giovedì 20 novembre 2008

Repubblica 20.11.08
"Non denunceremo i clandestini ammalati"
Medici contro il governo
di Mario Reggio


ROMA - Denunciare gli irregolari ammalati come vuole il governo? I medici non ci stanno e si scagliano contro l´emendamento al pacchetto sicurezza all´esame del Senato presentato dalla Lega e condiviso dal ministro del Welfare Maurizio Sacconi. «Siamo indignati e preoccupati, non denunceremo i clandestini perché è contro le norme morali della professione medica», è il commento degli specialisti della Società italiana di Medicina delle Migrazioni. «Per gli immigrati il Servizio sanitario nazionale è a rischio», afferma Roberto Lala, segretario del Sindacato unico di medicina ambulatoriale italiana. Una posizione condivisa dalla Federazione nazionale degli Ordini dei medici.
E contro la richiesta del ministro dell´Interno Roberto Maroni di bloccare per due anni i flussi migratori, escludendo per il 2008 colf e badanti, si schiera l´Arci: «Una norma invocata in nome della crisi finanziaria ed economica, una scelta sbagliata e pericolosa - commenta il responsabile immigrazione Filippo Miraglia - il blocco produrrà altre ingiustizie e sofferenze, senza risolvere i problemi creati dalla recessione». Dell´emergenza integrazione ha parlato ieri anche il cardinal Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale italiana: «L´integrazione è un versante problematico rispetto al quale la Chiesa sa di dover dire il suo sì agli italiani, indicando la strada della moralità sociale e della legalità pubblica».
Ma torniamo all´assistenza sanitaria agli immigrati clandestini. Le associazioni dei medici ribadiscono il loro dissenso nei confronti della proposta della Lega. «Il pacchetto sicurezza modifica la norma per la quale l´accesso alle strutture ospedaliere e territoriali dello straniero non in regola non può comportare alcun tipo di segnalazione all´autorità, salvo i casi in cui sia obbligatorio il referto, a parità di condizioni con il cittadino italiano».
L´obbligo di denuncia, infatti, «metterebbe in serio pericolo l´accesso alle cure mediche degli immigrati irregolari, violando il principio universale del diritto alla salute, fortemente affermato dalla nostra Costituzione» che «tutela la salute come fondamentale diritto dell´individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti». Per i medici, «vale la pena sottolineare come la Carta costituzionale non subordini al possesso di alcun requisito il riconoscimento del diritto alla salute e quindi all´assistenza». E ancora: con l´impostazione illustrata dal ministro Sacconi e le proposte della Lega si costringerebbe il medico ad andare «contro le norme morali che regolano la sua professione contenute nel codice deontologico»regolano la sua professione contenute nel codice deontologico e si rischierebbe inoltre «una clandestinità sanitaria, pericolosa per l´individuo e per la collettività».
Se il governo tenta di isolare gli immigrati clandestini, la Regione Toscana va nella direzione opposta. Il presidente Claudio Martini ha illustrato il testo della proposta di legge che, tra gli altri provvedimenti come mense e dormitori, conferma l´assistenza sanitaria ai clandestini: «Vogliamo ampliare l´offerta per costruire un modello civile di convivenza civile». E l´Associazione italiana pneumologi ospedalieri lancia l´allarme: «C´è il rischio reale che si diffonda la malattia tubercolare con danno per la sanità pubblica, perché un clandestino, costretto anche a pagare le prestazioni, eviterà di sottoporsi ai controlli medici».

Repubblica 20.11.08
Il centenario del ‘68
Una controversa eredità fra utopie e conformismi
di Pietro Citati


Un fenomeno lentissimo e interminabile Un´imitazione che pose fine a uno dei periodi migliori, più lieti e pieni di idee del nostro Novecento, quello che va dal 1952 al 1966
"L´immaginazione al potere": il motto imponeva la rinuncia a studi severi
Certi slogan ricordavano le rime baciate del "Corriere dei Piccoli"

Durante questi mesi, moltissimi hanno celebrato il centenario del 1968 in modi che trovo singolari. Da un lato, il 1968 veniva visto come un momento di libertà assoluta, di allegria, di velocità, di gioia: un irrompere di giovinezza nel tedio della storia: uno scoppio di immaginazione travolto dal tempo; una "similitudine", avrebbe detto Leopardi, di felicità. D´altro lato, se guardiamo i superstiti del 1968, come una volta scorgevamo quelli della prima guerra mondiale, con le medaglie e i nastrini appesi sul petto, ci accorgiamo che sono molto invecchiati: portano bastoni da passeggio, cornetti acustici, palpebre gonfie e stanche, guance avvizzite: sono direttori di giornali, banchieri, industriali, deputati, senatori, ministri, sottosegretari; formano tutta, o quasi tutta, la classe dirigente italiana di oggi. Di quel lampo, vero o immaginario, di felicità, non resta, ahimé, nemmeno il più lontano barlume.
La storia moderna d´Italia conosce un solo momento sopportabile: gli anni dal 1952-1954 al 1966: meno di quindici. Erano i tempi della ricostruzione: masse di emigranti meridionali raggiungevano Torino e Milano, entravano nelle fabbriche, abitavano in catapecchie o in vecchie case degradate, si propagavano in ogni paese, causavano un impetuoso boom economico, accolti da ventate d´odio e di razzismo. Il paese era velocissimo, lieto, pieno di idee e iniziative: si allungavano le autostrade, dove Enrico Mattei fece aprire toilettes profumate: venivano scritti L´isola d´Arturo, il Pasticciaccio, Il seme del piangere, Il gattopardo: i giornali cambiarono stile: gli americani esportarono miliardarie e ballerini al Festival di Spoleto: i francesi scendevano in Italia ammirati, dicendo: «Ah! les italiens!»; mentre Alberto Arbasino, non ancora trentenne, esplorava con la sua piccola Cinquecento città, festival, film, paesi e scrittori stranieri, raccontando ogni mercoledì cosa aveva visto nella settimana. Confesso di non essermi mai divertito tanto, sebbene avessi pochissimi soldi e (per fortuna) pochissima autorità.
Poi venne il 1968: un´imitazione, come tutto quello che accade, da allora, in questo paese consacrato alla ripetizione. Fu lentissimo e interminabile: visto che in Italia anche soffiarsi il naso è un´impresa fisica e intellettuale che esige almeno due settimane. Ecco gli autonomi, i neostalinisti, i libretti rossi di Mao, i pensieri di Franco Fortini, Lotta continua, Prima linea, Servire il popolo, le Brigate rosse, i primi attentati nelle banche, nei treni e nelle stazioni, le auto incendiate nel centro di Roma, il delitto Calabresi, il delitto Casalegno, il delitto Tobagi, il delitto Moro; e poi, via via, i politici che raccoglievano miliardi a piazza del Duomo con la "ventiquattr´ore"- e tutto quello che forma l´oggi: Antonio Di Pietro, Berlusconi, Veltroni, Formigoni, Bossi, Diliberto, Rizzo, Calderoli, Gasparri, La Russa, Storace e Alessandra Mussolini. Se uno ci pensa, viene assalito da una specie di tedio che si conosce soltanto in Italia: solido e immortale come il marmo.
Il 1968 conobbe l´istinto o il desiderio o l´immaginazione utopici, che allora erano sconosciuti in Italia, sia tra i democristiani sia tra i comunisti. L´istinto utopico indica qualcosa di irreale o inverosimile, che occupa la nostra mente, e ricorda da lontano l´immaginazione poetica. Appena qualcuno tenta di realizzare l´utopia, accade il disastro, come diceva Goethe: il sogno e la speranza si trasformano in crimine, attentato, sangue; le frasi del Vangelo diventano le frasi sinistre di Robespierre e di Saint-Just. Così è, per l´appunto, accaduto in Italia, dove l´utopia delle prime manifestazioni studentesche condusse, senza interruzione, fino al delitto Biagi. Nessuno può essere criminale come un sognatore che compie il proprio sogno, soprattutto a causa della sua buona coscienza, che lo fa sentire eternamente nel buono e nel giusto.
Quand´ero ragazzo, partecipavo alle manifestazioni che costringevano i figli della lupa, i balilla e gli avanguardisti a marciare sui viali di Torino, con le gambe e le braccia distese verso l´alto, quando Mussolini visitava la città. Per mia fortuna, non ero capace di marciare e venivo abbandonato, come un abbietto colpevole, nell´angolo di un viale o di una piazza. I giovani del 1968 non sapevano di assomigliare ai balilla del periodo fascista. Indossavano una specie di divisa, si inventavano avversari (la polizia), cantavano canzoncine a rime baciate simili a quelle del Corriere dei piccoli, si nascondevano il viso con un eroico passamontagna. Non c´era paragone con le severe manifestazioni che anni prima, sotto gli occhi di Togliatti o Di Vittorio, portavano in piazza i comunisti e gli operai.
Negli anni tra il 1954 e il 1966 in Italia non esistevano quasi mafie: o soltanto quella siciliana e la camorra. La società era libera: non era divisa in corporazioni legate da ferree omertà; l´istituto della raccomandazione non era divenuto più importante della bandiera nazionale. C´erano continui concorsi per le scuole: era facilissimo vincere cattedre nei licei, negli istituti tecnici o nelle medie ? alle quali oggi aspirano invano dottorandi quarantenni. Scrivere su un giornale importante era accessibile a un ventiduenne. Oggi, tutto è immobile e pietrificato: chi occupa un posto a trent´anni lo conserva fino alla morte, salvo a salire gli ordinati gradini della sua carriera. La società è divisa in gruppi corporativi: politici, economici, letterari, medici, giornalistici; e se oggi esiste ancora un barlume di libertà, è soltanto perché i gruppi mafiosi sono moltissimi, e tra l´uno e l´altro si aprono ancora dei buchi o delle lacune, dove una persona libera può sopravvivere.
Uno dei motti del 1968 fu l´immaginazione al potere: motto, come è naturale, d´origine francese. Esso imponeva la rinuncia alla lettura sistematica e agli studi severi: non più voti secondo le capacità, il talento e la cultura; ma il sinistro voto politico eguale per tutti. Da allora ad oggi, la situazione è così peggiorata, che Mario Capanna ha acquistato la statura del grande studioso. All´università, prima del 1968, i professori intelligenti facevano leggere alcuni grandi testi, che costituivano la base della cultura futura dei giovani. Oggi, quasi nessuno legge più nulla: o, al massimo, fotocopie di piccole fette di libri, fascicoli di cinquanta o cento pagine, che dovrebbero fungere da cultura.
C´è una cosa che amo in una parte degli eredi del 1968: l´idea che la cultura non è una specializzazione o una tecnica. L´uomo colto conosce Dante e Melville, Shakespeare e Goethe, la filosofia platonica e quella taoista, il Cristianesimo e l´Islam, Petrarca e Baudelaire, la storia delle crociate e quella dell´Unione Sovietica, Einstein e i buchi neri. La sua mente sta dovunque a casa propria, viaggia, si sposta, cambia, si trasforma. Quest´idea mi piace moltissimo, sebbene abbia scarsa fortuna. Sarebbe bellissimo che, come ultima eredità, il 1968 ci lasciasse Michel de Montaigne, il grande apicultore, che diceva: «Le api saccheggiano fiori qua e là, ma poi ne fanno il miele, che è tutto loro».

Repubblica 20.11.08
Nei segreti dei "déjà vu" la chiave della memoria
Può capitare di vivere una situazione e credere di averla già vissuta Da questa sensazione si può ricostruire il meccanismo dei nostri ricordi
di Elena Dusi


Il cervello registra gli episodi ma li immagazzina in maniera imprevedibile

E se alla fine il "déjà vu" si rivelasse la porta giusta, per penetrare i segreti della memoria. Se lo spaesamento che produce fosse una sorgente di indizi preziosi per capire come il cervello spezzetta, smista e immagazzina i ricordi. A volte sbagliandosi, sovrapponendo il nastro del presente con quello del passato e rivelando indizi preziosi su quel dietro le quinte della memoria che Shakespeare equiparava a "una piramide costruita dal tempo", che ci inganna con il "rivestimento di uno spettacolo già visto".
Invece di partire dalle certezze (che non ci sono, dato che il fenomeno del déjà vu è stato spiegato con una trentina di teorie scientifiche diverse), Anne Cleary della Colorado University si getta in quella nuvola di sensazioni indistinte che gli psicologi chiamano di "familiarità". «Possiamo incontrare un uomo al supermercato - spiega la Cleary, autrice di un articolo uscito ieri sulla rivista Current directions in psychological science - e ricordare di averlo già visto sull´autobus proprio il giorno prima. Oppure possiamo riconoscere il suo viso come familiare, ma interrogarci invano sulle circostanze che ce lo hanno reso tale». Negli istanti in cui abbiamo la sensazione di "esser già stati qui" accade esattamente la stessa cosa: siamo convinti di riconoscere una situazione, ma non riusciamo a risalire al perché.
Secondo la psicologa americana, il déjà vu è il classico esempio di memoria che si accende ma non ricollega. «Consiste nel riconoscere una situazione come familiare senza riuscire a identificare la sorgente di questa familiarità. E non è un caso che questi fenomeni avvengano più di frequente nelle persone che viaggiano molto, ricordano con nitidezza i loro sogni o vedono parecchi film». Il fatto che i bambini fino a dieci anni non ne abbiano esperienza indica che serve un cervello abbastanza sviluppato per provare quella che Sant´Agostino definiva "una trappola del demonio". E le ricerche della Cleary confermano ciò che la neuroscienza della memoria aveva già intuito da tempo: gli episodi che ci accadono di giorno in giorno vengono spezzettati dal cervello (suoni da una parte, odori o colori dall´altra) e immagazzinati sotto forma di ricordi in aree diverse della nostra mente. La scintilla del déjà vu si accende probabilmente quando un´esperienza del presente si ritrova a coincidere con una delle tessere che compongono il puzzle dei ricordi del passato. Basta un singolo elemento ripescato dalla memoria a ricreare la scena per intero, dandole quel tocco di familiarità tipico del déjà vu. Ecco come un ricordo diventa immagine attuale.
Questa teoria riesce a spiegare anche un fenomeno che l´anno scorso aveva lasciato i ricercatori senza parole. Chris Moulin dell´università di Leeds, uno dei più grandi esperti di questo "granello di sabbia" che finisce nei meccanismi della memoria, aveva descritto sulla rivista Brain and Cognition il caso di un cieco avvezzo ai déjà vu. La sensazione scattava quando l´uomo udiva una zip aprirsi, ascoltava un certo brano musicale o percepiva dei frammenti di conversazione in un contesto preciso. Per far fronte all´imprevedibilità della sensazione di aver già vissuto questo momento - impossibile ricrearla a comando in laboratorio - all´università di Leeds hanno perfino tentato con l´ipnosi. Ma lei era già fuggita per tornare nell´oblio.

Repubblica 20.11.08
Sulle tracce di Erode
Nuove scoperte: ritrovati la tomba e il sarcofago a colloquio con lo studioso Ehud Netzer
Tra archeologia e politica


National Geographic Magazine pubblicherà un servizio sulle ricerche dell´archeologo Ehud Netzer: la rivista sarà in edicola a partire dal 29 novembre. In programma anche un documentario su National Geographic Channel (il 7 dicembre alle 22, canale 402 di Sky).

È molto probabile che la strage degli innocenti sia una leggenda senza basi storiche
"I Palestinesi negano l´esistenza dell´antico tempio di Gerusalemme e vietano gli scavi"

ROMA. Erode, al suo nome non c´è chi non inorridisca: da Giotto a Beato Angelico, Guido Reni o Poussin hanno immaginato in molti modi diversi la sua "Strage degli innocenti" narrata nel Vangelo di Matteo, l´omicidio di tutti i bambini appena nati ordinato dal despota quando seppe che i Re Magi stavano cercando un neonato davvero speciale, il futuro Re dei Giudei. Eppure non c´è evidenza storica di quegli assassinii. Nessuna cronaca ne parla. E Erode (73 - 4 a. C.), prima Governatore e poi, dal 37 a. C., re della Giudea per incarico dei Romani, emerge dalle ricerche sì come un tiranno spietato e sanguinario (fece uccidere una delle sue numerose mogli, la più amata, Marianne, il cui ricordo continuò a tormentarlo tutta la vita, e tre figli che pensava stessero tramando contro di lui), ma soprattutto come un geniale costruttore, l´ideatore di opere ambiziose e estreme che cambiarono il paesaggio di Israele.
Parliamo dell´ardita reggia di Masada alzata su tre spericolate terrazze sotto cui si apre l´abisso del deserto e del Mar Morto, teatro di una delle ultime difese degli ebrei che infine si suicidarono pur di non consegnarsi ai romani, o dell´ammodernamento del porto di Cesarea per il quale fu progettata una inedita barriera di cemento subacqueo su cui innalzò maestosi colonnati. Suo fu anche l´ampliamento del Tempio di Gerusalemme, eretto da Salomone nel X secolo a. C., poi distrutto dai babilonesi nel 586 a. C. e ricostruito circa 50 anni più tardi: lavoro grandioso, iniziato fra il 20 e il 19 a. C., per il quale fece imparare l´arte muraria a mille sacerdoti, gli unici a poter entrare nelle parti più sacre del complesso circondato dalla cinta esterna (ne faceva parte il famoso Muro del Pianto dei nostri giorni), un´opera dovuta anche al desiderio di essere accettato dai sudditi che non lo consideravano uno di loro sia perché aveva una madre non ebrea, ma soprattutto perché si era alleato con Roma.
Ma se oggi descriviamo questa figura storica di cui Giuseppe Flavio ha tanto narrato nelle Antichità giudaiche, è perché tra le sue creazioni monumentali, ce n´è una particolare, l´Herodion, rimasta a lungo quasi misteriosa, una cittadella che porta il nome del suo costruttore eretta sulla cima di una collina fatta come un cono spezzato a 13 km da Gerusalemme, nel mezzo del deserto: sui suoi resti si accanisce da 36 anni un archeologo israeliano con una forte base di studi architettonici, Ehud Netzer, che proprio ieri ha annunciato nella capitale israeliana le ultime scoperte.
Innanzitutto il perfezionamento di ciò che ha cercato a lungo: l´individuazione della tomba e il ritrovamento del sarcofago rosa finemente istoriato del Re (ritrovato nel 2007 e ora ricostruito per circa il 35 per cento), pietre ridotte in centinaia di frammenti dagli ebrei che, durante la prima rivolta contro Roma, nel 66 d. C., lo distrussero per risentimento contro l´alleato del nemico. Accanto c´erano altre due tombe, bianche (una ornata e l´altra no) ricomposte adesso all´80 per cento, semplicemente buttate di sotto da quella che si è rivelata la base del mausoleo. Sono emersi resti ossei? No. Iscrizioni? «Non ce ne sono, ma nelle tombe ebraiche di allora è la norma. La tomba rosa, ne sono sicuro al 98 per cento, è di Erode; le altre due, databili allo stesso periodo, possono appartenere a una delle sue mogli, forse alla madre di Archelao e Antippa, Malthace. Forse alla prima amatissima congiunta, Marianne. Forse, alla seconda sposa di Archelao, Glaphyria», spiega Netzer anticipandoci i contenuti della conferenza stampa a Gerusalemme: settantaquattrenne imponente, due giorni fa era di passaggio in Italia.
«Ora che ne ho intuito gli assi e i singoli monumenti, capisco che la concezione di Herodion è eccezionale: basta pensare che il magazzino per il cibo è grande quasi come tutta Masada. L´intera struttura, di 20 ettari, fu voluta e pensata quale scenografia dei propri funerali, con mausoleo, giardini, cittadella monumentale e palazzo annesso», prosegue. «Tutto cominciò quando alla base della collina, alcuni anni dopo la Guerra dei Sei Giorni, trovai una grande vasca, un colonnato, dei giardini. Il terreno fu trasformato in un parco nazionale. Continuai gli scavi. C´era una grande piattaforma lunga 365 metri: poteva essere un ippodromo, ma era larga solo 30 metri. Non era chiaro di cosa si trattasse. Proseguivo, cercavo il mausoleo e la tomba, perché Giuseppe Flavio aveva descritto per filo e per segno le faraoniche esequie di quel re». Niente da fare: ogni volta Netzer si sentiva sul punto di arrivo, ma non era vero. Come le tre volte che vennero alla luce delle grandi pietre istoriate che si dimostrarono sì di periodo erodiano, ma riutilizzate per tre chiese bizantine.
I lavori, per di più, dovevano interrompersi spesso e a lungo, con la Prima Intifada e il terrorismo, dall´87 al ´97, e poi con la seconda, dal 2000 al 2005. Lavorare era troppo pericoloso. Chiediamo a Netzer se i palestinesi contestassero gli scavi, ma «no» risponde lui, «sul fatto che Erode sia storia, non hanno niente da dire visto che era di madre nabatea, non ebrea. Ma il periodo era poco propizio per scavare così isolati nel deserto come eravamo. Sono invece molto preoccupato del fatto che i palestinesi neghino l´esistenza dell´antico Tempio di Gerusalemme: è incredibile, non c´è archeologo, di qualsiasi religione o provenienza egli sia, che abbia dei dubbi a proposito. Eppure dal 2000 sostengono questa assurda teoria, che sotto la Spianata delle moschee non ci sia mai stato il Tempio, un´affermazione tutta politica, volta a degiudaizzare Gerusalemme, a non riconoscerne il profondissimo legame con gli ebrei e, alla fine dei fatti, la legittimità di Israele. Non ci fanno studiare il sottosuolo della Spianata, mentre loro ci lavorano, e sembra che gettino quella terra così preziosa per capire il passato».
Andiamo avanti con l´Herodium. Netzer trovò un mikveh, un bagno rituale, un ambiente che spesso si trova vicino anche alle tombe ebraiche, perché dopo una visita ai morti bisogna purificarsi. Fu individuato anche un Triclinium, un grande luogo dove sostare, come c´è a Petra. «Nel 2007, capimmo che la collina era artificiale solo in parte, in quella superiore: prima la costruzione rotonda in vetta, il palazzo, era visibile in tutta la sua altezza da Gerusalemme. Poi, solo 2 o 3 anni prima della morte, Erode decise di alzare la terra intorno, e farne un monumento interrato fino ad un certo punto, un´idea simile a quella di Augusto o di Adriano».
C´è anche la lunga scala, citata da Flavio Giuseppe. Stretta nella parte alta, verso la cittadella, ma larga tra lo slargo e il mausoleo a metà collina, adatta insomma a farci passare una processione: «Quello che all´inizio mi era sembrato un ippodromo non era altro che il luogo di raduno delle truppe e delle genti che avrebbero dovuto formare il corteo funebre salendo fino alla tomba». Una scenografia degna di un kolossal, che terminava nel mausoleo non enorme ma di tutto rispetto di cui vennero infine trovate le basi: le pietre indicano che fosse alto 25 metri, istoriato, un quadrato con lati di 8,7 metri, con al centro un colonnato rotondo e una cupoletta conica in cima. Del complesso erodiano fa parte anche un teatro per 750 persone venuto alla luce proprio negli ultimi mesi: in alto sulla platea, una loggia di circa 7 metri per 8, ornata di dipinti e stucchi murali di tipo pompeiano, ricchi di colori, arancioni, celesti, verdi, con fregi, alberi e animali (ma il restauro non è ancora visibile): «un fatto inedito nelle costruzioni ebraiche, che non ammettono arte figurativa. Sono certo che Erode fece venire la mano d´opera dall´Italia. E sono anche sicuro che sia del 15 a. C. circa, e ciò dimostra come allora l´Herodion fosse pieno di vita: forse gli spettacoli del teatro furono organizzati proprio per la visita di Marco Agrippa».
Resta un interrogativo di fondo. Bisogna capire perché Erode volle un complesso tanto imponente in pieno deserto. «Perché nel 40 a. C. era stato il luogo di una battaglia per lui decisiva. Gerusalemme stava per essere conquistata dai Parti: di notte Erode riuscì a fuggire nel silenzio verso Masada portandosi dietro ben 5000 uomini. Inseguito non si sa bene se dai Parti o dagli ebrei o da tutti e due, mentre marciava vide sua madre cadere da un carro, la prese per morta. Voleva uccidersi, ma sopraggiunsero i nemici. Si batté, vinse, ricoverò la madre poi sopravvissuta e i suoi uomini a Masada. Poi fece una scelta fondamentale, andò a Roma dove ottenne la protezione del Triumvirato. Dopo tre anni sarà Re della Giudea».
Una vita dedicata a Erode. Netzer è più che soddisfatto di avere tra le mani quel sarcofago rosa, la tomba del Re, di aver capito il disegno sontuoso di Herodium con il palazzo e l´assetto monumentale per il corteo funebre e il riposo eterno. Qualcosa che doveva continuare a portare il nome di Erode dopo la sua morte. «Ma non ho una passione per lui. Lo ammiro per le sue realizzazioni. Ha fatto cose eccelse, come un architetto moderno: con una logica ferrea, dove ogni elemento ha una funzione».

il Riformista 20.11.08
Sono ottocento i bambini curati per abusi in Veneto
Dati inediti. Violenze soprattutto in famiglia, le vittime dai 6 ai 10 anni. Iniziativa della Regione.
di Antonella Benanzato


Verona. L'identikit del bambino abusato è di nazionalità italiana, di sesso femminile e di età compresa tra i 6 e i 10 anni. L'abuso sessuale sui bambini, il più odioso dei crimini, genera ferite profonde nel corpo e nell'anima, e spesso avviene in famiglia. Un dolore che necessita di terapia psicologica e sostegno costante. Il Veneto, su questo fronte, è in prima linea. Dal 2004 ad oggi, attraverso i suoi centri regionali specialistici sparsi in tutte le province, ha in cura oltre 800 bambini abusati e maltrattati. Si tratta, purtroppo, della punta dell'iceberg rispetto a un "sommerso" probabilmente molto più esteso.
Le cifre, finora inedite, sono emerse a Verona, nel corso del convegno "Rilevare. Pensare. Fare. Abuso sessuale e maltrattamento all'infanzia". All'iniziativa, promossa dalla Regione Veneto e svoltasi nella sede della Banca Popolare di Verona, ha preso parte l'assessore alle politiche sociali, Stefano Valdegamberi (nella foto). Obiettivo: definire le buone prassi per assistere questa fragile tipologia di piccoli pazienti. Un'occasione che ha permesso di stabilire, secondo i dati in possesso degli stessi centri specialistici, che sono in prevalenza bambine di nazionalità italiana a subire abusi e maltrattamenti, mentre tra gli stranieri prevale la cittadinanza rumena, seguita da quella marocchina e ghanese. Purtroppo, la maggior parte degli abusi e maltrattamenti avviene in ambiente intrafamigliare e in modo reiterato. Ai servizi sociali arrivano segnalazioni da parte di genitori, fratelli o sorelle. Indicazioni che vengono poi inoltrate ai servizi sociali e, dalle Ulss, direttamente ai centri di assistenza.
I centri regionali specialistici (presenti a Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Belluno e Venezia) da gennaio ad agosto 2008 hanno effettuato circa 8.100 interventi, con una media di 27 prestazioni per minore. Il 67% delle cure riguarda la presa in carico psicoterapeutico, educativo e sociale dei bambini, il 29% riguarda la diagnosi e il 3% interventi richiesti dall'autorità giudiziaria.

Corriere della Sera 20.11.08
L'errore degli Alleati
di Luciano Canfora


«Storia in rete» segnala che il «Sunday Telegraph» ha pubblicato documenti, finalmente accessibili, relativi al memorabile agosto '39. Si tratta dell'offerta di Stalin alla delegazione anglo-francese (purtroppo di basso rango) di «un'armata di un milione di uomini, 9.500 carri armati e 5.500 aerei» da scagliare preventivamente contro il Reich hitleriano. L'ammiraglio inglese Drax rispose ai sovietici di «essere autorizzato dal suo governo solo a discutere, non a fare accordi». E la trattativa fallì. Poco dopo fu firmato il «patto di non aggressione» russo-tedesco. Lo storico russo Sotskov ha commentato: se gli anglo-francesi avessero accettato la proposta (cui incoscientemente si opponeva Varsavia), mai si sarebbe prodotto il «patto», con le sue conseguenze. La rivelazione è interessante, non nuova.
Già Churchill aveva scritto nel I volume della Storia della seconda guerra mondiale: il nostro errore fu di non accettare l'alleanza a tre contro Hitler.

Corriere della Sera 20.11.08
Raffaello, la Madonna ritrovata
Microscopi, bisturi e stucco Così una tela tormentata recupera l'incanto del colore
di Wanda Lattes


Sono dieci anni che il restauro della «Madonna del Cardellino » tiene impegnate decine di uomini e donne. Ma è lei, Patrizia Riitano, la persona incaricata ufficialmente di riportare il capolavoro alla sua bellezza originale. Le chiediamo di ricordare le varie fasi dell'intervento. Il viso ancora teso per la lunga battaglia contro il tempo, Patrizia Riitano indica con una mano i punti del dipinto che si sono rivelati più problematici, i recuperi quasi impossibili, mostra le microscopiche lamette, i pennelli filiformi usati alla fine, quando le indagini avevano già dato risposte indiscutibili.
La «Madonna del Cardellino », come oramai molti sanno, era andata in pezzi nel 1547 per il crollo di una collina, pochi anni dopo che Raffaello l'aveva creata, nel 1506, come dono di nozze a un amico. Restaurata e addirittura in piccola parte ridipinta già nel Cinquecento, è stata nei secoli maneggiata, scurita, schiarita, ritoccata secondo gli usi e le tendenze del tempo, e dunque il restauro pittorico — ricorda la Riitano — doveva partire dall'accertamento delle «verità» di Raffaello. Cioè: imprimitura, pigmenti, e colori, dagli azzurri del manto o del cielo al rosso della testa del cardellino, all'oro delle aureole.
Ottenute dalla fluorescenza molte certezze sui colori, dopo che le radiografie avevano dato il panorama esatto delle fratture e del sistema di chiodi che nei secoli aveva rimesso assieme l'opera, i restauratori hanno stabilito quanto film pittorico originale fosse andato perduto, quanto e quale materiale colorato fosse stato aggiunto nei secoli da varie mani, soprattutto nell'Ottocento. Insomma hanno accertato il Vero e il Falso. Ma il Vero per fortuna era moltissimo, anche se in parte nascosto. La Riitano rivendica con gioia questa sicurezza: «Il viso di Madonna, per esempio, era salvo, non ridipinto, aveva solo un po' di vernice che lo scuriva». E sfiora con le dita il volto rimasto sano, il cielo recuperato intatto, i corpi dei Bimbi, «tutta quella gran parte di paesaggio che era soltanto sporca». Con precisione mostra sulla tavola le zone danneggiate dai vari interventi pittorici nei secoli e racconta i momenti lunghi e difficili del recupero. Sul tavolo rimane, come un ricordo angoscioso, lo schema delle spaccature, delle suture. Del grande malato prima dell'intervento.
Passando al restauro vero e proprio, sarebbe stato difficilissimo — sembra di intendere — preparare misture di solventi che non mettessero a rischio i colori originali, quindi, sotto le lenti dei microscopi, si è ricorsi alla pulitura meccanica con il bisturi. Gli spessi tratti di pitture e vernici rendevano piatto il dipinto che, invece, Raffaello aveva realizzato con spessori molto diversi. Recuperata la verità dei colori, si è dovuto allora elaborare una stuccatura seguendo un andamento analogo a quello delle pennellate originali, ed è appunto in queste fasi finali che la Riitano, di persona, ha eseguito l'integrazione pittorica, secondo il metodo classico della Scuola fiorentina, che è quello della selezione cromatica, con pennellate piccole e sottili.
A cose fatte si può dire che sono state usate tutte le possibili tecniche di indagine, si sono risanati gli elementi patologici, è stata recuperata la policromia raffaellesca ancora miracolosamente protetta dalla verniciatura stessa dell'artista. Patrizia Riitano accarezza il ricciolo d'oro del Giovannino, da lei reintegrato nel punto più danneggiato del quadro, i piedini dei bimbi miracolosamente poggiati in terra, il verde delle piante ritrovate, i particolari del panorama, il viola dei fiorellini che non si distinguevano più: «Vede, Raffaello era tutto questo e l'abbiamo ritrovato».

Corriere della Sera 20.11.08
Un simbolo sfruttato dalla Chiesa dopo il Concilio di Efeso e nell'offensiva anti Lutero
La Vergine col bambino un'icona contro le eresie
Ma l'immagine fu ereditata dalla dea egizia Iside
di Francesca Bonazzoli


Ancor prima dell'epoca cristiana, l'immagine della «Madre col Bambino» veniva già usata da molte culture con un significato religioso: nell'area mediterranea, per esempio, rappresentava la dea Iside con in grembo il figlio Horus e fu proprio questa iconografia egizia a passare in quella cristiana occidentale attraverso la mediazione dell'Oriente bizantino.
In particolare, dopo il 431, le gerarchie ecclesiastiche cristiane promossero l'immagine della Madonna col Bambino per dare forza alla condanna, votata dal Concilio di Efeso, dell'eresia nestoriana secondo la quale la Vergine non poteva essere chiamata «madre di Dio», ma solo madre di Gesù poiché non aveva generato un Dio, bensì solo il corpo in cui Dio aveva poi preso dimora.
Da quel momento fino al Medioevo nelle chiese cristiane si assiste a una proliferazione delle immagini della Madonna col Bambino (spesso accompagnate dall'iscrizione «Maria Mater Dei» e «Sancta Dei Genitrix») raggruppabili in diverse varianti: la Madonna del latte (dove la Vergine allatta il figlio) è una delle prime iconografie conosciute, fin dalla catacomba di Priscilla del III secolo; la Madonna orante col Bambino (genuflessa e con le mani giunte mentre adora il figlio poggiato su un lembo del proprio manto); la Madonna leggente col Bambino (con in mano il libro della Sapienza); la Madonna del roseto (seduta in un giardino di rose simbolo della verginità della madre di Dio) particolarmente amata nel Nord Europa; la Madonna col bambino in trono (dove Maria personifica la Chiesa), di derivazione bizantina e i cui più antichi esempi in Occidente si trovano nei mosaici di Ravenna.
L'immagine registra poi un secondo grande momento di successo che coincide ancora una volta con un'eresia: quella protestante. A cavallo fra XV e XVI secolo, l'impiego della Madonna col Bambino viene nuovamente incentivato da parte della Chiesa cattolica per fini propagandistici e, dopo la condanna di Lutero, per confutare la dottrina protestante che ridimensionava il culto della Vergine assieme a quello dei santi. In quest'epoca furono soprattutto due i pittori che portarono il soggetto alla gloria: Raffaello e Giovanni Bellini. Il primo perché, noto ammiratore e amante di donne, seppe dare alle sue Madonne grazia e bellezza idealizzate, di una perfezione che incantava e trascendeva qualsiasi modello umano; il secondo perché, sincero credente, nei volti delle sue Vergini dall'aria dolce e domestica ritraeva quello della moglie amata di un amore casto e cristiano.
Nel Rinascimento il culto mariano si era ormai molto diffuso e via via che la devozione popolare si era fatta più appassionata, anche l'iconografia della Madonna col Bambino aveva perso la primitiva ieratica monumentalità per acquisire un tono più tenero. La rigidezza, eredità orientale nella rappresentazione della Madre in posizione frontale con il bambino eretto, vestito e benedicente, aveva lasciato già nel XIV secolo il posto a due nuove varianti dove madre e figlio venivano messi in un rapporto di affettuosità attraverso un gioco di sguardi o di mani: la Madonna dell'Umiltà (in particolare nel-l'Italia settentrionale) e la Mater amabilis, il tipo di rappresentazione più amata fra tutta l'iconografia mariana. È soprattutto per quest'ultima immagine intima e domestica che si sviluppano leggere varianti attraverso l'inserimento di oggetti simbolici. Fra i più frequentati figurano la mela, frutto dell'albero del Bene e del Male: tenuta in mano dal Bambino allude alla redenzione dal peccato originale. L'uva è simbolo del vino eucaristico e quindi del sangue del Cristo redentore (anche nella variante della brocca che contiene il vino). Analogamente, le spighe sono il pane eucaristico e dunque il corpo di Cristo. La ciliegia, frutto del Paradiso, è simbolo del Cielo; la melagrana, che già nel mondo pagano era attributo di Proserpina, dea che presiedeva alla germinazione, allude alla Resurrezione. La noce, invece, era un complesso simbolismo sviluppato da sant'Agostino, dove il mallo stava per la carne di Cristo, il guscio di legno alludeva alla croce e il gheriglio alla natura divina del Cristo.
E infine l'uccello che, nella pittura cristiana, mantiene il simbolismo che già aveva in quella pagana, ovvero rappresenta l'anima umana che vola via alla morte del corpo. Spesso è un cardellino perché il suo piumaggio colorato lo rendeva particolarmente attraente agli occhi dei bambini e anche perché, secondo una leggenda, la macchia rossa sul capo sarebbe stata un residuo del sangue di Cristo con cui il cardellino si macchiò volando sopra la testa incoronata di spine di Gesù mentre questi saliva al Calvario.

Corriere della Sera 20.11.08
L'Opificio delle pietre dure, un laboratorio pubblico di ricerca invidiato da tutto il mondo
La fabbrica dei miracoli fra tecnologia e sapienza
di Marco Gasperetti


Lo scenario cambia continuamente. Basta ruotare lo sguardo. Braccia robotiche, monitor, radar e spettrografi. Tavolozze, pigmenti, pennelli intrisi di antichi colori.
Laboratorio di ricerca o bottega del-l'arte? La frattura spazio-temporale diventa paradosso quando la Pala di San Zeno del Mantegna s'illumina davanti a un neon speciale privo di raggi ultravioletti e poco più avanti l'arte di Cimabue, Giotto e del Beato Angelico emana messaggi, racconta emozioni.
Sublimi incongruenze di un viaggio nell'Opificio delle pietre dure. Un istituto, o meglio un'istituzione, conosciuta in tutto il mondo.
Come una divinità, anche il tempio del restauro è unico e trino. La sua origine è in via degli Alfani, nel cuore di Firenze, a due passi dagli Uffizi, dalla Galleria e dal labirinto di musei, chiese, capolavori. La seconda propaggine è a Palazzo Vecchio, il simbolo della città. La terza, la più imponente, è alla Fortezza da Basso, all'ingresso di Firenze, quasi tremila metri quadrati di laboratori su due piani.
«Un museo in continuo divenire — spiega Marco Ciatti, il direttore — dove arte, tecnologia, progettualità e pure sapienza individuale trovano una sintesi». I sessanta restauratori, tutti dipendenti pubblici (l'Opificio è un istituto autonomo del ministero) hanno un orario. Che, inevitabilmente, dimenticano. Regalando ore e ore al lavoro. «Ho conosciuto restauratori che nei momenti cruciali sognavano il lavoro anche di notte — racconta Ciatti —, tanto era la loro osmosi con l'opera d'arte, il desiderio di interpretare al meglio la loro tecnica nel rispetto fedelissimo dell'autore». Ci sono capolavori che impegnano i restauratori per anni, anche più di dieci. E con loro una squadra di tecnici e scienziati. Che scrutano con le loro macchine la magia dell'artista, cercano nell'infinitesimale il particolare perduto o coperto, il colore svanito o deturpato. Ma il noumeno artistico, la cosa in sé di quel dipinto, solo il restauratore è capace di interpretarlo.
Qui entra in gioco la sapienza di Marco Ciatti. Come un direttore d'orchestra sceglie chi deve interpretare quella «melodia» e con quale temperamento. Infinite discussioni, durante le prove. «Due anni di preliminari prima di iniziare il restauro vero e proprio della Madonna del Cardellino».
Alla fine, però, davanti al capolavoro c'è un uomo solo. Che percepisce e agisce, interpreta secondo scienza e coscienza, le pennellate inesatte di antichi ritocchi, la macchie del tempo, le vere tracce dell'autore. I dati delle macchine? Certo che servono. Ma tra il noumeno (la cosa in sé) e il fenomeno (la cosa visibile) ci può essere un abisso. Dunque serve interpretare secondo lenti cognitive sapientissime. L'ermeneutica dell'arte. L'incongrua realtà dell'Opificio si rivela anche nella transitorietà del «museo a cielo aperto». Oggi c'è Raffaello, domani non c'è più. Il suo posto lo sta per prendere un dipinto di Tiziano custodito alla Galleria Palatina e bisognoso di cure.
Arriveranno anche grandi cornici. Come quella della Pala di San Zeno del Mantegna, un capolavoro incastonato nel capolavoro (il dipinto appunto), 4,50 per 4,30 metri scolpita nel legno. Maria Cristina Gigli, faticosamente, ci lavora da anni. «Millimetro dopo millimetro, non si finisce mai», fa finta di lamentarsi sorridendo.

Corriere della Sera 20.11.08
La vertenza. Precari mascherati da «morte» nel palco reale: futuro sempre più incerto
Scala, va in scena la protesta
di Pierluigi Panza


MILANO — Un gruppo di maschere «mascherate» da «morte», con soldi falsi appesi al collo, e uno striscione che pendeva dal palco che fu reale con la scritta «Futuro Incerto ALla Scala» (riprendendo in maiuscolo e in rosso le iniziali del sindacato autonomo Fials) hanno accolto i lavoratori e i pochi milanesi che ieri sera, alla Scala, hanno assistito alla «protesta antisciopero » dei confederali invece che alla Vedova Allegra.
Cgil, Cisl e Uil, raccogliendo anche l'invito lanciato da Philippe Daverio (presente in sala, come il presidente della Provincia Filippo Penati) di far suonare al pianoforte brani dalla Vedova al direttore Asher Fisch, hanno organizzato ieri sera un concerto aperto in teatro. Un concerto che ha voluto essere soprattutto un richiamo ai significati simbolici che il teatro rappresenta. Ma che è stata anche l'occasione per rivolgere accuse dirette agli orchestrali della Fials, «che in maniera irresponsabile hanno dichiarato un anno di sciopero e che vanno in tournée per il mondo attaccando i lavoratori di questo teatro», ha dichiarato Giancarlo Albori della Cgil in apertura della serata. Ancora più espliciti i lavoratori stessi nel volantino distribuito, dove si accusano senza mezzi termini gli orchestrali di doppi, tripli, quadrupli lavori («esauriti da stress di straordinario con terzetti, quartetti, Filarmonica e quant'altro ancora »), parole che risulteranno certamente miele per il sovrintendente Stéphane Lissner, che ha fatto una brevissima apparizione nel foyer.
Lissner che, com'era facile prevedere, ieri è stato attaccato dalla Fials. Il sindacato autonomo, infatti, ha dichiarato che si riserva azioni nei confronti della direzione del teatro. L'annuncio è contenuto in un comunicato che bolla come «antisindacale» la decisione della direzione di inviare una lettera agli iscritti chiedendo loro di firmare il contratto integrativo entro il 25 novembre. E che critica soprattutto la sottolineatura del fatto che, chi non firmerà non riceverà in busta paga la quota dell'integrativo prevista entro fine 2008. Secondo la Fials, unico sindacato a non aver firmato l'integrativo, la direzione ha scavalcato gli organismi sindacali aziendali «talché si fa riserva di ogni diritto a ragione della spettanza». Tradotto significa che si riserva azioni legali in base all'articolo 28 dello statuto dei lavoratori.
La Scala non è nuova a questi melodrammoni; ne sono andati in scena di analoghi ai tempi dello strappo tra Muti e l'orchestra, i lavoratori e il Cda. Mai si erano visti però i sindacati scontrarsi così frontalmente.

Repubblica Salute 20.11.08
La violenza alle donne? E' in casa


Opuscolo gratuito di Unicoop Tirreno e Telefono Rosa

E' un dramma che si consuma, il più delle volte, tra le mura domestiche, che ha il volto del marito, oppure del collega, del vicino di casa, dell'amico o di un parente.
Le donne tra i 15 e i 49 anni vittime di violenza, sono in tutto il mondo, circa 1,7 miliardi. Nel nostro Paese, secondo dati Istat del 2007, sarebbero 6 milioni 743 mila (dati elaborati da un campione di 25mila donne di età compresa tra i 16 e i 70 anni). Giovani e non che nel corso della loro vita hanno subìto violenza fisica, sessuale, psicologica. A loro è dedicata, martedì 25 novembre, la "Giornata mondiale contro la violenza sulle donne". Per l'occasione Telefono Rosa, storica associazione di volontariato, e Unicoop Tirreno hanno realizzato la guida "Stop alla violenza contro le donne", un opuscolo con consigli pratici scritti con un linguaggio semplice, suddiviso in più capitoli. Una prima parte è "finalizzata a riconoscere la violenza subìta", spiega la presidente di Telefono Rosa, Gabriella Carnieri Moscatelli, "mentre una seconda è caratterizzata da consigli utili per uscire da questa spirale. Un ulteriore capitolo affronta invece la violenza di tipo sessuale, suggerendo tutte le possibili accortezze che possono aiutare a prevenire un simile trauma. Ancora una volta Telefono Rosa ritiene essenziale sottolineare che la violenza è sempre e in tutte le sue forme un reato", conclude Carnieri Moscatelli.
Capitolo importante della guida, che si può ritirare gratuitamente in uno dei supermercati Unicoop - Tirreno di Roma e provincia e nelle sezioni dei soci Coop (www.telefonorosa.it oppure www.e-coop.it), anche quello dedicato allo stalking, termine inglese che indica una serie di atteggiamenti persecutori nei confronti di una persona che innescano paura e timore. Fenomeno in forte crescita (2 milioni e 800mila le vittime stimate in Italia) ma per il quale ancora non esiste una norma anche se in Parlamento è in attesa di approvazione, già da tempo, il disegno di legge Atti persecutori. (anna rita cillis)

Corriere della Sera Milano 20.11.08
«Male tipico delle metropoli»
Disturbo psichico Una sofferenza per trecentomila milanesi
di A.Se.


Più di trecentomila milanesi hanno sofferto o soffrono di un disturbo psichico. Uno su quattro, in pratica. Un dato choc, che diventa allarme se incrociato con un altro: nel 2007 nei pronto soccorso degli ospedali milanesi sono stati centomila gli interventi per disturbi legati a malesseri psichici.
Un record tutto milanese? «E' un dato tipico delle realtà metropolitane», spiega Enrico Molinari, presidente degli psicologi lombardi: «Il malessere mentale è tipico della civiltà del non incontro, del mancato dialogo. E' il tempo, o meglio la sua mancanza, il fattore che incide di più sul disagio psicologico metropolitano».
Altro fenomeno inquietante la crescita continua del consumo di psicofarmaci.
Ottantamila i consumatori stimati in città, con un incremento, anno per anno, di quasi il 4%.
Un mare di pastiglie: seicentotrentamila confezioni vendute all'anno sui banconi delle farmacie. E affari d'oro anche per gli psicologi. Il quindici per cento della popolazione maggiorenne si è steso almeno una volta sul fatidico lettino.
Altrettanto preoccupante il quadro giovanile, visto che un minore su cinque ammette di aver sofferto di malesseri psicologici.
L'assessore alla Salute del Comune Giampaolo Landi di Chiavenna rilancia allora la sua battaglia per lo psicologo di quartiere. «Venerdì credo che il progetto arriverà in giunta. Partiremo con due farmacie comunali, in altrettante zone difficili della città. Ma l'obiettivo di medio periodo è di estendere la sperimentazione ad almeno settanta farmacie cittadine».

Il Giornale 20.11.08
«Mal di vivere, ne hanno sofferto 320mila milanesi»
di Gioia Locati


L’assessore comunale Landi di Chiavenna: «Il 65 per cento sono donne. Subito lo psicologo di quartiere»

Il 10 per cento dei residenti è stato al pronto soccorso nell’ultimo anno dichiarando un disturbo psichico. Un terzo di questi soffre d’ansia. E non solo. L’agitazione è spesso accompagnata da depressione (62 per cento dei casi), distimia o alterazione dell’umore (42 per cento), dipendenza alcolica (38 per cento), abuso di farmaci (27 per cento). Il disagio psicologico ha mille facce e in città sempre più persone si ritrovano riflesse. «Sono percentuali preoccupanti - ha ammesso l’assessore alla salute Giampaolo Landi di Chiavenna durante la presentazione dello spettacolo “Amica follia”, lunedì al San Babila -. Si calcola siano 320mila le persone che almeno una volta hanno sofferto di un disturbo psichico, il 65 per cento sono donne. Mi auguro che venga presto approvato in giunta il mio progetto sullo psicologo di quartiere. Si partirebbe in via sperimentale nelle farmacie comunali dove il medico presterebbe consulenze. Il disagio psicologico va affrontato e superato con l’assistenza di personale specializzato. È importante abbattere il pregiudizio che spesso impedisce di curarsi».
Per sensibilizzare sul tema della fragilità mentale l’assessorato alla Salute promuove lo spettacolo multimediale al San Babila. Suddiviso in un documentario e un monologo. Il primo è la «Ballata di un uomo brutto» scritto da Sabrina Negri in cui l’attore Carlo Delle Piane, 60 anni di carriera alle spalle e il male oscuro da combattere ogni giorno, confida le proprie angosce e la profonda solitudine. «Ho deciso di scrivere questa storia - ha raccontato l’autrice - perché mi sembrava impossibile che un uomo di successo come Delle Piane potesse stare così male». Seguirà il monologo «Piccola storia di una donna matta» con Maddalena Monti per la regia di Lorenzo Loris. La serata sarà presentata da Tullio Solenghi, parteciperanno al dibattito conclusivo anche lo psichiatra Fulvio Ravera e lo psicologo Enrico Molinari, presidente dell’Ordine degli psicologi lombardi.
«Mi considero una persona solare - ha esordito Solenghi - ma in questa serata interpreto una persona sfigatissima a cui muore la moglie. Credo che l’ironia serva a sdrammatizzare e aiuti nella vita ma in vista dello spettacolo ogni sera, durante le prove, faccio anch’io la mia terapia. Mi ritrovo a fare i conti con queste ombre e ad affrontarle».
Fra le iniziative promosse dall’assessorato per sconfiggere il male oscuro il primo sportello per il dolore psicologico dovuto a lutti o a separazioni. È in corso Italia 45, gestito dalla Fondazione Esperia, funziona dal primo di ottobre, tre giorni alla settimana. Offre consulti per sostenere chi vive il trauma della perdita, dalla capacità riproduttiva o del ruolo sociale, fino alle più gravi e traumatiche e cioè la morte dei propri cari e la paura di morire.

La Sicilia 20.11.08
Platone torna in città
Il premio di filosofia va a Marramao
di Annalisa Stancanelli


«Hegel diceva che la filosofia è come la nottola di Minerva, che si leva in volo quando il sole tramonta. La riflessione filosofica è lontana dall'immediatezza e può esserci d'aiuto in un momento in cui l'impatto emotivo delle immagini favorisce lo schema stimolo-risposta piuttosto che l'analisi critica».
Così il professor Elio Cappuccio, presidente del Collegio Siciliano di Filosofia, racconta il valore della filosofia oggi. E proprio la filosofia sarà la protagonista a Siracusa di un Convegno di studi che si terrà a Palazzo del Senato domani con inizio alle 17 e sabato mattina sul tema «Italia, Europa, mondo. Tra paura e speranza» organizzato per il tradizionale premio di filosofia «Viaggio a Siracusa». «Siamo alla nona edizione - racconta Cappuccio - e ricordo sempre che, quando ne cominciammo a parlare con Roberto Fai, ci sembrò un progetto ambizioso e difficile da realizzare. Dobbiamo molto a Remo Bodei e a Umberto Curi se siamo riusciti a dar corpo a qualcosa che sembrava un sogno: far rivivere la metafora del viaggio platonico a Siracusa».
L'iniziativa ha avuto grande rilievo nel panorama filosofico italiano, si pensi ai filosofi intervenuti in passato come Natoli, Galimberti, Esposito, Pasqualotto, Rigotti, Vegetti, Veca, Bovero, Ordine e, quest'anno, Giacomo Marramao a cui la giuria, presieduta da Remo Bodei e Umberto Curi, ha assegnato il premio per la sezione saggi per il libro «La passione del presente», in cui emerge quel «problema cruciale della filosofia moderna» che consiste nel pensare criticamente il proprio tempo.
Come anticipa Cappuccio «un premio alla carriera è stato assegnato a Maurizio Ferrarsi mentre nella sezione tesi di laurea è stata premiata Anna Molinari per un lavoro incentrato sulla questione dell'integrazione nella società multiculturale».
Il tema del convegno costituisce così lo sfondo in cui si collocano i lavori premiati. Interverranno anche Ciaramelli e Barcellona, dell'Università di Catania.

mercoledì 19 novembre 2008

l’Unità Roma 19.11.08
«Nel ’900 i giovani lottavano contro i padri. Ora non più»
di Adele Cambria


«Il ’68 è stato un fenomeno planetario, ma soltanto in Italia è durato dieci anni. Da Valle Giulia alla strage di piazza Fontana all’assassinio Moro. Eppure Moro era forse l’unico che li aveva capiti e voleva incontrarli…»
«Dalla trincea alla piazza, l’irruzione dei giovani nel Novecento europeo». È questo il tema della seconda edizione della Settimana della Storia che, come nel maggio del 2007 - ma sotto la presidenza del nuovo titolare di Zètema, Francesco Marcolini - è cominciata ieri nell’Auditorium dell’Ara Pacis. E sarà proprio il confronto (o la nostalgia?) delle file interminabili agli ingressi del Parco della Musica, per le Lezioni di Storia nate in collaborazione tra la casa editrice Laterza e l’amministrazione capitolina guidata da Veltroni, a far percepire, almeno a me che avevo seguito quegli eventi, come un sotto-tono, persino nella lectio magistralis del brillante storico Emilio Gentile: che ha confrontato i giovani del 1918 - quelli «della trincea» fangosa e micidiale della Grande Guerra - e quelli del ’68. «I 50 anni che separano la generazione dei nonni da quella dei nipoti sono stati i più sconvolgenti per l’Europa e per l’Occidente. L’Europa immediatamente anteriore alla prima guerra mondiale era nelle migliori condizioni possibili».
Ma i giovani di allora, come quelli del ’68, si ribellano al benessere. «Contestavano l’Accademia, la retorica, il mondo dei padri che aveva costruito una società ipocrita: che dietro la facciata della moralità nascondeva soltanto la difesa dei propri interessi». Papini, Prezzolini, la nascita della rivista «La voce", il futurismo, Marinetti, "La guerra sola igiene del mondo". «E la guerra venne -continua a narrare Gentile- e i giovani ribelli accorrono al combattimento. Alcuni cadono, molti scoprono che la putrefazione morale, culturale, perfino democratica -che hanno contestato- s’incarna nei corpi dei soldati putrefatti nel fango delle trincee». Insomma il terreno di cultura del fascismo è pronto. «Ed il fascismo porta i giovani al potere. Benito Mussolini è stato, e finora rimane, il più giovane Presidente del Consiglio che abbia avuto l’Italia». Una rapida citazione dell’altra parte politica, il diciannovenne Piero Gobetti che fonda la rivista "Energie nove", quindi si avvicina a Gramsci e a "L’Ordine Nuovo" - «Gramsci si considerava ormai vecchio, un personaggio storico, ma era assai esigente con i giovani, a cui proponeva di studiare con accanimento, non so come guarderebbe agli studenti di oggi…».
Alla fine della Lectio magistralis chiedo al Professore cosa ne pensa dell’Onda Anomala che riempie le piazze d’Italia.
«Non possono più fare la rivoluzione contro i padri, perché i padri gli danno da vivere, contestano a fianco dei docenti, e riscoprono i nonni:Scalfaro, Ciampi, Napolitano».
La soluzione?
«Abolire il valore legale del titolo di studio. Le competenze e la preparazione scientifica si testino sul campo. Chi ha la passione per lo studio studierà comunque. Che gli siano messe a disposizione strutture accessibili».

l’Unità 10.11.08
Se nessuno ascolta gli studenti
di Marco Simoni


Da quando il governo ha ridotto l’ammontare dei tagli all’università e rafforzato il potere dei professori ordinari le proteste dei rettori sono finite. Ora va tutto bene. Pochi minuti dopo l’annuncio della nuova disciplina dei concorsi, che prevede l’estrazione a sorte delle commissioni, sono cominciate le telefonate tra i baroni per organizzare al meglio lo svolgimento delle carriere universitarie.
Nel frattempo, circondati dal più insopportabile dei paternalismi permissivi, una parte non irrilevante degli studenti continua la cosiddetta mobilitazione. Tuttavia, nessuno prende sul serio gli studenti, nessuno discute di quel che dicono. In una società che relega le generazioni più giovani alla precarietà esistenziale, agli studenti non viene neanche concessa la dignità del dissenso. Il messaggio è chiaro: marciate pure, fate bene a giocare ai rivoluzionari, finalmente un bel segno di vitalità, bravi! Sappiate però che qualsiasi cosa scriviate o diciate non sarà mai presa sul serio, siete giovani non persone. Due giorni fa una assemblea nazionale di studenti riunita a Roma ha prodotto tre documenti scritti. È ingiusto valutare un movimento solo sulla base della qualità delle proposte, un movimento smuove le opinioni, non legifera. Tuttavia, prendere sul serio le persone significa anche dire agli studenti che per parlare di università bisogna cercare di scrivere in un italiano leggibile. Il linguaggio usato è lontano anni luce dalla sintesi comunicativa tipica della modernità e ricorda in maniera anacronistica l’affabulazione movimentista degli anni settanta.
Ecco un estratto: «Dall’assemblea si é prodotto quindi un dibattito complesso, espressione dell’esigenza dei differenti nodi di affrontare una discussione progettuale sull’autoriforma della didattica che dovesse tenere conto dell’articolazione di un confronto assembleare dal quale potessero risaltare la volontà di avviare un processo costituente e non di arrivare ad una definizione finale ed univoca delle pratiche che nell’attraversamento quotidiano delle facoltá e degli atenei giá aprono spazi di riappropriazione e decisione». Soprattutto non si può, come fa il seguito del documento, criticare contemporaneamente la «meritocrazia» e il «rapporto gerarchico e verticale nella trasmissione del sapere»: bisogna scegliere. Se non è il merito, altri parametri serviranno a selezionare docenti che una volta dietro la cattedra faranno un uso ottuso dell’autorità per imporre le loro povere nozioni.
Al contrario, chi deve alla dedizione alla ricerca il proprio ruolo nell’università farà dello scambio orizzontale di idee il metodo naturale di insegnamento oltre che la fonte principale della comprensione delle cose, non tollerando tuttavia alcuna pigrizia o superficialità.

l’Unità 19.11.08
La Woodstock dell’«Onda» riempie di note la Sapienza
di Silvia Boschero


Non se ne vede la fine. La fila dei ragazzi comincia da San Lorenzo, il quartiere movimentista della Roma studentesca. Ci sono gli universitari, ma non solo, è un fiume immenso: la cittadella della Sapienza è stata trasformata per qualche ora - ieri sera fino a notte fonda - in una piccola Woodstock. «L’Onda studentesca ha bloccato ancora una volta la città», grida una ragazza dal palco. «Saremo quindicimila stasera», dice un elettrico Andrea Rivera, comico, presentatore e factotum della serata di musica e spettacoli organizzata dagli studenti anti-Gelmini. La festa stasera è tutta per loro: «È un’Onda meravigliosa, potentissima e seducente - legge una studentessa - vogliamo immaginare un altro futuro in questa Italia dove è bloccato l’accesso al sapere, un Paese a democrazia bloccata». Sul palco si suona e si parla, in libertà, di università libera, di precarietà, di «libera scelta in libero Stato» (è Rivera che evoca il caso di Eluana), si parla anche della recente sentenza sul G8, con Simone Cristicchi e il suo brano inedito Genova brucia. Lui e tutti gli altri sono qui stanotte e gratis e suonano fino alle 3: Momo, Vergassola, Silvestri, gli Assalti Frontali, Bobo Rondelli, Tetes de Bois tra gli altri. «Mentre si distrugge la cosa più bella che c’è nel Paese, la scuola elementare - dice Andrea Satta dei Tetes - gli italiani stanno guardando l’Isola dei famosi. Noi però siamo qui e venerdì scorso eravamo in 300 mila».
C ’è gente che sale e scende dal palco: tutto molto fraterno, eppure anche estremamente organizzato, a dispetto degli stereotipi sugli studenti. C’è folla, pace ed emozione: proprio come a Woodstock.

Repubblica Roma 19.11.08
Con Cristicchi e Silvestri l'Onda canta alla Sapienza
di Gino Castaldo


L´onda vibra al ritmo della musica. E lo ha fatto con un maxi-concerto a cui, ieri sera, hanno preso parte 25 artisti che hanno voluto aderire alle mobilitazioni degli studenti romani salendo sul palco della festa "Siamo in Onda", organizzata nel cortile dell´università La Sapienza. «Siamo 15mila, segno che la protesta contro i tagli all´istruzione non si fermano» hanno detto gli studenti dell´Onda. Alla serata hanno preso parte, tra gli altri, Andrea Rivera, Simone Cristicchi, Valerio Matandrea, Daniele Silvestri e gli Assalti Frontali. Durante il concerto, che gli studenti hanno ribattezzato come la "Woodstock dell´Onda", sono stati proiettati due video di Moni Ovadia e Andrea Rezza.
L´Onda fa le sue prove di trasmissione. Un concerto che sembra una chiamata alle armi per cantanti, attori, per quel mondo dello spettacolo orfano di buone cause per cui impegnarsi. E ora l´hanno trovata. Simone Cristicchi, Daniele Silvestri, i Tetes de Bois, Ascanio Celestini, Marco Conidi, Valerio Mastandrea, Momo (che ha improvvisato una deliziosa alè ondà), Elio Germano, Peppe Voltarelli, gli Assalti Frontali che hanno scatenato la piazza, una valanga di personaggi chiamati a raccolta da Andrea Rivera, che ha aperto la serata con parole incendiarie. «Non ho mai ammesso le manganellate, sono contro tutto, contro l´arte, contro la democrazia». L´Onda sale, monta anche attorno alla Città universitaria col traffico molto rallentato. Un concerto affollato e felicemente disorganizzato, con la piazza dietro il rettorato della Sapienza che si riempie di gente man mano che la musica va avanti. La piccola Woodstock la chiamano, il caos è simile, l´eccitazione paragonabile. «Siamo oltre 15 mila» dicono intorno alle dieci i ragazzi, e via via ne arrivano altri. C´è un´allegria che contagia e Rivera regala anche una battuta niente male: «In Italia, ci sono due Stati stranieri, il Vaticano e San Marino. Mi domando: perché San Marino non rompe mai i c...?». Gli artisti sembrano eccitati, contagiati da questa piazza che pulsa di nuove energie, di nuove ribellioni.
Daniele Silvestri racconta la sua posizione: «E´ una cosa che aspettavo da anni. Non tanto come artista, come cittadino, e soprattutto come padre di due figli. C´è sdegno, bisogno di riflessione, anche per l´atteggiamento arrogante del governo, un atteggiamento che non fa neanche finta di avere un futuro da indicare e così facendo si limita a disgregare quello che esiste. Siamo tanti a pensare che così non si può più andare avanti e c´è l´arroganza di chi non vuole ascoltare. Mi è capitato molte altre volte di partecipare a situazioni questo genere ma nessuna mi ha coinvolto come questa».
Ribattono i Tetes de Bois, il cantante Andrea Satta spiega: «Nello stagno italiano se si muove qualcosa si vede. I ragazzi ci hanno chiesto di stargli vicino. E hanno incrociato la nostra voglia di esserci. Non è solo per la libertà di studio, che comunque vuol dire futuro, siamo tutti contro quelli che vogliono farlo diventare un paese solo per ricchi». Di fatto sembra davvero che siano gli artisti a dover ringraziare questi ragazzi scatenati e bramosi di protesta. E una ragazza sul palco dice con orgoglio: «Anche oggi abbiamo bloccato la città». Andrea Rivera l´aveva spiegato all´inizio: «Bisogna sostenere materialmente l´Onda. Perché anche questo movimento costa, fa fatica, fra un po´ si mangeranno i cracker. La cosa meravigliosa è questa bellissima unità da cui dovrebbe prendere esempio anche la fatiscente sinistra italiana. Spero che il prossimo anno saremo di nuovo qua, vorrà dire che il movimento non è stato sconfitto». Nota di colore: erano previsti venticinque artisti, i ragazzi hanno comprato venticinque pizze. Qualcuno ha fatto notare che artisti spesso voleva dire gruppi di quattro cinque persone e loro sono caduti dalle nuvole. Ma la cosa importante è che tutto funziona. Il palco suona, gli amplificatori anche, i ragazzi dell´Onda sono in giro per il backstage per spingere gli artisti sul palco. E tra una pausa e l´altra rilanciano gli slogan, uno su tutti: "Noi la crisi non la paghiamo". Un caos gioioso dove nessuno si lamenta e nessuno fa il divo. Per una volta le questioni importanti sono altre.

Repubblica Roma 19.11.08
Questa mattina gli studenti delle scuole del centro storico manifesteranno per i giovani denunciati del Kennedy
Licei, in corteo al ministero contro le denunce
di Tea Maisto


Gli studenti dello scientifico Kennedy non saranno soli. A manifestare con loro, oggi, davanti al ministero dell´Istruzione ci saranno anche altre scuole del centro storico. Dal Virgilio, al Mamiani, al Tasso: tutte insieme per esprimere solidarietà nei confronti dei ragazzi del Kennedy - ma anche dello scientifico Azzarita e dell´alberghiero Artusi - denunciati dopo l´occupazione dei loro istituti per interruzione e invasione di pubblico edificio.
Una protesta anche per dire "no" alle «minacce di provvedimenti disciplinari da parte dei presidi degli istituti occupati», spiegano gli studenti. Il corteo partirà proprio dal Kennedy, zona Monteverde alle 9. «Anche le scuole che non potranno partecipare alla manifestazione e poi al sit-in in viale Trastevere faranno in modo di far sentire la loro voce - spiegano gli studenti autorganizzati - ci saranno megafonate all´entrata e all´uscita dalle lezioni e all´intervallo e saranno affissi striscioni ai cancelli. Ci sarà scritto "Provvedimenti disciplinari e denunce non ci fermeranno"». Non solo: i ragazzi del Kennedy annunciano anche la presentazione di un dossier sui «metodi repressivi attuati in questi anni dalla presidenza». Intanto ieri a scendere in piazza circa mille studenti di 8 scuole della zona di Centocelle (Benedetto da Norcia, Immanuel Kant, Levi Civita, Giorgi, Francesco D´Assisi, Di Vittorio, Boaga e Ipsia Europa). La manifestazione è terminata con una "pillow fight", ovvero una lotta di cuscini. «Eravamo una cinquantina con i cuscini in mano - spiega Yuri Segnalini, studente del D´Assisi - è stato il nostro modo di manifestare contro chi fa uso di violenza, in particolare mi riferisco agli scontri di piazza Navona. Le proteste studentesche devono essere pacifiche». Dal corteo di ieri è nata anche l´idea di creare un comitato a Centocelle che prenderà contatto anche con le altre realtà della capitale per organizzare nuove proteste. Inoltre nel pomeriggio due studenti dell´Albertelli sono stati ricevuti, al ministero dell´Istruzione, dal sottosegretario Giuseppe Pizza. Tra le richieste: «un dialogo costruttivo per la riforma recependo l´istanza di cambiamento del movimento studentesco delle medie superiori».

Repubblica 19.11.08
È il momento di cambiare
Noi, costretti a regalare il cervello all'estero
di Renato Dulbecco


HO LASCIATO il mio Paese nel 1947, a soli 33 anni, per gli Stati Uniti, per poter sviluppare le ricerche scientifiche che mi hanno fatto meritare il Premio Nobel per la Medicina, molti anni dopo, nel ´75. Oggi mi fa male vedere che, dopo oltre 60 anni, la situazione di crisi della ricerca scientifica in Italia non è cambiata, anzi. Lo dimostrano i più di mille ricercatori italiani sparsi per il mondo che hanno già riposto all´appello di questo giornale e che hanno dovuto, come me, lasciare il Paese per dedicarsi alla scienza. Il mio rammarico non è una questione di nazionalismo: la scienza per sua natura ignora il concetto di Patria, perché è e deve rimanere universale. Anzi, penso sia importante per uno scienziato formarsi all´estero e studiare in una comunità internazionale. Tuttavia dovrebbe anche poter scegliere dove sviluppare le sue idee e i frutti del suo studio, senza dover escludere del tutto il Paese dove è nato. Ciò che mi dispiace profondamente è toccare con mano l´immobilismo di un´Italia che sembra non curarsi della ricerca scientifica, esattamente come nel dopoguerra.
Come se più di mezzo secolo di esplosione del progresso scientifico fosse passato invano. Chi vuole fare ricerca se ne va, oggi come ieri, per gli stessi motivi. Perché non c´è sbocco di carriere, perché non ci sono stipendi adeguati, né ci sono fondi per ricerche e le porte degli (ottimi) centri di ricerca sono sbarrate perché manca, oltre ai finanziamenti, l´organizzazione per accogliere nuovi gruppi e sviluppare nuove idee. Perché non esiste in Italia la cultura della scienza, intesa come tendenza all´innovazione che qui, negli Stati Uniti, è privilegiata in ogni senso ed è il motore del cambiamento.
Ciò che è cambiato concretamente, rispetto ai miei tempi, è che la ricerca scientifica, spinta dalla conoscenza genomica che è stata al centro del miei studi e oggi rappresenta il futuro, richiede molti più investimenti in denaro e persone rispetto a 60 anni fa. Si allungano così le distanze fra Paesi che investono e quelli che non lo fanno. L´Italia rischia, molto più che negli anni Cinquanta, di rimanere esclusa definitivamente dal gruppo di Paesi che concorrono al progresso scientifico e civile.
Io sono uno scienziato e non ho la ricetta per salvare la ricerca italiana, ma proprio come "emigrato della ricerca " posso dire che i modelli ci sono, anche vicini ai nostri confini, senza guardare agli Stati Uniti, che sicuramente hanno una cultura e una storia molto diversa dalla nostra. Basterebbe iniziare a riflettere dal dato più semplice. Un Paese che investe lo 0,9% del proprio prodotto interno lordo in ricerca, contro la media del 2% degli altri, non può essere scientificamente competitivo né attirare a sé o trattenere i suoi ricercatori migliori.

il Riformista 19.11.08
Ma nel Pd restano solo macerie
«Si va verso un congresso duro»
di Alessandro De Angelis


POST-VIGILANZA. Sospetti, veleni, il nodo Idv e lo scontro tra dalemiani e veltroniani al picco massimo. Così si prepara la resa dei conti in casa democratica.

Sospetti. Complotti, veri o presunti, all'ombra della partita sulla commissione di Vigilanza. Veltroni, Zanda e Franceschini, nel colloquio privato con Villari, avevano accusato: «Vi siete messi d'accordo con Bocchino? Ci sono i tuoi amici nel partito che ti coprono, eh?». Quanto basta, in casa dalemiana, a vedere rosso. E il vicecapogruppo dei senatori democrats Nicola Latorre ieri ci è andato giù duro: «Complotti? - ha affermato in un'intervista al Corriere - Se vogliono far fuori D'Alema e i dalemiani lo si faccia a viso aperto senza ricorrere a queste meschinità. Non si può più tollerare che per nascondere le responsabilità politiche si ricorra al tema del complotto».
Si litiga, tra dalemiani e veltroniani, anche sulle misure disciplinari: «Villari - prosegue Latorre - si deve dimettere ma sono sbagliati metodi come espulsioni o sanzioni che evocano un'idea della vita democratica che dovremmo avere alle spalle». Replica Tonini: «Latorre legittima il comportamento di Villari dicendosi contrario alle sanzioni. Quelli che vogliono il partito vero e strutturato si schierano contro misure disciplinari. Il comportamento di Villari sarebbe censurato pure nella bocciofila sotto casa mia».
Dietro la Vigilanza si consuma l'ennesimo duello tra «Massimo» e «Walter», che ieri di fatto hanno aperto il congresso. Dice un dalemiano di rango: «Se si continua così sarà un congresso complicato. Noi siamo pazienti, ma…». E Tonini mostra i muscoli: «Il congresso sono le primarie. Per statuto». Altro casus belli: i rapporti con Di Pietro. «Logori» per Latorre. Un falso problema per Tonini: «È lunare - dice il fedelissimo di Veltroni - descrivere come fa Latorre il Pd subalterno a Di Pietro. Su piazza Navona, sul lodo Alfano abbiamo avuto una linea autonoma. Anche sulla Vigilanza non siamo stati subalterni a Di Pietro, siamo stati leali. Il che è cosa diversa».
Che dalle parti del Pd gli ex ds stiano preparando la resa dei conti lo ha capito anche Di Pietro. Da giorni ha maturato la convinzione che Veltroni sia vittima dei suoi: «Walter - spiegava a margine di una iniziativa due giorni fa - ha trovato il suo De Gregorio, mica è colpa sua. Altra cosa è che tutti stanno usando questa situazione per rompere con noi. Ma no, lui non vuole rompere. Anche sui gruppi poi non è vero che abbiamo tradito i patti. Se si perde, convengono due gruppi. Se avessimo vinto ne avremmo fatto uno solo». E ieri Di Pietro ha mandato un assist a «Walter». Proprio durante la riunione mattutina del coordinamento del Pd arriva l'agenzia che annuncia che il leader dell'Idv ha rinunciato a Orlando: «Atteggiamento saggio e equilibrato» dice Veltroni ai suoi.
Più che il tema delle alleanze, lo scontro nel Pd riguarda la «gestione del partito». E il barometro dei rapporti tra Walter e Massimo segna, di nuovo, tempesta. Basta sentire gli uomini di D'Alema. Il ragionamento suona più o meno così: la situazione del partito è un disastro; a Firenze si è arrivati alle primarie con quattro candidati dopo una guerra intestina; a Bologna regna il caos; in Sardegna sull'elezione della segreteria regionale si è finiti di fronte agli avvocati perché è stata sollevata la legittimità dell'assemblea al momento del voto; nel Lazio è battaglia aperta sulla segreteria regionale. Per non parlare dell'Abruzzo, dove è successo di tutto. E l'alleanza con Di Pietro: «Non può essere - dice Matteo Orfini - un giorno il miglior amico e un giorno quello con cui non si parla. Diciamo che con Di Pietro siamo entrambi all'opposizione. Questo non significa essere alleati». Per la conta c'è tempo fino al congresso. Il leader maximo è in giro in Sud America. A chi lo ha raggiunto per telefono ha detto: «Voi volete che io mi occupi di Villari… Ma io sono di fronte al Pacifico e non ne parlo. Il punto è che qui l'alba sorge dal lato sbagliato…».

il Riformista 19.11.08
Burocrazia. uno studio tecnico del ministero dell'Economia presenta il conto a Brunetta
L'Authority anti-fannulloni ci costa già quattro milioni
di T.L.


SORPRESE. Il Senato ha appena varato con voto bipartisan una centrale di controllo sulla produttività del lavoro pubblico. I membri avrebbero dovuto partecipare gratis. Peccato che in extremis sia spuntato lo stipendio: un milione e mezzo. Più le consulenze.
La norma in versione "gratis", poi modificata.

Il trucchetto c'è ma finora nessuno, a parte chi l'ha escogitato, se n'è accorto. Anche dietro la norma «anti-fannulloni» del ministro Renato Brunetta, spuntano - immancabili - le "solite" consulenze. Strapagate e a carico della collettività, s'intende.
La «delega al governo finalizzata all'ottimizzazione delle produttività del lavoro pubblico» è stata approvata dalla commissione Affari costituzionali del Senato giovedì scorso. Il voto finale di Palazzo Madama è atteso a breve. Curiosità: si tratta del primo provvedimento bipartisan di una legislatura in cui litiga su tutto e anche di più. Non a caso giovedì scorso, nel voto in commissione, il Pd si è astenuto, consentendo al ministro Brunetta di definire «epocale» la riforma in questione.
E il trucchetto? Basta leggere il disegno di legge (numero 847), che il ministro Brunetta ha riassunto in quattro parole d'ordine: più trasparenza, standard, premi e punizioni per chi non fa il proprio lavoro. A leggere il testo arrivato in commissione (articolo 3 punto d), il ddl prevedeva «l'istituzione presso il Dipartimento di funzione pubblica, eventualmente in raccordo con altri enti o soggetti pubblici, di un organismo centrale (…) con il compito di validare i sistemi di valutazione adottati dalla singole amministrazioni centrali, indirizzare, coordinare e sovrintendere all'esercizio delle funzioni di valutazione, nonché di informare annualmente il ministro per l'Attuazione del programma sull'attività svolta».
La centrale di controllo anti-fannulloni era praticamente a costo zero. Tanto che - si leggeva poche righe più sotto - «i componenti del predetto organismo, scelti tra persone di elevata professionalità, anche estranee all'amministrazione, prestano la loro collaborazione a titolo gratuito».
Fin qui una pagina di bella politica: una norma anti-fannulloni che si fonda su un organismo di controllo che non costa nulla. Il problema è che, nell'accordo trovato in commissione Affari costituzionali del Senato, il punto d dell'articolo 3 è stato inghiottito dal nulla. E la famosa «collaborazione a titolo gratuito» dei componenti dell'organismo anti-fannulloni è svanita. Il testo licenziato dalla commissione prevede «nell'ambito del riordino dell'Aran (Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni), l'istituzione (…) di un organismo centrale che opera in collaborazione con il Ministero dell'Economia e il Dipartimento della funzione pubblica con il compito di indirizzare coordinare e sovrintendere all'esercizio indipendente delle funzioni di valutazione, di garantire la trasparenza dei sistemi (…), di assicurare la comparabilità e la visibilità degli indici di andamento gestionale».
Le mansioni dell'organismo sono praticamente le stesse del ddl originale. L'unica differenza con testo approvato dalla commissione è che la centrale anti-fannulloni non è più gratis. I componenti, «di numero non superiore a cinque», sono pagati. Eccome.
Tra palazzo Chigi e il ministero dell'Economia qualcuno però ha storto il naso. E in una relazione tecnica «sugli oneri finanziari derivanti dall'emendamento per come riformulato» - preparata a via XX settembre - si legge che il costo complessivo dell'operazione può arrivare a quattro milioni di euro. Otto miliardi del vecchio conio.
Ce n'è per tutti. Un milione e mezzo di euro (onere massimo previsto) «per compensi, comprensivi degli oneri riflessi, spettanti ai componenti dell'Agenzia, da fissare con decreto del Ministro per la pubblica amministrazione di concerto col Ministero dell'economia». Mezzo milione «per l'affidamento di consulenze e incarichi di collaborazione». Settecentomila euro «per la stipula di convenzioni con enti e università». Altri cinquecentomila «per il funzionamento e spese connesse alla segreteria tecnica». E ancora: quattrocento mila euro «per l'acquisto e la manutenzione di beni strumentali e per gli oneri di funzionamento della struttura» e un altro assegno da quattrocentomila «per le spese concernenti all'affitto della sede ed eventuali oneri connessi». Totale: quattro milioni.
Alcune di queste voci - tipo l'ultima - sarebbero state da mettere in conto anche con la versione originale del ddl. Ma «la collaborazione a titolo gratuito» dei componenti dell'organismo anti-fannulloni (a proposito: chi saranno i predestinati?) avrebbe portato un discreto risparmio alle casse pubbliche e sarebbe stata in linea con il taglio delle consulenze pubbliche, una delle battaglie su cui Brunetta più si è speso dall'inizio della legislatura. Peccato sia stata inghiottita nel nulla, nel primo atto bipartisan di una legislatura in cui si litiga su tutto. E anche di più.

Repubblica 19.11.08
Una nuova vita per La madonna del cardellino
di Antonio Pinelli


Nel quadro sono ritratti dei giochi apparentemente innocenti, ma carichi di presagi
La tavola rimase travolta dal crollo del Palazzo Nasi e ne uscì ridotta a pezzi
Un complesso restauro durato un ventennio ha permesso di recuperare la splendida opera, che da domenica sarà in mostra nel Palazzo Medici Riccardi di Firenze

Nell´autunno del 1504 Raffaello aveva 21 anni quando decise di stabilirsi a Firenze, dove si fermò, salvo qualche rapido rientro in Umbria, per ben quattro anni. Se egli si risolse a lasciare il certo per l´incerto, abbandonando i luoghi dove era già considerato un maestro di tutto rispetto (non a caso fu dall´Umbria che continuarono a pervenirgli gli incarichi più impegnativi) fu senza dubbio per poter respirare a pieni polmoni l´atmosfera rigenerante di quello che allora era il centro propulsore della «maniera moderna», e dunque per trarne tutto il profitto possibile in termini di aggiornamento culturale. A Firenze non poteva attendersi commissioni altrettanto ghiotte, ma in compenso poteva abbeverarsi direttamente alle sconvolgenti novità introdotte da Michelangelo e da Leonardo, che proprio in quegli anni si sfidavano sulle pareti di Palazzo Vecchio, e da Fra Bartolomeo che, conferendo un´inedita monumentalità e un respiro solenne alle pale d´altare, faceva retrocedere il Perugino, fino a pochi anni prima idolatrato, al rango di un pittore irrimediabilmente rétro, «quattrocentesco».
In quei quattro anni Raffaello mostrò di nuovo quanto fosse prensile e, al tempo stesso fertile il suo talento, assorbendo avidamente, come una spugna, tutti quegli stimoli, anche i più contraddittori tra loro, ma riuscendo a ridurli a sintesi e ad amalgamarli nel linguaggio agevole, armonico e rotondo che gli era proprio. E tutto questo avvenne, per così dire, in tempo reale, con dipinti che registrano fedelmente questo processo di arricchimento, paragonabile a quello di un placido fiume che aumenta la propria portata via via che accoglie, in un alveo di crescente ampiezza, nuovi affluenti. Già perché i committenti fiorentini, personaggi come Agnolo Doni, Taddeo Taddei, Lorenzo Nasi e Domenico Canigiani, che erano tutti più o meno imparentati tra loro e facevano parte della borghesia emergente, non lasciarono l´urbinate con le mani in mano, commissionandogli soprattutto quadri di devozione privata e ritratti. La Madonna del cardellino, che riappare in questi giorni tornata a nuova vita dopo un restauro così delicato da aver avuto bisogno di prolungarsi per un decennio, fa parte di questo gruppo di dipinti devozionali, e più in particolare di quel terzetto di tavole con la Madonna che, seduta in un prato fiorito e circondata da un ameno paesaggio, intrattiene il Bambino e il suo cuginetto, impegnati in giochi apparentemente innocenti, ma in realtà carichi di funesti presagi (come la croce di canne del Battista, anche il cardellino allude al futuro sacrificio), quasi si trattasse di un´amabile scena quotidiana con una dolce mamma che veglia sui bimbi che ha condotto al parco.
Delle tre tavole, la cosiddetta Belle Jardinière, che è al Louvre, è visibilmente la più tarda, mentre la Madonna del Prato, che è a Vienna e fu commissionata da Taddeo Taddei, e quella del cardellino, che fu dipinta per Lorenzo Nasi in occasione del suo matrimonio nel febbraio 1506 con Sandra Canigiani, sono talmente prossime tra loro da rendere arduo decidere quale sia stata compiuta per prima.
In ogni caso, in tutte e tre Raffaello mostra di aver messo a frutto le sue fresche conoscenze delle novità di Leonardo, Michelangelo e Fra Bartolomeo. Dal primo, e in particolare dal suo cartone della Sant´Anna che era esposto all´Annunziata, discendono l´articolazione piramidale della composizione e la varietà espressiva dei moti dell´animo; dal secondo - e segnatamente dai Tondi Pitti e Taddei e dalla Madonna di Bruges, le avvolgenti torsioni e l´accresciuta consistenza plastica delle anatomie, oltre che specifiche invenzioni come quella del piede del Bambino che calca quello della Madre; mentre dal Frate pittore, che gli era profondamente consentaneo, Raffaello deriva il colorito ricco di risonanze e sapientemente modulato dal chiaroscuro, ma anche la varietà naturalistica e la morbida fusione atmosferica degli sfondi di paese.
La somma delicatezza del restauro della Madonna del cardellino dipende dal fatto che non si trattava solo di liberarla dall´ingiallimento di vernici o da moleste ridipinture accumulatesi nel corso degli ultimi due o tre secoli, ma che questo già arduo processo di ripulitura si è dovuto compiere su un´opera che a sua volta era stata sottoposta ad un impegnativo restauro pochi decenni dopo che era stata eseguita. Nel novembre 1547, infatti, le piogge sovrabbondanti produssero smottamenti di Costa San Giorgio, che fecero crollare il Palazzo Nasi in via de´ Bardi. La tavola di Raffaello ne uscì ridotta letteralmente in pezzi, che Giovan Battista Nasi, figlio di Lorenzo, raccolse con la dovuta venerazione e fece prontamente restaurare da un pittore che li ricompose e medicò guasti e «cicatrici» con sapienti ridipinture. Chi fu quell´antico restauratore? Antonio Natali suggerisce che possa essere stato proprio quel Ridolfo del Ghirlandaio, ormai anziano ma non decrepito, che le fonti attestano come il pittore con cui Raffaello, che era suo coetaneo, aveva stretto maggiormente amicizia durante il suo soggiorno a Firenze.
L´ipotesi è suggestiva, ma tutto sommato quel che più conta è l´intelligenza critica con cui i restauratori odierni dell´Opificio fiorentino hanno saputo procedere coniugando analisi diagnostiche sofisticate ad un prudente empirismo, per giungere al mirabile risultato di una ripulitura che ha saputo mantenere l´unità dell´insieme, facendo riemergere quanto è rimasto dell´originaria stesura raffaellesca (stimabile in circa l´80 per cento della superficie dipinta), salvaguardando, per quanto possibile, le integrazioni del ´500 ormai storicizzate.

l’Unità 10.11.08
Il prefetto che rispettava i Rom
di Dijana Pavlovic


Un racconto rom ci narra di Hitler Tuka: «C’era una volta un re che odiava i Rom e li voleva ammazzare, perché erano diversi da lui e parlavano una lingua che lui non capiva. Ma ai giorni nostri ammazzare tante persone non è proprio una grande cosa, allora pensò di far diventare tutti i Rom criminali, difatti ammazzare criminali è tutt’altra cosa. Quindi dà l’ordine di cacciare tutti i Rom dalle città nei boschi in modo che là abbiano freddo e fame così ruberanno le patate ai contadini, ed ecco i ladri!...»
In questo racconto si mescolano la memoria del Porrajmos, lo sterminio dei Rom, al disagio sociale dei moderni campi di segregazione, i cosiddetti “campi nomadi”, che, se proprio ci devono essere, devono stare lontano, nascosti agli occhi dei “normali” cittadini. A Milano come a Roma, dove addirittura devono essere spostati al di fuori del grande raccordo anulare. E le donne e gli uomini che lavorano? e i bambini che vanno a scuola? Chi se ne frega, che se ne tornino al loro Paese, pensa e dice la Lega dimenticando che metà dei Rom sono di origine italiana dal 1400, prima di tanti “lumbard”.
Campi nomadi quindi come discariche sociali nelle quali è molto difficile mantenere quei pezzi di vita decente strappati al pregiudizio e all’odio ed è più facile ricorrere a tutto quello che si può per sopravvivere.
Queste cose il prefetto di Roma Carlo Mosca le sapeva bene quando ha rifiutato di schedare con le impronte i bambini Rom e spiegava che non aiutava la sicurezza sgomberare comunità che avevano un minimo di stabilità spargendo sul territorio persone disperate.
Ma queste cose banalmente civili non lo sono quando la paura dell’altro serve a raccattare consenso politico e a offrire un capro espiatorio a un Paese in crisi sociale, economica e morale. Allora via chi ostacola questo percorso, via chi capisce che altro deve essere il modo di affrontare un processo irreversibile come quello dell’immigrazione e della convivenza nel rispetto reciproco di etnie, culture, religioni diverse. Io vengo dalla Serbia, dalla ex-Jugoslavia, ho vissuto il dramma, la violenza, il dolore della rottura della convivenza tra le tante diversità che formavano la mia nazione e per questo so bene quanto siano preziosi uomini che al di là dell’appartenenza politica abbiano bene in mente il valore delle diversità e dei principi che regolano la convivenza democratica.
Prefetto Mosca, nais, te aves bahtalò! (in romanes: grazie e la fortuna sia con lei) perché ha fatto capire al mio popolo che si può sperare in persone come lei nel momento in cui in questo Paese sembrano tornare i modi del terribile Hitler Tuka.
dijana.pavlovic@fastwebnet.it

l’Unità 10.11.08
Al G8 con Carlo
«Sulla camionetta erano in quattro. Non fu Placanica a sparare»
di Malcom Pagani


Non era un film nè una carica normale. Mi chiesi il perché di tanto odio, poi smisi di domandarmelo e persi la testa anch’io. Non sono un violento ma partecipai attivamente a una guerriglia di stampo cileno. Quel giorno cambiò per sempre la mia vita». Venti luglio 2001, Genova. Da ore in città impazzano scontri furibondi. C’è una piazza stretta, all’ombra di una chiesa. È dedicata a un cardinale, Gaetano Alimonda, anche se la pietà, e non solo quella, è a un passo dal morire. Poi un’edicola, un’aiuola, molta confusione.
Bloccato ai piedi di un palazzo, un defender dei carabinieri. Ha i vetri rotti. Nell’abitacolo, caldo, paura e tre ragazzi spaventati. Filippo Cavataio è al posto di guida. Dietro, ad affrontare la furia dei manifestanti, Dario Raffone e Mario Placanica. Carlo Giuliani, 23 anni, si trova al centro della scena. Ha un estintore in mano, sta per lanciarlo dentro una jeep dei carabinieri quando due spari spezzano l’aria. Accanto a lui, nella sequenza fotografica che delle giornate genovesi diventerà il simbolo, un suo coetaneo. In mano tiene stretta un’asse di legno. La infila e la sfila dalla macchina.
A neanche una settimana dalla sentenza sulla scuola Diaz («Hanno fregato il solo Canterini. Non mi trovavo in aula ma non c’era bisogno di doti divinatorie per immaginare che sarebbe finita così») e dopo sette anni di traversie giudiziarie ora in via di risoluzione, Massimiliano Monai torna con la memoria a quell’estate in cui ogni cosa cambiò di segno. «Dagli idranti della polizia usciva acqua urticante, c’era una sproporzione di forze e mezzi inaudita ma sbagliammo comunque. Avremmo dovuto capire di essere in trappola, ritirarci e fermarci. Nessuno lo fece e scivolammo in qualcosa di più grande di noi». I nove anni per tentato omicidio chiesti dal Pm Franz in prima istanza, si sono trasformati in cinque con l’imputazione di devastazione e saccheggio. Tre sono stati condonati con l’indulto. I Pubblici ministeri Canepa e Canciani hanno impugnato la sentenza. L’avvocato di Monai ha fatto altrettanto.
Quella del 20 luglio, fu un’alba come un’altra. «Mi trovavo in riviera, a Cavi di Lavagna, con alcuni amici. Avevamo osservato la manifestazione del 19 in tv. Poi la mattina dopo facemmo il bagno e verso mezzogiorno salimmo in macchina alla volta di Genova. Arrivammo allo stadio Carlini, c’era già tanta gente, il corteo stava quasi per partire. Persone normali. Ragazzi, donne, uomini, bambini». Un’atmosfera tranquilla. «Eravamo sereni, squillò il telefonino. Era mia sorella. “State bene?” “In che senso?” “Ho sentito che dalle parti di Marassi c’è un po’ di disordine” Scendendo lungo Via Tolemaide, ci accorgemmo che sulla destra, verso il cielo, saliva una minacciosa nuvola nera». Le macchine bruciate dai black block. «In un attimo piombammo nel caos, la testa del corteo si fermò. “Non vi preoccupate” urlavano gli organizzatori dal camion, ”non succederà niente, state uniti”. Qualcosa invece accadde. «Iniziarono a piovere lacrimogeni. Percepivamo l’incombere di un evento terribile». Odori acri, impossibili da sopportare. «Non avevo mai sentito niente del genere. Ti faceva svenire. Col Genoa, la mia squadra, ero andato in trasferta mille volte. I lacrimogeni li conoscevo. Di qualunque sostanza si trattasse, quella roba era diversa. Tossica».
Fu a quel punto che il corteo fini nella tenaglia delle cariche e la giornata inclinò al lutto. «Si creò un imbuto, un sandwich e noi in mezzo». Scappare, una chimera. «Via Tolemaide è un budello, ci sono due traverse laterali, Via Caffa e Corso De Stefani, a destra la massicciata della stazione è una barriera insormontabile». Monai prese Via Caffa e osservò fotogrammi crudi. «Arrivarono tre cellulari dei carabinieri in corsa, ebbi l’impressione che ci volessero ammazzare. Mi nascosi dietro un albero, li vidi marciare contro alcuni cassonetti e trascinarli a tutta velocità contro una barricata formata dai manifestanti. ”Adesso si ferma” ragionavo. Invece proseguì per 30 metri». Niente di razionale, istinto puro. «Rimasi in un fazzoletto per oltre 2 ore. Mi dicevo: ”Belìn, qui ci lascio la pelle” e correvo da una parte all’altra. Non c’era schema nè ordine ma solo un affrontarsi anarchico, senza regola alcuna».
E’ convinto che alla base degli scontri ci fosse un piano preordinato: «Le forze dell’ordine non intervennero sui black block perché in mezzo a loro si muovevano decine di infiltrati. Tiravano pietre e poi si dileguavano. Arrivava un plotone a rimorchio e pestava chiunque incontrasse sul cammino». Lui continuò il proprio e arrivò in piazza Alimonda. «Trovai un bastone, vidi il defender, non so cosa mi prese. La jeep era già lì, con i finestrini spaccati, mi avvicinai anch’io. Presi la trave e la infilai tra i vetri infranti. Cavataio era davanti, Placanica rannicchiato in posizione fetale, a un passo da me, dalla parte opposta un suo collega (mai individuato n.d.r) aveva la pistola in mano e un quarto, Raffone, lo copriva».
Secondo Monai a sparare non fu Placanica. «Quella sequenza mi rimarrà in testa per tutta la vita. Placanica aveva ferite profonde sul capo, lo avevano colpito con un bastone, forse con una pietra. Era in stato confusionale e non brandiva armi». L’omicida di Carlo Giuliani rimarrà eternamente anonimo: «Ho sempre avuto l’idea che a premere il grilletto fosse stato un pezzo grosso, forse un generale». Di cui Placanica non conosceva neanche il nome. «È plausibile. Me lo immagino: scende dal defender, prende questo ragazzino di Catanzaro da un lato e gli parla con tono fermo, quasi paterno. “Assumiti la colpa, poi sostieni la tesi della legittima difesa e te la cavi con poco”. Si prese l’intera responsabilità e gli venne riconosciuta la legittimità della difesa e dell’uso delle armi». Sul perché Placanica, assolto definitivamente nel 2003, abbia taciuto, avvitandosi in una serie di versioni contraddittorie, Monai ha una spiegazione sciasciana. «Paura. Anche se dire la verità, avrebbe rappresentato un’assicurazione sul futuro. Certe volte, non è strano che la paranoia sconfini con la realtà».
Lasciò la piazza, Giuliani già a terra, senza rendersi conto della morte di Carlo. Lo conosceva superficialmente. «Non mi accorsi della sua presenza ma anche se ci fosse stato mio fratello, avrei pensato solo ad allontanarmi. Carlo l’avevo incontrato qualche volta ma non si può dire che fossimo amici». Al suo posto comunque, avrebbe potuto esserci lui. «Quando mia madre lo seppe, le venne un colpo. Si arrabbiò, “se quello gira il braccio e spara, ti ammazza, Massimiliano”. Tacqui. Certe volte il silenzio è tutto». Sui poliziotti, Monai spende però parole chiare. «Capisco la loro paura, l’avrei provata anch’io. Fu un brutto episodio, una macchia da cancellare. La mia sfortuna fu di trovarmi nel luogo sbagliato al momento sbagliato. Se Carlo non fosse morto, non sarei mai diventato l’uomo della trave». Si costituì un mese dopo. «Non campavo più. Mi sentivo braccato. Incontravo un agente e tremavo. Quando il 21 lessi il giornale e vidi il sangue, capii che era finita. I miei amici mi offrirono denaro per scappare lontano. ”Ma dove volete che vada? Non ho ucciso nessuno”». Il cerchio si strinse. «Una mattina notai 5 agenti della Digos a pochi passi da casa mia». Allora fece una lunga doccia, uscì dalla sua abitazione, entrò in questura, si consegnò. «Ora lavoro al porto e a gennaio nascerà la mia seconda figlia, Maddalena. Non si può fuggire per sempre, neanche dai ricordi. Placanica? Dopo Carlo è stata l’altra vera vittima del G8. Non uccise, ma per tutti rimarrà un assassino». Adesso aspetta solo un cambio di stagione, la chiusura di una ferita ancora aperta. «Ho perso tanti treni. Avevo 30 anni, oggi sfioro i quaranta». Un altro mondo non è sempre possibile.

Corriere della Sera 19.11.08
La conoscenza scientifica progredisce quando si limita ad approfondire i fenomeni che sono realmente alla sua portata
Dove la mente non può osare
Impossibile conoscere tutto, occorre un equilibrio tra l'infinitamente piccolo e il grande
di Edoardo Boncinelli


Oggi sappiamo tante cose del mondo in generale e del mondo della vita in particolare. Misuriamo e definiamo, descriviamo e spieghiamo, e soprattutto siamo in grado di fare previsioni su ciò che accadrà, oltre che di fornire giustificazioni per ciò che è accaduto. I discorsi della scienza sono insomma sempre meno vaghi e secondo alcuni anche esageratamente lucidi e circostanziati. Per ottenere tutto questo abbiamo dovuto pagare un prezzo abbastanza alto e abbandonare alcune assunzioni e aspirazioni che sono parte integrante della nostra natura umana.
Abbiamo innanzitutto dovuto rinunciare a indagare la natura del tutto e a studiare tutto quanto in una volta sola. Ammesso che il tutto esista e sia definibile — ma che cosa è il tutto? — non è possibile analizzarlo con gli strumenti a nostra disposizione, che sono la ragione definente e argomentante e la pratica sperimentale. In secondo luogo, anche per quanto concerne ciò che abbiamo compreso come comunità umana è spesso difficilissimo per ciascuno di noi farsene un quadro mentale soddisfacente, soprattutto quando ci si avventuri nelle regioni dell'infinitamente grande e in quelle dell'infinitamente piccolo.
Se il mondo dell'infinitamente piccolo è popolato di entità sfuggenti e misteriose che obbediscono a leggi ferree ma incomprensibili, che dire, sull'altro versante, del mondo dell'infinitamente grande, quello che ospita entità enormi come pianeti, stelle, galassie e ammassi di galassie? Qua va forse ancora peggio. Ci parlano del fatto che un corpo di grande massa deforma, incurvandolo, lo spazio- tempo circostante, in modo che anche un raggio di luce che passi nelle sue vicinanze ne viene un po' deviato, e ci dicono che l'universo nel suo complesso si espande.
Nel considerare i mondi dell'infinitamente piccolo e dello straordinariamente grande non possiamo che affidarci ad analogie o a immagini mentali più o meno fedeli. Oppure a formule matematiche di non facile interpretazione, ma che per i fenomeni che hanno luogo in questi mondi remoti rappresentano l'unica forma possibile di conoscenza e di previsione.
In realtà fra l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo si trova il nostro mondo quotidiano. Per una serie di fortunate combinazioni noi ci troviamo proprio nel mezzo o, meglio, appena sopra il punto di mezzo di questa scala ascendente. Noi ci troviamo così appena sopra i confini del mondo dove regnano le leggi dell'infinitamente piccolo. Siamo abbastanza grandi da non subire le bizzarre imposizioni della meccanica quantistica, ma non tanto grandi da non essere in grado di beneficiare di qualcuno dei loro effetti. Apparteniamo insomma al mondo del quotidiano, ma affondiamo le radici nell'humus ribollente dei fenomeni quantistici.
In questa terra di mezzo, si trova appunto l'uomo, questa strana creatura a mezza via fra gli animali della terra e gli angeli del cielo che riesce a comprendere e a rappresentare il mondo che la circonda. Siamo strani animali, animali curiosi a cui è cresciuto un po' troppo il cervello e che vogliono capire questo e capire quello. E a volte anche ciò che non si può capire. Quale altro animale vuole capire come noi? Quale animale si danna l'anima per comprendere com'è fatto il mondo e come è fatto lui stesso, fino ad arrivare a mettere il naso nel proprio genoma? Siamo la prima specie, e forse l'unica, che sa compitare il proprio genoma, cioè il testo che contiene le istruzioni biologiche per farci essere quello che siamo. Siamo la prima specie che ha guardato al di là di quello che riescono a fare i suoi propri sensi. Siamo andati a guardare distanze che stanno molti ordini di grandezze al di sotto di quello che il nostro occhio è capace di vedere e siamo andati a gettare uno sguardo nelle profondità dello spazio, percorrendo distanze che stanno molti ordini di grandezza al di sopra di quello che noi possiamo percepire e concepire.
Il nostro cervello non era nato per questi compiti. Ci siamo evoluti per stare su questa terra, in una foresta o in una savana vicino a un fiume o a un lago, per cercare del cibo, per scappare dalle fiere, per inseguire una bella ragazza o attrarre un bel ragazzo, secondo i gusti. Il nostro cervello è stato fatto per questo e per questo direi che funziona piuttosto bene. Siamo bene attrezzati per certe cose, ma non per tutte.
Eravamo costruiti per un "mondo di mezzo", per confrontarci con le dimensioni degli oggetti con i quali viviamo e pur avendo fatto meraviglie letterarie, architettoniche, pittoriche, musicali e, perché no?, anche meccaniche, che hanno riscosso il plauso di generazioni e generazioni, non eravamo riusciti fino a poco tempo fa ad andare oltre gli oggetti che sono commensurabili con il nostro corpo. Nel secolo scorso ci siamo andati. Con la teoria della relatività da una parte, con la teoria dei quanti dall'altra e con le mirabilie della biologia degli ultimi cinquanta anni abbiamo invaso campi proibiti per i quali non eravamo e non siamo concettualmente attrezzati.
Non riusciamo ad immaginarci l'interno di una cellula né l'incredibile numero di cellule che costituiscono il nostro corpo. Nessuno di noi singolarmente riesce neppure oggi ad immaginare tutto questo, come non riesce a pensare i tempi dell'evoluzione biologica, che si snodano su centinaia di milioni di anni. Solo il collettivo umano, sforzandosi tremendamente e utilizzando i principi semplici ma ferrei della concatenazione logica e della sperimentazione, è riuscito a vedere quello che non poteva vedere ed è riuscito a parlarne.
L'uomo e la sua storia si collocano in una nicchia spazio-temporale molto ristretta. A quella apparteniamo e quella siamo in grado di comprendere. Ma ciò non significa che gli altri mondi non esistano o che non abbiano le proprietà che noi gli attribuiamo. La nostra stessa esistenza è anzi la migliore dimostrazione della necessità del piccolo e del grande. Senza questi estremi non potremmo esistere e molto probabilmente non potrebbe esistere neppure la vita.
Se non esistesse infatti l'infinitamente piccolo, la materia vivente non esisterebbe come tale. Anche un tavolo o una roccia sono costituiti di molecole e di atomi, ma per comprendere molte delle loro proprietà questo fatto può essere momentaneamente ignorato. Non così per la vita, né tanto meno per la vita intelligente. Un essere vivente è costituito di cellule che sono necessariamente piccole e contengono organuli e microapparati ancora più piccoli e per poter pensare deve possedere anche un numero imponente di cellule nervose. Le cellule sono piccoli mondi organizzati e sufficientemente autonomi che non possono che essere formati da un numero enorme di unità costitutive elementari. Se i mattoni del mondo fossero delle dimensioni a noi familiari, anche solo dell'ordine dei millimetri, non ci sarebbero esseri viventi e noi non ci saremmo.
In conclusione, abbiamo serissimi problemi a raffigurarci il molto grande e l'eccezionalmente piccolo ma la nostra stessa esistenza esige e giustifica il grande e il piccolo: il piccolo perché senza di quello non ci sarebbe né vita né intelligenza; il grande perché se l'universo non fosse stato così grande non ci sarebbe stato il tempo materiale perché si formasse la nostra casa comune, la terra, e si potesse avere su di essa un'evoluzione biologica di tale estensione da portare ai gigli, alle orchidee e agli esseri umani.
Perché noi esistiamo è in sostanza necessario che il mondo contenga realtà per noi incommensurabili che si comportino in maniera incomprensibile. Il fatto veramente sorprendente è che almeno in parte riusciamo a comprenderle. E a parlarne, anche se con grande rispetto e quasi religiosa meraviglia.

Corriere della Sera 19.11.08
Esce in edizione anastatica la «Bibliografia» di Paul Colomb de Batines, un testo eccezionale e raro
Dante e la Commedia: c'è tutto un mondo nel catalogo ritrovato
di Cesare Segre


All'origine
Probabilmente l'autore progettò l'opera quand'era studente, colpito dalle lezioni alla Sorbona di Abel-François Villemain Dante, particolare, dal Gabinetto Dantesco al museo Poldi Pezzoli di Milano

Il visconte francese Colomb de Batines (nato a Gap nel 1811), secondo il suo maligno biografo J.M. Quérard, non era visconte, e aveva aggiunto al suo cognome, motu proprio, «de Batines»; in verità si chiamava semplicemente Paul Colomb. Questa autonobilitazione è alquanto stravagante, ma lo era anche la sua vita, segnata dai frequenti problemi finanziari, non del tutto risolti nemmeno con la vendita di libri da lui raccolti né col ricco matrimonio, e da questioni con la giustizia, per diffamazioni o simili, cui più volte si sottrasse con la fuga in altri Paesi. Ma proprio il trasferimento a Firenze, verso il 1844 (vi morì nel 1855), gli diede l'occasione per scrivere le sue cose migliori. Alludo in particolare alla Bibliografia dantesca (pubblicata a Prato fra il 1845 e il 1848), che si consulta e si cita ancora, dopo più d'un secolo e mezzo.
Colomb de Batines era un eccezionale bibliotecario, libraio e bibliografo. S'era occupato in precedenza di storia della stampa, dei personaggi illustri e dei dialetti della sua regione nativa, il Delfinato (Dauphiné), dedicando loro numerosi studi. Fondò pure riviste di bibliofilia. Nel mondo fiorentino entrò facilmente, pur continuando a scrivere in francese (quelle che leggiamo sono traduzioni, promosse da lui stesso), preparando bibliografie su Savonarola o sulle commedie ed egloghe senesi del secolo XVI. Ma il suo capolavoro è certo la Bibliografia dantesca, che forse aveva progettato sin da quando, studente, ascoltò alla Sorbona le lezioni su Dante del comparatista Abel-François Villemain.
Ora la Bibliografia, rarissima, è ristampata anastaticamente dalla Salerno Editrice, a cura di Stefano Zamponi, che fornisce preziosissime notizie nella Postfazione e negli Indici. L'edizione contiene pure l'Indice generale della Bibliografia, curato nel 1883 dal carducciano Alberto Bacchi della Lega, e le
Giunte e correzioni inedite che il filologo e bibliotecario Guido Biagi trasse dall'esemplare dell'opera in cui Colomb aveva continuato a raccogliere riferimenti e notizie (in complesso, tre volumi, per circa 1800 pagine). Curiosa, nella brevissima premessa di Bacchi della Lega all'Indice generale, questa confessione: «Che il mio lavoro sia realmente trovato utile, lo spero; che a me sia riuscito faticoso, è indubitato; e tanto faticoso, che ho giurato meco stesso di non compilar mai più indici». Certo il lavoro di Bacchi era in prevalenza meccanico: pura trascrizione e riordinamento; Colomb, che invece nel suo impegno mise passione e intelligenza, non si sarebbe sognato di pensare qualcosa di simile.
La Bibliografia, intanto, è molto più che una rassegna degli studi su Dante, ai quali sono dedicate comunque più di trecento pagine, utilissime per conoscere i temi cui i critici di allora si dedicavano, per esempio i supposti modelli e le fonti della Commedia, spesso individuati superficialmente, i significati allegorici, la filosofia, l'astronomia, l'atteggiamento di Dante di fronte ai papi, le allusioni a fatti storici, ecc. Qui ci si accorge degli enormi progressi fatti in seguito. Ma anche in questo àmbito il Colomb prende iniziative brillanti, come lo studio approfondito, filologico, dei commenti che furono consacrati sin dalla metà del Trecento alla Commedia, spesso con buona conoscenza dei fatti e delle idee di Dante, oppure le ricerche sull'iconografia che si sviluppò intorno e al seguito della Commedia, dedicando anche piccole monografie ad affreschi, miniature, incisioni di particolare interesse.
Tra le parti più utili di quest'opera, si segnala l'elenco delle stampe, tra le quali spiccano le più antiche: oltre venti incunaboli vengono censiti e descritti da Colomb, con osservazioni giudiziose e l'indice delle biblioteche che ne possiedono esemplari. E l'elenco dei manoscritti antichi non sfigura rispetto a quelli di cui ora disponiamo. Negli altri capitoli, da abile segugio, Colomb riesce a dare spesso notizia di traduzioni o di trattazioni inedite, che potranno ancora essere pascolo per i futuri ricercatori. Per cui questa, come le migliori bibliografie, oltre ad offrire una sintesi del lavoro compiuto, dà suggerimenti per quello ancora da compiere.

Corriere della Sera 19.11.08
Peggy e i suoi amici
Da Rothko a Motherwell Storia di una donna che visse come un'opera d'arte
di Roberta Scorranese


Sarà inaugurata domani la mostra «Peggy Guggenheim e la nuova pittura americana» allo spazio Arca
nell'ex chiesa di San Marco di Vercelli, aperta al pubblico fino all'1 marzo. Orari: da lunedì a venerdì dalle 14 alle 19, il sabato e la domenica dalle 10 alle 20. Il prezzo del biglietto è
8 euro, per altre informazioni: 02 54 27 54. Il catalogo è di Giunti Arte mostre e musei: 208 pagine, costa 35 euro

IL LUOGO Lo spazio Arca, inaugurato lo scorso anno con la mostra «Peggy Guggenheim e l'immaginario surreale», è un parallelepipedo con una copertura vetrata che occupa solo parzialmente la navata centrale dell'ex chiesa di San Marco.
È stato scelto come luogo espositivo della trilogia dedicata alla collezionista americana: la mostra del prossimo anno, la terza, avrà come tema l'arrivo di Peggy a Venezia

La storia della donna che scambiò se stessa per un museo è tutta qui: in questo gigantesco scrigno trasparente in cui i paesaggi spirituali di Marc Rothko si incupiscono sotto le volte di una chiesa quattrocentesca e dove i capricci colorati di Jackson Pollock si accendono di luci misteriose. Sì, perché, nella sua vita, Peggy Guggenheim non chiese la luna (gliel'avrebbero comprata), non chiese l'amore (preferì la bellezza), ma sognò una sola cosa: un paradiso privato.
Gli dei li aveva scelti: Pollock, Rothko, Motherwell e tutti gli altri artisti che, nel dopoguerra, sognavano se non un paradiso almeno una stanza tutta per sé. E Arca, questo corridoio in acciaio e cristallo, ricavato in quella che fu la chiesa quattrocentesca di san Marco, Vercelli, assomiglia a un olimpo surrealista. Qui, come una fiaba espressionista, sfilano le opere della mostra «Peggy Guggenheim e la nuova pittura americana »: un racconto per immagini, la seconda vita della donna che visse come un'opera d'arte. «E, come tutte le seconde vite —, dice il curatore Luca Massimo Barbero — inizia con un viaggio».
Un ritorno: la Seconda guerra mondiale costringe la ricca e colta ereditiera a lasciare la Francia occupata e a tornare a New York. Con sé non porta solo Max Ernst, l'artista che sposa per permettergli di vivere in America. Non porta solo Sebastian Matta e tanti altri talenti europei che a Parigi e a Londra aveva sostenuto. Porta anche «la cultura del Vecchio continente — dice Barbero — l'eredità del Surrealismo, dell'arte russa, delle ricerche astrattiste». Da Miró imparò il valore del simbolo, da Picasso la rivoluzione della forma e da Dalí la suggestione del sogno. I semi c'erano e l'innesto era pronto: «L'astrattismo americano all'epoca — spiega Barbero — era rigido, noioso». Aspettava linfa. Così, nel 1942, mentre l'Europa si logorava nella guerra, intorno alla galleria newyorkese di Peggy, «Art of this Century», l'antica tradizione europea rinasceva in un nuovo mondo. Jackson Pollock assorbiva la lezione surrealista del linguaggio inconscio; William Baziotes osservava ammirato i quadri di Max Ernst, lungo e silenzioso, simile a un elegante volatile; Mark Rothko si riappropriava dell'antico sentimento tragico dei russi. Ed eccola in mostra questa piccola rivoluzione della bellezza: ne «I paracadutisti» (1944) di Baziotes riaffiorano suggestioni cubiste, mescolate a una strana energia del colore. Come certi piccoli sogni nitidi, inspiegabili ma con qualcosa di familiare. In «Senza titolo» (1944) di Arshile Gorky ecco le stesse misteriose macchie di colore alla Kandinsky: basta un'ombra a fondo tela per creare l'inquietudine. In «Personaggio » (1943) di Robert Motherwell ci sono le ansie di Paul Klee.
A detta di figli e nipoti, Peggy Guggenheim non fu una buona madre.
A lei bastava vedere Mark Rothko silenzioso e assorto in una campitura difficile o Jackson Pollock che danzava sulla tela come fosse il re del mondo per essere felice come la più felice delle madri. Fu anche grazie a lei se Pollock scoprì l'arte primitiva: Max Ernst collezionava «Kachinas», le bambole degli indiani d'America. «Fu con il suo sostegno — afferma il curatore — che Pollock codificò il suo personale alfabeto ». In mostra non ci sono solo i celebri dripping, ma anche opere come il bellissimo e visionario «La Donna Luna» (1942): scommettiamo che ci ritroverete Chagall, Klee e Kandinsky? E scommettiamo che ne «L'atomo» di Richard Pousette-Dart (1947) avvertirete un sentore di De Chirico, che tanto affascinava Max Ernst?
Nella New York degli anni Quaranta, in quella bizzarra galleria (pareti curve, quadri appesi a supporti girevoli e opere che ruotano a ritmo di musica) abitò una rivoluzione dei codici: si passava da Freud (l'onirico del Surrealismo) a Jung (la rivoluzione del simbolo). «Rothko lo spiega — dice Barbero — quando afferma: "prendiamo un archetipo e lo mettiamo in un contesto straniante" ». Così, nelle ondate di colore di Pollock spuntano misteriosi «occhi » (come ne «Il Grigio dell'oceano », 1953); in «Equinozio» di Adolph Gottlieb (1944) traspaiono figure biomorfe. L'America ritrovava le radici sciamaniche e si scopriva composita: a casa di Peggy si fondevano la cupezza di Rothko e il talento mediterraneo di Robert De Niro Sr (il padre), le geometrie di Kline e il personalissimo Bauhaus di Hoffmann. Su tutti, lei, naso a patata e lampo ironico negli occhi, pronta a cambiare amanti come artisti. Perché la donna che scambiò se stessa per un museo non può che essere raccontata come un'opera d'arte.

Corriere della Sera 19.11.08
Il personaggio. Tra improvvisazione e psicanalisi
Quella passione per Pollock re del «dripping» vinto dall'alcol
di Francesca Bonazzoli


All'inaugurazione della sua galleria newyorkese, Art of This Century, Peggy Guggenheim esibiva due vistosi orecchini: uno disegnato da Tanguy e l'altro da Calder. Alla sua maniera eccentrica intendeva dire che, fra Surrealismo e Astrattismo, fra Parigi e l'America, lei manteneva una posizione di imparzialità.
Le cose, però, non stavano proprio così: almeno all'inizio, dopo il lungo soggiorno nella capitale del Surrealismo e il matrimonio con Max Ernst, Peggy non aveva ancora gettato il cuore «oltre il realismo» e infatti, fra gli americani, la sua predilezione cadeva proprio su Jackson Pollock che all'epoca, siamo nel 1942, dipingeva quadri a metà fra l'astratto e il figurativo che risentivano della lezione cubista di Picasso («Guernica» era arrivato a New York nel 1939), ma anche delle figure totemiche indiano-americane.
Figlio di poveri contadini emigrati dalla Scozia e dall'Irlanda, Pollock era nato a Cody, nel Wyoming, nel 1912, ma era cresciuto in Arizona e California dove aveva visto gli indiani. Il suo interesse per l'arte nativa americana era del resto condiviso da molti altri protagonisti della scena culturale del tempo: nel 1941, per esempio, il Moma aveva allestito la rassegna «Indian Art of the United States» dove Pollock era rimasto affascinato dai disegni rituali che i Navajo realizzavano con la sabbia in uno stato simile alla trance. Ma il suo interesse andava oltre la curiosità intellettuale: di carattere schivo, timido e sempre a disagio, egli si identificò con i nativi al punto da tenere sotto il letto l'enciclopedia della loro storia e a quel mondo a contatto con le forze primigenie egli saldava l'esperienza psicanalitica che l'aveva aiutato a sopravvivere all'alcolismo. Nel 1937 si era fatto ricoverare nel reparto psichiatrico di un ospedale di New York e lì un analista junghiano lo aveva incoraggiato a disegnare i suoi incubi. Così Pollock, per le sue strade, aveva finito per essere il più vicino alla sensibilità surrealista e, dunque, a quella di Peggy Guggenheim che nel 1943 gli organizzò la prima mostra personale e garantì all'artista uno stipendio mensile per quattro anni in cambio delle sue opere. Peggy adorava Pollock e forse anche per questo odiava Lee Krasner, pittrice ebreo-russa, brusca e autoritaria quanto lei, che sposò il pittore nel 1945: quando nel 1956 la Krasner fece un viaggio in Europa, l'ereditiera ebreo-tedesca non la invitò nemmeno a dormire nel suo palazzo veneziano.
Del resto Peggy aveva chiuso la galleria newyorkese proprio nell'anno, il 1947, in cui Pollock eliminò ogni simbolo e figura per passare al dripping, ovvero a dipingere sgocciolando il colore da spazzoloni. Un lavoro di improvvisazione dentro e intorno allo spazio della tela che da una parte somigliava alle danze rituali degli indiani, e dall'altra ricordava le sessioni jazz di Dizzy Gillespie e Charlie Parker.
In breve tempo Pollock divenne una leggenda alimentata da articoli di giornale come quello su Life che, nel 1949, titolava «Is he the greatest living painter in the United States? », cavalcando il mito di un artista sciamano, capace di grandi bevute, originario del West selvaggio, a contatto con l'inconscio e inventore di una pittura simile a una coreografia.
Ma nel '51 Pollock abbandonò il dripping e tornò a dipingere immagini oniriche e zoomorfe: lui che aveva studiato la pittura tutta la vita e l'aveva poi portata al punto limite di non ritorno, sentiva che doveva recuperarle uno spazio di esistenza per non cadere nella ripetizione e nell'afasia.
La critica, e soprattutto Clement Greenberg, che avevano visto in Pollock l'alfiere di una pittura americana autonoma da quella europea, non glielo perdonarono. Greenberg cominciò a scrivere che Pollock era diventato «molto insicuro di sé»; nello stesso anno l'artista mise termine al contratto con la gallerista Betty Parsons con cui aveva collaborato fin dalla chiusura di quella di Peggy; tentò di lavorare per il mercante Pierre Matisse, ma costui lo rifiutò su consiglio di Marcel Duchamp. Alla fine entrò nella scuderia di Sidney Janis, ma l'alcolismo e un blocco artistico riguardo alla direzione da prendere dopo il successo- empasse del dripping trascinarono il pittore in una spirale negativa che terminò l'11 agosto 1956 contro un albero su cui l'auto di Pollock andò a sbattere dopo un'ultima notte passata a bere.

Corriere della Sera 19.11.08
L'attore e regista Ed Harris
«Per raccontare il James Dean della pittura ne ho esplorato manie e depressioni»
di Giovanna Grassi


La disillusione
«Ho cercato di far rivivere il fallimento della ricerca di un nesso tra politica e pittura che lo portò all'autodistruzione»
Il film
Ed Harris (Jackson Pollock) e Marcia Gay Harden (la moglie dell'artista, Lee Krasner) in «Pollock», uscito nel 2000. Il film, diretto dallo stesso Harris, narra il turbolento rapporto con la compagna che ha influenzato enormemente la vita artistica del pittore americano

Nella casa a Malibu di Ed Harris e di sua moglie, l'attrice Amy Madigan, molte cose parlano di Jackson Pollock. A cominciare dal poster gigante del film sull'artista americano che l'attore cinquantasettenne ha diretto e interpretato nel 2000.
«Ho dedicato dieci anni a preparazione, ricerca dei finanziamenti e realizzazione di quella pellicola, che continua a essere molto richiesta nella versione in dvd, arricchita da spezzoni e interviste — racconta Harris —. Durante il montaggio, ho vissuto in assoluto isolamento, ma non rimpiangerò mai la simbiosi che ho avuto con il personaggio nei mesi delle riprese. Era veramente difficile separare la mia mente da quella dell'uomo che usava tutto il corpo per dipingere».
Cosa la spinse a realizzare quel progetto?
«Considero il cinema uno strumento per studiare le psicologie altrui. Nei confronti di Pollock, sin da quando studiavo arte alla Columbia University, ho sempre nutrito una totale ammirazione. Lo considero un artista "puro": quel suo versare il colore sulla tela, attaccarla al muro invece che metterla sul cavalletto, era un modo d'intendere la vita. Anche per questo, nella sceneggiatura, hanno un peso determinante le molte di scene in cui Pollock dipinge».
Se ripensa al film, che vinse anche un Oscar, quali ricordi emergono ?
«I giorni, le ore, i mesi che ho impiegato studiando i suoi quadri».
Molte sono le tesi, a volte pure strumentali, e le interpretazioni politiche dell'arte di Pollock. Qual è la sua opinione?
«Ho sempre pensato che ci fosse una precisa contemporaneità nel suo lavoro. Questa idea, durante la preparazione del film, mi ha reso quasi maniacale nella ricerca dei rapporti tra politica e pittura sia nella vita che nell'arte espressionista di Pollock. Il non aver trovato una soluzione politica e storica ai tanti temi che lo interessavano — dalla bomba atomica al socialismo — provocò quei traumi destinati a spingere verso l'autodistruzione l'uomo e l'artista».
Nel suo film ci sono Peggy Guggenheim , Lee Krasner , Willem DeKooning e quasi tutte le presenze che contarono per Pollock. Nel racconto, come ha trovato un equilibrio tra vita quotidiana e arte?
«È stato il punto centrale del film, perché questo nesso era l'architrave della sua esistenza e lì si incastravano i rapporti con la moglie, i committenti e gli amici. Ho sempre avuto con Pollock un rapporto particolare, sin da quando mio padre nel 1986 mi regalò un libro su di lui. La sua capacità emozionale mi conquistò come la sua arte, le sue dipendenze e le sue passioni. Un giorno qualcuno mi ha detto che è stato il James Dean della pittura. La sua breve vita riflette crisi generazionali, una inconfessata ricerca del successo, il bisogno di una spontaneità artistica che gli provocava spesso profonde solitudini interiori e difficoltà di relazioni stabili».
Il classico cliché dell'artista «maledetto », tutto impeto e romanticismo?
«Probabile, ma ho cercato di non romanzarne la biografia proprio per evitare la trappola del luogo comune. Ho preferito scandagliare gli obiettivi, le depressioni, i dubbi, il bisogno di non mentire. Non mi interessava, insomma, comporre un saggio sulle tecniche pittoriche».
E qual era il fine ultimo del film?
«Ho provato, e ne sono orgoglioso, a restituire il suo modo "di essere dentro il quadro" che stava creando, il suo bisogno di non perdere il contatto con l'armonia che andava cercando e che sperava fosse in grado di dissipare il caos in cui spesso sprofondava».