mercoledì 19 novembre 2008

l’Unità Roma 19.11.08
«Nel ’900 i giovani lottavano contro i padri. Ora non più»
di Adele Cambria


«Il ’68 è stato un fenomeno planetario, ma soltanto in Italia è durato dieci anni. Da Valle Giulia alla strage di piazza Fontana all’assassinio Moro. Eppure Moro era forse l’unico che li aveva capiti e voleva incontrarli…»
«Dalla trincea alla piazza, l’irruzione dei giovani nel Novecento europeo». È questo il tema della seconda edizione della Settimana della Storia che, come nel maggio del 2007 - ma sotto la presidenza del nuovo titolare di Zètema, Francesco Marcolini - è cominciata ieri nell’Auditorium dell’Ara Pacis. E sarà proprio il confronto (o la nostalgia?) delle file interminabili agli ingressi del Parco della Musica, per le Lezioni di Storia nate in collaborazione tra la casa editrice Laterza e l’amministrazione capitolina guidata da Veltroni, a far percepire, almeno a me che avevo seguito quegli eventi, come un sotto-tono, persino nella lectio magistralis del brillante storico Emilio Gentile: che ha confrontato i giovani del 1918 - quelli «della trincea» fangosa e micidiale della Grande Guerra - e quelli del ’68. «I 50 anni che separano la generazione dei nonni da quella dei nipoti sono stati i più sconvolgenti per l’Europa e per l’Occidente. L’Europa immediatamente anteriore alla prima guerra mondiale era nelle migliori condizioni possibili».
Ma i giovani di allora, come quelli del ’68, si ribellano al benessere. «Contestavano l’Accademia, la retorica, il mondo dei padri che aveva costruito una società ipocrita: che dietro la facciata della moralità nascondeva soltanto la difesa dei propri interessi». Papini, Prezzolini, la nascita della rivista «La voce", il futurismo, Marinetti, "La guerra sola igiene del mondo". «E la guerra venne -continua a narrare Gentile- e i giovani ribelli accorrono al combattimento. Alcuni cadono, molti scoprono che la putrefazione morale, culturale, perfino democratica -che hanno contestato- s’incarna nei corpi dei soldati putrefatti nel fango delle trincee». Insomma il terreno di cultura del fascismo è pronto. «Ed il fascismo porta i giovani al potere. Benito Mussolini è stato, e finora rimane, il più giovane Presidente del Consiglio che abbia avuto l’Italia». Una rapida citazione dell’altra parte politica, il diciannovenne Piero Gobetti che fonda la rivista "Energie nove", quindi si avvicina a Gramsci e a "L’Ordine Nuovo" - «Gramsci si considerava ormai vecchio, un personaggio storico, ma era assai esigente con i giovani, a cui proponeva di studiare con accanimento, non so come guarderebbe agli studenti di oggi…».
Alla fine della Lectio magistralis chiedo al Professore cosa ne pensa dell’Onda Anomala che riempie le piazze d’Italia.
«Non possono più fare la rivoluzione contro i padri, perché i padri gli danno da vivere, contestano a fianco dei docenti, e riscoprono i nonni:Scalfaro, Ciampi, Napolitano».
La soluzione?
«Abolire il valore legale del titolo di studio. Le competenze e la preparazione scientifica si testino sul campo. Chi ha la passione per lo studio studierà comunque. Che gli siano messe a disposizione strutture accessibili».

l’Unità 10.11.08
Se nessuno ascolta gli studenti
di Marco Simoni


Da quando il governo ha ridotto l’ammontare dei tagli all’università e rafforzato il potere dei professori ordinari le proteste dei rettori sono finite. Ora va tutto bene. Pochi minuti dopo l’annuncio della nuova disciplina dei concorsi, che prevede l’estrazione a sorte delle commissioni, sono cominciate le telefonate tra i baroni per organizzare al meglio lo svolgimento delle carriere universitarie.
Nel frattempo, circondati dal più insopportabile dei paternalismi permissivi, una parte non irrilevante degli studenti continua la cosiddetta mobilitazione. Tuttavia, nessuno prende sul serio gli studenti, nessuno discute di quel che dicono. In una società che relega le generazioni più giovani alla precarietà esistenziale, agli studenti non viene neanche concessa la dignità del dissenso. Il messaggio è chiaro: marciate pure, fate bene a giocare ai rivoluzionari, finalmente un bel segno di vitalità, bravi! Sappiate però che qualsiasi cosa scriviate o diciate non sarà mai presa sul serio, siete giovani non persone. Due giorni fa una assemblea nazionale di studenti riunita a Roma ha prodotto tre documenti scritti. È ingiusto valutare un movimento solo sulla base della qualità delle proposte, un movimento smuove le opinioni, non legifera. Tuttavia, prendere sul serio le persone significa anche dire agli studenti che per parlare di università bisogna cercare di scrivere in un italiano leggibile. Il linguaggio usato è lontano anni luce dalla sintesi comunicativa tipica della modernità e ricorda in maniera anacronistica l’affabulazione movimentista degli anni settanta.
Ecco un estratto: «Dall’assemblea si é prodotto quindi un dibattito complesso, espressione dell’esigenza dei differenti nodi di affrontare una discussione progettuale sull’autoriforma della didattica che dovesse tenere conto dell’articolazione di un confronto assembleare dal quale potessero risaltare la volontà di avviare un processo costituente e non di arrivare ad una definizione finale ed univoca delle pratiche che nell’attraversamento quotidiano delle facoltá e degli atenei giá aprono spazi di riappropriazione e decisione». Soprattutto non si può, come fa il seguito del documento, criticare contemporaneamente la «meritocrazia» e il «rapporto gerarchico e verticale nella trasmissione del sapere»: bisogna scegliere. Se non è il merito, altri parametri serviranno a selezionare docenti che una volta dietro la cattedra faranno un uso ottuso dell’autorità per imporre le loro povere nozioni.
Al contrario, chi deve alla dedizione alla ricerca il proprio ruolo nell’università farà dello scambio orizzontale di idee il metodo naturale di insegnamento oltre che la fonte principale della comprensione delle cose, non tollerando tuttavia alcuna pigrizia o superficialità.

l’Unità 19.11.08
La Woodstock dell’«Onda» riempie di note la Sapienza
di Silvia Boschero


Non se ne vede la fine. La fila dei ragazzi comincia da San Lorenzo, il quartiere movimentista della Roma studentesca. Ci sono gli universitari, ma non solo, è un fiume immenso: la cittadella della Sapienza è stata trasformata per qualche ora - ieri sera fino a notte fonda - in una piccola Woodstock. «L’Onda studentesca ha bloccato ancora una volta la città», grida una ragazza dal palco. «Saremo quindicimila stasera», dice un elettrico Andrea Rivera, comico, presentatore e factotum della serata di musica e spettacoli organizzata dagli studenti anti-Gelmini. La festa stasera è tutta per loro: «È un’Onda meravigliosa, potentissima e seducente - legge una studentessa - vogliamo immaginare un altro futuro in questa Italia dove è bloccato l’accesso al sapere, un Paese a democrazia bloccata». Sul palco si suona e si parla, in libertà, di università libera, di precarietà, di «libera scelta in libero Stato» (è Rivera che evoca il caso di Eluana), si parla anche della recente sentenza sul G8, con Simone Cristicchi e il suo brano inedito Genova brucia. Lui e tutti gli altri sono qui stanotte e gratis e suonano fino alle 3: Momo, Vergassola, Silvestri, gli Assalti Frontali, Bobo Rondelli, Tetes de Bois tra gli altri. «Mentre si distrugge la cosa più bella che c’è nel Paese, la scuola elementare - dice Andrea Satta dei Tetes - gli italiani stanno guardando l’Isola dei famosi. Noi però siamo qui e venerdì scorso eravamo in 300 mila».
C ’è gente che sale e scende dal palco: tutto molto fraterno, eppure anche estremamente organizzato, a dispetto degli stereotipi sugli studenti. C’è folla, pace ed emozione: proprio come a Woodstock.

Repubblica Roma 19.11.08
Con Cristicchi e Silvestri l'Onda canta alla Sapienza
di Gino Castaldo


L´onda vibra al ritmo della musica. E lo ha fatto con un maxi-concerto a cui, ieri sera, hanno preso parte 25 artisti che hanno voluto aderire alle mobilitazioni degli studenti romani salendo sul palco della festa "Siamo in Onda", organizzata nel cortile dell´università La Sapienza. «Siamo 15mila, segno che la protesta contro i tagli all´istruzione non si fermano» hanno detto gli studenti dell´Onda. Alla serata hanno preso parte, tra gli altri, Andrea Rivera, Simone Cristicchi, Valerio Matandrea, Daniele Silvestri e gli Assalti Frontali. Durante il concerto, che gli studenti hanno ribattezzato come la "Woodstock dell´Onda", sono stati proiettati due video di Moni Ovadia e Andrea Rezza.
L´Onda fa le sue prove di trasmissione. Un concerto che sembra una chiamata alle armi per cantanti, attori, per quel mondo dello spettacolo orfano di buone cause per cui impegnarsi. E ora l´hanno trovata. Simone Cristicchi, Daniele Silvestri, i Tetes de Bois, Ascanio Celestini, Marco Conidi, Valerio Mastandrea, Momo (che ha improvvisato una deliziosa alè ondà), Elio Germano, Peppe Voltarelli, gli Assalti Frontali che hanno scatenato la piazza, una valanga di personaggi chiamati a raccolta da Andrea Rivera, che ha aperto la serata con parole incendiarie. «Non ho mai ammesso le manganellate, sono contro tutto, contro l´arte, contro la democrazia». L´Onda sale, monta anche attorno alla Città universitaria col traffico molto rallentato. Un concerto affollato e felicemente disorganizzato, con la piazza dietro il rettorato della Sapienza che si riempie di gente man mano che la musica va avanti. La piccola Woodstock la chiamano, il caos è simile, l´eccitazione paragonabile. «Siamo oltre 15 mila» dicono intorno alle dieci i ragazzi, e via via ne arrivano altri. C´è un´allegria che contagia e Rivera regala anche una battuta niente male: «In Italia, ci sono due Stati stranieri, il Vaticano e San Marino. Mi domando: perché San Marino non rompe mai i c...?». Gli artisti sembrano eccitati, contagiati da questa piazza che pulsa di nuove energie, di nuove ribellioni.
Daniele Silvestri racconta la sua posizione: «E´ una cosa che aspettavo da anni. Non tanto come artista, come cittadino, e soprattutto come padre di due figli. C´è sdegno, bisogno di riflessione, anche per l´atteggiamento arrogante del governo, un atteggiamento che non fa neanche finta di avere un futuro da indicare e così facendo si limita a disgregare quello che esiste. Siamo tanti a pensare che così non si può più andare avanti e c´è l´arroganza di chi non vuole ascoltare. Mi è capitato molte altre volte di partecipare a situazioni questo genere ma nessuna mi ha coinvolto come questa».
Ribattono i Tetes de Bois, il cantante Andrea Satta spiega: «Nello stagno italiano se si muove qualcosa si vede. I ragazzi ci hanno chiesto di stargli vicino. E hanno incrociato la nostra voglia di esserci. Non è solo per la libertà di studio, che comunque vuol dire futuro, siamo tutti contro quelli che vogliono farlo diventare un paese solo per ricchi». Di fatto sembra davvero che siano gli artisti a dover ringraziare questi ragazzi scatenati e bramosi di protesta. E una ragazza sul palco dice con orgoglio: «Anche oggi abbiamo bloccato la città». Andrea Rivera l´aveva spiegato all´inizio: «Bisogna sostenere materialmente l´Onda. Perché anche questo movimento costa, fa fatica, fra un po´ si mangeranno i cracker. La cosa meravigliosa è questa bellissima unità da cui dovrebbe prendere esempio anche la fatiscente sinistra italiana. Spero che il prossimo anno saremo di nuovo qua, vorrà dire che il movimento non è stato sconfitto». Nota di colore: erano previsti venticinque artisti, i ragazzi hanno comprato venticinque pizze. Qualcuno ha fatto notare che artisti spesso voleva dire gruppi di quattro cinque persone e loro sono caduti dalle nuvole. Ma la cosa importante è che tutto funziona. Il palco suona, gli amplificatori anche, i ragazzi dell´Onda sono in giro per il backstage per spingere gli artisti sul palco. E tra una pausa e l´altra rilanciano gli slogan, uno su tutti: "Noi la crisi non la paghiamo". Un caos gioioso dove nessuno si lamenta e nessuno fa il divo. Per una volta le questioni importanti sono altre.

Repubblica Roma 19.11.08
Questa mattina gli studenti delle scuole del centro storico manifesteranno per i giovani denunciati del Kennedy
Licei, in corteo al ministero contro le denunce
di Tea Maisto


Gli studenti dello scientifico Kennedy non saranno soli. A manifestare con loro, oggi, davanti al ministero dell´Istruzione ci saranno anche altre scuole del centro storico. Dal Virgilio, al Mamiani, al Tasso: tutte insieme per esprimere solidarietà nei confronti dei ragazzi del Kennedy - ma anche dello scientifico Azzarita e dell´alberghiero Artusi - denunciati dopo l´occupazione dei loro istituti per interruzione e invasione di pubblico edificio.
Una protesta anche per dire "no" alle «minacce di provvedimenti disciplinari da parte dei presidi degli istituti occupati», spiegano gli studenti. Il corteo partirà proprio dal Kennedy, zona Monteverde alle 9. «Anche le scuole che non potranno partecipare alla manifestazione e poi al sit-in in viale Trastevere faranno in modo di far sentire la loro voce - spiegano gli studenti autorganizzati - ci saranno megafonate all´entrata e all´uscita dalle lezioni e all´intervallo e saranno affissi striscioni ai cancelli. Ci sarà scritto "Provvedimenti disciplinari e denunce non ci fermeranno"». Non solo: i ragazzi del Kennedy annunciano anche la presentazione di un dossier sui «metodi repressivi attuati in questi anni dalla presidenza». Intanto ieri a scendere in piazza circa mille studenti di 8 scuole della zona di Centocelle (Benedetto da Norcia, Immanuel Kant, Levi Civita, Giorgi, Francesco D´Assisi, Di Vittorio, Boaga e Ipsia Europa). La manifestazione è terminata con una "pillow fight", ovvero una lotta di cuscini. «Eravamo una cinquantina con i cuscini in mano - spiega Yuri Segnalini, studente del D´Assisi - è stato il nostro modo di manifestare contro chi fa uso di violenza, in particolare mi riferisco agli scontri di piazza Navona. Le proteste studentesche devono essere pacifiche». Dal corteo di ieri è nata anche l´idea di creare un comitato a Centocelle che prenderà contatto anche con le altre realtà della capitale per organizzare nuove proteste. Inoltre nel pomeriggio due studenti dell´Albertelli sono stati ricevuti, al ministero dell´Istruzione, dal sottosegretario Giuseppe Pizza. Tra le richieste: «un dialogo costruttivo per la riforma recependo l´istanza di cambiamento del movimento studentesco delle medie superiori».

Repubblica 19.11.08
È il momento di cambiare
Noi, costretti a regalare il cervello all'estero
di Renato Dulbecco


HO LASCIATO il mio Paese nel 1947, a soli 33 anni, per gli Stati Uniti, per poter sviluppare le ricerche scientifiche che mi hanno fatto meritare il Premio Nobel per la Medicina, molti anni dopo, nel ´75. Oggi mi fa male vedere che, dopo oltre 60 anni, la situazione di crisi della ricerca scientifica in Italia non è cambiata, anzi. Lo dimostrano i più di mille ricercatori italiani sparsi per il mondo che hanno già riposto all´appello di questo giornale e che hanno dovuto, come me, lasciare il Paese per dedicarsi alla scienza. Il mio rammarico non è una questione di nazionalismo: la scienza per sua natura ignora il concetto di Patria, perché è e deve rimanere universale. Anzi, penso sia importante per uno scienziato formarsi all´estero e studiare in una comunità internazionale. Tuttavia dovrebbe anche poter scegliere dove sviluppare le sue idee e i frutti del suo studio, senza dover escludere del tutto il Paese dove è nato. Ciò che mi dispiace profondamente è toccare con mano l´immobilismo di un´Italia che sembra non curarsi della ricerca scientifica, esattamente come nel dopoguerra.
Come se più di mezzo secolo di esplosione del progresso scientifico fosse passato invano. Chi vuole fare ricerca se ne va, oggi come ieri, per gli stessi motivi. Perché non c´è sbocco di carriere, perché non ci sono stipendi adeguati, né ci sono fondi per ricerche e le porte degli (ottimi) centri di ricerca sono sbarrate perché manca, oltre ai finanziamenti, l´organizzazione per accogliere nuovi gruppi e sviluppare nuove idee. Perché non esiste in Italia la cultura della scienza, intesa come tendenza all´innovazione che qui, negli Stati Uniti, è privilegiata in ogni senso ed è il motore del cambiamento.
Ciò che è cambiato concretamente, rispetto ai miei tempi, è che la ricerca scientifica, spinta dalla conoscenza genomica che è stata al centro del miei studi e oggi rappresenta il futuro, richiede molti più investimenti in denaro e persone rispetto a 60 anni fa. Si allungano così le distanze fra Paesi che investono e quelli che non lo fanno. L´Italia rischia, molto più che negli anni Cinquanta, di rimanere esclusa definitivamente dal gruppo di Paesi che concorrono al progresso scientifico e civile.
Io sono uno scienziato e non ho la ricetta per salvare la ricerca italiana, ma proprio come "emigrato della ricerca " posso dire che i modelli ci sono, anche vicini ai nostri confini, senza guardare agli Stati Uniti, che sicuramente hanno una cultura e una storia molto diversa dalla nostra. Basterebbe iniziare a riflettere dal dato più semplice. Un Paese che investe lo 0,9% del proprio prodotto interno lordo in ricerca, contro la media del 2% degli altri, non può essere scientificamente competitivo né attirare a sé o trattenere i suoi ricercatori migliori.

il Riformista 19.11.08
Ma nel Pd restano solo macerie
«Si va verso un congresso duro»
di Alessandro De Angelis


POST-VIGILANZA. Sospetti, veleni, il nodo Idv e lo scontro tra dalemiani e veltroniani al picco massimo. Così si prepara la resa dei conti in casa democratica.

Sospetti. Complotti, veri o presunti, all'ombra della partita sulla commissione di Vigilanza. Veltroni, Zanda e Franceschini, nel colloquio privato con Villari, avevano accusato: «Vi siete messi d'accordo con Bocchino? Ci sono i tuoi amici nel partito che ti coprono, eh?». Quanto basta, in casa dalemiana, a vedere rosso. E il vicecapogruppo dei senatori democrats Nicola Latorre ieri ci è andato giù duro: «Complotti? - ha affermato in un'intervista al Corriere - Se vogliono far fuori D'Alema e i dalemiani lo si faccia a viso aperto senza ricorrere a queste meschinità. Non si può più tollerare che per nascondere le responsabilità politiche si ricorra al tema del complotto».
Si litiga, tra dalemiani e veltroniani, anche sulle misure disciplinari: «Villari - prosegue Latorre - si deve dimettere ma sono sbagliati metodi come espulsioni o sanzioni che evocano un'idea della vita democratica che dovremmo avere alle spalle». Replica Tonini: «Latorre legittima il comportamento di Villari dicendosi contrario alle sanzioni. Quelli che vogliono il partito vero e strutturato si schierano contro misure disciplinari. Il comportamento di Villari sarebbe censurato pure nella bocciofila sotto casa mia».
Dietro la Vigilanza si consuma l'ennesimo duello tra «Massimo» e «Walter», che ieri di fatto hanno aperto il congresso. Dice un dalemiano di rango: «Se si continua così sarà un congresso complicato. Noi siamo pazienti, ma…». E Tonini mostra i muscoli: «Il congresso sono le primarie. Per statuto». Altro casus belli: i rapporti con Di Pietro. «Logori» per Latorre. Un falso problema per Tonini: «È lunare - dice il fedelissimo di Veltroni - descrivere come fa Latorre il Pd subalterno a Di Pietro. Su piazza Navona, sul lodo Alfano abbiamo avuto una linea autonoma. Anche sulla Vigilanza non siamo stati subalterni a Di Pietro, siamo stati leali. Il che è cosa diversa».
Che dalle parti del Pd gli ex ds stiano preparando la resa dei conti lo ha capito anche Di Pietro. Da giorni ha maturato la convinzione che Veltroni sia vittima dei suoi: «Walter - spiegava a margine di una iniziativa due giorni fa - ha trovato il suo De Gregorio, mica è colpa sua. Altra cosa è che tutti stanno usando questa situazione per rompere con noi. Ma no, lui non vuole rompere. Anche sui gruppi poi non è vero che abbiamo tradito i patti. Se si perde, convengono due gruppi. Se avessimo vinto ne avremmo fatto uno solo». E ieri Di Pietro ha mandato un assist a «Walter». Proprio durante la riunione mattutina del coordinamento del Pd arriva l'agenzia che annuncia che il leader dell'Idv ha rinunciato a Orlando: «Atteggiamento saggio e equilibrato» dice Veltroni ai suoi.
Più che il tema delle alleanze, lo scontro nel Pd riguarda la «gestione del partito». E il barometro dei rapporti tra Walter e Massimo segna, di nuovo, tempesta. Basta sentire gli uomini di D'Alema. Il ragionamento suona più o meno così: la situazione del partito è un disastro; a Firenze si è arrivati alle primarie con quattro candidati dopo una guerra intestina; a Bologna regna il caos; in Sardegna sull'elezione della segreteria regionale si è finiti di fronte agli avvocati perché è stata sollevata la legittimità dell'assemblea al momento del voto; nel Lazio è battaglia aperta sulla segreteria regionale. Per non parlare dell'Abruzzo, dove è successo di tutto. E l'alleanza con Di Pietro: «Non può essere - dice Matteo Orfini - un giorno il miglior amico e un giorno quello con cui non si parla. Diciamo che con Di Pietro siamo entrambi all'opposizione. Questo non significa essere alleati». Per la conta c'è tempo fino al congresso. Il leader maximo è in giro in Sud America. A chi lo ha raggiunto per telefono ha detto: «Voi volete che io mi occupi di Villari… Ma io sono di fronte al Pacifico e non ne parlo. Il punto è che qui l'alba sorge dal lato sbagliato…».

il Riformista 19.11.08
Burocrazia. uno studio tecnico del ministero dell'Economia presenta il conto a Brunetta
L'Authority anti-fannulloni ci costa già quattro milioni
di T.L.


SORPRESE. Il Senato ha appena varato con voto bipartisan una centrale di controllo sulla produttività del lavoro pubblico. I membri avrebbero dovuto partecipare gratis. Peccato che in extremis sia spuntato lo stipendio: un milione e mezzo. Più le consulenze.
La norma in versione "gratis", poi modificata.

Il trucchetto c'è ma finora nessuno, a parte chi l'ha escogitato, se n'è accorto. Anche dietro la norma «anti-fannulloni» del ministro Renato Brunetta, spuntano - immancabili - le "solite" consulenze. Strapagate e a carico della collettività, s'intende.
La «delega al governo finalizzata all'ottimizzazione delle produttività del lavoro pubblico» è stata approvata dalla commissione Affari costituzionali del Senato giovedì scorso. Il voto finale di Palazzo Madama è atteso a breve. Curiosità: si tratta del primo provvedimento bipartisan di una legislatura in cui litiga su tutto e anche di più. Non a caso giovedì scorso, nel voto in commissione, il Pd si è astenuto, consentendo al ministro Brunetta di definire «epocale» la riforma in questione.
E il trucchetto? Basta leggere il disegno di legge (numero 847), che il ministro Brunetta ha riassunto in quattro parole d'ordine: più trasparenza, standard, premi e punizioni per chi non fa il proprio lavoro. A leggere il testo arrivato in commissione (articolo 3 punto d), il ddl prevedeva «l'istituzione presso il Dipartimento di funzione pubblica, eventualmente in raccordo con altri enti o soggetti pubblici, di un organismo centrale (…) con il compito di validare i sistemi di valutazione adottati dalla singole amministrazioni centrali, indirizzare, coordinare e sovrintendere all'esercizio delle funzioni di valutazione, nonché di informare annualmente il ministro per l'Attuazione del programma sull'attività svolta».
La centrale di controllo anti-fannulloni era praticamente a costo zero. Tanto che - si leggeva poche righe più sotto - «i componenti del predetto organismo, scelti tra persone di elevata professionalità, anche estranee all'amministrazione, prestano la loro collaborazione a titolo gratuito».
Fin qui una pagina di bella politica: una norma anti-fannulloni che si fonda su un organismo di controllo che non costa nulla. Il problema è che, nell'accordo trovato in commissione Affari costituzionali del Senato, il punto d dell'articolo 3 è stato inghiottito dal nulla. E la famosa «collaborazione a titolo gratuito» dei componenti dell'organismo anti-fannulloni è svanita. Il testo licenziato dalla commissione prevede «nell'ambito del riordino dell'Aran (Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni), l'istituzione (…) di un organismo centrale che opera in collaborazione con il Ministero dell'Economia e il Dipartimento della funzione pubblica con il compito di indirizzare coordinare e sovrintendere all'esercizio indipendente delle funzioni di valutazione, di garantire la trasparenza dei sistemi (…), di assicurare la comparabilità e la visibilità degli indici di andamento gestionale».
Le mansioni dell'organismo sono praticamente le stesse del ddl originale. L'unica differenza con testo approvato dalla commissione è che la centrale anti-fannulloni non è più gratis. I componenti, «di numero non superiore a cinque», sono pagati. Eccome.
Tra palazzo Chigi e il ministero dell'Economia qualcuno però ha storto il naso. E in una relazione tecnica «sugli oneri finanziari derivanti dall'emendamento per come riformulato» - preparata a via XX settembre - si legge che il costo complessivo dell'operazione può arrivare a quattro milioni di euro. Otto miliardi del vecchio conio.
Ce n'è per tutti. Un milione e mezzo di euro (onere massimo previsto) «per compensi, comprensivi degli oneri riflessi, spettanti ai componenti dell'Agenzia, da fissare con decreto del Ministro per la pubblica amministrazione di concerto col Ministero dell'economia». Mezzo milione «per l'affidamento di consulenze e incarichi di collaborazione». Settecentomila euro «per la stipula di convenzioni con enti e università». Altri cinquecentomila «per il funzionamento e spese connesse alla segreteria tecnica». E ancora: quattrocento mila euro «per l'acquisto e la manutenzione di beni strumentali e per gli oneri di funzionamento della struttura» e un altro assegno da quattrocentomila «per le spese concernenti all'affitto della sede ed eventuali oneri connessi». Totale: quattro milioni.
Alcune di queste voci - tipo l'ultima - sarebbero state da mettere in conto anche con la versione originale del ddl. Ma «la collaborazione a titolo gratuito» dei componenti dell'organismo anti-fannulloni (a proposito: chi saranno i predestinati?) avrebbe portato un discreto risparmio alle casse pubbliche e sarebbe stata in linea con il taglio delle consulenze pubbliche, una delle battaglie su cui Brunetta più si è speso dall'inizio della legislatura. Peccato sia stata inghiottita nel nulla, nel primo atto bipartisan di una legislatura in cui si litiga su tutto. E anche di più.

Repubblica 19.11.08
Una nuova vita per La madonna del cardellino
di Antonio Pinelli


Nel quadro sono ritratti dei giochi apparentemente innocenti, ma carichi di presagi
La tavola rimase travolta dal crollo del Palazzo Nasi e ne uscì ridotta a pezzi
Un complesso restauro durato un ventennio ha permesso di recuperare la splendida opera, che da domenica sarà in mostra nel Palazzo Medici Riccardi di Firenze

Nell´autunno del 1504 Raffaello aveva 21 anni quando decise di stabilirsi a Firenze, dove si fermò, salvo qualche rapido rientro in Umbria, per ben quattro anni. Se egli si risolse a lasciare il certo per l´incerto, abbandonando i luoghi dove era già considerato un maestro di tutto rispetto (non a caso fu dall´Umbria che continuarono a pervenirgli gli incarichi più impegnativi) fu senza dubbio per poter respirare a pieni polmoni l´atmosfera rigenerante di quello che allora era il centro propulsore della «maniera moderna», e dunque per trarne tutto il profitto possibile in termini di aggiornamento culturale. A Firenze non poteva attendersi commissioni altrettanto ghiotte, ma in compenso poteva abbeverarsi direttamente alle sconvolgenti novità introdotte da Michelangelo e da Leonardo, che proprio in quegli anni si sfidavano sulle pareti di Palazzo Vecchio, e da Fra Bartolomeo che, conferendo un´inedita monumentalità e un respiro solenne alle pale d´altare, faceva retrocedere il Perugino, fino a pochi anni prima idolatrato, al rango di un pittore irrimediabilmente rétro, «quattrocentesco».
In quei quattro anni Raffaello mostrò di nuovo quanto fosse prensile e, al tempo stesso fertile il suo talento, assorbendo avidamente, come una spugna, tutti quegli stimoli, anche i più contraddittori tra loro, ma riuscendo a ridurli a sintesi e ad amalgamarli nel linguaggio agevole, armonico e rotondo che gli era proprio. E tutto questo avvenne, per così dire, in tempo reale, con dipinti che registrano fedelmente questo processo di arricchimento, paragonabile a quello di un placido fiume che aumenta la propria portata via via che accoglie, in un alveo di crescente ampiezza, nuovi affluenti. Già perché i committenti fiorentini, personaggi come Agnolo Doni, Taddeo Taddei, Lorenzo Nasi e Domenico Canigiani, che erano tutti più o meno imparentati tra loro e facevano parte della borghesia emergente, non lasciarono l´urbinate con le mani in mano, commissionandogli soprattutto quadri di devozione privata e ritratti. La Madonna del cardellino, che riappare in questi giorni tornata a nuova vita dopo un restauro così delicato da aver avuto bisogno di prolungarsi per un decennio, fa parte di questo gruppo di dipinti devozionali, e più in particolare di quel terzetto di tavole con la Madonna che, seduta in un prato fiorito e circondata da un ameno paesaggio, intrattiene il Bambino e il suo cuginetto, impegnati in giochi apparentemente innocenti, ma in realtà carichi di funesti presagi (come la croce di canne del Battista, anche il cardellino allude al futuro sacrificio), quasi si trattasse di un´amabile scena quotidiana con una dolce mamma che veglia sui bimbi che ha condotto al parco.
Delle tre tavole, la cosiddetta Belle Jardinière, che è al Louvre, è visibilmente la più tarda, mentre la Madonna del Prato, che è a Vienna e fu commissionata da Taddeo Taddei, e quella del cardellino, che fu dipinta per Lorenzo Nasi in occasione del suo matrimonio nel febbraio 1506 con Sandra Canigiani, sono talmente prossime tra loro da rendere arduo decidere quale sia stata compiuta per prima.
In ogni caso, in tutte e tre Raffaello mostra di aver messo a frutto le sue fresche conoscenze delle novità di Leonardo, Michelangelo e Fra Bartolomeo. Dal primo, e in particolare dal suo cartone della Sant´Anna che era esposto all´Annunziata, discendono l´articolazione piramidale della composizione e la varietà espressiva dei moti dell´animo; dal secondo - e segnatamente dai Tondi Pitti e Taddei e dalla Madonna di Bruges, le avvolgenti torsioni e l´accresciuta consistenza plastica delle anatomie, oltre che specifiche invenzioni come quella del piede del Bambino che calca quello della Madre; mentre dal Frate pittore, che gli era profondamente consentaneo, Raffaello deriva il colorito ricco di risonanze e sapientemente modulato dal chiaroscuro, ma anche la varietà naturalistica e la morbida fusione atmosferica degli sfondi di paese.
La somma delicatezza del restauro della Madonna del cardellino dipende dal fatto che non si trattava solo di liberarla dall´ingiallimento di vernici o da moleste ridipinture accumulatesi nel corso degli ultimi due o tre secoli, ma che questo già arduo processo di ripulitura si è dovuto compiere su un´opera che a sua volta era stata sottoposta ad un impegnativo restauro pochi decenni dopo che era stata eseguita. Nel novembre 1547, infatti, le piogge sovrabbondanti produssero smottamenti di Costa San Giorgio, che fecero crollare il Palazzo Nasi in via de´ Bardi. La tavola di Raffaello ne uscì ridotta letteralmente in pezzi, che Giovan Battista Nasi, figlio di Lorenzo, raccolse con la dovuta venerazione e fece prontamente restaurare da un pittore che li ricompose e medicò guasti e «cicatrici» con sapienti ridipinture. Chi fu quell´antico restauratore? Antonio Natali suggerisce che possa essere stato proprio quel Ridolfo del Ghirlandaio, ormai anziano ma non decrepito, che le fonti attestano come il pittore con cui Raffaello, che era suo coetaneo, aveva stretto maggiormente amicizia durante il suo soggiorno a Firenze.
L´ipotesi è suggestiva, ma tutto sommato quel che più conta è l´intelligenza critica con cui i restauratori odierni dell´Opificio fiorentino hanno saputo procedere coniugando analisi diagnostiche sofisticate ad un prudente empirismo, per giungere al mirabile risultato di una ripulitura che ha saputo mantenere l´unità dell´insieme, facendo riemergere quanto è rimasto dell´originaria stesura raffaellesca (stimabile in circa l´80 per cento della superficie dipinta), salvaguardando, per quanto possibile, le integrazioni del ´500 ormai storicizzate.

l’Unità 10.11.08
Il prefetto che rispettava i Rom
di Dijana Pavlovic


Un racconto rom ci narra di Hitler Tuka: «C’era una volta un re che odiava i Rom e li voleva ammazzare, perché erano diversi da lui e parlavano una lingua che lui non capiva. Ma ai giorni nostri ammazzare tante persone non è proprio una grande cosa, allora pensò di far diventare tutti i Rom criminali, difatti ammazzare criminali è tutt’altra cosa. Quindi dà l’ordine di cacciare tutti i Rom dalle città nei boschi in modo che là abbiano freddo e fame così ruberanno le patate ai contadini, ed ecco i ladri!...»
In questo racconto si mescolano la memoria del Porrajmos, lo sterminio dei Rom, al disagio sociale dei moderni campi di segregazione, i cosiddetti “campi nomadi”, che, se proprio ci devono essere, devono stare lontano, nascosti agli occhi dei “normali” cittadini. A Milano come a Roma, dove addirittura devono essere spostati al di fuori del grande raccordo anulare. E le donne e gli uomini che lavorano? e i bambini che vanno a scuola? Chi se ne frega, che se ne tornino al loro Paese, pensa e dice la Lega dimenticando che metà dei Rom sono di origine italiana dal 1400, prima di tanti “lumbard”.
Campi nomadi quindi come discariche sociali nelle quali è molto difficile mantenere quei pezzi di vita decente strappati al pregiudizio e all’odio ed è più facile ricorrere a tutto quello che si può per sopravvivere.
Queste cose il prefetto di Roma Carlo Mosca le sapeva bene quando ha rifiutato di schedare con le impronte i bambini Rom e spiegava che non aiutava la sicurezza sgomberare comunità che avevano un minimo di stabilità spargendo sul territorio persone disperate.
Ma queste cose banalmente civili non lo sono quando la paura dell’altro serve a raccattare consenso politico e a offrire un capro espiatorio a un Paese in crisi sociale, economica e morale. Allora via chi ostacola questo percorso, via chi capisce che altro deve essere il modo di affrontare un processo irreversibile come quello dell’immigrazione e della convivenza nel rispetto reciproco di etnie, culture, religioni diverse. Io vengo dalla Serbia, dalla ex-Jugoslavia, ho vissuto il dramma, la violenza, il dolore della rottura della convivenza tra le tante diversità che formavano la mia nazione e per questo so bene quanto siano preziosi uomini che al di là dell’appartenenza politica abbiano bene in mente il valore delle diversità e dei principi che regolano la convivenza democratica.
Prefetto Mosca, nais, te aves bahtalò! (in romanes: grazie e la fortuna sia con lei) perché ha fatto capire al mio popolo che si può sperare in persone come lei nel momento in cui in questo Paese sembrano tornare i modi del terribile Hitler Tuka.
dijana.pavlovic@fastwebnet.it

l’Unità 10.11.08
Al G8 con Carlo
«Sulla camionetta erano in quattro. Non fu Placanica a sparare»
di Malcom Pagani


Non era un film nè una carica normale. Mi chiesi il perché di tanto odio, poi smisi di domandarmelo e persi la testa anch’io. Non sono un violento ma partecipai attivamente a una guerriglia di stampo cileno. Quel giorno cambiò per sempre la mia vita». Venti luglio 2001, Genova. Da ore in città impazzano scontri furibondi. C’è una piazza stretta, all’ombra di una chiesa. È dedicata a un cardinale, Gaetano Alimonda, anche se la pietà, e non solo quella, è a un passo dal morire. Poi un’edicola, un’aiuola, molta confusione.
Bloccato ai piedi di un palazzo, un defender dei carabinieri. Ha i vetri rotti. Nell’abitacolo, caldo, paura e tre ragazzi spaventati. Filippo Cavataio è al posto di guida. Dietro, ad affrontare la furia dei manifestanti, Dario Raffone e Mario Placanica. Carlo Giuliani, 23 anni, si trova al centro della scena. Ha un estintore in mano, sta per lanciarlo dentro una jeep dei carabinieri quando due spari spezzano l’aria. Accanto a lui, nella sequenza fotografica che delle giornate genovesi diventerà il simbolo, un suo coetaneo. In mano tiene stretta un’asse di legno. La infila e la sfila dalla macchina.
A neanche una settimana dalla sentenza sulla scuola Diaz («Hanno fregato il solo Canterini. Non mi trovavo in aula ma non c’era bisogno di doti divinatorie per immaginare che sarebbe finita così») e dopo sette anni di traversie giudiziarie ora in via di risoluzione, Massimiliano Monai torna con la memoria a quell’estate in cui ogni cosa cambiò di segno. «Dagli idranti della polizia usciva acqua urticante, c’era una sproporzione di forze e mezzi inaudita ma sbagliammo comunque. Avremmo dovuto capire di essere in trappola, ritirarci e fermarci. Nessuno lo fece e scivolammo in qualcosa di più grande di noi». I nove anni per tentato omicidio chiesti dal Pm Franz in prima istanza, si sono trasformati in cinque con l’imputazione di devastazione e saccheggio. Tre sono stati condonati con l’indulto. I Pubblici ministeri Canepa e Canciani hanno impugnato la sentenza. L’avvocato di Monai ha fatto altrettanto.
Quella del 20 luglio, fu un’alba come un’altra. «Mi trovavo in riviera, a Cavi di Lavagna, con alcuni amici. Avevamo osservato la manifestazione del 19 in tv. Poi la mattina dopo facemmo il bagno e verso mezzogiorno salimmo in macchina alla volta di Genova. Arrivammo allo stadio Carlini, c’era già tanta gente, il corteo stava quasi per partire. Persone normali. Ragazzi, donne, uomini, bambini». Un’atmosfera tranquilla. «Eravamo sereni, squillò il telefonino. Era mia sorella. “State bene?” “In che senso?” “Ho sentito che dalle parti di Marassi c’è un po’ di disordine” Scendendo lungo Via Tolemaide, ci accorgemmo che sulla destra, verso il cielo, saliva una minacciosa nuvola nera». Le macchine bruciate dai black block. «In un attimo piombammo nel caos, la testa del corteo si fermò. “Non vi preoccupate” urlavano gli organizzatori dal camion, ”non succederà niente, state uniti”. Qualcosa invece accadde. «Iniziarono a piovere lacrimogeni. Percepivamo l’incombere di un evento terribile». Odori acri, impossibili da sopportare. «Non avevo mai sentito niente del genere. Ti faceva svenire. Col Genoa, la mia squadra, ero andato in trasferta mille volte. I lacrimogeni li conoscevo. Di qualunque sostanza si trattasse, quella roba era diversa. Tossica».
Fu a quel punto che il corteo fini nella tenaglia delle cariche e la giornata inclinò al lutto. «Si creò un imbuto, un sandwich e noi in mezzo». Scappare, una chimera. «Via Tolemaide è un budello, ci sono due traverse laterali, Via Caffa e Corso De Stefani, a destra la massicciata della stazione è una barriera insormontabile». Monai prese Via Caffa e osservò fotogrammi crudi. «Arrivarono tre cellulari dei carabinieri in corsa, ebbi l’impressione che ci volessero ammazzare. Mi nascosi dietro un albero, li vidi marciare contro alcuni cassonetti e trascinarli a tutta velocità contro una barricata formata dai manifestanti. ”Adesso si ferma” ragionavo. Invece proseguì per 30 metri». Niente di razionale, istinto puro. «Rimasi in un fazzoletto per oltre 2 ore. Mi dicevo: ”Belìn, qui ci lascio la pelle” e correvo da una parte all’altra. Non c’era schema nè ordine ma solo un affrontarsi anarchico, senza regola alcuna».
E’ convinto che alla base degli scontri ci fosse un piano preordinato: «Le forze dell’ordine non intervennero sui black block perché in mezzo a loro si muovevano decine di infiltrati. Tiravano pietre e poi si dileguavano. Arrivava un plotone a rimorchio e pestava chiunque incontrasse sul cammino». Lui continuò il proprio e arrivò in piazza Alimonda. «Trovai un bastone, vidi il defender, non so cosa mi prese. La jeep era già lì, con i finestrini spaccati, mi avvicinai anch’io. Presi la trave e la infilai tra i vetri infranti. Cavataio era davanti, Placanica rannicchiato in posizione fetale, a un passo da me, dalla parte opposta un suo collega (mai individuato n.d.r) aveva la pistola in mano e un quarto, Raffone, lo copriva».
Secondo Monai a sparare non fu Placanica. «Quella sequenza mi rimarrà in testa per tutta la vita. Placanica aveva ferite profonde sul capo, lo avevano colpito con un bastone, forse con una pietra. Era in stato confusionale e non brandiva armi». L’omicida di Carlo Giuliani rimarrà eternamente anonimo: «Ho sempre avuto l’idea che a premere il grilletto fosse stato un pezzo grosso, forse un generale». Di cui Placanica non conosceva neanche il nome. «È plausibile. Me lo immagino: scende dal defender, prende questo ragazzino di Catanzaro da un lato e gli parla con tono fermo, quasi paterno. “Assumiti la colpa, poi sostieni la tesi della legittima difesa e te la cavi con poco”. Si prese l’intera responsabilità e gli venne riconosciuta la legittimità della difesa e dell’uso delle armi». Sul perché Placanica, assolto definitivamente nel 2003, abbia taciuto, avvitandosi in una serie di versioni contraddittorie, Monai ha una spiegazione sciasciana. «Paura. Anche se dire la verità, avrebbe rappresentato un’assicurazione sul futuro. Certe volte, non è strano che la paranoia sconfini con la realtà».
Lasciò la piazza, Giuliani già a terra, senza rendersi conto della morte di Carlo. Lo conosceva superficialmente. «Non mi accorsi della sua presenza ma anche se ci fosse stato mio fratello, avrei pensato solo ad allontanarmi. Carlo l’avevo incontrato qualche volta ma non si può dire che fossimo amici». Al suo posto comunque, avrebbe potuto esserci lui. «Quando mia madre lo seppe, le venne un colpo. Si arrabbiò, “se quello gira il braccio e spara, ti ammazza, Massimiliano”. Tacqui. Certe volte il silenzio è tutto». Sui poliziotti, Monai spende però parole chiare. «Capisco la loro paura, l’avrei provata anch’io. Fu un brutto episodio, una macchia da cancellare. La mia sfortuna fu di trovarmi nel luogo sbagliato al momento sbagliato. Se Carlo non fosse morto, non sarei mai diventato l’uomo della trave». Si costituì un mese dopo. «Non campavo più. Mi sentivo braccato. Incontravo un agente e tremavo. Quando il 21 lessi il giornale e vidi il sangue, capii che era finita. I miei amici mi offrirono denaro per scappare lontano. ”Ma dove volete che vada? Non ho ucciso nessuno”». Il cerchio si strinse. «Una mattina notai 5 agenti della Digos a pochi passi da casa mia». Allora fece una lunga doccia, uscì dalla sua abitazione, entrò in questura, si consegnò. «Ora lavoro al porto e a gennaio nascerà la mia seconda figlia, Maddalena. Non si può fuggire per sempre, neanche dai ricordi. Placanica? Dopo Carlo è stata l’altra vera vittima del G8. Non uccise, ma per tutti rimarrà un assassino». Adesso aspetta solo un cambio di stagione, la chiusura di una ferita ancora aperta. «Ho perso tanti treni. Avevo 30 anni, oggi sfioro i quaranta». Un altro mondo non è sempre possibile.

Corriere della Sera 19.11.08
La conoscenza scientifica progredisce quando si limita ad approfondire i fenomeni che sono realmente alla sua portata
Dove la mente non può osare
Impossibile conoscere tutto, occorre un equilibrio tra l'infinitamente piccolo e il grande
di Edoardo Boncinelli


Oggi sappiamo tante cose del mondo in generale e del mondo della vita in particolare. Misuriamo e definiamo, descriviamo e spieghiamo, e soprattutto siamo in grado di fare previsioni su ciò che accadrà, oltre che di fornire giustificazioni per ciò che è accaduto. I discorsi della scienza sono insomma sempre meno vaghi e secondo alcuni anche esageratamente lucidi e circostanziati. Per ottenere tutto questo abbiamo dovuto pagare un prezzo abbastanza alto e abbandonare alcune assunzioni e aspirazioni che sono parte integrante della nostra natura umana.
Abbiamo innanzitutto dovuto rinunciare a indagare la natura del tutto e a studiare tutto quanto in una volta sola. Ammesso che il tutto esista e sia definibile — ma che cosa è il tutto? — non è possibile analizzarlo con gli strumenti a nostra disposizione, che sono la ragione definente e argomentante e la pratica sperimentale. In secondo luogo, anche per quanto concerne ciò che abbiamo compreso come comunità umana è spesso difficilissimo per ciascuno di noi farsene un quadro mentale soddisfacente, soprattutto quando ci si avventuri nelle regioni dell'infinitamente grande e in quelle dell'infinitamente piccolo.
Se il mondo dell'infinitamente piccolo è popolato di entità sfuggenti e misteriose che obbediscono a leggi ferree ma incomprensibili, che dire, sull'altro versante, del mondo dell'infinitamente grande, quello che ospita entità enormi come pianeti, stelle, galassie e ammassi di galassie? Qua va forse ancora peggio. Ci parlano del fatto che un corpo di grande massa deforma, incurvandolo, lo spazio- tempo circostante, in modo che anche un raggio di luce che passi nelle sue vicinanze ne viene un po' deviato, e ci dicono che l'universo nel suo complesso si espande.
Nel considerare i mondi dell'infinitamente piccolo e dello straordinariamente grande non possiamo che affidarci ad analogie o a immagini mentali più o meno fedeli. Oppure a formule matematiche di non facile interpretazione, ma che per i fenomeni che hanno luogo in questi mondi remoti rappresentano l'unica forma possibile di conoscenza e di previsione.
In realtà fra l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo si trova il nostro mondo quotidiano. Per una serie di fortunate combinazioni noi ci troviamo proprio nel mezzo o, meglio, appena sopra il punto di mezzo di questa scala ascendente. Noi ci troviamo così appena sopra i confini del mondo dove regnano le leggi dell'infinitamente piccolo. Siamo abbastanza grandi da non subire le bizzarre imposizioni della meccanica quantistica, ma non tanto grandi da non essere in grado di beneficiare di qualcuno dei loro effetti. Apparteniamo insomma al mondo del quotidiano, ma affondiamo le radici nell'humus ribollente dei fenomeni quantistici.
In questa terra di mezzo, si trova appunto l'uomo, questa strana creatura a mezza via fra gli animali della terra e gli angeli del cielo che riesce a comprendere e a rappresentare il mondo che la circonda. Siamo strani animali, animali curiosi a cui è cresciuto un po' troppo il cervello e che vogliono capire questo e capire quello. E a volte anche ciò che non si può capire. Quale altro animale vuole capire come noi? Quale animale si danna l'anima per comprendere com'è fatto il mondo e come è fatto lui stesso, fino ad arrivare a mettere il naso nel proprio genoma? Siamo la prima specie, e forse l'unica, che sa compitare il proprio genoma, cioè il testo che contiene le istruzioni biologiche per farci essere quello che siamo. Siamo la prima specie che ha guardato al di là di quello che riescono a fare i suoi propri sensi. Siamo andati a guardare distanze che stanno molti ordini di grandezze al di sotto di quello che il nostro occhio è capace di vedere e siamo andati a gettare uno sguardo nelle profondità dello spazio, percorrendo distanze che stanno molti ordini di grandezza al di sopra di quello che noi possiamo percepire e concepire.
Il nostro cervello non era nato per questi compiti. Ci siamo evoluti per stare su questa terra, in una foresta o in una savana vicino a un fiume o a un lago, per cercare del cibo, per scappare dalle fiere, per inseguire una bella ragazza o attrarre un bel ragazzo, secondo i gusti. Il nostro cervello è stato fatto per questo e per questo direi che funziona piuttosto bene. Siamo bene attrezzati per certe cose, ma non per tutte.
Eravamo costruiti per un "mondo di mezzo", per confrontarci con le dimensioni degli oggetti con i quali viviamo e pur avendo fatto meraviglie letterarie, architettoniche, pittoriche, musicali e, perché no?, anche meccaniche, che hanno riscosso il plauso di generazioni e generazioni, non eravamo riusciti fino a poco tempo fa ad andare oltre gli oggetti che sono commensurabili con il nostro corpo. Nel secolo scorso ci siamo andati. Con la teoria della relatività da una parte, con la teoria dei quanti dall'altra e con le mirabilie della biologia degli ultimi cinquanta anni abbiamo invaso campi proibiti per i quali non eravamo e non siamo concettualmente attrezzati.
Non riusciamo ad immaginarci l'interno di una cellula né l'incredibile numero di cellule che costituiscono il nostro corpo. Nessuno di noi singolarmente riesce neppure oggi ad immaginare tutto questo, come non riesce a pensare i tempi dell'evoluzione biologica, che si snodano su centinaia di milioni di anni. Solo il collettivo umano, sforzandosi tremendamente e utilizzando i principi semplici ma ferrei della concatenazione logica e della sperimentazione, è riuscito a vedere quello che non poteva vedere ed è riuscito a parlarne.
L'uomo e la sua storia si collocano in una nicchia spazio-temporale molto ristretta. A quella apparteniamo e quella siamo in grado di comprendere. Ma ciò non significa che gli altri mondi non esistano o che non abbiano le proprietà che noi gli attribuiamo. La nostra stessa esistenza è anzi la migliore dimostrazione della necessità del piccolo e del grande. Senza questi estremi non potremmo esistere e molto probabilmente non potrebbe esistere neppure la vita.
Se non esistesse infatti l'infinitamente piccolo, la materia vivente non esisterebbe come tale. Anche un tavolo o una roccia sono costituiti di molecole e di atomi, ma per comprendere molte delle loro proprietà questo fatto può essere momentaneamente ignorato. Non così per la vita, né tanto meno per la vita intelligente. Un essere vivente è costituito di cellule che sono necessariamente piccole e contengono organuli e microapparati ancora più piccoli e per poter pensare deve possedere anche un numero imponente di cellule nervose. Le cellule sono piccoli mondi organizzati e sufficientemente autonomi che non possono che essere formati da un numero enorme di unità costitutive elementari. Se i mattoni del mondo fossero delle dimensioni a noi familiari, anche solo dell'ordine dei millimetri, non ci sarebbero esseri viventi e noi non ci saremmo.
In conclusione, abbiamo serissimi problemi a raffigurarci il molto grande e l'eccezionalmente piccolo ma la nostra stessa esistenza esige e giustifica il grande e il piccolo: il piccolo perché senza di quello non ci sarebbe né vita né intelligenza; il grande perché se l'universo non fosse stato così grande non ci sarebbe stato il tempo materiale perché si formasse la nostra casa comune, la terra, e si potesse avere su di essa un'evoluzione biologica di tale estensione da portare ai gigli, alle orchidee e agli esseri umani.
Perché noi esistiamo è in sostanza necessario che il mondo contenga realtà per noi incommensurabili che si comportino in maniera incomprensibile. Il fatto veramente sorprendente è che almeno in parte riusciamo a comprenderle. E a parlarne, anche se con grande rispetto e quasi religiosa meraviglia.

Corriere della Sera 19.11.08
Esce in edizione anastatica la «Bibliografia» di Paul Colomb de Batines, un testo eccezionale e raro
Dante e la Commedia: c'è tutto un mondo nel catalogo ritrovato
di Cesare Segre


All'origine
Probabilmente l'autore progettò l'opera quand'era studente, colpito dalle lezioni alla Sorbona di Abel-François Villemain Dante, particolare, dal Gabinetto Dantesco al museo Poldi Pezzoli di Milano

Il visconte francese Colomb de Batines (nato a Gap nel 1811), secondo il suo maligno biografo J.M. Quérard, non era visconte, e aveva aggiunto al suo cognome, motu proprio, «de Batines»; in verità si chiamava semplicemente Paul Colomb. Questa autonobilitazione è alquanto stravagante, ma lo era anche la sua vita, segnata dai frequenti problemi finanziari, non del tutto risolti nemmeno con la vendita di libri da lui raccolti né col ricco matrimonio, e da questioni con la giustizia, per diffamazioni o simili, cui più volte si sottrasse con la fuga in altri Paesi. Ma proprio il trasferimento a Firenze, verso il 1844 (vi morì nel 1855), gli diede l'occasione per scrivere le sue cose migliori. Alludo in particolare alla Bibliografia dantesca (pubblicata a Prato fra il 1845 e il 1848), che si consulta e si cita ancora, dopo più d'un secolo e mezzo.
Colomb de Batines era un eccezionale bibliotecario, libraio e bibliografo. S'era occupato in precedenza di storia della stampa, dei personaggi illustri e dei dialetti della sua regione nativa, il Delfinato (Dauphiné), dedicando loro numerosi studi. Fondò pure riviste di bibliofilia. Nel mondo fiorentino entrò facilmente, pur continuando a scrivere in francese (quelle che leggiamo sono traduzioni, promosse da lui stesso), preparando bibliografie su Savonarola o sulle commedie ed egloghe senesi del secolo XVI. Ma il suo capolavoro è certo la Bibliografia dantesca, che forse aveva progettato sin da quando, studente, ascoltò alla Sorbona le lezioni su Dante del comparatista Abel-François Villemain.
Ora la Bibliografia, rarissima, è ristampata anastaticamente dalla Salerno Editrice, a cura di Stefano Zamponi, che fornisce preziosissime notizie nella Postfazione e negli Indici. L'edizione contiene pure l'Indice generale della Bibliografia, curato nel 1883 dal carducciano Alberto Bacchi della Lega, e le
Giunte e correzioni inedite che il filologo e bibliotecario Guido Biagi trasse dall'esemplare dell'opera in cui Colomb aveva continuato a raccogliere riferimenti e notizie (in complesso, tre volumi, per circa 1800 pagine). Curiosa, nella brevissima premessa di Bacchi della Lega all'Indice generale, questa confessione: «Che il mio lavoro sia realmente trovato utile, lo spero; che a me sia riuscito faticoso, è indubitato; e tanto faticoso, che ho giurato meco stesso di non compilar mai più indici». Certo il lavoro di Bacchi era in prevalenza meccanico: pura trascrizione e riordinamento; Colomb, che invece nel suo impegno mise passione e intelligenza, non si sarebbe sognato di pensare qualcosa di simile.
La Bibliografia, intanto, è molto più che una rassegna degli studi su Dante, ai quali sono dedicate comunque più di trecento pagine, utilissime per conoscere i temi cui i critici di allora si dedicavano, per esempio i supposti modelli e le fonti della Commedia, spesso individuati superficialmente, i significati allegorici, la filosofia, l'astronomia, l'atteggiamento di Dante di fronte ai papi, le allusioni a fatti storici, ecc. Qui ci si accorge degli enormi progressi fatti in seguito. Ma anche in questo àmbito il Colomb prende iniziative brillanti, come lo studio approfondito, filologico, dei commenti che furono consacrati sin dalla metà del Trecento alla Commedia, spesso con buona conoscenza dei fatti e delle idee di Dante, oppure le ricerche sull'iconografia che si sviluppò intorno e al seguito della Commedia, dedicando anche piccole monografie ad affreschi, miniature, incisioni di particolare interesse.
Tra le parti più utili di quest'opera, si segnala l'elenco delle stampe, tra le quali spiccano le più antiche: oltre venti incunaboli vengono censiti e descritti da Colomb, con osservazioni giudiziose e l'indice delle biblioteche che ne possiedono esemplari. E l'elenco dei manoscritti antichi non sfigura rispetto a quelli di cui ora disponiamo. Negli altri capitoli, da abile segugio, Colomb riesce a dare spesso notizia di traduzioni o di trattazioni inedite, che potranno ancora essere pascolo per i futuri ricercatori. Per cui questa, come le migliori bibliografie, oltre ad offrire una sintesi del lavoro compiuto, dà suggerimenti per quello ancora da compiere.

Corriere della Sera 19.11.08
Peggy e i suoi amici
Da Rothko a Motherwell Storia di una donna che visse come un'opera d'arte
di Roberta Scorranese


Sarà inaugurata domani la mostra «Peggy Guggenheim e la nuova pittura americana» allo spazio Arca
nell'ex chiesa di San Marco di Vercelli, aperta al pubblico fino all'1 marzo. Orari: da lunedì a venerdì dalle 14 alle 19, il sabato e la domenica dalle 10 alle 20. Il prezzo del biglietto è
8 euro, per altre informazioni: 02 54 27 54. Il catalogo è di Giunti Arte mostre e musei: 208 pagine, costa 35 euro

IL LUOGO Lo spazio Arca, inaugurato lo scorso anno con la mostra «Peggy Guggenheim e l'immaginario surreale», è un parallelepipedo con una copertura vetrata che occupa solo parzialmente la navata centrale dell'ex chiesa di San Marco.
È stato scelto come luogo espositivo della trilogia dedicata alla collezionista americana: la mostra del prossimo anno, la terza, avrà come tema l'arrivo di Peggy a Venezia

La storia della donna che scambiò se stessa per un museo è tutta qui: in questo gigantesco scrigno trasparente in cui i paesaggi spirituali di Marc Rothko si incupiscono sotto le volte di una chiesa quattrocentesca e dove i capricci colorati di Jackson Pollock si accendono di luci misteriose. Sì, perché, nella sua vita, Peggy Guggenheim non chiese la luna (gliel'avrebbero comprata), non chiese l'amore (preferì la bellezza), ma sognò una sola cosa: un paradiso privato.
Gli dei li aveva scelti: Pollock, Rothko, Motherwell e tutti gli altri artisti che, nel dopoguerra, sognavano se non un paradiso almeno una stanza tutta per sé. E Arca, questo corridoio in acciaio e cristallo, ricavato in quella che fu la chiesa quattrocentesca di san Marco, Vercelli, assomiglia a un olimpo surrealista. Qui, come una fiaba espressionista, sfilano le opere della mostra «Peggy Guggenheim e la nuova pittura americana »: un racconto per immagini, la seconda vita della donna che visse come un'opera d'arte. «E, come tutte le seconde vite —, dice il curatore Luca Massimo Barbero — inizia con un viaggio».
Un ritorno: la Seconda guerra mondiale costringe la ricca e colta ereditiera a lasciare la Francia occupata e a tornare a New York. Con sé non porta solo Max Ernst, l'artista che sposa per permettergli di vivere in America. Non porta solo Sebastian Matta e tanti altri talenti europei che a Parigi e a Londra aveva sostenuto. Porta anche «la cultura del Vecchio continente — dice Barbero — l'eredità del Surrealismo, dell'arte russa, delle ricerche astrattiste». Da Miró imparò il valore del simbolo, da Picasso la rivoluzione della forma e da Dalí la suggestione del sogno. I semi c'erano e l'innesto era pronto: «L'astrattismo americano all'epoca — spiega Barbero — era rigido, noioso». Aspettava linfa. Così, nel 1942, mentre l'Europa si logorava nella guerra, intorno alla galleria newyorkese di Peggy, «Art of this Century», l'antica tradizione europea rinasceva in un nuovo mondo. Jackson Pollock assorbiva la lezione surrealista del linguaggio inconscio; William Baziotes osservava ammirato i quadri di Max Ernst, lungo e silenzioso, simile a un elegante volatile; Mark Rothko si riappropriava dell'antico sentimento tragico dei russi. Ed eccola in mostra questa piccola rivoluzione della bellezza: ne «I paracadutisti» (1944) di Baziotes riaffiorano suggestioni cubiste, mescolate a una strana energia del colore. Come certi piccoli sogni nitidi, inspiegabili ma con qualcosa di familiare. In «Senza titolo» (1944) di Arshile Gorky ecco le stesse misteriose macchie di colore alla Kandinsky: basta un'ombra a fondo tela per creare l'inquietudine. In «Personaggio » (1943) di Robert Motherwell ci sono le ansie di Paul Klee.
A detta di figli e nipoti, Peggy Guggenheim non fu una buona madre.
A lei bastava vedere Mark Rothko silenzioso e assorto in una campitura difficile o Jackson Pollock che danzava sulla tela come fosse il re del mondo per essere felice come la più felice delle madri. Fu anche grazie a lei se Pollock scoprì l'arte primitiva: Max Ernst collezionava «Kachinas», le bambole degli indiani d'America. «Fu con il suo sostegno — afferma il curatore — che Pollock codificò il suo personale alfabeto ». In mostra non ci sono solo i celebri dripping, ma anche opere come il bellissimo e visionario «La Donna Luna» (1942): scommettiamo che ci ritroverete Chagall, Klee e Kandinsky? E scommettiamo che ne «L'atomo» di Richard Pousette-Dart (1947) avvertirete un sentore di De Chirico, che tanto affascinava Max Ernst?
Nella New York degli anni Quaranta, in quella bizzarra galleria (pareti curve, quadri appesi a supporti girevoli e opere che ruotano a ritmo di musica) abitò una rivoluzione dei codici: si passava da Freud (l'onirico del Surrealismo) a Jung (la rivoluzione del simbolo). «Rothko lo spiega — dice Barbero — quando afferma: "prendiamo un archetipo e lo mettiamo in un contesto straniante" ». Così, nelle ondate di colore di Pollock spuntano misteriosi «occhi » (come ne «Il Grigio dell'oceano », 1953); in «Equinozio» di Adolph Gottlieb (1944) traspaiono figure biomorfe. L'America ritrovava le radici sciamaniche e si scopriva composita: a casa di Peggy si fondevano la cupezza di Rothko e il talento mediterraneo di Robert De Niro Sr (il padre), le geometrie di Kline e il personalissimo Bauhaus di Hoffmann. Su tutti, lei, naso a patata e lampo ironico negli occhi, pronta a cambiare amanti come artisti. Perché la donna che scambiò se stessa per un museo non può che essere raccontata come un'opera d'arte.

Corriere della Sera 19.11.08
Il personaggio. Tra improvvisazione e psicanalisi
Quella passione per Pollock re del «dripping» vinto dall'alcol
di Francesca Bonazzoli


All'inaugurazione della sua galleria newyorkese, Art of This Century, Peggy Guggenheim esibiva due vistosi orecchini: uno disegnato da Tanguy e l'altro da Calder. Alla sua maniera eccentrica intendeva dire che, fra Surrealismo e Astrattismo, fra Parigi e l'America, lei manteneva una posizione di imparzialità.
Le cose, però, non stavano proprio così: almeno all'inizio, dopo il lungo soggiorno nella capitale del Surrealismo e il matrimonio con Max Ernst, Peggy non aveva ancora gettato il cuore «oltre il realismo» e infatti, fra gli americani, la sua predilezione cadeva proprio su Jackson Pollock che all'epoca, siamo nel 1942, dipingeva quadri a metà fra l'astratto e il figurativo che risentivano della lezione cubista di Picasso («Guernica» era arrivato a New York nel 1939), ma anche delle figure totemiche indiano-americane.
Figlio di poveri contadini emigrati dalla Scozia e dall'Irlanda, Pollock era nato a Cody, nel Wyoming, nel 1912, ma era cresciuto in Arizona e California dove aveva visto gli indiani. Il suo interesse per l'arte nativa americana era del resto condiviso da molti altri protagonisti della scena culturale del tempo: nel 1941, per esempio, il Moma aveva allestito la rassegna «Indian Art of the United States» dove Pollock era rimasto affascinato dai disegni rituali che i Navajo realizzavano con la sabbia in uno stato simile alla trance. Ma il suo interesse andava oltre la curiosità intellettuale: di carattere schivo, timido e sempre a disagio, egli si identificò con i nativi al punto da tenere sotto il letto l'enciclopedia della loro storia e a quel mondo a contatto con le forze primigenie egli saldava l'esperienza psicanalitica che l'aveva aiutato a sopravvivere all'alcolismo. Nel 1937 si era fatto ricoverare nel reparto psichiatrico di un ospedale di New York e lì un analista junghiano lo aveva incoraggiato a disegnare i suoi incubi. Così Pollock, per le sue strade, aveva finito per essere il più vicino alla sensibilità surrealista e, dunque, a quella di Peggy Guggenheim che nel 1943 gli organizzò la prima mostra personale e garantì all'artista uno stipendio mensile per quattro anni in cambio delle sue opere. Peggy adorava Pollock e forse anche per questo odiava Lee Krasner, pittrice ebreo-russa, brusca e autoritaria quanto lei, che sposò il pittore nel 1945: quando nel 1956 la Krasner fece un viaggio in Europa, l'ereditiera ebreo-tedesca non la invitò nemmeno a dormire nel suo palazzo veneziano.
Del resto Peggy aveva chiuso la galleria newyorkese proprio nell'anno, il 1947, in cui Pollock eliminò ogni simbolo e figura per passare al dripping, ovvero a dipingere sgocciolando il colore da spazzoloni. Un lavoro di improvvisazione dentro e intorno allo spazio della tela che da una parte somigliava alle danze rituali degli indiani, e dall'altra ricordava le sessioni jazz di Dizzy Gillespie e Charlie Parker.
In breve tempo Pollock divenne una leggenda alimentata da articoli di giornale come quello su Life che, nel 1949, titolava «Is he the greatest living painter in the United States? », cavalcando il mito di un artista sciamano, capace di grandi bevute, originario del West selvaggio, a contatto con l'inconscio e inventore di una pittura simile a una coreografia.
Ma nel '51 Pollock abbandonò il dripping e tornò a dipingere immagini oniriche e zoomorfe: lui che aveva studiato la pittura tutta la vita e l'aveva poi portata al punto limite di non ritorno, sentiva che doveva recuperarle uno spazio di esistenza per non cadere nella ripetizione e nell'afasia.
La critica, e soprattutto Clement Greenberg, che avevano visto in Pollock l'alfiere di una pittura americana autonoma da quella europea, non glielo perdonarono. Greenberg cominciò a scrivere che Pollock era diventato «molto insicuro di sé»; nello stesso anno l'artista mise termine al contratto con la gallerista Betty Parsons con cui aveva collaborato fin dalla chiusura di quella di Peggy; tentò di lavorare per il mercante Pierre Matisse, ma costui lo rifiutò su consiglio di Marcel Duchamp. Alla fine entrò nella scuderia di Sidney Janis, ma l'alcolismo e un blocco artistico riguardo alla direzione da prendere dopo il successo- empasse del dripping trascinarono il pittore in una spirale negativa che terminò l'11 agosto 1956 contro un albero su cui l'auto di Pollock andò a sbattere dopo un'ultima notte passata a bere.

Corriere della Sera 19.11.08
L'attore e regista Ed Harris
«Per raccontare il James Dean della pittura ne ho esplorato manie e depressioni»
di Giovanna Grassi


La disillusione
«Ho cercato di far rivivere il fallimento della ricerca di un nesso tra politica e pittura che lo portò all'autodistruzione»
Il film
Ed Harris (Jackson Pollock) e Marcia Gay Harden (la moglie dell'artista, Lee Krasner) in «Pollock», uscito nel 2000. Il film, diretto dallo stesso Harris, narra il turbolento rapporto con la compagna che ha influenzato enormemente la vita artistica del pittore americano

Nella casa a Malibu di Ed Harris e di sua moglie, l'attrice Amy Madigan, molte cose parlano di Jackson Pollock. A cominciare dal poster gigante del film sull'artista americano che l'attore cinquantasettenne ha diretto e interpretato nel 2000.
«Ho dedicato dieci anni a preparazione, ricerca dei finanziamenti e realizzazione di quella pellicola, che continua a essere molto richiesta nella versione in dvd, arricchita da spezzoni e interviste — racconta Harris —. Durante il montaggio, ho vissuto in assoluto isolamento, ma non rimpiangerò mai la simbiosi che ho avuto con il personaggio nei mesi delle riprese. Era veramente difficile separare la mia mente da quella dell'uomo che usava tutto il corpo per dipingere».
Cosa la spinse a realizzare quel progetto?
«Considero il cinema uno strumento per studiare le psicologie altrui. Nei confronti di Pollock, sin da quando studiavo arte alla Columbia University, ho sempre nutrito una totale ammirazione. Lo considero un artista "puro": quel suo versare il colore sulla tela, attaccarla al muro invece che metterla sul cavalletto, era un modo d'intendere la vita. Anche per questo, nella sceneggiatura, hanno un peso determinante le molte di scene in cui Pollock dipinge».
Se ripensa al film, che vinse anche un Oscar, quali ricordi emergono ?
«I giorni, le ore, i mesi che ho impiegato studiando i suoi quadri».
Molte sono le tesi, a volte pure strumentali, e le interpretazioni politiche dell'arte di Pollock. Qual è la sua opinione?
«Ho sempre pensato che ci fosse una precisa contemporaneità nel suo lavoro. Questa idea, durante la preparazione del film, mi ha reso quasi maniacale nella ricerca dei rapporti tra politica e pittura sia nella vita che nell'arte espressionista di Pollock. Il non aver trovato una soluzione politica e storica ai tanti temi che lo interessavano — dalla bomba atomica al socialismo — provocò quei traumi destinati a spingere verso l'autodistruzione l'uomo e l'artista».
Nel suo film ci sono Peggy Guggenheim , Lee Krasner , Willem DeKooning e quasi tutte le presenze che contarono per Pollock. Nel racconto, come ha trovato un equilibrio tra vita quotidiana e arte?
«È stato il punto centrale del film, perché questo nesso era l'architrave della sua esistenza e lì si incastravano i rapporti con la moglie, i committenti e gli amici. Ho sempre avuto con Pollock un rapporto particolare, sin da quando mio padre nel 1986 mi regalò un libro su di lui. La sua capacità emozionale mi conquistò come la sua arte, le sue dipendenze e le sue passioni. Un giorno qualcuno mi ha detto che è stato il James Dean della pittura. La sua breve vita riflette crisi generazionali, una inconfessata ricerca del successo, il bisogno di una spontaneità artistica che gli provocava spesso profonde solitudini interiori e difficoltà di relazioni stabili».
Il classico cliché dell'artista «maledetto », tutto impeto e romanticismo?
«Probabile, ma ho cercato di non romanzarne la biografia proprio per evitare la trappola del luogo comune. Ho preferito scandagliare gli obiettivi, le depressioni, i dubbi, il bisogno di non mentire. Non mi interessava, insomma, comporre un saggio sulle tecniche pittoriche».
E qual era il fine ultimo del film?
«Ho provato, e ne sono orgoglioso, a restituire il suo modo "di essere dentro il quadro" che stava creando, il suo bisogno di non perdere il contatto con l'armonia che andava cercando e che sperava fosse in grado di dissipare il caos in cui spesso sprofondava».

martedì 18 novembre 2008

dalle agenzie, 18.11.08
Fausto Bertinotti: “La missione della politica è una democrazia integrata e compiuta”


ROMA - “La missione della politica è una democrazia integrata e compiuta”, "il nostro tempo globalizzato e il primato dell'economia sulla politica mettono a dura prova le nozioni dei padri costituenti: cioè la democrazia, la politica, la società civile. Alle speranze di allora corrispondono le paure di oggi".
Vista la crisi economica mondiale, che è "crisi del capitalismo finanziario", e la "difficoltà della politica a governarla", la politica deve uscire da uno stato di "minorità", perché c'è bisogno della "maturità della politica". Occorre porre un argine al primato dell’economia sulla politica, “le Costituzioni materiali rischiano di sostituire le grandi carte fondamantali che corrono il rischio di un 'nascondimento', come se un'altra stagione politica le potesse oscurare”.
Non bisogna dimenticare “il valore delle carte fondamentali nate dall'ispirazione di uomini doversi, di culture e esperienze diverse" che hanno cercato di dar vita d una società "aperta, libera e giusta, contribuendo a quell'obiettivo di democrazia compiuta che ha bisogno di fare i conti con il concetto di uguaglianza cosi' complesso, ma anche cosi' attuale”.
Quello che non può scomparire è «l’ispirazione che uomini diversi hanno prodotto come fatto comune» e che «è stato proprio il concreto manifestarsi dei valori della libertà nella Costituzione»
E allora la lezione è quella di una politica che gioca il ruolo di "disegnare la società futura".

l’Unità 18.11.08
Sul testamento biologico l’ultima crociata integralista
di Luigi Manconi


Con la leggiadria tutta mondana e amorale delle parole buttate là e con la tetragona protervia dei fatti compiuti, il sottosegretario al Welfare per le questioni bioetiche, Eugenia Roccella, si è messa alacremente a «piantare paletti» (ma perché questo linguaggio da ingegnere del Genio civile?). I «paletti» in questione sono i confini invalicabili posti dal governo e da pressoché tutto il centrodestra all’esercizio della autonomia individuale del paziente in tema di trattamenti sanitari.
In altre parole, è altamente probabile che venga approvata una legge sul Testamento biologico che escluda la nutrizione e l’idratazione artificiali dall’ambito delle scelte sulle quali si possa esercitare la volontà del malato. Insomma, nel mio Testamento non posso dichiarare che - qualora mi trovassi in stato vegetativo persistente - non voglio essere sottoposto a nutrizione e idratazione artificiali.
Con ciò, si avrebbe una legge più arretrata rispetto all’attuale vuoto legislativo (peraltro perfettamente colmato dal dettato costituzionale e dall’intera giurisprudenza). Quel «paletto» è stato ulteriormente puntellato dal sottosegretario in un dibattito nel corso di Gr parlamento: qui, Roccella ha fatto riferimento a un documento del Comitato nazionale di bioetica (2003), dove all’«unanimità» sarebbe stata approvata la posizione cui si richiama oggi il governo.
Le cose non stanno affatto così: l’unanimità si raggiunse su un documento dove, a proposito di nutrizione e idratazione, ci si limitava a presentare due posizioni totalmente divergenti. Secondo alcuni e secondo il sottosegretario, nutrizione e idratazione sarebbero misure di sostegno vitale (dunque non interrompibili) e non trattamenti sanitari.
Bene, io e molti altri non la pensiamo così. Al di là dei numeri parlamentari, che ci sono ostili, ci sarà pure un criterio per dirimere il conflitto? Perché mai, invece, dovrebbe prevalere l’opinione di Eugenia Roccella, laureata in lettere, o quella mia, laureato in sociologia: entrambi non propriamente luminari delle scienze mediche?
Dal momento che la materia è strettamente di natura scientifica forse vale la pena ascoltare il parere del Presidente della società italiana di nutrizione artificiale e metabolismo, Maurizio Muscaritoli: «Si perpetua la confusione terminologica tra "alimentazione" (quella che consiste nella assunzione di alimenti per via naturale) con la "nutrizione" artificiale, la quale, invece si sostanzia nella somministrazione, attraverso una via di accesso artificiale, di nutrienti a persone alle quali è preclusa l’assunzione di alimenti per la via naturale. (…) Inoltre, possibili effetti collaterali indesiderati ed il controllo clinico del paziente rientrano nello specifico ambito delle competenze mediche».
Chiarissimo. Aggiungo che in tutta la letteratura scientifica internazionale, questa è la posizione larghissimamente maggioritaria. Non dico la Roccella, ma anche la Teologia morale dovrebbe saggiamente tenerne conto.

l’Unità Roma 18.11.08
L’Onda diventa musicale


Ci sono onde e onde. Quelle del mare, certo, ma anche quelle sonore. Lo sanno bene i ragazzi in mobilitazione della Sapienza che per stasera, a partire dalle 19, hanno organizzato un maxi-concerto gratuito dal titolo "Siamo in Onda". «Se non lo avessi fatto sarebbe stato "Stamo a dormì"», scrive sul suo blog Andrea Rivera, organizzatore insieme agli studenti della "serata anomala". Tanti gli ospiti sul palco: Enrico Capuano, Banda Osiris, Valerio Mastroandrea, Daniele Silvestri, Simone Cristicchi e Assalti Frontali. E ancora, Elio Germano e Le Bestie Rare, Dario Vergassola, Remo Remotti, Lillo & Greg, i Tre Allegri Ragazzi Morti e tanti altri. Non solo musica, però. Anche teatro. Sono previste, infatti, proiezioni di alcuni video di Ascanio Cestini, Moni Ovadia, Antonio Rezza e Flavia Mastrella. «Siamo in Onda perché le nostre mobilitazioni vogliono parlare a tutta la società».

Repubblica 18.11.08
Rapporto German Marshall Fund-Compagnia San Paolo: nel nostro Paese il 66% collega immigrati e criminalità
Stranieri e reati, in Italia il record della paura
Francesi e olandesi vedono invece i nuovi arrivi come un´opportunità
di Alberto D’Argenio


BRUXELLES - Gli italiani sono il popolo che più ha paura dell´immigrazione. Più degli altri europei e più degli americani. Un dato che emerge dal rapporto messo a punto dal German Marshall Fund e dalla Compagnia di San Paolo intitolato "Transatlantic trends immigration". I numeri parlano chiaro: l´86% teme l´immigrazione illegale e il 68% di essi, percentuale più alta d´Europa, pensa che la maggior parte degli stranieri siano in Italia senza permesso. Approccio che spiega perché l´82% dei nostri concittadini voglia il rimpatrio degli immigrati. E ancora, il 66%, dato record, ritiene che l´immigrazione aumenti la criminalità a fronte di una media europea del 52% e americana del 47%. Problemi, da noi, anche con gli immigrati musulmani: il 60% ritiene che non rispettino le altre culture. Sentimenti di chiusura superiori al resto d´Europa e agli Usa. Su entrambe le sponde dell´Atlantico, ad esempio, non si crede che l´immigrazione favorisca il terrorismo, con Francia e Olanda - tra i paesi con la percentuale più alta di stranieri - che vedono i nuovi arrivi più come un´opportunità che come un pericolo. Ma l´ansia resta ovunque, con europei e americani concordi sul fatto che gli stranieri andrebbero accolti solo se in possesso di lavoro e padronanza della lingua.
Oggi la Commissione europea pubblicherà un rapporto dal quale emergerà che l´allargamento a Est non ha turbato il mercato del lavoro dei vecchi paesi Ue: la temuta invasione degli idraulici polacchi, simbolo delle paure dell´Europa occidentale, non si è verificata. Il numero di romeni e bulgari, ad esempio, che si sono spostati per lavoro è passato da 1,3 milioni a 1,6 milioni dopo l´ingresso in Europa, anche se la maggioranza si è trasferita in Spagna e Italia.

Corriere della Sera 18.11.08
Domani voto sul dossier che critica Roma
L'Europarlamento: l'Italia odia i Rom Il Ppe: provocazione
di Luigi Offeddu


BRUXELLES — «Le azioni perpetrate contro i Rom ad opera delle autorità italiane violano un certo numero di obblighi assunti dall'Italia nel quadro della legge internazionale sui diritti umani... Perciò il governo italiano deve cessare immediatamente di diffondere commenti contro i Rom e di propagare l'odio verso di essi...».
Sono alcune fra le ultime righe del rapporto sulla situazione dei nomadi Rom in Italia, che sta oggi sui tavoli della Commissione Libertà civili, giustizia e affari interni del Parlamento Europeo. Domani, sarà discusso dalla stessa Commissione: e se, come sembra probabile, ne verranno confermate e ufficializzate le conclusioni, da «rapporto intermedio » qual è ora tecnicamente si trasformerà in una relazione su cui sarà chiamato a votare l'intero Parlamento.
E' un documento severo nei toni e nella sostanza, basato su tre filoni di informazione: il viaggio compiuto in settembre a Roma da una delegazione della stessa Commissione (e «movimentato » da una accesa discussione con parlamentari italiani); le relazioni di varie Organizzazioni non governative; e infine, un elenco di episodi di cronaca, dai roghi nel campo di Ponticelli alle chiusure di altri campi a Milano o nel Lazio Alla fine, le conclusioni. L'Italia viene invitata «ad adottare una campagna nazionale antirazzismo per migliorare la percezione pubblica dei Rom», a «indagare su tutti i casi presunti di maltrattamenti da parte delle forze dell'ordine», «a condannare pubblicamente tutti i pogrom anti-Rom», «a cancellare senza ritardo tutte i provvedimenti che prendano di mira negativamente i Rom». Esempi: «i Patti per la sicurezza adottati a Napoli, Roma, Milano, Firenze»; le misure di emergenza decise in maggio per i campi in Campania, e «l'iniziativa da parte del ministro dell'interno Roberto Maroni di compiere un censimento dei Rom in Italia attraverso la rilevazione delle impronte digitali, fatto che viola ulteriormente le leggi sulla protezione dei dati personali».
Le prime indiscrezioni sui contenuti nel rapporto hanno già acceso la polemica nei saloni del Parlamento. Anche perché nella Commissione libertà civili, «governata» da una maggioranza composta da socialisti, Verdi e liberali, siedono molti deputati italiani. «Ho l'impressione che questo rapporto sia prima di tutto intempestivo — dice Mario Mauro, cattolico del Ppe e vicepresidente del Parlamento — perché bisognerebbe aspettare almeno sei mesi, per giudicare i risultati delle misure adottate dal governo. Ma poi, il testo ha più che altro il senso di una provocazione ». In che senso? «Beh, pecca in parte di un approccio ideologico: vari colleghi sono andati in Italia con la voglia di applicare una lettura predefinita, piuttosto che di cercare la verità dei fatti. Che sono complessi, e antichi: perché il degrado dei campi durava da anni, non è iniziato tre giorni prima della visita della Commissione.... Poi, certo, il problema esiste: però ne parliamo oggi, solo perché questo governo ha deciso di affrontarlo. Dopo, diremo se ha agito bene o male: ma per favore giudichiamolo sui fatti, non in base ai pregiudizi».

Repubblica 18.11.08
"No alla commissione sul G8" alt del centrodestra al Pd, è scontro
Il dibattito dopo la lettera a "Repubblica" del capo della polizia Manganelli
Cossiga propone l´organismo di inchiesta. La sinistra: è troppo tardi
di Alberto Custodero


ROMA - «Manteniamo fermo il nostro "no" all´istituzione di una Commissione parlamentare d´inchiesta sui fatti del G8 di Genova». Il presidente dei deputati Pdl Fabrizio Cicchitto chiude la porta al dialogo con il leader del Pd Walter Veltroni, che ieri su Repubblica ha proposto di «accertare la verità in Parlamento» dopo la sentenza di primo grado di Genova sui pestaggi alla Diaz. E, soprattutto, dopo l´annuncio che il capo della Polizia Antonio Manganelli «è pronto a muoversi nelle sedi istituzionali» per raccontare come si sono svolti quei drammatici fatti. La maggioranza respinge la proposta di Veltroni anche per voce del vicepresidente dei senatori Gaetano Quagliariello, secondo il quale «bisogna evitare di attivare la sede parlamentare come una sorta di contropotere all´indomani di sentenze non gradite e non passate in giudicato».
Non prende posizione, al momento, il ministro dell´Interno, Roberto Maroni: «Ho scelto di non parlare e continuo a non farlo», afferma il responsabile del Viminale, che si limita a dire che aspetta di leggere le motivazioni della recente sentenza che ha mandato assolti i dirigenti della polizia che comandarono e diressero l´irruzione nella scuola Diaz. Il Pd, però, non ci sta, fa quadrato con Veltroni. Ed è scontro. Ad attaccare è il vicepresidente dei deputati del Pd, Gianclaudio Bressa, che, pur senza citarlo, chiama in causa l´ex ministro dell´Interno ai tempi del G8, Claudio Scajola, ora ministro dello Sviluppo Economico.
«Questa preclusione pregiudiziale del Pdl - tuona Bressa - sembra un mettere le mani avanti per il timore che vengano fuori cose compromettenti su esponenti dell´attuale maggioranza di Governo».
Sulla proposta di Veltroni si registra la presa di posizione del senatore a vita Francesco Cossiga secondo cui, «dopo le parole del dottor Manganelli, che ha ammesso l´esistenza di fatti ancora ignoti, o peggio tenuti nascosti, l´istituzione di questa Commissione non solo è opportuna, ma è anche assolutamente necessaria». Cossiga va oltre e, dopo aver sottolineato l´urgenza di «fare chiarezza sull´ex capo della Polizia Gianni De Gennaro, che fu responsabile della gestione operativa di quelle giornate», propone addirittura una rosa di nomi di possibili candidati alla presidenza, fra i quali i senatori a vita Carlo Azeglio Ciampi e Oscar Luigi Scalfaro. Cossiga ha escluso la propria candidatura (e anche quella di Giulio Andreotti), «avendo fatto parte di governi che una parte dell´opinione pubblica ritiene responsabili di attività oscure o antidemocratiche nella gestione della sicurezza negli anni ?60, ?70 e ?80». Quest´ultima dichiarazione è stata lo spunto per Vittorio Agnoletto, portavoce del Genoa Social Forum ai tempi del G8, per passare al contrattacco.
«La Commissione d´inchiesta va fatta - dice Agnoletto - ma sulla morte di Giorgiana Masi (la diciannovenne uccisa in una manifestazione di piazza nel ?77 da killer rimasti sconosciuti, ndr), e sulla gestione dell´ordine pubblico nel periodo nel quale Cossiga era ministro dell´Interno». «Proporre ora una Commissione d´inchiesta sui fatti di Genova - ha aggiunto Agnoletto - è semplicemente un atto provocatorio con la consapevolezza della cattiva fede». Attualmente sono due le proposte di legge per l´istituzione di una Commissione sul G8: una, a Palazzo Madama, porta la firma del senatore del Pd Roberto Della Seta, l´altra, alla Camera, è dei radicali eletti nel Pd, primo firmatario Maurizio Turco.

l’Unità 18.11.08
La Scala come l’Alitalia. E la «prima» è a rischio
di Oreste Pivetta


Gli autonomi sempre in rotta sul contratto integrativo sottoscritto dagli altri sindacati. Il consiglio d’amministrazione: non c’è più trattativa. Il sovrintendente Stèphane Lissner: resterò fino al 2013.
Da quel vecchio palco della Scala si assiste per l’ennesima volta all’incombere della minaccia sulla «prima»: sciopero e non v’è parola di cui più si abusi tra i velluti rossi del teatro piermariniano. Un’altra volta per l’integrativo, come l’ultima volta, un anno fa. La Scala, dal punto di vista dei contratti, sembra un cantiere senza fine, quello più rumoroso e fragoroso, tutto squilli di tromba, all’angolo di un altro cantiere che non si chiude mai e che si potrebbe intitolare alle fondazioni liriche o al Fus, il tormentato Fondo unico dello spettacolo, fonte di vita per decina di teatri. Solo una settimana fa il ministro Bondi aveva promesso la riforma delle fondazioni e soprattutto il rifinanziamento del Fus, per restituire nel 2009 quello che è stato tolto nel 2008, in vigore Tremonti. Intanto niente quattrini, ma liricissimo il tono del documento finale, pomposo alla maniera del ministro, riconoscendo «l’alto valore culturale dell’attività di promozione del patrimonio lirico ecc ecc».
Il caso Scala si allinea in qualche modo al caso Alitalia: un sindacato autonomo in lotta contro tutti, una ristrettissima minoranza d’elite (orchestrali e coristi, neanche l’otto per cento dell’intera truppa scaligera), che blocca le recite e minaccia appunto la gloriosa serata del 7 settembre (con il Don Carlo di Verdi).
Nel luglio scorso gli altri sindacati (con la Cgil in testa, che vanta iscritti pari al sessanta per cento delle maestranze) avevano firmato il contratto integrativo, che vale undici milioni e mezzo in quattro anni. Il Fials aveva detto no e aveva programmato i suoi scioperi. Adesso se ne annunciano altri: «Con estremo rammarico, la direzione del Teatro alla Scala rende noto al pubblico che... le ultime tre recite di Die lustige Witwe (La vedova allegra) previste per mercoledì 19 novembre 2008, venerdì 21 e domenica 23 non potranno avere luogo». I biglietti saranno rimborsati e qui si rimanda a un conto ormai pesante per il bilancio della Scala, per la fama dell’istituzione, per i salari di chi non fa l’orchestrale e si deve accontentare di uno stipendio che sta sotto i duemila euro al mese (macchinisti, falegnami, pittori, eccetera eccetera).
Il consiglio d’amministrazione proprio ieri ha comunicato che la trattativa è chiusa. Il bravissimo sovrintendente, Stéphane Lissner, che in un paio di stagioni ha riportato alla pari il bilancio, s’è guadagnato il pieno appoggio sia dentro che fuori il teatro (nello stesso consiglio d’amministreazione di ieri ha confermato che resterà in carica fino al 2013 «seguendo e realizzando il progetto ormai definito nei dettagli fino all’Anno Verdiano e Wagneriano»). Nessuno, dentro e fuori il teatro, sembra voler dare spazio agli autonomi. L’accusa è di irresponsabilità, perchè il danno di immagine ogni serata di sciopero è grande. Figurarsi se il sipario dovesse rimanere abbassato la sera della «prima». Un disastro internazionale. «Una corporazione», dice il segretario dei lavoratori dello spettacolo di Milano, Giancarlo Albori, «che rischia di distruggere un teatro che appartiene alla città di Milano, che ha ricostruito la sede dopo la guerra, che lo ha promosso come primo ente lirico pubblico in Italia».
Per che cosa? Difficile districarsi nella giungla dei redditi e delle indennità. Ci sono cose che colpiscono, come il due per cento chiesto in più, oltre l’inflazione, il che farebbe pensare a una privatissima scala mobile, di cui nessun altro lavoratore in Italia può godere. O come la storia della Filarmonica: cioè la possibilità di farsi per proprio conto una stagione sinfonica parallela.
Il guaio, oltre gli scioperi, è la tensione: il teatro è diviso e l’attendono giornate turbolente.

Repubblica 18.11.08
Scoperta in Sassonia la sepoltura di una coppia con i due figli Vissuti nell´età della pietra. Morti in guerra, furono tumulati uniti
Ecco la famiglia più antica del mondo
di Elena Dusi


Le circostanze della morte parlano di un´epoca di violenza furiosa

Ha 4.600 anni la storia d´amore più lunga. Gli archeologi hanno trovato l´uomo e la donna ancora uniti. Hanno liberato dalla terra le loro ossa intrecciate e hanno notato che tra le braccia stringevano anche due bambini. In piena età della pietra, quella venuta alla luce a Eulau in Germania è la prima famiglia umana di cui si abbia una conoscenza certificata con il test del Dna: niente a che vedere con l´uomo dalla clava in mano dei fumetti, ma un´immagine di unione e pietas familiare. Anche se le circostanze della morte della coppia e dei loro figli parlano di un´epoca di violenza furiosa fra le varie tribù di umani.
Le ultime ore della famiglia di Eulau sono state trascorse in battaglia, probabilmente con il gruppo di un altro villaggio. Il figlio minore di 4 o 5 anni ha il cranio sfondato. I genitori e il primogenito di 8 o 9 anni hanno fratture sugli avambracci, come se avessero tentato di difendersi. Attorno ai loro scheletri sono state deposte le asce e i gioielli che gli appartenevano in vita. Alcune sepolture più in là, una donna ha una punta di freccia conficcata in una vertebra. In tutto tredici individui sono stati sotterrati nella collina di Eulau. Oltre alla coppia con due figli, c´è una donna con i suoi tre bambini, un uomo con due "cuccioli" di 4 e 5 anni e un´altra madre con quello che probabilmente era suo figlio e aveva 5 anni al momento della battaglia.
Dopo la strage, qualcuno che era scappato mentre asce e lance roteavano, è tornato per ricomporre i cadaveri. E li ha sepolti tenendo conto dei loro legami familiari, sistemando in un abbraccio millenario l´uomo e la sua donna con i due bambini accoccolati al petto, come se proteggerli servisse ancora a qualcosa. «La loro unione nella morte suggerisce un´unione anche nella vita» scrivono i ricercatori inglesi e tedeschi delle università di Bristol e di Mainz guidati da Wolfgang Haak. Anche se la tomba di Eulau è stata scavata a partire dal 2005, è solo oggi che la rivista Pnas (Proceedings of the national academy of sciences) pubblica i risultati degli esami svolti con il Dna, la datazione al radiocarbonio e l´analisi delle molecole contenute nelle ossa e nei denti.
Qualche elemento in più sui rapporti fra uomo e donna nell´età della pietra arriva proprio dallo studio dei denti. La loro composizione racconta infatti di quali alimenti si sia nutrito un individuo durante l´infanzia, quando incisivi e canini si sviluppano. Tutte le donne sepolte a Eulau, hanno scoperto Haak e i colleghi, hanno seguito una dieta diversa dagli uomini e dai figli che sono nati dalle loro unioni. «Segno che erano originarie di villaggi diversi e si sono trasferite nella dimora del marito nel momento in cui hanno generato i bambini».
I ricercatori non si illudono però che nel terzo millennio avanti Cristo le famiglie umane avessero assunto una forma simile a quella codificata con il matrimonio moderno. «Quella che abbiamo scoperto è la famiglia più antica il cui legame sia stato confermato dal test del Dna» scrivono. «Ma sappiamo anche che in quel contesto e quell´epoca le unioni poligame erano prevalenti e le coppie vivevano spesso vicende personali turbolente».

Repubblica 18.11.08
Docenti stranieri per salvare l’Università
di Piergiorgio Odifreddi


L´unica vera soluzione sarebbe azzerare tutte le gerarchie accademiche. Ma può farlo solo un dittatore
Le proteste contro le decurtazioni indiscriminate non ci inducano a difendere lo status quo
Un professore che ha spesso insegnato all´estero affronta i problemi dei nostri atenei falcidiati dai tagli del governo

I recenti provvedimenti, in verità parecchio sprovveduti, presi dal governo sulla scuola e sull´università hanno avuto almeno un effetto positivo: quello di stimolare all´autocoscienza studenti e professori, e di attirare l´attenzione della popolazione sulle disastrose condizioni in cui versa l´istruzione nel nostro paese, dalle elementari ai dottorati di ricerca. La protesta contro i tagli indiscriminati ai fondi e al personale, a cui si riducono tutti i provvedimenti citati, non può però essere intesa come una difesa dello status quo e dell´organizzazione del nostro sistema scolastico e universitario, i cui molti anacronismi non trovano l´uguale in Europa e nel mondo.
Per evitare di fare un discorso accademico (un termine che, significativamente, potrebbe essere inteso sia come «universitario» che come «ozioso»), mi sia permesso di riferirmi direttamente alle mie esperienze di studio e di insegnamento all´estero: dopo essere entrato all´Università di Torino nel 1973, dapprima come borsista, e poi via via come contrattista, assistente, associato e ordinario, mi sono infatti parallelamente perfezionato alle Università dell´Illinois e della California negli Stati Uniti (1978-80) e di Novosibirsk nell´Unione Sovietica (1982-1983), e in seguito sono stato un regolare professore a contratto a Cornell (1985-2003), oltre che uno sporadico visitatore di università australiane e cinesi, nelle quali ho trascorso rispettivamente un semestre (1989) e tre (1992, 1995, 1998).
In queste lunghe visite, ho naturalmente avuto occasione di sperimentare l´organizzazione degli studi in paesi sia capitalisti che comunisti, e di scambiare informazioni e opinioni coi colleghi stranieri, sollevando dovunque la sorpresa e l´incredulità per i nostri meccanismi didattici e concorsuali. Primo fra tutti il nostro assurdo sistema di esami, che non solo è tuttora in vigore, ma viene considerato dagli studenti come un diritto acquisito, invece che il residuo fossile di un bizantinismo degno forse di altri tempi, ma sicuramente indegno del nostro. Dovunque abbia insegnato, invece, mi venivano comunicati con mesi di anticipo e in maniera tassativa non solo le date di inizio e di fine dei corsi, e l´orario delle lezioni, ma anche le date degli esami.
Anzi, la data dell´esame, perché esso avveniva inderogabilmente per scritto e in un unico giorno, con una prova uguale per tutti, a distanza più o meno di una settimana dalla fine del semestre: altro che la nostra operetta di prove orali e appelli multipli, che in molti casi arrivano fino a otto all´anno, e permettono agli studenti di ripresentarsi indefinitamente a sostenere lo stesso esame, a distanza magari di anni da quando è stato tenuto il corso! Perché ci stupiamo che metà degli studenti universitari siano fuori corso, quando siamo noi stessi a spingerli a non tenere nessun ritmo e a permettere loro di non dare gli esami nell´unico momento in cui ha senso darli?
Per quanto posso testimoniare io, non solo negli Stati Uniti, ma anche in Russia, Cina e Australia, e dunque indipendentemente dal sistema economico del paese, chi non passa l´esame al momento giusto deve ripetere il corso l´anno dopo, con tutti i costi (letterali e metaforici) che questo gli comporta. E chi si inalberasse a sentire la parola «costi», dovrebbe meditare su quelli comunque esatti dal nostro sistema: invece di un giorno di esami e uno di correzioni degli scritti, da noi ogni orale richiede infatti una media di mezz´ora per studente, e dunque spesso centinaia di ore per corso, che vanno moltiplicate per il fattore di ripetizione studentesca dell´esame e per il numero dei commissari delle commissioni. Un enorme dispendio di risorse, che potrebbero essere meglio utilizzate altrimenti.
Con un sistema del genere, che richiedesse di tornare una mezza dozzina di volte l´anno per gli appelli, io non avrei mai potuto insegnare all´estero, né avrei potuto dedicare il mio tempo alle uniche attività che un professore dovrebbe svolgere, e cioè l´insegnamento e la ricerca. A proposito delle quali, va notato che in Italia la progressione di carriera è determinata (almeno ufficialmente, a parte le distorsioni sulle quali torneremo) dalla sola ricerca, mentre gli obblighi universitari riguardano il solo insegnamento: una schizofrenia singolare, che non tiene in nessun conto il fatto che un bravo ricercatore può essere un pessimo insegnante, e viceversa.
In Unione Sovietica si evitava questa schizofrenia permettendo ai professori di ripartire il proprio impegno tra la ricerca presso l´Accademia delle Scienze e l´insegnamento presso l´Università, in proporzioni variabili, che potevano arrivare fino al cento per cento dell´una o dell´altro. Negli Stati Uniti il sistema è più complesso, ma le università in genere pagano lo stipendio soltanto per i nove mesi dell´insegnamento: i rimanenti tre mesi devono essere finanziati dalla National Science Foundation (fatte le dovute proporzioni, un analogo del nostro Consiglio Nazionale delle Ricerche) e da accordi con industrie o centri di ricerca privati.
A proposito di stipendi, una differenza sostanziale è che negli Stati Uniti essi non sono rigidamente legati a un´automatica «progressione di carriera», e vengono invece contrattati individualmente con la propria Facoltà, sulla base di parametri che tengono conto del livello e dell´impegno del docente: in particolare, le valutazioni provengono non soltanto dai colleghi locali e nazionali, ma anche dagli studenti, che alla fine di ogni corso compilano anonimamente dettagliati questionari sulla qualità generale e specifica dell´insegnamento. Una bella forma di tutela, questa, che elimina alla radice la piaga di quei professori terroristi che bocciano sistematicamente la maggioranza degli studenti, senza rendersi conto del fatto che questo la dice più lunga sul livello del loro insegnamento che su quello dell´altrui apprendimento.
Quanto al reclutamento dei professori, e sebbene questo possa sembrare inconcepibile da noi, negli Stati Uniti esso viene deciso dalle università in totale autonomia, anche se ovviamente sulla base della distribuzione di potere inter - e intradipartimentale. I candidati sono invitati a presentare un paio di «lettere di raccomandazione», e possono decidere se riservarsi o no il diritto di visionarle: naturalmente, facendolo si condannano a un giudizio asettico e tutto sommato inutile, mentre non facendolo si assoggettano all´espressione di un giudizio spassionato e spesso determinante, in ogni caso supplementato dai pareri di esperti interpellati direttamente dall´università.
Il processo mira ovviamente a selezionare il migliore, anche perché l´istituzione ha tutto l´interesse a farlo. Il valore di mercato delle lauree e dei dottorati dipende infatti dal livello delle università in cui sono conseguiti, e questo livello è certificato da apposite graduatorie nazionali, ottenute attraverso sondaggi in cui i professori di ciascuna università valutano il livello delle altre, senza poter valutare la propria. Non avendo invece nessun incentivo a selezionare i migliori, le nostre università finiscono spesso di accontentarsi dei peggiori, cooptati in base ai «criteri» clientelistici, nepotistici e favoritistici che tutti conosciamo.
Per continuare con le testimonianze personali, io stesso ho dovuto vincere la cattedra due volte, perché la prima che vinsi fu dirottata a un ricercatore che nel frattempo non era riuscito a diventare associato per mancanza di titoli! Di casi simili ogni professore ne può citare a volontà, ma le mele marce che nel frattempo sono entrate a valanghe in università, ci sono rimaste e hanno proseguito la loro carriera: quel ricercatore, ad esempio, è poi diventato preside di facoltà da qualche parte, e altri saranno arrivati anche più in alto.
Fanno dunque tenerezza, per non dir altro, i tentativi del ministro di introdurre meccanismi di sorteggio dei commissari nei concorsi a cattedre: a parte il fatto che queste pensate erano già state adottate nel passato, senza alcun effetto visibile, non si può ovviamente impedire che la mala sorte selezioni proprio le mele marce, né è da esse che ci si può sensatamente attendere un rinnovamento. L´unica vera soluzione sarebbe un immediato azzeramento di tutte le gerarchie universitarie, ma poiché nemmeno un dittatore potrebbe imporre una misura così radicale, bisogna aspettare che lo facciano gradualmente l´età e la pensione. Nell´attesa possiamo pure sorteggiare i commissari per i futuri concorsi: ma che siano stranieri, che possano portare gradualmente il nostro povero Bel Paese ai criteri e agli standard adottati nel mondo intero, dagli Stati Uniti alla Russia alla Cina all´Australia.

Corriere della Sera 18.11.08
I rapporti tra pensiero decostruzionista e progettazione
«Derrida si chiedeva: che c'entro io con l'architettura?»
di Massimiliano Fuksas


Non sono sicuro che Derrida abbia «armato» la mano degli architetti. Sicuramente non è il filosofo francese l'inventore della pessima espressione «archistar», che il titolo del pur felice articolo di Pierluigi Panza ( Corriere della Sera del 15 novembre) evoca. Il merito dell'articolo è quello di rimettere in discussione, in termini positivi, i rapporti fra filosofia e architettura. A parte la passione vibrante di Bernard Tschumi per Derrida sin dall'epoca del concorso per il Parc de la Villette da lui vinto, e di François Barré, sofisticato intellettuale allora presidente dell'Etablissement Public del Parc de la Villette, non ci sono molte spiegazioni al successo delle teorie di Jacques Derrida nel mondo dell'architettura. A questo proposito vorrei ricordare qui di seguito una mia breve nota apparsa su L'Espresso del 28 ottobre 2004.
Alcuni anni fa, Derrida disse che non riusciva a comprendere perché fosse così amato e citato dagli architetti in tutto il mondo. Alla fine di una conferenza mi confidò che aveva più inviti da gruppi di architetti che da facoltà di filosofia. L'autore di Il sogno di Benjamin, Politica dell'amicizia, L'ospitalità, Quale domani, e studioso e critico di Heidegger, amico di Foucault, di Lacan e degli strutturalisti, scomparso nel 2004, ha avuto una fortuna incredibile per chi professa la fede nel costruire! La parola chiave decostruzionismo, utilizzata da Derrida come base per una riflessione critica su gran parte della filosofia, è stata per gli architetti una parola magica. Alcuni anni fa Philip Johnson organizzò a New York una mostra con questo titolo. Chiamò un gruppo di creatori differenti tra loro, ma resi simili e omogenei dal «cappello» con cui coprì Gehry, Coop Himmelblau, Zaha Hadid e altri: tentava di riprodurre l'effetto che aveva avuto decenni prima il libro International style, in cui aveva dato limiti e contenuti a una lunga serie disomogenea di autori. Non so bene in che modo un architetto possa aver trasferito le «aporie» di Derrida nel vile mestiere dell'acciaio, del vetro, del mattone o simili. In ogni caso la parola «decostruttivismo » ha generato un movimento che probabilmente per Derrida era quanto mai semplicistico. Forse le tracce della sua influenza nel piccolo universo dell'architettura si possono trovare in concetti come il passaggio al limite, l'evento, la casualità di molti accadimenti e la difficoltà di comprenderne i meccanismi. Come diceva: «La decostruzione passa per essere iperconcettuale e certamente lo è, dal momento che fa un grande consumo di concetti, concetti che genera almeno tanto quanto eredita. Essa tenta di pensare oltre i confini stessi del concetto».

il Riformista 18.11.08
Senza Veltroni il Pd non esisterebbe più
di Ritanna Armeni


È l'unico che per il momento riesce a tenere insieme gli errori di tutti. Walter forse non è il segretario che oggi piace al Partito democratico, ma è sicuramente il segretario che quel partito, per come è nato, fino ad oggi ha meritato

Questo è un articolo in difesa di Walter Veltroni. Sì, in difesa del segretario di un partito, il Pd, che non ho votato, al quale non sono iscritta, sulla cui politica, e non solo di questi mesi, dò un giudizio pesantemente negativo. Non lo scrivo solo per un edificante istinto che spinge a difendere chi è attaccato da coloro che in precedenza lo hanno elogiato e magari incensato. Lo ammetto subito, i miei sentimenti sono meno nobili. È l'irritazione che mi provocano i suoi avversari, i loro risentimenti e la loro cecità politica. Uomini e donne che fingono di non rendersi conto di quanto l'attuale segretario sia una garanzia per il partito che insieme hanno voluto e costruito. Di quanto quel partito senza la leggerezza, il dirigismo ammantato di buonismo, l'antiberlusconismo soft mai maleducato, la tranquillità con cui si può soprassedere su questioni importanti -tutte "virtù" di Walter Veltroni - sarebbe già spaccato.
Ragionino bene coloro che attaccano. Che cosa sarebbe senza Walter Veltroni un Partito democratico in cui secondo alcuni dirigenti (non solo Paola Binetti che almeno lo dice ) gli omosessuali sono pedofili? Posizione che in altri provoca un brivido. E che contiene posizioni molto diverse su questioni come le convivenze fuori dal matrimonio, l'aborto o il testamento biologico? Walter Veltroni è riuscito soavemente a presentare come cultura pluralista l'assenza di un'opinione condivisa sulle grandi questioni etiche, ad esibire come liberalismo la mancanza di decisioni, a ricordare che nel partito democratico americano su queste questioni convivano felicemente posizioni diverse, a far dimenticare che su alcune di queste, per esempio la ricerca sulle cellule staminali embrionali, il neopresidente Barak Obama ha promesso un intervento immediato.
Che cosa sarebbe il Partito democratico senza Walter Veltroni di fronte alla proclamazione da parte della Cgil dello sciopero generale, di fronte alla divisione dei sindacati, di fronte a Cisl e Uil che flirtano più o meno segretamente con il governo? Ci sarebbero coloro che apertamente direbbero che Epifani sbaglia, quelli che difenderebbero le posizioni delle loro vecchie confederazioni di riferimento, quelli che invece sosterrebbero la necessità di uno sciopero generale contro il governo. Sarebbe discussione, divisione, conflitto.
Grazie a Walter Veltroni tutto questo non avviene. Sotto la sua direzione Enrico Letta può affermare che il Pd certo non sciopera. Sergio Chiamparino che lo sciopero generale è necessario, ma non sufficiente, Massimo D'Alema, e con lui molti altri, possono tacere sulla decisione della Cgil e fare richiami drammatici sulla gravità della crisi che richiederebbe ben altri interventi che non la piazza e la protesta.
No, non è davvero comprensibile questo tiro al piccione nei confronti del segretario del Pd. Non è assolutamente condivisibile questo scaricare su di lui le responsabilità che sono di tutti. Non vedere come lui sia l'unico che per il momento riesce a tenere insieme gli errori di tutti. In fondo Veltroni ha fatto quello che aveva promesso di fare e che tutti hanno appoggiato. Ha rafforzato nel Paese un bipolarismo che era incerto. Ha tagliato i ponti con una sinistra radicale che anche grazie a lui è stata cancellata dal Parlamento. Ha anche perso le elezioni, ma coloro che oggi lo attaccano avevano ben presente questa possibilità, e solo un anno fa, la ritenevano di gran lunga il male minore di fronte al bene rappresentato da un bipolarismo più forte e dall'annientamento della sinistra. Meglio la chiarezza, si diceva.
E allora? La chiarezza c'è. Quel che doveva essere fatto è stato fatto. Se il Pd è un partito composito, con una scarsa identità e una capacità di incidere nella vita politica italiana ancora più scarsa la responsabilità è di tutti. Quel che lo tiene insieme in positivo è una sorta di antiberlusconismo soft il cui merito è ancora una volta del segretario. L'afasia sulle questioni etiche e sociali non sarebbe bastata infatti senza questo antiberlusconismo beneducato, lontano dagli estremismi di Di Pietro che Walter Veltroni riesce ad esprimere e col quale riesce a compattare i suoi. Fra "Walter e Silvio non c'è chimica", ha affermato di recente Confalonieri. Questa mancanza di attrazione è ciò che oggi tiene unito il Pd. Ancora una volta merito di Walter. Se poi molti nel Pd ritengono giustamente che questo sia troppo poco per fare opposizione a Berlusconi e per proporsi a guidare il Paese, se pensa che limitandosi a questo si perdono consensi, questa è un'altra questione. Walter Veltroni forse non è il segretario che piace al Pd, ma è sicuramente il segretario che questo Pd fino ad oggi ha meritato.

L'Opinione 15.11.08
Dio immaginario
Cultura laica debole
di Alessandro Litta Modignani


Negli ultimi tempi, le dichiarazioni del Papa sono state particolarmente discutibili, al punto da creare imbarazzo persino nei commentatori di cultura cattolica. Si direbbe quasi che Benedetto XVI abbia perso parte della sua autorevolezza. Le uscite in occasione della crisi finanziaria (“I soldi svaniscono, solo la parola di Dio è solida”), sui ricercatori e scienziati “avidi di denaro”, sull’equiparazione fra omosessualità e pedofilia hanno suscitato un’ondata di proteste, prestando il fianco a facili sarcasmi. Molti vignettisti si sono sbizzarriti. Queste reazioni, per quanto giustificate, non affrontano però il problema alla radice. Su cosa si basano gli argomenti del Papa? Occorre coglierne il senso profondo.
”Dobbiamo cambiare il nostro concetto di realismo - ha detto Ratzinger – Realista è chi riconosce nella Parola di Dio, in questa realtà apparentemente così debole, il fondamento di tutto”. Proprio questo rovesciamento del principio di realtà è all’origine, in generale, di tutte le religioni rivelate. “Solo la Parola di Dio è fondamento di tutta la realtà”, sostiene Benedetto XVI. Questo è il nodo da sciogliere. Se il Papa, che fa il suo mestiere, indica la realtà autentica in questo rovesciamento, la cultura laica ha il dovere di proporre, a sua volta, un “rovesciamento del rovesciamento”, ricollocando la religione nella sfera che le è propria, cioè quella dell’immaginario umano.
Nel suo celebre saggio contro il cristianesimo, Friedrich Nietzsche sottolinea proprio come questo carattere “immaginario”, astratto e non realistico, sia un elemento fondativi della tradizione giudaico-cristiana.
“Né la morale né la religione vengono a contatto, nel cristianesimo, con qualsiasi punto della realtà. Cause puramente immaginarie (Dio, anima, io, spirito, libero volere); effetti puramente immaginari (peccato, redenzione, grazia, punizione, remissione dei peccati). Un commercio fra esseri immaginari (Dio, spiriti, anime); un’immaginaria scienza della natura (completa mancanza del concetto di cause naturali); un’immaginaria psicologia (un mero fraintendimento: pentimento, rimorso di coscienza, tentazione del Diavolo, vicinanza di Dio); un’immaginaria teleologia (il Regno di Dio, il giudizio universale, la vita eterna). Questo mondo di pure finzioni si differenzia, con suo notevole svantaggio, dal mondo del sogno, per il fatto che quest’ultimo rispecchia la realtà, mentre esso falsifica, svaluta, nega la realtà”. (La sintesi è nostra).
Nei suoi termini essenziali, la risposta laica alle tesi religiose potrebbe ridursi a questo: Dio come prodotto dell’immaginazione umana e del rovesciamento del principio di realtà. Così il denaro acquista un significato concreto e anche nobile, come strumento creato da menti intelligenti per regolare le relazioni economiche. Come tutti gli strumenti, esso può a volte non servire allo scopo, ma ciò non può indurre gli esseri raziocinanti a considerare solida “solo la parola di Dio”. Altrimenti ci si avvia sulla strada della follia e le conseguenze non tardano a manifestarsi: intolleranza, superstizione, odio teologico, delirio mistico, fanatismo missionario, ostilità alla scienza, persecuzione dei diversi, umiliazione della donna, repressione del corpo, paura della felicità. Non si tratta affatto di degenerazioni episodiche o di deviazioni casuali, bensì di un connotato intrinseco, “consustanziale”, al fenomeno religioso, come la storia ha abbondantemente dimostrato.
La cultura laica però non sempre ha il coraggio di raccogliere la sfida sul terreno più autentico, quello filosofico, difendendo il primato della ragione sulla fede. Per questo, quando Benedetto XVI cita il Salmo 118 (“La legge della Tua bocca più preziosa di mille pezzi d’oro”) al massimo la si mette sul ridere.