sabato 22 novembre 2008

l’Unità 22.11.08
Tanti delitti. È femminicidio
di Adele Cambria


Tra le mura di casa gran parte delle brutalità
Il marito o il convivente è spesso l’aguzzino
All’origine ci sono sessismo e misoginia
Così Barbara Spinelli, una giovane giurista bolognese che collabora con l'Associazione Giuristi Democratici, descrive nel suo libro, «Femminicidio», (Franco Angeli), la strage di donne scoperta alla metà degli Anni Novanta in Messico. Le domande su quella discarica di corpi femminili nel deserto sono tante.
Quanti corpi vi furono seppelliti? C'era una organizzazione che convogliava gli assassini verso quel cimitero clandestino? «Si calcola che ne furono seppelliti oltre 4500. Purtroppo non è stata provata l'esistenza del reato di associazione a delinquere nei processi che si sono svolti. Nonostante che Patricia Gonzales, il Pubblico Ministero speciale nominato dal Governo, abbia chiesto l'incriminazione di 231 funzionari corrotti che tendevano a coprire gli assassinii».
Le ipotesi più credibili sulla strage di Ciudad Juarez sono, nell'ordine: vendette tra bande rivali di narcotraffico, tentativi di immigrazione clandestina attraverso il confine con gli Usa, «punizioni esemplari» per scoraggiare le rivendicazioni sindacali delle donne indigene che lavorano nelle multinazionali Usa delocalizzate in Messico. «Queste donne erano pagate un dollaro al giorno» - mi dice Barbara. E conclude: «La vita di giovani donne povere ,spesso indigene, non ha nessun valore in una cultura machista».
Ed è proprio qui il nodo-la cultura machista - che, alla luce del termine "Femminicidio", da poco immesso anche nel femminismo militante italiano, consente di collegare l'horror del cimitero clandestino messicano con le cifre degli assassinii di donne in Italia. Secondo le statistiche compilate dalla Casa delle Donne di Bologna, dal primo gennaio 2007 al 31 gennaio 2008 le donne assassinate in Italia sono state 126.In testa, tra gli autori dei delitti, il marito(35%), quindi l'ex marito(8%),seguono gli altri ex: convivente, fidanzato,amante(7%).
La prima parte del libro di Barbara è dedicata alla genesi della parola «Femminicidio». Vi si analizza l'antologia curata dalla sociologa e criminologa femminista statunitense Diana Russell ed intitolata «The politics of women killing» (1992). L'autrice identifica la caratteristica dell'uccisione di una donna nella misoginia o nel sessismo.
Nel primo caso è l'odio per il genere femminile ad armare la mano dell'assassino, nel secondo il virus «femminicida» si scatena dalla convinzione maschile della propria superiorità. Più o meno inconsciamente, l'assassino vuole punire chi, donna, «non sta al proprio posto».
Chiedo ancora a Barbara che cosa si sta facendo in Italia per ottenere il riconoscimento politico e giuridico del femminicidio?
Pensate di sviluppare anche una azione diretta a introdurre nel nostro Codice Penale il reato di «femminicidio»? «Non credo che si debba pensare alla formulazione di un nuovo reato. Abbiamo invece proposto che misoginia e sessismo siano considerati,al pari del razzismo,una aggravante nell'assassinio di una donna».

l’Unità 22.11.08
Meno reati, ma nei Tg del 2007 è boom di crimini Il picco durante la campagna elettorale
Immigrati, spettro catodico. Superate le quattro ore davanti allo schermo, lo spettatore diventa «preda»
di Toni Jop


Tv, la macchina della paura
Una macchina che genera insicurezza. Adesso uno studio certifica dati alla mano come l’informazione (Tg5 più degli altri) «elabori» la realtà. Generando panico. Ora, a urne chiuse, tutto è tornato più «normale».
Che fanno gli italiani? Si rilassano, hanno meno paura? Dove è finito quello spasmo che solo fino a qualche mese governava sonni e veglie armando incubi in cui erano vittime di scippi, furti, minacce? Eppure, il teatrino delle nostre esistenze non sembra sia più dolce che nel recentissimo passato... Conviene cedere alle novità documentate dalla seconda indagine sul tema promossa dalla Fondazione Unipolis e condotta da Demos & pi in collaborazione con l’Osservatorio di Pavia; e farcene una ragione: il Grande Choc del 2007, quando pensavamo di vivere nella jungla, è passato, il problema della criminalità, legato all’immigrazione, non è più il mostro che ci divora l’anima.
La polpetta avvelenata
Verremo presto ai dati ma intanto seguiamo quella tenera paranoia che, proprio nel 2007, ci aveva spinti a riflettere più o meno in questi termini: «La storia della criminalità immigrata è una polpetta avvelenata dagli interessi politici di chi vuol giocare sulla paura degli elettori». L’abbiamo pensata in tanti, senza tanta malizia, alla vigilia di una tornata elettorale - si è votato ad aprile di quest’anno - estenuante per durezza e durata, in larghissima parte giocata proprio sul tema della sicurezza.
E chi se lo dimentica. Solo che quando torniamo a quel tempo e a ciò che portava con sé, non possiamo fare a meno di ripescare un file di immagini televisive dense di notizie “criminis” e di scazzi mai risolti tra politici ed esperti. In altre parole, tra la realtà - e cioè come stavano davvero le cose rispetto alla minaccia della criminalità - e noi, gli italiani, c’era in mezzo la comunicazione, in particolare i tg, per non parlare dei salotti tv e dei loro tormentoni. Erano soprattutto i tg - attesta l’indagine - a formare la percezione del pericolo presso l’opinione pubblica. Questo è nei fatti, interessa piuttosto l’intensità dello stimolo che questi strumenti di comunicazione hanno applicato mentre informavano. Non solo, la stessa indagine giunge alla conclusione che la sensazione di insicurezza appare, oltre un certo tetto, direttamente proporzionale al numero di ore che ognuno di noi trascorre davanti allo schermo televisivo. Superate le quattro ore quotidiane di frequentazione tv siamo praticamente a bordo di un tappeto volante che può farci precipitare quando vuole. Più la guardi, più hai paura di vivere.
Spauracchio preventivo
Ma torniamo ai dati forniti da Ilvo Diamanti. Di fronte a un lieve decremento dei fatti criminosi, pur restando alta (82%, sei punti in meno rispetto all’ottobre scorso) la percentuale di chi si dice convinto di una progressione dei fenomeni criminali, diminuisce in modo drastico - dal 53 al 40% - la componente di coloro che considerano aumentata la criminalità a livello locale, sotto casa per intendersi. Ancora paura degli immigrati? Certo che sì, ma se l’anno scorso coinvolgeva oltre la metà degli italiani, questo stato d’animo ora interessa un terzo della popolazione. Altro dato sensibile: se dodici mesi fa il 51% di noi riteneva un pericolo gli stranieri, adesso solo il 36% sarebbe pronto a sottoscrivere questa denuncia preventiva. Ma la notizia non finisce qui: ecco che il 42% delle genti di questo paese ritiene che gli immigrati siano una risorsa. Incredibile ma vero, questo sguardo positivo ha sorpassato la paura, la diffidenza, il rifiuto. Sembrano buone nuove e forse lo sono davvero, soprattutto se tiene conto che giusto dodici mesi fa eravamo in preda al panico più nero, su questi temi, grazie alla tv.
Il tempismo
L’indagine ha fatto il conto della serva, ha «pesato» le notizie relative alla criminalità trasmesse tra il 2005 e il primo semestre 2008 dalle reti Rai (Tg1, Tg2, Tg3) e da quelle Mediaset (Tg5, Tg4, Studio Aperto). Hanno badato solo a quante notizie sono state date, non a quanto tempo è stato loro dedicato nell’arco dei tg. Il risultato potete vederlo nelle tabelle qui accanto: avete modo di notare il picco che accomuna tutte le reti in corrispondenza del secondo semestre del 2007, quando, annota l’indagine, il numero dei reati era comunque già in calo. Pure all’interno di questo dato sincronizzato, appare evidente come comunque il Tg5 ci abbia dato dentro più degli altri, ben più del Tg1 che pure non è rimasto a guardare l’antagonista mentre quest’ultimo rovesciava sull’audience 904 notizie di crimini e nella coscienza delle persone aumentava a dismisura la diffidenza nei confronti degli immigrati. Ma c’erano le elezioni e la campagna era in corso.
Gad Lerner, intervenuto alla presentazione dell’indagine, ha invitato a non rintracciare il Grande Vecchio in questa che potrebbe facilmente essere intesa come una Grande azione Parallela rispetto alla politica. Ok: cercheremo un piccolo anziano.

l’Unità 22.11.08
L’Onda risponde all’accuse di rissa e lesioni: siamo stati aggrediti dal Blocco
di Margaret Alberti


È stupore e sconcerto tra i ragazzi de La Sapienza per i quindici avvisi di garanzia recapitati agli studenti dell’Onda per i fatti di Piazza Navona del 29 ottobre. «Alcuni di loro neanche c’erano» denunciano pubblicamente.
Il giorno dopo la notizia delle denunce, a la Sapienza, si passa dall'incredulità alla rabbia e dalla rabbia alla difesa. Quindici studenti dell'ateneo capitolino si sono visti recapitare un avviso di garanzia per gli scontri avvenuti in piazza Navona il 29 ottobre. Tre i capi di imputazione: rissa, lesioni e adunata sediziosa. Gli stessi, emessi anche a 21 appartenenti del Blocco Studentesco. L'Onda non ci sta. «Le denunce sono inaccettabili - dicono -. Ci equiparano a questo gruppo neofascista. Non è così, l'Onda è distante dal Blocco per numero, pratiche, discorsi e modalità». Contestato il reato di rissa, perché «non corrispondente ai fatti». «Il 29 - sostengono - non c'erano due parti che si sono reciprocamente lese, ma si è verificata una sola aggressione squadrista». Smentita l'adunata sediziosa. «Quel giorno - spiegano - eravamo lì per una manifestazione autorizzata». In più, tre dei 15 denunciati sembra non si trovavassero nemmeno a piazza Navona, quel giorno. All'ateneo capitolino, si parla di incriminazioni mirate per spaccare il movimento. L'ipotesi che aleggia tra gli universitari è che le persone denunciate sarebbero state scelte «ad hoc» tra i vari gruppi politici che animano l'Onda, tra cui Esc, Collettivi, Centri Sociali, Sinistra Critica e Rete per l'Autoformazione. «Il Sottosegretario Nitto Palma - denunciano - dalla ricostruzione ha omettesso l'attacco inferto dal Blocco agli studenti medi, presi a cinghiate prima di Piazza Navona». Tra i denunciati c'è anche il Consigliere provinciale di Sinistra Arcobaleno, Gianluca Peciola. «Quel giorno sono accorso al corteo per cercare di sedare la mattanza - dice Peciola -. Ora mi denunciano perché ho alzato il mio tesserino e ho consigliato a quelli del Blocco di andarsene?». L'Onda adesso deve difendersi. In programma, una campagna dal titolo «Io non ho paura» firmata da artisti e personaggi della cultura, e la costituzione di un pool legale per seguire i 15 denunciati

il Riformista 22.11.08
Sul Pd non riesco più a scherzare
di Peppino Calderola


Non mi viene neppure più voglia di scherzare. La fine indecorosa che sta facendo il Partito ex democratico lascia attoniti. Non si era mai visto un grande partito trasformarsi in pochi mesi in un campo di battaglia. Molti di noi l'avevano previsto. Alcuni se ne sono andati avventurandosi lungo una strada che li ha cacciati in un vicolo cieco. Altri come me hanno tentato di riprendere il cammino comune e se ne sono allontanati grazie a Di Pietro. Se convocassimo gli apolidi di sinistra riempiremmo il Circo Massimo anche noi. Un progetto politico ambizioso, e completamente sbagliato, termina in un susseguirsi di vendette, di espulsioni, di fughe. Il primo ad andarsene è stato il suo ideatore. Non si fa un partito senza una cultura politica. Non si fa un partito senza un progetto. Non si fa un partito progettando di annichilire gli avversari interni. Anni di lavoro e di battaglie di gente per bene buttati via da un gruppo dirigente incapace e vanaglorioso. Non a caso tutto precipita sulla Rai, il più robusto totem della partitocrazia. Per questo partito un fedele caposervizio al Tg1 vale più di un operaio in cassa integrazione. Quando abbiamo abbandonato il Pci, con dolore o con sollievo, sapevamo di lasciare una grande storia ma il dovere ci imponeva di dare una prospettiva alla sinistra. Ora siamo finiti nel partito unico degli energumeni. La gente ride di voi. Avete fallito, ora risparmiateci la farsa. Combattetevi a viso aperto. Siate almeno dignitosi nello scrivere il finale.

Corriere della Sera 22.11.08
La teoria del matematico Giuseppe Vitiello spiega anche l'ordine temporale di una esecuzione orchestrale
La geometria dei neuroni diventa musica
Lo studio delle forme frattali decifra il funzionamento delle cellule cerebrali
di Massimo Piattelli Palmarini


L'idea è partita dalle strutture frattali La relazione tra auto-similarità e coerenza Il riscontro nelle osservazioni di laboratorio
Una visione unitaria dei fenomeni La matematica è la chiave di interpretazione Il passaggio dal sapere alla comprensione

Immaginiamoci, da un aereo ad alta quota, di spaziare con lo sguardo, come suggerisce Dante nel canto terzo de Il Purgatorio, «tra Lerici e Turbia » e osservare, appunto, le più «diserte» e le più «rotte» rovine di quella tormentata costa. Poi facciamo uno zoom mentale su un solo chilometro di costa. Poi su cento metri, poi su un solo metro di scoglio. L'impressione di intreccio zigzagante delle forme non cambia molto. Un metro o centinaia di chilometri hanno lo stesso grado di complessità.
Ebbene, questa interessantissima proprietà, detta auto- similarità è la principale caratteristica delle strutture dette frattali, secondo la celebre dizione introdotta nel 1975 dal matematico americano di origine francese Benoit Mandelbrot. I matematici dimostrano che qualsiasi zoom effettuato entro un frattale lo riproduce intatto. Senza limite, cioè fino a un numero infinito di zoom di zoom di zoom. L'auto-similarità implica dunque che non c'è una lunghezza fondamentale, una scala, appunto, caratteristica per il sistema. Un frattale è privo di scala.
Non possiede, come invece hanno le case, le auto o gli elettroni, una lunghezza fondamentale che lo caratterizzi. Strutture frattali appaiono in moltissimi sistemi e processi naturali, in fisica, in biologia, in medicina, in cosmologia, nella struttura delle galassie, in geologia, nella dinamica che accomuna i processi della corteccia cerebrale nei mammiferi, dal topo alla balena, passando per l'uomo, indipendentemente dalle dimensioni del cervello che variano di ben quattro ordini di grandezza.
La geometria frattale appare, quindi, come un tratto caratteristico che accomuna fenomeni nei più disparati settori dell'indagine scientifica. Un nuovo capitolo si aggiunge adesso allo studio dei frattali.
Il fisico italiano Giuseppe Vitiello, professore ordinario di Fisica Teorica alla Facoltà di Scienze dell'Università di Salerno, ha recentemente apportato un contributo originale all'applicazione di modelli frattali alla dinamica neuronale dimostrando che la proprietà di auto-similarità che caratterizza i frattali è correlata, in termini di ben definite strutture matematiche, alla coerenza delle oscillazioni neuronali che sono osservate, attraverso l'elettroencefalogramma e le tecniche di fMRI (produzione di immagini a mezzo di risonanza magnetica funzionale), su regioni estese degli emisferi cerebrali nell'uomo e negli animali a riposo o impegnati in attività relazionali con l'ambiente.
Aggiungo che Vitiello, nel salto verso il cervello, ha collaborato non solo con il neurobiologo californiano Walter J. Freeman, professore a Berkeley, ma anche con l'anestesiologo dell'Università dell'Arizona Stuart Hameroff. Il fatto che più li aveva colpiti è la capacità del cervello di trasformare quasi istantaneamente i segnali dei sensi in percezioni coscienti, mobilitando collettivamente milioni di neuroni in processi che non si capiva se fossero caotici o invece altamente coerenti.
I processi contemplati dalla normale biochimica dei trasmettitori nervosi e dalla fisica ordinaria della trasmissione degli impulsi nervosi sono troppo lenti per spiegare questo fenomeno. Quindi, Vitiello, Freeman e Hameroff si sono rivolti a una fisica e una matematica diverse.
I frattali, liberi dalla camicia di forza di una «scala» e con una faccia rivolta verso la coerenza sembrano ora venire in soccorso. Gli chiedo di raccontare in termini semplici ciò che ha già pubblicato con dovizia di formule e di dati sperimentali negli ultimi anni e una sua nuova teoria che uscirà presto sulla rivista internazionale «New Mathematics and Natural Computation ». «La ricorrenza elevatissima di strutture frattali e di fenomeni di coerenza nella fisica della materia e delle particelle elementari mi ha suggerito, già da tempo, che una relazione potesse (o dovesse!) esistere tra auto-similarità e coerenza. Abbiamo analizzato delle osservazioni di laboratorio le quali mostrano che l'attività cerebrale presenta proprietà di auto-similarità e appare essere priva di una lunghezza fondamentale, di una scala, e al tempo stesso è caratterizzata dalla formazione di domini di oscillazioni neuronali coerenti ».
Gli chiedo quale percorso scientifico ha seguito per arrivare a questa teoria. «Da tempo ero affascinato dalla possibilità di avere una visione unitaria di questi fenomeni, apparentemente tanto diversi, o per lo meno di capire se vi siano aspetti matematici della loro descrizione che li accomunino, fidando sull'intuito e sulla conoscenza di strutture matematiche familiari, quali quelle algebriche e dei gruppi di trasformazioni su cui si fonda la teoria degli stati coerenti. Ho trovato che la proprietà di auto-similarità così importante per la geometria dei frattali e la proprietà di coerenza della fisica della materia sono in realtà intimamente collegate ed entrambe sono realizzate dalle proprietà matematiche di certe funzioni che i matematici e i fisici chiamano analitiche intere».
Che cosa si intende, professor Vitiello, per coerenza? «I componenti elementari si comportano in modo coerente quando, ad esempio, oscillano "in fase", realizzando così un ordine di natura temporale, come quello realizzato nell'esecuzione di un brano musicale da un'orchestra, oppure si distribuiscono con regolarità in un reticolo cristallino, producendo un ordine di natura spaziale».
Vitiello aggiunge che un tale risultato è di per sé motivo di soddisfazione per il matematico e per il fisico: il fatto stesso che si possano collegare con strumenti matematici fenomeni apparentemente lontani, o almeno ricondurre ad un'unica radice «linguistica » (cioè matematica) alcuni dei loro aspetti importanti, dà sempre la soddisfacente sensazione di essere passati dal «sapere» certe cose, alla loro «comprensione».
Infine, Vitiello sottolinea che questo passaggio dal sapere al comprendere è ricco di sensi e di contenuti molto concreti. Nel caso specifico, nel riconoscere che la geometria frattale può essere descrivibile in termini di processi dinamici di coerenza che si sviluppano ad un livello più elementare, di cui dunque essa è la manifestazione macroscopica; o, vice versa, che processi dinamici microscopici responsabili della formazione di strutture coerenti hanno proprietà geometriche frattali che emergono ad un livello macroscopico.
Questa migliore comprensione ha come oggetto processi che permettono di raggiungere la stabilità di strutture macroscopiche partendo da fluttuanti componenti microscopici.

Corriere della Sera 22.11.08
Enigma Magritte
Milano esplora il rapporto con la natura dell'artista più misterioso del Surrealismo
di Francesca Montorfano


« Magritte, il mistero della natura », da oggi al 29 marzo a Palazzo Reale (piazza Duomo 12), a Milano: 110 dipinti a olio, gouaches e sculture (a destra, «Le tombeau des lutteurs», 1960). Orari: martedì-domenica 9.30-19.30, lunedì 14.30-19.30, giovedì 9.30-22.30. Biglietti: intero 9 e, ridotto 7
e. Catalogo della Giunti Arte (288 pag), 38 e
La vita René Magritte nacque a Lessines (Belgio) nel 1898. Dopo gli studi all'Accademia di Bruxelles, s'interessò alle ricerche d'avanguardia (Futurismo, Cubismo). Si convertì al Surrealismo dopo aver scoperto la pittura di Giorgio De Chirico. Era il 1925
quando aderì al gruppo surrealista di Bruxelles, l'anno dopo entrò in contatto con André Breton, leader del movimento. Morì nel 1967

C'è sempre qualcosa di profondamente enigmatico, di impenetrabile, nelle opere di René Magritte. Qualcosa che pare sfuggire all'ordine delle cose, che non può essere interpretato con i soli strumenti della ragione e della cultura perché tocca le corde dell'insolito, dell'irrazionale, del mistero. «Senza mistero nulla davvero esiste», amava dire. E in questo paradosso, nella consapevolezza che il mistero è il significato più vero di tutto il reale e la natura è il luogo in cui esso si manifesta, si rivela tutta la profondità del pensiero e l'attualità del grande maestro belga del Surrealismo. A delinearne più compiutamente la poetica, andando oltre quelle immagini ormai troppo famose, diventate icone del nostro tempo, a scoprire un inedito e ancor più sorprendente Magritte, è un nuovo livello di lettura delle sue opere, che si propone di indagare la sua particolare visione della natura. E proprio la natura, con il mistero che racchiude in sé e che solo l'artista può svelare guardando oltre l'apparenza delle cose, è il filo conduttore della grande rassegna che si apre oggi a Palazzo Reale e che si presenta come un evento assolutamente straordinario, perché vede riunite in Italia più di cento opere di Magritte, quadri famosi provenienti da importanti musei e lavori appartenenti a collezioni private e mai esposti prima d'ora.
«Sono pochi gli artisti del Novecento che hanno posto la natura al centro della loro ricerca, preferendo l'esaltazione delle conquiste della scienza e della tecnica, ma Magritte è stato uno di questi », ha dichiarato Claudia Beltramo Ceppi, curatrice della rassegna insieme a Michel Draguet, direttore generale dei Musées Royaux des Beaux Arts de Belgique. «La natura è sempre presente nel suo percorso artistico, protagonista o cornice di ogni immagine, esplorata in una miriade di declinazioni e sfaccettature dove la logica comune dei luoghi e delle cose è sovvertita, gli oggetti e le figure spostati in contesti paradossali, la realtà reinterpretata attraverso l'occhio lucido e spregiudicato di un intelletto moderno».
Il complesso rapporto che lega Magritte alla natura è raccontato in un'esposizione tematica e cronologica insieme, dove a condurre lo spettatore è lo sguardo stesso dell'artista, a parlare non sono cartelli o locandine, ma le sue immagini e le sue riflessioni. «Con questa mostra abbiamo voluto costruire una storia che abbia un inizio e una fine — continua Claudia Beltramo Ceppi —, che sia spettacolo e approfondimento insieme, che possa suscitare emozioni e trasportare in un luogo dove anche l'enigma, anche i limiti dell'uomo si dissolvano nel mondo del sogno ».
La vicenda di Magritte si muove così dai bellissimi e quasi sconosciuti dipinti futuristi per passare alle prime esperienze surrealiste, influenzate dalla scoperta della metafisica di De Chirico («È stato uno dei momenti più emozionanti della mia vita: i miei occhi hanno visto il pensiero per la prima volta», disse davanti a una riproduzione di Le chant d'amour di De Chirico) e alle immagini dolorose del periodo tra le due guerre, per arrivare infine ai celebri dipinti degli anni Cinquanta e Sessanta. E se nella mela di Souvenir de voyage del 1961 la natura appare mascherata, quasi a voler celare la sua vera essenza, nella rosa immensa e palpitante de Le tombeau des lutteurs del 1960 sembra invece esplodere in tutta la sua potenza. Così, ne La découverte del 1927 il corpo della donna si trasforma rivelando tratti animaleschi, ne Le retour del 1940 la colomba diventa nuvola (o è la nuvola che si fa uccello?), nello stupefacente notturno sotto un chiaro cielo diurno de L'empire des lumières del 1954 incanta con la forza della poesia. Ma il percorso va ancora avanti, a scoprire foto e spezzoni di film, manoscritti (come il carteggio autografo con Camille Goemans, tra gli esponenti del gruppo surrealista di Bruxelles) e grandi pannelli, come quelli usciti per la prima volta dal Palais des Beaux Arts di Charleroi, che sembrano riassumere tutta la magia dell'universo pittorico di Magritte. «Io voglio con la pittura ricostruire un mondo felice», aveva scritto nel 1943, nel suo diario.
Un mondo dove la natura possa offrire al corpo e allo spirito quella libertà di cui hanno bisogno.

Corriere della Sera 22.11.08
Il falso specchio L'opera che condanna la verità dell'immagine
Le nuvole dell'illusione Così un grande occhio mette in crisi il mondo
di Francesca Bonazzoli


«Dimmi, Damide, esiste una cosa chiamata pittura?» «Certo», risponde Damide. «E perché si fa?». «Per l'imitazione, per ottenere una figura somigliante di un cane o un cavallo o un uomo, o una nave, o di qualsiasi altra cosa sotto il sole». «Allora la pittura è imitazione, mimesi?». «Certo, che cos'altro dovrebbe essere, se non fosse così sarebbe un ridicolo trastullarsi con i colori », ribatte Damide. «Già, ma che dire delle cose che vediamo in cielo quando le nubi corrono portate dal vento, di quei centauri e antilopi, di quei lupi e cavalli? Sono anch'esse opere di imitazione? Dio è forse un pittore che occupa le sue ore libere in questo divertimento?», chiede ancora il filosofo pitagorico Apollonio di Tiana al suo discepolo con il quale, all'epoca di Cristo, arrivò fino in India. E poiché, procedendo nel dialogo, i due concordano che le nubi si formano per caso e che siamo noi a attribuire loro una forma somigliante a quelle che già conosciamo, Apollonio conclude che due sono le possibili imitazioni: «Una è quella che porta a utilizzare le mani e la mente per realizzare imitazioni, l'altra è quella che realizza la somiglianza unicamente con la mente».
Quasi mille anni di storia dell'arte dopo, nel primo ventennio del XX secolo il pensiero estetico torna da capo su questo tema e, dopo aver compiuto l'intero giro della mimesi passando attraverso l'illusione e i cieli sfondati barocchi di Correggio, Padre Pozzo o Tiepolo, Magritte dipinge un quadro che riporta la speculazione filosofica al punto dove l'aveva lasciata Apollonio di Tiana. Quel quadro si intitola «Il falso specchio» ed è un enorme occhio che ci guarda, ma dentro il quale non vediamo riflessi noi stessi, bensì un cielo attraversato da nubi. L'immagine più semplice del mondo, eppure quanto mai ambigua, a partire dalla pupilla che, al centro di quel cielo azzurro, appare come un inspiegabile sole nero. Ma non solo: che cosa è quel cielo? Quello reale riprodotto dalla superficie specchiante della pupilla, oppure un «falso specchio » che non rappresenta ciò che l'occhio vede, bensì ciò che ci illudiamo di vedere? È una finestra sul mondo o il nostro mondo interiore che diventa una finestra?
La stessa riflessione verrà sviluppata da Magritte in molti altri quadri e soprattutto ne «I due misteri», dove dipinge un'enorme pipa e, sotto, un cavalletto con un altro quadro che riproduce a sua volta una pipa, ma con la scritta: «Ceci n'est pas une pipe». Ancora una volta Magritte spiazza colui che guarda: ci sono due pipe oppure due disegni di pipe? O una pipa e il suo dipinto o due dipinti di una pipa vera, oppure due disegni che non sono e non rappresentano né l'uno né l'altra e a che cosa dunque si riferisce la frase scritta sul quadro nel quadro?
Insomma, Magritte vuole spostare il valore della pittura dalla sua funzione mimetica, che l'arte occidentale gli ha riconosciuto fin dai tempi dei Greci, a quella concettuale. La qualità dell'opera d'arte, dice, non sta nell'abilità esecutiva (egli stesso parlava di peinture vache, di bassa qualità), bensì nella capacità di innescare una riflessione sul mondo e la realtà. È lo stesso spostamento dal manufatto alla sua dimensione mentale che aveva già sperimentato Duchamp e che porterà all'arte concettuale, ma Magritte lo attua attraverso gli strumenti del Surrealismo, ovvero l'accostamento incongruo di oggetti, indipendente dalle leggi della logica, come in sogno, per sancire l'irrealtà dell'apparenza.
Così la riflessione, e la visione, trasferiscono il loro centro dall'esterno all'interno, come suggerito anche nella celebre scena di «Un chien andalou » in quello stesso anno girato da Buñuel (e sceneggiato da Dalì) dove una nube affilata che attraversa la luna si trasforma nella lama di un rasoio che taglia l'occhio di una donna come a negare la possibilità della visione e dell'interpretazione della realtà attraverso la vista. Alla pittura viene quindi negato ogni valore naturalistico: come aveva intuito Apollonio di Tiana, nella visione c'è sempre una componente soggettiva, la tendenza a proiettare nelle forme immagini di cose che già abbiamo nella testa.
Con Magritte arriviamo dunque al punto di rottura più radicale della storia della mimesi, messa già in crisi dal trompe l'oeil fin dall'epoca rinascimentale e barocca anche se tale esercizio virtuosistico rimaneva ancora nell'ambito dell'imitazione (del cielo, del soffitto sfondato, delle architetture, delle nubi) e non metteva veramente in discussione la verità dell'immagine che restava sempre uno strumento di conoscenza della realtà.
Ecco perché nel XX secolo Magritte si accanisce proprio contro la pittura: perché negare le immagini è un modo di negare finalmente l'oggettività del mondo. E dopo le guerre virtuali che abbiamo visto in tv seduti sul divano, sappiamo quanto questo sia vero.

Corriere della Sera 22.11.08
Il pittore vallone ha rappresentato il carattere del suo Paese rebus
Riservato e imprevedibile Era l'alfiere della «belgitudine»
Viveva nella noia ma aveva sempre pronta la battuta beffarda
di Isabelle Gerard


Nato nel 1898 a Lessines, in Vallonia, René Magritte è diventato oggi ambasciatore del Belgio nel mondo intero. È il più noto rappresentante del Surrealismo belga ed è uno dei pittori più illustri del Paese. Le sue immagini, sebbene surreali, parlano a tutti grazie al realismo della loro esecuzione. Del resto, è partendo dal reale, con tutto quello che esso comporta di più banale, che Magritte imposta i misteri, i non-sensi e le sorprese che riempiono le sue opere. Una tradizione che dura da parecchi secoli in Belgio, dove artisti come Bosch, Breughel, Ensor e, ai giorni nostri, Panamarenko, hanno sfruttato la realtà per immaginare universi fantastici che flirtano spesso con il sogno e l'inconscio. In Belgio, questo sentimento del fantastico riguarda anche la corrente simbolista della fine del XIX secolo (Khnopff, Rops) e i fumetti del XX secolo (François Schuiten). Sembra che da molto tempo artisti in genere e artisti plastici abbiano questo bisogno di creare universi onirici colmi di fantasia e di mistero.
Quanto a Magritte, egli viveva semplicemente, in un piccolo spazio, decorato con cura dalla moglie Georgette. Le sue giornate trascorrevano nella noia, poiché gli unici contatti erano quelli che manteneva con i membri del gruppo surrealista belga (Scutenaire, Nougé, Mariën). Questa vita lontanissima dagli universi dei suoi quadri era una propria scelta. Il fatto di rinchiudersi in se stesso, Magritte lo condivide con altri artisti belgi che, come lui, non hanno seguito la strada già tracciata che si apriva davanti a loro, preferendo gli abbandoni e talvolta gli insuccessi a vantaggio della loro arte. Citiamo Simenon, Jacques Brel o ancora Hugo Claus, i quali, come Magritte, vissero nell'isolamento. Una discrezione che, stranamente, caratterizza numerosi artisti e personalità belgi. In un Paese così piccolo, dove tanto più i geni avrebbero motivo di esporsi, loro tendono piuttosto a non farsi notare. Raggiunto il successo, continuano a vivere ritirati, dedicandosi solo alla creazione. È proprio questa forse la loro forza, e la ragione per cui «piccoli belgi» come Magritte, Hergé, Simenon o Brel sono riusciti a diventare artisti mondialmente noti.
È incontestabile che ci sia molto del «belga» in René Magritte, il cui accento vallone fu oggetto di tanti scherni quando l'artista si trovava a Parigi (1927-30). Nella vita quotidiana, Magritte viveva come il belga medio, giocando a scacchi nei bar del centro e portando a passeggio il cane Loulou per le stradine del suo quartiere. Ma è soprattutto con l'umorismo, caustico e volgare come non mai, che Magritte affermava (forse suo malgrado) la propria belgitudine. Così, alla domanda «Come sta?» gli piaceva rispondere «Come vuole lei». Magritte, che amava terminare le lettere con un affettuoso «buona inculata», creò nel 1948 a Parigi il periodo «Vache», una sorta di parodia del fauvismo, per farsi beffe di quei parigini che avevano impiegato tanto tempo prima di prendere sul serio il suo lavoro.
Eppure, Magritte non ha sfruttato deliberatamente la belgitudine nei suoi quadri. Questi brulicano di elementi chiave che comunque hanno solo di rado una connotazione belga (per quanto, l'ombrello non è un elemento caratteristico degli abitanti di questo piatto Paese?). Al massimo, nelle sue immagini troviamo paesaggi che ricordano quelli del Mar del Nord, case dal profilo tipico di quelle di Bruxelles, cieli spesso grigi o nuvolosi, o ancora un leone la cui sagoma evoca la marca dei supermercati belgi Delhaize. È forse questa atmosfera cupa che dà un carattere «belga » all'opera di Magritte, senza che egli abbia mai voluto tingerla di belgitudine. Infatti l'artista, come di molte altre cose, se ne infischiava altamente d'essere belga, vallone, fiammingo o brussellese.
Tuttavia l'opera di René Magritte oggi è diventata un'immagine del Belgio, che esso vuole diffondere nel mondo intero. È servita da simbolo a una delle grandi compagnie aeree (l'uccello della Sabena); i grandi musei gli dedicano una quantità di mostre e nel giugno del 2009 a Bruxelles sarà inaugurato in pompa magna un nuovo Museo Magritte destinato ad attirare un pubblico internazionale. È tutto un programma, per colui che dipingeva nella sala da pranzo sparlando della famiglia reale...
Isabelle Gerard è storica dell'arte, conservatrice del Museo Magritte a Bruxelles e saggista
(traduzione Daniela Maggioni)

venerdì 21 novembre 2008

il manifesto 21.11.08
Sinistra
Le tesi di Bertinotti
di Rossana Rossanda


Le tesi che Bertinotti ha presentato in questi giorni (cfr. Matteo Bartocci sul manifesto del 13/11) tentano di superare la collisione tra le due anime di Rifondazione comunista. Lo scoglio su cui urtano non è soltanto loro. E' un punto diventato problematico per tutte le sinistre, moderate o radicali, negli anni '70 e '80, e precipitato con la caduta del muro di Berlino: l'implosione del «socialismo reale» non rende obsoleto il paradigma marxiano della lotta di classe?

Esso aveva sorretto tutto il movimento operaio e pareva confermato dalla rivoluzione del 1917. L'implosione dell'Urss e il capitalismo divenuto sistema unico mondiale davano per finito anche il conflitto sociale. Fine è parola gravida di emozioni. Non alludeva a una attuale impossibilità, ma alla verificata insostenibilità di un errore del concetto stesso che aveva innervato la lotta politica in Europa per oltre cento anni.
«Fine della storia» proclamava Francis Fukujama negli Stati Uniti, «Fine di un'illusione» scriveva Francois Furet in Europa, fine del Novecento hanno scritto in molti, e non solo come del «secolo breve» ma come venir meno delle idee che lo avevano retto, prima di tutte l'affermazione marxiana secondo la quale la libertà politica di ogni cittadino non è possibile finché ne restano disuguali le condizioni. Al contrario, non pochi si sono spostati a sostenere che la libertà di impresa, luogo di condizioni disuguali per definizione, sarebbe la sola garanzia di tutte le libertà.
Non sarà mai sottolineata abbastanza l'influenza che questa ottica, in forme più o meno sottili, ha esercitato su tutte le sinistre. Tanto più che la messa in dubbio del conflitto di classe si dava mentre emergeva la percezione di altri conflitti, due dei quali innovativi: il femminismo, che andava oltre l'emancipazione e l'ecologia come scoperta della devastazione del pianeta ad opera dello sviluppo industriale.
Erano due percezioni di sé e del mondo su piani affatto diversi, che di comune hanno soltanto la contemporaneità (sulla quale varrebbe la pena di riflettere) e lo sfondamento rapido di un minoritarismo; risuonavano immediatamente sul reale. E non si aggiungevano al movimento operaio, lo accusavano di averle ignorate pretendendo la sola sua centralità; l'uno nega le altre e viceversa, inclinando ciascuno a porsi come «la» contraddizione principale.
Attaccate nella loro base sociale dall'offensiva liberista, incerte nel cogliere l'evolvere dell'organizzazione capitalista della proprietà e del lavoro, colpevolizzate dall'accusa di non avere inteso i nuovi conflitti, le soggettività di origine operaia o si sono irrigidite o hanno dubitato delle proprie ragioni. Tutti i filosofemi sul Novecento, per quanto diversamente conditi, affermano la fine della loro ragion d'essere. Paradossalmente il capitalismo si è esteso, è il sistema unico dominante, l'ineguaglianza dentro alle singole società e fra paesi dominanti e dominati, nord e sud, non sono mai state così grandi e percepite, ma i motivi di opporvisi non ci sarebbero più. O almeno non gli stessi. Addio al proletariato scriveva una ventina di anni fa un amico scomparso, André Gorz.
Qualcosa di analogo si può dire per le molte ricerche sulle innovazioni che sarebbero intervenute nel capitalismo rendendo obsoleto il conflitto di classe; ancora di recente uno dei nostri più stimati compagni, Marcello Cini, è tornato a insistere sul «luogo» di accumulazione del capitale, negando con buone ragioni che essa avvenga ormai soprattutto sul tempo di lavoro, ma scordando che non è sul dilemma di dove si formi ma sulla mercificazione della forza lavoro, la sua spersonalizzazione e riduzione a cosa, che è cresciuta la rivolta del proletariato industriale. E questa mercificazione si è estesa, se mai, ben oltre il secolo scorso e il fordismo, sull'insieme della produzione, materiale e immateriale, su gran parte della riproduzione e sul complesso dei rapporti umani.
In Italia il problema è esploso su Rifondazione comunista dopo il disastro delle elezioni. Già era del tutto scomparso dall'orizzonte del Partito democratico, che neppure più si definisce di «sinistra» e non certo perché il termine è diventato equivoco, ma perché al conflitto sociale ancora in qualche modo allude. Del dilemma che ancora agita i socialisti francesi, ancorarsi alla questione sociale o al centro, il Pd ha scelto il secondo corno fin nella sua composizione. Mentre è diventato dirompente in Rifondazione. E non poteva non esser così per un partito che si era proposto di «rifondare» il comunismo, recuperando lo spazio che il Pci aveva lasciato deserto, ma non superava mai una soglia assai minoritaria di ascolto e di colpo non ne raggiungeva, istituzionalmente parlando, più nessuna.
Al Congresso di Chianciano, la vecchia robusta minoranza è diventata maggioranza accusando la dirigenza di Bertinotti e poi la mozione Vendola di dismettere ogni lotta sociale con la prospettiva di finire prima o poi nel Pd; mentre la mozione Vendola accusava la linea Ferrero-Grassi di arroccarsi su una inerte ripetitività del passato. Negli articoli di Paolo Ferrero e Nichi Vendola sull'ultimo numero di «Alternative per il socialismo» (che, per essere stati scritti a settembre, non percepiscono le mutazioni della scena internazionale, né la crisi apertasi nel capitalismo) le posizioni restano immutate. Ferrero, preso dall'angoscia che tutti conosciamo, del venir meno d'una soggettività sociale punta a ricostruirla «in basso e a sinistra», cioè come esperienza diretta degli individui ora atomizzati attorno a un bisogno ravvicinato da affrontare assieme. E insiste sui simboli, nome del partito e falce e martello come salvagente per non precipitare in grembo al Pd. Vendola, nell'appassionata mappa dei conflitti e sofferenze del presente - con la sensibilità umana rara e che gli è avvalsa la vittoria in Puglia - stenta a dare una collocazione alla lotta di classe, una delle molte ferite della società. E anche lui insiste, in altra direzione, sulla priorità del simbolico. Ora il simbolico, quando venga assunto a sua volta come piano principale o unico, può essere devastante del «materiale reale». I due piani o si tengono stretti, diciamo così, per il bene e per il male, o si mutilano.
Adesso Bertinotti interviene affermando, con ragione, che non esiste sinistra senza il conflitto sociale, mentre il movimento degli studenti gli suggerisce, ed è discutibile, che può darsi il contrario. Nega sia l'autonomia del sociale sia quella del politico. La proposta di Ferrero è povera, quella di Vendola stenta a individuare i nessi, conclude chi legge, che aveva individuato già, in una sua più vasta analisi della disaggregazione delle soggettività, Maria Luisa Boccia (in sintesi anch'essa in «Alternative per il socialismo»).
In verita tutta Rifondazione comunista si dibatte, da quando esiste, sul bandolo dal quale afferrare la matassa dopo il 1989. Esponendosi agli scacchi: alcune affermazioni che egli ora giustamente discute sono derivate dalla sua iniziativa. Non penso tanto alla scelta di stare o non stare nella maggioranza di governo, quanto all'aver puntato sulla Sinistra Arcobaleno come a qualcosa di più che una coalizione elettorale, il nucleo di un partito «plurale». Che una opposizione al berlusconismo e al centro raccolga culture e sensibilità differenti mi pare d'obbligo, ma che la stessa possa costituire un partito nel quale il conflitto di classe sarebbe un optional è un altro paio di maniche.
Ne sono derivate reazioni opposte e assai dubbie, come il disinvolto articolo sul comunismo di Rina Gagliardi su Liberazione e, all'opposto, l'accusa di liquidatore indirizzata a Vendola.
Le tesi di questi giorni dovrebbero far giustizia delle battute avventate e costituire una trama sulla quale lavorare. Esse hanno dovuto aggiornarsi sulla realtà aperta negli ultimi mesi; che modifica le carte del mondo come si presentavano un anno fa. Danno fin troppo ragione a chi si opponeva alla «fine della storia» e all'autosufficienza del mercato come ordinatore dell'economia e della società.
Ma, nuovo paradosso, gli apologeti dell'una e dell'altra, davanti alla cui protervia non si poteva aprir becco senza essere dileggiati, chiedono affannosamente aiuto all'intervento pubblico, mentre la sinistra non sa che dire davanti alla crisi, non solo «finanziaria», nella quale il capitalismo si dibatte. Noi, sinistre critiche, sembriamo un gatto nella notte, abbacinato dai fari d'un camion di cui preconizzavamo l'arrivo ma che ci prende di sorpresa.
C'è molto da rivedere nella nostra cassetta degli attrezzi e anche nelle nostre rivendicazioni. Come avanzare un piano o un partito del «lavoro», quando è il sistema che sta traballando? Certo non possiamo attardarci nelle beghe fra noi. La rivoluzione non è all'ordine del giorno ma un corto circuito del liberismo è in corso. Non dovremmo avere qualcosa da dire? Almeno sulle misure di intervento, quante, come, destinate a chi e da parte di quale «pubblico»?
Se non l'abbiamo, la nostra scomparsa da contingente rischia di diventare definitiva.

l’Unità 21.11.08
L’Italia della destra nega gli aiuti ai bimbi
di Umberto De Giovannangeli


Nella Giornata dell’infanzia, la denuncia di Unicef Italia: senza precedenti i tagli previsti alla cooperazione internazionale. «Ciò significa mettere a rischio i nostri progetti, e che la crisi sarà pagata dai bambini».
Nella Giornata mondiale per l’infanzia, il governo italiano collezione l’ennesima brutta figura. Il Presidente dell’Unicef Italia, Vincenzo Spadafora, denuncia tagli pesanti nei fondi della Cooperazione destinati all’Unicef e alle altre Organizzazioni delle Nazioni Unite da parte del governo italiano. «Gli 89 milioni di euro previsti per l’aiuto multilaterale nel 2009, un terzo di quanto erogato nel 2008, comporterebbero - afferma Spadafora - un taglio senza precedenti ai fondi Unicef per l’infanzia, ponendo l’Italia al penultimo posto, nell’ambito del G8, nella graduatoria dei governi donatori Unicef, con conseguenze enormi sulle attività che l’Unicef realizza a favore dei bambini di tutto il mondo. L’Italia - prosegue Spadafora - ha sempre svolto un ruolo importante negli aiuti umanitari: non a caso le donazioni dei cittadini italiani all’Unicef, nonostante la crisi che il nostro Paese sta attraversando, sono costanti, segno di un’attenzione forte dell’opinione pubblica italiana sui temi dell’infanzia e del futuro delle nuove generazioni. È paradossale che invece sia proprio il governo a fare un passo indietro, perdendo credibilità, anche a livello internazionale».
PERDITA DI CREDIBILITÀ
«È paradossale che invece sia proprio il governo a fare un passo indietro, perdendo credibilità, anche a livello internazionale, proprio alla vigilia di una celebrazione dedicata ai bambini», rimarca ancora il presidente dell’Unicef Italia, in una lettera inviata l’altro ieri al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e al Ministro degli Affari esteri Franco Frattini. Spadafora chiede urgentemente «il ripristino dei fondi» a favore dei progetti dell’Unicef per i bambini di tutto il mondo. La risposta ricevuta dal premier nel suo intervento nella Giornata dell’infanzia non ha minimamente soddisfatto il presidente di Unicef Italia. Spadafora, parlando a Montecitorio per la Giornata nazionale dell’infanzia e dell’adolescenza ha ribadito la propria preoccupazione per «i tagli alla cooperazione internazionale; significa mettere a rischio i nostri progetti, e che la crisi sia pagata dai bambini. «Tagliare i fondi per la cooperazione - ribadisce Spadafora - non è coerente con le parole ascoltate questa mattina (ieri, ndr).
TAGLI GENERALIZZATI
Non è solo l’Unicef a protestare. E non sono solo le lettere di Spadafora a restare senza risposta. I tagli ai fondi per la cooperazione allo sviluppo decisi nella Finanziaria 2009 «causerebbero una riduzione complessiva delle risorse di circa 400 milioni di euro; numeri che porterebbero l’Italia all’ultimo posto in Europa per l’Aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) dei Paesi più poveri del mondo». A scriverlo in una lettera aperta inviata alcune settimane fa al presidente del Consiglio, sono le Ong della «Coalizione italiana contro la povertà» (Gcap) e personaggi dello spettacolo - da Bono a Jovanotti. La richiesta è la stessa di Unicef Italia: «Mantenere gli impegni presi in ambito internazionale». A partire da questa estate, ricordano nella lettera a Berlusconi, «abbiamo assistito all’approvazione di drastici tagli alle iniziative del Ministero degli Affari esteri per la cooperazione italiana allo sviluppo, per un ammontare di 170 milioni di euro all’anno a partire dal 2009». «La Finanziaria presentata in Parlamento - aggiungono - prevede, per il solo 2009, ulteriori tagli ai fondi per la cooperazione, che causerebbero una riduzione complessiva delle risorse di circa 400 milioni di euro». Un intervento devastante. Dall’annuncio della Finanziaria triennale, le associazioni hanno ripetutamente posto l’attenzione sui tagli ai fondi pubblici alla cooperazione (Aps).
GLI OBIETTIVI DEL MILLENNIO
A protestare è anche la coordinatrice internazionale della Campagna del Millennio, Eveline Herfkens, che ha richiamato il governo italiano agli impegni presi in sede internazionale. «L’Italia - denuncia Herfkens - è il fanalino di coda per i fondi stanziati a favore della campagna delle Nazioni Unite per gli obiettivi del Millennio. Una posizione che potrebbe avere serie conseguenze sulla credibilità della sua presidenza del G8 del prossimo anno». «Siamo molto preoccupati - aggiunge - per l’attuale tendenza degli aiuti allo sviluppo in Italia». Non solo. Non si può ignorare, denuncia il ministro degli Esteri del governo ombra del Pd, Piero Fassino, che «nel 2010, il nostro Paese dovrà impegnare lo 0,51% del Pil in aiuti, per essere in linea con quanto concordato a livello europeo e che, sempre per il 2010, dovrebbe essere raggiunto l’obiettivo universale per la cura e la prevenzione dell’Hiv/Aids». Le scelte compiute nella Finanziaria smentiscono clamorosamente questi impegni. E contraddicono quanto annunciato dallo stesso Berlusconi all’ultimo summit G8 a Hokkaido. In quell’occasione, il Cavaliere «munifico» si era formalmente impegnato a investire 500 milioni di dollari all’anno nella lotta alle malattie. Promette investimenti. Decide tagli. A pagare, denuncia il presidente di Unicef Italia, sono i più deboli. I bimbi. I poveri.

l’Unità 21.11.08
Il presidente delle Ong accusa: «Il nostro Paese pensa che la cooperazione sia un lusso da permettersi in tempi di boom economico»


Un atto d’accusa argomentato. Durissimo. A pronunciarlo è Sergio Marelli, presidente dell’Associazione delle Ong italiane.
Qual è il segno dei pesanti tagli alla cooperazione internazionale imposti dal governo nella Legge Finanziaria?
«Il segno è quello di una cultura politica che continua a considerare la cooperazione come un accessorio o, nella migliore delle ipotesi, una politica da realizzarsi solo quando la sovrabbondanza delle risorse lo consente».
Quale immagine di sé offre l’Italia con questi drastici tagli alla cooperazione internazionale?
«È l’immagine di una credibilità ridotta al lumicino. Non solo perché con questi tagli ritorniamo all’ultimo posto nella classifica dei Paesi donatori, allontanandoci definitivamente dalla ragionevole prospettiva di mantenere gli impegni assunti con l’Unione Europea e la comunità internazionale...».
Non basta questo. Cos’altro in più?
«Il fatto è che questa immagine mortificante viene proiettata al mondo intero alla vigilia dell’assunzione da parte italiana della presidenza del prossimo G8. È una delegittimazione della nostra credibilità che rischia anche di delegittimare l’insieme del G6, proprio perché il “cattivo esempio” viene proprio dal Paese ospite che ne ha la presidenza».
Cosa è possibile fare per evitare questa deriva?
«Intanto c’è da dire che l’iter della Finanziaria non è ancora concluso. In un anno dove il governo si vanta, giustamente, di non aver dovuto ricorrere al voto di fiducia per approvare la Finanziaria alla Camera, in questo momento ci appelliamo al Senato, a tutti i senatori, di maggioranza e opposizione, affinché nel dibattito a Palazzo Madama si corregga questa miopia del governo, che ritiene di risanare i conti pubblici italiani dimezzando gli aiuti per i Paesi poveri, invece di considerarli un investimento prioritario per la sicurezza, per la pace e per la stessa ripresa economica del nostro Paese».
C’è chi, in una situazione di recessione e di reali difficoltà economiche, potrebbe considerare, anche in buona fede, i soldi destinati alla cooperazione internazionale come un «lusso». Come risponde?
«Oltre che un dovere, per me etico, oltre che indicatore di lungimiranza politica, se vogliamo fare una valutazione economica dell’investimento in cooperazione internazionale, penso che si possa dire con certezza che allocare risorse adeguate per l’aiuto ai Paesi di provenienza degli immigrati nel nostro paese, abbia un costo inferiore agli investimenti richiesti per una loro inclusione dentro i nostri confini nazionale...».
Questa considerazione a quale conclusione ci porta?
«Economicamente, socialmente e, soprattutto, eticamente, dare la condizione a tutti di poter scegliere dove vivere e far crescere i propri figli, è la scelta giusta da fare. Ed è la scelta che noi chiediamo ad un governo responsabile. Nella convinzione che il contributo della cooperazione italiana è fondamentale sia alla politica estera del paese sia allo sviluppo economico generale».

l’Unità 21.11.08
Il 25 novembre la giornata mondiale In Italia non c’è né il reato di stalking né un piano nazionale
Nasce la prima associazione dei centri anti-abusi Sabato manifestazione a Roma
«Basta violenze»: le donne son tornate. E vanno in piazza
di Luigina Venturelli


Su 300 omicidi registrati nel 2007, il 21% è di mogli o fidanzate. Il Viminale li chiama «conflitti familiari e delitti passionali». In realtà è una strage silenziosa. Che le donne scelgono di combattere facendo da sole.
Perchè le donne italiane manifesteranno domani a Roma contro la violenza di genere? Per rispondere un eufemismo vale più di mille parole. «Conflitti familiari e delitti passionali» è la definizione romanzesca usata dal Viminale per oltre sessanta donne uccise tra le pareti di casa nel giro di sei mesi.
Da luglio a dicembre 2007 - sono gli ultimi dati disponibili - il ministero dell’Interno ha contato in Italia circa 300 omicidi: tra lotte nella criminalità organizzata e regolamenti di conti tra spacciatori, spunta un 21% di mogli e fidanzate, adulte e ragazzine massacrate da un partner, da un amico, da un parente. Ma le forze dell’ordine non hanno il coraggio di chiamarli con il loro nome, omicidi. Usano una bella perifrasi pericolosamente simile a un’attenuante culturale, che fornisce un quadro esatto dello stato dell’arte nel nostro paese, dove non esiste il reato di persecuzione ossessiva (il cosiddetto stalking), non c’è un piano nazionale contro la violenza sulle donne, manca una legge quadro che riconosca e finanzi i centri antiviolenza diffusi sul territorio.
Così, ancora una volta, le donne decidono di fare da sé e - alla vigilia della giornata mondiale contro la violenza di genere del 25 novembre - si mettono in rete per diventare riferimento e pungolo delle istituzioni. Per questo è stata costituita D.i.Re (Donne in Rete contro la violenza), l’associazione nazionale che riunisce circa 50 centri antiviolenza di tutta Italia, che da oltre vent’anni lavorano per prevenire e contrastare un crimine diffuso ma spesso non riconosciuto come tale (gli altri 50 si uniranno alla rete appena avranno maturato cinque anni d’anzianità sul campo).
«Le donne sono migliorate rispetto al passato, quando si presentavano anche con quindici anni di maltrattamenti alle spalle» racconta Marisa Guarneri, presidente della Casa delle donne maltrattate di Milano. «Oggi sono più informate, più consapevoli, e si muovono prima». Nel frattempo, purtroppo, è peggiorata la qualità della violenza maschile: «Si è fatta più feroce: una volta le donne sopportavano e questo conteneva il fenomeno. Adesso si allontanano, se ne vanno per ricostruirsi una vita, e gli uomini non sono in grado di accettare questo progredire della libertà femminile». Nel 2007 circa 20mila persone si sono rivolte ai centri antiviolenza D.i.Re e circa 7mila donne sono state accolte per colloqui e consulenze. A questi dati vanno poi aggiunte le 22mila chiamate giunte al centralino 1522 del ministero delle Pari Opportunità e quelle ai servizi sociali, consultori e ospedali. Manca all’appello il mondo sommerso delle donne che ancora subiscono nel silenzio. Non esistono dati precisi, ma nel 2006 l’Istat ha stimato quasi 7 milioni di episodi di violenza di genere.

l’Unità 21.11.08
Nicole Kidman: «Una su tre subisce abusi, la vita senza violenza è il diritto di ogni donna»


Una donna su tre può subire abusi e violenze nel corso della sua vita. Si tratta di una tremenda e diffusa violazione dei diritti umani e non di meno rimane una pandemia in gran parte invisibile e sottostimata. Provate a pensarci: essere una donna o una bambina vi mette in pericolo. Altrettanto inquietante è il fatto che troppe persone - gente della strada come esponenti di governo - ritengono inevitabile la violenza contro le donne.
Dobbiamo cambiare questa mentalità. È di vitale importanza che si prenda coscienza del problema della violenza contro le donne e che la si consideri una forma di violazione dei diritti umani. Si tratti di violenza domestica, di stupri in tempo di guerra o di pratiche quali la mutilazione genitale femminile o i matrimoni forzati o in età quasi infantile, la violenza contro le donne è un crimine che non può essere tollerato. La violenza contro le donne, dovunque si verifichi, va contrastata con il massimo rigore della legge.
Sono diventata ambasciatrice del Fondo delle Nazioni Unite per le donne (Unifem) per dare voce alle donne e alle bambine che hanno subito violenze e abusi. In un numero crescente di Paesi le donne si stanno rifiutando di essere vittime passive. Le donne si stanno organizzando, si fanno sentire, chiedono che i colpevoli rispondano dei loro atti e che si intervenga e dicono «NO» alla violenza che sono costrette a subire per il solo fatto di essere donne o bambine.
È compito di tutti porre fine alla violenza contro le donne. Per questa ragione nel mese di novembre dell'anno passato in occasione della Giornata internazionale per eliminare la violenza contro le donne, l'Unifem ha lanciato su Internet la campagna «Dite NO alle violenza contro le donne» chiedendo alla gente di tutto il mondo di far sentire la propria voce e di aggiungere il proprio nome ad un movimento che si va facendo sempre più grande.
Ad un anno circa di distanza centinaia di migliaia di persone di ogni parte del mondo hanno risposto alla campagna «Dite NO» e hanno vinto una grossa battaglia contro la violenza di genere: Nujood Ali, una bambina yemenita di 10 anni, è fuggita dalla casa del marito che era stata costretta a sposare e la sua avvocata, Shada Nasser, si è battuta per garantire la libertà della bambina. Dopo aver subito ripetute percosse e violenze sessuali, Nujood, andata in sposa all'età di nove anni, è scappata di casa cercando scampo in tribunale in cerca di aiuto. A differenza delle decine di migliaia di bambine che sopportano la terribile tradizione dei matrimoni in età pressoché infantile, Nujood ha avuto coraggio e ha avuto la fortuna di trovare una avvocata altrettanto coraggiosa nella persona di Shada specializzata nella difesa dei diritti umani. Il loro caso ha fatto il giro del mondo ad aprile quando, grazie all'intervento di Shada, Nujood non solo ha ottenuto il divorzio, ma ha visto premiato il suo coraggio e indicato una strada per la difesa dei diritti umani delle donne e delle bambine. Nujood è tornata a scuola e quando gli si chiede cosa intende fare in futuro risponde: «….Voglio esercitare la professione di avvocato».
In passato in Kosovo ho avuto modo di ascoltare molte donne che, travolte da quel conflitto, avevano subito brutali violenze sessuali da parte dei soldati. I loro racconti avrebbero potuto essere ripresi dai titoli di giornale di oggi. La violenza sessuale è un'arma di guerra, uno strumento di terrore che colpisce la vita delle donne e degli uomini, manda in frantumi le comunità e costringe le donne a scappare di casa. E tuttavia troppo a lungo le violenze sessuali in tempo di guerra sono state avvolte nel silenzio e dimenticate dalla storia.
Il 20 giugno 2008 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha dato una risposta al peso di quel silenzio adottando all'unanimità la Risoluzione 1820 che riconosce esplicitamente che non possono esservi né pace né sicurezza fin quando le comunità vivono all'ombra del terrore sessuale. La Risoluzione auspica uno sforzo maggiore da parte di tutti coloro che sono coinvolti in un conflitto per proteggere le donne e le bambine dalle aggressioni. È di tutta evidenza che porre fine alla violenza contro le donne è un tema ormai in cima alla lista delle priorità dei governi e di importanti organismi quali le Nazioni Unite.

L'Unifem, unitamente al Segretario generale delle Nazioni Unite, auspica un sostegno di gran lunga maggiore al Fondo delle Nazioni Unite per porre fine alla violenza contro le donne che fornisce alle organizzazioni locali dei Paesi in via di sviluppo le risorse necessarie a trovare soluzioni pratiche e operative. Le sovvenzioni del Fondo dell'Onu hanno consentito di sventare il traffico di esseri umani in Ucraina, hanno aiutato le superstiti delle violenze domestiche a Haiti e hanno contribuito a far approvare una nuova legge sullo stupro nella Liberia tormentata dalla guerra.
Progetti come questi e molte iniziative in ogni parte del mondo dimostrano che la pandemia di violenza contro le donne è un problema che ha una soluzione. Là dove ci sono impegno e risorse, maggiori sono le possibilità di cambiare le cose: le politiche possono essere modificate, si possono istituire servizi e si possono formare giudici e agenti di polizia.
Di conseguenza in questo 25 novembre incoraggiamo i governi a tenere fede ai loro impegni e gli uomini e le donne a partecipare alle iniziative delle loro comunità per mettere fine alla violenza contro le donne e a far sapere alle autorità dei loro Paesi che attuare politiche volte a porre fine alla violenza contro le donne è importante per loro perché una vita senza violenza è il diritto di ogni donna.
***
Nicole Kidman è ambasciatrice del Fondo delle Nazioni Unite per le donne
© IPS Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

l’Unità 21.11.08
Una vittima ogni tre giorni e l’assassino è in famiglia


Ogni tre giorni, in Italia, una donna viene uccisa dall’uomo che diceva di amarla: solo nel 2007 le vittime sono state 122. E il più delle volte l'assassino non ha neppure bussato alla porta, perché aveva già le chiavi di casa: in tre casi su quattro era il convivente o il marito. A scattare questa triste fotografia sono gli esperti dell'ospedale Fatebenefratelli di Milano, durante la presentazione di un libro sul tema per i medici di famiglia. «Nel 40% dei casi il carnefice è mosso da motivi passionali, o meglio da forme patologiche di gelosia e disturbi paranoici - spiega Claudio Mencacci, direttore del dipartimento di Psichiatria - mentre il 34% degli uxoricidi è scatenato da liti e da una conflittualità elevata». Cosi' quattro donne su dieci sono vittime di un'arma da taglio, mentre tre su dieci sono colpite da armi da fuoco. «Da diversi anni e' stato cancellato il delitto d'onore nel nostro codice - aggiunge Mencacci - ma ancora oggi rimane l' estrema incapacità degli uomini di tollerare l'emancipazione femminile». Non è dunque un caso che proprio a Milano, dove lavora quasi il 60% delle donne, si abbia un elevato numero di uxoricidi: dal 2000 al 2006 - specifica Alessandra Bramante, psicologa e criminologa - si sono registrate 48 vittime.

l’Unità 21.11.08
Eluana, la Corte di Strasburgo respinge il ricorso urgente
di Federica Fantozzi


La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dice no alla procedura d’urgenza nel ricorso contro la sentenza che autorizza lo stop alle cure per Eluana. Il presidente del Consiglio superiore di sanità: «È eutanasia».
Decisione lampo della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sul caso di Eluana, la ragazza in coma irreversibile da 16 anni. Ieri i giudici comunitari hanno aperto un fascicolo sulla vicenda respingendo però la richiesta di misure provvisorie avanzata da 34 associazioni per bloccare la sentenza che autorizza lo stop alle terapie. Nessuna procedura d’urgenza, dunque: se i ricorrenti vorranno procedere e se il caso verrà considerato rilevante, la Corte seguirà tempi e modi ordinari. Vale a dire non brevi. E nel frattempo la sentenza ha forza di legge ed è immediatamente attuativa.
Intanto il presidente del Consiglio superiore della Sanità Franco Cuccurullo ha affermato che se si staccherà il sondino la morte della giovane donna «non sarà diversa dall'eutanasia o dall'omicidio» perché «non muore della patologia da cui è affetta, ma di fame e di sete: anzi, viene fatta morire». Secondo Cuccurullo, che è anche rettore dell'Università di Chieti-Pescara, «si apre una deriva pericolosa per le persone incapaci».
Il ricorso alla Corte Europea era stato accolto con amarezza da Beppino Englaro, il padre di Eluana che da un decennio porta avanti la battaglia giudiziaria per farla morire: «Ho agito sempre con grande limpidezza - ha detto, ricordando di avere in mano un decreto immediatamente esecutivo - Stanno ostacolando quello che è stato deciso. Le provano tutte, ma credo che da un punto di vista umano, io non ho più nulla da dire».
Il signor Englaro dopo aver ringraziato i media «per l’aiuto e il sostegno in questi anni» ha annunciato il silenzio stampa: «Non mi resta altra scelta che tacere. Devo conservare le poche forze per portare a termine quello che mia figlia si aspetta da anni da me».
L’avvocato che ha curato il ricorso europeo, Rosaria Elefante, precisa che «non è stato respinto, semplicemente non è stata accettata la procedura d’urgenza» e ribadisce la richiesta che venga fissata un’udienza. L’apertura di un fascicolo a Strasburgo è stata considerata «un fatto positivo» dal governatore della Lombardia, il ciellino Roberto Formigoni, invitato dai Radicali a recedere sul veto all’accoglienza di Eluana negli hospice della sua regione. I Verdi hanno invece offerto la disponibilità di una struttura a Forlì.
In queste ore gli avvocati della famiglia Englaro sono in contatto con diversi hospice friulani, destinazione privilegiata per le radici paterne. Tutto sta a vedere se andranno a buon fine. L’équipe medica, composta dal neurologo che da anni segue Eluana, il professor Carlo Alberto Defanti, e da un anestesista, è già pronta. Si attende soltanto di ricevere luce verde e firmare l’accettazione nella struttura privata prima di chiedere le dimissioni dalla clinica di Lecco dove la giovane è accudita dalle suore Misericordine.
Tuttavia, le voci contrarie alla decisione della Corte Suprema non si rassegnano. Il vescovo di Como monsignor Diego Coletti ha invitato i fedeli della diocesi domenica prossima a «pregare per Eluana» perché «appellarsi al rispetto della libertà individuale è solo un pretesto per nascondere le inadempienza della nostra solidarietà».
Sette senatori del Pd (la Teodem Baio, Bosone, Gustavino, Papania, Del Vecchio, Biondelli e De Luca) hanno sottoscritto la petizione europea promossa dal “Movimento per la Vita”. Mentre dalle file del centrodestra il segretario del Pri Francesco Nucara invita a fare un passo indietro: «È ora di accettare la sentenza della Cassazione e di lasciare il padre di Eluana in pace. Va rispettato il suo silenzio, è un caso tragico su cui c’è stata una strumentalizzazione intollerabile».

l’Unità 21.11.08
Scontri di Piazza Navona, 36 denunciati
Ventuno appartengono «Blocco Studentesco»


Sono trentasei le persone denunciate per gli incidenti di Piazza Navona del 29 ottobre al termine di una delle manifestazioni studentesche contro la riforma Gelmini. La Questura di Roma, infatti, ha emesso ieri trentasei denunce: 21 contro altrettanti aderenti all'organizzazione neofascista Blocco Studentesco, altre quindici contro studenti dell’università “Sapienza” di Roma. Tutti, secondo quanto emerso, sarebbero accusati di «lesioni, rissa e adunata sediziosa».
A rendere nota la notizia sono stati alcuni studenti dell’“Onda” dell’università capitolina che hanno annunciato per oggi una conferenza stampa nel corso della quale verrà presa «una posizione politica sulle denunce». La novità di ieri arrivano dopo quasi tre settimane di indagini nel corso della quali la Digos di Roma ha passato al setaccio fotografie e filmati di quanto avvenuto in piazza quella mattina nel tentativo di dare un volto ai ragazzi, molti col viso coperto, che avevano partecipato agli incidenti. Iniziati nella mattinata, quando il Blocco Studentesco aveva caricato e picchiato alcuni giovani dei licei, e proseguiti poi al momento dell’arrivo in piazza Navona del corteo studentesco. A quel punto, secondo le ricostruzioni della Divisione investigazioni generali e operazioni speciali, diversi appartenenti ai collettivi studenteschi si sono scontrati coi militanti di Blocco Studentesco (armati di bastoni e catene trasportati in un furgone sfuggito ad ogni controllo) nel tentativo di allontanarli dalla piazza e dal corteo.

l’Unità 21.11.08
Intervista a Thomas Nagel. Il sogno filosofico di Obama
di Bruno Gravagnuolo


Che effetto fa essere un pipistrello? Ma soprattutto, che diavolo c’entra questa domanda bizzarra con la filosofia, con Barack Obama e con le idee morali e politiche del mondo contemporaneo? C’entra, magari alla lontana, ma c’entra. Perché a porsela quella domanda, in un saggio accademico nel lontano 1974, fu un professore nato a Belgrado nel 1936, e via via divenuto uno dei massimi filosofi morali e politici contemporanei, docente prima a Princeton e poi alla New York University: Thomas Nagel. Erede negli Usa del grande John Rawls, pensatore scomparso e teorico della «società giusta», la società dove la libertà doveva essere davvero di tutti, e dove l’ineguaglianza si giustificava solo se aiutava i meno fortunati a progredire.
Qual è stata l’innovazione di Nagel rispetto al maestro? Eccola: occorre in etica tenere conto degli «stati limite soggettivi» («essere un pipistrello»), per potersi accordare con gli altri sul piano dell’etica civile. E da questa dialettica, tra differenza soggettiva e regole comuni sempre in fieri, scaturisce poi la giustizia - sociale, culturale e giuridica - che non è mai scritta una volta per tutte. Insomma, se per un verso l’andare oltre la propria condizione specifica, e la propria visione del mondo, è un presupposto necessario per la nascita del discorso morale, al contempo l’ossessione per l’«oggettività assoluta» rischia di negare le differenze individuali e la soggettività dei singoli. Paralizzando l’etica dentro dilemmi insolubili, che finiscono con renderla inutile per l’esistenza umana.
Per questo Nagel si è sempre battuto su due fronti: contro il moralismo conservatore e contro lo scetticismo decostruzionista, entrambi in gran voga negli Usa. E lo ha fatto in opere come La possibilità dell’altruismo, Questioni mortali, Soggettivo e Oggettivo, e anche in lavori più politici come Giustizia globale, uscito nel 2005 sulla rivista Philosohy and pubblic affairs.
Come avrete capito siamo in ambito «liberal» americano, sulla barricata opposta a quella dei neconservatori, duramente sconfitti dal primo presidente afro e americano alla Casa Bianca. E del resto Nagel si è molto impegnato per Obama e confida molto in una rivoluzione morale legata alle sue idee politiche. Per questo siamo andati a incontrarlo all’Hotel Plaza di Roma, alla vigilia della cerimonia per l’importante Premio Balzan per la filosofia morale, che gli verrà conferito questo pomeriggio da Napolitano all’Accademia dei Lincei. Sentiamo.
Professor Nagel, Margareth Thatcher diceva: non esiste la società ma solo individui. Dopo Barack Obama siamo entrati in un’era in cui questa idea è diventata un po’ più assurda?
«Mi è sempre parsa assurda questa idea. La Thatcher forse voleva dire che ogni azione politica o morale si giustifica solo in base all’interesse degli individui. Sbagliato, perché l’interesse pubblico riguarda la vita quotidiana di ciascuno e non se ne può proprio fare a meno. Come dimostra la crisi finanziaria Usa, nata dal privilegiamento esclusivo dell’interesse privato che ha generato il crack. Ora c’è uno spostamento culturale inevitabile. Dal libertarismo egoistico ad una società responsabile, dove il mercato resta cruciale per la crescita ma va regolato in base al bene comune».
Un ritorno in grande al New Deal di Franklin Delano Roosevelt?
«Credo di sì, a partire dalle politiche pubbliche per incoraggiare la crescita e i salari. E dalla sanità pubblica. Che verrà regolata non all’europea, sfortunatamente. Ma coinvolgendo lavoratori e imprese, specie queste ultime. E anche a partire dall’ambiente, altra occasione pubblica di rilancio economico, almeno nelle intenzioni di Obama».
Possiamo parlare di rivoluzione morale con Obama?
«La sua grande promessa va in tal senso. Non so però se un presidente da solo può creare una mutazione del genere. Al più può favorire un clima, e incoraggiare la persuasione che sia giusto e conveniente fare sacrifici, cambiare abitudini e stili di vita. Obama è venuto al momento giusto, come Lincoln e Roosevelt. Lui vuole un nuovo corso, anche ideale, dopo l’isolamento internazionale degli Usa e la catastrofe finanziaria».
Che tipo di religiosità è quella di Obama? Passeremo dal fondamentalismo neocon ad una sorta di profetismo democratico?
«Intanto Obama, come dimostra la sua biografia, è diventato un vero americano, nero e africano. Che ha instaurato un legame tra le due appartenenze e proprio attraverso la Chiesa. Non proprio un cosmopolita quindi, ma un americano che si richiama alle promesse originarie dell’America: integrazione, diritti, libertà. Più Luther King che Malcolm X, per intendersi. Ciò renderà la religione negli Usa meno divisiva e conflittuale. E anche più laica e secolare soprattutto nell’agenda bioetica, e diametralmente all’opposto di Bush Jr».
Il neocon Robert Kagan sostiene: gli Usa sono il paese più democratico e integrato. Dunque la Pax americana è in ogni caso la più giusta. Dov’è l’errore?
«È un punto di vista ideologico, che nasce dalla paura. Dalla mancanza di fiducia nel resto del mondo. E dalla diffidenza verso tanti paesi che erano i nostri alleati naturali. Una sindrome hobbesiana, fondata sulla caccia al nemico anche interno che ci minaccia e può inquinare la nostra convivenza. Non che certe paure siano del tutto infondate, ma possiamo fronteggiare le insidie ripristinando le nostre alleanze di sempre. Ripristinando insieme agli altri, e con l’Europa in primo luogo, un legame di fiducia. L’immagine di Obama perciò verrà associata sempre di più al multilateralismo».
Parliamo di filosofia, e di Utopia magari. A suo avviso la speranza kantiana della «Pace perpetua» potrà riacquistare una sua attualità, come criterio guida delle relazioni internazionali e contro l’idea hobbesiana della forza e della paura?
«Quella indicata da Immanuel Kant nel 1794 è un’idea molto importante e di lungo periodo. Idea regolativa e profetica, fondata su una straordinaria premonizione in Kant del futuro mondo globale. Significa che l’ordine mondiale appartiene a tutti e che l’affermarsi su scala planetaria di vere democrazie comporta la risoluzione consensuale dei conflitti e senza guerra. In base a un diritto condiviso. Una previsione in fondo corretta, oltre che auspicabile».
Tornerà di moda negli Usa la visione della «società giusta» e dell’ordine cosmopolitico giusto, legata a Kant e a John Rawls oltre che alla stagione dei diritti civili?
«Sono tematiche di sinistra che non hanno mai smesso di esercitare un certo influsso nella società americana. E che entro certi limiti influenzano anche le élite politiche progressiste negli Usa. Un influsso destinato senz’altro a crescere».
Le sottopongo tre parole chiave: «liberal», «left» (sinistra), «socialist». Con Obama diventerà più facile pronunciarle da voi?
«Liberal, cioè progressista non radicale, verrà certamente riabilitata. Socialist, non credo. Perché gli americani hanno sempre avuto in sospetto lo statalismo. Quanto a left o leftist, riguardano una minoranza negli Usa. La sinistra in senso europeo da noi è solo una frazione dello spettro politico: è la sinistra del Partito democratico. Semmai il problema è ancora la destra americana, essa sì robusta e identitariamente forte! Ecco, nelle nuove e più favorevoli condizioni, alla sinistra spetta il compito di neutralizzare la destra. Ma a condizione di allearsi stabilmente con il centro. Con i liberal e la middle class».

l’Unità 21.11.08
Se la statua parla alla psiche
di Renzo Cassigoli


Come predisporsi a guardare una città d’arte? come ascoltare le mille voci della città trasmesse da una presenza densa di testimonianze? Con il saggio Mi sono innamorata di una statua, il David per l’appunto, Graziella Magherini , psichiatra e psicoanalista, ci guida alla ricerca delle risposte ai tanti interrogativi che si affollano alla mente del lettore. Continuando un lungo percorso di studio iniziato da tanti anni tocca i punti focali del pensiero psicoanalitico che ha segnato l’arco del XX secolo, cercando di scoprire e di capire ciò che di fronte all’opera d’arte, avviene negli strati profondi della psiche, non chiedendo all’ambiente insegnamenti, ma attenzione, ascolto, opportunità. Cosa avviene, allora, nella mente di un osservatore coinvolto emotivamente dall’opera d’arte? Le risposte vanno cercate scavando nelle parti profonde della propria personalità: l’inconscio freudiano, le esperienze vissute, le emozioni più intense, quelle arcaiche, mai ri-conosciute dall’Io cosciente. Come dire: l’arte riesce a farci sentire ciò che è dentro di noi e che non siamo riusciti a ri-conoscere e a esprimere. Fondamentale l’ultimo capitolo dedicato al David di Michelangelo: «la statua più bella del mondo», e a un’indagine dalla Galleria dell’Accademia con la quale, a completamento ed esemplificazione del «modello di fruizione artistica», si raccolgono commenti e comportamenti dei visitatori offrendo un documento eloquente della dinamica correlata all’impianto teorico.

Repubblica 21.11.08
Obama e la lotta per i diritti
di Stefano Rodotà


Dalla cellule staminali alla chiusura di Guantanamo Barack ha già segnato una discontinuità
Il neopresidente ha offerto una prospettiva diversa: la democrazia torna ad essere protagonista

L´annuncio di una serie di immediati provvedimenti di Barack Obama, per segnare già nelle prime dichiarazioni un radicale distacco dalla cultura dell´era Bush, induce (obbliga?) ad una discussione sul senso e le prospettive che assumono oggi le politiche dei diritti. So bene che, affrettandosi ad etichettare le mosse del nuovo Presidente degli Stati Uniti, si corre il rischio di cadere in quel chiacchiericcio provinciale che ha già prodotto le impagabili interpretazioni di chi ha indicato in Berlusconi e Bossi i precursori dell´innovazione prodotta dalle elezioni americane. Ma i segnali provenienti dagli Stati Uniti rimbalzano in tutto il mondo sì che, con la giusta misura, bisogna sempre prenderli sul serio.
Cellule staminali, aborto, Guantanamo sono parole familiari, che ci hanno abituato a vedere in esse addirittura il discrimine tra due mondi. Vengono pronunciate oggi per rendere subito evidente dove si vuole produrre una discontinuità. Chiudere il carcere di Guantanamo significa allontanarsi da una logica che, con l´argomento della difesa della democrazia, ha finito con il travolgere proprio i principi democratici, appannando l´immagine di un paese che ha sempre voluto identificarsi con le ragioni della libertà. Se questo annuncio significativo diverrà concreto, possiamo aspettarci anche un abbandono delle aggressive politiche di sicurezza che si sono volute imporre agli altri Stati, facendo divenire planetarie le leggi americane? Su questo punto l´Unione europea avrà qualcosa da dire se si libererà da una soggezione che l´ha indotta non solo ad accogliere eccessive pretese americane, ma anche a mimarne in maniera ingiustificata i modelli, incurante pure degli appelli ad una coerente difesa dei principi di libertà che arrivavano proprio da organizzazioni americane importanti come l´American Civil Rights Union.
Nettissima sarebbe la discontinuità legata all´abbandono delle politiche "ideologicamente offensive" di Bush che hanno vietato il finanziamento federale delle ricerche sulle cellule staminali embrionali e delle organizzazioni internazionali che aiutano le donne ad abortire legalmente. Qui, infatti, hanno pesato in modo determinante i confessionalismi religiosi e, una volta che Obama avesse ripristinato i finanziamenti pubblici, la distanza con la politica ufficiale del Vaticano diverrebbe clamorosa (e assumerebbe ben diverso significato la stessa versione della religiosità di Obama, sulla quale si sono esercitati con grande disinvoltura diversi commentatori). Su questi temi, peraltro, il sostegno dell´opinione pubblica è ben visibile, testimoniato dalla sconfitta in tre Stati dei referendum contro l´aborto e dal successo in un altro di un referendum sul suicidio assistito. E´ lecito sperare che anche in Italia sia possibile tornare con pacatezza sul tema della ricerca sulle staminali, liberandosi anche qui delle pesantezze ideologiche e mettendo magari a frutto contributi come quello recentissimo di Armando Massarenti (Staminalia, Guanda, Parma 2008)?
Le discontinuità non si esauriscono con i casi appena ricordati, ma riguardano altre importanti materie, dalla tutela dell´ambiente alla sanità, dall´istruzione ai diritti dei minori (vi fu un veto di Bush su una legge che li riguardava). Ed è importante sottolineare che la rottura con il passato può essere rapida e immediata perché la maggior parte dei provvedimenti da cambiare ha la sua fonte in "executive orders" di Bush, atti presidenziali che non hanno bisogno dell´approvazione del Congresso. Usando la stessa tecnica, Obama potrebbe effettuare in pochissimo tempo una spettacolare ripulitura del sistema giuridico americano.
Ma, al di là delle pur importantissime questioni specifiche, è significativo il modo in cui viene concepita l´intera strategia d´avvio della nuova presidenza. L´economia presenta il suo conto, pesantissimo. E tuttavia questa indubbia priorità non ha indotto nella classica tentazione della politica dei due tempi: prima i provvedimenti economici e poi i diritti civili. "Erst kommt das Fresse, dann kommt die Moral", prima la pancia e poi la morale, si canta alla fine del primo atto dell´Opera da tre soldi di Bertolt Brecht. Una politica che vuol essere moderna non si risolve tutta nell´uso delle nuove tecnologie, pur così importanti nel successo di Obama. Ha il suo baricentro nella capacità di tenere insieme economia e diritti, individuo e società. I diritti non sono un lusso o un´appendice, di cui ci si può occupare solo a pancia piena, una volta soddisfatti i bisogni economici e di sicurezza, anche perché è proprio la logica dei diritti e delle libertà a definire, in un sistema democratico, le caratteristiche delle politiche economiche e d´ordine pubblico. Ai molti americani, giovani e non, disimpegnati e lontani dalla politica Obama non ha offerto solo il fascino di You Tube, ma una prospettiva diversa, dove appunto la democrazia e i diritti tornano ad essere protagonisti e hanno bisogno di persone che diano loro voce. Una prospettiva non lontana da quella aperta in Europa soprattutto da Zapatero; che attraverso la vicenda americana si conferma, si consolida, ci dice che le politiche dei diritti hanno bisogno di radicalità; e che dovrebbe indurre qualcuno, anche dalle nostre parti, ad abbandonare schematismi e pigrizie.
Non sarà una passeggiata, quella del nuovo Presidente degli Stati Uniti, anche se la sua elezione offre una importantissima garanzia: la Corte Suprema, strumento essenziale per le politiche dei diritti, non subirà un ulteriore "impacchettamento" conservatore. Ma soprattutto il risultato del referendum californiano contro i matrimoni gay apre un delicatissimo fronte politico e giuridico. Quale sarà la linea di Obama, che pure ha esplicitamente ricordato gli omosessuali nel suo discorso di ringraziamento? Come hanno sottolineato i giuristi più attenti, quel referendum incide in forme improprie sul principio di eguaglianza e mette in discussione i diritti già acquisiti dalle diciottomila coppie che hanno utilizzato il nuovo istituto. Tempi impegnativi si sono aperti, e in essi la lotta per i diritti giocherà un ruolo essenziale.

Repubblica 21.11.08
Su "Reset" un´intervista a Zygmunt Bauman
Un’agenda per il pianeta
Serve un nuovo corso politico
di Alessandro Lanni


"È inutile contare sugli Stati-nazione per risolvere i gravi problemi globali che ci affliggono: occorre costruire un´opinione pubblica che operi finalmente su scala mondiale"
L´inquinamento atmosferico è un problema generale ma va gestito anche localmente
Spetta ai singoli trovare soluzioni ai problemi della società nel suo complesso

«Lo Stato sociale è finito, è ora di costruire il "Pianeta sociale"». Solo così, spiega Zygmunt Bauman, si potrà uscire dalla crisi globale che il mondo contemporaneo sta vivendo. La politica deve avere la forza di reinventarsi su scala planetaria per affrontare l´emergenza ambientale o il divario crescente tra ricchi e poveri. Altrimenti è condannata alla marginalità in una dimensione locale, con strumenti obsoleti adatti a un mondo che non esiste più. L´inventore della "società liquida" non crede in una capacità di autoriforma della politica, «meglio costruire un´opinione pubblica globale e affidarsi a organizzazioni cosmopolite, extraterritoriali e non governative».
I nostri politici ce la faranno a cambiare paradigma, passando dal locale al globale?
«Io non conterei molto sui governi - di nessun paese, piccolo o grande che sia - e ancor meno sui loro tentativi di collaborazione, che finiscono regolarmente in una poesia di nobili intenzioni piuttosto che in una prosa di concreta realtà. I poteri che decidono sulla qualità della vita umana e sul futuro del pianeta sono oggi globali e dunque, dal punto di vista dei governi, sono extraterritoriali ed esenti dalla loro sovranità locale. Finché non innalziamo la politica ai livelli ormai raggiunti dal potere, le probabilità di arrestare gli sviluppi catastrofici cui stiamo conducendo la nostra vita sul pianeta sono, quantomeno, scarse».
Dunque, di quali strumenti alternativi dovrebbe dotarsi la politica per affrontare le grandi emergenze del nuovo mondo globale?
«L´obiettivo di arrestare le ineguaglianze globali che tendono a divenire rapidamente più profonde non compare tra le priorità delle agende politiche degli Stati-nazione più potenti, nonostante le tante promesse fatte al riguardo. Contemporaneamente, mancano ancora un´ "agenda politica planetaria" e delle istituzioni politiche globali efficaci e dotate di risorse che gli permettano di perseguire simili obiettivi rendendoli operativi. Le prerogative territoriali degli Stati-nazione ostacolano la creazione di tale agenda e di tali istituzioni e rendono ancora più difficile il tentativo di mitigare il processo di polarizzazione».
Gli Stati da soli non possono farcela. I singoli cittadini hanno qualche possibilità in più di mettere mano ai disagi che avvertono, per organizzare un´azione collettiva?
«Qui interviene quel fattore che è stato ampiamente descritto con il termine "individualizzazione". Con il progressivo abbassarsi della condizione di difesa mantenuta contro le paure esistenziali, e con il venir meno di accordi per l´autodifesa comune, come per esempio i sindacati o altri strumenti di contrattazione collettiva, depotenziati della competizione imposta dal mercato, spetta ai singoli trovare e mettere in pratica soluzioni individuali a problemi prodotti dalla società nel suo complesso. Ma fare tutto questo da soli e con strumenti per forza limitati risulta palesemente inadeguato al compito prefisso».
Anche il climate change è tra le grandi paure e insicurezze che l´uomo occidentale deve fronteggiare.
«L´insicurezza deriva dal divario tra la nostra generale interdipendenza planetaria e la natura meramente locale, a portata di mano, dei nostri strumenti di azione concertata e di controllo. I problemi più terribili e spaventosi che ci tormentano e che ci spingono a provare una sensazione di insicurezza e incertezza riguardo a tutto ciò che ci circonda hanno origine nello spazio globale che è al di là della portata di qualsiasi istituzione politica ora esistente; tuttavia questi problemi sono scaricati sulle entità locali - città, province e Stati - dove si pretende che vengano risolti con quei mezzi disponibili a livello locale: un compito praticamente impossibile».
Eppure in molti sostengono che alcune questioni relative all´inquinamento, alla produzione d´energia, ai rifiuti, possono essere affrontate a livello «micro», di città, di governi locali.
«L´inquinamento atmosferico e la mancanza di acqua potabile sono questioni che traggono origine nello spazio globale, ma sono poi le istituzioni locali a doverle gestire. Lo stesso principio si applica al problema delle migrazioni, del traffico di droga e armi, del terrorismo, della criminalità organizzata, dell´incontrollata mobilità dei capitali, dell´instabilità e della flessibilità del mercato del lavoro, della crescita dei prezzi dei beni di consumo e così via. La sfera politica locale è sovraccarica di compiti e non è abbastanza forte o abbastanza dotata di risorse per svolgerli. Solo istituzioni politiche e giuridiche internazionali - finora assenti - potrebbero tenere a bada le forze planetarie attualmente sregolate e raggiungere le radici dell´insicurezza globale».
E un governo planetario che salverà il mondo?
«Allo stadio di sviluppo a cui è ormai giunta la globalizzazione dei capitali e dei beni di consumo, non esiste nessun governo che possa permettersi, singolarmente o di concerto con altri, di pareggiare i conti - e, senza che si pareggino i conti, è impensabile che si possano effettivamente mettere in atto le misure tipiche dello Stato sociale, volte a ridurre alla radice la povertà e a prevenire che l´ineguaglianza continui a crescere a piede libero. E altrettanto difficile immaginare governi capaci di imporre limiti sui consumi e aumentare le tasse locali ai livelli necessari perché lo Stato possa continuare a erogare servizi sociali, con la stessa intensità o con maggior vigore».
La globalizzazione cancella anche lo Stato sociale. Professor Bauman, non lascia speranza per un briciolo di giustizia e di eguaglianza nel mondo del XXI secolo?
«Non esiste una maniera adeguata attraverso la quale uno solo o più Stati territoriali insieme possano tirarsi fuori dalla logica di interdipendenza dell´umanità. Lo Stato sociale non costituisce più una valida alternativa; soltanto un "Pianeta sociale" potrebbe recuperare quelle funzioni che, non molto tempo fa, lo Stato cercava di svolgere, con fortune alterne. Credo che ciò che può essere in grado di veicolarci verso questo immaginario "Pianeta sociale" non siano gli Stati territoriali e sovrani, ma piuttosto le organizzazioni e le associazioni extra-territoriali, cosmopolite e non-governative, tali da raggiungere in maniera diretta chi si trova in una condizione di bisogno, sorvolando le competenze dei governi locali e sovrani e impedendogli di interferire».

Repubblica 21.11.08
Lévi-Strauss, una rivoluzionaria idea di uomo
Il grande antropologo compie cent’anni il 28 novembre
di Marino Niola


Il padre dello strutturalismo non è diventato famoso per aver descritto popoli primitivi, ma per le implicazioni generali del suo pensiero che incidono profondamente sul rapporto natura-cultura aprendo strade del tutto nuove
Il suo è un attacco frontale alla concezione antropocentrica dell´universo
Ad essere scardinata è la storia della metafisica e dei suoi concetti

Il 28 novembre si festeggia il centesimo compleanno di Claude Lévi-Strauss. L´ultimo dei maîtres à penser. L´uomo che ha fatto dell´antropologia quel che Freud fece della psicoanalisi, cioè uno dei grandi saperi del Novecento. Non solo una disciplina specialistica, per pochi esploratori di mondi esotici, ma un nuovo modo di vedere l´uomo.
Nessun antropologo ha esercitato un´influenza altrettanto vasta al di fuori del proprio campo. Con questo moralista classico in presa diretta sullo stato d´urgenza planetaria l´antropologia va fuori di sé per diventare scommessa filosofica in grado di revocare in questione l´opposizione tra natura e cultura, e la definizione stessa dell´umano. A differenza di altri grandi antropologi come Franz Boas, Bronislaw Malinowski, Margaret Mead e Gregory Bateson, il padre dello strutturalismo non è divenuto celebre per aver descritto popoli primitivi ma piuttosto per le implicazioni generali del suo pensiero. E proprio in questo ampio respiro stanno il fascino e la sfida dell´impresa teorica levistraussiana.
L´antropologo francese non è stato il primo né il solo a sottolineare il carattere strutturale dei fenomeni sociali, ma la sua originalità sta nel prendere questo carattere sul serio e trarne imperturbabilmente le conseguenze. È naturale che una ricerca di questo tipo abbia suscitato discussioni e polemiche non fosse altro che per il fatto di condurre ad una messa in discussione di certe categorie tipiche dell´umanesimo occidentale, non ultimi i concetti di «uomo» e di «umanità». E d´altra parte in un celebre passo del Pensiero selvaggio Lévi-Strauss ha affermato che «il fine ultimo delle scienze umane non consiste nel costituire l´uomo ma nel dissolverlo».
La conoscenza dell´alterità, che rappresenta il compito dell´etnologia, è solo la prima tappa di un itinerario di ricerca delle invarianti che consentono di riassorbire «talune umanità particolari in una umanità generale». E dunque di «reintegrare la cultura nella natura e, in sostanza, la vita nell´insieme delle sue condizioni fisico-chimiche». Il vero oggetto della polemica levistraussiana è con tutta evidenza quell´umanismo che fonda i diritti dell´uomo sul carattere unico e privilegiato di una specie vivente, quella umana, anziché vedere in tale carattere un caso particolare dei diritti di tutte le specie. Più che di una professione di antiumanesimo si tratta di un attacco frontale portato alla sua declinazione antropocentrica, alla metafisica umanistica del soggetto. A questo insopportabile enfant gaté delle scienze umane, il grande antropologo oppone una concezione dell´uomo «che pone l´altro prima dell´io, e una concezione dell´umanità che, prima degli uomini, pone la vita». In questo senso è stato osservato che Lévi-Strauss ha contribuito a decostruire «la convinzione giudaico-cristiana e cartesiana secondo la quale la creatura umana è la sola ad essere stata creata ad immagine e somiglianza di Dio».
* * *
Se si chiede ad un Indiano americano cosa sia un mito, ci sono molte probabilità che risponda: «una storia dei tempi in cui gli uomini e gli animali non erano ancora distinti». Questa definizione appare a Lévi-Strauss di grande profondità perché «malgrado le nuvole d´inchiostro sollevate dalla tradizione ebraico-cristiana per mascherarla, nessuna situazione pare più tragica, più offensiva per il cuore e per l´intelligenza, di quella di una umanità che coesiste con altre specie viventi su una terra di cui queste ultime condividono l´usufrutto e con le quali non può comunicare». Affiora qui il pessimismo dell´autore di Tristi Tropici che all´idea prometeica dell´uomo che assoggetta la natura, sostituisce una visione tragica del soggetto e di una natura entrambi mutilati, perché separati dall´altra parte di sé.
Un decentramento del soggetto che riflette l´idea di un rapporto non strumentale con la natura in cui, per dirla con Adorno, questa non è mero oggetto, Gegenstand, ma piuttosto partner, Gegenspieler. Già nei primi anni Cinquanta, con una sensibilità ecologista in largo anticipo sui movimenti ambientalisti attuali, l´antropologo francese denunciava il pericolo di un umanesimo narcisisticamente antropocentrico, e per ciò stesso etnocentrico, che dimentica i diritti del vivente in nome di un´idea astratta della vita, che fa dell´uomo il signore unico del pianeta e della sua riproduzione il fine ultimo della natura. In questo senso Michel Maffessoli ha ritenuto di poter accostare la denuncia levistraussiana del saccheggio del mondo alla critica heideggeriana della devastazione della terra da parte della metafisica.
Per Derrida la nascita stessa dell´antropologia è stata possibile a condizione di questo decentramento del soggetto che ha inizio «nel momento in cui la cultura europea - e di conseguenza la storia della metafisica e dei suoi concetti - è stata scardinata, scacciata dal suo posto, costretta quindi a non considerarsi più come cultura di riferimento». La critica dell´etnocentrismo, che è stata, e resta, la condizione stessa dei saperi antropologici è, per l´autore de La scrittura e la differenza, contemporanea, addirittura simultanea alla distruzione della storia della metafisica.
In un celebre testo dedicato a Jean-Jacques Rousseau, Lévi-Strauss istituisce una relazione tra l´identificazione agli altri, e addirittura «al più "altro" fra tutti gli altri, l´animale», e il rifiuto di tutto ciò che può rendere accettabile l´io. Il rifiuto insomma di quella trascendenza di ripiego che resta, a suo avviso, profondamente insediata nell´umanesimo. In molte occasioni il padre dello strutturalismo rimprovera infatti ai filosofi, in particolare agli esistenzialisti, di aver operato un rovesciamento prospettico, dando prova di un´autentica perversione epistemologica, pur di costruire un rifugio per l´io «nel quale quel misero tesoro che è l´identità personale tenda a essere protetto e dato che le due cose insieme sono impossibili essi preferiscono un soggetto senza razionalità a una razionalità senza soggetto». In questa idea di una razionalità senza soggetto affiora proprio quel «kantismo senza soggetto trascendentale» attribuito a Lévi-Strauss da Paul Ricoeur a proposito dell´analisi dei miti con la quale il grande antropologo ha offerto la formulazione più radicale delle sue tesi sull´accordo esistente tra cultura e natura, fra spirito e mondo.
E a quei filosofi che lo accusano di avere abolito il significato dei miti e di averne ridotto lo studio a sintassi di un discorso che non dice niente, Lévi-Strauss, nelle ultime pagine de L´uomo nudo, riserva una risposta a dir poco tranchante. Le mitologie, egli afferma, non nascondono nessuna verità metafisica né ideologica ma in compenso ci insegnano, per un verso, molte cose sulle società che le tramandano e per l´altro verso ci offrono l´accesso a certe modalità operative dello spirito così stabili nel tempo e ricorrenti nello spazio da poterle considerare basilari. E conclude con una suprema sprezzatura: «lungi dall´averne abolito il senso, la mia analisi dei miti di un pugno di tribù americane ne ha tratto più significato di quanto se ne trovi nelle banalità e nei luoghi comuni a cui si riducono, da circa duemilacinquecento anni, le riflessioni dei filosofi sulla mitologia, a eccezione di quelle di Plutarco».
* * *
Molti hanno rimproverato allo strutturalismo un atteggiamento antistorico, ma in realtà Lévi-Strauss ha sempre tenuto a distinguere nettamente la storia, alla quale attribuisce un´importanza straordinaria, dalla filosofia della storia à la Sartre, una pseudo-storia che, in ogni sua versione, laica o confessionale, evoluzionista o storicista, costituisce un tentativo di sopprimere i problemi posti dalla diversità delle culture pur fingendo di riconoscerli in pieno. Tale filosofia della storia - che appare a Lévi-Strauss della medesima natura del mito - deriva dalla fede biblica in un compimento futuro e finisce con la secolarizzazione del suo modello escatologico che si muta in teoria del progresso. Il vizio costitutivo di tale filosofia, che rivolge verso il futuro il concetto classico di istorein e trasforma il racconto del passato in previsione del futuro, un futuro oggetto di un´attesa fideistica. In questo senso Lévi-Strauss non si limita a respingere l´accusa di antistoricismo ma, quel che più conta, rivendica all´antropologia un modo tutto proprio di interrogare i materiali storici, con quell´attenzione ai fatti minuti della vita quotidiana che fa degli etnologi gli «straccivendoli» della storia, quelli che rimestano nelle sue pattumiere.
E una vera e propria eterologia quella messa in opera da Claude Lévi-Strauss, in grado di farci cogliere quanto di noi stessi c´è nell´altro e quanto di altro si trova in fondo a noi stessi. Quel fondo che ci fa tutti parenti perché tutti differenti e che qualcuno continua a chiamare umanità.

Repubblica 21.11.08
Cosa vuol dire ragionare in termini di millenni
Un pomeriggio col professore
di Bernardo Valli


Prima di raggiungere l´appartamento del Sedicesimo Arrondissement, a due passi dalla Senna e dalla Maison de la Radio, sfogliai Tristi Tropici, e ne rilessi alcuni passaggi. Non avevo detto a Claude Lévi-Strauss il motivo dell´incontro. Né lui si era dimostrato curioso. Era un puntuale collaboratore di Repubblica (era stato Pietro Citati a convincere lui e il medievalista Georges Duby a scrivere per le nostre pagine culturali), e con la redazione parigina, che faceva da tramite, aveva ormai un rapporto se non assiduo garbato. È dunque approfittando di questo modesto legame che quel giorno di dicembre andai a casa di Lévi-Strauss armato di numerose e ambiziose intenzioni.
Avrei voluto anzitutto che mi parlasse del romanzo che aveva cominciato a scrivere a Parigi, di ritorno dal Brasile nei mesi precedenti alla guerra del ?39. Romanzo che avrebbe probabilmente avuto come titolo Tristi Tropici, lo stesso adottato quindici anni dopo per il saggio, in cui la magia della scrittura fa dimenticare facilmente che non si tratta di una fiction. Nelle prime pagine del romanzo abbandonato figurava la descrizione del tramonto («... ces cataclysmes surnaturels...») osservato dal ponte della nave diretta nell´America del Sud, descrizione poi recuperata, insieme al titolo, nel saggio pubblicato nel ?55. Lévi-Strauss trovò che le prime pagine del romanzo erano «un pessimo Conrad» e abbandonò per sempre l´idea di lanciarsi nella narrativa pura. La trama immaginata e gettata nel cestino era la vicenda di un viaggiatore che in Oceania usa un grammofono per ingannare gli indigeni e farsi passare per un dio.
Mi sarebbe piaciuto descrivere il «mancato Conrad» diventato uno dei grandi intellettuali del secolo. La prima domanda che mi proponevo di rivolgergli era dunque già pronta: «A trent´anni lei voleva usare i suoi viaggi tra gli indiani kaingang, caduveo e boroboro, come Conrad usò i suoi viaggi di mare nei romanzi? In questo caso, se avesse avuto successo come romanziere, il suo destino sarebbe radicalmente cambiato?». Mi affascinava appunto l´idea del mancato romanziere che per ripiego si dedica interamente all´etnologia, sia pur scrivendo, per nostra fortuna, anche di musica, di pittura, oltre che di letteratura. Qualche volta di poesia. Un Lévi-Strauss che ha rinunciato a inventare trame esotiche, ritenendo di non avere un talento adeguato, e che ha invece raccontato scientificamente civiltà «selvagge», traendone una morale irrinunciabile. Morale secondo la quale una società educata non può essere scusata per il solo crimine veramente inespiabile dell´uomo: peccato che consiste «nel credersi durevolmente o temporaneamente superiore e nel trattare degli uomini come oggetti: in nome della razza, della cultura, della conquista, della missione o semplicemente dell´espediente».
La mia ambizione si è sgonfiata in pochi secondi quando mi sono trovato davanti Lévi-Strauss, più che novantenne, ironico, forse divertito, del mio iniziale, prolungato silenzio, durante il quale valutavo l´opportunità di affrontare un tema tanto remoto e intimo. In definitiva gonfiato dalla mia immaginazione. Lasciai dunque cadere, saggiamente, il tema del mancato Conrad, e scivolai nel contrario: cioè nella stretta, banale attualità. Gli chiesi cosa pensasse della moneta unica europea che in quei giorni entrava o stava entrando in servizio. Rise. «Cosa c´entra un antropologo? Non sarebbe stato meglio rivolgersi a uno storico? Io mi occupo di selvaggi», si schernì. Per difendermi ricordai un vecchio testo di Merleau-Ponty, il filosofo amico di Lévi-Strauss, scritto in occasione della nomina di quest´ultimo al Collège de France. In quel testo si parlava di un´opera fondamentale per l´antropologia sociale: Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, di Marcel Mauss. Il tema ricorre ovviamente nelle opere di Lévi-Strauss. Perché non recuperare l´argomento e allacciarlo alla vita d´oggi?
Alla mia candida, ingenua reazione il padrone di casa venne in mio soccorso. Mi disse: «Allo scoppio della guerra, nel ?14, avevo sei anni e andai in banca a offrire le monetine che possedevo per la difesa della patria. I franchi erano allora d´oro». Per lui la svolta nel rapporto col denaro è avvenuta quando si è passati dalle monete metalliche a quelle di carta. Quella è stata la vera rottura. Quanto a una moneta indipendente dai governi nazionali, era a suo avviso una fortuna. Può darsi che tutto finisca in un disastro, ma non sarà un disastro peggiore di quello provocato puntualmente dai politici sul piano monetario.
«Vede - aggiunse - il mestiere di etnologo mi ha insegnato progressivamente a pensare non in termini di decenni, e neppure di secoli, ma di millenni, anzi di decine di millenni, dunque quando parlo di questo secolo penso che tra due o tremila anni non se ne saprà più nulla. Immagini tra venti o trentamila. Pensiamo a tante cose come importanti ma se le collochiamo nel tempo scompaiono. Ciò non toglie che mi interessino».
Gli chiesi allora cosa era stato fatto, ad esempio, di tanto importante decine di migliaia di anni fa da esserlo ancora oggi. Disse: «Certamente l´invenzione del vasellame, della ciotola per prima, e del tessuto che usiamo ancora. Sono cose più importanti di quelle che si scoprono adesso e di cui non sappiamo se resteranno tali, cioè importanti, nei millenni a venire». Neppure la bomba atomica con la quale l´uomo ha costruito qualcosa che può distruggere l´umanità? «Non sono sicuro che sia vero. Anche se si fanno esplodere tante atomiche insieme non sono certo che si distruggerebbe l´umanità intera». Non resteranno neppure le scoperte nella genetica? «Si, penso che resteranno. Ma via via che si faranno delle scoperte ci si accorgerà che è molto più complicato di quel che si immaginava. Il mondo, la vita sono assai più misteriosi oggi di quanto lo fossero uno o due secoli fa. Perché allora si pensava che fossero semplici».
E la cosiddetta globalizzazione, che rimpicciolisce il mondo, sul piano economico e su quello dell´informazione, diventata simultanea sull´intero pianeta? «Non è una cosa che mi rallegra - mi disse Lévi-Strauss-. Penso che le differenze siano più interessanti. Quando era tutto molto diverso, il cinese poteva aspettarsi molte cose da noi, e noi da lui. Adesso che siamo quasi uguali possiamo aspettarci molto poco uno dall´altro. Immagino che tante differenze riaffioreranno. Presto». Il mondo rimpicciolito dalla velocità delle comunicazioni, dei trasporti, ha ucciso, per lui, anche il viaggio esotico, come esisteva un tempo. Era già minacciato al tempo di Tristi Tropici.

Repubblica 21.11.08
Il premio filosofico
"Viaggio a Siracusa" per Marramao


SIRACUSA - E´ Giacomo Marramao per il saggio La passione del presente il vincitore del Premio di Filosofia "Viaggio a Siracusa", la cui giuria è presieduta da Remo Bodei e Umberto Curi. Il riconoscimento alla carriera va a Maurizio Ferraris, mentre quello per la "tesi di laurea" ad Anna Molinari (Università di Bologna). La consegna si svolgerà durante il convegno "Italia, Europa, mondo: tra paura e speranza", oggi e domani al Palazzo del Senato.

Corriere della Sera 21.11.08
A sette mesi dalla sconfitta elettorale
Il futuro a rischio del Pd
di Paolo Franchi


Quando, un paio di anni fa, la nave del Pd prese finalmente il largo, si disse che stava per nascere non un nuovo partito, ma un partito nuovo. Non voleva essere soltanto un gioco di parole.Di nuovi partiti, dopo il collasso della Prima Repubblica, ne erano nati e morti un'infinità: nessuno avrebbe potuto entusiasmarsi all'idea di metterne su un altro, seppure più grosso, nella speranza che le debolezze di Ds e Margherita, sommate, dessero luogo a una forza.
Porre mano alla costruzione del partito nuovo del centrosinistra, invece, rivelava, o avrebbe dovuto rivelare, ben altre ambizioni. Magari di natura diversa. Quelli che avevano una qualche dimestichezza con il Pci potevano cogliervi, volendo, anche un richiamo al miracolo politico di Togliatti au retour de Moscou (in fondo l'unica rifondazione che il comunismo italiano, trasformandosi da setta di rivoluzionari di professione in partito di massa fedele all'Urss, certo, ma anche radicato in tutte le pieghe della società, abbia mai conosciuto), e insomma una trasfigurazione, e al tempo stesso un inveramento, della loro storia: veniamo da lontano, e andiamo lontano. Ma di Togliatti in giro non ce n'erano, e nel costituendo Pd potevano al massimo inverarsi e trasfigurarsi, come in effetti è accaduto, il Pds e i Ds, che del Pci avevano ereditato quasi tutti i vizi ma quasi nessuna virtù. Quelli che con questa storia non avevano legami, o li avevano più nettamente recisi, immaginavano qualcosa di diverso: un partito come in Italia non c'era mai stato, la casa in cui tutti i riformismi e tutti i riformisti avrebbero potuto vivere da liberi e da eguali, una grande forza post ideologica a vocazione maggioritaria in grado di candidarsi a governare in una democrazia bipolare, e anzi tendenzialmente bipartitica. Ma per gettare le basi di un partito così sarebbe servito un big bang, o almeno un vigoroso rimescolamento delle carte: non se ne è vista traccia, come per primi hanno dovuto constatare (a modo loro, e comunque in solitudine) Marco Pannella e i radicali.
I risultati si vedono. Nessuno, nemmeno quelli che sul nascente Pd erano stati critici e comunque dubbiosi, immaginava che, in un così breve volgere di tempo, la realtà si sarebbe rivelata peggiore delle previsioni più pessimistiche. Sette mesi dopo la sconfitta elettorale, fatica oltremisura a prendere corpo non solo la poesia del partito nuovo, ma anche la prosa del nuovo partito.
Magari perché un partito, vecchio nuovo o seminuovo che sia, è tante cose, nobili e meno nobili. Ma prima di tutto è una comunità di valori e, perché no di interessi, un «grumo di vissuto», direbbe Pietro Ingrao, che non sta insieme se non c'è un mutuo riconoscimento di buona fede e di lealtà. Una comunità in cui si discute, ci si divide e, nel caso, ci si accapiglia, ma avendo sempre chiaro che c'è un limite oltre il quale l'unica prospettiva diventa la scissione o, peggio ancora, l'implosione: e cioè, parafrasando Marx, la comune rovina delle parti in lotta.
È tutto da stabilire se il Pd abbia queste caratteristiche. Anzi, a dire il vero sembrerebbe proprio di no. E sembrerebbe pure che quel limite, se non è già stato superato, sia sul punto di esserlo. Saremmo felici di sbagliare. Ma già ora non ci si chiede tanto quale sarà il futuro del Partito democratico, quanto piuttosto se un futuro il Partito democratico lo abbia, o se invece siamo già all'inizio di una fine annunciata. Come se al Pd stesse capitando qualcosa di simile a quello che capitò, quaranta e passa anni fa, al Partito socialista unificato, con la differenza che allora, nel momento della separazione, fu comunque possibile ai contendenti, peggio che ammaccati, rientrare nelle vecchie case, il Psi e il Psdi, mentre stavolta non ci sarebbero tetti, seppure malcerti, sotto cui trovare riparo nella bufera. O stesse succedendo qualcosa di simile a quello che potrebbe succedere ai socialisti francesi, paralizzati dai contrasti insanabili, di potere e di linea, tra prime donne che non riescono a prevalere l'una sull'altra, ma a bloccarsi reciprocamente sì.
Esagerazioni, forzature, indebite drammatizzazioni? Può darsi. Ma a chi trovasse ingeneroso porre la questione in questi termini, basterebbe suggerire di scorrere le cronache di questi giorni, con il loro ampio corredo di reciproci sospetti sempre più velenosi e di reciproche accuse (dall'insussistenza politica all'intelligenza con il nemico) sempre più infamanti. Ci si può esercitare nel tentativo di stabilire chi porti le responsabilità maggiori. Molto probabilmente, con tutto quello, e non è davvero poco, che gli si può rimproverare, non è il segretario. Ma non è questo il punto. Il punto è se il tutto il Pd è in grado di provarsi a stabilire subito, non domani o dopodomani, come e perché si è andato a cacciare in una situazione come questa, che non si lascia spiegare soltanto con una batosta elettorale prevedibile ma mai davvero indagata, e che la gente del Circo Massimo non merita; e se è ancora possibile uscirne, e per quali vie. Il punto è, in altri termini, se stiamo parlando di un organismo malato sì, ma vitale. In caso contrario, sarebbero guai seri. Per il Pd, si capisce. Ma anche per la democrazia italiana. Che, come tutte le democrazie, di un'opposizione degna di questo nome ha un bisogno vitale.
Specie in tempi calamitosi come quelli che si avvicinano.

il Riformista 21.11.08
La sinistra è come la Cecenia
di Peppino Caldarola


La sinistra è come la Cecenia. Appostati negli angoli o piantati nel bel mezzo del sentiero i cecchini sparano a vista. Gli organismi dirigenti sono sempre sul punto di essere convocati per trasformarsi in tribunali speciali per processare le idee, le amicizie politiche, i pizzini di Latorre. I tiratori scelti hanno preso la scena. Dilagano le "guardie rossicce". Fateci caso, ogni volta che qualcuno apre bocca scatta la richiesta di metterlo sotto processo per offese al capo. Molti di loro hanno costruito una carriera politica presentandosi come liberal. Si sono fatti paladini della rottura con qualsiasi tradizione perché volevano mani libere per scrivere le nuove tavole della legge. Una volta arrivati al potere hanno censito gli avversari del leader e sono sempre pronti a chiederne la testa. Se li incontrate evitateli, hanno in tasca la sentenza anche per voi. Il Partito ex democratico è finito nelle loro mani. Passano la giornata a compulsare agenzie di stampa, a sottolineare le dichiarazione dei sospettati, ad agitare davanti al leader, che sogna Obama ma assomiglia a Chávez, le colpe degli infedeli. State alla larga se ci tenete alla pelle o più semplicemente se volete continuare a essere uomini liberi. Noi apolidi di sinistra nel vagabondare solitario in attesa di una sinistra veramente democratica abbiamo la fortuna di non incontrarli mai. Abbiamo fatto a tempo a evitare Stalin, possiamo tenerci alla larga dagli epigoni. Il vero leader del "P-ex-D" ormai è Di Pietro.

il Riformista 21.11.08
Nella Sinistra ora si fanno sogni coi baffi
Fu Rifondazione. Giordano spera che D'Alema faccia la guerra a Veltroni. E i suoi: «Se facesse la socialdemocrazia staremmo lì». Ferrero: «L'ex segretario non ha il senso del ridicolo». Bertinotti resta cauto sul Pd.
di Alessandro De Angelis


E così anche una parte di Rifondazione - anzi una parte dell'area di Nichi Vendola - ha un sogno proibito. Che si chiama Massimo D'Alema. Certo, dicono in molti, anche lui ha dei limiti: è volubile, più attento alla tattica che al tema dell'identità. Ma Massimo è Massimo: uno tosto, che viene dal Pci. Mica un gruppettaro di Democrazia proletaria alla Ferrero. E ieri l'ex segretario Franco Giordano il suo I have a dream l'ha consegnato al manifesto: «Nel Pd ci sono due linee politiche, è il momento di farle emergere». Praticamente: Massimo, facci sognare.
Giordano&Co la partita grossa se la vogliono giocare dopo le europee. Quando nel Pd - almeno così pensano - D'Alema aprirà il fuoco su Veltroni. Per ora si sono attestati sulla linea del "né né" (né nel col Pd né con Ferrero): «Non serve - ha detto Giordano - una sinistra identitaria e nostalgica, e non serve neanche una sinistra che fonda la sua cifra sull'impostazione di governo e sul condizionamento di un partito che si definisce di centro». La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la lettera di Veltroni a Galli della Loggia sul Corriere di due giorni fa. Dicono gli uomini vicini all'ex segretario: «Walter ci aveva dato segnali di apertura ma quando Confindustria gli ha presentato il conto dicendogli niente alleanze, lui si è sdraiato come uno zerbino». Massimo, invece, è fatto di tutt'altra pasta. Qualcuno a microfoni spenti si lancia: «Se ci fosse un partito socialdemocratico di stampo bersaniano, noi faremmo la sinistra lì dentro. Sarebbe bene che D'Alema dicesse in pubblico quello che dice in privato». Patrizia Sentinelli, a microfoni accesi, va cauta: «Certo che ci interessa di più una linea che abbandoni la strategia neocentrista. Ma la discussione deve partire dai contenuti: scuola, lavoro, difesa del contratto nazionale dopo l'attacco di Berlusconi a Epifani».
Per ora D'Alema, in privato, ha blindato Vendola in Puglia. Non sono infatti in pochi - nel Pd - quelli che vorrebbero un cambio di cavallo in vista delle prossime regionali. Ma il leader maximo ha fatto sapere che «Nichi non si tocca». Dentro Rifondazione, se Giordano ha cucinato il messaggio politico, la riflessione "alta" l'ha fatta Bertinotti ai suoi: «Se la Cgil tiene sul conflitto sociale il Pd non regge, si può rompere. A quel punto si apre un'altra fase». Per questo ha frenato sulla scissione di Rifondazione spostando avanti l'obiettivo: «Va ricostruita la sinistra. E i tempi non sono brevi. Di certo la scadenza non sono le europee» è quello che ripete come un mantra e su cui ha scritto una riflessione approfondita su Liberazione, aprendo un dibattito col fior fiore dei ragazzi del secolo scorso, da Mario Tronti a Rossana Rossanda. Fausto però sul Pd è più cauto. Oggi farà uscire un articolo, sempre su Liberazione, firmato da Alfonso Gianni, la sua ombra, e Alfiero Grandi (Sd) in cui la proposta è «una lista di coalizione della sinistra per le europee». Praticamente una sorta di Arcobaleno che non cancelli i simboli dei singoli partiti. Ovvero, un altro modo per dire no alla scissione.
Il "né né" (sottotitolo: aspettando D'Alema) è quasi un "bye bye" a Claudio Fava: una lista solo con lui dentro Rifondazione ormai sono in pochi a volerla fare. E dentro Sd sono sull'orlo della crisi di nervi. Per gli ex ds il nuovo soggetto unitario («La sinistra») s'ha da fare, senza se e senza ma, in vista delle europee. Spiega il leader di Sd Fava: «Nel paese c'è bisogno di una sinistra. L'accelerazione è nei fatti e i dirigenti dei partiti non possono fingere che il processo non sia in corso. I gruppi unitari stanno nascendo ovunque. Non si tratta di una sinistra collocata a metà tra Rifondazione e il Pd come teme Bertinotti ma al di sopra di questa geografia politica. Non dico che le europee sono l'autobus della storia ma quasi».
Uno che la socialdemocrazia non la vuole - nemmeno con i baffi di D'Alema - è Paolo Ferrero: «Giordano non ha il senso del ridicolo. Da una posizione di debolezza vuole pure dare consigli su come si fa la scissione nel Pd. Vedo le differenze tra D'Alema e Veltroni sull'organizzazione del sistema politico ma sui contenuti no». Ferrero si muove in tutt'altra direzione. In questi giorni sta incontrando i vari segretari dei partiti della sinistra (ieri il segretario del Pdci Diliberto) per lanciare la sua idea di un coordinamento di tutte le forze di opposizione. Ma guai a chi tocca falce e martello: «Non sono un nostalgico - prosegue - ma se uno non sa chi è non va da nessuna parte». Ma dentro Rifondazione avanza la socialdemocrazia targata D'Alema.

Repubblica Firenze 21.11.08
Il David di Magherini uno specchio per tutti
Quella statua è magnetica
Una percezione che interroga le latenze omosessuali di alcuni visitatori
di Anna Benedetti


Il David di Michelangelo come specchio profondo dell´anima, dove ciascuno di noi riesce a cogliere quel barlume di se stesso ignoto ma che vuole rivelarsi. Nelle sale dell´Accademia un gruppo di studiosi guidati da Graziella Magherini hanno analizzato le reazioni dei visitatori davanti al capolavoro. Il risultato è nel nuovo libro della psichiatra fiorentina, Mi sono innamorato di una statua. Oltre la sindrome di Stendhal che sarà presentato oggi alle 17.30 alla Biblioteca delle Oblate (via Sant´Egidio 21) da Cristina Acidini e Vera Fortunati nell´ambito di «Leggere per non dimenticare».
Le righe prescelte riguardano un visitatore che si immedesima nel David, pronto a sperimentare emozioni tanto più intense quanto più l´opera diventa lo specchio di sé (pagg. 133-135).
Tre turisti viaggiatori, colti, sensibili, che hanno scelto il confronto con il luogo d´arte in un rapporto diretto, non mediato dall´organizzazione turistica, una scelta nella sfera intima delle relazioni. Sono arrivati in successione cronologica alla mia osservazione nell´arco degli ultimi tre anni. Dimensioni profonde, motivazioni, bisogni, spinte innate e comuni a tutta l´umanità entrano nella complessa relazione tra questi visitatori-fruitori e il David. (...) Benoît, universitario francese, (...) si sente aggredito da una percezione molto forte "insostenibile" ed è vicino all´attacco di panico. "Non capisco che cosa mi sia accaduto (...). Quest´opera determina un campo magnetico, uno spazio contaminato, elettrizzato (...). Si coglie la perfezione anatomica nei meandri periferici del corpo, l´anatomica precisione di tutti i particolari. La mia reazione non è stata contemplativa. Si reagisce, è un´azione. E´ una percezione molto forte, è uscito il movimento. Non è una statua immobile, il gesto del piede che è alzato con le ginocchia, che sta per andare (?). Molto sensuale". Benoît ha esposto se stesso all´esperienza estetica e si è sentito disturbato perché la percezione dell´opera ha richiamato parti latenti della sua personalità, ha ?interrogato´ la parte omosessuale scatenando una tempesta emozionale. In un colloquio successivo, in perfetto italiano, facendo nuovamente un resoconto dell´esperienza, rasserenato, dichiara: "La forma del David investe platonicamente l´una e l´altra parte di quella totalità, la quale solo perché divisa cerca l´altra parte. La totalità ritorna alla sua pristina indivisa unità di armonia". Abbiamo concluso con Benoît, che molti visitatori di incerto assetto psicosessuale, soprattutto se giovani, possono venirne turbati.