domenica 23 novembre 2008

Repubblica 23.11.08
Se n’è andato Sandro Curzi saggio bolscevico di TeleKabul
di Filippo Ceccarelli


Il saluto di Napolitano: "Ho perso un amico"
Uomo di grandi fedeltà e autentici sentimenti, fu apprezzato dai suoi avversari

SE N´È andato pure Sandro Curzi, rara figura di saggio, adorabile bolscevico di questo tempo: e a parziale consolazione del sincero dolore di Giorgio Napolitano ? «Ho perso un amico» ? vengono in mente i primi versi di una canzone d´autore ignoto.
Una canzone di popolo, anno 1946, intitolata "Su´, comunisti della capitale". E dunque: "Su´ comunisti della capitale,/ è giunto alfine il dì della riscossa,/ quando alzeremo sopra il Quirinale/ bandiera rossa!". Ecco, non è andata proprio così. Ma questa marcia di cuore suona oggi ideale per accompagnare l´addio dell´intrepido "Sandrino", che non ha mai mollato, e sempre a modo suo: "E se cadremo in un fulgor di gloria,/ schiacciando borghesia e capitalismo,/ nel sangue sorgerà la nuova storia/ del comunismo". Si perdoni qui l´accesso di retorica, però Curzi, figlio di un barbiere del quartiere Monti, "smagatissimo" comunista romanesco, a tal punto scettico da poter fare la barba al cinismo, ecco, era un uomo di grandi fedeltà e di autentici sentimenti. Di più, se possibile: era un grande attore della Causa, un mattatore che sul palcoscenico della sua ricca esistenza come nessun altro e oltre ogni limite della storia è riuscito a tener viva la passione per il comunismo, mai rinnegandolo dopo la sua rovinosa caduta, anzi in qualche modo rendendogli gloria con un indubbio successo di pubblico. E tutto questo, probabilmente, proprio perché Sandro Curzi non nascondeva le sue emozioni: era allegro, furbo, burbero, popolaresco e di potere, anarcoide e disciplinatissimo, comunque originale e adattabile. Riusciva a restare affabilmente se stesso nella sezione Regola-Campitelli (dove fu inutilmente e crudelmente espulso nel 1997), ma anche nei caffè di via Veneto, in redazione, in tipografia, nel Transatlantico di Montecitorio, sulle terrazze, nel CdA della Rai, poltroncine dei talk-show, su un camion no-global, al mercato, per strada. A ciascuno il suo Curzi, rispettato dai peggiori nemici del comunismo e ad alcuni di loro ? due nomi per tutti: Berlusconi e la Mussolini ? addirittura simpatico. Militante precocissimo cresciuto alla scuola di Ingrao e coltivato da Pajetta negli anni del ferro e del fuoco, quando, per intendersi, insieme con il giovane Enrico Berlinguer difese le Botteghe Oscure da un assalto neofascista. Oppure quando, per spirito di disciplina, accettò di camuffarsi da "non comunista" e venne prestato, per così dire, a un partitino liberale dissidente per non far scattare la legge truffa. A un certo punto arrivò all´estremo sacrificio di andare a lavorare per una radio del Pci nella grigia e gelida Praga, oltretutto piena di spie. Cronista e vicedirettore di gran fiuto (Unità e Paese Sera), grande lavoratore, imbattibile nel gioco dei quattro cantoni del giornalismo fiancheggiatore (Botteghe Oscure, federazione romana, cellula interna e amministratore Terenzi). Con il cattolico Luciano Cerchia poi alla guida del sindacato (sul Tempo di Enrico Mattei erano stati ribattezzati "Cicerchia & Curzoli"). Negli ultimissimi anni ottanta divenne direttore del Tg3: da 380 mila telespettatori la sua direzione decuplicò l´audience, pure allevando un sacco di ottimi giornalisti del piccolo schermo. Fu la stagione irripetibile di "TeleKabul" (conio di Giuliano Ferrara) e la consacrazione mediatica della famosa "ggente". Che poi, a pensarci bene, non era solo il contraltare all´incipiente populismo berlusconiano, ma soprattutto l´aggiornamento televisivo di quello che nella decennale pedagogia del Pci era stato il popolo. Entità alla quale Curzi, che dal popolo proveniva e in un partito autenticamente popolare era stato forgiato, ha sempre tenuto nel debito conto, contro ogni "snobismo pseudo-sinistrese". Milioni di italiani l´hanno conosciuto sul video, la pipa in bocca, pelato come Kojack, e certamente ricordano i suoi "embé?", accompagnati dalla mano a pigna; così come ricordano i suoi "vabbé!", preceduti da cupi mugolii che si scioglievano in una specie di sorriso, con scuotimento di testa, come chi la sa lunga. Il numero classico prevedeva una finta sorpresa: "E io mi stupisco!", proclamava stentoreo e definitivo. Si capiva benissimo che non era vero, ma proprio per questo funzionava a introdurre il registro lacrimoso, o collerico. Fece anche il direttore del Tg di TeleMontecarlo. Nel 1996 gli parve giusto di celebrarsi in un´autobiografia dal titolo "Il compagno scomodo" (Mondadori). L´anno seguente si presentò alle elezioni nel collegio del Mugello, contro Di Pietro e Giulianone Ferrara. Andò anche a cantare a Sanremo e fece il nonno in un cortometraggio presentato a Venezia. Scelse Rifondazione perché da quelle parti gli pareva di sentire ancora un po´ di vita, un po´ di popolo, un po´ di giovani. Ma oramai era una sorta di icona, e alle manifestazione la folla si apriva come il Mar Rosso per farlo passare. Specie a rileggerli oggi, sono bellissimi i necrologi scritti da "Sandrino" quando se ne andavano gli amici della sua vita e le figure della sua sentimentale immaginazione: le centinaia e centinaia di rose per Alida Valli, un Capodanno abbracciato a Luigi Pintor in una trattoria spersa nella campagna romana. Ha lavorato, come si dice in questi casi, fino all´ultimo, ma sul serio. C´è un dispaccio d´agenzia che fa il punto sull´"offensiva mortale" portata avanti dalla finanza e dalla politica contro la libertà d´informazione in Rai: "Stanno scherzando col fuoco ? scriveva il saggio Curzi ? E forse, per vie oggi imprevedibili, ne pagheranno anch´esse il prezzo" (Ansa, 22 settembre 2008, h 18.04).

Liberazione 23.11.08
Sento ancora il bisogno del tuo sorriso ironico di fronte all'avversario
di Pietro Ingrao


La battaglia politica e sociale di Sandro Curzi cominciò presto, prestissimo. Aveva appena tredici anni quando al liceo romano "Tasso" impattò con quel gruppo di studenti raccolti attorno a Alfredo Reichlin, che presto si gettarono nella Resistenza romana e- ancora agri -iniziarono a militare nel Partito Comunista. Come siamo stati avari di memorie e di riconoscimenti di fronte a quell'evento singolare che nella Capitale stretta nella tenaglia nazista vide quasi miracolosamente scendere in campo una leva nuova di cospiratori poco più che adolescenti. Venivano per gran parte da un mondo borghese, e nelle periferie romane (Torpignattara, Ponte Milvio, Ostiense ...) si mischiavano a un proletariato poverissimo attanagliato dalla fame e dalla prepotenza nazi-fascista.
Così anche a Roma iniziava a formarsi quel cemento nazionale che fu base della grande ribellione antifascista, e patì quei massacri che rimasero amara leggenda: i morti delle Ardeatine…
Tali furono le vicende e il ceppo a cui si cibò Sandro.
Secondo me non bisogna assolutamente lasciare in ombra quell'inizio, per poter cogliere le fonti lontane di quella vocazione di combattente, quella passione dello stare in campo che poi segnarono tutta la vita di Sandro, e anche la voglia sorridente, il mero gusto del cercare e del dibattere: il suo gusto della battaglia civile, della iniziativa polemica, della parola e dell'immagine che si facevano frusta, domanda, gusto della scoperta. È così dura la sua morte anche perché ci strappa non solo il suo agire sociale, ma quella sua irrequietezza. E in queste ore sento l'angoscia per quel fervore umano che ci viene tolto: proprio quando l'arroganza volgare del berlusconismo ci fa torcere il muso.
E non si tratta solo dell'oggi. Ben più lunga è la vicenda. Qui ora noi diamo il nostro solenne saluto a un militante (e dirigente) di una battaglia che ha attraversato tutto un secolo e che ha visto milioni di morti, e ci ha fatto fremere nel midollo: quella tempesta che tu hai attraversato combattendo, Sandro. Come tremammo di fronte ad Auschwitz! E ancora oggi leggiamo con un nodo alla gola quelle pagine di Primo Levi, quella sua domanda amarissima: "se questo è un uomo…".
Sandro Compagno che hai chiuso gli occhi, noi salutiamo in te nei tanti che sono stati in campo in questa battaglia globale di salvezza. Essa è mutata oggi: nelle forme e nei livelli, e tuttavia è ancora interminata. Sentite come è lontana ancora oggi dalla vita del mondo quella parola ardita: "pace". E proprio in queste ore tornano a suonare nei continenti quelle minacce tristi: crisi, disoccupazione, fabbriche che serrano i cancelli…
E tuttavia, Sandro, anche nei momenti più duri, io non ti vidi mai disperato. Quanto bisogno sento ancora oggi della tua fede, e anche del tuo sorriso ironico di fronte all'avversario.
Perciò ti chiameremo ancora. Ti chiederemo ancora una mano. Frugheremo ancora ansiosamente fra le tue carte...
Caro compagno Sandro: così lontano, così vicino.

Corriere della Sera 23.11.08
Il ricordo. Il regista Citto Maselli: cominciammo a far politica insieme, nel 1942
«Borghese marxista, seduceva tutte le compagne»


ROMA — Chi l'avrebbe detto. Sandro Curzi simpatizzante di Bandiera Rossa Roma, il gruppo trotskista antibadogliano che Togliatti non controlla nella Roma della Resistenza. Citto Maselli ha la memoria di ferro: «Autunno del 1944. Io mi tessero nella sezione del Pci di Ludovisi, quartiere borghese. Lui al Flaminio». E allora? «Lì in viale Tiziano, nelle grotte scavate nelle pendici dei monti Parioli sotto villa Balestra, vivono ventimila sfollati umbri e abruzzesi. Terreno ideale per l'area trotskista. Sandro subisce il fascino intellettuale. Ma per un attimo. Discutiamo. E io: "Ma tu sei matto, il Pci...". La fascinazione la dice lunga sull'anomalia di Sandro in un partito dove comunque non tutti obbedivano ciecamente, secondo la ridicola caricatura di oggi».
L'addio di Citto a Sandro, entrambi classe 1930, è il distacco da un gran pezzo di vita. È Maselli (per casa sua girano Emilio Cecchi, Massimo Bontempelli, Alberto Savinio, suo padrino di battesimo è Luigi Pirandello) a spiegare a Sandro Curzi nel 1942 chi sia Carlo Marx, cosa significhi essere comunista: «Sandro nasce borghese, figlio del proprietario di un'elegante barberia in via Veneto. Quella chiacchierata lo sveglia. Cominciamo a far politica. In quell'anno Luigi Pintor si fa vedere al nostro liceo Tasso». Nell'estate del 1943, caduto il fascismo, organizzano insieme due manifestazioni a piazza Fiume. Sandro allora è un ragazzo magro «pieno di capelli dritti e neri, con l'aria pensosa e assorta, inseguito da una curiosità insaziabile». Lì comincia la loro storia comunista parallela che prosegue fino all'ultimo respiro di Sandro. Un ricordo tra i mille: «Il giorno in cui convinciamo Luciana Castellina, meravigliosa ragazza di destra figlia di costruttori miliardari, a guardare a sinistra. È il 1945 e Luciana è da perdere la testa». A proposito. Le donne e Curzi? «Un successo straordinario, ignobile. Lui parla da ragazzo alla sezione Esquilino, pieno di compagne bellissime e intelligentissime, e che fa? Le seduce. Tutte. Ci lascia per strada. Tutti. Me per primo. Chissà. Forse il tono della voce. O quel modo di fare. Vai a capire, bello non era».
Poi il dopoguerra. Cinema per Maselli. Politica per Curzi. «Ci perdiamo di vista e ci ritroviamo, a fine anni 60 e inizio 70, ferocemente ingraiani sull'onda del '68. Vogliamo spingere il Movimento verso uno sbocco politico, le grandi riforme, io da cineasta segretario del sindacato autori e lui nella giunta della Federazione della Stampa». Infine Rifondazione, sempre insieme. L'ultimo incontro domenica. «E Sandro che mi dice, stanco con la voce roca, a proposito del film che sto girando, tutto dedicato alla crisi della sinistra: "Noi comunisti non possiamo permetterci la sfiducia. Devi chiudere con un finale che proponga una speranza. Hai capito, Citto? Una speranza". Farò così, giuro che farò così».

Corriere della Sera 23.11.08
Enrico Letta «Rischiamo di sembrare la continuazione dei Ds»
«Se tutto è una sfida dalemiani-veltroniani il partito morirà»
intervista di Paola Di Caro


ROMA — Nelle polemiche senza fine che stanno squassando il Pd, finora ha mantenuto un ruolo defilato. Ma Enrico Letta — che già sfidò Veltroni alle primarie, che ha una sua associazione, «360», che si è riunita proprio ieri a Napoli, che del governo ombra è responsabile del Welfare — tutto può fare oggi tranne che tenersi fuori dall'agone. Perché è proprio lui tra i maggiori «indiziati » a sfidare nel prossimo futuro la leadership di Veltroni.
È così, onorevole, lei è in rampa di lancio per competere alla segreteria al prossimo congresso, magari con l'appoggio di D'Alema?
«Purtroppo leggo continuamente gossip di tutti i tipi sulle vicende del Pd, ed è un gossip che ci sta facendo molto male».
Significa che non ha intenzione di candidarsi?
«Significa che la mia candidatura non è all'ordine del giorno. Oggi c'è Veltroni, un segretario legittimato dal voto di oltre due milioni e mezzo di militanti, e io credo che in questo momento il nostro compito sia quello di aiutarlo a guidare e rafforzare il partito. Veltroni e io stiamo infatti lavorando insieme per la conferenza nazionale del welfare che si apre giovedì. Tutti dobbiamo darci da fare per rafforzare il partito, trovando il modo per discutere tra noi, per avere più pluralismo interno».
Insomma, non è questo il momento della competizione tra pezzi di partito...
«Certamente no, perché se il Pd perde, tracolla, si divide, restano a galla solo le scialuppe di salvataggio. Che traghettano i naufraghi, non i vincitori...».
Eppure il dibattito ferve su temi che vi dividono, come il congresso. Lei sarebbe favorevole ad anticiparlo a prima delle Europee, come vorrebbero alcuni veltroniani?
«Una cosa è certa: il congresso lo terremo l'anno prossimo, quando la campagna per le adesioni sarà stata portata avanti per bene, perché per fare un congresso servono gli aderenti, e ora non ci sono. Vorrei davvero che si evitasse di usare il congresso come una clava. Io certamente non ne ho paura, ho le mie idee e ci andrò con quelle».
Le avrà anche sull'adesione o meno del Pd al Pse dopo le Europee?
«Non vedo la questione della collocazione internazionale come un problema insormontabile: la storia europea è piena di soluzioni che tengono conto della specificità di ciascun Paese. Detto questo, le notizie che arrivano dalla Francia — con la Aubry, colei che lanciò le 35 ore — che batte la Royal che voleva allearsi al centrista Bayrou, dimostrano quanto è problematico il mondo del socialismo europeo. La scelta francese è davvero molto lontana dalle nostre corde».
L'altro eterno argomento di discussione nel Pd è il dualismo D'Alema- Veltroni: sarà il sottofondo da qui al congresso?
«Se tutto il partito dovesse dividersi tra dalemiani e veltroniani, questo rischierebbe di far passare il Pd per la mera continuazione dei Ds, e l'intero progetto fallirebbe».
Ma come se ne esce? Mandandoli entrambi in soffitta?
«Se ne esce con le cose concrete, aprendoci al territorio, e con il pluralismo interno. Nelle case degli italiani a cena non si parla della vigilanza Rai, ma di asili nido, liste di attesa negli ospedali, ammortizzatori sociali e diritti di maternità, del problema degli anziani non autosufficienti, tutti argomenti che sto trattando nella mia relazione sul welfare. A Napoli, abbiamo parlato di energia solare, e ho lanciato la proposta del commissariamento per le università che definisco a "trazione familiare"».
E rafforzare il territorio che significa?
«Significa puntare sui sindaci, sugli enti locali. La nostra riscossa deve partire dai livelli territoriali — Dellai oggi, Penati e Soru l'anno prossimo —, da coalizioni che quando serve comprendano liste territoriali. Dobbiamo costruire un partito federalista vero. Dico di più: dobbiamo "de-romanizzare" il partito».
La richiesta di più pluralismo: è rivolta a Veltroni?
«Il Pd deve dare garanzie di pluralismo interno, perché in alcune regioni abbiamo il 50%, e in un partito così grande e con tante diverse provenienze culturali non si può vivere in una logica di monolitismo, bisogna dare spazio alle voci, anche alle fondazioni. Per capirci: quella del mantenimento delle preferenze nella legge per le Europee è una battaglia per la vita del Pd, ed è bene che si sia stoppata la strada all'inciucio delle liste bloccate».
A proposito di inciucio, qual è il suo giudizio sul pasticciaccio Rai?
«Posto che nel centrosinistra, da sempre, c'è un'ossessione sbagliata per la Rai, che a mio giudizio andrebbe privatizzata per metà, anche per smembrare Mediaset, a questo punto le dimissioni di Villari sono inevitabili».

il Riformista 23.11.08
Per Rutelli il Pse vale una scissione
Coraggiosi con la valigia in mano
di E.B.


ULTIMATUM. L'ex leader della Margherita invoca da Veltroni una «sintesi». Gli ex Ds si preparano a firmare il manifesto socialista.

Ancora una volta, Francesco Rutelli si è stufato di dover mandare giù pane e cicoria. Non vuole morire socialista, non ci tiene a scegliere una tessera tra quella veltroniana e quella dalemiana. Vuole essere il battitore libero, l'uomo di confine. Con, a supporto, una compagnia eterogenea e come lui in fermento.
Ieri davanti alla platea di Glocus, il think tank di Linda Lanzillotta, l'ex sindaco di Roma è tornato a rivolgersi a Veltroni con parole ultimative: «Noi abbiamo fatto una scelta coraggiosa, quella di sciogliere un partito e di fondarne, con altri soggetti, uno nuovo». Ma adesso «il male non sono le differenze, ma le mancanze di sintesi. E in politica la sintesi la fa la leadership».
Per declinare praticamente il discorso basta prendere la questione della collocazione europea. Secondo l'ala cattolica dell'ex Margherita, sarebbe «inaccettabile» una confluenza nel Pse. In qualsiasi forma, anche con un cambio di denominazione del gruppo, si tratterebbe di «una forzatura che potrebbe dividere il partito in due», minacciava Gianni Vernetti su Europa. E non passa giorno che sul tema non intervengano a tamburo le diverse voci antisocialiste, dai popolari ai rutelliani, passando per Letta e Follini, perché non è solo una "battaglia di identità": «la non confluenza nel Pse - sottolinea Paola Binetti - era nei patti. Era l'unica condizione per lo scioglimento della Margherita».
Dall'altro lato anche per D'Alema e Fassino la questione è imprescindibile, ma nel segno opposto: all'inizio del mese prossimo a Madrid sarà sottoscritto il manifesto del Pse e sarebbe per loro inconcepibile mancare l'appuntamento. Veltroni ha spiegato, sul punto, che «il Pd è una cosa originale, ma deve avere anche l'intelligenza di sapere che l'originalità non è isolamento». Ha promesso di essere più esplicito nei prossimi giorni ma intanto, avverte Follini, al segretario «è chiesto un di più di fantasia per evitare che due spinte contrapposte finiscano con lo scardinare il partito».
Uno sfaldamento del Pd, magari dopo le europee, è un argomento prematuro ma trova nel palazzo i suoi sostenitori e i rutelliani sono tra i più frequenti imputati. Sono loro che tengono le fila dei contatti con l'Udc di Casini. Ma qualsiasi discorso concreto «se ci sarà, non avverrà certo prima delle elezioni per Strasburgo», assicurano in via dei Due Macelli.
Intanto, racconta uno degli esponenti di punta di Per, la nuova associazione rutelliana, «la nostra strategia è mettere in luce le differenze con il resto del Pd, principalmente su tre temi: collocazione europea, struttura del partito e questioni etiche». Perché «non è possibile - si lamentavano Bobba e Binetti giorni fa in Transatlantico - che si faccia un seminario del partito sulla fecondazione assistita, emergano due linee diverse e si dica che il Pd è per la soluzione Marino e, a fianco, ci sono altre idee ma a titolo personale. Perché la nostra voce non vale come quella degli altri?».
Non tutti però, tra gli attuali o ex fedelissimi del presidente del Copasir, condividono la linea. Se dovesse consumarsi una scissione, non ne sarebbero protagonisti, ad esempio, Ermete Realacci e Paolo Gentiloni, da tempo in viaggio verso lidi veltroniani. Così come Linda Lanzillotta, anche se ieri è stata proprio lei a lanciare il network dei think-tank progressisti europei con lo scopo di redigere un'agenda che mette insieme tutti i partiti di area democratica della Ue.
Il nocciolo duro dell'ex vicepremier è l'associazione Per, nata qualche mese fa per mettere assieme i teodem Bobba, Binetti, Calgaro, De Luca e alcuni rutelliani storici come Renzo Lusetti e Luigi Lusi.

Repubblica 23.11.08
Le bugie nel palazzo le risse nel cortile
di Eugenio Scalfari


I GOVERNI aspettano, nessuno ha voglia di fare la prima mossa. Neppure l´America, messa in angolo dalla troppo lunga transizione tra il presidente uscente e quello già eletto ma non ancora governante. Neppure l´Europa dove la Banca centrale promette un ribasso del tasso di interesse e la Commissione di Bruxelles studia un piano di intervento sulle infrastrutture che è ancora sotto limatura e in mancanza del quale i governi nazionali rinviano le decisioni di loro competenza.
I governi dunque aspettano ma la crisi dell´economia no. Le Borse continuano a crollare, le aziende a licenziare, le famiglie a stringere la cinta. Il Natale non si preannuncia allegro per nessuno; forse, una volta tanto, sarà una festa religiosa per i credenti e un momento di riflessione e di consuntivo morale per tutti.
Questa domenica vorrei fare anche un po´ di chiarezza sul programma di sostegno dei redditi e delle imprese che il nostro ministro dell´Economia sta preparando e che, salvo ulteriori rinvii, dovrebbe essere varato dal Consiglio dei ministri il 28 prossimo. Ma vorrei anche esprimere qualche opinione sulla politica italiana e in particolare sul centrosinistra. Di solito evito questo tema, sa troppo di politichese, un genere che mi appassionava in passato ma che ha perso da tempo lo smalto che aveva. Ci sono tuttavia momenti nei quali la politica evoca di nuovo una scelta morale. Stiamo vivendo uno di quei momenti nonostante la diffusa mediocrità degli apparati e delle oligarchie. Perciò mi sembra doveroso parlare anche di questo tema.
Me ne offre lo spunto la conversione del presidente del Consiglio dalla strategia di aggressività nei confronti di chiunque metta in discussione le sue decisioni ad un´improvvisa apertura verso i sindacati, verso il movimento degli studenti e verso quei settori e quei ceti che, sotto l´impatto della crisi economica, cominciano a risvegliarsi dall´ipnosi e a chiedere non più annunci ma fatti concreti.
Le aperture del presidente del Consiglio sono ancora molto caute e contraddittorie, contrastano con la sua natura che lo spinge ad occupare interamente la scena senza condividerla con nessuno, alleato o avversario che sia. Ma la forza dei fatti e le necessità che ne derivano lo inducono a tentare un percorso diverso. Fino a che punto diverso?
L´esperienza ci ha insegnato che le aperture berlusconiane hanno un arco di oscillazione molto limitato. La sola opposizione accettabile è per lui un´opposizione al guinzaglio che si accontenti di qualche briciola e di qualche pacca sulle spalle, che rida alle sue barzellette, che si contenti di essere invitata a cena e trattata con buone maniere. Carota sì, purché si intraveda che il bastone è sempre lì, poggiato in un angolo a portata di mano.
Certo se quella parte di Italia che lo sente incompatibile si innamorasse improvvisamente di lui le cose cambierebbero molto. Per ora l´innamoramento è avvenuto per pochi e non sempre, anzi quasi mai, per conversione sulla via di Damasco ma piuttosto con motivazioni di tornaconto personale. Non è questo che vuole il sire di Arcore e di Palazzo Grazioli. Perciò quel momento magico tarda a venire. Per fortuna, perché quello sì, sarebbe la fine della democrazia italiana.
* * *
Intanto il Partito democratico versa in serie trambasce. Le lacerazioni interne non sono una novità e del resto esistono in tutti i partiti e in tutto il mondo. La sinistra però ne è affetta molto più della destra perché storicamente la sua natura è ideologica. Infatti profonde lacerazioni vi sono nella Spd tedesca, nel Partito socialista francese, tra i laburisti inglesi. E´ accaduto perfino in Usa durante la campagna elettorale tra Obama e l´ala clintoniana del partito.
Qui da noi le lacerazioni del Pd viaggiavano sotto traccia fin da quando Veltroni fu chiamato alla "leadership" nell´autunno del 2007 quando il governo Prodi e la legislatura erano oramai alla fine. La sua ascesa alla segreteria fu voluta dai due gruppi dirigenti dei Ds e della Margherita, cioè dall´Ulivo che si trasformò rapidamente in un partito nuovo e affrontò pochi mesi dopo le elezioni politiche guidato dall´ex sindaco di Roma, confermato nel ruolo di leader da tre milioni e mezzo di votanti alle primarie del partito.
Se miracolosamente avesse vinto le elezioni la compattezza del nuovo partito sarebbe stata garantita dall´interesse di tutti cementato dal potere e dall´assenza di contrasti politici. La cornice generale era infatti interamente condivisa: un partito aperto e innovatore che aveva unificato il riformismo laico e quello cristiano, uscito dalle ceneri dell´alleanza con la sinistra estrema che aveva segato il governo Prodi.
La sconfitta elettorale era nel conto ma mancando il cemento del potere emersero le lacerazioni. Non c´era un contrasto nella visione del bene comune e neppure dei mezzi da impiegare per realizzare quell´obiettivo; c´era però materia per uno scontro di potere all´interno del partito. Il Pd aveva difatti incassato un risultato elettorale del 33 per cento dei voti espressi, un partito riformista che aveva ottenuto il consenso di un terzo del corpo elettorale non si era mai visto nella storia italiana, né in tempo di repubblica, né in tempo di monarchia.
I contrasti rimasero tuttavia sotto traccia, ma col passare dei mesi e con la stupefacente luna di miele tra Berlusconi e la pubblica opinione, diventarono sempre più evidenti, nacquero fondazioni che sotto l´apparenza culturale si atteggiavano a vere e proprie correnti. In particolare quella guidata da D´Alema che si dette addirittura un assetto territoriale.
L´obiettivo sembrò esser quello di logorare la leadership veltroniana anche a costo di danneggiare la compattezza del partito ancora in fase organizzativa.
Infine, proprio in queste ultime settimane, arrivarono due mosse strategiche di Berlusconi: la rottura con la Cgil e l´elezione del senatore Villari alla guida della Commissione di vigilanza sulla Rai con i voti della destra e contro il candidato dell´opposizione.
Su questa micidiale doppietta lo scontro interno al Pd è esploso in piena luce sotto l´antica e mai risolta rivalità tra Veltroni e D´Alema.
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Con tutto quello che sta accadendo nel mondo uno scontro di cortile è quanto di più mediocre e provinciale si possa immaginare. Frustrante per gli elettori e i simpatizzanti di un partito ancora allo stato nascente ma con un seguito nient´affatto trascurabile come ha dimostrato qualche settimana fa l´imponente raduno del Circo Massimo, poi il rilancio nei sondaggi che vedono il Pd di nuovo al 32 per cento, poi la vittoria elettorale nella provincia di Trento, infine l´inizio d´uno smottamento sociale del consenso berlusconiano.
D´Alema, nel suo ruolo di sfidante, nega sia pure a fior di labbro che lo scontro vi sia, ma i fatti lo smentiscono. Parlano per lui i suoi luogotenenti e i media da lui in qualche modo influenzati. L´attacco a Veltroni è il punto di convergenza di tutte queste voci. Il testo che traccia con più chiarezza quest´indirizzo politico lo si trova in un articolo di Galli Della Loggia pubblicato di fondo sulla prima pagina del «Corriere della Sera» di martedì scorso, quanto mai rivelatore. L´accusa a Veltroni è motivata dal suo supposto appiattimento su Di Pietro che sarebbe incompatibile con la linea riformista del Pd tradita dal segretario del partito. «Il riformismo ? scrive l´autore ? ha avuto un rigoglioso sviluppo quando ha rifiutato il massimalismo ed è stato invece condannato al declino quando si è confuso con esso».
Sbagliato in tutti e due questi assunti. Il riformismo italiano è sempre stato minoritario e non ha mai raggiunto un terzo del corpo elettorale come è invece avvenuto per il Pd. Quanto all´appiattimento su Di Pietro i fatti smentiscono la tesi di Della Loggia: né la scelta di Orlando a candidato per la Vigilanza Rai può essere considerata una prova a carico e basterebbe a dimostrarlo il fatto che la scelta fu concordata anche con l´Udc di Casini che non può certo essere definita come una formazione politica massimalista.
Al contrario, la corrente dalemiana, in mancanza di un vero dissenso politico cui appoggiarsi, ha compiuto atti e pronunciato dichiarazioni di sistematica denigrazione ai danni del leader del Pd, culminate nell´appoggio palese e ripetuto verso il neoeletto alla Vigilanza Rai: esempio emblematico della strategia della destra e della spregiudicatezza di una corrente interna del centrosinistra.
Queste risse di cortile sono deprimenti, specialmente in una fase di crisi mondiale che vorrebbe un´opposizione compatta e responsabile, non distratta da beghe interne e capace di offrire all´opinione pubblica risposte convincenti e di formulare in Parlamento contributi per la soluzione dei problemi che incombono.
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Quei problemi non sono né potevano essere avviati a soluzione dal G20 svoltosi a Washington pochi giorni fa. Quel «meeting» al quale per la prima volta hanno partecipato alcune delle potenze emergenti come la Cina, l´India, il Brasile, ha avuto un solo risultato storico: ha gettato le basi di una inevitabile redistribuzione del potere mondiale. Anche in termini istituzionali. La prima conseguenza concreta sarà infatti una redistribuzione già allo studio delle quote di partecipazione dei paesi emergenti al Fondo monetario internazionale e agli altri analoghi organismi.
Al di là di questo, peraltro importantissimo, risultato nient´altro è stato né poteva esser deciso in attesa che il nuovo presidente eletto sia insediato alla Casa Bianca il 20 gennaio.
Ma poiché la crisi non aspetta, l´Europa renderà noto un documento programmatico mercoledì prossimo e il governo italiano dal canto suo ne emetterà uno proprio il prossimo venerdì.
Poiché sia l´uno sia l´altro sono già conosciuti nelle loro grandi linee, vediamo di che si tratta.
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Il piano della Commissione europea mobilita 130 miliardi di euro per il 2009, dopo la ratifica dell´Ecofin. Una cifra rispettabile, destinata interamente a costruzione di infrastrutture d´importanza europea e nazionale. Rappresenta la sommatoria dell´1 per cento del Pil dei 27 paesi dell´Unione. Ciascuno di essi mobiliterà risorse per eseguire le opere sul proprio territorio previa notifica alla Commissione che dal canto suo erogherà a supporto risorse proprie per integrare quelle stanziate dai singoli governi. Le risorse della Commissione saranno tratte dal bilancio europeo e poiché il loro ammontare eccederà rispetto alle disponibilità esistenti, i 27 paesi dovranno accrescere di altrettanto le loro contribuzioni all´Unione.
Si tratta dunque, in larga misura, di una complessa partita di giro dall´Unione verso i paesi membri e da questi verso l´Unione che, comunque, dovrà spostare i fondi da alcuni capitoli di spesa ad altri capitoli. Si chiama "raddrizzamento". Ovviamente anche il Parlamento di Strasburgo dovrà dire la sua in proposito.
Se volete il mio parere, definirei questo programma le nozze coi fichi secchi, una mano dà, l´altra mano prende. In napoletano si direbbe "facimmo ammuina".
La Commissione ha anche stabilito che i singoli paesi membri possano diminuire l´Iva (imposta sovranazionale) per alleggerire i rispettivi pesi tributari. Infine ha messo su carta l´autorizzazione a sforare la soglia del 3 per cento di deficit/Pil a condizione che lo sforamento non sia superiore ai sedici mesi e non sia maggiore dell´1 per cento. Questi due provvedimenti hanno una loro reale sostanza e consentiranno politiche anticicliche. Secondo me avrebbero dovuto essere adottati almeno sei mesi fa quando già era evidente l´arrivo della tempesta e così pure la riduzione dei tassi d´interesse da parte della Banca centrale europea, che ancora centellina i ribassi mentre le economie reali sono sconvolte dalla depressione.
* * *
Gli 80 miliardi di euro di Tremonti, come ormai hanno capito tutti, sono uno spottone mediatico. Anche lui come la Commissione brussellese, sposta di qua e sposta di là, preleva risorse già impegnate dall´anno scorso ma non spese, attiva opere pubbliche che avrebbero dovuto essere eseguite dal 2001 o almeno dal giugno 2008 e che giacevano e ancora giacciono nei rispettivi capitoli di copertura o nei fondi d´attesa previsti dalle leggi di bilancio.
Gli 80 miliardi dunque sono spese ritardate o coperture destinate ad altri scopi che ora resteranno scoperti. Tanto per fare un esempio: dieci miliardi erano destinati al Mezzogiorno, sono stati prelevati e saranno usati per opere pubbliche in parte destinate al Mezzogiorno stesso. Semplici movimenti contabili, quasi tutta aria fritta di scritture di giro per ottenere ottimi effetti sui giornali e nei teleschermi. Perciò, cari lettori, non fatevi ingannare dalle apparenze e dalle bugie. Di vero in quelle cifre ci sono soltanto 16 miliardi per infrastrutture che il Cipe doveva indicare tre giorni fa ma ha rinviato perché aspetta di conoscere l´ammuina di Bruxelles per modellarvi sopra la propria
Infine 4 o 5 miliardi per le famiglie, un miliardo per rifinanziare la Cassa integrazione e dare qualche soldo ai precari licenziati. Per le imprese l´Iva da versare al momento dell´incasso (e questo è un buon provvedimento) e il rinvio degli acconti di fine anno. Nessuno sconto sull´Irpef. Detassazione degli straordinari (non serve a niente perché in recessione non ci sono straordinari). Nuovo patto con le banche per migliorare i mutui a tasso fisso (il patto precedente tanto strombazzato non ha avuto alcuno effetto). Sottoscrizione governativa di bond bancari per rafforzarne i patrimoni. Chiedendo in contropartita aperture di credito alle piccole e medie imprese. Questo è quanto. Tarallucci e vino. Infatti piovono critiche da Cgil Cisl e Uil e, nientemeno, anche da Confindustria.
Intanto il petrolio è sceso fino a 49 dollari al barile, il credito diminuisce, i canali interbancari restano intasati, la Citigroup licenzia 52mila dipendenti, lunedì dovremo seguire con estrema attenzione l´andamento di Wall Street, Detroit è un dramma, la Opel tedesco-americana pure. A Torino la Fiat non ride.
La ministra Carfagna ad "Invasioni barbariche" (mai titolo le fu più adatto) si è paragonata a Reagan ed anche a Obama. Berlusconi si è commosso perché Forza Italia è stata sciolta per far nascere nel 2009 il nuovo Partito della Libertà. Lo scioglimento è stato approvato con un dibattito di venti minuti. Berlusconi ha nell´occasione rimproverato la Rai perché «parla solo di crisi e il mio messaggio non riesce a passare».
Questo è quanto ci passa il nostro convento. Poiché non c´è di meglio accontentiamoci. Ma per quanto?

Repubblica 23.11.08
Martedì la ratifica del nuovo segretario: sarà difficile sanare la frattura interna
Lacerati, divisi e indeboliti è la débacle dei socialisti
di Bernardo Valli


I notabili, gli "elefanti" del partito, si sono schierati in blocco contro l´ex candidata all´Eliseo giudicata di idee troppo generiche
L´ex ministro del Lavoro ha le qualità che piacciono alla vecchia guardia e non è un ostacolo per chi ambisce alla presidenza nel 2012

«LA guerra delle due dame», socialiste, tra l´austera Martine Aubry e l´atipica, troppo glamour, Ségolène Royal, ha in queste ore un solo evidente vincitore: il presidente di centro destra Nicolas Sarkozy. Il quale si trova davanti un´opposizione di sinistra in profonda crisi, devastata da conflitti interni difficilmente risolvibili, anche in previsione del 2012, quando scadrà il suo mandato, e dovrà decidere se candidarsi per un secondo quinquennio. Nella Quinta Repubblica, l´elezione del presidente, vero monarca repubblicano, è il principale appuntamento politico. Tutto converge in quella direzione. Anche la nomina del segretario nazionale del partito socialista, attraverso il voto degli iscritti, è una tappa verso quella scadenza. Per Ségolène Royal, battuta venerdì dalla rivale per soli quarantadue voti (lo 0,04 % dei 130 mila suffragi espressi, o forse meno) l´investitura alla massima carica del partito sarebbe stata in sostanza una precandidatura alle future presidenziali.
Quindi l´occasione di una rivincita dopo la sconfitta del 2007. Anche per non darle questa opportunità, quasi tutto l´apparato del partito si è coalizzato contro di lei. Non ha voluto che si appropriasse di quella candidatura. Vecchi e nuovi notabili, detti "elefanti", tra i quali ben quattro ex primi ministri (Mauroy, Fabius, Rocard, Jospin), e personaggi di rilievo come Dominique Strauss-Kahn, presidente del FMI, e Bertrand Delanoe, sindaco di Parigi, le hanno sbarrato la strada, appoggiando Martine Aubry. L´anti europeista Laurent Fabius si è schierato con la Aubry, benché sia una fervente europeista (come il padre Jacques Delors). Il "liberale" Bertrand Delanoé ha fatto altrettanto, ha invitato i militanti a votare per lei, benché lei abbia denunciato apertamente il suo liberalismo. Il partito "TSS" (Tutto salvo Ségolène) giustifica l´ostilità nei confronti della Royal sostenendo che il suo discorso è troppo generico, talvolta ricco di accenti evangelici non adeguati alla laicità socialista, e al tempo stesso che i suoi atteggiamenti sono troppo glamour, troppo femminili. Le sue capacità non sono giudicate all´altezza della sua ambizione.
Martine Aubry ha virtù e difetti opposti. Ha 58 anni, tre di più di Ségolène, e ha uno stile da militante. E´ rigida. Diretta. Non punta sul fatto di essere donna. E´ nota ai francesi per una legge (la settimana di trentacinque ore) che non le ha dato popolarità nell´elettorato moderato, e che dopo un primo entusiasmo non è stata troppo esaltata neppure a sinistra.
Al contrario della Royal, che vorrebbe trasformare il partito socialista in una grande formazione di massa, popolare, la Aubry è per un partito di militanti. Con lei l´apparato non si sente minacciato. Non vuole aprire al centro (al MoDem di François Bayrou). Anche se nel Nord, a Lilla, dove è sindaco, ha concluso alleanze in quella direzione. Personaggio di indubbie capacità intellettuali, di notevole carattere e di forte impegno politico, Martine Aubry ha un´altra qualità che la rende accettabile ai notabili socialisti: quella di non essere, almeno per il momento, una candidata alla massima carica dello Stato. Lei non rappresenta un ostacolo nella corsa alla presidenza, alla quale non pochi "elefanti" intendono partecipare. Con lei il posto resta disponibile. Anche se le sue ambizioni possono crescere nei prossimi anni. Del resto la stessa Ségolène Royal non si ritirerà tanto facilmente tra le quinte, e potrà puntare sul ruolo di vittima, che le ha spesso giovato.
E´ molto probabile che martedì prossimo il Consiglio Nazionale socialista, convocato dal segretario uscente, François Hollande, ratifichi la risicata elezione di Martine Aubry, contestata dalla rivale sconfitta, e non ancora proclamata ufficialmente. Ségolène Royal chiede addirittura un altro voto, « questa volta senza brogli «. In quell´assemblea socialista il partito del TSS (tutto salvo Ségolène) occupa il settanta per cento dei seggi, tanti ne hanno conquistati gli avversari di Ségolène Royal al recente congresso di Reims. Dove invece la mozione "royalista" ha avuto soltanto il ventinove per cento dei voti dei delegati.
La base degli iscritti ha poi portato, qualche giorno dopo, quel coefficiente a quasi il cinquanta per cento nell´elezione diretta del segretario, rivelando la spaccatura netta del partito e anche l´impopolarità degli "elefanti" anti-Ségolène. La spaccatura si è approfondita, è diventata plateale, nelle ultime ore quando gli amici di Ségolène, denunciando i brogli in alcune federazioni (del Nord e della Senna marittima), hanno minacciato azioni sul piano "politico, giuridico e giudiziario". Manuel Valls, un fedelissimo di Ségolène, ha addirittura « invitato i militanti alla rivolta».
Il focoso Manuel Valls non pensa tuttavia a una scissione. Né Ségolène Royal intende lasciare il partito. Non ci pensa neanche. L´ha ripetuto ieri sera, esibendo un sorriso smagliante, davanti a milioni di telespettatori, quando ancora infuriavano le polemiche. Il partito socialista è indisciplinato, è un mare in cui si scatenano passioni e rivalità, ma rappresenta una vasta forza politica locale. Non conta tanti iscritti come quello tedesco (850 mila), o quello austriaco (500mila), o quello svedese (400mila). Ne ha 235 mila, spesso fluttuanti, che, secondo Michel Rocard, «sono in buona parte curiosi di passaggio alle riunioni di sezione da dove se ne vanno presto perché si annoiano». Ma un iscritto su tre è consigliere comunale. E un altro terzo spera di diventarlo. I socialisti perdono le elezioni presidenziali, ma governano venti regioni su ventidue, cinquantotto dipartimenti sui novantacinque in cui si divide il territorio metropolitano, e due terzi delle città con più di ventimila abitanti. Passioni e rivalità agitano il partito, non lo favoriscono quando punta alla conquista del vertice del potere politico. Ma esso resta una vecchia, storica formazione che i responsabili abbandonano difficilmente.

Corriere della Sera 23.11.08
Vecchio stile contro femminilità. Irriducibili ma non vincenti
di Maria Laura Rodotà


«Hallucinant». «Ségo, che cattiva perdente». «È stata la notte dei piccoli cucchiai», altro che lunghi coltelli. E questi erano solo i commenti sul sito di Libération,
giornale con lettori di fu sinistra. Peccato, davvero peccato. Perché stavolta non era il solito combattimento tra galline per la gioia degli spettatori maschi; era una lotta di potere vera. Anche se si lottava per uno di quei lavori dequalificati che gli uomini non vogliono più fare, il segretario del Partito socialista francese; sconfittissimo alle elezioni, frantumato all'interno, inesistente all'opposizione. Ma per la prima volta in un grande partito di un grande Paese europeo (non nordeuropeo) due femmine si giocavano la leadership. Ed è successo un disastro; una «piccola Florida», con Martine Aubry e Ségolène Royal al posto di W. Bush e Al Gore. 42 voti di differenza, la richiesta di un nuovo scrutinio, e una figuraccia collettiva. L'unica buona notizia, a voler essere a ogni costo ottimisti/e o biecamente realisti/e, è che le due femmine non sono state brave bambine. I due campi si accusano l'un l'altro di manovre sporche, ognuno addita federazioni con risultati dubbi; una al momento ha vinto di pochissimo, 50,02 contro 49,98, però nessuna pare vincente.
Però (o per questo) l'altrimenti deprimente diatriba resta interessante. È uno scontro tra i due principali modi di fare/essere una donna politica. Uno, quello di Aubry, vecchio stile, un po' maschile, pochi fronzoli, pochissimo Botox, molto lavoro, in curriculum riforme (le 35 ore) ideologicamente coerenti benché adesso criticate. L'altro, lo stile Ségo, fondato sull'immagine, un po' bling-bling di sinistra, femminil-ammiccante; d'altra parte inclusivo, alle presidenziali 2007 la Francia giovane e multirazziale l'ha votata e ha tifato. Poi Royal è ripartita all'attacco, più nervosa dopo l'elezione persa. Poi Aubry ha di fatto vinto la nomination anti-Royal, e pro vecchio Ps che andava al governo. Il sindaco di Lilla e la presidente del Poitou-Charentes (il potere socialista è ormai tutto a livello locale) hanno un lato in comune, sono due irriducibili, genere villaggio di Asterix che resiste ancora e sempre al nemico. È una qualità; forse i francesi all'opposizione preferirebbero una terza donna irriducibile, che ora non c'è. Forse nessuno dei due modi di essere/fare, nessuna delle due immagini, basterà.
Secondo un cittadino che scrive online: «A Ségolène non resta che tornare nel Poitou, preparare la commercializzazione delle auto elettriche, diffondere le coltivazioni biologiche e rotolarsi col suo moroso in un campo senza pesticidi. Intanto Martine scenderà nelle miniere di carbone, temporeggerà davanti al cimitero degli elefanti (gli storici maggiorenti socialisti, ndr) e non avrà mai un minuto per sé stessa». Mirabile sintesi dei dubbi sulla celebrity ecocompatibile e la socialista di molto spessore e scarso carisma. Sono un po' come Tony Blair e Gordon Brown tanti anni fa, a pensarci. Solo, Blair e Brown avevano fatto un patto e vinto le elezioni. Royal e Aubry non ci pensano proprio, sono gallicamente irriducibili (Asterix e Obelix erano più furbi, francamente, allora).

Corriere della Sera 23.11.08
Sinistra L'analisi di alcuni studiosi sulle vicende del Pci e sulla sua eredità nel nostro Paese
Quel comunismo «anomalo» sopravvissuto all'89
di Antonio Carioti


Aveva ragione Alberto Ronchey quando individuava nel «fattore K», cioè nella presenza ingombrante del Pci, il connotato cruciale dell'anomalia italiana. Rispetto ad altri partiti comunisti europei, quello guidato da Palmiro Togliatti (nella foto) era una forza più radicata nella società, più attrezzata culturalmente e più duttile in fatto di linea politica: non a caso aveva conquistato l'egemonia a sinistra e ha potuto proiettarsi, sia pure a costo di scissioni e metamorfosi varie, oltre il trauma del 1989. Ma per il movimento operaio italiano il predominio comunista è stato senza dubbio una iattura: basta constatare che la sinistra non ha mai governato il Paese da sola e, dopo l'avvento del bipolarismo, ha vinto le elezioni soltanto presentando come proprio candidato premier un uomo di antica matrice democristiana, Romano Prodi.
Ce n'è abbastanza per alimentare un vasto filone di ricerca sul ruolo effettivo svolto dal Pci, allo scopo di superare le autoraffigurazioni consolatorie, spesso dense di rimozioni, che quel partito ha dato di se stesso. Quanto cioè si sono proposti di fare gli studiosi i cui contributi sono confluiti nel volume L'influenza del comunismo nella storia d'Italia (Rubbettino, pagine 245, € 15), curato da Fabrizio Cicchitto, che raccoglie gli atti di un convegno organizzato dalla Fondazione Magna Carta e dalla rivista «L'Ircocervo», vicine al centrodestra.
Sono scritti che insistono sull'anima rivoluzionaria e settaria, spesso trascurata, del Pci: Aldo G. Ricci ne evidenzia l'uso della mobilitazione di piazza durante l'epoca degasperiana, Simona Colarizi l'aggressività spietata nella polemica contro il riformismo, Sergio Bertelli il rifiuto di fare i conti con il passato, Giancarlo Lehner le complicità con il terrore staliniano, Gianni Donno i legami con l'apparato militare del blocco sovietico. Sulle strategie volte alla conquista dell'egemonia culturale si soffermano invece Giovanni Orsina, che illustra come il Pci abbia usato il richiamo antifascista per procurarsi opinabili credenziali democratiche, e Andrea Guiso, che ne analizza il rapporto con gli intellettuali fiancheggiatori.
Altre relazioni hanno un carattere comparativo: cercano di spiegare le differenze tra il Pci e altri partiti omologhi puntando più sulle condizioni oggettive dei singoli Paesi che sui meriti della leadership di Togliatti. Gaetano Quagliariello nota che per il Pci fu un grande vantaggio trovarsi in una condizione di debolezza estrema all'epoca del patto nazi-sovietico (1939-41), quando i comunisti francesi pagarono un prezzo altissimo alla necessità di allinearsi con Mosca nella fase in cui l'Urss era in buoni rapporti con il Terzo Reich. Victor Zaslavsky sottolinea che il comportamento cauto tenuto dai comunisti in Italia nel biennio 1947-48, rispetto alla prospettiva insurrezionale seguita in Grecia, dipese soprattutto dalle scelte geopolitiche del Cremlino.
Da segnalare infine la forte denuncia di Piero Craveri circa le difficoltà che s'incontrano nel reperire la documentazione necessaria a ricostruire gli eventi del recente passato: «La materia archivistica in Italia — scrive — è affidata al caos e all'arbitrio». Forse anche per questo la nostra storia recente, non solo quella riguardante il Pci, risulta così fitta di misteri insoluti.

Repubblica 23.11.08
Come si fabbrica l'insicurezza
di Ilvo Diamanti


SONO passati un anno, dodici mesi appena, ma l´Italia sembra un´altra. Meno impaurita e meno insicura. Infatti, l´inverno è vicino, ma il clima d´opinione registra un disgelo emotivo evidente. Come testimonia il 2° rapporto - curato da Demos e dall´Osservatorio di Pavia per Unipolis sulla rappresentazione della sicurezza - nella percezione sociale e nei media. Pochi dati, al proposito (d´altronde, ieri Repubblica gli ha dedicato molto spazio).
Nell´ultimo anno, si è ridotta sensibilmente la percezione della minaccia prodotta dalla criminalità a livello nazionale e soprattutto nel contesto locale. E´ calato in modo rilevante anche il timore dei cittadini di cadere vittima di reati. Da un recentissimo sondaggio di Demos (concluso venerdì scorso) emerge, inoltre, che il problema più urgente per il 31% degli italiani (se ne potevano scegliere due) è la criminalità comune. Un anno fa era il 40%. Mentre il 21% indica l´immigrazione: 5 punti meno di un anno fa. Gli immigrati, peraltro, sono considerati "un pericolo per la sicurezza" dal 36% degli italiani: quasi 15 punti percentuali meno di un anno fa e 8 rispetto allo scorso maggio. Il legame fra criminalità comune, sicurezza e immigrazione che, negli ultimi anni, è apparso inscindibile, agli occhi dei cittadini, oggi sembra essersi allentato. Cosa è successo in quest´ultimo anno, in questi ultimi mesi di così importante, significativo e profondo da aver scongelato il clima d´opinione? L´andamento dei reati, in effetti, rileva un declino che, peraltro, era cominciato a metà del 2007. Tuttavia, nel corso degli ultimi anni, si è sviluppato senza variazioni tali da giustificare mutamenti di umore tanto violenti. Invece, l´immigrazione è cresciuta in misura molto rilevante, come segnalano le principali fonti, dal Ministero dell´interno alla Caritas. Gli sbarchi di clandestini sono anch´essi aumentati. Quasi raddoppiati. Non sono i fatti ad aver cambiato le opinioni. Al contrario: le opinioni si sono separate dai fatti. Per effetto di un complesso di fattori. D´altronde, il clima d´opinione riflette una pluralità di motivi, spesso non prevedibili e, comunque, non controllabili. In questa fase, in particolare, la crisi economica e finanziaria ha spostato il centro delle paure e delle preoccupazioni dei cittadini. Non solo in Italia: anche negli Usa, prima del collasso delle borse, la campagna delle presidenziali era concentrata sull´immigrazione. Poi tutto è cambiato, con grande beneficio per Obama. Tuttavia, la preoccupazione economica, in Italia, è da tempo molto alta. Destinata a deteriorarsi ancora. Nell´ultimo anno, però, non è peggiorata. Era già pessima. Il profilo delle "persone spaventate" presenta alcuni tratti particolari, utili a chiarire l´origine di questo collasso emotivo. Due fra gli altri: guardano la tivù per oltre 4 ore al giorno e sono vicine al centrodestra; nel Nord, alla Lega. L´analisi dell´Osservatorio di Pavia sulla programmazione dei tg di prima serata, peraltro, rileva una forte crescita di notizie sulla criminalità comune nell´autunno di un anno fa e un successivo declino ? particolarmente rapido dopo maggio. Peraltro, il peso delle notizie "ansiogene" è nettamente più elevato sulle reti Mediaset, ma soprattutto su Studio Aperto e Canale 5. Seguiti, per trascinamento, dal Tg 1, il più popolare e autorevole presso il pubblico. Il sondaggio di Demos osserva come l´insicurezza sia molto più alta fra le persone che frequentano prevalentemente le reti e i notiziari Mediaset. Ciò suggerisce che i cicli dell´insicurezza siano favoriti e scoraggiati, in qualche misura, dal circuito fra media e politica. D´altra parte, la sicurezza, l´immigrazione e la criminalità comune sono temi "sensibili" negli orientamenti degli elettori. "Spostano" i voti degli incerti. Rendono incerti molti cittadini certi. Peraltro, come abbiamo già visto, il tema della sicurezza non è politicamente "neutrale". La maggioranza degli elettori (anche a centrosinistra) ritiene la destra più adatta ad affrontare questi problemi ? trasformati in emergenze (Indagine Demos, luglio 2007).
Così, per creare un clima d´opinione favorevole, al centrodestra basta sollevare il tema della sicurezza. Cogliere e rilanciare episodi e argomenti che alimentano l´insicurezza sociale. Farli rimbalzare sui media. Il che avviene senza troppe difficoltà. Non solo perché il suo Cavaliere ha una notevole conoscenza del settore, sul quale esercita un certo grado di influenza. Ma perché la paura è attraente. Fa spettacolo e audience. E perché, inoltre, in campagna elettorale, la tivù costituisce la principale arena di lotta politica, su cui si concentrano l´attenzione dei partiti e la presenza dei leader.
Così, l´insicurezza cresce insieme ai consensi per il centrodestra. Senza che il centrosinistra riesca a opporre una resistenza adeguata. Frenato da divisioni interne, particolarismi e personalismi che non gli permettono di proporre e imporre un solo tema capace di spostare a proprio favore il consenso. Il lavoro, i prezzi, le tasse, l´etica: nel centrosinistra c´è la gara a distinguersi e a smarcarsi. Tutti contro tutti.
La recente campagna elettorale di Veltroni, irenica, tutta protesa a marcare la distanza dal passato (Prodi), non ha scalfito l´insicurezza del presente.
La morsa della sfiducia e dell´insicurezza si è allentata solo dopo le elezioni politiche e le amministrative di Roma. Non a caso. Il risultato, senza equivoci, non lascia scampo alle speranze dell´opposizione: resterà opposizione a lungo. Così, la campagna elettorale, dopo anni e anni, finisce. E il centrodestra si dedica a controllare, in fretta, il clima di insicurezza che aveva contribuito ad alimentare negli anni precedenti. Propone e approva provvedimenti ad alto valore simbolico: l´impiego dei militari contro la criminalità, l´aumento di vincoli e controlli all´immigrazione. La liberalizzazione delle polizie e delle milizie locali, padane, private. Gli stessi episodi di razzismo hanno prodotto la condanna "pubblica" dell´intolleranza, con l´effetto di inibirne, in qualche misura, il sentimento. In quanto gli stranieri, percepiti perlopiù come "colpevoli" di reati e violenze, ne diventano "vittime".
Così gli immigrati continuano a fluire, i clandestini a sbarcare e il numero dei reati non cambia, ma l´attenzione dell´opinione pubblica e dei media nei loro confronti si ridimensiona. La paura declina. Un po´ come avvenne nel periodo fra il 1999 e il 2001. Anche allora criminalità e immigrazione divennero priorità nell´agenda delle emergenze degli italiani. Spaventati da aggressioni e rapine a orefici e tabaccai; dall´invasione degli stranieri. Che conquistavano i titoli dei quotidiani e dei tg. Poi, l´inquietudine si chetò. Sopita dall´attacco alle Torri Gemelle e dalla vittoria elettorale di Berlusconi. Capace, come nessun altro, di navigare sulle acque dell´Opinione Pubblica. E di domare le tempeste che la turbano dopo averle evocate.

l’Unità 23.11.08
Il diritto di poter scegliere. Eluana insegna
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi


Com’è noto la Cassazione ha respinto il ricorso della procura di Milano: la nutrizione e l’idratazione artificiali sin qui somministrate a Eluana Englaro possono essere sospese. È notizia di poche settimane fa: il tribunale di Modena ha accolto la richiesta di un uomo che ha deciso di nominare la moglie suo garante in merito alle proprie volontà sanitarie. L’uomo, un cinquantenne in buone condizioni di salute, ha visto riconosciuta la sua richiesta di «non essere sottoposto ad alcun trattamento terapeutico» nel caso di «malattia allo stato terminale, malattia o lesione traumatica cerebrale irreversibile e invalidante». È notizia di questi giorni: i giudici dell’Alta Corte inglese hanno riconosciuto e tutelato la volontà di una ragazza appena tredicenne che, dopo aver passato gli ultimi otto anni della sua vita in ospedale, ha rifiutato un trapianto di cuore - senza il quale appare destinata a morire, ma che non le garantisce, altresì, una guarigione definitiva - perché esausta per le troppe sofferenze sin qui patite.
Al centro di queste e altre vicende, c’è il valore che possiamo assegnare all’autodeterminazione della persona in quella costellazione di prerogative che sostanziano la nostra libertà nella vita associata. C’è, in altre parole, la misura in cui ciascuno di noi è libero di disporre di se stesso in quegli aspetti della sua esistenza in cui non si ledono i diritti di terzi. Alla piena affermazione di questa libertà si oppongono spesso argomenti opachi. Come la questione, ad esempio, che riguarda la qualità terapeutica di alcune pratiche di sostegno vitale. È ciò di cui si è a lungo dibattuto anche per Eluana Englaro: nutrizione e idratazione - secondo alcuni - non sono cure (dunque non possono costituire accanimento «terapeutico»; e per ciò non possono essere interrotte); sono trattamenti primari e irrinunciabili, perché non si può non dare acqua e cibo a chi ne ha bisogno. La controversia, come è facile osservare, è scaduta a un dato nominalistico che ha offuscato la sostanza del problema. Prescindendo dal fatto che la totalità delle associazioni mediche di nutrizione parenterale, nazionali e internazionali, riconoscono la natura sanitaria di quegli interventi, il punto è un altro: che li si definisca come meglio si crede, ma che si tuteli, in ogni caso, la libertà dell’individuo di non sottoporvisi. Insomma: non sono trattamenti sanitari? Sono altro? Ho comunque il diritto di non accettarli: o forse un’autorità medica può obbligarmi a mangiare e a bere? (La possibilità di sciopero della fame, come ricorda Chiara Lalli su Diario, è riconosciuta persino ai detenuti…).
Scrivere a: abuondiritto@abuondiritto.it

Corriere della Sera 23.11.08
La Cina raddoppia il nucleare
di Marco Del Corona


Programmi Un miliardo di euro servirà a finanziare le attività estrattive e di acquisizione dell'uranio da impiegare per usi civili
Il record Grazie alla tecnologia Usa, l'obbiettivo è diventare il primo Paese a dotarsi di centrali di «terza generazione»
L'ambiziosa sfida di Pechino per reggere il ritmo della forte crescita industriale

PECHINO — Quando nel 1985 le ruspe cominciarono a mettere sottosopra la terra a Qinshan, l'ingegner Zhang Huazhu si sentì meglio. La Cina stava per avere davvero la sua prima centrale nucleare, «finalmente l'atomo sarebbe servito a fare funzionare le cose, per le persone, per la pace». Si era laureato nel 1968, in piena Rivoluzione culturale, il suo campo era l'automazione, ma Zhang cominciò a gravitare prestissimo intorno ai progetti atomici. Un lungo apprendistato, come per la Cina. Che adesso guarda al nucleare come a una via chiave per attenuare la dipendenza dagli idrocarburi che hanno alimentato la sua prodigiosa crescita economica. Pechino lo considera un percorso inevitabile e si pone l'obiettivo di raddoppiare (almeno) la quota dell'atomo all'interno della produzione energetica in una dozzina d'anni. Sono 11 i reattori in funzione (distribuiti fra 6 impianti) e contribuiscono per l'1,9% all'energia generata nella Repubblica Popolare, una percentuale che appare bassa per i bisogni e le ambizioni di Pechino. La fame di risorse della Cina corre più rapidamente del passo che riescono a tenere i suoi impianti. «Abbiamo cominciato a sviluppare il nucleare prima di Giappone e Sud Corea, ma ora quei Paesi ne ricavano il 33% e il 28% del fabbisogno energetico»: e noi?, si è lamentato il China Youth Daily.
Zhang Guobao, viceministro della Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme, ha indicato un obiettivo: nel 2020 il 5% dell'energia nucleare dovrà venire dall'atomo. Non solo: si è appena saputo che la Cina stanzierà grosso modo un miliardo di euro nei prossimi 12 anni per incrementare le riserve di uranio e sta investendo in attività estrattive per assicurarsi il metallo. Ma le cifre non sono tutto: c'è qualcosa di più. L'atomo civile prova a Pechino la portata del suo percorso di modernizzazione, la propaganda l'ha posto fra le tappe fondamentali del trentennio di apertura voluto da Deng Xiaoping. E, annunciando la nuova raffica di progetti, il governo sottolinea trionfante che con sei dei nuovi reattori in costruzione, con tecnologia dell'americana Westinghouse (AP1000), la Cina «sarà il primo Paese al mondo a dotarsi di centrali di terza generazione». Accadrà a Sanmen (nello Zhejiang: 2 reattori da 1.250 megawatt ciascuno di potenza nominale) e a Haiyang (Shandong: stesse caratteristiche).
L'avventura della Cina nel nucleare era cominciata in un altro modo. Guerra fredda, l'ossessione dell'accerchiamento: l'India a sud, l'Urss a nord, l'America ovunque. Nel 1964 gli scienziati di Pechino festeggiarono il primo test atomico, Mao Zedong insegnava che la natura va piegata, plasmata, e la Bomba era una forza rivoluzionaria pronta a difendere il popolo. Fu Zhou Enlai a intravedere nell'atomo una risorsa anche sul piano civile. Shanghai rischiava di trovarsi di colpo al buio, e il primo ministro raccomandò che la tecnologia nucleare non servisse «soltanto come arma ma anche per sostenere lo sviluppo economico della Cina: dobbiamo lavorarci a lungo termine».
Era l'8 febbraio 1970, la geografia della Cina anticipava i cambiamenti che si sarebbero imposti in modo drammatico con le riforme. Le aree costiere allora erano una promessa, oggi sono un motore, sia pure affannato dalla crisi globale. Tutte le centrali nucleari in attività, costruzione o programmazione sono vicino al mare, là dove le industrie sono concentrate e il boom ha preso slancio. Nel Guangdong i reattori coprono il 7% del fabbisogno della provincia, nello Zhejiang — alle porte di Shanghai — si arriva al 15,7%, quasi un modello ideale di come la Cina potrebbe affrancarsi dall'onere degli idrocarburi e persino dei colossali impianti idroelettrici (sulla cui sostenibilità i dubbi si moltiplicano di inaugurazione in inaugurazione). Su scala nazionale, fanno poco meno di 63 miliardi di chilowattora nel 2007. Troppo poco, «la velocità di costruzione di nuovi impianti — raccomanda l'Associazione per l'energia atomica (Caea) — dev'essere cinque volte maggiore rispetto a quella degli ultimi vent'anni».
Della Caea è ora presidente, con rango di viceministro, l'ingegnere Zhang Huazhu, il suo è un organismo governativo che traccia le linee guida della ricerca e dello sviluppo del nucleare e, naturalmente, trasuda una fede assoluta nelle sorti magnifiche e progressive del nucleare, perché «la dipendenza dal carbone — spiega al
Corriere — crea solo problemi, non solo di inquinamento ma anche di approvvigionamento: le nevicate che hanno paralizzato la Cina lo scorso gennaio, per esempio, hanno provocato una vera emergenza energetica. Il nucleare può evitare tutto questo. Realizzare reattori anche nelle province interne, oltre a sostenere lo sviluppo delle zone rimaste più indietro, ci risparmierà certi scompensi nella distribuzione dell'energia. Ci stiamo preparando a intervenire nell'entroterra». Alternative? «Il solare è troppo costoso, l'eolico può funzionare», ma a Pechino la via maestra resta l'atomo.
La collaborazione con gli americani è cominciata nel dicembre 2006, Zhang Huazhu illustra come «tecnologia cinese conviva con know-how straniero, canadese, francese, russo». Non sempre, tuttavia, l'accesso degli stranieri fila liscio in un Paese dove il controllo delle centrali resta pubblico. Il quindicinale Caijing ha ricostruito gli intoppi che hanno segnato l'ordine di due reattori di terza generazione al gruppo francese Areva. Jiang Xinsheng, il funzionario che aveva gestito la trattativa per l'Azienda per l'Import e l'export tecnologico (Ctiec), «è stato messo sotto inchiesta dalla commissione disciplinare del Partito comunista, dopo essere stato sospettato di aver favorito i francesi» rispetto ad altre aziende coinvolte. Non un caso isolato, «diverse figure nell'ambito delle aziende che curano i programmi nucleari sono state indagate», ha aggiunto Caijing,
segno che il settore dell'atomo non può non sollecitare appetiti illeciti: «Lo choc causato dalla caduta di Jiang Xinsheng non è ancora passato».
Alle autorità preme di più far sapere che sul fronte della sicurezza nulla viene lasciato al caso. «Sono oltre 40 le istituzioni universitarie in Cina in grado di formare tecnici e specialisti per le nostre centrali», aggiunge Zhang Huazhu, mentre la Beijing Review dà conto soddisfatta delle «decine di giovani ingegneri» formati direttamente dalla Westinghouse. Neppure il terrorismo è assente dall'orizzonte del nucleare cinese, «sappiamo che dobbiamo tenerne conto, ormai». Pacchetti di norme in merito sono stati approvati nel 2006 e nel 2007, con procedure che scattano a catena dal livello locale fino a quello centrale. Ma ciò che fa davvero paura è che per l'affaticata crescita dell'economia cinese salti la corrente. Ne serve tanta, di elettricità, e possibilmente anche questa «made in China».

Corriere della Sera 23.11.08
Il corteo contro la violenza
«Siamo oltre 50 mila», hanno dichiarato le organizzatrici, ovvero la rete nazionale di femministe e lesbiche


ROMA — Erano migliaia, saltavano e cantavano, soprattutto, sulle note di «Nessuno mi può giudicare» di Caterina Caselli o «Malarazza» di Ginevra di Marco. E c'era anche «Le streghe son tornate» (nella versione delle Bambole di Pezza) a far da colonna sonora del corteo di femministe che ieri è sfilato a Roma in occasione della prossima giornata contro la violenza sulle donne. «Siamo oltre 50 mila», hanno dichiarato le organizzatrici, ovvero la rete nazionale di femministe e lesbiche.

sabato 22 novembre 2008

l’Unità 22.11.08
Tanti delitti. È femminicidio
di Adele Cambria


Tra le mura di casa gran parte delle brutalità
Il marito o il convivente è spesso l’aguzzino
All’origine ci sono sessismo e misoginia
Così Barbara Spinelli, una giovane giurista bolognese che collabora con l'Associazione Giuristi Democratici, descrive nel suo libro, «Femminicidio», (Franco Angeli), la strage di donne scoperta alla metà degli Anni Novanta in Messico. Le domande su quella discarica di corpi femminili nel deserto sono tante.
Quanti corpi vi furono seppelliti? C'era una organizzazione che convogliava gli assassini verso quel cimitero clandestino? «Si calcola che ne furono seppelliti oltre 4500. Purtroppo non è stata provata l'esistenza del reato di associazione a delinquere nei processi che si sono svolti. Nonostante che Patricia Gonzales, il Pubblico Ministero speciale nominato dal Governo, abbia chiesto l'incriminazione di 231 funzionari corrotti che tendevano a coprire gli assassinii».
Le ipotesi più credibili sulla strage di Ciudad Juarez sono, nell'ordine: vendette tra bande rivali di narcotraffico, tentativi di immigrazione clandestina attraverso il confine con gli Usa, «punizioni esemplari» per scoraggiare le rivendicazioni sindacali delle donne indigene che lavorano nelle multinazionali Usa delocalizzate in Messico. «Queste donne erano pagate un dollaro al giorno» - mi dice Barbara. E conclude: «La vita di giovani donne povere ,spesso indigene, non ha nessun valore in una cultura machista».
Ed è proprio qui il nodo-la cultura machista - che, alla luce del termine "Femminicidio", da poco immesso anche nel femminismo militante italiano, consente di collegare l'horror del cimitero clandestino messicano con le cifre degli assassinii di donne in Italia. Secondo le statistiche compilate dalla Casa delle Donne di Bologna, dal primo gennaio 2007 al 31 gennaio 2008 le donne assassinate in Italia sono state 126.In testa, tra gli autori dei delitti, il marito(35%), quindi l'ex marito(8%),seguono gli altri ex: convivente, fidanzato,amante(7%).
La prima parte del libro di Barbara è dedicata alla genesi della parola «Femminicidio». Vi si analizza l'antologia curata dalla sociologa e criminologa femminista statunitense Diana Russell ed intitolata «The politics of women killing» (1992). L'autrice identifica la caratteristica dell'uccisione di una donna nella misoginia o nel sessismo.
Nel primo caso è l'odio per il genere femminile ad armare la mano dell'assassino, nel secondo il virus «femminicida» si scatena dalla convinzione maschile della propria superiorità. Più o meno inconsciamente, l'assassino vuole punire chi, donna, «non sta al proprio posto».
Chiedo ancora a Barbara che cosa si sta facendo in Italia per ottenere il riconoscimento politico e giuridico del femminicidio?
Pensate di sviluppare anche una azione diretta a introdurre nel nostro Codice Penale il reato di «femminicidio»? «Non credo che si debba pensare alla formulazione di un nuovo reato. Abbiamo invece proposto che misoginia e sessismo siano considerati,al pari del razzismo,una aggravante nell'assassinio di una donna».

l’Unità 22.11.08
Meno reati, ma nei Tg del 2007 è boom di crimini Il picco durante la campagna elettorale
Immigrati, spettro catodico. Superate le quattro ore davanti allo schermo, lo spettatore diventa «preda»
di Toni Jop


Tv, la macchina della paura
Una macchina che genera insicurezza. Adesso uno studio certifica dati alla mano come l’informazione (Tg5 più degli altri) «elabori» la realtà. Generando panico. Ora, a urne chiuse, tutto è tornato più «normale».
Che fanno gli italiani? Si rilassano, hanno meno paura? Dove è finito quello spasmo che solo fino a qualche mese governava sonni e veglie armando incubi in cui erano vittime di scippi, furti, minacce? Eppure, il teatrino delle nostre esistenze non sembra sia più dolce che nel recentissimo passato... Conviene cedere alle novità documentate dalla seconda indagine sul tema promossa dalla Fondazione Unipolis e condotta da Demos & pi in collaborazione con l’Osservatorio di Pavia; e farcene una ragione: il Grande Choc del 2007, quando pensavamo di vivere nella jungla, è passato, il problema della criminalità, legato all’immigrazione, non è più il mostro che ci divora l’anima.
La polpetta avvelenata
Verremo presto ai dati ma intanto seguiamo quella tenera paranoia che, proprio nel 2007, ci aveva spinti a riflettere più o meno in questi termini: «La storia della criminalità immigrata è una polpetta avvelenata dagli interessi politici di chi vuol giocare sulla paura degli elettori». L’abbiamo pensata in tanti, senza tanta malizia, alla vigilia di una tornata elettorale - si è votato ad aprile di quest’anno - estenuante per durezza e durata, in larghissima parte giocata proprio sul tema della sicurezza.
E chi se lo dimentica. Solo che quando torniamo a quel tempo e a ciò che portava con sé, non possiamo fare a meno di ripescare un file di immagini televisive dense di notizie “criminis” e di scazzi mai risolti tra politici ed esperti. In altre parole, tra la realtà - e cioè come stavano davvero le cose rispetto alla minaccia della criminalità - e noi, gli italiani, c’era in mezzo la comunicazione, in particolare i tg, per non parlare dei salotti tv e dei loro tormentoni. Erano soprattutto i tg - attesta l’indagine - a formare la percezione del pericolo presso l’opinione pubblica. Questo è nei fatti, interessa piuttosto l’intensità dello stimolo che questi strumenti di comunicazione hanno applicato mentre informavano. Non solo, la stessa indagine giunge alla conclusione che la sensazione di insicurezza appare, oltre un certo tetto, direttamente proporzionale al numero di ore che ognuno di noi trascorre davanti allo schermo televisivo. Superate le quattro ore quotidiane di frequentazione tv siamo praticamente a bordo di un tappeto volante che può farci precipitare quando vuole. Più la guardi, più hai paura di vivere.
Spauracchio preventivo
Ma torniamo ai dati forniti da Ilvo Diamanti. Di fronte a un lieve decremento dei fatti criminosi, pur restando alta (82%, sei punti in meno rispetto all’ottobre scorso) la percentuale di chi si dice convinto di una progressione dei fenomeni criminali, diminuisce in modo drastico - dal 53 al 40% - la componente di coloro che considerano aumentata la criminalità a livello locale, sotto casa per intendersi. Ancora paura degli immigrati? Certo che sì, ma se l’anno scorso coinvolgeva oltre la metà degli italiani, questo stato d’animo ora interessa un terzo della popolazione. Altro dato sensibile: se dodici mesi fa il 51% di noi riteneva un pericolo gli stranieri, adesso solo il 36% sarebbe pronto a sottoscrivere questa denuncia preventiva. Ma la notizia non finisce qui: ecco che il 42% delle genti di questo paese ritiene che gli immigrati siano una risorsa. Incredibile ma vero, questo sguardo positivo ha sorpassato la paura, la diffidenza, il rifiuto. Sembrano buone nuove e forse lo sono davvero, soprattutto se tiene conto che giusto dodici mesi fa eravamo in preda al panico più nero, su questi temi, grazie alla tv.
Il tempismo
L’indagine ha fatto il conto della serva, ha «pesato» le notizie relative alla criminalità trasmesse tra il 2005 e il primo semestre 2008 dalle reti Rai (Tg1, Tg2, Tg3) e da quelle Mediaset (Tg5, Tg4, Studio Aperto). Hanno badato solo a quante notizie sono state date, non a quanto tempo è stato loro dedicato nell’arco dei tg. Il risultato potete vederlo nelle tabelle qui accanto: avete modo di notare il picco che accomuna tutte le reti in corrispondenza del secondo semestre del 2007, quando, annota l’indagine, il numero dei reati era comunque già in calo. Pure all’interno di questo dato sincronizzato, appare evidente come comunque il Tg5 ci abbia dato dentro più degli altri, ben più del Tg1 che pure non è rimasto a guardare l’antagonista mentre quest’ultimo rovesciava sull’audience 904 notizie di crimini e nella coscienza delle persone aumentava a dismisura la diffidenza nei confronti degli immigrati. Ma c’erano le elezioni e la campagna era in corso.
Gad Lerner, intervenuto alla presentazione dell’indagine, ha invitato a non rintracciare il Grande Vecchio in questa che potrebbe facilmente essere intesa come una Grande azione Parallela rispetto alla politica. Ok: cercheremo un piccolo anziano.

l’Unità 22.11.08
L’Onda risponde all’accuse di rissa e lesioni: siamo stati aggrediti dal Blocco
di Margaret Alberti


È stupore e sconcerto tra i ragazzi de La Sapienza per i quindici avvisi di garanzia recapitati agli studenti dell’Onda per i fatti di Piazza Navona del 29 ottobre. «Alcuni di loro neanche c’erano» denunciano pubblicamente.
Il giorno dopo la notizia delle denunce, a la Sapienza, si passa dall'incredulità alla rabbia e dalla rabbia alla difesa. Quindici studenti dell'ateneo capitolino si sono visti recapitare un avviso di garanzia per gli scontri avvenuti in piazza Navona il 29 ottobre. Tre i capi di imputazione: rissa, lesioni e adunata sediziosa. Gli stessi, emessi anche a 21 appartenenti del Blocco Studentesco. L'Onda non ci sta. «Le denunce sono inaccettabili - dicono -. Ci equiparano a questo gruppo neofascista. Non è così, l'Onda è distante dal Blocco per numero, pratiche, discorsi e modalità». Contestato il reato di rissa, perché «non corrispondente ai fatti». «Il 29 - sostengono - non c'erano due parti che si sono reciprocamente lese, ma si è verificata una sola aggressione squadrista». Smentita l'adunata sediziosa. «Quel giorno - spiegano - eravamo lì per una manifestazione autorizzata». In più, tre dei 15 denunciati sembra non si trovavassero nemmeno a piazza Navona, quel giorno. All'ateneo capitolino, si parla di incriminazioni mirate per spaccare il movimento. L'ipotesi che aleggia tra gli universitari è che le persone denunciate sarebbero state scelte «ad hoc» tra i vari gruppi politici che animano l'Onda, tra cui Esc, Collettivi, Centri Sociali, Sinistra Critica e Rete per l'Autoformazione. «Il Sottosegretario Nitto Palma - denunciano - dalla ricostruzione ha omettesso l'attacco inferto dal Blocco agli studenti medi, presi a cinghiate prima di Piazza Navona». Tra i denunciati c'è anche il Consigliere provinciale di Sinistra Arcobaleno, Gianluca Peciola. «Quel giorno sono accorso al corteo per cercare di sedare la mattanza - dice Peciola -. Ora mi denunciano perché ho alzato il mio tesserino e ho consigliato a quelli del Blocco di andarsene?». L'Onda adesso deve difendersi. In programma, una campagna dal titolo «Io non ho paura» firmata da artisti e personaggi della cultura, e la costituzione di un pool legale per seguire i 15 denunciati

il Riformista 22.11.08
Sul Pd non riesco più a scherzare
di Peppino Calderola


Non mi viene neppure più voglia di scherzare. La fine indecorosa che sta facendo il Partito ex democratico lascia attoniti. Non si era mai visto un grande partito trasformarsi in pochi mesi in un campo di battaglia. Molti di noi l'avevano previsto. Alcuni se ne sono andati avventurandosi lungo una strada che li ha cacciati in un vicolo cieco. Altri come me hanno tentato di riprendere il cammino comune e se ne sono allontanati grazie a Di Pietro. Se convocassimo gli apolidi di sinistra riempiremmo il Circo Massimo anche noi. Un progetto politico ambizioso, e completamente sbagliato, termina in un susseguirsi di vendette, di espulsioni, di fughe. Il primo ad andarsene è stato il suo ideatore. Non si fa un partito senza una cultura politica. Non si fa un partito senza un progetto. Non si fa un partito progettando di annichilire gli avversari interni. Anni di lavoro e di battaglie di gente per bene buttati via da un gruppo dirigente incapace e vanaglorioso. Non a caso tutto precipita sulla Rai, il più robusto totem della partitocrazia. Per questo partito un fedele caposervizio al Tg1 vale più di un operaio in cassa integrazione. Quando abbiamo abbandonato il Pci, con dolore o con sollievo, sapevamo di lasciare una grande storia ma il dovere ci imponeva di dare una prospettiva alla sinistra. Ora siamo finiti nel partito unico degli energumeni. La gente ride di voi. Avete fallito, ora risparmiateci la farsa. Combattetevi a viso aperto. Siate almeno dignitosi nello scrivere il finale.

Corriere della Sera 22.11.08
La teoria del matematico Giuseppe Vitiello spiega anche l'ordine temporale di una esecuzione orchestrale
La geometria dei neuroni diventa musica
Lo studio delle forme frattali decifra il funzionamento delle cellule cerebrali
di Massimo Piattelli Palmarini


L'idea è partita dalle strutture frattali La relazione tra auto-similarità e coerenza Il riscontro nelle osservazioni di laboratorio
Una visione unitaria dei fenomeni La matematica è la chiave di interpretazione Il passaggio dal sapere alla comprensione

Immaginiamoci, da un aereo ad alta quota, di spaziare con lo sguardo, come suggerisce Dante nel canto terzo de Il Purgatorio, «tra Lerici e Turbia » e osservare, appunto, le più «diserte» e le più «rotte» rovine di quella tormentata costa. Poi facciamo uno zoom mentale su un solo chilometro di costa. Poi su cento metri, poi su un solo metro di scoglio. L'impressione di intreccio zigzagante delle forme non cambia molto. Un metro o centinaia di chilometri hanno lo stesso grado di complessità.
Ebbene, questa interessantissima proprietà, detta auto- similarità è la principale caratteristica delle strutture dette frattali, secondo la celebre dizione introdotta nel 1975 dal matematico americano di origine francese Benoit Mandelbrot. I matematici dimostrano che qualsiasi zoom effettuato entro un frattale lo riproduce intatto. Senza limite, cioè fino a un numero infinito di zoom di zoom di zoom. L'auto-similarità implica dunque che non c'è una lunghezza fondamentale, una scala, appunto, caratteristica per il sistema. Un frattale è privo di scala.
Non possiede, come invece hanno le case, le auto o gli elettroni, una lunghezza fondamentale che lo caratterizzi. Strutture frattali appaiono in moltissimi sistemi e processi naturali, in fisica, in biologia, in medicina, in cosmologia, nella struttura delle galassie, in geologia, nella dinamica che accomuna i processi della corteccia cerebrale nei mammiferi, dal topo alla balena, passando per l'uomo, indipendentemente dalle dimensioni del cervello che variano di ben quattro ordini di grandezza.
La geometria frattale appare, quindi, come un tratto caratteristico che accomuna fenomeni nei più disparati settori dell'indagine scientifica. Un nuovo capitolo si aggiunge adesso allo studio dei frattali.
Il fisico italiano Giuseppe Vitiello, professore ordinario di Fisica Teorica alla Facoltà di Scienze dell'Università di Salerno, ha recentemente apportato un contributo originale all'applicazione di modelli frattali alla dinamica neuronale dimostrando che la proprietà di auto-similarità che caratterizza i frattali è correlata, in termini di ben definite strutture matematiche, alla coerenza delle oscillazioni neuronali che sono osservate, attraverso l'elettroencefalogramma e le tecniche di fMRI (produzione di immagini a mezzo di risonanza magnetica funzionale), su regioni estese degli emisferi cerebrali nell'uomo e negli animali a riposo o impegnati in attività relazionali con l'ambiente.
Aggiungo che Vitiello, nel salto verso il cervello, ha collaborato non solo con il neurobiologo californiano Walter J. Freeman, professore a Berkeley, ma anche con l'anestesiologo dell'Università dell'Arizona Stuart Hameroff. Il fatto che più li aveva colpiti è la capacità del cervello di trasformare quasi istantaneamente i segnali dei sensi in percezioni coscienti, mobilitando collettivamente milioni di neuroni in processi che non si capiva se fossero caotici o invece altamente coerenti.
I processi contemplati dalla normale biochimica dei trasmettitori nervosi e dalla fisica ordinaria della trasmissione degli impulsi nervosi sono troppo lenti per spiegare questo fenomeno. Quindi, Vitiello, Freeman e Hameroff si sono rivolti a una fisica e una matematica diverse.
I frattali, liberi dalla camicia di forza di una «scala» e con una faccia rivolta verso la coerenza sembrano ora venire in soccorso. Gli chiedo di raccontare in termini semplici ciò che ha già pubblicato con dovizia di formule e di dati sperimentali negli ultimi anni e una sua nuova teoria che uscirà presto sulla rivista internazionale «New Mathematics and Natural Computation ». «La ricorrenza elevatissima di strutture frattali e di fenomeni di coerenza nella fisica della materia e delle particelle elementari mi ha suggerito, già da tempo, che una relazione potesse (o dovesse!) esistere tra auto-similarità e coerenza. Abbiamo analizzato delle osservazioni di laboratorio le quali mostrano che l'attività cerebrale presenta proprietà di auto-similarità e appare essere priva di una lunghezza fondamentale, di una scala, e al tempo stesso è caratterizzata dalla formazione di domini di oscillazioni neuronali coerenti ».
Gli chiedo quale percorso scientifico ha seguito per arrivare a questa teoria. «Da tempo ero affascinato dalla possibilità di avere una visione unitaria di questi fenomeni, apparentemente tanto diversi, o per lo meno di capire se vi siano aspetti matematici della loro descrizione che li accomunino, fidando sull'intuito e sulla conoscenza di strutture matematiche familiari, quali quelle algebriche e dei gruppi di trasformazioni su cui si fonda la teoria degli stati coerenti. Ho trovato che la proprietà di auto-similarità così importante per la geometria dei frattali e la proprietà di coerenza della fisica della materia sono in realtà intimamente collegate ed entrambe sono realizzate dalle proprietà matematiche di certe funzioni che i matematici e i fisici chiamano analitiche intere».
Che cosa si intende, professor Vitiello, per coerenza? «I componenti elementari si comportano in modo coerente quando, ad esempio, oscillano "in fase", realizzando così un ordine di natura temporale, come quello realizzato nell'esecuzione di un brano musicale da un'orchestra, oppure si distribuiscono con regolarità in un reticolo cristallino, producendo un ordine di natura spaziale».
Vitiello aggiunge che un tale risultato è di per sé motivo di soddisfazione per il matematico e per il fisico: il fatto stesso che si possano collegare con strumenti matematici fenomeni apparentemente lontani, o almeno ricondurre ad un'unica radice «linguistica » (cioè matematica) alcuni dei loro aspetti importanti, dà sempre la soddisfacente sensazione di essere passati dal «sapere» certe cose, alla loro «comprensione».
Infine, Vitiello sottolinea che questo passaggio dal sapere al comprendere è ricco di sensi e di contenuti molto concreti. Nel caso specifico, nel riconoscere che la geometria frattale può essere descrivibile in termini di processi dinamici di coerenza che si sviluppano ad un livello più elementare, di cui dunque essa è la manifestazione macroscopica; o, vice versa, che processi dinamici microscopici responsabili della formazione di strutture coerenti hanno proprietà geometriche frattali che emergono ad un livello macroscopico.
Questa migliore comprensione ha come oggetto processi che permettono di raggiungere la stabilità di strutture macroscopiche partendo da fluttuanti componenti microscopici.

Corriere della Sera 22.11.08
Enigma Magritte
Milano esplora il rapporto con la natura dell'artista più misterioso del Surrealismo
di Francesca Montorfano


« Magritte, il mistero della natura », da oggi al 29 marzo a Palazzo Reale (piazza Duomo 12), a Milano: 110 dipinti a olio, gouaches e sculture (a destra, «Le tombeau des lutteurs», 1960). Orari: martedì-domenica 9.30-19.30, lunedì 14.30-19.30, giovedì 9.30-22.30. Biglietti: intero 9 e, ridotto 7
e. Catalogo della Giunti Arte (288 pag), 38 e
La vita René Magritte nacque a Lessines (Belgio) nel 1898. Dopo gli studi all'Accademia di Bruxelles, s'interessò alle ricerche d'avanguardia (Futurismo, Cubismo). Si convertì al Surrealismo dopo aver scoperto la pittura di Giorgio De Chirico. Era il 1925
quando aderì al gruppo surrealista di Bruxelles, l'anno dopo entrò in contatto con André Breton, leader del movimento. Morì nel 1967

C'è sempre qualcosa di profondamente enigmatico, di impenetrabile, nelle opere di René Magritte. Qualcosa che pare sfuggire all'ordine delle cose, che non può essere interpretato con i soli strumenti della ragione e della cultura perché tocca le corde dell'insolito, dell'irrazionale, del mistero. «Senza mistero nulla davvero esiste», amava dire. E in questo paradosso, nella consapevolezza che il mistero è il significato più vero di tutto il reale e la natura è il luogo in cui esso si manifesta, si rivela tutta la profondità del pensiero e l'attualità del grande maestro belga del Surrealismo. A delinearne più compiutamente la poetica, andando oltre quelle immagini ormai troppo famose, diventate icone del nostro tempo, a scoprire un inedito e ancor più sorprendente Magritte, è un nuovo livello di lettura delle sue opere, che si propone di indagare la sua particolare visione della natura. E proprio la natura, con il mistero che racchiude in sé e che solo l'artista può svelare guardando oltre l'apparenza delle cose, è il filo conduttore della grande rassegna che si apre oggi a Palazzo Reale e che si presenta come un evento assolutamente straordinario, perché vede riunite in Italia più di cento opere di Magritte, quadri famosi provenienti da importanti musei e lavori appartenenti a collezioni private e mai esposti prima d'ora.
«Sono pochi gli artisti del Novecento che hanno posto la natura al centro della loro ricerca, preferendo l'esaltazione delle conquiste della scienza e della tecnica, ma Magritte è stato uno di questi », ha dichiarato Claudia Beltramo Ceppi, curatrice della rassegna insieme a Michel Draguet, direttore generale dei Musées Royaux des Beaux Arts de Belgique. «La natura è sempre presente nel suo percorso artistico, protagonista o cornice di ogni immagine, esplorata in una miriade di declinazioni e sfaccettature dove la logica comune dei luoghi e delle cose è sovvertita, gli oggetti e le figure spostati in contesti paradossali, la realtà reinterpretata attraverso l'occhio lucido e spregiudicato di un intelletto moderno».
Il complesso rapporto che lega Magritte alla natura è raccontato in un'esposizione tematica e cronologica insieme, dove a condurre lo spettatore è lo sguardo stesso dell'artista, a parlare non sono cartelli o locandine, ma le sue immagini e le sue riflessioni. «Con questa mostra abbiamo voluto costruire una storia che abbia un inizio e una fine — continua Claudia Beltramo Ceppi —, che sia spettacolo e approfondimento insieme, che possa suscitare emozioni e trasportare in un luogo dove anche l'enigma, anche i limiti dell'uomo si dissolvano nel mondo del sogno ».
La vicenda di Magritte si muove così dai bellissimi e quasi sconosciuti dipinti futuristi per passare alle prime esperienze surrealiste, influenzate dalla scoperta della metafisica di De Chirico («È stato uno dei momenti più emozionanti della mia vita: i miei occhi hanno visto il pensiero per la prima volta», disse davanti a una riproduzione di Le chant d'amour di De Chirico) e alle immagini dolorose del periodo tra le due guerre, per arrivare infine ai celebri dipinti degli anni Cinquanta e Sessanta. E se nella mela di Souvenir de voyage del 1961 la natura appare mascherata, quasi a voler celare la sua vera essenza, nella rosa immensa e palpitante de Le tombeau des lutteurs del 1960 sembra invece esplodere in tutta la sua potenza. Così, ne La découverte del 1927 il corpo della donna si trasforma rivelando tratti animaleschi, ne Le retour del 1940 la colomba diventa nuvola (o è la nuvola che si fa uccello?), nello stupefacente notturno sotto un chiaro cielo diurno de L'empire des lumières del 1954 incanta con la forza della poesia. Ma il percorso va ancora avanti, a scoprire foto e spezzoni di film, manoscritti (come il carteggio autografo con Camille Goemans, tra gli esponenti del gruppo surrealista di Bruxelles) e grandi pannelli, come quelli usciti per la prima volta dal Palais des Beaux Arts di Charleroi, che sembrano riassumere tutta la magia dell'universo pittorico di Magritte. «Io voglio con la pittura ricostruire un mondo felice», aveva scritto nel 1943, nel suo diario.
Un mondo dove la natura possa offrire al corpo e allo spirito quella libertà di cui hanno bisogno.

Corriere della Sera 22.11.08
Il falso specchio L'opera che condanna la verità dell'immagine
Le nuvole dell'illusione Così un grande occhio mette in crisi il mondo
di Francesca Bonazzoli


«Dimmi, Damide, esiste una cosa chiamata pittura?» «Certo», risponde Damide. «E perché si fa?». «Per l'imitazione, per ottenere una figura somigliante di un cane o un cavallo o un uomo, o una nave, o di qualsiasi altra cosa sotto il sole». «Allora la pittura è imitazione, mimesi?». «Certo, che cos'altro dovrebbe essere, se non fosse così sarebbe un ridicolo trastullarsi con i colori », ribatte Damide. «Già, ma che dire delle cose che vediamo in cielo quando le nubi corrono portate dal vento, di quei centauri e antilopi, di quei lupi e cavalli? Sono anch'esse opere di imitazione? Dio è forse un pittore che occupa le sue ore libere in questo divertimento?», chiede ancora il filosofo pitagorico Apollonio di Tiana al suo discepolo con il quale, all'epoca di Cristo, arrivò fino in India. E poiché, procedendo nel dialogo, i due concordano che le nubi si formano per caso e che siamo noi a attribuire loro una forma somigliante a quelle che già conosciamo, Apollonio conclude che due sono le possibili imitazioni: «Una è quella che porta a utilizzare le mani e la mente per realizzare imitazioni, l'altra è quella che realizza la somiglianza unicamente con la mente».
Quasi mille anni di storia dell'arte dopo, nel primo ventennio del XX secolo il pensiero estetico torna da capo su questo tema e, dopo aver compiuto l'intero giro della mimesi passando attraverso l'illusione e i cieli sfondati barocchi di Correggio, Padre Pozzo o Tiepolo, Magritte dipinge un quadro che riporta la speculazione filosofica al punto dove l'aveva lasciata Apollonio di Tiana. Quel quadro si intitola «Il falso specchio» ed è un enorme occhio che ci guarda, ma dentro il quale non vediamo riflessi noi stessi, bensì un cielo attraversato da nubi. L'immagine più semplice del mondo, eppure quanto mai ambigua, a partire dalla pupilla che, al centro di quel cielo azzurro, appare come un inspiegabile sole nero. Ma non solo: che cosa è quel cielo? Quello reale riprodotto dalla superficie specchiante della pupilla, oppure un «falso specchio » che non rappresenta ciò che l'occhio vede, bensì ciò che ci illudiamo di vedere? È una finestra sul mondo o il nostro mondo interiore che diventa una finestra?
La stessa riflessione verrà sviluppata da Magritte in molti altri quadri e soprattutto ne «I due misteri», dove dipinge un'enorme pipa e, sotto, un cavalletto con un altro quadro che riproduce a sua volta una pipa, ma con la scritta: «Ceci n'est pas une pipe». Ancora una volta Magritte spiazza colui che guarda: ci sono due pipe oppure due disegni di pipe? O una pipa e il suo dipinto o due dipinti di una pipa vera, oppure due disegni che non sono e non rappresentano né l'uno né l'altra e a che cosa dunque si riferisce la frase scritta sul quadro nel quadro?
Insomma, Magritte vuole spostare il valore della pittura dalla sua funzione mimetica, che l'arte occidentale gli ha riconosciuto fin dai tempi dei Greci, a quella concettuale. La qualità dell'opera d'arte, dice, non sta nell'abilità esecutiva (egli stesso parlava di peinture vache, di bassa qualità), bensì nella capacità di innescare una riflessione sul mondo e la realtà. È lo stesso spostamento dal manufatto alla sua dimensione mentale che aveva già sperimentato Duchamp e che porterà all'arte concettuale, ma Magritte lo attua attraverso gli strumenti del Surrealismo, ovvero l'accostamento incongruo di oggetti, indipendente dalle leggi della logica, come in sogno, per sancire l'irrealtà dell'apparenza.
Così la riflessione, e la visione, trasferiscono il loro centro dall'esterno all'interno, come suggerito anche nella celebre scena di «Un chien andalou » in quello stesso anno girato da Buñuel (e sceneggiato da Dalì) dove una nube affilata che attraversa la luna si trasforma nella lama di un rasoio che taglia l'occhio di una donna come a negare la possibilità della visione e dell'interpretazione della realtà attraverso la vista. Alla pittura viene quindi negato ogni valore naturalistico: come aveva intuito Apollonio di Tiana, nella visione c'è sempre una componente soggettiva, la tendenza a proiettare nelle forme immagini di cose che già abbiamo nella testa.
Con Magritte arriviamo dunque al punto di rottura più radicale della storia della mimesi, messa già in crisi dal trompe l'oeil fin dall'epoca rinascimentale e barocca anche se tale esercizio virtuosistico rimaneva ancora nell'ambito dell'imitazione (del cielo, del soffitto sfondato, delle architetture, delle nubi) e non metteva veramente in discussione la verità dell'immagine che restava sempre uno strumento di conoscenza della realtà.
Ecco perché nel XX secolo Magritte si accanisce proprio contro la pittura: perché negare le immagini è un modo di negare finalmente l'oggettività del mondo. E dopo le guerre virtuali che abbiamo visto in tv seduti sul divano, sappiamo quanto questo sia vero.

Corriere della Sera 22.11.08
Il pittore vallone ha rappresentato il carattere del suo Paese rebus
Riservato e imprevedibile Era l'alfiere della «belgitudine»
Viveva nella noia ma aveva sempre pronta la battuta beffarda
di Isabelle Gerard


Nato nel 1898 a Lessines, in Vallonia, René Magritte è diventato oggi ambasciatore del Belgio nel mondo intero. È il più noto rappresentante del Surrealismo belga ed è uno dei pittori più illustri del Paese. Le sue immagini, sebbene surreali, parlano a tutti grazie al realismo della loro esecuzione. Del resto, è partendo dal reale, con tutto quello che esso comporta di più banale, che Magritte imposta i misteri, i non-sensi e le sorprese che riempiono le sue opere. Una tradizione che dura da parecchi secoli in Belgio, dove artisti come Bosch, Breughel, Ensor e, ai giorni nostri, Panamarenko, hanno sfruttato la realtà per immaginare universi fantastici che flirtano spesso con il sogno e l'inconscio. In Belgio, questo sentimento del fantastico riguarda anche la corrente simbolista della fine del XIX secolo (Khnopff, Rops) e i fumetti del XX secolo (François Schuiten). Sembra che da molto tempo artisti in genere e artisti plastici abbiano questo bisogno di creare universi onirici colmi di fantasia e di mistero.
Quanto a Magritte, egli viveva semplicemente, in un piccolo spazio, decorato con cura dalla moglie Georgette. Le sue giornate trascorrevano nella noia, poiché gli unici contatti erano quelli che manteneva con i membri del gruppo surrealista belga (Scutenaire, Nougé, Mariën). Questa vita lontanissima dagli universi dei suoi quadri era una propria scelta. Il fatto di rinchiudersi in se stesso, Magritte lo condivide con altri artisti belgi che, come lui, non hanno seguito la strada già tracciata che si apriva davanti a loro, preferendo gli abbandoni e talvolta gli insuccessi a vantaggio della loro arte. Citiamo Simenon, Jacques Brel o ancora Hugo Claus, i quali, come Magritte, vissero nell'isolamento. Una discrezione che, stranamente, caratterizza numerosi artisti e personalità belgi. In un Paese così piccolo, dove tanto più i geni avrebbero motivo di esporsi, loro tendono piuttosto a non farsi notare. Raggiunto il successo, continuano a vivere ritirati, dedicandosi solo alla creazione. È proprio questa forse la loro forza, e la ragione per cui «piccoli belgi» come Magritte, Hergé, Simenon o Brel sono riusciti a diventare artisti mondialmente noti.
È incontestabile che ci sia molto del «belga» in René Magritte, il cui accento vallone fu oggetto di tanti scherni quando l'artista si trovava a Parigi (1927-30). Nella vita quotidiana, Magritte viveva come il belga medio, giocando a scacchi nei bar del centro e portando a passeggio il cane Loulou per le stradine del suo quartiere. Ma è soprattutto con l'umorismo, caustico e volgare come non mai, che Magritte affermava (forse suo malgrado) la propria belgitudine. Così, alla domanda «Come sta?» gli piaceva rispondere «Come vuole lei». Magritte, che amava terminare le lettere con un affettuoso «buona inculata», creò nel 1948 a Parigi il periodo «Vache», una sorta di parodia del fauvismo, per farsi beffe di quei parigini che avevano impiegato tanto tempo prima di prendere sul serio il suo lavoro.
Eppure, Magritte non ha sfruttato deliberatamente la belgitudine nei suoi quadri. Questi brulicano di elementi chiave che comunque hanno solo di rado una connotazione belga (per quanto, l'ombrello non è un elemento caratteristico degli abitanti di questo piatto Paese?). Al massimo, nelle sue immagini troviamo paesaggi che ricordano quelli del Mar del Nord, case dal profilo tipico di quelle di Bruxelles, cieli spesso grigi o nuvolosi, o ancora un leone la cui sagoma evoca la marca dei supermercati belgi Delhaize. È forse questa atmosfera cupa che dà un carattere «belga » all'opera di Magritte, senza che egli abbia mai voluto tingerla di belgitudine. Infatti l'artista, come di molte altre cose, se ne infischiava altamente d'essere belga, vallone, fiammingo o brussellese.
Tuttavia l'opera di René Magritte oggi è diventata un'immagine del Belgio, che esso vuole diffondere nel mondo intero. È servita da simbolo a una delle grandi compagnie aeree (l'uccello della Sabena); i grandi musei gli dedicano una quantità di mostre e nel giugno del 2009 a Bruxelles sarà inaugurato in pompa magna un nuovo Museo Magritte destinato ad attirare un pubblico internazionale. È tutto un programma, per colui che dipingeva nella sala da pranzo sparlando della famiglia reale...
Isabelle Gerard è storica dell'arte, conservatrice del Museo Magritte a Bruxelles e saggista
(traduzione Daniela Maggioni)