venerdì 21 novembre 2008

il manifesto 21.11.08
Sinistra
Le tesi di Bertinotti
di Rossana Rossanda


Le tesi che Bertinotti ha presentato in questi giorni (cfr. Matteo Bartocci sul manifesto del 13/11) tentano di superare la collisione tra le due anime di Rifondazione comunista. Lo scoglio su cui urtano non è soltanto loro. E' un punto diventato problematico per tutte le sinistre, moderate o radicali, negli anni '70 e '80, e precipitato con la caduta del muro di Berlino: l'implosione del «socialismo reale» non rende obsoleto il paradigma marxiano della lotta di classe?

Esso aveva sorretto tutto il movimento operaio e pareva confermato dalla rivoluzione del 1917. L'implosione dell'Urss e il capitalismo divenuto sistema unico mondiale davano per finito anche il conflitto sociale. Fine è parola gravida di emozioni. Non alludeva a una attuale impossibilità, ma alla verificata insostenibilità di un errore del concetto stesso che aveva innervato la lotta politica in Europa per oltre cento anni.
«Fine della storia» proclamava Francis Fukujama negli Stati Uniti, «Fine di un'illusione» scriveva Francois Furet in Europa, fine del Novecento hanno scritto in molti, e non solo come del «secolo breve» ma come venir meno delle idee che lo avevano retto, prima di tutte l'affermazione marxiana secondo la quale la libertà politica di ogni cittadino non è possibile finché ne restano disuguali le condizioni. Al contrario, non pochi si sono spostati a sostenere che la libertà di impresa, luogo di condizioni disuguali per definizione, sarebbe la sola garanzia di tutte le libertà.
Non sarà mai sottolineata abbastanza l'influenza che questa ottica, in forme più o meno sottili, ha esercitato su tutte le sinistre. Tanto più che la messa in dubbio del conflitto di classe si dava mentre emergeva la percezione di altri conflitti, due dei quali innovativi: il femminismo, che andava oltre l'emancipazione e l'ecologia come scoperta della devastazione del pianeta ad opera dello sviluppo industriale.
Erano due percezioni di sé e del mondo su piani affatto diversi, che di comune hanno soltanto la contemporaneità (sulla quale varrebbe la pena di riflettere) e lo sfondamento rapido di un minoritarismo; risuonavano immediatamente sul reale. E non si aggiungevano al movimento operaio, lo accusavano di averle ignorate pretendendo la sola sua centralità; l'uno nega le altre e viceversa, inclinando ciascuno a porsi come «la» contraddizione principale.
Attaccate nella loro base sociale dall'offensiva liberista, incerte nel cogliere l'evolvere dell'organizzazione capitalista della proprietà e del lavoro, colpevolizzate dall'accusa di non avere inteso i nuovi conflitti, le soggettività di origine operaia o si sono irrigidite o hanno dubitato delle proprie ragioni. Tutti i filosofemi sul Novecento, per quanto diversamente conditi, affermano la fine della loro ragion d'essere. Paradossalmente il capitalismo si è esteso, è il sistema unico dominante, l'ineguaglianza dentro alle singole società e fra paesi dominanti e dominati, nord e sud, non sono mai state così grandi e percepite, ma i motivi di opporvisi non ci sarebbero più. O almeno non gli stessi. Addio al proletariato scriveva una ventina di anni fa un amico scomparso, André Gorz.
Qualcosa di analogo si può dire per le molte ricerche sulle innovazioni che sarebbero intervenute nel capitalismo rendendo obsoleto il conflitto di classe; ancora di recente uno dei nostri più stimati compagni, Marcello Cini, è tornato a insistere sul «luogo» di accumulazione del capitale, negando con buone ragioni che essa avvenga ormai soprattutto sul tempo di lavoro, ma scordando che non è sul dilemma di dove si formi ma sulla mercificazione della forza lavoro, la sua spersonalizzazione e riduzione a cosa, che è cresciuta la rivolta del proletariato industriale. E questa mercificazione si è estesa, se mai, ben oltre il secolo scorso e il fordismo, sull'insieme della produzione, materiale e immateriale, su gran parte della riproduzione e sul complesso dei rapporti umani.
In Italia il problema è esploso su Rifondazione comunista dopo il disastro delle elezioni. Già era del tutto scomparso dall'orizzonte del Partito democratico, che neppure più si definisce di «sinistra» e non certo perché il termine è diventato equivoco, ma perché al conflitto sociale ancora in qualche modo allude. Del dilemma che ancora agita i socialisti francesi, ancorarsi alla questione sociale o al centro, il Pd ha scelto il secondo corno fin nella sua composizione. Mentre è diventato dirompente in Rifondazione. E non poteva non esser così per un partito che si era proposto di «rifondare» il comunismo, recuperando lo spazio che il Pci aveva lasciato deserto, ma non superava mai una soglia assai minoritaria di ascolto e di colpo non ne raggiungeva, istituzionalmente parlando, più nessuna.
Al Congresso di Chianciano, la vecchia robusta minoranza è diventata maggioranza accusando la dirigenza di Bertinotti e poi la mozione Vendola di dismettere ogni lotta sociale con la prospettiva di finire prima o poi nel Pd; mentre la mozione Vendola accusava la linea Ferrero-Grassi di arroccarsi su una inerte ripetitività del passato. Negli articoli di Paolo Ferrero e Nichi Vendola sull'ultimo numero di «Alternative per il socialismo» (che, per essere stati scritti a settembre, non percepiscono le mutazioni della scena internazionale, né la crisi apertasi nel capitalismo) le posizioni restano immutate. Ferrero, preso dall'angoscia che tutti conosciamo, del venir meno d'una soggettività sociale punta a ricostruirla «in basso e a sinistra», cioè come esperienza diretta degli individui ora atomizzati attorno a un bisogno ravvicinato da affrontare assieme. E insiste sui simboli, nome del partito e falce e martello come salvagente per non precipitare in grembo al Pd. Vendola, nell'appassionata mappa dei conflitti e sofferenze del presente - con la sensibilità umana rara e che gli è avvalsa la vittoria in Puglia - stenta a dare una collocazione alla lotta di classe, una delle molte ferite della società. E anche lui insiste, in altra direzione, sulla priorità del simbolico. Ora il simbolico, quando venga assunto a sua volta come piano principale o unico, può essere devastante del «materiale reale». I due piani o si tengono stretti, diciamo così, per il bene e per il male, o si mutilano.
Adesso Bertinotti interviene affermando, con ragione, che non esiste sinistra senza il conflitto sociale, mentre il movimento degli studenti gli suggerisce, ed è discutibile, che può darsi il contrario. Nega sia l'autonomia del sociale sia quella del politico. La proposta di Ferrero è povera, quella di Vendola stenta a individuare i nessi, conclude chi legge, che aveva individuato già, in una sua più vasta analisi della disaggregazione delle soggettività, Maria Luisa Boccia (in sintesi anch'essa in «Alternative per il socialismo»).
In verita tutta Rifondazione comunista si dibatte, da quando esiste, sul bandolo dal quale afferrare la matassa dopo il 1989. Esponendosi agli scacchi: alcune affermazioni che egli ora giustamente discute sono derivate dalla sua iniziativa. Non penso tanto alla scelta di stare o non stare nella maggioranza di governo, quanto all'aver puntato sulla Sinistra Arcobaleno come a qualcosa di più che una coalizione elettorale, il nucleo di un partito «plurale». Che una opposizione al berlusconismo e al centro raccolga culture e sensibilità differenti mi pare d'obbligo, ma che la stessa possa costituire un partito nel quale il conflitto di classe sarebbe un optional è un altro paio di maniche.
Ne sono derivate reazioni opposte e assai dubbie, come il disinvolto articolo sul comunismo di Rina Gagliardi su Liberazione e, all'opposto, l'accusa di liquidatore indirizzata a Vendola.
Le tesi di questi giorni dovrebbero far giustizia delle battute avventate e costituire una trama sulla quale lavorare. Esse hanno dovuto aggiornarsi sulla realtà aperta negli ultimi mesi; che modifica le carte del mondo come si presentavano un anno fa. Danno fin troppo ragione a chi si opponeva alla «fine della storia» e all'autosufficienza del mercato come ordinatore dell'economia e della società.
Ma, nuovo paradosso, gli apologeti dell'una e dell'altra, davanti alla cui protervia non si poteva aprir becco senza essere dileggiati, chiedono affannosamente aiuto all'intervento pubblico, mentre la sinistra non sa che dire davanti alla crisi, non solo «finanziaria», nella quale il capitalismo si dibatte. Noi, sinistre critiche, sembriamo un gatto nella notte, abbacinato dai fari d'un camion di cui preconizzavamo l'arrivo ma che ci prende di sorpresa.
C'è molto da rivedere nella nostra cassetta degli attrezzi e anche nelle nostre rivendicazioni. Come avanzare un piano o un partito del «lavoro», quando è il sistema che sta traballando? Certo non possiamo attardarci nelle beghe fra noi. La rivoluzione non è all'ordine del giorno ma un corto circuito del liberismo è in corso. Non dovremmo avere qualcosa da dire? Almeno sulle misure di intervento, quante, come, destinate a chi e da parte di quale «pubblico»?
Se non l'abbiamo, la nostra scomparsa da contingente rischia di diventare definitiva.

l’Unità 21.11.08
L’Italia della destra nega gli aiuti ai bimbi
di Umberto De Giovannangeli


Nella Giornata dell’infanzia, la denuncia di Unicef Italia: senza precedenti i tagli previsti alla cooperazione internazionale. «Ciò significa mettere a rischio i nostri progetti, e che la crisi sarà pagata dai bambini».
Nella Giornata mondiale per l’infanzia, il governo italiano collezione l’ennesima brutta figura. Il Presidente dell’Unicef Italia, Vincenzo Spadafora, denuncia tagli pesanti nei fondi della Cooperazione destinati all’Unicef e alle altre Organizzazioni delle Nazioni Unite da parte del governo italiano. «Gli 89 milioni di euro previsti per l’aiuto multilaterale nel 2009, un terzo di quanto erogato nel 2008, comporterebbero - afferma Spadafora - un taglio senza precedenti ai fondi Unicef per l’infanzia, ponendo l’Italia al penultimo posto, nell’ambito del G8, nella graduatoria dei governi donatori Unicef, con conseguenze enormi sulle attività che l’Unicef realizza a favore dei bambini di tutto il mondo. L’Italia - prosegue Spadafora - ha sempre svolto un ruolo importante negli aiuti umanitari: non a caso le donazioni dei cittadini italiani all’Unicef, nonostante la crisi che il nostro Paese sta attraversando, sono costanti, segno di un’attenzione forte dell’opinione pubblica italiana sui temi dell’infanzia e del futuro delle nuove generazioni. È paradossale che invece sia proprio il governo a fare un passo indietro, perdendo credibilità, anche a livello internazionale».
PERDITA DI CREDIBILITÀ
«È paradossale che invece sia proprio il governo a fare un passo indietro, perdendo credibilità, anche a livello internazionale, proprio alla vigilia di una celebrazione dedicata ai bambini», rimarca ancora il presidente dell’Unicef Italia, in una lettera inviata l’altro ieri al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e al Ministro degli Affari esteri Franco Frattini. Spadafora chiede urgentemente «il ripristino dei fondi» a favore dei progetti dell’Unicef per i bambini di tutto il mondo. La risposta ricevuta dal premier nel suo intervento nella Giornata dell’infanzia non ha minimamente soddisfatto il presidente di Unicef Italia. Spadafora, parlando a Montecitorio per la Giornata nazionale dell’infanzia e dell’adolescenza ha ribadito la propria preoccupazione per «i tagli alla cooperazione internazionale; significa mettere a rischio i nostri progetti, e che la crisi sia pagata dai bambini. «Tagliare i fondi per la cooperazione - ribadisce Spadafora - non è coerente con le parole ascoltate questa mattina (ieri, ndr).
TAGLI GENERALIZZATI
Non è solo l’Unicef a protestare. E non sono solo le lettere di Spadafora a restare senza risposta. I tagli ai fondi per la cooperazione allo sviluppo decisi nella Finanziaria 2009 «causerebbero una riduzione complessiva delle risorse di circa 400 milioni di euro; numeri che porterebbero l’Italia all’ultimo posto in Europa per l’Aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) dei Paesi più poveri del mondo». A scriverlo in una lettera aperta inviata alcune settimane fa al presidente del Consiglio, sono le Ong della «Coalizione italiana contro la povertà» (Gcap) e personaggi dello spettacolo - da Bono a Jovanotti. La richiesta è la stessa di Unicef Italia: «Mantenere gli impegni presi in ambito internazionale». A partire da questa estate, ricordano nella lettera a Berlusconi, «abbiamo assistito all’approvazione di drastici tagli alle iniziative del Ministero degli Affari esteri per la cooperazione italiana allo sviluppo, per un ammontare di 170 milioni di euro all’anno a partire dal 2009». «La Finanziaria presentata in Parlamento - aggiungono - prevede, per il solo 2009, ulteriori tagli ai fondi per la cooperazione, che causerebbero una riduzione complessiva delle risorse di circa 400 milioni di euro». Un intervento devastante. Dall’annuncio della Finanziaria triennale, le associazioni hanno ripetutamente posto l’attenzione sui tagli ai fondi pubblici alla cooperazione (Aps).
GLI OBIETTIVI DEL MILLENNIO
A protestare è anche la coordinatrice internazionale della Campagna del Millennio, Eveline Herfkens, che ha richiamato il governo italiano agli impegni presi in sede internazionale. «L’Italia - denuncia Herfkens - è il fanalino di coda per i fondi stanziati a favore della campagna delle Nazioni Unite per gli obiettivi del Millennio. Una posizione che potrebbe avere serie conseguenze sulla credibilità della sua presidenza del G8 del prossimo anno». «Siamo molto preoccupati - aggiunge - per l’attuale tendenza degli aiuti allo sviluppo in Italia». Non solo. Non si può ignorare, denuncia il ministro degli Esteri del governo ombra del Pd, Piero Fassino, che «nel 2010, il nostro Paese dovrà impegnare lo 0,51% del Pil in aiuti, per essere in linea con quanto concordato a livello europeo e che, sempre per il 2010, dovrebbe essere raggiunto l’obiettivo universale per la cura e la prevenzione dell’Hiv/Aids». Le scelte compiute nella Finanziaria smentiscono clamorosamente questi impegni. E contraddicono quanto annunciato dallo stesso Berlusconi all’ultimo summit G8 a Hokkaido. In quell’occasione, il Cavaliere «munifico» si era formalmente impegnato a investire 500 milioni di dollari all’anno nella lotta alle malattie. Promette investimenti. Decide tagli. A pagare, denuncia il presidente di Unicef Italia, sono i più deboli. I bimbi. I poveri.

l’Unità 21.11.08
Il presidente delle Ong accusa: «Il nostro Paese pensa che la cooperazione sia un lusso da permettersi in tempi di boom economico»


Un atto d’accusa argomentato. Durissimo. A pronunciarlo è Sergio Marelli, presidente dell’Associazione delle Ong italiane.
Qual è il segno dei pesanti tagli alla cooperazione internazionale imposti dal governo nella Legge Finanziaria?
«Il segno è quello di una cultura politica che continua a considerare la cooperazione come un accessorio o, nella migliore delle ipotesi, una politica da realizzarsi solo quando la sovrabbondanza delle risorse lo consente».
Quale immagine di sé offre l’Italia con questi drastici tagli alla cooperazione internazionale?
«È l’immagine di una credibilità ridotta al lumicino. Non solo perché con questi tagli ritorniamo all’ultimo posto nella classifica dei Paesi donatori, allontanandoci definitivamente dalla ragionevole prospettiva di mantenere gli impegni assunti con l’Unione Europea e la comunità internazionale...».
Non basta questo. Cos’altro in più?
«Il fatto è che questa immagine mortificante viene proiettata al mondo intero alla vigilia dell’assunzione da parte italiana della presidenza del prossimo G8. È una delegittimazione della nostra credibilità che rischia anche di delegittimare l’insieme del G6, proprio perché il “cattivo esempio” viene proprio dal Paese ospite che ne ha la presidenza».
Cosa è possibile fare per evitare questa deriva?
«Intanto c’è da dire che l’iter della Finanziaria non è ancora concluso. In un anno dove il governo si vanta, giustamente, di non aver dovuto ricorrere al voto di fiducia per approvare la Finanziaria alla Camera, in questo momento ci appelliamo al Senato, a tutti i senatori, di maggioranza e opposizione, affinché nel dibattito a Palazzo Madama si corregga questa miopia del governo, che ritiene di risanare i conti pubblici italiani dimezzando gli aiuti per i Paesi poveri, invece di considerarli un investimento prioritario per la sicurezza, per la pace e per la stessa ripresa economica del nostro Paese».
C’è chi, in una situazione di recessione e di reali difficoltà economiche, potrebbe considerare, anche in buona fede, i soldi destinati alla cooperazione internazionale come un «lusso». Come risponde?
«Oltre che un dovere, per me etico, oltre che indicatore di lungimiranza politica, se vogliamo fare una valutazione economica dell’investimento in cooperazione internazionale, penso che si possa dire con certezza che allocare risorse adeguate per l’aiuto ai Paesi di provenienza degli immigrati nel nostro paese, abbia un costo inferiore agli investimenti richiesti per una loro inclusione dentro i nostri confini nazionale...».
Questa considerazione a quale conclusione ci porta?
«Economicamente, socialmente e, soprattutto, eticamente, dare la condizione a tutti di poter scegliere dove vivere e far crescere i propri figli, è la scelta giusta da fare. Ed è la scelta che noi chiediamo ad un governo responsabile. Nella convinzione che il contributo della cooperazione italiana è fondamentale sia alla politica estera del paese sia allo sviluppo economico generale».

l’Unità 21.11.08
Il 25 novembre la giornata mondiale In Italia non c’è né il reato di stalking né un piano nazionale
Nasce la prima associazione dei centri anti-abusi Sabato manifestazione a Roma
«Basta violenze»: le donne son tornate. E vanno in piazza
di Luigina Venturelli


Su 300 omicidi registrati nel 2007, il 21% è di mogli o fidanzate. Il Viminale li chiama «conflitti familiari e delitti passionali». In realtà è una strage silenziosa. Che le donne scelgono di combattere facendo da sole.
Perchè le donne italiane manifesteranno domani a Roma contro la violenza di genere? Per rispondere un eufemismo vale più di mille parole. «Conflitti familiari e delitti passionali» è la definizione romanzesca usata dal Viminale per oltre sessanta donne uccise tra le pareti di casa nel giro di sei mesi.
Da luglio a dicembre 2007 - sono gli ultimi dati disponibili - il ministero dell’Interno ha contato in Italia circa 300 omicidi: tra lotte nella criminalità organizzata e regolamenti di conti tra spacciatori, spunta un 21% di mogli e fidanzate, adulte e ragazzine massacrate da un partner, da un amico, da un parente. Ma le forze dell’ordine non hanno il coraggio di chiamarli con il loro nome, omicidi. Usano una bella perifrasi pericolosamente simile a un’attenuante culturale, che fornisce un quadro esatto dello stato dell’arte nel nostro paese, dove non esiste il reato di persecuzione ossessiva (il cosiddetto stalking), non c’è un piano nazionale contro la violenza sulle donne, manca una legge quadro che riconosca e finanzi i centri antiviolenza diffusi sul territorio.
Così, ancora una volta, le donne decidono di fare da sé e - alla vigilia della giornata mondiale contro la violenza di genere del 25 novembre - si mettono in rete per diventare riferimento e pungolo delle istituzioni. Per questo è stata costituita D.i.Re (Donne in Rete contro la violenza), l’associazione nazionale che riunisce circa 50 centri antiviolenza di tutta Italia, che da oltre vent’anni lavorano per prevenire e contrastare un crimine diffuso ma spesso non riconosciuto come tale (gli altri 50 si uniranno alla rete appena avranno maturato cinque anni d’anzianità sul campo).
«Le donne sono migliorate rispetto al passato, quando si presentavano anche con quindici anni di maltrattamenti alle spalle» racconta Marisa Guarneri, presidente della Casa delle donne maltrattate di Milano. «Oggi sono più informate, più consapevoli, e si muovono prima». Nel frattempo, purtroppo, è peggiorata la qualità della violenza maschile: «Si è fatta più feroce: una volta le donne sopportavano e questo conteneva il fenomeno. Adesso si allontanano, se ne vanno per ricostruirsi una vita, e gli uomini non sono in grado di accettare questo progredire della libertà femminile». Nel 2007 circa 20mila persone si sono rivolte ai centri antiviolenza D.i.Re e circa 7mila donne sono state accolte per colloqui e consulenze. A questi dati vanno poi aggiunte le 22mila chiamate giunte al centralino 1522 del ministero delle Pari Opportunità e quelle ai servizi sociali, consultori e ospedali. Manca all’appello il mondo sommerso delle donne che ancora subiscono nel silenzio. Non esistono dati precisi, ma nel 2006 l’Istat ha stimato quasi 7 milioni di episodi di violenza di genere.

l’Unità 21.11.08
Nicole Kidman: «Una su tre subisce abusi, la vita senza violenza è il diritto di ogni donna»


Una donna su tre può subire abusi e violenze nel corso della sua vita. Si tratta di una tremenda e diffusa violazione dei diritti umani e non di meno rimane una pandemia in gran parte invisibile e sottostimata. Provate a pensarci: essere una donna o una bambina vi mette in pericolo. Altrettanto inquietante è il fatto che troppe persone - gente della strada come esponenti di governo - ritengono inevitabile la violenza contro le donne.
Dobbiamo cambiare questa mentalità. È di vitale importanza che si prenda coscienza del problema della violenza contro le donne e che la si consideri una forma di violazione dei diritti umani. Si tratti di violenza domestica, di stupri in tempo di guerra o di pratiche quali la mutilazione genitale femminile o i matrimoni forzati o in età quasi infantile, la violenza contro le donne è un crimine che non può essere tollerato. La violenza contro le donne, dovunque si verifichi, va contrastata con il massimo rigore della legge.
Sono diventata ambasciatrice del Fondo delle Nazioni Unite per le donne (Unifem) per dare voce alle donne e alle bambine che hanno subito violenze e abusi. In un numero crescente di Paesi le donne si stanno rifiutando di essere vittime passive. Le donne si stanno organizzando, si fanno sentire, chiedono che i colpevoli rispondano dei loro atti e che si intervenga e dicono «NO» alla violenza che sono costrette a subire per il solo fatto di essere donne o bambine.
È compito di tutti porre fine alla violenza contro le donne. Per questa ragione nel mese di novembre dell'anno passato in occasione della Giornata internazionale per eliminare la violenza contro le donne, l'Unifem ha lanciato su Internet la campagna «Dite NO alle violenza contro le donne» chiedendo alla gente di tutto il mondo di far sentire la propria voce e di aggiungere il proprio nome ad un movimento che si va facendo sempre più grande.
Ad un anno circa di distanza centinaia di migliaia di persone di ogni parte del mondo hanno risposto alla campagna «Dite NO» e hanno vinto una grossa battaglia contro la violenza di genere: Nujood Ali, una bambina yemenita di 10 anni, è fuggita dalla casa del marito che era stata costretta a sposare e la sua avvocata, Shada Nasser, si è battuta per garantire la libertà della bambina. Dopo aver subito ripetute percosse e violenze sessuali, Nujood, andata in sposa all'età di nove anni, è scappata di casa cercando scampo in tribunale in cerca di aiuto. A differenza delle decine di migliaia di bambine che sopportano la terribile tradizione dei matrimoni in età pressoché infantile, Nujood ha avuto coraggio e ha avuto la fortuna di trovare una avvocata altrettanto coraggiosa nella persona di Shada specializzata nella difesa dei diritti umani. Il loro caso ha fatto il giro del mondo ad aprile quando, grazie all'intervento di Shada, Nujood non solo ha ottenuto il divorzio, ma ha visto premiato il suo coraggio e indicato una strada per la difesa dei diritti umani delle donne e delle bambine. Nujood è tornata a scuola e quando gli si chiede cosa intende fare in futuro risponde: «….Voglio esercitare la professione di avvocato».
In passato in Kosovo ho avuto modo di ascoltare molte donne che, travolte da quel conflitto, avevano subito brutali violenze sessuali da parte dei soldati. I loro racconti avrebbero potuto essere ripresi dai titoli di giornale di oggi. La violenza sessuale è un'arma di guerra, uno strumento di terrore che colpisce la vita delle donne e degli uomini, manda in frantumi le comunità e costringe le donne a scappare di casa. E tuttavia troppo a lungo le violenze sessuali in tempo di guerra sono state avvolte nel silenzio e dimenticate dalla storia.
Il 20 giugno 2008 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha dato una risposta al peso di quel silenzio adottando all'unanimità la Risoluzione 1820 che riconosce esplicitamente che non possono esservi né pace né sicurezza fin quando le comunità vivono all'ombra del terrore sessuale. La Risoluzione auspica uno sforzo maggiore da parte di tutti coloro che sono coinvolti in un conflitto per proteggere le donne e le bambine dalle aggressioni. È di tutta evidenza che porre fine alla violenza contro le donne è un tema ormai in cima alla lista delle priorità dei governi e di importanti organismi quali le Nazioni Unite.

L'Unifem, unitamente al Segretario generale delle Nazioni Unite, auspica un sostegno di gran lunga maggiore al Fondo delle Nazioni Unite per porre fine alla violenza contro le donne che fornisce alle organizzazioni locali dei Paesi in via di sviluppo le risorse necessarie a trovare soluzioni pratiche e operative. Le sovvenzioni del Fondo dell'Onu hanno consentito di sventare il traffico di esseri umani in Ucraina, hanno aiutato le superstiti delle violenze domestiche a Haiti e hanno contribuito a far approvare una nuova legge sullo stupro nella Liberia tormentata dalla guerra.
Progetti come questi e molte iniziative in ogni parte del mondo dimostrano che la pandemia di violenza contro le donne è un problema che ha una soluzione. Là dove ci sono impegno e risorse, maggiori sono le possibilità di cambiare le cose: le politiche possono essere modificate, si possono istituire servizi e si possono formare giudici e agenti di polizia.
Di conseguenza in questo 25 novembre incoraggiamo i governi a tenere fede ai loro impegni e gli uomini e le donne a partecipare alle iniziative delle loro comunità per mettere fine alla violenza contro le donne e a far sapere alle autorità dei loro Paesi che attuare politiche volte a porre fine alla violenza contro le donne è importante per loro perché una vita senza violenza è il diritto di ogni donna.
***
Nicole Kidman è ambasciatrice del Fondo delle Nazioni Unite per le donne
© IPS Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

l’Unità 21.11.08
Una vittima ogni tre giorni e l’assassino è in famiglia


Ogni tre giorni, in Italia, una donna viene uccisa dall’uomo che diceva di amarla: solo nel 2007 le vittime sono state 122. E il più delle volte l'assassino non ha neppure bussato alla porta, perché aveva già le chiavi di casa: in tre casi su quattro era il convivente o il marito. A scattare questa triste fotografia sono gli esperti dell'ospedale Fatebenefratelli di Milano, durante la presentazione di un libro sul tema per i medici di famiglia. «Nel 40% dei casi il carnefice è mosso da motivi passionali, o meglio da forme patologiche di gelosia e disturbi paranoici - spiega Claudio Mencacci, direttore del dipartimento di Psichiatria - mentre il 34% degli uxoricidi è scatenato da liti e da una conflittualità elevata». Cosi' quattro donne su dieci sono vittime di un'arma da taglio, mentre tre su dieci sono colpite da armi da fuoco. «Da diversi anni e' stato cancellato il delitto d'onore nel nostro codice - aggiunge Mencacci - ma ancora oggi rimane l' estrema incapacità degli uomini di tollerare l'emancipazione femminile». Non è dunque un caso che proprio a Milano, dove lavora quasi il 60% delle donne, si abbia un elevato numero di uxoricidi: dal 2000 al 2006 - specifica Alessandra Bramante, psicologa e criminologa - si sono registrate 48 vittime.

l’Unità 21.11.08
Eluana, la Corte di Strasburgo respinge il ricorso urgente
di Federica Fantozzi


La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dice no alla procedura d’urgenza nel ricorso contro la sentenza che autorizza lo stop alle cure per Eluana. Il presidente del Consiglio superiore di sanità: «È eutanasia».
Decisione lampo della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sul caso di Eluana, la ragazza in coma irreversibile da 16 anni. Ieri i giudici comunitari hanno aperto un fascicolo sulla vicenda respingendo però la richiesta di misure provvisorie avanzata da 34 associazioni per bloccare la sentenza che autorizza lo stop alle terapie. Nessuna procedura d’urgenza, dunque: se i ricorrenti vorranno procedere e se il caso verrà considerato rilevante, la Corte seguirà tempi e modi ordinari. Vale a dire non brevi. E nel frattempo la sentenza ha forza di legge ed è immediatamente attuativa.
Intanto il presidente del Consiglio superiore della Sanità Franco Cuccurullo ha affermato che se si staccherà il sondino la morte della giovane donna «non sarà diversa dall'eutanasia o dall'omicidio» perché «non muore della patologia da cui è affetta, ma di fame e di sete: anzi, viene fatta morire». Secondo Cuccurullo, che è anche rettore dell'Università di Chieti-Pescara, «si apre una deriva pericolosa per le persone incapaci».
Il ricorso alla Corte Europea era stato accolto con amarezza da Beppino Englaro, il padre di Eluana che da un decennio porta avanti la battaglia giudiziaria per farla morire: «Ho agito sempre con grande limpidezza - ha detto, ricordando di avere in mano un decreto immediatamente esecutivo - Stanno ostacolando quello che è stato deciso. Le provano tutte, ma credo che da un punto di vista umano, io non ho più nulla da dire».
Il signor Englaro dopo aver ringraziato i media «per l’aiuto e il sostegno in questi anni» ha annunciato il silenzio stampa: «Non mi resta altra scelta che tacere. Devo conservare le poche forze per portare a termine quello che mia figlia si aspetta da anni da me».
L’avvocato che ha curato il ricorso europeo, Rosaria Elefante, precisa che «non è stato respinto, semplicemente non è stata accettata la procedura d’urgenza» e ribadisce la richiesta che venga fissata un’udienza. L’apertura di un fascicolo a Strasburgo è stata considerata «un fatto positivo» dal governatore della Lombardia, il ciellino Roberto Formigoni, invitato dai Radicali a recedere sul veto all’accoglienza di Eluana negli hospice della sua regione. I Verdi hanno invece offerto la disponibilità di una struttura a Forlì.
In queste ore gli avvocati della famiglia Englaro sono in contatto con diversi hospice friulani, destinazione privilegiata per le radici paterne. Tutto sta a vedere se andranno a buon fine. L’équipe medica, composta dal neurologo che da anni segue Eluana, il professor Carlo Alberto Defanti, e da un anestesista, è già pronta. Si attende soltanto di ricevere luce verde e firmare l’accettazione nella struttura privata prima di chiedere le dimissioni dalla clinica di Lecco dove la giovane è accudita dalle suore Misericordine.
Tuttavia, le voci contrarie alla decisione della Corte Suprema non si rassegnano. Il vescovo di Como monsignor Diego Coletti ha invitato i fedeli della diocesi domenica prossima a «pregare per Eluana» perché «appellarsi al rispetto della libertà individuale è solo un pretesto per nascondere le inadempienza della nostra solidarietà».
Sette senatori del Pd (la Teodem Baio, Bosone, Gustavino, Papania, Del Vecchio, Biondelli e De Luca) hanno sottoscritto la petizione europea promossa dal “Movimento per la Vita”. Mentre dalle file del centrodestra il segretario del Pri Francesco Nucara invita a fare un passo indietro: «È ora di accettare la sentenza della Cassazione e di lasciare il padre di Eluana in pace. Va rispettato il suo silenzio, è un caso tragico su cui c’è stata una strumentalizzazione intollerabile».

l’Unità 21.11.08
Scontri di Piazza Navona, 36 denunciati
Ventuno appartengono «Blocco Studentesco»


Sono trentasei le persone denunciate per gli incidenti di Piazza Navona del 29 ottobre al termine di una delle manifestazioni studentesche contro la riforma Gelmini. La Questura di Roma, infatti, ha emesso ieri trentasei denunce: 21 contro altrettanti aderenti all'organizzazione neofascista Blocco Studentesco, altre quindici contro studenti dell’università “Sapienza” di Roma. Tutti, secondo quanto emerso, sarebbero accusati di «lesioni, rissa e adunata sediziosa».
A rendere nota la notizia sono stati alcuni studenti dell’“Onda” dell’università capitolina che hanno annunciato per oggi una conferenza stampa nel corso della quale verrà presa «una posizione politica sulle denunce». La novità di ieri arrivano dopo quasi tre settimane di indagini nel corso della quali la Digos di Roma ha passato al setaccio fotografie e filmati di quanto avvenuto in piazza quella mattina nel tentativo di dare un volto ai ragazzi, molti col viso coperto, che avevano partecipato agli incidenti. Iniziati nella mattinata, quando il Blocco Studentesco aveva caricato e picchiato alcuni giovani dei licei, e proseguiti poi al momento dell’arrivo in piazza Navona del corteo studentesco. A quel punto, secondo le ricostruzioni della Divisione investigazioni generali e operazioni speciali, diversi appartenenti ai collettivi studenteschi si sono scontrati coi militanti di Blocco Studentesco (armati di bastoni e catene trasportati in un furgone sfuggito ad ogni controllo) nel tentativo di allontanarli dalla piazza e dal corteo.

l’Unità 21.11.08
Intervista a Thomas Nagel. Il sogno filosofico di Obama
di Bruno Gravagnuolo


Che effetto fa essere un pipistrello? Ma soprattutto, che diavolo c’entra questa domanda bizzarra con la filosofia, con Barack Obama e con le idee morali e politiche del mondo contemporaneo? C’entra, magari alla lontana, ma c’entra. Perché a porsela quella domanda, in un saggio accademico nel lontano 1974, fu un professore nato a Belgrado nel 1936, e via via divenuto uno dei massimi filosofi morali e politici contemporanei, docente prima a Princeton e poi alla New York University: Thomas Nagel. Erede negli Usa del grande John Rawls, pensatore scomparso e teorico della «società giusta», la società dove la libertà doveva essere davvero di tutti, e dove l’ineguaglianza si giustificava solo se aiutava i meno fortunati a progredire.
Qual è stata l’innovazione di Nagel rispetto al maestro? Eccola: occorre in etica tenere conto degli «stati limite soggettivi» («essere un pipistrello»), per potersi accordare con gli altri sul piano dell’etica civile. E da questa dialettica, tra differenza soggettiva e regole comuni sempre in fieri, scaturisce poi la giustizia - sociale, culturale e giuridica - che non è mai scritta una volta per tutte. Insomma, se per un verso l’andare oltre la propria condizione specifica, e la propria visione del mondo, è un presupposto necessario per la nascita del discorso morale, al contempo l’ossessione per l’«oggettività assoluta» rischia di negare le differenze individuali e la soggettività dei singoli. Paralizzando l’etica dentro dilemmi insolubili, che finiscono con renderla inutile per l’esistenza umana.
Per questo Nagel si è sempre battuto su due fronti: contro il moralismo conservatore e contro lo scetticismo decostruzionista, entrambi in gran voga negli Usa. E lo ha fatto in opere come La possibilità dell’altruismo, Questioni mortali, Soggettivo e Oggettivo, e anche in lavori più politici come Giustizia globale, uscito nel 2005 sulla rivista Philosohy and pubblic affairs.
Come avrete capito siamo in ambito «liberal» americano, sulla barricata opposta a quella dei neconservatori, duramente sconfitti dal primo presidente afro e americano alla Casa Bianca. E del resto Nagel si è molto impegnato per Obama e confida molto in una rivoluzione morale legata alle sue idee politiche. Per questo siamo andati a incontrarlo all’Hotel Plaza di Roma, alla vigilia della cerimonia per l’importante Premio Balzan per la filosofia morale, che gli verrà conferito questo pomeriggio da Napolitano all’Accademia dei Lincei. Sentiamo.
Professor Nagel, Margareth Thatcher diceva: non esiste la società ma solo individui. Dopo Barack Obama siamo entrati in un’era in cui questa idea è diventata un po’ più assurda?
«Mi è sempre parsa assurda questa idea. La Thatcher forse voleva dire che ogni azione politica o morale si giustifica solo in base all’interesse degli individui. Sbagliato, perché l’interesse pubblico riguarda la vita quotidiana di ciascuno e non se ne può proprio fare a meno. Come dimostra la crisi finanziaria Usa, nata dal privilegiamento esclusivo dell’interesse privato che ha generato il crack. Ora c’è uno spostamento culturale inevitabile. Dal libertarismo egoistico ad una società responsabile, dove il mercato resta cruciale per la crescita ma va regolato in base al bene comune».
Un ritorno in grande al New Deal di Franklin Delano Roosevelt?
«Credo di sì, a partire dalle politiche pubbliche per incoraggiare la crescita e i salari. E dalla sanità pubblica. Che verrà regolata non all’europea, sfortunatamente. Ma coinvolgendo lavoratori e imprese, specie queste ultime. E anche a partire dall’ambiente, altra occasione pubblica di rilancio economico, almeno nelle intenzioni di Obama».
Possiamo parlare di rivoluzione morale con Obama?
«La sua grande promessa va in tal senso. Non so però se un presidente da solo può creare una mutazione del genere. Al più può favorire un clima, e incoraggiare la persuasione che sia giusto e conveniente fare sacrifici, cambiare abitudini e stili di vita. Obama è venuto al momento giusto, come Lincoln e Roosevelt. Lui vuole un nuovo corso, anche ideale, dopo l’isolamento internazionale degli Usa e la catastrofe finanziaria».
Che tipo di religiosità è quella di Obama? Passeremo dal fondamentalismo neocon ad una sorta di profetismo democratico?
«Intanto Obama, come dimostra la sua biografia, è diventato un vero americano, nero e africano. Che ha instaurato un legame tra le due appartenenze e proprio attraverso la Chiesa. Non proprio un cosmopolita quindi, ma un americano che si richiama alle promesse originarie dell’America: integrazione, diritti, libertà. Più Luther King che Malcolm X, per intendersi. Ciò renderà la religione negli Usa meno divisiva e conflittuale. E anche più laica e secolare soprattutto nell’agenda bioetica, e diametralmente all’opposto di Bush Jr».
Il neocon Robert Kagan sostiene: gli Usa sono il paese più democratico e integrato. Dunque la Pax americana è in ogni caso la più giusta. Dov’è l’errore?
«È un punto di vista ideologico, che nasce dalla paura. Dalla mancanza di fiducia nel resto del mondo. E dalla diffidenza verso tanti paesi che erano i nostri alleati naturali. Una sindrome hobbesiana, fondata sulla caccia al nemico anche interno che ci minaccia e può inquinare la nostra convivenza. Non che certe paure siano del tutto infondate, ma possiamo fronteggiare le insidie ripristinando le nostre alleanze di sempre. Ripristinando insieme agli altri, e con l’Europa in primo luogo, un legame di fiducia. L’immagine di Obama perciò verrà associata sempre di più al multilateralismo».
Parliamo di filosofia, e di Utopia magari. A suo avviso la speranza kantiana della «Pace perpetua» potrà riacquistare una sua attualità, come criterio guida delle relazioni internazionali e contro l’idea hobbesiana della forza e della paura?
«Quella indicata da Immanuel Kant nel 1794 è un’idea molto importante e di lungo periodo. Idea regolativa e profetica, fondata su una straordinaria premonizione in Kant del futuro mondo globale. Significa che l’ordine mondiale appartiene a tutti e che l’affermarsi su scala planetaria di vere democrazie comporta la risoluzione consensuale dei conflitti e senza guerra. In base a un diritto condiviso. Una previsione in fondo corretta, oltre che auspicabile».
Tornerà di moda negli Usa la visione della «società giusta» e dell’ordine cosmopolitico giusto, legata a Kant e a John Rawls oltre che alla stagione dei diritti civili?
«Sono tematiche di sinistra che non hanno mai smesso di esercitare un certo influsso nella società americana. E che entro certi limiti influenzano anche le élite politiche progressiste negli Usa. Un influsso destinato senz’altro a crescere».
Le sottopongo tre parole chiave: «liberal», «left» (sinistra), «socialist». Con Obama diventerà più facile pronunciarle da voi?
«Liberal, cioè progressista non radicale, verrà certamente riabilitata. Socialist, non credo. Perché gli americani hanno sempre avuto in sospetto lo statalismo. Quanto a left o leftist, riguardano una minoranza negli Usa. La sinistra in senso europeo da noi è solo una frazione dello spettro politico: è la sinistra del Partito democratico. Semmai il problema è ancora la destra americana, essa sì robusta e identitariamente forte! Ecco, nelle nuove e più favorevoli condizioni, alla sinistra spetta il compito di neutralizzare la destra. Ma a condizione di allearsi stabilmente con il centro. Con i liberal e la middle class».

l’Unità 21.11.08
Se la statua parla alla psiche
di Renzo Cassigoli


Come predisporsi a guardare una città d’arte? come ascoltare le mille voci della città trasmesse da una presenza densa di testimonianze? Con il saggio Mi sono innamorata di una statua, il David per l’appunto, Graziella Magherini , psichiatra e psicoanalista, ci guida alla ricerca delle risposte ai tanti interrogativi che si affollano alla mente del lettore. Continuando un lungo percorso di studio iniziato da tanti anni tocca i punti focali del pensiero psicoanalitico che ha segnato l’arco del XX secolo, cercando di scoprire e di capire ciò che di fronte all’opera d’arte, avviene negli strati profondi della psiche, non chiedendo all’ambiente insegnamenti, ma attenzione, ascolto, opportunità. Cosa avviene, allora, nella mente di un osservatore coinvolto emotivamente dall’opera d’arte? Le risposte vanno cercate scavando nelle parti profonde della propria personalità: l’inconscio freudiano, le esperienze vissute, le emozioni più intense, quelle arcaiche, mai ri-conosciute dall’Io cosciente. Come dire: l’arte riesce a farci sentire ciò che è dentro di noi e che non siamo riusciti a ri-conoscere e a esprimere. Fondamentale l’ultimo capitolo dedicato al David di Michelangelo: «la statua più bella del mondo», e a un’indagine dalla Galleria dell’Accademia con la quale, a completamento ed esemplificazione del «modello di fruizione artistica», si raccolgono commenti e comportamenti dei visitatori offrendo un documento eloquente della dinamica correlata all’impianto teorico.

Repubblica 21.11.08
Obama e la lotta per i diritti
di Stefano Rodotà


Dalla cellule staminali alla chiusura di Guantanamo Barack ha già segnato una discontinuità
Il neopresidente ha offerto una prospettiva diversa: la democrazia torna ad essere protagonista

L´annuncio di una serie di immediati provvedimenti di Barack Obama, per segnare già nelle prime dichiarazioni un radicale distacco dalla cultura dell´era Bush, induce (obbliga?) ad una discussione sul senso e le prospettive che assumono oggi le politiche dei diritti. So bene che, affrettandosi ad etichettare le mosse del nuovo Presidente degli Stati Uniti, si corre il rischio di cadere in quel chiacchiericcio provinciale che ha già prodotto le impagabili interpretazioni di chi ha indicato in Berlusconi e Bossi i precursori dell´innovazione prodotta dalle elezioni americane. Ma i segnali provenienti dagli Stati Uniti rimbalzano in tutto il mondo sì che, con la giusta misura, bisogna sempre prenderli sul serio.
Cellule staminali, aborto, Guantanamo sono parole familiari, che ci hanno abituato a vedere in esse addirittura il discrimine tra due mondi. Vengono pronunciate oggi per rendere subito evidente dove si vuole produrre una discontinuità. Chiudere il carcere di Guantanamo significa allontanarsi da una logica che, con l´argomento della difesa della democrazia, ha finito con il travolgere proprio i principi democratici, appannando l´immagine di un paese che ha sempre voluto identificarsi con le ragioni della libertà. Se questo annuncio significativo diverrà concreto, possiamo aspettarci anche un abbandono delle aggressive politiche di sicurezza che si sono volute imporre agli altri Stati, facendo divenire planetarie le leggi americane? Su questo punto l´Unione europea avrà qualcosa da dire se si libererà da una soggezione che l´ha indotta non solo ad accogliere eccessive pretese americane, ma anche a mimarne in maniera ingiustificata i modelli, incurante pure degli appelli ad una coerente difesa dei principi di libertà che arrivavano proprio da organizzazioni americane importanti come l´American Civil Rights Union.
Nettissima sarebbe la discontinuità legata all´abbandono delle politiche "ideologicamente offensive" di Bush che hanno vietato il finanziamento federale delle ricerche sulle cellule staminali embrionali e delle organizzazioni internazionali che aiutano le donne ad abortire legalmente. Qui, infatti, hanno pesato in modo determinante i confessionalismi religiosi e, una volta che Obama avesse ripristinato i finanziamenti pubblici, la distanza con la politica ufficiale del Vaticano diverrebbe clamorosa (e assumerebbe ben diverso significato la stessa versione della religiosità di Obama, sulla quale si sono esercitati con grande disinvoltura diversi commentatori). Su questi temi, peraltro, il sostegno dell´opinione pubblica è ben visibile, testimoniato dalla sconfitta in tre Stati dei referendum contro l´aborto e dal successo in un altro di un referendum sul suicidio assistito. E´ lecito sperare che anche in Italia sia possibile tornare con pacatezza sul tema della ricerca sulle staminali, liberandosi anche qui delle pesantezze ideologiche e mettendo magari a frutto contributi come quello recentissimo di Armando Massarenti (Staminalia, Guanda, Parma 2008)?
Le discontinuità non si esauriscono con i casi appena ricordati, ma riguardano altre importanti materie, dalla tutela dell´ambiente alla sanità, dall´istruzione ai diritti dei minori (vi fu un veto di Bush su una legge che li riguardava). Ed è importante sottolineare che la rottura con il passato può essere rapida e immediata perché la maggior parte dei provvedimenti da cambiare ha la sua fonte in "executive orders" di Bush, atti presidenziali che non hanno bisogno dell´approvazione del Congresso. Usando la stessa tecnica, Obama potrebbe effettuare in pochissimo tempo una spettacolare ripulitura del sistema giuridico americano.
Ma, al di là delle pur importantissime questioni specifiche, è significativo il modo in cui viene concepita l´intera strategia d´avvio della nuova presidenza. L´economia presenta il suo conto, pesantissimo. E tuttavia questa indubbia priorità non ha indotto nella classica tentazione della politica dei due tempi: prima i provvedimenti economici e poi i diritti civili. "Erst kommt das Fresse, dann kommt die Moral", prima la pancia e poi la morale, si canta alla fine del primo atto dell´Opera da tre soldi di Bertolt Brecht. Una politica che vuol essere moderna non si risolve tutta nell´uso delle nuove tecnologie, pur così importanti nel successo di Obama. Ha il suo baricentro nella capacità di tenere insieme economia e diritti, individuo e società. I diritti non sono un lusso o un´appendice, di cui ci si può occupare solo a pancia piena, una volta soddisfatti i bisogni economici e di sicurezza, anche perché è proprio la logica dei diritti e delle libertà a definire, in un sistema democratico, le caratteristiche delle politiche economiche e d´ordine pubblico. Ai molti americani, giovani e non, disimpegnati e lontani dalla politica Obama non ha offerto solo il fascino di You Tube, ma una prospettiva diversa, dove appunto la democrazia e i diritti tornano ad essere protagonisti e hanno bisogno di persone che diano loro voce. Una prospettiva non lontana da quella aperta in Europa soprattutto da Zapatero; che attraverso la vicenda americana si conferma, si consolida, ci dice che le politiche dei diritti hanno bisogno di radicalità; e che dovrebbe indurre qualcuno, anche dalle nostre parti, ad abbandonare schematismi e pigrizie.
Non sarà una passeggiata, quella del nuovo Presidente degli Stati Uniti, anche se la sua elezione offre una importantissima garanzia: la Corte Suprema, strumento essenziale per le politiche dei diritti, non subirà un ulteriore "impacchettamento" conservatore. Ma soprattutto il risultato del referendum californiano contro i matrimoni gay apre un delicatissimo fronte politico e giuridico. Quale sarà la linea di Obama, che pure ha esplicitamente ricordato gli omosessuali nel suo discorso di ringraziamento? Come hanno sottolineato i giuristi più attenti, quel referendum incide in forme improprie sul principio di eguaglianza e mette in discussione i diritti già acquisiti dalle diciottomila coppie che hanno utilizzato il nuovo istituto. Tempi impegnativi si sono aperti, e in essi la lotta per i diritti giocherà un ruolo essenziale.

Repubblica 21.11.08
Su "Reset" un´intervista a Zygmunt Bauman
Un’agenda per il pianeta
Serve un nuovo corso politico
di Alessandro Lanni


"È inutile contare sugli Stati-nazione per risolvere i gravi problemi globali che ci affliggono: occorre costruire un´opinione pubblica che operi finalmente su scala mondiale"
L´inquinamento atmosferico è un problema generale ma va gestito anche localmente
Spetta ai singoli trovare soluzioni ai problemi della società nel suo complesso

«Lo Stato sociale è finito, è ora di costruire il "Pianeta sociale"». Solo così, spiega Zygmunt Bauman, si potrà uscire dalla crisi globale che il mondo contemporaneo sta vivendo. La politica deve avere la forza di reinventarsi su scala planetaria per affrontare l´emergenza ambientale o il divario crescente tra ricchi e poveri. Altrimenti è condannata alla marginalità in una dimensione locale, con strumenti obsoleti adatti a un mondo che non esiste più. L´inventore della "società liquida" non crede in una capacità di autoriforma della politica, «meglio costruire un´opinione pubblica globale e affidarsi a organizzazioni cosmopolite, extraterritoriali e non governative».
I nostri politici ce la faranno a cambiare paradigma, passando dal locale al globale?
«Io non conterei molto sui governi - di nessun paese, piccolo o grande che sia - e ancor meno sui loro tentativi di collaborazione, che finiscono regolarmente in una poesia di nobili intenzioni piuttosto che in una prosa di concreta realtà. I poteri che decidono sulla qualità della vita umana e sul futuro del pianeta sono oggi globali e dunque, dal punto di vista dei governi, sono extraterritoriali ed esenti dalla loro sovranità locale. Finché non innalziamo la politica ai livelli ormai raggiunti dal potere, le probabilità di arrestare gli sviluppi catastrofici cui stiamo conducendo la nostra vita sul pianeta sono, quantomeno, scarse».
Dunque, di quali strumenti alternativi dovrebbe dotarsi la politica per affrontare le grandi emergenze del nuovo mondo globale?
«L´obiettivo di arrestare le ineguaglianze globali che tendono a divenire rapidamente più profonde non compare tra le priorità delle agende politiche degli Stati-nazione più potenti, nonostante le tante promesse fatte al riguardo. Contemporaneamente, mancano ancora un´ "agenda politica planetaria" e delle istituzioni politiche globali efficaci e dotate di risorse che gli permettano di perseguire simili obiettivi rendendoli operativi. Le prerogative territoriali degli Stati-nazione ostacolano la creazione di tale agenda e di tali istituzioni e rendono ancora più difficile il tentativo di mitigare il processo di polarizzazione».
Gli Stati da soli non possono farcela. I singoli cittadini hanno qualche possibilità in più di mettere mano ai disagi che avvertono, per organizzare un´azione collettiva?
«Qui interviene quel fattore che è stato ampiamente descritto con il termine "individualizzazione". Con il progressivo abbassarsi della condizione di difesa mantenuta contro le paure esistenziali, e con il venir meno di accordi per l´autodifesa comune, come per esempio i sindacati o altri strumenti di contrattazione collettiva, depotenziati della competizione imposta dal mercato, spetta ai singoli trovare e mettere in pratica soluzioni individuali a problemi prodotti dalla società nel suo complesso. Ma fare tutto questo da soli e con strumenti per forza limitati risulta palesemente inadeguato al compito prefisso».
Anche il climate change è tra le grandi paure e insicurezze che l´uomo occidentale deve fronteggiare.
«L´insicurezza deriva dal divario tra la nostra generale interdipendenza planetaria e la natura meramente locale, a portata di mano, dei nostri strumenti di azione concertata e di controllo. I problemi più terribili e spaventosi che ci tormentano e che ci spingono a provare una sensazione di insicurezza e incertezza riguardo a tutto ciò che ci circonda hanno origine nello spazio globale che è al di là della portata di qualsiasi istituzione politica ora esistente; tuttavia questi problemi sono scaricati sulle entità locali - città, province e Stati - dove si pretende che vengano risolti con quei mezzi disponibili a livello locale: un compito praticamente impossibile».
Eppure in molti sostengono che alcune questioni relative all´inquinamento, alla produzione d´energia, ai rifiuti, possono essere affrontate a livello «micro», di città, di governi locali.
«L´inquinamento atmosferico e la mancanza di acqua potabile sono questioni che traggono origine nello spazio globale, ma sono poi le istituzioni locali a doverle gestire. Lo stesso principio si applica al problema delle migrazioni, del traffico di droga e armi, del terrorismo, della criminalità organizzata, dell´incontrollata mobilità dei capitali, dell´instabilità e della flessibilità del mercato del lavoro, della crescita dei prezzi dei beni di consumo e così via. La sfera politica locale è sovraccarica di compiti e non è abbastanza forte o abbastanza dotata di risorse per svolgerli. Solo istituzioni politiche e giuridiche internazionali - finora assenti - potrebbero tenere a bada le forze planetarie attualmente sregolate e raggiungere le radici dell´insicurezza globale».
E un governo planetario che salverà il mondo?
«Allo stadio di sviluppo a cui è ormai giunta la globalizzazione dei capitali e dei beni di consumo, non esiste nessun governo che possa permettersi, singolarmente o di concerto con altri, di pareggiare i conti - e, senza che si pareggino i conti, è impensabile che si possano effettivamente mettere in atto le misure tipiche dello Stato sociale, volte a ridurre alla radice la povertà e a prevenire che l´ineguaglianza continui a crescere a piede libero. E altrettanto difficile immaginare governi capaci di imporre limiti sui consumi e aumentare le tasse locali ai livelli necessari perché lo Stato possa continuare a erogare servizi sociali, con la stessa intensità o con maggior vigore».
La globalizzazione cancella anche lo Stato sociale. Professor Bauman, non lascia speranza per un briciolo di giustizia e di eguaglianza nel mondo del XXI secolo?
«Non esiste una maniera adeguata attraverso la quale uno solo o più Stati territoriali insieme possano tirarsi fuori dalla logica di interdipendenza dell´umanità. Lo Stato sociale non costituisce più una valida alternativa; soltanto un "Pianeta sociale" potrebbe recuperare quelle funzioni che, non molto tempo fa, lo Stato cercava di svolgere, con fortune alterne. Credo che ciò che può essere in grado di veicolarci verso questo immaginario "Pianeta sociale" non siano gli Stati territoriali e sovrani, ma piuttosto le organizzazioni e le associazioni extra-territoriali, cosmopolite e non-governative, tali da raggiungere in maniera diretta chi si trova in una condizione di bisogno, sorvolando le competenze dei governi locali e sovrani e impedendogli di interferire».

Repubblica 21.11.08
Lévi-Strauss, una rivoluzionaria idea di uomo
Il grande antropologo compie cent’anni il 28 novembre
di Marino Niola


Il padre dello strutturalismo non è diventato famoso per aver descritto popoli primitivi, ma per le implicazioni generali del suo pensiero che incidono profondamente sul rapporto natura-cultura aprendo strade del tutto nuove
Il suo è un attacco frontale alla concezione antropocentrica dell´universo
Ad essere scardinata è la storia della metafisica e dei suoi concetti

Il 28 novembre si festeggia il centesimo compleanno di Claude Lévi-Strauss. L´ultimo dei maîtres à penser. L´uomo che ha fatto dell´antropologia quel che Freud fece della psicoanalisi, cioè uno dei grandi saperi del Novecento. Non solo una disciplina specialistica, per pochi esploratori di mondi esotici, ma un nuovo modo di vedere l´uomo.
Nessun antropologo ha esercitato un´influenza altrettanto vasta al di fuori del proprio campo. Con questo moralista classico in presa diretta sullo stato d´urgenza planetaria l´antropologia va fuori di sé per diventare scommessa filosofica in grado di revocare in questione l´opposizione tra natura e cultura, e la definizione stessa dell´umano. A differenza di altri grandi antropologi come Franz Boas, Bronislaw Malinowski, Margaret Mead e Gregory Bateson, il padre dello strutturalismo non è divenuto celebre per aver descritto popoli primitivi ma piuttosto per le implicazioni generali del suo pensiero. E proprio in questo ampio respiro stanno il fascino e la sfida dell´impresa teorica levistraussiana.
L´antropologo francese non è stato il primo né il solo a sottolineare il carattere strutturale dei fenomeni sociali, ma la sua originalità sta nel prendere questo carattere sul serio e trarne imperturbabilmente le conseguenze. È naturale che una ricerca di questo tipo abbia suscitato discussioni e polemiche non fosse altro che per il fatto di condurre ad una messa in discussione di certe categorie tipiche dell´umanesimo occidentale, non ultimi i concetti di «uomo» e di «umanità». E d´altra parte in un celebre passo del Pensiero selvaggio Lévi-Strauss ha affermato che «il fine ultimo delle scienze umane non consiste nel costituire l´uomo ma nel dissolverlo».
La conoscenza dell´alterità, che rappresenta il compito dell´etnologia, è solo la prima tappa di un itinerario di ricerca delle invarianti che consentono di riassorbire «talune umanità particolari in una umanità generale». E dunque di «reintegrare la cultura nella natura e, in sostanza, la vita nell´insieme delle sue condizioni fisico-chimiche». Il vero oggetto della polemica levistraussiana è con tutta evidenza quell´umanismo che fonda i diritti dell´uomo sul carattere unico e privilegiato di una specie vivente, quella umana, anziché vedere in tale carattere un caso particolare dei diritti di tutte le specie. Più che di una professione di antiumanesimo si tratta di un attacco frontale portato alla sua declinazione antropocentrica, alla metafisica umanistica del soggetto. A questo insopportabile enfant gaté delle scienze umane, il grande antropologo oppone una concezione dell´uomo «che pone l´altro prima dell´io, e una concezione dell´umanità che, prima degli uomini, pone la vita». In questo senso è stato osservato che Lévi-Strauss ha contribuito a decostruire «la convinzione giudaico-cristiana e cartesiana secondo la quale la creatura umana è la sola ad essere stata creata ad immagine e somiglianza di Dio».
* * *
Se si chiede ad un Indiano americano cosa sia un mito, ci sono molte probabilità che risponda: «una storia dei tempi in cui gli uomini e gli animali non erano ancora distinti». Questa definizione appare a Lévi-Strauss di grande profondità perché «malgrado le nuvole d´inchiostro sollevate dalla tradizione ebraico-cristiana per mascherarla, nessuna situazione pare più tragica, più offensiva per il cuore e per l´intelligenza, di quella di una umanità che coesiste con altre specie viventi su una terra di cui queste ultime condividono l´usufrutto e con le quali non può comunicare». Affiora qui il pessimismo dell´autore di Tristi Tropici che all´idea prometeica dell´uomo che assoggetta la natura, sostituisce una visione tragica del soggetto e di una natura entrambi mutilati, perché separati dall´altra parte di sé.
Un decentramento del soggetto che riflette l´idea di un rapporto non strumentale con la natura in cui, per dirla con Adorno, questa non è mero oggetto, Gegenstand, ma piuttosto partner, Gegenspieler. Già nei primi anni Cinquanta, con una sensibilità ecologista in largo anticipo sui movimenti ambientalisti attuali, l´antropologo francese denunciava il pericolo di un umanesimo narcisisticamente antropocentrico, e per ciò stesso etnocentrico, che dimentica i diritti del vivente in nome di un´idea astratta della vita, che fa dell´uomo il signore unico del pianeta e della sua riproduzione il fine ultimo della natura. In questo senso Michel Maffessoli ha ritenuto di poter accostare la denuncia levistraussiana del saccheggio del mondo alla critica heideggeriana della devastazione della terra da parte della metafisica.
Per Derrida la nascita stessa dell´antropologia è stata possibile a condizione di questo decentramento del soggetto che ha inizio «nel momento in cui la cultura europea - e di conseguenza la storia della metafisica e dei suoi concetti - è stata scardinata, scacciata dal suo posto, costretta quindi a non considerarsi più come cultura di riferimento». La critica dell´etnocentrismo, che è stata, e resta, la condizione stessa dei saperi antropologici è, per l´autore de La scrittura e la differenza, contemporanea, addirittura simultanea alla distruzione della storia della metafisica.
In un celebre testo dedicato a Jean-Jacques Rousseau, Lévi-Strauss istituisce una relazione tra l´identificazione agli altri, e addirittura «al più "altro" fra tutti gli altri, l´animale», e il rifiuto di tutto ciò che può rendere accettabile l´io. Il rifiuto insomma di quella trascendenza di ripiego che resta, a suo avviso, profondamente insediata nell´umanesimo. In molte occasioni il padre dello strutturalismo rimprovera infatti ai filosofi, in particolare agli esistenzialisti, di aver operato un rovesciamento prospettico, dando prova di un´autentica perversione epistemologica, pur di costruire un rifugio per l´io «nel quale quel misero tesoro che è l´identità personale tenda a essere protetto e dato che le due cose insieme sono impossibili essi preferiscono un soggetto senza razionalità a una razionalità senza soggetto». In questa idea di una razionalità senza soggetto affiora proprio quel «kantismo senza soggetto trascendentale» attribuito a Lévi-Strauss da Paul Ricoeur a proposito dell´analisi dei miti con la quale il grande antropologo ha offerto la formulazione più radicale delle sue tesi sull´accordo esistente tra cultura e natura, fra spirito e mondo.
E a quei filosofi che lo accusano di avere abolito il significato dei miti e di averne ridotto lo studio a sintassi di un discorso che non dice niente, Lévi-Strauss, nelle ultime pagine de L´uomo nudo, riserva una risposta a dir poco tranchante. Le mitologie, egli afferma, non nascondono nessuna verità metafisica né ideologica ma in compenso ci insegnano, per un verso, molte cose sulle società che le tramandano e per l´altro verso ci offrono l´accesso a certe modalità operative dello spirito così stabili nel tempo e ricorrenti nello spazio da poterle considerare basilari. E conclude con una suprema sprezzatura: «lungi dall´averne abolito il senso, la mia analisi dei miti di un pugno di tribù americane ne ha tratto più significato di quanto se ne trovi nelle banalità e nei luoghi comuni a cui si riducono, da circa duemilacinquecento anni, le riflessioni dei filosofi sulla mitologia, a eccezione di quelle di Plutarco».
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Molti hanno rimproverato allo strutturalismo un atteggiamento antistorico, ma in realtà Lévi-Strauss ha sempre tenuto a distinguere nettamente la storia, alla quale attribuisce un´importanza straordinaria, dalla filosofia della storia à la Sartre, una pseudo-storia che, in ogni sua versione, laica o confessionale, evoluzionista o storicista, costituisce un tentativo di sopprimere i problemi posti dalla diversità delle culture pur fingendo di riconoscerli in pieno. Tale filosofia della storia - che appare a Lévi-Strauss della medesima natura del mito - deriva dalla fede biblica in un compimento futuro e finisce con la secolarizzazione del suo modello escatologico che si muta in teoria del progresso. Il vizio costitutivo di tale filosofia, che rivolge verso il futuro il concetto classico di istorein e trasforma il racconto del passato in previsione del futuro, un futuro oggetto di un´attesa fideistica. In questo senso Lévi-Strauss non si limita a respingere l´accusa di antistoricismo ma, quel che più conta, rivendica all´antropologia un modo tutto proprio di interrogare i materiali storici, con quell´attenzione ai fatti minuti della vita quotidiana che fa degli etnologi gli «straccivendoli» della storia, quelli che rimestano nelle sue pattumiere.
E una vera e propria eterologia quella messa in opera da Claude Lévi-Strauss, in grado di farci cogliere quanto di noi stessi c´è nell´altro e quanto di altro si trova in fondo a noi stessi. Quel fondo che ci fa tutti parenti perché tutti differenti e che qualcuno continua a chiamare umanità.

Repubblica 21.11.08
Cosa vuol dire ragionare in termini di millenni
Un pomeriggio col professore
di Bernardo Valli


Prima di raggiungere l´appartamento del Sedicesimo Arrondissement, a due passi dalla Senna e dalla Maison de la Radio, sfogliai Tristi Tropici, e ne rilessi alcuni passaggi. Non avevo detto a Claude Lévi-Strauss il motivo dell´incontro. Né lui si era dimostrato curioso. Era un puntuale collaboratore di Repubblica (era stato Pietro Citati a convincere lui e il medievalista Georges Duby a scrivere per le nostre pagine culturali), e con la redazione parigina, che faceva da tramite, aveva ormai un rapporto se non assiduo garbato. È dunque approfittando di questo modesto legame che quel giorno di dicembre andai a casa di Lévi-Strauss armato di numerose e ambiziose intenzioni.
Avrei voluto anzitutto che mi parlasse del romanzo che aveva cominciato a scrivere a Parigi, di ritorno dal Brasile nei mesi precedenti alla guerra del ?39. Romanzo che avrebbe probabilmente avuto come titolo Tristi Tropici, lo stesso adottato quindici anni dopo per il saggio, in cui la magia della scrittura fa dimenticare facilmente che non si tratta di una fiction. Nelle prime pagine del romanzo abbandonato figurava la descrizione del tramonto («... ces cataclysmes surnaturels...») osservato dal ponte della nave diretta nell´America del Sud, descrizione poi recuperata, insieme al titolo, nel saggio pubblicato nel ?55. Lévi-Strauss trovò che le prime pagine del romanzo erano «un pessimo Conrad» e abbandonò per sempre l´idea di lanciarsi nella narrativa pura. La trama immaginata e gettata nel cestino era la vicenda di un viaggiatore che in Oceania usa un grammofono per ingannare gli indigeni e farsi passare per un dio.
Mi sarebbe piaciuto descrivere il «mancato Conrad» diventato uno dei grandi intellettuali del secolo. La prima domanda che mi proponevo di rivolgergli era dunque già pronta: «A trent´anni lei voleva usare i suoi viaggi tra gli indiani kaingang, caduveo e boroboro, come Conrad usò i suoi viaggi di mare nei romanzi? In questo caso, se avesse avuto successo come romanziere, il suo destino sarebbe radicalmente cambiato?». Mi affascinava appunto l´idea del mancato romanziere che per ripiego si dedica interamente all´etnologia, sia pur scrivendo, per nostra fortuna, anche di musica, di pittura, oltre che di letteratura. Qualche volta di poesia. Un Lévi-Strauss che ha rinunciato a inventare trame esotiche, ritenendo di non avere un talento adeguato, e che ha invece raccontato scientificamente civiltà «selvagge», traendone una morale irrinunciabile. Morale secondo la quale una società educata non può essere scusata per il solo crimine veramente inespiabile dell´uomo: peccato che consiste «nel credersi durevolmente o temporaneamente superiore e nel trattare degli uomini come oggetti: in nome della razza, della cultura, della conquista, della missione o semplicemente dell´espediente».
La mia ambizione si è sgonfiata in pochi secondi quando mi sono trovato davanti Lévi-Strauss, più che novantenne, ironico, forse divertito, del mio iniziale, prolungato silenzio, durante il quale valutavo l´opportunità di affrontare un tema tanto remoto e intimo. In definitiva gonfiato dalla mia immaginazione. Lasciai dunque cadere, saggiamente, il tema del mancato Conrad, e scivolai nel contrario: cioè nella stretta, banale attualità. Gli chiesi cosa pensasse della moneta unica europea che in quei giorni entrava o stava entrando in servizio. Rise. «Cosa c´entra un antropologo? Non sarebbe stato meglio rivolgersi a uno storico? Io mi occupo di selvaggi», si schernì. Per difendermi ricordai un vecchio testo di Merleau-Ponty, il filosofo amico di Lévi-Strauss, scritto in occasione della nomina di quest´ultimo al Collège de France. In quel testo si parlava di un´opera fondamentale per l´antropologia sociale: Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, di Marcel Mauss. Il tema ricorre ovviamente nelle opere di Lévi-Strauss. Perché non recuperare l´argomento e allacciarlo alla vita d´oggi?
Alla mia candida, ingenua reazione il padrone di casa venne in mio soccorso. Mi disse: «Allo scoppio della guerra, nel ?14, avevo sei anni e andai in banca a offrire le monetine che possedevo per la difesa della patria. I franchi erano allora d´oro». Per lui la svolta nel rapporto col denaro è avvenuta quando si è passati dalle monete metalliche a quelle di carta. Quella è stata la vera rottura. Quanto a una moneta indipendente dai governi nazionali, era a suo avviso una fortuna. Può darsi che tutto finisca in un disastro, ma non sarà un disastro peggiore di quello provocato puntualmente dai politici sul piano monetario.
«Vede - aggiunse - il mestiere di etnologo mi ha insegnato progressivamente a pensare non in termini di decenni, e neppure di secoli, ma di millenni, anzi di decine di millenni, dunque quando parlo di questo secolo penso che tra due o tremila anni non se ne saprà più nulla. Immagini tra venti o trentamila. Pensiamo a tante cose come importanti ma se le collochiamo nel tempo scompaiono. Ciò non toglie che mi interessino».
Gli chiesi allora cosa era stato fatto, ad esempio, di tanto importante decine di migliaia di anni fa da esserlo ancora oggi. Disse: «Certamente l´invenzione del vasellame, della ciotola per prima, e del tessuto che usiamo ancora. Sono cose più importanti di quelle che si scoprono adesso e di cui non sappiamo se resteranno tali, cioè importanti, nei millenni a venire». Neppure la bomba atomica con la quale l´uomo ha costruito qualcosa che può distruggere l´umanità? «Non sono sicuro che sia vero. Anche se si fanno esplodere tante atomiche insieme non sono certo che si distruggerebbe l´umanità intera». Non resteranno neppure le scoperte nella genetica? «Si, penso che resteranno. Ma via via che si faranno delle scoperte ci si accorgerà che è molto più complicato di quel che si immaginava. Il mondo, la vita sono assai più misteriosi oggi di quanto lo fossero uno o due secoli fa. Perché allora si pensava che fossero semplici».
E la cosiddetta globalizzazione, che rimpicciolisce il mondo, sul piano economico e su quello dell´informazione, diventata simultanea sull´intero pianeta? «Non è una cosa che mi rallegra - mi disse Lévi-Strauss-. Penso che le differenze siano più interessanti. Quando era tutto molto diverso, il cinese poteva aspettarsi molte cose da noi, e noi da lui. Adesso che siamo quasi uguali possiamo aspettarci molto poco uno dall´altro. Immagino che tante differenze riaffioreranno. Presto». Il mondo rimpicciolito dalla velocità delle comunicazioni, dei trasporti, ha ucciso, per lui, anche il viaggio esotico, come esisteva un tempo. Era già minacciato al tempo di Tristi Tropici.

Repubblica 21.11.08
Il premio filosofico
"Viaggio a Siracusa" per Marramao


SIRACUSA - E´ Giacomo Marramao per il saggio La passione del presente il vincitore del Premio di Filosofia "Viaggio a Siracusa", la cui giuria è presieduta da Remo Bodei e Umberto Curi. Il riconoscimento alla carriera va a Maurizio Ferraris, mentre quello per la "tesi di laurea" ad Anna Molinari (Università di Bologna). La consegna si svolgerà durante il convegno "Italia, Europa, mondo: tra paura e speranza", oggi e domani al Palazzo del Senato.

Corriere della Sera 21.11.08
A sette mesi dalla sconfitta elettorale
Il futuro a rischio del Pd
di Paolo Franchi


Quando, un paio di anni fa, la nave del Pd prese finalmente il largo, si disse che stava per nascere non un nuovo partito, ma un partito nuovo. Non voleva essere soltanto un gioco di parole.Di nuovi partiti, dopo il collasso della Prima Repubblica, ne erano nati e morti un'infinità: nessuno avrebbe potuto entusiasmarsi all'idea di metterne su un altro, seppure più grosso, nella speranza che le debolezze di Ds e Margherita, sommate, dessero luogo a una forza.
Porre mano alla costruzione del partito nuovo del centrosinistra, invece, rivelava, o avrebbe dovuto rivelare, ben altre ambizioni. Magari di natura diversa. Quelli che avevano una qualche dimestichezza con il Pci potevano cogliervi, volendo, anche un richiamo al miracolo politico di Togliatti au retour de Moscou (in fondo l'unica rifondazione che il comunismo italiano, trasformandosi da setta di rivoluzionari di professione in partito di massa fedele all'Urss, certo, ma anche radicato in tutte le pieghe della società, abbia mai conosciuto), e insomma una trasfigurazione, e al tempo stesso un inveramento, della loro storia: veniamo da lontano, e andiamo lontano. Ma di Togliatti in giro non ce n'erano, e nel costituendo Pd potevano al massimo inverarsi e trasfigurarsi, come in effetti è accaduto, il Pds e i Ds, che del Pci avevano ereditato quasi tutti i vizi ma quasi nessuna virtù. Quelli che con questa storia non avevano legami, o li avevano più nettamente recisi, immaginavano qualcosa di diverso: un partito come in Italia non c'era mai stato, la casa in cui tutti i riformismi e tutti i riformisti avrebbero potuto vivere da liberi e da eguali, una grande forza post ideologica a vocazione maggioritaria in grado di candidarsi a governare in una democrazia bipolare, e anzi tendenzialmente bipartitica. Ma per gettare le basi di un partito così sarebbe servito un big bang, o almeno un vigoroso rimescolamento delle carte: non se ne è vista traccia, come per primi hanno dovuto constatare (a modo loro, e comunque in solitudine) Marco Pannella e i radicali.
I risultati si vedono. Nessuno, nemmeno quelli che sul nascente Pd erano stati critici e comunque dubbiosi, immaginava che, in un così breve volgere di tempo, la realtà si sarebbe rivelata peggiore delle previsioni più pessimistiche. Sette mesi dopo la sconfitta elettorale, fatica oltremisura a prendere corpo non solo la poesia del partito nuovo, ma anche la prosa del nuovo partito.
Magari perché un partito, vecchio nuovo o seminuovo che sia, è tante cose, nobili e meno nobili. Ma prima di tutto è una comunità di valori e, perché no di interessi, un «grumo di vissuto», direbbe Pietro Ingrao, che non sta insieme se non c'è un mutuo riconoscimento di buona fede e di lealtà. Una comunità in cui si discute, ci si divide e, nel caso, ci si accapiglia, ma avendo sempre chiaro che c'è un limite oltre il quale l'unica prospettiva diventa la scissione o, peggio ancora, l'implosione: e cioè, parafrasando Marx, la comune rovina delle parti in lotta.
È tutto da stabilire se il Pd abbia queste caratteristiche. Anzi, a dire il vero sembrerebbe proprio di no. E sembrerebbe pure che quel limite, se non è già stato superato, sia sul punto di esserlo. Saremmo felici di sbagliare. Ma già ora non ci si chiede tanto quale sarà il futuro del Partito democratico, quanto piuttosto se un futuro il Partito democratico lo abbia, o se invece siamo già all'inizio di una fine annunciata. Come se al Pd stesse capitando qualcosa di simile a quello che capitò, quaranta e passa anni fa, al Partito socialista unificato, con la differenza che allora, nel momento della separazione, fu comunque possibile ai contendenti, peggio che ammaccati, rientrare nelle vecchie case, il Psi e il Psdi, mentre stavolta non ci sarebbero tetti, seppure malcerti, sotto cui trovare riparo nella bufera. O stesse succedendo qualcosa di simile a quello che potrebbe succedere ai socialisti francesi, paralizzati dai contrasti insanabili, di potere e di linea, tra prime donne che non riescono a prevalere l'una sull'altra, ma a bloccarsi reciprocamente sì.
Esagerazioni, forzature, indebite drammatizzazioni? Può darsi. Ma a chi trovasse ingeneroso porre la questione in questi termini, basterebbe suggerire di scorrere le cronache di questi giorni, con il loro ampio corredo di reciproci sospetti sempre più velenosi e di reciproche accuse (dall'insussistenza politica all'intelligenza con il nemico) sempre più infamanti. Ci si può esercitare nel tentativo di stabilire chi porti le responsabilità maggiori. Molto probabilmente, con tutto quello, e non è davvero poco, che gli si può rimproverare, non è il segretario. Ma non è questo il punto. Il punto è se il tutto il Pd è in grado di provarsi a stabilire subito, non domani o dopodomani, come e perché si è andato a cacciare in una situazione come questa, che non si lascia spiegare soltanto con una batosta elettorale prevedibile ma mai davvero indagata, e che la gente del Circo Massimo non merita; e se è ancora possibile uscirne, e per quali vie. Il punto è, in altri termini, se stiamo parlando di un organismo malato sì, ma vitale. In caso contrario, sarebbero guai seri. Per il Pd, si capisce. Ma anche per la democrazia italiana. Che, come tutte le democrazie, di un'opposizione degna di questo nome ha un bisogno vitale.
Specie in tempi calamitosi come quelli che si avvicinano.

il Riformista 21.11.08
La sinistra è come la Cecenia
di Peppino Caldarola


La sinistra è come la Cecenia. Appostati negli angoli o piantati nel bel mezzo del sentiero i cecchini sparano a vista. Gli organismi dirigenti sono sempre sul punto di essere convocati per trasformarsi in tribunali speciali per processare le idee, le amicizie politiche, i pizzini di Latorre. I tiratori scelti hanno preso la scena. Dilagano le "guardie rossicce". Fateci caso, ogni volta che qualcuno apre bocca scatta la richiesta di metterlo sotto processo per offese al capo. Molti di loro hanno costruito una carriera politica presentandosi come liberal. Si sono fatti paladini della rottura con qualsiasi tradizione perché volevano mani libere per scrivere le nuove tavole della legge. Una volta arrivati al potere hanno censito gli avversari del leader e sono sempre pronti a chiederne la testa. Se li incontrate evitateli, hanno in tasca la sentenza anche per voi. Il Partito ex democratico è finito nelle loro mani. Passano la giornata a compulsare agenzie di stampa, a sottolineare le dichiarazione dei sospettati, ad agitare davanti al leader, che sogna Obama ma assomiglia a Chávez, le colpe degli infedeli. State alla larga se ci tenete alla pelle o più semplicemente se volete continuare a essere uomini liberi. Noi apolidi di sinistra nel vagabondare solitario in attesa di una sinistra veramente democratica abbiamo la fortuna di non incontrarli mai. Abbiamo fatto a tempo a evitare Stalin, possiamo tenerci alla larga dagli epigoni. Il vero leader del "P-ex-D" ormai è Di Pietro.

il Riformista 21.11.08
Nella Sinistra ora si fanno sogni coi baffi
Fu Rifondazione. Giordano spera che D'Alema faccia la guerra a Veltroni. E i suoi: «Se facesse la socialdemocrazia staremmo lì». Ferrero: «L'ex segretario non ha il senso del ridicolo». Bertinotti resta cauto sul Pd.
di Alessandro De Angelis


E così anche una parte di Rifondazione - anzi una parte dell'area di Nichi Vendola - ha un sogno proibito. Che si chiama Massimo D'Alema. Certo, dicono in molti, anche lui ha dei limiti: è volubile, più attento alla tattica che al tema dell'identità. Ma Massimo è Massimo: uno tosto, che viene dal Pci. Mica un gruppettaro di Democrazia proletaria alla Ferrero. E ieri l'ex segretario Franco Giordano il suo I have a dream l'ha consegnato al manifesto: «Nel Pd ci sono due linee politiche, è il momento di farle emergere». Praticamente: Massimo, facci sognare.
Giordano&Co la partita grossa se la vogliono giocare dopo le europee. Quando nel Pd - almeno così pensano - D'Alema aprirà il fuoco su Veltroni. Per ora si sono attestati sulla linea del "né né" (né nel col Pd né con Ferrero): «Non serve - ha detto Giordano - una sinistra identitaria e nostalgica, e non serve neanche una sinistra che fonda la sua cifra sull'impostazione di governo e sul condizionamento di un partito che si definisce di centro». La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la lettera di Veltroni a Galli della Loggia sul Corriere di due giorni fa. Dicono gli uomini vicini all'ex segretario: «Walter ci aveva dato segnali di apertura ma quando Confindustria gli ha presentato il conto dicendogli niente alleanze, lui si è sdraiato come uno zerbino». Massimo, invece, è fatto di tutt'altra pasta. Qualcuno a microfoni spenti si lancia: «Se ci fosse un partito socialdemocratico di stampo bersaniano, noi faremmo la sinistra lì dentro. Sarebbe bene che D'Alema dicesse in pubblico quello che dice in privato». Patrizia Sentinelli, a microfoni accesi, va cauta: «Certo che ci interessa di più una linea che abbandoni la strategia neocentrista. Ma la discussione deve partire dai contenuti: scuola, lavoro, difesa del contratto nazionale dopo l'attacco di Berlusconi a Epifani».
Per ora D'Alema, in privato, ha blindato Vendola in Puglia. Non sono infatti in pochi - nel Pd - quelli che vorrebbero un cambio di cavallo in vista delle prossime regionali. Ma il leader maximo ha fatto sapere che «Nichi non si tocca». Dentro Rifondazione, se Giordano ha cucinato il messaggio politico, la riflessione "alta" l'ha fatta Bertinotti ai suoi: «Se la Cgil tiene sul conflitto sociale il Pd non regge, si può rompere. A quel punto si apre un'altra fase». Per questo ha frenato sulla scissione di Rifondazione spostando avanti l'obiettivo: «Va ricostruita la sinistra. E i tempi non sono brevi. Di certo la scadenza non sono le europee» è quello che ripete come un mantra e su cui ha scritto una riflessione approfondita su Liberazione, aprendo un dibattito col fior fiore dei ragazzi del secolo scorso, da Mario Tronti a Rossana Rossanda. Fausto però sul Pd è più cauto. Oggi farà uscire un articolo, sempre su Liberazione, firmato da Alfonso Gianni, la sua ombra, e Alfiero Grandi (Sd) in cui la proposta è «una lista di coalizione della sinistra per le europee». Praticamente una sorta di Arcobaleno che non cancelli i simboli dei singoli partiti. Ovvero, un altro modo per dire no alla scissione.
Il "né né" (sottotitolo: aspettando D'Alema) è quasi un "bye bye" a Claudio Fava: una lista solo con lui dentro Rifondazione ormai sono in pochi a volerla fare. E dentro Sd sono sull'orlo della crisi di nervi. Per gli ex ds il nuovo soggetto unitario («La sinistra») s'ha da fare, senza se e senza ma, in vista delle europee. Spiega il leader di Sd Fava: «Nel paese c'è bisogno di una sinistra. L'accelerazione è nei fatti e i dirigenti dei partiti non possono fingere che il processo non sia in corso. I gruppi unitari stanno nascendo ovunque. Non si tratta di una sinistra collocata a metà tra Rifondazione e il Pd come teme Bertinotti ma al di sopra di questa geografia politica. Non dico che le europee sono l'autobus della storia ma quasi».
Uno che la socialdemocrazia non la vuole - nemmeno con i baffi di D'Alema - è Paolo Ferrero: «Giordano non ha il senso del ridicolo. Da una posizione di debolezza vuole pure dare consigli su come si fa la scissione nel Pd. Vedo le differenze tra D'Alema e Veltroni sull'organizzazione del sistema politico ma sui contenuti no». Ferrero si muove in tutt'altra direzione. In questi giorni sta incontrando i vari segretari dei partiti della sinistra (ieri il segretario del Pdci Diliberto) per lanciare la sua idea di un coordinamento di tutte le forze di opposizione. Ma guai a chi tocca falce e martello: «Non sono un nostalgico - prosegue - ma se uno non sa chi è non va da nessuna parte». Ma dentro Rifondazione avanza la socialdemocrazia targata D'Alema.

Repubblica Firenze 21.11.08
Il David di Magherini uno specchio per tutti
Quella statua è magnetica
Una percezione che interroga le latenze omosessuali di alcuni visitatori
di Anna Benedetti


Il David di Michelangelo come specchio profondo dell´anima, dove ciascuno di noi riesce a cogliere quel barlume di se stesso ignoto ma che vuole rivelarsi. Nelle sale dell´Accademia un gruppo di studiosi guidati da Graziella Magherini hanno analizzato le reazioni dei visitatori davanti al capolavoro. Il risultato è nel nuovo libro della psichiatra fiorentina, Mi sono innamorato di una statua. Oltre la sindrome di Stendhal che sarà presentato oggi alle 17.30 alla Biblioteca delle Oblate (via Sant´Egidio 21) da Cristina Acidini e Vera Fortunati nell´ambito di «Leggere per non dimenticare».
Le righe prescelte riguardano un visitatore che si immedesima nel David, pronto a sperimentare emozioni tanto più intense quanto più l´opera diventa lo specchio di sé (pagg. 133-135).
Tre turisti viaggiatori, colti, sensibili, che hanno scelto il confronto con il luogo d´arte in un rapporto diretto, non mediato dall´organizzazione turistica, una scelta nella sfera intima delle relazioni. Sono arrivati in successione cronologica alla mia osservazione nell´arco degli ultimi tre anni. Dimensioni profonde, motivazioni, bisogni, spinte innate e comuni a tutta l´umanità entrano nella complessa relazione tra questi visitatori-fruitori e il David. (...) Benoît, universitario francese, (...) si sente aggredito da una percezione molto forte "insostenibile" ed è vicino all´attacco di panico. "Non capisco che cosa mi sia accaduto (...). Quest´opera determina un campo magnetico, uno spazio contaminato, elettrizzato (...). Si coglie la perfezione anatomica nei meandri periferici del corpo, l´anatomica precisione di tutti i particolari. La mia reazione non è stata contemplativa. Si reagisce, è un´azione. E´ una percezione molto forte, è uscito il movimento. Non è una statua immobile, il gesto del piede che è alzato con le ginocchia, che sta per andare (?). Molto sensuale". Benoît ha esposto se stesso all´esperienza estetica e si è sentito disturbato perché la percezione dell´opera ha richiamato parti latenti della sua personalità, ha ?interrogato´ la parte omosessuale scatenando una tempesta emozionale. In un colloquio successivo, in perfetto italiano, facendo nuovamente un resoconto dell´esperienza, rasserenato, dichiara: "La forma del David investe platonicamente l´una e l´altra parte di quella totalità, la quale solo perché divisa cerca l´altra parte. La totalità ritorna alla sua pristina indivisa unità di armonia". Abbiamo concluso con Benoît, che molti visitatori di incerto assetto psicosessuale, soprattutto se giovani, possono venirne turbati.

giovedì 20 novembre 2008

Repubblica 20.11.08
"Non denunceremo i clandestini ammalati"
Medici contro il governo
di Mario Reggio


ROMA - Denunciare gli irregolari ammalati come vuole il governo? I medici non ci stanno e si scagliano contro l´emendamento al pacchetto sicurezza all´esame del Senato presentato dalla Lega e condiviso dal ministro del Welfare Maurizio Sacconi. «Siamo indignati e preoccupati, non denunceremo i clandestini perché è contro le norme morali della professione medica», è il commento degli specialisti della Società italiana di Medicina delle Migrazioni. «Per gli immigrati il Servizio sanitario nazionale è a rischio», afferma Roberto Lala, segretario del Sindacato unico di medicina ambulatoriale italiana. Una posizione condivisa dalla Federazione nazionale degli Ordini dei medici.
E contro la richiesta del ministro dell´Interno Roberto Maroni di bloccare per due anni i flussi migratori, escludendo per il 2008 colf e badanti, si schiera l´Arci: «Una norma invocata in nome della crisi finanziaria ed economica, una scelta sbagliata e pericolosa - commenta il responsabile immigrazione Filippo Miraglia - il blocco produrrà altre ingiustizie e sofferenze, senza risolvere i problemi creati dalla recessione». Dell´emergenza integrazione ha parlato ieri anche il cardinal Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale italiana: «L´integrazione è un versante problematico rispetto al quale la Chiesa sa di dover dire il suo sì agli italiani, indicando la strada della moralità sociale e della legalità pubblica».
Ma torniamo all´assistenza sanitaria agli immigrati clandestini. Le associazioni dei medici ribadiscono il loro dissenso nei confronti della proposta della Lega. «Il pacchetto sicurezza modifica la norma per la quale l´accesso alle strutture ospedaliere e territoriali dello straniero non in regola non può comportare alcun tipo di segnalazione all´autorità, salvo i casi in cui sia obbligatorio il referto, a parità di condizioni con il cittadino italiano».
L´obbligo di denuncia, infatti, «metterebbe in serio pericolo l´accesso alle cure mediche degli immigrati irregolari, violando il principio universale del diritto alla salute, fortemente affermato dalla nostra Costituzione» che «tutela la salute come fondamentale diritto dell´individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti». Per i medici, «vale la pena sottolineare come la Carta costituzionale non subordini al possesso di alcun requisito il riconoscimento del diritto alla salute e quindi all´assistenza». E ancora: con l´impostazione illustrata dal ministro Sacconi e le proposte della Lega si costringerebbe il medico ad andare «contro le norme morali che regolano la sua professione contenute nel codice deontologico»regolano la sua professione contenute nel codice deontologico e si rischierebbe inoltre «una clandestinità sanitaria, pericolosa per l´individuo e per la collettività».
Se il governo tenta di isolare gli immigrati clandestini, la Regione Toscana va nella direzione opposta. Il presidente Claudio Martini ha illustrato il testo della proposta di legge che, tra gli altri provvedimenti come mense e dormitori, conferma l´assistenza sanitaria ai clandestini: «Vogliamo ampliare l´offerta per costruire un modello civile di convivenza civile». E l´Associazione italiana pneumologi ospedalieri lancia l´allarme: «C´è il rischio reale che si diffonda la malattia tubercolare con danno per la sanità pubblica, perché un clandestino, costretto anche a pagare le prestazioni, eviterà di sottoporsi ai controlli medici».

Repubblica 20.11.08
Il centenario del ‘68
Una controversa eredità fra utopie e conformismi
di Pietro Citati


Un fenomeno lentissimo e interminabile Un´imitazione che pose fine a uno dei periodi migliori, più lieti e pieni di idee del nostro Novecento, quello che va dal 1952 al 1966
"L´immaginazione al potere": il motto imponeva la rinuncia a studi severi
Certi slogan ricordavano le rime baciate del "Corriere dei Piccoli"

Durante questi mesi, moltissimi hanno celebrato il centenario del 1968 in modi che trovo singolari. Da un lato, il 1968 veniva visto come un momento di libertà assoluta, di allegria, di velocità, di gioia: un irrompere di giovinezza nel tedio della storia: uno scoppio di immaginazione travolto dal tempo; una "similitudine", avrebbe detto Leopardi, di felicità. D´altro lato, se guardiamo i superstiti del 1968, come una volta scorgevamo quelli della prima guerra mondiale, con le medaglie e i nastrini appesi sul petto, ci accorgiamo che sono molto invecchiati: portano bastoni da passeggio, cornetti acustici, palpebre gonfie e stanche, guance avvizzite: sono direttori di giornali, banchieri, industriali, deputati, senatori, ministri, sottosegretari; formano tutta, o quasi tutta, la classe dirigente italiana di oggi. Di quel lampo, vero o immaginario, di felicità, non resta, ahimé, nemmeno il più lontano barlume.
La storia moderna d´Italia conosce un solo momento sopportabile: gli anni dal 1952-1954 al 1966: meno di quindici. Erano i tempi della ricostruzione: masse di emigranti meridionali raggiungevano Torino e Milano, entravano nelle fabbriche, abitavano in catapecchie o in vecchie case degradate, si propagavano in ogni paese, causavano un impetuoso boom economico, accolti da ventate d´odio e di razzismo. Il paese era velocissimo, lieto, pieno di idee e iniziative: si allungavano le autostrade, dove Enrico Mattei fece aprire toilettes profumate: venivano scritti L´isola d´Arturo, il Pasticciaccio, Il seme del piangere, Il gattopardo: i giornali cambiarono stile: gli americani esportarono miliardarie e ballerini al Festival di Spoleto: i francesi scendevano in Italia ammirati, dicendo: «Ah! les italiens!»; mentre Alberto Arbasino, non ancora trentenne, esplorava con la sua piccola Cinquecento città, festival, film, paesi e scrittori stranieri, raccontando ogni mercoledì cosa aveva visto nella settimana. Confesso di non essermi mai divertito tanto, sebbene avessi pochissimi soldi e (per fortuna) pochissima autorità.
Poi venne il 1968: un´imitazione, come tutto quello che accade, da allora, in questo paese consacrato alla ripetizione. Fu lentissimo e interminabile: visto che in Italia anche soffiarsi il naso è un´impresa fisica e intellettuale che esige almeno due settimane. Ecco gli autonomi, i neostalinisti, i libretti rossi di Mao, i pensieri di Franco Fortini, Lotta continua, Prima linea, Servire il popolo, le Brigate rosse, i primi attentati nelle banche, nei treni e nelle stazioni, le auto incendiate nel centro di Roma, il delitto Calabresi, il delitto Casalegno, il delitto Tobagi, il delitto Moro; e poi, via via, i politici che raccoglievano miliardi a piazza del Duomo con la "ventiquattr´ore"- e tutto quello che forma l´oggi: Antonio Di Pietro, Berlusconi, Veltroni, Formigoni, Bossi, Diliberto, Rizzo, Calderoli, Gasparri, La Russa, Storace e Alessandra Mussolini. Se uno ci pensa, viene assalito da una specie di tedio che si conosce soltanto in Italia: solido e immortale come il marmo.
Il 1968 conobbe l´istinto o il desiderio o l´immaginazione utopici, che allora erano sconosciuti in Italia, sia tra i democristiani sia tra i comunisti. L´istinto utopico indica qualcosa di irreale o inverosimile, che occupa la nostra mente, e ricorda da lontano l´immaginazione poetica. Appena qualcuno tenta di realizzare l´utopia, accade il disastro, come diceva Goethe: il sogno e la speranza si trasformano in crimine, attentato, sangue; le frasi del Vangelo diventano le frasi sinistre di Robespierre e di Saint-Just. Così è, per l´appunto, accaduto in Italia, dove l´utopia delle prime manifestazioni studentesche condusse, senza interruzione, fino al delitto Biagi. Nessuno può essere criminale come un sognatore che compie il proprio sogno, soprattutto a causa della sua buona coscienza, che lo fa sentire eternamente nel buono e nel giusto.
Quand´ero ragazzo, partecipavo alle manifestazioni che costringevano i figli della lupa, i balilla e gli avanguardisti a marciare sui viali di Torino, con le gambe e le braccia distese verso l´alto, quando Mussolini visitava la città. Per mia fortuna, non ero capace di marciare e venivo abbandonato, come un abbietto colpevole, nell´angolo di un viale o di una piazza. I giovani del 1968 non sapevano di assomigliare ai balilla del periodo fascista. Indossavano una specie di divisa, si inventavano avversari (la polizia), cantavano canzoncine a rime baciate simili a quelle del Corriere dei piccoli, si nascondevano il viso con un eroico passamontagna. Non c´era paragone con le severe manifestazioni che anni prima, sotto gli occhi di Togliatti o Di Vittorio, portavano in piazza i comunisti e gli operai.
Negli anni tra il 1954 e il 1966 in Italia non esistevano quasi mafie: o soltanto quella siciliana e la camorra. La società era libera: non era divisa in corporazioni legate da ferree omertà; l´istituto della raccomandazione non era divenuto più importante della bandiera nazionale. C´erano continui concorsi per le scuole: era facilissimo vincere cattedre nei licei, negli istituti tecnici o nelle medie ? alle quali oggi aspirano invano dottorandi quarantenni. Scrivere su un giornale importante era accessibile a un ventiduenne. Oggi, tutto è immobile e pietrificato: chi occupa un posto a trent´anni lo conserva fino alla morte, salvo a salire gli ordinati gradini della sua carriera. La società è divisa in gruppi corporativi: politici, economici, letterari, medici, giornalistici; e se oggi esiste ancora un barlume di libertà, è soltanto perché i gruppi mafiosi sono moltissimi, e tra l´uno e l´altro si aprono ancora dei buchi o delle lacune, dove una persona libera può sopravvivere.
Uno dei motti del 1968 fu l´immaginazione al potere: motto, come è naturale, d´origine francese. Esso imponeva la rinuncia alla lettura sistematica e agli studi severi: non più voti secondo le capacità, il talento e la cultura; ma il sinistro voto politico eguale per tutti. Da allora ad oggi, la situazione è così peggiorata, che Mario Capanna ha acquistato la statura del grande studioso. All´università, prima del 1968, i professori intelligenti facevano leggere alcuni grandi testi, che costituivano la base della cultura futura dei giovani. Oggi, quasi nessuno legge più nulla: o, al massimo, fotocopie di piccole fette di libri, fascicoli di cinquanta o cento pagine, che dovrebbero fungere da cultura.
C´è una cosa che amo in una parte degli eredi del 1968: l´idea che la cultura non è una specializzazione o una tecnica. L´uomo colto conosce Dante e Melville, Shakespeare e Goethe, la filosofia platonica e quella taoista, il Cristianesimo e l´Islam, Petrarca e Baudelaire, la storia delle crociate e quella dell´Unione Sovietica, Einstein e i buchi neri. La sua mente sta dovunque a casa propria, viaggia, si sposta, cambia, si trasforma. Quest´idea mi piace moltissimo, sebbene abbia scarsa fortuna. Sarebbe bellissimo che, come ultima eredità, il 1968 ci lasciasse Michel de Montaigne, il grande apicultore, che diceva: «Le api saccheggiano fiori qua e là, ma poi ne fanno il miele, che è tutto loro».

Repubblica 20.11.08
Nei segreti dei "déjà vu" la chiave della memoria
Può capitare di vivere una situazione e credere di averla già vissuta Da questa sensazione si può ricostruire il meccanismo dei nostri ricordi
di Elena Dusi


Il cervello registra gli episodi ma li immagazzina in maniera imprevedibile

E se alla fine il "déjà vu" si rivelasse la porta giusta, per penetrare i segreti della memoria. Se lo spaesamento che produce fosse una sorgente di indizi preziosi per capire come il cervello spezzetta, smista e immagazzina i ricordi. A volte sbagliandosi, sovrapponendo il nastro del presente con quello del passato e rivelando indizi preziosi su quel dietro le quinte della memoria che Shakespeare equiparava a "una piramide costruita dal tempo", che ci inganna con il "rivestimento di uno spettacolo già visto".
Invece di partire dalle certezze (che non ci sono, dato che il fenomeno del déjà vu è stato spiegato con una trentina di teorie scientifiche diverse), Anne Cleary della Colorado University si getta in quella nuvola di sensazioni indistinte che gli psicologi chiamano di "familiarità". «Possiamo incontrare un uomo al supermercato - spiega la Cleary, autrice di un articolo uscito ieri sulla rivista Current directions in psychological science - e ricordare di averlo già visto sull´autobus proprio il giorno prima. Oppure possiamo riconoscere il suo viso come familiare, ma interrogarci invano sulle circostanze che ce lo hanno reso tale». Negli istanti in cui abbiamo la sensazione di "esser già stati qui" accade esattamente la stessa cosa: siamo convinti di riconoscere una situazione, ma non riusciamo a risalire al perché.
Secondo la psicologa americana, il déjà vu è il classico esempio di memoria che si accende ma non ricollega. «Consiste nel riconoscere una situazione come familiare senza riuscire a identificare la sorgente di questa familiarità. E non è un caso che questi fenomeni avvengano più di frequente nelle persone che viaggiano molto, ricordano con nitidezza i loro sogni o vedono parecchi film». Il fatto che i bambini fino a dieci anni non ne abbiano esperienza indica che serve un cervello abbastanza sviluppato per provare quella che Sant´Agostino definiva "una trappola del demonio". E le ricerche della Cleary confermano ciò che la neuroscienza della memoria aveva già intuito da tempo: gli episodi che ci accadono di giorno in giorno vengono spezzettati dal cervello (suoni da una parte, odori o colori dall´altra) e immagazzinati sotto forma di ricordi in aree diverse della nostra mente. La scintilla del déjà vu si accende probabilmente quando un´esperienza del presente si ritrova a coincidere con una delle tessere che compongono il puzzle dei ricordi del passato. Basta un singolo elemento ripescato dalla memoria a ricreare la scena per intero, dandole quel tocco di familiarità tipico del déjà vu. Ecco come un ricordo diventa immagine attuale.
Questa teoria riesce a spiegare anche un fenomeno che l´anno scorso aveva lasciato i ricercatori senza parole. Chris Moulin dell´università di Leeds, uno dei più grandi esperti di questo "granello di sabbia" che finisce nei meccanismi della memoria, aveva descritto sulla rivista Brain and Cognition il caso di un cieco avvezzo ai déjà vu. La sensazione scattava quando l´uomo udiva una zip aprirsi, ascoltava un certo brano musicale o percepiva dei frammenti di conversazione in un contesto preciso. Per far fronte all´imprevedibilità della sensazione di aver già vissuto questo momento - impossibile ricrearla a comando in laboratorio - all´università di Leeds hanno perfino tentato con l´ipnosi. Ma lei era già fuggita per tornare nell´oblio.

Repubblica 20.11.08
Sulle tracce di Erode
Nuove scoperte: ritrovati la tomba e il sarcofago a colloquio con lo studioso Ehud Netzer
Tra archeologia e politica


National Geographic Magazine pubblicherà un servizio sulle ricerche dell´archeologo Ehud Netzer: la rivista sarà in edicola a partire dal 29 novembre. In programma anche un documentario su National Geographic Channel (il 7 dicembre alle 22, canale 402 di Sky).

È molto probabile che la strage degli innocenti sia una leggenda senza basi storiche
"I Palestinesi negano l´esistenza dell´antico tempio di Gerusalemme e vietano gli scavi"

ROMA. Erode, al suo nome non c´è chi non inorridisca: da Giotto a Beato Angelico, Guido Reni o Poussin hanno immaginato in molti modi diversi la sua "Strage degli innocenti" narrata nel Vangelo di Matteo, l´omicidio di tutti i bambini appena nati ordinato dal despota quando seppe che i Re Magi stavano cercando un neonato davvero speciale, il futuro Re dei Giudei. Eppure non c´è evidenza storica di quegli assassinii. Nessuna cronaca ne parla. E Erode (73 - 4 a. C.), prima Governatore e poi, dal 37 a. C., re della Giudea per incarico dei Romani, emerge dalle ricerche sì come un tiranno spietato e sanguinario (fece uccidere una delle sue numerose mogli, la più amata, Marianne, il cui ricordo continuò a tormentarlo tutta la vita, e tre figli che pensava stessero tramando contro di lui), ma soprattutto come un geniale costruttore, l´ideatore di opere ambiziose e estreme che cambiarono il paesaggio di Israele.
Parliamo dell´ardita reggia di Masada alzata su tre spericolate terrazze sotto cui si apre l´abisso del deserto e del Mar Morto, teatro di una delle ultime difese degli ebrei che infine si suicidarono pur di non consegnarsi ai romani, o dell´ammodernamento del porto di Cesarea per il quale fu progettata una inedita barriera di cemento subacqueo su cui innalzò maestosi colonnati. Suo fu anche l´ampliamento del Tempio di Gerusalemme, eretto da Salomone nel X secolo a. C., poi distrutto dai babilonesi nel 586 a. C. e ricostruito circa 50 anni più tardi: lavoro grandioso, iniziato fra il 20 e il 19 a. C., per il quale fece imparare l´arte muraria a mille sacerdoti, gli unici a poter entrare nelle parti più sacre del complesso circondato dalla cinta esterna (ne faceva parte il famoso Muro del Pianto dei nostri giorni), un´opera dovuta anche al desiderio di essere accettato dai sudditi che non lo consideravano uno di loro sia perché aveva una madre non ebrea, ma soprattutto perché si era alleato con Roma.
Ma se oggi descriviamo questa figura storica di cui Giuseppe Flavio ha tanto narrato nelle Antichità giudaiche, è perché tra le sue creazioni monumentali, ce n´è una particolare, l´Herodion, rimasta a lungo quasi misteriosa, una cittadella che porta il nome del suo costruttore eretta sulla cima di una collina fatta come un cono spezzato a 13 km da Gerusalemme, nel mezzo del deserto: sui suoi resti si accanisce da 36 anni un archeologo israeliano con una forte base di studi architettonici, Ehud Netzer, che proprio ieri ha annunciato nella capitale israeliana le ultime scoperte.
Innanzitutto il perfezionamento di ciò che ha cercato a lungo: l´individuazione della tomba e il ritrovamento del sarcofago rosa finemente istoriato del Re (ritrovato nel 2007 e ora ricostruito per circa il 35 per cento), pietre ridotte in centinaia di frammenti dagli ebrei che, durante la prima rivolta contro Roma, nel 66 d. C., lo distrussero per risentimento contro l´alleato del nemico. Accanto c´erano altre due tombe, bianche (una ornata e l´altra no) ricomposte adesso all´80 per cento, semplicemente buttate di sotto da quella che si è rivelata la base del mausoleo. Sono emersi resti ossei? No. Iscrizioni? «Non ce ne sono, ma nelle tombe ebraiche di allora è la norma. La tomba rosa, ne sono sicuro al 98 per cento, è di Erode; le altre due, databili allo stesso periodo, possono appartenere a una delle sue mogli, forse alla madre di Archelao e Antippa, Malthace. Forse alla prima amatissima congiunta, Marianne. Forse, alla seconda sposa di Archelao, Glaphyria», spiega Netzer anticipandoci i contenuti della conferenza stampa a Gerusalemme: settantaquattrenne imponente, due giorni fa era di passaggio in Italia.
«Ora che ne ho intuito gli assi e i singoli monumenti, capisco che la concezione di Herodion è eccezionale: basta pensare che il magazzino per il cibo è grande quasi come tutta Masada. L´intera struttura, di 20 ettari, fu voluta e pensata quale scenografia dei propri funerali, con mausoleo, giardini, cittadella monumentale e palazzo annesso», prosegue. «Tutto cominciò quando alla base della collina, alcuni anni dopo la Guerra dei Sei Giorni, trovai una grande vasca, un colonnato, dei giardini. Il terreno fu trasformato in un parco nazionale. Continuai gli scavi. C´era una grande piattaforma lunga 365 metri: poteva essere un ippodromo, ma era larga solo 30 metri. Non era chiaro di cosa si trattasse. Proseguivo, cercavo il mausoleo e la tomba, perché Giuseppe Flavio aveva descritto per filo e per segno le faraoniche esequie di quel re». Niente da fare: ogni volta Netzer si sentiva sul punto di arrivo, ma non era vero. Come le tre volte che vennero alla luce delle grandi pietre istoriate che si dimostrarono sì di periodo erodiano, ma riutilizzate per tre chiese bizantine.
I lavori, per di più, dovevano interrompersi spesso e a lungo, con la Prima Intifada e il terrorismo, dall´87 al ´97, e poi con la seconda, dal 2000 al 2005. Lavorare era troppo pericoloso. Chiediamo a Netzer se i palestinesi contestassero gli scavi, ma «no» risponde lui, «sul fatto che Erode sia storia, non hanno niente da dire visto che era di madre nabatea, non ebrea. Ma il periodo era poco propizio per scavare così isolati nel deserto come eravamo. Sono invece molto preoccupato del fatto che i palestinesi neghino l´esistenza dell´antico Tempio di Gerusalemme: è incredibile, non c´è archeologo, di qualsiasi religione o provenienza egli sia, che abbia dei dubbi a proposito. Eppure dal 2000 sostengono questa assurda teoria, che sotto la Spianata delle moschee non ci sia mai stato il Tempio, un´affermazione tutta politica, volta a degiudaizzare Gerusalemme, a non riconoscerne il profondissimo legame con gli ebrei e, alla fine dei fatti, la legittimità di Israele. Non ci fanno studiare il sottosuolo della Spianata, mentre loro ci lavorano, e sembra che gettino quella terra così preziosa per capire il passato».
Andiamo avanti con l´Herodium. Netzer trovò un mikveh, un bagno rituale, un ambiente che spesso si trova vicino anche alle tombe ebraiche, perché dopo una visita ai morti bisogna purificarsi. Fu individuato anche un Triclinium, un grande luogo dove sostare, come c´è a Petra. «Nel 2007, capimmo che la collina era artificiale solo in parte, in quella superiore: prima la costruzione rotonda in vetta, il palazzo, era visibile in tutta la sua altezza da Gerusalemme. Poi, solo 2 o 3 anni prima della morte, Erode decise di alzare la terra intorno, e farne un monumento interrato fino ad un certo punto, un´idea simile a quella di Augusto o di Adriano».
C´è anche la lunga scala, citata da Flavio Giuseppe. Stretta nella parte alta, verso la cittadella, ma larga tra lo slargo e il mausoleo a metà collina, adatta insomma a farci passare una processione: «Quello che all´inizio mi era sembrato un ippodromo non era altro che il luogo di raduno delle truppe e delle genti che avrebbero dovuto formare il corteo funebre salendo fino alla tomba». Una scenografia degna di un kolossal, che terminava nel mausoleo non enorme ma di tutto rispetto di cui vennero infine trovate le basi: le pietre indicano che fosse alto 25 metri, istoriato, un quadrato con lati di 8,7 metri, con al centro un colonnato rotondo e una cupoletta conica in cima. Del complesso erodiano fa parte anche un teatro per 750 persone venuto alla luce proprio negli ultimi mesi: in alto sulla platea, una loggia di circa 7 metri per 8, ornata di dipinti e stucchi murali di tipo pompeiano, ricchi di colori, arancioni, celesti, verdi, con fregi, alberi e animali (ma il restauro non è ancora visibile): «un fatto inedito nelle costruzioni ebraiche, che non ammettono arte figurativa. Sono certo che Erode fece venire la mano d´opera dall´Italia. E sono anche sicuro che sia del 15 a. C. circa, e ciò dimostra come allora l´Herodion fosse pieno di vita: forse gli spettacoli del teatro furono organizzati proprio per la visita di Marco Agrippa».
Resta un interrogativo di fondo. Bisogna capire perché Erode volle un complesso tanto imponente in pieno deserto. «Perché nel 40 a. C. era stato il luogo di una battaglia per lui decisiva. Gerusalemme stava per essere conquistata dai Parti: di notte Erode riuscì a fuggire nel silenzio verso Masada portandosi dietro ben 5000 uomini. Inseguito non si sa bene se dai Parti o dagli ebrei o da tutti e due, mentre marciava vide sua madre cadere da un carro, la prese per morta. Voleva uccidersi, ma sopraggiunsero i nemici. Si batté, vinse, ricoverò la madre poi sopravvissuta e i suoi uomini a Masada. Poi fece una scelta fondamentale, andò a Roma dove ottenne la protezione del Triumvirato. Dopo tre anni sarà Re della Giudea».
Una vita dedicata a Erode. Netzer è più che soddisfatto di avere tra le mani quel sarcofago rosa, la tomba del Re, di aver capito il disegno sontuoso di Herodium con il palazzo e l´assetto monumentale per il corteo funebre e il riposo eterno. Qualcosa che doveva continuare a portare il nome di Erode dopo la sua morte. «Ma non ho una passione per lui. Lo ammiro per le sue realizzazioni. Ha fatto cose eccelse, come un architetto moderno: con una logica ferrea, dove ogni elemento ha una funzione».

il Riformista 20.11.08
Sono ottocento i bambini curati per abusi in Veneto
Dati inediti. Violenze soprattutto in famiglia, le vittime dai 6 ai 10 anni. Iniziativa della Regione.
di Antonella Benanzato


Verona. L'identikit del bambino abusato è di nazionalità italiana, di sesso femminile e di età compresa tra i 6 e i 10 anni. L'abuso sessuale sui bambini, il più odioso dei crimini, genera ferite profonde nel corpo e nell'anima, e spesso avviene in famiglia. Un dolore che necessita di terapia psicologica e sostegno costante. Il Veneto, su questo fronte, è in prima linea. Dal 2004 ad oggi, attraverso i suoi centri regionali specialistici sparsi in tutte le province, ha in cura oltre 800 bambini abusati e maltrattati. Si tratta, purtroppo, della punta dell'iceberg rispetto a un "sommerso" probabilmente molto più esteso.
Le cifre, finora inedite, sono emerse a Verona, nel corso del convegno "Rilevare. Pensare. Fare. Abuso sessuale e maltrattamento all'infanzia". All'iniziativa, promossa dalla Regione Veneto e svoltasi nella sede della Banca Popolare di Verona, ha preso parte l'assessore alle politiche sociali, Stefano Valdegamberi (nella foto). Obiettivo: definire le buone prassi per assistere questa fragile tipologia di piccoli pazienti. Un'occasione che ha permesso di stabilire, secondo i dati in possesso degli stessi centri specialistici, che sono in prevalenza bambine di nazionalità italiana a subire abusi e maltrattamenti, mentre tra gli stranieri prevale la cittadinanza rumena, seguita da quella marocchina e ghanese. Purtroppo, la maggior parte degli abusi e maltrattamenti avviene in ambiente intrafamigliare e in modo reiterato. Ai servizi sociali arrivano segnalazioni da parte di genitori, fratelli o sorelle. Indicazioni che vengono poi inoltrate ai servizi sociali e, dalle Ulss, direttamente ai centri di assistenza.
I centri regionali specialistici (presenti a Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Belluno e Venezia) da gennaio ad agosto 2008 hanno effettuato circa 8.100 interventi, con una media di 27 prestazioni per minore. Il 67% delle cure riguarda la presa in carico psicoterapeutico, educativo e sociale dei bambini, il 29% riguarda la diagnosi e il 3% interventi richiesti dall'autorità giudiziaria.

Corriere della Sera 20.11.08
L'errore degli Alleati
di Luciano Canfora


«Storia in rete» segnala che il «Sunday Telegraph» ha pubblicato documenti, finalmente accessibili, relativi al memorabile agosto '39. Si tratta dell'offerta di Stalin alla delegazione anglo-francese (purtroppo di basso rango) di «un'armata di un milione di uomini, 9.500 carri armati e 5.500 aerei» da scagliare preventivamente contro il Reich hitleriano. L'ammiraglio inglese Drax rispose ai sovietici di «essere autorizzato dal suo governo solo a discutere, non a fare accordi». E la trattativa fallì. Poco dopo fu firmato il «patto di non aggressione» russo-tedesco. Lo storico russo Sotskov ha commentato: se gli anglo-francesi avessero accettato la proposta (cui incoscientemente si opponeva Varsavia), mai si sarebbe prodotto il «patto», con le sue conseguenze. La rivelazione è interessante, non nuova.
Già Churchill aveva scritto nel I volume della Storia della seconda guerra mondiale: il nostro errore fu di non accettare l'alleanza a tre contro Hitler.

Corriere della Sera 20.11.08
Raffaello, la Madonna ritrovata
Microscopi, bisturi e stucco Così una tela tormentata recupera l'incanto del colore
di Wanda Lattes


Sono dieci anni che il restauro della «Madonna del Cardellino » tiene impegnate decine di uomini e donne. Ma è lei, Patrizia Riitano, la persona incaricata ufficialmente di riportare il capolavoro alla sua bellezza originale. Le chiediamo di ricordare le varie fasi dell'intervento. Il viso ancora teso per la lunga battaglia contro il tempo, Patrizia Riitano indica con una mano i punti del dipinto che si sono rivelati più problematici, i recuperi quasi impossibili, mostra le microscopiche lamette, i pennelli filiformi usati alla fine, quando le indagini avevano già dato risposte indiscutibili.
La «Madonna del Cardellino », come oramai molti sanno, era andata in pezzi nel 1547 per il crollo di una collina, pochi anni dopo che Raffaello l'aveva creata, nel 1506, come dono di nozze a un amico. Restaurata e addirittura in piccola parte ridipinta già nel Cinquecento, è stata nei secoli maneggiata, scurita, schiarita, ritoccata secondo gli usi e le tendenze del tempo, e dunque il restauro pittorico — ricorda la Riitano — doveva partire dall'accertamento delle «verità» di Raffaello. Cioè: imprimitura, pigmenti, e colori, dagli azzurri del manto o del cielo al rosso della testa del cardellino, all'oro delle aureole.
Ottenute dalla fluorescenza molte certezze sui colori, dopo che le radiografie avevano dato il panorama esatto delle fratture e del sistema di chiodi che nei secoli aveva rimesso assieme l'opera, i restauratori hanno stabilito quanto film pittorico originale fosse andato perduto, quanto e quale materiale colorato fosse stato aggiunto nei secoli da varie mani, soprattutto nell'Ottocento. Insomma hanno accertato il Vero e il Falso. Ma il Vero per fortuna era moltissimo, anche se in parte nascosto. La Riitano rivendica con gioia questa sicurezza: «Il viso di Madonna, per esempio, era salvo, non ridipinto, aveva solo un po' di vernice che lo scuriva». E sfiora con le dita il volto rimasto sano, il cielo recuperato intatto, i corpi dei Bimbi, «tutta quella gran parte di paesaggio che era soltanto sporca». Con precisione mostra sulla tavola le zone danneggiate dai vari interventi pittorici nei secoli e racconta i momenti lunghi e difficili del recupero. Sul tavolo rimane, come un ricordo angoscioso, lo schema delle spaccature, delle suture. Del grande malato prima dell'intervento.
Passando al restauro vero e proprio, sarebbe stato difficilissimo — sembra di intendere — preparare misture di solventi che non mettessero a rischio i colori originali, quindi, sotto le lenti dei microscopi, si è ricorsi alla pulitura meccanica con il bisturi. Gli spessi tratti di pitture e vernici rendevano piatto il dipinto che, invece, Raffaello aveva realizzato con spessori molto diversi. Recuperata la verità dei colori, si è dovuto allora elaborare una stuccatura seguendo un andamento analogo a quello delle pennellate originali, ed è appunto in queste fasi finali che la Riitano, di persona, ha eseguito l'integrazione pittorica, secondo il metodo classico della Scuola fiorentina, che è quello della selezione cromatica, con pennellate piccole e sottili.
A cose fatte si può dire che sono state usate tutte le possibili tecniche di indagine, si sono risanati gli elementi patologici, è stata recuperata la policromia raffaellesca ancora miracolosamente protetta dalla verniciatura stessa dell'artista. Patrizia Riitano accarezza il ricciolo d'oro del Giovannino, da lei reintegrato nel punto più danneggiato del quadro, i piedini dei bimbi miracolosamente poggiati in terra, il verde delle piante ritrovate, i particolari del panorama, il viola dei fiorellini che non si distinguevano più: «Vede, Raffaello era tutto questo e l'abbiamo ritrovato».

Corriere della Sera 20.11.08
Un simbolo sfruttato dalla Chiesa dopo il Concilio di Efeso e nell'offensiva anti Lutero
La Vergine col bambino un'icona contro le eresie
Ma l'immagine fu ereditata dalla dea egizia Iside
di Francesca Bonazzoli


Ancor prima dell'epoca cristiana, l'immagine della «Madre col Bambino» veniva già usata da molte culture con un significato religioso: nell'area mediterranea, per esempio, rappresentava la dea Iside con in grembo il figlio Horus e fu proprio questa iconografia egizia a passare in quella cristiana occidentale attraverso la mediazione dell'Oriente bizantino.
In particolare, dopo il 431, le gerarchie ecclesiastiche cristiane promossero l'immagine della Madonna col Bambino per dare forza alla condanna, votata dal Concilio di Efeso, dell'eresia nestoriana secondo la quale la Vergine non poteva essere chiamata «madre di Dio», ma solo madre di Gesù poiché non aveva generato un Dio, bensì solo il corpo in cui Dio aveva poi preso dimora.
Da quel momento fino al Medioevo nelle chiese cristiane si assiste a una proliferazione delle immagini della Madonna col Bambino (spesso accompagnate dall'iscrizione «Maria Mater Dei» e «Sancta Dei Genitrix») raggruppabili in diverse varianti: la Madonna del latte (dove la Vergine allatta il figlio) è una delle prime iconografie conosciute, fin dalla catacomba di Priscilla del III secolo; la Madonna orante col Bambino (genuflessa e con le mani giunte mentre adora il figlio poggiato su un lembo del proprio manto); la Madonna leggente col Bambino (con in mano il libro della Sapienza); la Madonna del roseto (seduta in un giardino di rose simbolo della verginità della madre di Dio) particolarmente amata nel Nord Europa; la Madonna col bambino in trono (dove Maria personifica la Chiesa), di derivazione bizantina e i cui più antichi esempi in Occidente si trovano nei mosaici di Ravenna.
L'immagine registra poi un secondo grande momento di successo che coincide ancora una volta con un'eresia: quella protestante. A cavallo fra XV e XVI secolo, l'impiego della Madonna col Bambino viene nuovamente incentivato da parte della Chiesa cattolica per fini propagandistici e, dopo la condanna di Lutero, per confutare la dottrina protestante che ridimensionava il culto della Vergine assieme a quello dei santi. In quest'epoca furono soprattutto due i pittori che portarono il soggetto alla gloria: Raffaello e Giovanni Bellini. Il primo perché, noto ammiratore e amante di donne, seppe dare alle sue Madonne grazia e bellezza idealizzate, di una perfezione che incantava e trascendeva qualsiasi modello umano; il secondo perché, sincero credente, nei volti delle sue Vergini dall'aria dolce e domestica ritraeva quello della moglie amata di un amore casto e cristiano.
Nel Rinascimento il culto mariano si era ormai molto diffuso e via via che la devozione popolare si era fatta più appassionata, anche l'iconografia della Madonna col Bambino aveva perso la primitiva ieratica monumentalità per acquisire un tono più tenero. La rigidezza, eredità orientale nella rappresentazione della Madre in posizione frontale con il bambino eretto, vestito e benedicente, aveva lasciato già nel XIV secolo il posto a due nuove varianti dove madre e figlio venivano messi in un rapporto di affettuosità attraverso un gioco di sguardi o di mani: la Madonna dell'Umiltà (in particolare nel-l'Italia settentrionale) e la Mater amabilis, il tipo di rappresentazione più amata fra tutta l'iconografia mariana. È soprattutto per quest'ultima immagine intima e domestica che si sviluppano leggere varianti attraverso l'inserimento di oggetti simbolici. Fra i più frequentati figurano la mela, frutto dell'albero del Bene e del Male: tenuta in mano dal Bambino allude alla redenzione dal peccato originale. L'uva è simbolo del vino eucaristico e quindi del sangue del Cristo redentore (anche nella variante della brocca che contiene il vino). Analogamente, le spighe sono il pane eucaristico e dunque il corpo di Cristo. La ciliegia, frutto del Paradiso, è simbolo del Cielo; la melagrana, che già nel mondo pagano era attributo di Proserpina, dea che presiedeva alla germinazione, allude alla Resurrezione. La noce, invece, era un complesso simbolismo sviluppato da sant'Agostino, dove il mallo stava per la carne di Cristo, il guscio di legno alludeva alla croce e il gheriglio alla natura divina del Cristo.
E infine l'uccello che, nella pittura cristiana, mantiene il simbolismo che già aveva in quella pagana, ovvero rappresenta l'anima umana che vola via alla morte del corpo. Spesso è un cardellino perché il suo piumaggio colorato lo rendeva particolarmente attraente agli occhi dei bambini e anche perché, secondo una leggenda, la macchia rossa sul capo sarebbe stata un residuo del sangue di Cristo con cui il cardellino si macchiò volando sopra la testa incoronata di spine di Gesù mentre questi saliva al Calvario.

Corriere della Sera 20.11.08
L'Opificio delle pietre dure, un laboratorio pubblico di ricerca invidiato da tutto il mondo
La fabbrica dei miracoli fra tecnologia e sapienza
di Marco Gasperetti


Lo scenario cambia continuamente. Basta ruotare lo sguardo. Braccia robotiche, monitor, radar e spettrografi. Tavolozze, pigmenti, pennelli intrisi di antichi colori.
Laboratorio di ricerca o bottega del-l'arte? La frattura spazio-temporale diventa paradosso quando la Pala di San Zeno del Mantegna s'illumina davanti a un neon speciale privo di raggi ultravioletti e poco più avanti l'arte di Cimabue, Giotto e del Beato Angelico emana messaggi, racconta emozioni.
Sublimi incongruenze di un viaggio nell'Opificio delle pietre dure. Un istituto, o meglio un'istituzione, conosciuta in tutto il mondo.
Come una divinità, anche il tempio del restauro è unico e trino. La sua origine è in via degli Alfani, nel cuore di Firenze, a due passi dagli Uffizi, dalla Galleria e dal labirinto di musei, chiese, capolavori. La seconda propaggine è a Palazzo Vecchio, il simbolo della città. La terza, la più imponente, è alla Fortezza da Basso, all'ingresso di Firenze, quasi tremila metri quadrati di laboratori su due piani.
«Un museo in continuo divenire — spiega Marco Ciatti, il direttore — dove arte, tecnologia, progettualità e pure sapienza individuale trovano una sintesi». I sessanta restauratori, tutti dipendenti pubblici (l'Opificio è un istituto autonomo del ministero) hanno un orario. Che, inevitabilmente, dimenticano. Regalando ore e ore al lavoro. «Ho conosciuto restauratori che nei momenti cruciali sognavano il lavoro anche di notte — racconta Ciatti —, tanto era la loro osmosi con l'opera d'arte, il desiderio di interpretare al meglio la loro tecnica nel rispetto fedelissimo dell'autore». Ci sono capolavori che impegnano i restauratori per anni, anche più di dieci. E con loro una squadra di tecnici e scienziati. Che scrutano con le loro macchine la magia dell'artista, cercano nell'infinitesimale il particolare perduto o coperto, il colore svanito o deturpato. Ma il noumeno artistico, la cosa in sé di quel dipinto, solo il restauratore è capace di interpretarlo.
Qui entra in gioco la sapienza di Marco Ciatti. Come un direttore d'orchestra sceglie chi deve interpretare quella «melodia» e con quale temperamento. Infinite discussioni, durante le prove. «Due anni di preliminari prima di iniziare il restauro vero e proprio della Madonna del Cardellino».
Alla fine, però, davanti al capolavoro c'è un uomo solo. Che percepisce e agisce, interpreta secondo scienza e coscienza, le pennellate inesatte di antichi ritocchi, la macchie del tempo, le vere tracce dell'autore. I dati delle macchine? Certo che servono. Ma tra il noumeno (la cosa in sé) e il fenomeno (la cosa visibile) ci può essere un abisso. Dunque serve interpretare secondo lenti cognitive sapientissime. L'ermeneutica dell'arte. L'incongrua realtà dell'Opificio si rivela anche nella transitorietà del «museo a cielo aperto». Oggi c'è Raffaello, domani non c'è più. Il suo posto lo sta per prendere un dipinto di Tiziano custodito alla Galleria Palatina e bisognoso di cure.
Arriveranno anche grandi cornici. Come quella della Pala di San Zeno del Mantegna, un capolavoro incastonato nel capolavoro (il dipinto appunto), 4,50 per 4,30 metri scolpita nel legno. Maria Cristina Gigli, faticosamente, ci lavora da anni. «Millimetro dopo millimetro, non si finisce mai», fa finta di lamentarsi sorridendo.

Corriere della Sera 20.11.08
La vertenza. Precari mascherati da «morte» nel palco reale: futuro sempre più incerto
Scala, va in scena la protesta
di Pierluigi Panza


MILANO — Un gruppo di maschere «mascherate» da «morte», con soldi falsi appesi al collo, e uno striscione che pendeva dal palco che fu reale con la scritta «Futuro Incerto ALla Scala» (riprendendo in maiuscolo e in rosso le iniziali del sindacato autonomo Fials) hanno accolto i lavoratori e i pochi milanesi che ieri sera, alla Scala, hanno assistito alla «protesta antisciopero » dei confederali invece che alla Vedova Allegra.
Cgil, Cisl e Uil, raccogliendo anche l'invito lanciato da Philippe Daverio (presente in sala, come il presidente della Provincia Filippo Penati) di far suonare al pianoforte brani dalla Vedova al direttore Asher Fisch, hanno organizzato ieri sera un concerto aperto in teatro. Un concerto che ha voluto essere soprattutto un richiamo ai significati simbolici che il teatro rappresenta. Ma che è stata anche l'occasione per rivolgere accuse dirette agli orchestrali della Fials, «che in maniera irresponsabile hanno dichiarato un anno di sciopero e che vanno in tournée per il mondo attaccando i lavoratori di questo teatro», ha dichiarato Giancarlo Albori della Cgil in apertura della serata. Ancora più espliciti i lavoratori stessi nel volantino distribuito, dove si accusano senza mezzi termini gli orchestrali di doppi, tripli, quadrupli lavori («esauriti da stress di straordinario con terzetti, quartetti, Filarmonica e quant'altro ancora »), parole che risulteranno certamente miele per il sovrintendente Stéphane Lissner, che ha fatto una brevissima apparizione nel foyer.
Lissner che, com'era facile prevedere, ieri è stato attaccato dalla Fials. Il sindacato autonomo, infatti, ha dichiarato che si riserva azioni nei confronti della direzione del teatro. L'annuncio è contenuto in un comunicato che bolla come «antisindacale» la decisione della direzione di inviare una lettera agli iscritti chiedendo loro di firmare il contratto integrativo entro il 25 novembre. E che critica soprattutto la sottolineatura del fatto che, chi non firmerà non riceverà in busta paga la quota dell'integrativo prevista entro fine 2008. Secondo la Fials, unico sindacato a non aver firmato l'integrativo, la direzione ha scavalcato gli organismi sindacali aziendali «talché si fa riserva di ogni diritto a ragione della spettanza». Tradotto significa che si riserva azioni legali in base all'articolo 28 dello statuto dei lavoratori.
La Scala non è nuova a questi melodrammoni; ne sono andati in scena di analoghi ai tempi dello strappo tra Muti e l'orchestra, i lavoratori e il Cda. Mai si erano visti però i sindacati scontrarsi così frontalmente.

Repubblica Salute 20.11.08
La violenza alle donne? E' in casa


Opuscolo gratuito di Unicoop Tirreno e Telefono Rosa

E' un dramma che si consuma, il più delle volte, tra le mura domestiche, che ha il volto del marito, oppure del collega, del vicino di casa, dell'amico o di un parente.
Le donne tra i 15 e i 49 anni vittime di violenza, sono in tutto il mondo, circa 1,7 miliardi. Nel nostro Paese, secondo dati Istat del 2007, sarebbero 6 milioni 743 mila (dati elaborati da un campione di 25mila donne di età compresa tra i 16 e i 70 anni). Giovani e non che nel corso della loro vita hanno subìto violenza fisica, sessuale, psicologica. A loro è dedicata, martedì 25 novembre, la "Giornata mondiale contro la violenza sulle donne". Per l'occasione Telefono Rosa, storica associazione di volontariato, e Unicoop Tirreno hanno realizzato la guida "Stop alla violenza contro le donne", un opuscolo con consigli pratici scritti con un linguaggio semplice, suddiviso in più capitoli. Una prima parte è "finalizzata a riconoscere la violenza subìta", spiega la presidente di Telefono Rosa, Gabriella Carnieri Moscatelli, "mentre una seconda è caratterizzata da consigli utili per uscire da questa spirale. Un ulteriore capitolo affronta invece la violenza di tipo sessuale, suggerendo tutte le possibili accortezze che possono aiutare a prevenire un simile trauma. Ancora una volta Telefono Rosa ritiene essenziale sottolineare che la violenza è sempre e in tutte le sue forme un reato", conclude Carnieri Moscatelli.
Capitolo importante della guida, che si può ritirare gratuitamente in uno dei supermercati Unicoop - Tirreno di Roma e provincia e nelle sezioni dei soci Coop (www.telefonorosa.it oppure www.e-coop.it), anche quello dedicato allo stalking, termine inglese che indica una serie di atteggiamenti persecutori nei confronti di una persona che innescano paura e timore. Fenomeno in forte crescita (2 milioni e 800mila le vittime stimate in Italia) ma per il quale ancora non esiste una norma anche se in Parlamento è in attesa di approvazione, già da tempo, il disegno di legge Atti persecutori. (anna rita cillis)

Corriere della Sera Milano 20.11.08
«Male tipico delle metropoli»
Disturbo psichico Una sofferenza per trecentomila milanesi
di A.Se.


Più di trecentomila milanesi hanno sofferto o soffrono di un disturbo psichico. Uno su quattro, in pratica. Un dato choc, che diventa allarme se incrociato con un altro: nel 2007 nei pronto soccorso degli ospedali milanesi sono stati centomila gli interventi per disturbi legati a malesseri psichici.
Un record tutto milanese? «E' un dato tipico delle realtà metropolitane», spiega Enrico Molinari, presidente degli psicologi lombardi: «Il malessere mentale è tipico della civiltà del non incontro, del mancato dialogo. E' il tempo, o meglio la sua mancanza, il fattore che incide di più sul disagio psicologico metropolitano».
Altro fenomeno inquietante la crescita continua del consumo di psicofarmaci.
Ottantamila i consumatori stimati in città, con un incremento, anno per anno, di quasi il 4%.
Un mare di pastiglie: seicentotrentamila confezioni vendute all'anno sui banconi delle farmacie. E affari d'oro anche per gli psicologi. Il quindici per cento della popolazione maggiorenne si è steso almeno una volta sul fatidico lettino.
Altrettanto preoccupante il quadro giovanile, visto che un minore su cinque ammette di aver sofferto di malesseri psicologici.
L'assessore alla Salute del Comune Giampaolo Landi di Chiavenna rilancia allora la sua battaglia per lo psicologo di quartiere. «Venerdì credo che il progetto arriverà in giunta. Partiremo con due farmacie comunali, in altrettante zone difficili della città. Ma l'obiettivo di medio periodo è di estendere la sperimentazione ad almeno settanta farmacie cittadine».

Il Giornale 20.11.08
«Mal di vivere, ne hanno sofferto 320mila milanesi»
di Gioia Locati


L’assessore comunale Landi di Chiavenna: «Il 65 per cento sono donne. Subito lo psicologo di quartiere»

Il 10 per cento dei residenti è stato al pronto soccorso nell’ultimo anno dichiarando un disturbo psichico. Un terzo di questi soffre d’ansia. E non solo. L’agitazione è spesso accompagnata da depressione (62 per cento dei casi), distimia o alterazione dell’umore (42 per cento), dipendenza alcolica (38 per cento), abuso di farmaci (27 per cento). Il disagio psicologico ha mille facce e in città sempre più persone si ritrovano riflesse. «Sono percentuali preoccupanti - ha ammesso l’assessore alla salute Giampaolo Landi di Chiavenna durante la presentazione dello spettacolo “Amica follia”, lunedì al San Babila -. Si calcola siano 320mila le persone che almeno una volta hanno sofferto di un disturbo psichico, il 65 per cento sono donne. Mi auguro che venga presto approvato in giunta il mio progetto sullo psicologo di quartiere. Si partirebbe in via sperimentale nelle farmacie comunali dove il medico presterebbe consulenze. Il disagio psicologico va affrontato e superato con l’assistenza di personale specializzato. È importante abbattere il pregiudizio che spesso impedisce di curarsi».
Per sensibilizzare sul tema della fragilità mentale l’assessorato alla Salute promuove lo spettacolo multimediale al San Babila. Suddiviso in un documentario e un monologo. Il primo è la «Ballata di un uomo brutto» scritto da Sabrina Negri in cui l’attore Carlo Delle Piane, 60 anni di carriera alle spalle e il male oscuro da combattere ogni giorno, confida le proprie angosce e la profonda solitudine. «Ho deciso di scrivere questa storia - ha raccontato l’autrice - perché mi sembrava impossibile che un uomo di successo come Delle Piane potesse stare così male». Seguirà il monologo «Piccola storia di una donna matta» con Maddalena Monti per la regia di Lorenzo Loris. La serata sarà presentata da Tullio Solenghi, parteciperanno al dibattito conclusivo anche lo psichiatra Fulvio Ravera e lo psicologo Enrico Molinari, presidente dell’Ordine degli psicologi lombardi.
«Mi considero una persona solare - ha esordito Solenghi - ma in questa serata interpreto una persona sfigatissima a cui muore la moglie. Credo che l’ironia serva a sdrammatizzare e aiuti nella vita ma in vista dello spettacolo ogni sera, durante le prove, faccio anch’io la mia terapia. Mi ritrovo a fare i conti con queste ombre e ad affrontarle».
Fra le iniziative promosse dall’assessorato per sconfiggere il male oscuro il primo sportello per il dolore psicologico dovuto a lutti o a separazioni. È in corso Italia 45, gestito dalla Fondazione Esperia, funziona dal primo di ottobre, tre giorni alla settimana. Offre consulti per sostenere chi vive il trauma della perdita, dalla capacità riproduttiva o del ruolo sociale, fino alle più gravi e traumatiche e cioè la morte dei propri cari e la paura di morire.

La Sicilia 20.11.08
Platone torna in città
Il premio di filosofia va a Marramao
di Annalisa Stancanelli


«Hegel diceva che la filosofia è come la nottola di Minerva, che si leva in volo quando il sole tramonta. La riflessione filosofica è lontana dall'immediatezza e può esserci d'aiuto in un momento in cui l'impatto emotivo delle immagini favorisce lo schema stimolo-risposta piuttosto che l'analisi critica».
Così il professor Elio Cappuccio, presidente del Collegio Siciliano di Filosofia, racconta il valore della filosofia oggi. E proprio la filosofia sarà la protagonista a Siracusa di un Convegno di studi che si terrà a Palazzo del Senato domani con inizio alle 17 e sabato mattina sul tema «Italia, Europa, mondo. Tra paura e speranza» organizzato per il tradizionale premio di filosofia «Viaggio a Siracusa». «Siamo alla nona edizione - racconta Cappuccio - e ricordo sempre che, quando ne cominciammo a parlare con Roberto Fai, ci sembrò un progetto ambizioso e difficile da realizzare. Dobbiamo molto a Remo Bodei e a Umberto Curi se siamo riusciti a dar corpo a qualcosa che sembrava un sogno: far rivivere la metafora del viaggio platonico a Siracusa».
L'iniziativa ha avuto grande rilievo nel panorama filosofico italiano, si pensi ai filosofi intervenuti in passato come Natoli, Galimberti, Esposito, Pasqualotto, Rigotti, Vegetti, Veca, Bovero, Ordine e, quest'anno, Giacomo Marramao a cui la giuria, presieduta da Remo Bodei e Umberto Curi, ha assegnato il premio per la sezione saggi per il libro «La passione del presente», in cui emerge quel «problema cruciale della filosofia moderna» che consiste nel pensare criticamente il proprio tempo.
Come anticipa Cappuccio «un premio alla carriera è stato assegnato a Maurizio Ferrarsi mentre nella sezione tesi di laurea è stata premiata Anna Molinari per un lavoro incentrato sulla questione dell'integrazione nella società multiculturale».
Il tema del convegno costituisce così lo sfondo in cui si collocano i lavori premiati. Interverranno anche Ciaramelli e Barcellona, dell'Università di Catania.