi, dovrebbe vedere unite tutte le organizzazioni sindacali e tutti i lavoratori. Accade viceversa che proprio in questo delicatissimo momento di svolta esse si dividano e la loro unità d´azione si spacchi clamorosamente. Questi fatti, oltreché incomprensibili, rendono assai difficile l´adozione della sola politica economica di crescita disponibile per un paese con un debito schiacciante.
L´opposizione reclama da tempo questa politica ma i rapporti di forza parlamentari sono quelli che sono. Diverso è il peso delle organizzazioni sindacali anche se non ha più la forza di un tempo. Il momento di gettarlo sul piatto della bilancia è questo. Il tentativo di convincere Berlusconi, Tremonti, Marcegaglia a tassare i ricchissimi patrimoni e le rendite per rilanciare il motore della crescita è pura illusione. Non è quella la loro strategia e non è quella l´alleanza sociale che li sostiene. Siamo dunque arrivati, dopo sei mesi di legislatura, al punto della svolta.
* * *
Gran parte degli osservatori, in Europa come in America, sostengono che il vento della crisi mondiale ha rimesso in sella il potere politico rispetto al mercato, i governi rispetto al "business", l´interventismo pubblico rispetto al liberismo.
C´è una buona parte di verità in questa diagnosi, ma non tutta la verità. Certamente il liberismo e il pensiero unico che ad esso si ispira sono in netta ritirata. Tuttavia è un fatto che per uscire dalla tempesta serve soprattutto un atto di fiducia. Senza un ritorno della fiducia l´economia mondiale precipiterà da una recessione temporanea in una lunga e devastante depressione.
Chi sono i destinatari della fiducia? I governi e le istituzioni nazionali e internazionali. E la fiducia da dove viene? Dalla società. Dagli individui, dalle famiglie, dai ceti, dai lavoratori-consumatori-contribuenti-risparmiatori che la compongono.
Queste enormi masse di persone sono prevalentemente animate da preoccupazioni economiche, però non soltanto da esse. Su un fondale di bisogni inappagati e di paure del futuro non dissipate si stagliano anche convinzioni profonde di carattere morale, di giustizia, di riconoscimento.
La politica è tornata in sella là dove la società si riconosce in essa. Bush era un´anatra zoppa già molto prima della campagna elettorale di Obama. Del resto Obama è sceso in guerra contro l´establishment del suo partito e McCain ha fatto altrettanto. Dopo le elezioni del 4 novembre la società americana ha determinato una nuova politica e nuove rappresentanze. La società ha espugnato il castello politico e vi ha issato una nuova bandiera.
In Italia il castello della politica berlusconiana era fino a un mese fa fortissimo. Ora è meno forte perché una parte della società si sente disconosciuta e ferita. Non più rappresentata. Questo è il fatto nuovo: una parte crescente della società è ferita per mancanza di futuro. I giovani studenti, i giovani precari, le donne, i lavoratori dipendenti, le imprese del Nordest, il Mezzogiorno non mafioso, le imprese schiacciate dal racket, i moderati che sognano il buon governo, i cattolici cristiani che non si riconoscono nella gerarchia papalina: queste minoranze si stanno cercando tra loro nel momento stesso in cui si distaccano dal castello politico berlusconiano.
Siamo appena ai primi segnali, ma sotto la spinta della crisi i mutamenti e gli smottamenti possono procedere con estrema rapidità. In una direzione o nell´altra. Ricementando il castello politico o smantellandolo.
Siamo ad una svolta di alto rischio dove la partita richiede lucidità e coraggio. Soprattutto coraggio. Bisogna dimenticare le proprie botteghe se si vuole l´assalto al futuro impedendo che ci venga confiscato.

Repubblica 16.11.08
Manganelli: spiegherò cosa avvenne al G8: "Pronto a farlo nelle sedi istituzionali"
Il coraggio della verità
Sarebbe desolante se ora la disponibilità del Capo della Polizia a ricostruire quei fatti non venisse raccolta
di Giuseppe D'Avanzo


Il capo della polizia Antonio Manganelli non si volta dall´altra parte. Non chiude gli occhi. Non sceglie un comodo silenzio. Decide di guardare in faccia la realtà e la realtà è che i pestaggi della Diaz ? come le torture di Bolzaneto ? sono una frattura tra lo Stato e la società, tra le forze dell´ordine e una giovane generazione.

Una macchia nella storia dell´istituzione che governa. È un´ombra incancellabile. Manganelli sembra saperlo, ma dichiara la sua disponibilità a collaborare «senza alcuna riserva» per ricostruire quella "pagina nera" nella convinzione che un´opera di verità possa, per lo meno, evitare che le violenze poliziesche si ripetano in un futuro.
Come è naturale, il capo della polizia non accetta che la sua istituzione possa essere soltanto sospettata di infedeltà costituzionale. Con orgoglio e consapevole dignità, ricorda il quotidiano sacrificio di migliaia di uomini in divisa che fanno il loro lavoro («sottopagato») al servizio della sicurezza dei cittadini. E tuttavia Manganelli ha il coraggio di dire quel che, nelle ore seguite alla pessima sentenza di Genova, nessuno nell´establishment ha accettato anche soltanto di ipotizzare: quel che «realmente accadde a Genova» deve essere ancora esplorato, ricostruito, raccontato. La verità di quei giorni di violenza non può essere rinchiusa in un´aula giudiziaria; spenta nella rete delle responsabilità personali e delle sanzioni penali che guidano un processo; soffocata dalle timidezze della magistratura o annullato dai difetti dei codici. Manganelli rivela quel che, per quanto nella sua disponibilità, ha messo su per migliorare («correggere») il lavoro di strada dei Reparti Mobile, della Celere, affidati a «persone pulite». In ogni caso, il capo della polizia si assume fin da ora «la responsabilità per gli errori che i suoi uomini possono commettere». Già è accaduto che, dopo «l´avventatezza» omicida di un agente della Stradale, Manganelli si sia assunto la responsabilità della morte di Gabriele Sandri, ucciso un anno fa da un colpo di pistola nell´area di servizio di Badia al Pino Est dell´A1. Uno stile assai diverso dal suo subordinato Vincenzo Canterini, comandante nel 2001 della Celere di Roma e del VII nucleo antisommossa (i picchiatori della Diaz): un ufficiale che, dopo avere gettato il sasso (un´arrogante lettera di velate minacce, di richiami all´omertà di gruppo, di propositi di vendetta), nasconde ora la mano.
Quel che più conta nella lettera di Manganelli sono un paio di righe: «? il Paese ha bisogno di spiegazioni su quel che accadde a Genova e l´istituzione, attraverso di me, si muove e muoverà senza alcuna riserva, non attraverso proclami stampa, ma nelle sedi istituzionali e costituzionali».
Ora toccherebbe alla politica, al parlamento inaugurare, se non ci sono, quei luoghi istituzionali dove rendere concreta la possibilità di ricostruire ? al di là dell´accertamento penale (o nonostante i suoi mediocri esiti) ? quel che è accaduto a Genova; come, con la responsabilità di chi, perché si sia aperto nei giorni del G8 un "vuoto di diritto" che ha inghiottito ogni garanzia costituzionale e consegnato la nuda vita delle persone a una violenza arbitraria e indiscriminata.
Dovrebbe essere la politica a battere ora un colpo, ma la scena che si scorge è avvilente. L´opposizione parlamentare appare afona e quando trova la voce, come con Antonio Di Pietro, è soltanto contraddittoria senza imbarazzi (l´Italia dei Valori bocciò la nascita della commissione parlamentare d´inchiesta che oggi pretende). La maggioranza mostra un volto prepotente fino all´insolenza. Maurizio Gasparri rifiuta ogni ipotesi di commissione d´inchiesta: «Non la voteremo mai. La maggioranza non ha alcuna intenzione di permettere una speculazione in Parlamento ai danni delle forze dell´ordine». Il presidente dei senatori della destra non si accontenta di sbattere la porta. Dimentico dei 93 arresti abusivi, delle prove artefatte, dei verbali truccati, degli 82 feriti, dei tre disgraziati in fin di vita, si dice convinto dell´innocenza di Canterini e del VII Nucleo antisommossa (per il tribunale di Genova sono i picchiatori della Diaz). Sarebbe davvero desolante, oltre che politicamente grave per la qualità della nostra democrazia, se la disponibilità del capo della polizia non venisse raccolta; se l´opportunità di ricostruire "i fatti di Genova" non trovasse alcun luogo istituzionale per essere acciuffata nell´interesse di una riconciliazione tra le forze dell´ordine e una generazione. Quale reticenza, quale viltà, quale convenienza potrebbe giustificarlo?

Repubblica 16.11.08
La nazione meticcia così gli immigrati ci cambieranno
di Massimo Livi Bacci


Ci sono prerogative naturali proprie di ciascun individuo che esistono da che mondo è mondo. Spostarsi, scegliere un partner, riprodursi. Spostarsi in cerca di contesti di vita più convenienti: habitat, clima, cibo, relazioni. La scelta del partner e la riproduzione, per vivere e trasmettere la vita. Prerogative che le società hanno condizionato in vario modo, imponendo regole e comportamenti, ma che non possono essere negate o costrette se non alterando i principi naturali della convivenza. Da queste originano le migrazioni e le unioni "miste" tra persone portatrici di caratteristiche diverse, che generano figli nei quali questi tratti confluiscono e si mischiano.
L´umanità si è formata, plasmata, sparsa e articolata sul pianeta, per la forza di questi processi, ora vorticosi, ora più lenti. Ma quanto "diverse" debbono essere le caratteristiche dei partner perché si abbia una mescolanza, un´ibridazione? Questa diversità è senza dubbio una "distanza" fisica (colore della pelle, degli occhi, dei capelli, statura, altre caratteristiche somatiche) ma è anche una "distanza" culturale e sociale (lingua, religione, nazione) che cambia nel tempo e nella storia. Distanze incolmabili in un´epoca si accorciano in un´altra, e viceversa. Così il grado di mescolanza di una società è difficile da definirsi perché il metro che la misura cambia nel tempo.
Siamo ancora lontani dalle cifre degli Stati Uniti, dove tra una generazione la somma delle minoranze sarà la maggioranza della popolazione. Ma anche da noi - oggi è tra coppie miste un matrimonio su dieci e da coppie miste una nascita su otto - una parte importante del futuro si costruirà sui bambini "extraitaliani"
Si usa contrapporre un´America molto mescolata a un´Europa, e un´Italia, assai più omogenee. L´elezione di Barack Obama rappresenta il pretesto mediatico per contrapporre due civiltà, una dinamica e mescolata, l´altra più stagnante e rinchiusa: ma questa rappresentazione rischia di sconfinare in un biologismo deteriore. Tutta l´America - dall´Alaska alla Patagonia, composta da società dinamiche e società stagnanti - è il risultato di un gigantesco processo di mescolanza iniziato con il tremendo shock della Conquista, con la catastrofe degli indios, con il trasporto forzato di dieci milioni di schiavi africani, con l´immigrazione degli europei, con le mescolanze (spesso forzate) tra padroni e schiavi. Negli Stati Uniti questo processo di ibridazione ha avuto un´accelerazione nell´ultimo mezzo secolo, con la rottura della segregazione dei neri e la nuova immigrazione di ispanici e asiatici: minorities numeriche che tra una generazione diventeranno majority secondo le valutazioni recentissime del Bureau of the Census.
In Europa questi processi hanno avuto una storia assai diversa. Prima dell´età moderna l´Europa è un continente aperto che riceve ondate di immigrazione per la via d´accesso del Mediterraneo e attraverso le steppe tra gli Urali e il Mar Caspio, la grande porta orientale. A partire dalle grandi esplorazioni atlantiche, l´Europa cessa di essere meta di immigrazioni e diventa prevalentemente esportatrice di donne e di uomini. Fin verso la metà del secolo scorso, i non rari tratti mongolici tra i nostri compatrioti non erano dovuti a mescolanze recenti, ma alle unioni illegittime di mercanti e signori, veneziani, fiorentini o genovesi, con schiave tratte dall´Oriente. Il fondamentale atlante antropometrico di Ridolfo Livi (pubblicato nel 1896), basato sulle caratteristiche dei coscritti rilevati alla visita di leva, mostrava inequivocabilmente la permanenza di caratteristiche somatiche (occhi chiari, capelli biondi) derivate dall´immigrazione normanna in alcune aree isolate del Sud. Tuttavia, fino alla metà del secolo scorso - prima che la decolonizzazione riportasse in Europa africani, berberi e arabi, assieme ad antillani, indiani o indocinesi - il nostro continente e l´Italia avevano conservato il loro patrimonio umano quasi intatto da influenze extraeuropee, che millenni di immigrazioni e mescolanze avevano contribuito a formare prima dell´età moderna.
Negli ultimi cinquanta anni il corso della storia è cambiato nuovamente. Dopo mezzo millennio, l´Europa ha cessato di esportare risorse umane e ha iniziato a importarne. Consistenti flussi di immigrazione sono affluiti prima dalle ex colonie, poi dalle più varie provenienze man mano che la globalizzazione si è rafforzata. Nel mezzo miliardo di persone che conta l´Unione Europea, gli stranieri non europei sono un numero imprecisato, tra i venti e i venticinque milioni. In Italia gli stranieri superano abbondantemente i quattro milioni, contando anche la numerosa comunità rumena. Si tratta di una collettività in forte crescita (anche se la crisi ne rallenterà temporaneamente il ritmo) per ragioni demografiche ed economiche, che determinerà una nuova fase di mescolanza e ibridazione della nostra popolazione.
Si tratta di un processo complesso, nel quale si debbono distinguere due modalità nettamente diverse. La prima, la più visibile e immediata, consiste nel formarsi e nel crescere delle varie comunità legate dall´origine nazionale, dalla religione, dalla lingua: rumena, marocchina, cinese, albanese, filippina o ecuadoriana. Queste comunità potrebbero perdere gradualmente la loro caratteristica nazionale con il conseguimento della cittadinanza italiana. È un processo non agevole date le regole nel nostro sistema giuridico, ma destinato ad accelerare con l´aumento delle nascite da cittadini stranieri, e soprattutto qualora lo jus soli sostituisse lo jus sanguinis. Tuttavia queste comunità potrebbero restare nettamente separate e "segregate" di fatto, qualora rimanessero strettamente endogamiche. Come è avvenuto negli Stati Uniti, per gli afro-americani, fino a tempi recenti. Oppure per le comunità degli Amish e degli Hutteriti, gruppi riformati emigrati dall´Europa centrale, e rimasti chiusi ed autonomi per secoli.
Tuttavia è dubbio che nel contesto delle società occidentali queste separazioni e distanze possano durare a lungo, senza essere gradualmente erose dalla contiguità, da una vita sociale comune nelle scuole, nei luoghi di lavoro, di culto, di svago. È però vero che la velocità con cui questi processi di mescolanza reale avverranno - l´indice più rappresentativo è la frequenza dei matrimoni misti - sarà determinato dal vigore delle politiche d´integrazione. Le mescolanze saranno tanto più frequenti quanto più verrà perseguita una politica di insediamento abitativo diffuso e non segregato. Se si rafforzeranno le esperienze educative comuni. Se verrà favorita l´ascesa sociale delle seconde generazioni di immigrati e si combatterà il formarsi di una classe subalterna. Se si opererà in modo che le disuguaglianze tra gruppi immigrati e autoctoni si indeboliscano. Nel 2004 i matrimoni misti (per nazionalità, tra italiani e stranieri) furono il nove per cento del totale (per i quattro quinti si tratta di uomini italiani che sposano una donna straniera), tuttavia quasi due terzi degli sposi e spose stranieri erano europei, appena il cinque per cento asiatici, il dodici per cento africani (in prevalenza Nord Africa) e un residuo venti per cento americani del centro e del sud del continente. Sui loro figli - una nascita su otto proviene da coppie miste - si costruirà una parte importante del nostro futuro.

Repubblica 16.11.08
Nella storia di Obama il vigore degli ibridi
di Luca e Francesco Cavalli-Sforza


Oggi sappiamo che la divisione degli uomini in "razze" non è giustificata e che la "purezza genetica" nella realtà non esiste. Ma sappiamo anche che sull´incontro tra "diversi" si fonda la forza della vita e della cultura e sono state modellate le più grandi civiltà

Ciò che ci dà più speranza nell´elezione di Barack Obama è che questo grande Paese, che più di mezzo secolo fa ci ha liberato da Hitler, sia anche riuscito a cancellare una delle sue vergogne più gravi: il secolare sfruttamento e disprezzo dei neri. Solo quarant´anni fa negli Stati Uniti la legge ha riconosciuto e imposto la parità di diritti civili. Da noi è prevista dalla Costituzione: eppure, lo immaginate qui un presidente di origine senegalese o keniota, pronipote di uno schiavo?
Resta naturalmente il terribile pericolo che uno dei tanti matti sfrutti un´altra debolezza del sistema americano: l´antica quanto ferrea convinzione dei pionieri che il cittadino debba essere libero di procurarsi qualunque arma ritenga necessaria. La sopravvivenza di questo costume, che mantiene pazzescamente elevata la frequenza di omicidi negli Usa, ha dato occasione a diversi maniaci di uccidere, nel secolo scorso, politici e militanti molto simili a Obama per colore, progetto politico e fascino.
Questa elezione porta anche a riflettere su un fatto importante: Obama è un "ibrido", è cioè il risultato di un incrocio fra due "razze" diverse, un meticcio. Fra gli aristocratici, quando la nobiltà era "di sangue", si diceva anche "bastardo", parola poi diventata un insulto generico.
Oggi sappiamo che la divisione della specie umana in razze non è giustificata. La prova più semplice è che chi vuole farlo non riesce a mettersi d´accordo: le classificazioni vanno da due a trecento razze. Darwin lo aveva già notato, e ne aveva indicato il motivo: la variazione che si osserva da una "razza" all´altra è praticamente continua, oltre che molto piccola. Questo non è vero per gli animali e le piante domestiche, in cui l´identità e la "purezza" genetica di una linea prodotta artificialmente hanno anche, spesso a ragione, un valore economico. Proprio in campo applicato, però, si è scoperto quasi un secolo fa che l´ibrido, anziché soffrire di uno svantaggio, ha maggiore vitalità e valore economico rispetto alle "linee pure" o "razze pure" che sono state incrociate per produrlo.
La "purezza genetica" nella realtà non esiste, con eccezioni molto speciali. Se con "purezza" si intendono individui tutti geneticamente identici fra loro, la si può produrre a volontà solo in specie capaci di riprodursi per via asessuata, come è vero di molte piante e di qualche animale, ma non dell´Uomo, dove solo i gemelli identici sono geneticamente uguali: per il resto, la diversità genetica fra individui di una stessa popolazione, qualunque essa sia, è molto più grande di quella fra due qualsiasi popolazioni del mondo.
Il "vigore degli ibridi", come è chiamato, si nota in varia misura per molti caratteri studiati. La prima specie in cui lo si è scoperto è stato il granoturco: quello che si coltiva oggi è praticamente tutto ibrido. Il contadino è costretto a comprare ogni anno il seme e non può tenerlo da parte da un anno all´altro, ma ne ha chiaramente la convenienza. La pratica di produrre ibridi per uso commerciale è stata poi estesa a parecchie altre piante ed animali.
E nell´Uomo? In passato, il "divino" sangue reale non si doveva diluire: la pratica di sposarsi fra regnanti imparentati diffuse nelle famiglie reali europee alcune malattie ereditarie, come l´emofilia. Nell´antico Egitto e in altri reami vicini si affermò in più dinastie, nella speranza di perpetuare caratteri desiderabili, l´usanza di sposare fratello e sorella. È una pratica che provoca un´elevata incidenza di malattie ereditarie tra i figli, un aumento della mortalità e una diminuzione di fecondità che alla fine estinguono la "linea pura" che si formerebbe continuando così per parecchie generazioni. Non sorprendentemente, queste dinastie non durarono a lungo.
Oggi in più parti del mondo il matrimonio fra parenti molto stretti non è ammesso; però in altre, non meno numerose, le unioni fra consanguinei (anche cugini primi) raggiungono il cinquanta per cento di tutti i matrimoni. Anche questo diminuisce la fecondità e aumenta la mortalità, ma in misura assai più modesta. Qui però la vera ragione non è il desiderio di aumentare la purezza genetica, ma quello di non disperdere il capitale di famiglia.
È molto probabile che il "vigore degli ibridi" valga anche per l´uomo, almeno sul piano genetico. Il meticcio può avere uno svantaggio sociale, se il suo ibridismo viene riconosciuto, e quello fra popolazioni che provengono da continenti lontani è difficile da nascondere. Soprattutto là dove l´immigrazione da paesi distanti è rara, i tipi fisici insoliti si notano di più, e l´individuo "diverso" all´aspetto può colpire sfavorevolmente chi non vi è abituato. Ne nasce diffidenza, se non timore, dettato dall´ignoranza o da pregiudizi fuorvianti su quel che ci si può attendere da una persona superficialmente un po´ "diversa" da noi.
Un´ipotesi difficile da controllare, ma interessante da tenere presente, è che l´eccellenza intellettuale e spirituale dimostrata da Obama nella sua lunga e combattuta campagna presidenziale possa essere dovuta a "vigore degli ibridi". Non è il primo caso di uomo politico, meticcio di origine, eccezionalmente dotato. Martin Luther King è un esempio molto simile. Nelson Mandela, cui si deve una svolta storica in Africa del Sud, è un ibrido fra due "razze" africane parecchio diverse, entrambe nere, che entrambe godono di poca stima fra i razzisti (anche quelli africani, che pure sono numerosi). In Sud Africa vi sono due sole popolazioni antichissime, lì stanziate da decine di migliaia di anni: i Boscimani e gli Ottentotti (i loro veri nomi sono San e Khoi-Khoi). Mandela dev´essere per metà circa di origine ottentotta, e per il resto bantù, una popolazione che giunse in Sud Africa molto tardi,al termine di una lunga espansione, poche centinaia di anni fa.
Il vigore degli ibridi è dovuto a un fenomeno genetico chiamato "vantaggio degli eterozigoti": un´espressione tecnica che ha lo stesso significato, ma riferito alle singole unità di dna. Per comprendere di cosa si tratta risaliamo a Mendel, lo scopritore delle leggi dell´eredità biologica (1865), che eseguì decine di migliaia di incroci tra "linee pure" di piselli, studiando separatamente caratteri ben visibili e costanti, che non mostravano variazione tra individui della stessa linea, per esempio il colore e la forma dei semi o dei fiori, l´altezza del fusto e così via. Vide che nell´incrocio fra linee diverse compare nella prima generazione di solito soltanto il carattere di uno dei due genitori, per cui tutti gli ibridi di prima generazione sono eguali fra loro e eguali a uno solo dei due genitori. Cioè, se uno dei genitori ha fusto alto e l´altro ha fusto nano, tutti gli ibridi hanno fusto alto, ma il carattere fusto nano non è affatto scomparso e ricompare in proporzioni precise nei successivi discendenti, mostrando chiaramente che entrambi i genitori danno sempre un pari contributo ereditario ai figli.
Oggi chiamiamo dna il patrimonio ereditario, e sappiamo che è molto ricco nell´Uomo: ogni genitore contribuisce circa 3,3 miliardi di unità di dna, dette nucleotidi. I caratteri del tipo studiato da Mendel sono di solito prodotti da differenze, fra i due genitori dell´ibrido, in uno solo dei nucleotidi. Il carattere che Mendel chiamò "dominante" perché compare negli ibridi della prima generazione (il fusto alto rispetto a quello nano, per esempio) è sovente più utile all´organismo di quello dominato (che i genetisti chiamano "recessivo", cioè "che si nasconde").
Nella nostra specie, al livello che osserviamo nella vita quotidiana, la fisionomia esterna dell´individuo e parecchi aspetti del suo carattere sono almeno in parte controllati dal dna. In un ibrido fra individui di popolazioni molto lontane il dna dei genitori mostrerà un maggior numero di differenze tra i dna che riceve da padre e madre, rispetto a un individuo i cui genitori sono nati in luoghi vicini. Questo può donare un vantaggio all´ibrido, portando più corde al suo arco: per esempio, una migliore resistenza a un maggior numero di malattie, perché la dominanza fa sì che non sia necessario ricevere da entrambi i genitori il tipo di nucleotide che ci protegge contro una certa malattia, infettiva o meno. Basta riceverlo da uno dei due. Lo stesso ragionamento si può applicare a numerose altre caratteristiche ereditarie, anche di comportamento, compresa la capacità di imparare. L´ibrido può avere insomma un maggior numero di doti, per esempio può essere più adattabile a condizioni ambientali diverse ed eccellere in più capacità.
I politici hanno particolare bisogno di saper lavorare in molte diverse direzioni, data la complessità del loro compito, che richiede di essere buoni oratori, diplomatici, capaci di rispondere rapidamente in situazioni difficili e a persone difficili, di saper analizzare e valutare con buonsenso problemi complessi in campi molto diversi. All´opposto invece un artista, un letterato, un matematico, un musicista, un ingegnere, un industriale hanno bisogno di doti ben sviluppate in una o poche direzioni altamente specializzate.
Ai vantaggi genetici dell´ibrido Obama se ne devono aggiungere anche altri, non genetici, che però hanno un effetto simile: il vantaggio di essere cresciuto in più culture, in ambienti sociali e geografici lontani fra loro - Hawaii, Indonesia, Stati Uniti - ricevendone esperienze e insegnamenti assai diversi. Di avere conosciuto le vite dei neri, dei bianchi, dei meticci, dei ricchi e dei poveri. La sua condizione di ibrido potrebbe forse renderlo più capace della media di ascoltare voci disparate e di parlare a tutti, come la campagna elettorale ha dimostrato. Di avere la visione di un bene comune, fatto di lavoro, istruzione, democrazia e dignità per tutti. A differenza, in questo, da quei politici bianchi, spesso cresciuti nelle migliori università e nei circoli del potere, che non vedono al di là di ciò che occorre dire a coloro da cui sperano il voto.
È forte la tentazione di ipotizzare che il vigore degli ibridi e la varietà delle sue esperienze abbiano contribuito allo sviluppo intellettuale e morale di Obama. Se la diversità è la forza della vita, e il vigore degli ibridi deriva dall´incontro di stirpi diverse, la diversità è anche la forza della cultura e è stata l´humus delle maggiori civiltà. Le sfide che attendono il nuovo presidente degli Stati Uniti sono immani: è incoraggiante pensare che le sue origini e la sua storia lo abbiano attrezzato per affrontarle.

Corriere della Sera 16.11.08
Malasanità Proposta Pdl: troppe denunce, è meglio depenalizzare
L'errore medico non sarà più reato
di Margherita de Bac


ROMA — Sarà più difficile per i pazienti citare i medici in giudizio. Una proposta di legge appena depositata (primi firmatari Iole Santelli e Giuseppe Palumbo) prevede di depenalizzare lo sbaglio medico che non nasca da imperizia e negligenza, che continueranno a essere punite penalmente. Per gli altri errori si farà la causa civile.
Al termine delle battaglie giudiziarie nove casi su dieci si concludono con l'assoluzione

ROMA — Destino inesorabile per otto su dieci. Denunciati e trascinati in tribunale per sospetta malpractice. Accusati di aver sbagliato. Un rischio che i chirurghi devono mettere in preventivo e dal quale cercano di difendersi con tutte le armi. Ricorrendo ad esempio alla cosiddetta medicina difensiva, cioè prescrivendo al paziente cure, ricoveri, esami che in cuor loro ritengono superflui ma che risulterebbero solidi scudi in caso di processo.
Ogni anno il sistema sanitario pubblico sborsa tra 12 e 20 miliardi per analisi di tipo precauzionale. Una proposta di legge appena depositata ha l'obiettivo di alleggerire «il disagio di fronte alla crescita prepotente del contenzioso medico legale e alla richiesta di risarcimento a tutti i costi ». Un progetto di depenalizzazione dell'errore medico annunciato già a giugno dal sottosegretario al Welfare Fazio, e auspicato dalle categorie dei camici bianchi, chiamati da famiglie e pazienti a sostenere battaglie giudiziarie infinite che in quasi 9 casi su 10 si concludono con l'assoluzione. Primi firmatari Iole Santelli (vicepresidente commissione Affari Costituzionali) e Giuseppe Palumbo (presidente Affari sociali), entrambi Pdl, il provvedimento introduce nel codice penale e civile una serie di aggiunte e nuovi articoli che definiscono la colpa professionale legata ad un atto medico e chiariscono i meccanismi del nesso di causalità. «Ora la giurisprudenza non dà margini di certezza, i tribunali decidono in modo discrezionale, non c'è uniformità e i cittadini possono fare causa contro tutti e tutto», spiega la Santelli. «Un conto sono imperizia e negligenza che continueranno ad essere punite e resteranno nell'ambito penale — aggiunge Palumbo —. Un altro sono gli errori che non derivano da omissioni o superficialità tecnico scientifica. E allora la causa è civile». Insomma, sarà meno automatico per i cittadini citare il dottore in giudizio. La legge si affianca a quella già in discussione al Senato, avviata da Antonio Tomassini. Obiettivi «modesti», si spiega nella premessa: «Alleggerire la pressione psicologica sul medico e l'animo a volte vendicativo del paziente nei confronti dei sanitari, accelerare la soluzione delle vertenze giudiziarie».
Particolare importanza viene attribuita alle caratteristiche dei periti, al ruolo delle assicurazioni e al consenso informato. Un anno di carcere per chi «sottopone una persona contro la sua volontà a un trattamento arbitrario». «Siamo il Paese col maggior numero di denunce contro la categoria, assieme al Messico — lamenta Rocco Bellantone, segretario della società italiana di chirurgia —. Solo in Italia i reati medici vengono puniti penalmente, altrove si dà per scontato che chi opera o prescrive una cura non ha un atteggiamento lesivo. Quando sbagliamo siamo accomunati a chi commette un omicidio in stato di ubriachezza». Tra gli specialisti più tartassati, i ginecologi-ostetrici, su cui pesa la doppia responsabilità di mamma e bambino. Tra le contestazioni più frequenti, il ritardato cesareo.

Corriere della Sera 16.11.08
Scontro Londra-Israele sui prodotti dei coloni
Gli inglesi vogliono etichettarli come «illegali»
E' già pronta una campagna pubblicitaria simile a quella contro l'apartheid del Sudafrica bianco
di Francesco Battistini


GERUSALEMME — Barzelletta del mercato: «Le olive più economiche le trovi il venerdì pomeriggio a Mahane Yehuda, alle bancarelle degli ebrei; le più buone, il sabato mattina alla Porta di Damasco, alle bancarelle degli arabi; le più ammaccate, tutto l'anno nei supermarket di mezza Europa». Ammaccate. Perché sono le olive dei Territori. Raccolte a suon di botte fra coloni israeliani e contadini palestinesi. I primi impegnati da settimane, e senza complimenti, a impedire il lavoro dei secondi. Queste olive, come gran parte della frutta e della verdura della Cisgiordania, sono fra le poche fonti di guadagno dei palestinesi. Da anni, finiscono sui banconi inglesi, tedeschi, francesi con l'etichetta «prodotto nella West Bank» e l'indicazione della località. Ora qualcuno, nello specifico il governo di Londra, pensa che l'etichetta non basti più. E quelle ammaccature vadano spiegate meglio, distinguendo i «veri » prodotti palestinesi da quelli degl'insediamenti israeliani. E in quest'ultimo caso, informare i consumatori con scritte politicamente più corrette. Tipo: «Attenzione, il prodotto viene da territori occupati illegalmente da Israele ».
C'è poco da ridere. La guerra delle olive e delle etichette sta inacidendo i rapporti fra governi. Qualche giorno fa Tzipi Livni, la ministra degli Esteri, ha chiesto chiarimenti, perché l'idea di marcare l'ortofrutta degli insediamenti avrebbe incontrato il favore del premier in persona, Gordon Brown, e a Londra si sta studiando una legge con le ong, le associazioni dei commercianti e dei consumatori, tutti d'accordo nel boicottare i prodotti «made in the settlements». E' già pronta una campagna pubblicitaria, simile a quella contro l'apartheid, quando l'opinione pubblica inglese veniva diffidata dall'acquistare esportazioni del Sudafrica bianco. «L'iniziativa è un serio e concreto problema nelle relazioni fra i due Paesi — dice un diplomatico israeliano a Haaretz — e può determinare anche una crisi».
Ron Prosor, ambasciatore negli Stati Uniti, ha approfittato d'un incontro col ministro degli Esteri inglese, David Miliband, per protestare: etichettare in quel modo la produzione agricola dei coloni equivale a un boicottaggio contro Israele e un tentativo d'influenzarne la politica. «Per ora siamo solo a una proposta della sinistra inglese — si giustifica una fonte diplomatica britannica — ed è comunque una misura di maggiore trasparenza che può tornare utile anche al governo israeliano». La posizione di Downing Street è precisa: l'Onu e la Ue hanno stabilito che gli insediamenti sono illegali, le importazioni da Israele godono dal 2000 di dazii privilegiati, ergo i nostri consumatori non possono accettare che i loro soldi vadano a legittimare l'occupazione dei Territori.
L'etichetta sarebbe qualcosa di più d'un regime fiscale differenziato. «E perché non hanno mai messo quella scritta sulle importazioni da tutti i Paesi che non rispettano le risoluzioni Onu?», protestano i diplomatici israeliani: «E' stato Ehud Olmert, nel 2005 ministro del Commercio, a introdurre sui prodotti dalla Cisgiordania l'obbligo d'indicare città, villaggio, zona industriale».
Non basta, replicano gli inglesi: la semplice scritta «prodotto a Masua» o a Netiv Hagdid non spiega con esattezza che quella verdura, quel frutto vengono da un insediamento illegale. E Londra, come gran parte della comunità internazionale, è convinta che non si stia facendo più nulla per smantellare le colonie, nonostante Shimon Peres abbia condannato la settimana scorsa le aggressioni ai palestinesi nella raccolta delle olive e il governo israeliano, due settimane fa, abbia minacciato la mano pesante coi coloni. «Abbiamo sopportato la guerra delle rose, non ci spaventa quella degli ortaggi », è l'ironia british.
Anche perché le olive sono solo l'antipasto. Altre, le questioni aperte fra i due Paesi: dalle pesanti accuse di crimini di guerra al ministro Shaul Mofaz, rimbalzate qualche mese fa, al discusso ruolo di Tony Blair inviato nel Medio Oriente. Pochi giorni, e Miliband arriva a Gerusalemme. Tzipi l'aspetta. Spremi spremi, qualcosa uscirà.

Corriere della Sera 16.11.08
La Binetti: «Conciliare il valore della vita e della libertà»
Babele del testamento biologico Sei progetti diversi solo nel Pd
Creato un «comitato ristretto», ma le divisioni restano
di Andrea Garibaldi


Sul testamento biologico in Senato giacciono dieci proposte di legge: oltre alle sei Pd ci sono le tre del Pdl e una della Lega
ROMA — Da quarantott'ore si leva un coro, da destra e da sinistra: subito una legge sul testamento biologico, la possibilità di scrivere a quali cure si voglia essere sottoposti, anche in caso di incoscienza. Ma dire «ci vuole una legge» non significa nulla. Quale legge? In realtà nel Partito democratico esiste — non è una novità — un profondo contrasto fra l'anima laica e quella cattolica. E nel centrodestra c'è la tentazione di votare la legge a maggioranza, con l'appoggio — appunto — di una parte di Pd e dell'Udc.
In commissione Sanità, al Senato, giacciono dieci proposte, sei del Pd (una dei radicali), tre del Popolo della libertà e una della Lega. Mai questa materia è approdata alla discussione in aula, ma nel 2005 un testo fu votato all'unanimità in commissione al Senato. Diceva che «ogni trattamento sanitario è subordinato all'esplicito ed espresso consenso dell'interessato». Ma cos'è e cosa non è «trattamento sanitario »? Oggi il contrasto è proprio qui.
Il nodo è: «Idratazione e alimentazione ». Indirettamente nelle proposte degli illustri medici del Pd, Marino e Veronesi, ed esplicitamente nella proposta radicale, bere e mangiare sono considerati trattamenti sanitari, ove avvengano con ausili esterni. La legge di Ignazio Marino (credente, ma laico) lascia piena libertà al malato, o al suo fiduciario, di decidere se utilizzare ogni risorsa della scienza, oppure no. Nella proposta Baio Dossi (uguale a quella di Paola Binetti alla Camera) invece «idratazione e nutrizione sono sempre e comunque garantite al paziente». E questo ultimo concetto si ritrova nelle proposte Pdl. Quella del presidente della commissione, Tomassini, dice: «Idratazione e alimentazione parentale non sono assimilate all'accanimento terapeutico ». Difficile conciliare, quindi come andrà a finire? «Se non ci sarà accordo — dice Tomassini — la legge passerà a maggioranza». E il sottosegretario al Welfare, Eugenia Roccella: «Binetti e cattolici democratici possono votare con noi».
Nel Pd, per sanare le fratture, è stato creato un «comitato ristretto», che non trova la quadratura. Paola Binetti la vede così: «Io voglio conciliare il valore della vita e la libertà. Nutrizione e idratazione sono forme di sostegno vitale». E spiega: «Lavoreremo nel Pd perché cresca l'anima cattolica. Chiedo agli ex popolari di interpellare la loro coscienza... ».
Nel Pdl, differenze meno marcate. In Forza Italia c'è un gruppo di ex socialisti e radicali come Margherita Boniver e Della Vedova: alla Camera hanno ripresentato la legge approvata in commissione nel 2005. E Berlusconi? Ai tempi del caso Terry Schiavo disse di condividere «in pieno» un articolo di Baget Bozzo dove addirittura si leggeva: «L'eutanasia è l'atto di un uomo libero ». Sette giorni dopo dichiarò: «In casi simili solo Dio può decidere. Io non avrei staccato la spina».
Il presidente Tomassini confida che presto la commissione varerà un testo e entro la primavera il Senato consegnerà una legge alla Camera. Si tratterà della versione voluta da maggioranza e cattolici democratici? «Se così — dice Marino — ci saranno centinaia di cause in tribunale». Sulla scia di Eluana.

Repubblica 16.11.08
Nuovi protagonisti. Elio Germano
di Irene Maria Scalise


In "Mio fratello è figlio unico" rubava la scena a Riccardo Scamarcio. Prima, sulla carta di identità aveva scritto "impiegato" Oggi è finalmente orgoglioso della sua professione di attore. E, a ventotto anni, è stato già diretto dai migliori registi italiani: da Scola a Luchetti, passando per Virzì e Crialese "Finalmente - dice - mi posso permettere di scegliere, ho capito che voglio recitare in film che mi fanno stare bene, in cui condivido qualcosa con gli altri"
"La recitazione è sempre stata la mia ossessione Da ragazzo vivevo anni schizofrenici: a casa parlavo romanaccio, a teatro in versi"

Ha lo sguardo come una lama Elio Germano. In una faccia normale, da ragazzo che potrebbe essere il fratello più giovane del tuo migliore amico, colpisce e incanta. Arriva trafelato, stravolto dal traffico romano che anche per uno come lui, che a Roma c´è nato, non è una cosa normale. Sorride, si scusa, e capisci quello che è successo al pubblico del film Mio fratello è figlio unico, grande successo dell´inverno scorso. Fiumi di spettatori, e non solo donne, entrati in sala per ammirare gli occhi blu di Riccardo Scamarcio e usciti con il cuore toccato dalla passione per Elio Germano. Del resto, uno che riesce a farti amare il personaggio del picchiatore fascista deve avere qualcosa di speciale.
Elio Germano dimostra appena i suoi ventotto anni: magro come un chiodo, capelli arruffati, jeans larghi che sembrano vuoti e zaino sulle spalle. Ma quando parla non ha età: maturo, spiritoso, intelligente e, soprattutto, vero. Si agita sulla sedia, quasi cade all´indietro quando, ridendo delle sue mille disavventure, spiega agitando le braccia nervose quanto è difficile adesso, qui e ora, diventare attore in Italia. Umiliazione e fatica. Passione e rabbia. «Prima di Mio fratello è figlio unico, sulla carta d´identità avevo scritto impiegato: mi vergognavo all´idea che qualcuno mi potesse riconoscere, però io questo mestiere l´ho sempre amato e non certo per dire faccio l´attore ma proprio perché mi piaceva salire sul palco».
Da ragazzino era un´ossessione. Non è facile vivere così: andare a scuola, giocare con gli amici a pallone, fare judo ma, in fondo, pensare solo a quello. Esistere per recitare. L´unica occasione di sfogo erano i villaggi turistici dove i genitori, papà architetto e mamma impiegata di banca, lo portavano in vacanza. «Mi lanciavo come un pazzo su tutti i teatrini dei club estivi, provavo per ore mentre gli altri andavano al mare e poi tornavo a Roma e mettevo in croce i miei».
A quel punto la decisione di famiglia. Cercare un qualsiasi aggancio per questo figlio così determinato: «Non è una cosa facile, le persone normali non frequentano il giro del cinema. Mio nonno era arrivato dal Molise e a Roma l´avevano arrestato subito, perché non aveva il permesso di soggiorno, ma per fortuna era riuscito a mettersi in regola e aveva trovato lavoro come portinaio in un palazzo del quartiere Prati. Proprio in quello stabile abitava Jole Silvani, un´attrice di Paolo Poli. Per i miei nonni lei era l´attrice, un valore assoluto, ancora ricordo tutti i nomi dei condomini sul citofono e quello della Silvani che secondo me risplendeva più degli altri». Comunque l´attrice gli diede il consiglio giusto: iscriversi a una scuola di teatro. Ripensandoci gli occhi si addolciscono un poco. «Tre pomeriggi la settimana fuggivo dalla mia routine di studente e entravo in un mondo nuovo fatto di Shakespeare, Cechov, esercizi di pronuncia. Da un lato mi sembravano tutti matti, dall´altro era meraviglioso aver trovato una cosa che mi piaceva e che era un´estensione dell´anima di bambino. Erano anni schizofrenici: a casa parlavo romanaccio, a teatro mi esprimevo in versi».
Passioni così, però, stravolgono l´esistenza. Allontanano e possono fare male: «I miei erano preoccupati della deriva, del fatto che trascuravo la scuola, gli amici, ero come uno che si è innamorato e ha perso di vista la realtà». E la realtà di Elio non era esattamente da cartolina. Era quella delle periferie romane. Anzi, della periferia, quella di Corviale, il quartiere divenuto famoso perché ci hanno costruito un palazzo lungo un chilometro, da sempre rifugio degli immigrati e degli abusivi. Quando ne parla s´irrigidisce, la lama degli occhi non perdona i finti romanticismi. I tendini sottili del collo sembrano gonfiarsi: «Questa storia di Corviale me l´hanno appiccicata addosso e sembra quasi una favola, io non ci vedo niente d´originale. Sono nato nel quartiere vicino e ci sono rimasto perché comprare casa da un´altra parte sarebbe stato troppo caro. C´è del bello in quei posti estremi ed è che sono rimasti i soli dove ci sono rapporti umani, è come se il degrado migliorasse i sentimenti. Per il resto è solo uno schifo. Non trovi mai un autobus, manca il verde e hanno eliminato le botteghe per costruire mostruosi centri commerciali».
Dopo le scuole di teatro per Elio Germano è arrivato il cinema, qualche particina in televisione, le pubblicità. Senza storcere troppo il naso: «La differenza per un attore è rappresentata da chi lavora per mantenersi e chi, grazie ai soldi, può scegliere di fare solo quello che desidera. La povertà aiuta perché insegna che nel lavoro non c´è nessuna vergogna, che non stai rubando niente e se ti fanno delle proposte oscene casomai si deve vergognare chi te le prospetta. Io mi sono confrontato con il mondo reale sin da ragazzo e credo sia la migliore lezione, perché questo è un mestiere che va fatto con le mani».
Dopo Il cielo in una stanza, commedia per i fratelli Vanzina, Elio prende il volo: Ettore Scola lo inserisce nel cast di Concorrenza sleale e lo fa lavorare al fianco di Sergio Castellitto, Gérard Depardieu e Diego Abatantuono. Emanuele Crialese lo chiama per Respiro, Giovanni Veronesi lo vuole in Che ne sarà di noi e Michele Placido in Romanzo Criminale. Quindi Abel Ferrara gli offre una parte nel suo Mary e Elio arriva alla mostra del Cinema di Venezia. Gabriele Salvatores e Paolo Virzì lo scritturano per Quo Vadis, Baby? e per N-Io e Napoleone. Di lui Virzì dice: «Un attore straordinario. Basta puntargli la macchina addosso e lasciarlo andare. Sai che qualcosa accade sempre».
Ma il successo vero arriva con Mio fratello è figlio unico di Daniele Luchetti, ispirato al romanzo Il fasciocomunista di Antonio Pennacchi. Per quel film vince il David di Donatello come miglior attore protagonista 2007. Di tutta quella gloria un po´ è contento e un po´ ci scherza: «La verità è che la vendibilità di quel film era legata all´immagine di Scamarcio, poi il pubblico ha scoperto che il protagonista ero io e la sorpresa ha giocato a mio favore. Un giorno magari mi capiterà il contrario».
Sulla difficoltà di essere un fascista, anche se solo per due ore, invece ironizza tristemente: «Tra i ragazzi di oggi chi dice d´essere fascista non ha nessuna cognizione di causa, i giovani parlano senza senso. Proclamandosi di destra difendono le privatizzazioni e non sanno che Mussolini sarebbe inorridito di fronte alla Gelmini. Il loro unico desiderio è di non essere politicamente corretti, non capiscono che finiscono per essere strumentalizzati e che la politica vera, quella che arriva dall´alto, li usa per mandarli allo sbaraglio».
Nel 2008, dopo Nessuna qualità agli eroi, interpreta il personaggio principale de Il mattino ha l´oro in bocca, film ispirato alla tormentata autobiografia di Marco Baldini, nota voce radiofonica. Quindi un altro film di Virzì, Tutta la vita davanti, sui problemi legati al mondo dei call center, e Il grande sogno, sempre insieme a Scamarcio. E poi ancora il film di Salvatores Come Dio comanda, tratto da una storia di Niccolò Ammaniti. Un´attività frenetica, che gli ha finalmente tolto di dosso l´insicurezza del precariato: «A un certo punto mi hanno piazzato in tutti i lavori perché il sistema funziona così: se hai successo in un film, sono convinti che funzionerai anche negli altri. Però adesso che finalmente mi posso permettere di scegliere, ho cominciato a farmi delle domande e ho capito che voglio recitare in film che mi fanno stare bene, in cui condivido qualcosa con gli altri. Non mi piace l´interpretazione masturbatoria e, se devo scegliere tra una buona squadra e un prodotto di sicuro successo, preferisco la prima perché il valore di un film non lo vedi quando esce ma da quanta gioia ti dà quando lo prepari».
Nessuna qualità agli eroi è l´opera cinematografica che gli è costata più fatica. Nei lunghi mesi di preparazione è dimagrito quasi dieci chili ma, alla fine, si è ritrovato in vetrina per una scena di nudo. Al ripensarci gli occhi s´incupiscono, le vene sulla fronte si gonfiano: «È assurdo che i giornalisti si scandalizzano perché un attore è nudo, in fondo il sesso fa parte della nostra vita. Non c´è psicoanalisi senza la sessualità di un personaggio e invece alla conferenza stampa di Venezia parlavano solo di quello».
Elio non ha un rapporto facile con la stampa e con il pubblico. «Soprattutto la televisione è rovinosa perché crea negli spettatori un senso di proprietà sull´attore. Per la strada ti fanno le foto come fossero allo zoo. Io, se un ammiratore mi ferma, vorrei magari berci un caffè, creare uno scambio umano, ma alla gente non gliene frega niente di parlare, ti vogliono solo mettere sul telefonino perché così diventi una cosa loro. Credo che la colpa sta nel fatto che la televisione ci rende simili a un elettrodomestico e la gente ti sente cosa sua, come il frigorifero o il divano. Nel pubblico del cinema c´è più scelta e di conseguenza maggior rispetto».
La parte più brutta del mestiere di attore, anche nel cinema, è la promozione del film. «Ti senti un prodotto da gestire, ti dicono dove andare e cosa dire. Io all´inizio avevo dei problemi perché mi rifiutavo di rispondere e pensavo che mostrarmi in televisione poteva essere un´occasione per recitare e, invece, regolarmente mi chiedono se sono fidanzato o se veramente lavoro nell´orto. E pensare che ero convinto che l´attore, proprio perché interpreta tanti ruoli, dovrebbe essere asettico. Una figura neutra senza storia e senza anima. Poi ho imparato dagli altri e ho capito che è anche una questione di cortesia ma non sempre mi controllo». Un esempio per tutti? «Un giorno mi hanno telefonato e ho risposto che ero in autobus, da allora ho addosso la definizione dell´antidivo che gira in autobus. Figuriamoci, anche volendo non potrei farlo perché a Corviale i mezzi pubblici non ci sono mai arrivati».
In questi giorni Elio Germano è sul grande schermo con Il passato è una terra straniera di Daniele Vicari. Un film in cui il protagonista, studente modello, all´improvviso scopre "lo stomaco": la realtà squallida e imperfetta del mondo del gioco. «La mia preparazione è diversa secondo le sceneggiature, in questa ho dovuto costruire l´ossessione di un personaggio che ha vissuto la sua esistenza nella distanza e all´improvviso toglie un tappo all´anima. È uno di quei film in cui ti devi immedesimare e costruirti nella testa la stessa malattia del protagonista». In più uscirà a breve Come Dio comanda di Gabriele Salvatores. Faticoso? «Sicuramente, ma niente rispetto alla necessaria promozione».