lunedì 24 novembre 2008

Repubblica 24.11.08
Ragazzi dell'Onda "il Catalogo è questo"
di Mario Pirani


Il riformismo non è una teoria o una pia intenzione, ma una pratica concreta, un´azione per migliorare le cose, evitando, peraltro, di esagerare combinando sconquassi. Una premessa che mi è venuta alla mente nella sua ovvietà scrivendo un recente articolo sull´Università (Repubblica). Tra il materiale da me non utilizzato per ragioni di spazio, vi era una nota sulle iniziative prese dal presidente indipendente della giunta di centro sinistra della Sardegna, il dinamico industriale Renato Soru, l´inventore di Tiscali.
Più delle grandi riforme di vario colore che hanno inguaiato la scuola e le università, ancor più di quanto non fosse, Soru ha messo in atto per l´annualità 2008-2009 alcune misure semplicissime che si possono valutare immediatamente. La prima riguarda il punto più controverso del decreto Gelmini sulla scuola, la questione del tempo pieno. Ebbene, senza alcuna polemica e tenendo conto che la sua applicabilità implica la collaborazione tra lo Stato e le autonomie locali, Soru ha deciso che il bilancio regionale contempli uno stanziamento di 35 milioni di euro per estendere con fondi propri il tempo pieno a tutte le scuole primarie e medie dell´Isola.
Il finanziamento verrà suddiviso in base all´autonomia scolastica ma è fin d´ora vincolato ad una utilizzazione non dispersiva, ludica o casuale, finalizzata a colmare le deficienze che le inchieste Ocse e nazionali hanno riscontrato nelle competenze di base dei ragazzi italiani, in specie nel Mezzogiorno e nelle Isole: italiano, matematica, scienze, ecc. Basterebbe questo per promuovere la Giunta sarda, ma il menù è molto più ricco e apporta un aiuto decisivo alle due Università di Cagliari e Sassari.
Per dirla con Leporello: «Il catalogo è questo». I) La Regione versa 12 milioni di euro alle due università, impoverite dai tagli della Finanziaria, per sostenere la loro attività corrente. Inoltre stanzia 4 milioni per favorire la presenza di visiting professors che arricchiscano le esperienze di studio locali.
II) Con bandi biennali verranno distribuiti 5 milioni di euro per finanziare direttamente singoli giovani ricercatori, sia sardi che non sardi, che abbiano scelto di svolgere altrove, in genere all´estero, la loro attività, a condizione che ora siano disposti a lavorare ad un loro progetto scientifico o umanistico presso una delle due Università sarde. L´obiettivo è di incentivare il "rientro dei cervelli", tenendo conto che i giovani ricercatori italiani all´estero guadagnano all´inizio sovente non più di 1700-1800 euro, ma godono non solo di infrastrutture incomparabilmente migliori e di sistemi di ricerca più liberi. Soprattutto è loro ben presente che, a differenza della madre patria, gli esiti verranno giudicati soltanto per il merito e la professionalità. La scommessa di Soru è di tentare anche in Sardegna una prima inversione di tendenza: chi verrà, anche se l´università non ha soldi da offrirgli, riceverà dalla Regione direttamente ad personam 40.000 euro l´anno, più altri 15.000 per libri, materiali, spostamenti per studio.
III) Oltre alle normali borse di studio assegnate in base al merito e al reddito, da quest´anno la Sardegna mette a disposizione 2500 "assegni di merito" per un totale di 15 milioni, senza alcuna limitazione di reddito, per i giovani che si iscrivono per la prima volta alla università o sono già iscritti, a condizione che abbiano superato l´esame di maturità con almeno 80/100, che sostengano tutti gli esami universitari entro il tempo stabilito e conseguano una media del 27. Il contributo, versato direttamente allo studente, sarà di 500 euro nette al mese.
Si tratta di una iniziativa senza precedenti nel nostro Paese, cui si aggiunge per tutti i neo iscritti un contributo di 1200 euro per computer e libri. Infine, per rimpinguare l´esigua somma data dalle università, la Regione assicura altri 2500 euro per ogni borsa Erasmus.
IV) Oltre ai fondi per l´edilizia già assegnati per alloggi universitari in costruzione, in modo da portarli a Cagliari da 1000 a 2000 e a Sassari da 350 a 1000, la Regione assicura a tutti i ragazzi fuori sede una sovvenzione di 5000 euro l´anno per una abitazione nella città che li ospita.
Se ricordiamo tutte le polemiche e gli ostacoli che incontrò il tentativo di Soru di far pagare imposte più salate ai ricchi proprietari delle ville della Costa Smeralda e degli yacht che attraccano d´estate nei suoi porti, e li confrontiamo con queste voci di spesa, ne scaturirà con esattezza in cosa consista l´equazione riformista. Dovrebbero farla propria l´Onda e quanti manifestano senza precisi obbiettivi. Qui ce n´è per ogni Regione.

Repubblica 24.11.08
Sorpresa, il potere è giovane (o quasi)
Il Paese è bloccato ma l´analisi dell’anagrafe rivela un´altra verità. A partire dalla politica e dall’economia
di Giuseppe D’Avanzo


In Parlamento e nelle grandi società l´Italia non è più un paese per vecchi A sorpresa tiene testa agli Stati Uniti e continua nel processo di rinnovamento La Lega per prima ha puntato sulle nuove leve. Ma le università fanno eccezione
Le rogne di un ricambio generazionale sono tutte del Pd
Il gruppo più giovane della legislatura è del Carroccio: solo 40 anni in media
Il premier italiano è tra i più anziani d´Europa: 72 anni contro i 48 di Zapatero

Un indizio di conflitto generazionale fa capolino con il gonfiarsi dell´Onda studentesca - e speriamo che non sia fittizio, che duri e nel tempo si rafforzi. Finalmente, una forma di resistenza individuale e collettiva a un modello normalizzato che riconosce soltanto incertezza e precarietà alle giovani generazioni non protette dalla famiglia, dalle relazioni amicali, dalle connessioni di interesse. Un pregio della falsa «riforma Gelmini» è innegabile: ha costretto molti giovani ad aprire gli occhi su quel che li aspetta: precarietà prolungata; mediocri e intermittenti guadagni; incertezza nel reddito; insicurezza sulla continuità del lavoro; assenza di sostegno pubblico; impossibilità a programmare una vita consapevole (unione, nascita di figli, mobilità). I giovani sono come congelati in una dimensione di adulti immaturi, privati di opportunità e autonomia; imprigionati in un modello sociale e produttivo che non sa riconoscere la qualità e non premia il merito.
Al più, quando va bene (e va bene ai soliti noti), il «modello italiano» concede l´attenzione di una di quelle consorterie - Pierluigi Celli le chiama più esplicitamente «bande» - che «accreditano competenze, contrattano alleanze, tassano ogni forma di collocamento».
A fronte di questo dramma e dell´accenno di conflitto sociale che si può intravedere, il dibattito sull´esclusione dei «giovani» dalla leadership politica di una «Repubblica della Terza Età» è una lagna soporifera. È un piagnisteo che trascura una realtà molto più contraddittoria del diffuso luogo comune del «Paese dove il tempo si è fermato». È gne-gne che occulta un´autentica questione che interpella non tutto il Paese né tutto il ceto politico. Ma soprattutto l´università e la sinistra riformista (o il centrosinistra, chiamatelo come volete). Per almeno quattro ragioni.
Dunque, una giovane classe politica sarebbe tenuta fuori dalla porta delle stanze che contano. Primo argomento: sono davvero giovani?
Quei «giovani» che chiedono attenzione e pretendono, come un atto dovuto, accesso al potere, alle élites, alla classe dirigente, sono falsi giovani, ingrigiti, maturi, diciamo già un po´ spelacchiati. Come spiega Francesco Billari (il Mulino, 5/2007), le Nazioni Unite quando progettano azioni dedicate allo youth empowerment (più potere ai giovani) definiscono giovanile l´età che corre tra i 15 e i 24 anni e chiamano addirittura «giovani adulti» quelli che hanno tra i 20 e i 24 anni.
Anche la Commissione Europea considera «gioventù, l´età della vita che va dai 15 ai 25 anni». È dunque una bizzarra anomalia italiana considerare «giovane» chi è nato dopo il 1968 e magari ha già festeggiato i quarant´anni. Non è peraltro una anomalia del presente (secondo argomento).
Alberto Alesina ha ricordato che, quando nel 1984 Franco Modigliani vinse il premio Nobel per l´economia, gli studenti italiani di economia di Harvard e del Mit lo invitarono a cena in un ristorante toscano di Boston. Modigliani raccontò che all´età di 52 anni, durante un seminario in Italia, fu presentato come «un brillante giovane economista» e lui replicò, quando prese la parola: «Grazie per il "giovane", ma negli Stati Uniti mi considerano un po´ passé».
L´anomalia quindi non è nuova in Italia. Di nuovo, al contrario, c´è (terzo argomento, alquanto sorprendente) il tentativo di svecchiare élite politiche e ceti dirigenti. È vero, Berlusconi è in là con gli anni (72 anni) e lo separano più o meno due decenni da Sarkozy (53 anni), Merkel (54), Zapatero (48), Brown (57), però è altrettanto vero che, se si guarda ai cinque ministeri chiave, Economia (Tremonti, 61 anni), Interni (Maroni, 53), Esteri (Frattini, 51), Giustizia (Alfano, 38) e Difesa (La Russa, 61), la media è di 52 anni (era di 63 nel governo Prodi). Se poi si sbirciano i dati raccolti da Marco Leonardi (economista, Statale di Milano), si scopre che in Italia la giovane età non è un deficit nemmeno per gli amministratori delegati delle 200 aziende quotate in Borsa a Milano. Età media, 52,6. Nelle 4049 aziende quotate a Wall Street, l´età media dei chief executive officer (CEO) è più alta, anche se di mezza incollatura: 53 anni. Semmai i problemi sono tutti nella gerontocratica università italiana. Tra gli oltre 18mila cattedratici, solo 9 hanno meno di 35 anni e tre su dieci ne hanno più di 65, hanno contato Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella. Epperò lo svecchiamento degli ultimi anni con il proliferare di corsi di laurea e di sedi universitarie, con l´aumento del 100 per cento dei professori ordinari (ma alcuni parlano del 150 per cento) non ha migliorato la qualità né della ricerca né dell´insegnamento. Non basta essere giovani per cambiare in meglio l´esistente. Di sicuro non nell´università italiana.
A ben guardare, la politica se la passa meglio. Sei governatori hanno meno di 50 anni e l´età media è di 53 anni. Alla Camera l´età media degli eletti è di 50 anni e al Senato di 54 (senza i senatori a vita): una spanna meglio del Congresso americano dove, ricorda Leonardi, dal 1996 l´età media degli eletti è di 51 anni e al Senato di 58. In questo orizzonte, si dimentica sempre (colpevolmente, ottusamente) la rivoluzione della Lega. Il più "antico" partito del Parlamento italiano è la forza politica che, nell´ultimo decennio, ha governato un quarto del Paese creando, come ha osservato Andrea Romano, una classe dirigente «giovane e competente». Il 77 per cento degli eletti in Parlamento del Carroccio ha un´età che oscilla tra i 29 e i 49 anni (fonte, la voce.info) e la gran parte dei duecento sindaci leghisti sono quarantenni. I casi di Federico Bricolo (41 anni), già eletto nel 2001 (a 34), o dell´ex assessore del Veneto Francesca Martini (46 anni, già eletta alla Camera nel 2001 a 39) o di Matteo Bragantini (32) non sono eccezioni nel gruppo parlamentare più giovane della legislatura, età media 44 anni. È una classe dirigente cresciuta all´ombra della vecchia guardia padana, secessionista e folklorica, ma oggi pragmatica custode delle attese e le ambizioni di un elettorato che conosce come la sua famiglia e di un territorio che abita come la propria casa. È un´élite consapevole che debba essere la Lega «il motore riformatore del governo».
Silvio Berlusconi, si sa, non ha bisogno di una classe dirigente. Basta a se stesso. Come ha scritto Alberto Asor Rosa su questo giornale, il nostro carismatico premier «è un grande distruttore di élite: dove lui passa, non c´è straccio di classe dirigente che resista». Si sente Napoleone III o forse - meglio - Luigi XIV. Per governare gli è sufficiente un Richelieu (Gianni Letta, 73 anni), un Colbert (Tremonti) e, per antica abitudine, un avvocato (Niccolò Ghedini, 49). Per il resto, il sovrano si circonda di cortigiani sorridenti, fantaccini ostinati, belle e giovani signore e di un corteo di «vogatori, cruciferi, flabellieri, turiferari, toreadori», intercambiabili e ininfluenti come un Daniele Capezzone (36 anni). Da questo punto di vista, le rogne di un ricambio generazionale sono tutte allora del Partito Democratico, partito nuovo che si lascia alla spalle il suo solo leader vincente (Romano Prodi, 69 anni). Il PD, attor giovane del sistema politico italiano, dovrebbe essere più sensibile a liberarsi dell´autarchia generazionale e, a parole, è così.
Altri sono i fatti. Tra gli eletti del Pd gli under 40 (dunque, i giovani autentici) sono appena il 13 per cento e, se si allarga la forbice ai 49 anni, si arriva soltanto al 43 per cento (34 per cento in meno rispetto alla Lega, il partito - ripeto - più «antico»). Un risultato assai modesto, anche se il PD è riuscito ad abbassare in questa legislatura la media dei suoi eletti da 54 a 49 anni, un anno in meno del Partito della Libertà (50). Se poi si guarda ai criteri di selezione o alla qualità di questa presenza giovanile, la luna diventa nera. Al contrario dei volti nuovi della Lega, non si scorge nessun radicamento nel territorio, nessun legame con la società. Paiono decisive cooptazione, fedeltà senza discussione, buona presenza mediatica.
L´avventura politica di Marianna Madia ne è il prototipo più esplicito. Ventotto anni, scelta addirittura come capolista a Roma, presentata come «economista» tra le perplessità degli economisti, avventurosamente si presentò così: «Metto al servizio del Paese la mia incompetenza». Merito, competizione e senso di responsabilità non orientano i comportamenti e le scelte di chi governa il Partito Democratico né sollecitano quei giovani che chiedono di governarlo o almeno di contare di più, di avere più spazio e potere. Chi, con la giovane età, una competenza può vantarla come Irene Tinagli (34 anni, ricercatrice presso la Carnegie Mellon University di Pittsburgh) se ne va già disillusa («Ero stata contattata per le mie competenze tecniche, in un anno di PD non sono stata consultata nemmeno per un parere»). Nella convinzione che l´azione politica si svolga tutta all´interno dello spazio mediale, ha nel PD più visibilità un demi-monde mediatico, blogger come Luca Sofri (44 anni), Diego Bianchi (38), Mario Adinolfi (37). Competenze? Pochine. Luca Sofri lo ha ammesso con onestà durante i lavori di una direzione (è tra le venti personalità indicate da Walter Veltroni). Sofri disse a brutto muso: «Sono qui a discutere come affrontare il secondo decennio del Duemila le stesse persone che non hanno saputo affrontare il primo e che erano qui nel millennio precedente» per poi concludere: «. Non pretendo di spiegare a persone molto più esperte e competenti di me quali contenuti dare al presente e al futuro del Partito Democratico. Non sto parlando di contenuti e non sarei all´altezza di discussioni molto approfondite ed elaborate».
Chapeau!
Ho l´impressione che, in assenza di competenze, i giovani che vogliono fare del PD, come scrivono nel loro blog (Uccidere il padre), «un partito moderno, democratico, laico e di sinistra» (e capirai che puntuta e illuminante freschezza), chiedono soltanto di togliersi dai margini, di farsi benedire e riconoscere sventolando appartenenza. È l´accorta pulsione, temo, che può spiegare la rimozione in quel partito di ogni conflitto politico per mano dei più giovani.
È il quarto e ultimo argomento: se si guardano i numeri, la politica italiana non è priva di giovani. Anzi, è giovane. Il suo deficit è un altro.
Se si guarda al PD, è ossessionata dall´obbedienza, disinteressata alle competenze spendibili liberamente. È dominata dalla prudente ragione del primum vivere che orienta da sempre i maturi di ogni partito e ora anche gli acerbi dell´ultimo partito nato. E´ una politica che non conosce il conflitto.
Il conflitto vero sulle questioni reali (non le cerimonie mediatiche) è, al contrario, sempre salutare e necessario se un corpo sociale, qualche che sia, non vuole sclerotizzarsi e conservare vitalità e dinamismo. E´ il conflitto il grande assente nel parolaio del discorso politico giovanilistico. Dove comme il faut si fa un gran parlare di Barack Obama (chi sarà il nostro Obama? dove troveremo il nostro Obama?).
Si dimentica che il nuovo presidente americano ha sconfitto in campo aperto, al termine di una lunga e dura battaglia, Stato per Stato, elettore per elettore, due micidiali clan politici (Bush e Clinton) che hanno governato gli Stati Uniti negli ultimi venti anni. Lo ha fatto in splendida solitudine ché, in avvio, ha dovuto fare a meno anche dell´appoggio della macchina elettorale afroamericana di Al Sharpton e Jesse Jackson che lo guardavano con freddezza. Ce l´ha fatta non perché è su Facebook (anche), ma perché (innanzitutto) ha un´idea della natura della crisi degli Stati Uniti e un programma per affrontarla. È apparso autorevole, credibile, responsabile, capace di stringere forti legami sociali, di radicarsi nel Paese e tra la sua gente perché la sua intelligenza delle cose è maturata a contatto con la realtà in cui vive e si muove un popolo in carne e ossa e non nel mondo frammentato dell´immagine, dei consumi, delle mode, dello spettacolo dove abitano soltanto figurine di cartone.
Se prendere atto delle metamorfosi non significa condividerle, si può dire - e non è una provocazione - che la declinazione della politica di Obama ha più a che fare con la giovane classe dirigente della Lega che non con i giovani leoni senza denti del Partito Democratico. Converrà allora che quei giovani si diano da fare. Riscoprano il conflitto. Comincino a pretendere regole certe per le primarie, come propone da tempo Tito Boeri. Pretendano il ritorno al voto di preferenza. Esigano che l´età di elettorato attivo e passivo coincida, come in Germania, Svezia, Spagna. Diano battaglia. Soltanto con un conflitto aperto di ideali, progetti, analisi, competenze, soltanto con un conflitto leale nella raccolta del consenso, quindi nella misura di un concreto radicamento sociale, si potrà coltivare la speranza di un nuovo riformismo, la convinzione di potercela fare a cambiare l´Italia, a fermarne il declino e la deriva autoritaria. Altra ambizione non può esserci e, se c´è, non è soltanto mediocre. È perdente e, peggio, noiosa come un´impotente lagna.

Repubblica 24.11.08
L’onda anomala del professor Jones così in classe si costruisce il nazismo
di Curzio Maltese


In concorso lo sconvolgente film tedesco "Die welle" tratto da una storia vera L’esperimento di un insegnante con gli studenti: la creazione di una dittatura
All´uscita in Germania qualche mese fa scatenò un fiume di polemiche e divise l´opinione pubblica
C´è chi lo ha definito il più importante film degli ultimi anni perché spiega il fascino del totalitarismo

TORINO La trama è fedelissima al fatto reale, l´esperimento ideato dal professor Ron Jones nel liceo Cubberley di Palo Alto, California, nel 1967. Lo scopo era di capire come si diventa nazisti. «La domanda degli studenti è stata: come ha potuto il popolo tedesco tollerare, anzi aderire in massa al totalitarismo, accettare i campi di sterminio, obbedire ciecamente a Hitler?» scrive Jones nel suo diario.
La lezione di storia naturale si rivela inadeguata. Gli studenti prendono un´aria annoiata, del genere: «Ok, abbiamo capito, oggi da noi non potrebbe succedere». Il professore allora propone un esperimento. Per qualche giorno i ragazzi dovranno sottomettersi alla sua autorità, chiamarlo «signor professore» e seguire le lezioni con la testa dritta e il petto all´infuori. La risposta degli studenti è dapprima divertita, poi entusiasta. Sono loro stessi a proporre i sistemi per rendere compatto e disciplinato il gruppo. Si danno un nome, l´Onda con un logo e un saluto: una mano tesa all´altezza del cuore.
Quindi una divisa, jeans e camicia bianca, per diventare tutti uguali. Si alzano in piedi all´ingresso del signor professore, compiono esercizi ginnici, urlano slogan ad alta voce: «La forza è nella comunità». Il professor Jones è stupito del suo successo e anche affascinato. Confida alla moglie: «In un certo senso, ho scoperto un metodo di insegnamento che funziona. I ragazzi imparano in fretta e alla grande. E´ assurdo, ma prima non avevano neppure posti fissi in classe, e ora che non c´è più libertà stanno seduti ai loro posti, rispondo a tutte le domande e si aiutano a vicenda». Dopo i primi giorni, compaiono alcuni effetti collaterali. Gli studenti isolano e denunciano i compagni che esprimono dubbi. Gli alunni delle altre classi si dividono, alcuni chiedono di far parte dell´Onda, altri sono disgustati e reclamano la fine dell´esperimento.
Scoppiano le prime violenze. Un mattino Jones viene affiancato da un suo studente che si qualifica come guardia del corpo. Capisce che l´esperimento gli è completamente sfuggito di mano, ha creato un nucleo perfetto di nazisti, ma è troppo tardi. Si corre verso l´epilogo, dal gioco al massacro.
La storia vera racchiusa nel diario di Ron Jones, il bel libro di Morton Ruhe ("Die Welle") divenuto un classico della letteratura per ragazzi, e il notevole film di Dennis Gansel presentato a Torino, hanno in comune una doppia lettura. Una antropologica, il bisogno primordiale della scimmia umana di sottoporsi al comando di un capo. Un bisogno tanto più emergente nell´età della crisi, nell´adolescenza in cui non si sa chi si è e quindi si può diventare qualsiasi cosa. L´altra lettura è l´attualità. A metà dell´esperimento il professore il protagonista del film, ambientato nella Germania di oggi, scrive sulla lavagna, sotto dettatura degli studenti, l´elenco delle cause che possono portare a un regime. Nell´ordine: la globalizzazione, la crisi economica, la disoccupazione, l´aumento dell´ingiustizia sociale, la manipolazione dei mezzi di informazione, la delusione della politica democratica, il ritorno del nazionalismo e la xenofobia. Sono le sementi che negli anni Venti hanno fecondato il terreno del fascismo e del nazismo in Europa. Sono gli stessi problemi, qui e ora.
All´uscita in Germania, nella primavera scorsa, Die Welle ha scatenato un prevedibile fiume di polemiche. "Der Spiegel" l´ha definito uno dei film più importanti degli ultimi anni, perché racconta l´eterno fascino del totalitarismo. Un fascino reale e in definitiva anche semplice da capire, quasi naturale, per quanto negato da un eccesso di politicamente corretto. "Die Welt" ha opposto l´opinione che i meccanismi totalitari, così inesorabili sulla pellicola, troverebbero oggi enormi resistenze nella realtà. Una parte della stampa ha mosso un´obiezione etica: i giovani neonazisti dell´Onda, nel loro solidarismo, possono risultare al pubblico delle sale assai più simpatici e normali degli studenti anarcoidi degli altri corsi.
L´obiezione sarebbe giustificata, se non fosse che nella realtà funziona quasi sempre così. Fra molte brave persone del Nord, per rimanere dalle nostre parti, i protagonisti delle ronde padane risultano assai più vicini degli intellettualoidi difensori di Rom e immigrati. Ron Jones, la cui vita è stata sconvolta per sempre dal gioco dell´Onda, ha scritto: «L´esperimento ha funzionato perché molti di quei ragazzi erano smarriti, non avevano una famiglia, non avevano una comunità, non avevano un senso di appartenenza. E a un certo punto è arrivato qualcuno a dirgli: io posso darvi tutto questo».

Repubblica Firenze 24.11.08
L’affondo dei comitati
Asor Rosa: "Quante leggerezze a Castello"
di M.V.


Da Monticchiello a Castello. «Da quello che se ne sa emerge un quadro di leggerezze e di scarsa attenzione alla correttezza delle procedure», dice Alberto Asor Rosa, il professore che guida la Rete dei comitati per la difesa del territorio, associazione adesso costituita davanti al notaio. E aggiunge: «Abbiamo chiesto più volte di ripensare gli orientamenti urbanistici fiorentini, da Castello alla tramvia e all´Alta velocità: speriamo che le elezioni possano essere l´occasione giusta». E´ la sfida della Rete dei comitati a Firenze e a Palazzo Vecchio. Ma anche a tutti gli altri Comuni toscani dove la Rete si batte contro qualche "ecomostro" o qualsivoglia offesa all´ambiente. Una sfida che segna la prossima strategia elettorale.
Non una lista autonoma della Rete, in vista delle amministrative e delle europee di primavera. «Anche se a livello locale si potranno appoggiare liste che nascano dal basso», dice Ornella De Zordo di «Unaltracittà». Piuttosto una piattaforma di richieste da avanzare alle forze politiche per poi vedere quali saranno, se ci saranno, i partiti disposti a fare proprie le rivendicazioni della Rete, che oggi conta 188 comitati e associazioni. E per decidere di conseguenza chi appoggiare o meno. Una piattaforma che l´assemblea dei comitati riunita ieri all´Affratellamento ha approvato e che ribadisce il no al Corridoio tirrenico, alla Due Mari, all´Alta velocità fiorentina, alle «modalità di realizzazione delle tre linee di tramvia», alla «sosta mercificata della Firenze Parcheggi», alle terze corsie autostradali e allo sviluppo aeroportuale incontrollato.
«Dalle risposte che avremo orienteremo il nostro comportamento», spiega Asor Rosa. Ricordando però, davanti ad un centinaio di rappresentanti dei comitati provenienti da tutta la Toscana e oltre, «che fino ad oggi le nostre denunce sono rimaste senza risposta». Anzi, di fronte al no all´autostrada tirrenica, aggiunge Asor Rosa, «Matteoli ha incontrato il plauso dell´assessore regionale Riccardo Conti, prefigurando così un governo bipartisan».
Quali saranno le forze che accetteranno il dialogo con i comitati di Asor Rosa? Per la prima volta nella platea dei Comitati compare una rappresentanza degli «Amici di Grillo». Matrimoni elettorali in vista? «Vediamo, è nostra intenzione presentare una lista alle prossime elezioni, vogliamo capire se possono essere convergenze sufficienti con i comitati» dice Andrea Vannini. La stessa De Zordo fa capire di voler osservare il percorso avviato dalla Rete dei comitati prima di prendere decisioni sul futuro elettorale di «Unaltracittà».
C´è chi come Cinzia Mammolotti dei comitati dell´Amiata vorrebbe qualcosa di più: «Perché escludere di proporci come forza politica autonoma?», domanda. Ma la maggioranza dei comitati aderenti alla Rete, oltre allo stesso portavoce Asor Rosa, ritengono che la via della piattaforma programmatica e della sfida alle forze politiche sia da preferire. «Un ennesimo partito dell´1 per cento non serve», dice del resto Gianni Mori della Valdichiana. Nel frattempo i Comitati fiorentini chiedono il blocco del Piano strutturale e di tutti i grandi interventi urbanistici di Firenze: «Visto quello che sta accadendo la miglior cosa è una moratoria del progetto Castello e del Piano strutturale», dice a nome dei Comitati fiorentini Mario Bencivenni. Anzi, visto che ci sono i Comitati chiedono anche le «dimissioni immediate» degli assessori Graziano Cioni e Gianni Biagi, avvisati per corruzione.

Corriere della Sera 24.11.08
Salute. La psichiatra Dalla Ragione: malati anche oltre i 30 anni
L'anoressia è dimezzata Il rischio è l'eccesso di cibo
Spunta il Dai, disturbo da alimentazione incontrollata
La magrezza patologica fa meno paura agli specialisti. «È l'obesità infantile la nuova emergenza»
di Alessandra Arachi


ROMA — L'anoressia? Si è dimezzata negli ultimi dieci anni. In percentuale, per carità: rappresentava il 60% dei disturbi alimentari è arrivata al 30. Ma di certo, per la prima volta, ha perso il suo primato tra le patologie del corpo. E adesso? Adesso che negli ultimi dieci anni i disturbi alimentari sono passati da due a tre milioni, è la bulimia a dominare. E in particolare è esploso il "Dai", nuovo acronimo per una piaga che sta devastando la popolazione: disturbo di alimentazione incontrollata.
Dai, ovvero: abbuffate senza controllo. E senza vomito che segue. Anche 30 mila calorie buttate giù in meno di mezz'ora. Come otto panettoni, tutti insieme. Il nuovo disturbo non è esclusivo delle donne, come lo è l'anoressia che colpisce in un rapporto di nove a uno. Queste abbuffate, invece, colpiscono un uomo ogni tre donne.
Di queste abbuffate patologiche parlerà domani ad un convegno a Genova Laura Dalla Ragione, psichiatra, responsabile per il ministero della Gioventù (e già per quello della Salute) per la sorveglianza e la mappatura dei centri di assistenza in Italia dei disturbi alimentari.
«Per noi psichiatri, ormai, sul piano epidemiologico l'anoressia è sicuramente il disturbo che ci preoccupa di meno», dice Laura Dalla Ragione. E spiega: «Mentre fino a dieci anni fa i disturbi alimentari colpivano principalmente gli adolescenti, ora questo nuovo disturbo di alimentazione incontrollata sposta di molto l'età oltre i trent'anni».
«Arte e coscienza nel corpo delle donne»: a Genova da oggi e fino a sabato nel Festival dell'eccellenza al femminile (curato da Consuelo Barilari) saranno donne eccellenti (ospite d'onore sarà il premio Nobel Rita Levi Montalcini) a parlare delle donne e del corpo, in tutte le sfaccettature( www.eccellenzalfemminile. it). A partire dai disturbi che devastano il corpo: la fotografa Vanessa Beecroft farà vedere come con la sua arte dell'obiettivo è riuscita lei ad andare oltre i suoi problemi alimentari.
«Problemi che fino a poco tempo fa avevano davvero tutta un'altra dinamica», aggiunge Laura dalla Ragione. Spiegando: «Dobbiamo dire che è in corso una vera e propria mutazione genetica di questi disturbi. Il fatto è che viviamo in una società multicompulsiva. Ed è per questo che la magrezza patologica ci fa sempre meno paura, a dispetto di un'obesità che sta dilagando, anche tra i bambini. L'Italia ha superato la Grecia e la Spagna e oggi è diventato il primo Paese in Europa per il dramma dell'obesità infantile (il Meridione batte il Settentrione in questa classifica nostrana)».
E' stato calcolato che circa il 30% degli obesi in Italia sono tali proprio per via del disturbo di alimentazione incontrollata. «E' un disturbo nuovo questo che in inglese viene chiamato Binge eating disorder, perché è da poco che è stato distinto dalla bulimia », aggiunge Laura Dalla Ragione che è anche psicoterapeuta e che a Palazzo Francisci a Todi ha fondato il centro pubblico dei disturbi alimentari collegato con una Asl dell'Umbria.
Spiega la psichiatra Dalla Ragione: «La bulimia è una malattia che viene in seguito al disturbo anoressico, la maggior parte delle volte. Ed è per questo che gli attacchi bulimici vengono poi seguiti da violenti attacchi di vomito: c'è, comunque, sempre un'attenzione al peso del corpo. Gli attacchi di abbuffate compulsive invece no, sono un disturbo autonomo. Diverso. E non vengono seguiti dal vomito. Non è il peso il problema che è alla base di questo disturbo. Una persona in preda ad un'abbuffata compulsiva è in grado di ingurgitare da 3 a 30 mila calorie in venti minuti, circa. E tutto questo senza nessuna possibilità di controllo».
Alessandra Arachi Ieri & oggi
Erede al trono La principessa Vittoria di Svezia, 31 anni, divenne anoressica nel '97 per una dieta (a sinistra). Guarì con una cura negli Usa. Oggi (a destra) è in prima linea contro i disordini alimentari

Corriere della Sera 24.11.08
La Russia di Kerenskij le delusioni di Mussolini
di Sergio Romano


Non senza un certo stupore, ho avuto modo di imbattermi nella seguente frase, contenuta in un articolo scritto da Benito Mussolini sul Popolo d'Italia del 5 luglio 1917: «Io saluto con ammirazione devota e commossa le bandiere vermiglie che dopo aver sventolato una prima volta nelle strade e nelle piazze di Pietrogrado in un pallido nevoso mattino di primavera sono diventate oggi l'insegna dei reggimenti che il 1˚luglio sono andati all'assalto delle linee austro-tedesche in Galizia e le hanno espugnate». Le domando: Benito Mussolini, chi era costui?
Rodolfo Ranzani

Mussolini scrisse sul Popolo d'Italia ciò che tutti i governi alleati proclamarono nelle loro dichiarazioni e nei loro comunicati durante le giornate cruciali tra la fine di giugno e i primi di luglio. Per spiegare le ragioni di quell'entusiasmo devo tuttavia fare un passo indietro e ricordare ai lettori ciò che era accaduto in Russia nei mesi precedenti.
La crisi dell'impero zarista scoppiò nella seconda settimana di marzo (la fine di febbraio secondo il calendario giuliano). Quando gli operai scioperarono e la folla di Pietrogrado scese nelle piazze per protestare contro la guerra e la fame, il governo fece ciò che era solito fare in tali circostanze: dette ordine all'esercito di sciogliere con la forza le manifestazioni e i comizi. Ma le truppe si ammutinarono. Un decreto imperiale ordinò la dissoluzione della Duma, ma i deputati disubbidirono e restarono ai loro posti. Fu costituito un nuovo governo presieduto dal principe Lvov e composto dai rappresentanti dei maggiori partiti fra cui un socialista, Aleksandr Kerenskij. Il 15 marzo lo zar Nicola II abdicò a favore del fratello Michele, ma anche questi, il giorno dopo, rinunciò al trono. Bastò una settimana perché i Romanov (una dinastia che nel 1913 aveva celebrato il trecentesimo anniversario del suo avvento al trono di Russia) uscissero di scena.
In attesa delle elezioni per un'Assemblea costituente, il governo provvisorio prese alcune decisioni rivoluzionarie. Promise di garantire il rispetto delle libertà civili e l'eguaglianza dei cittadini, senza distinzioni di razza o confessione religiosa. Promise l'indipendenza alla Finlandia nell'ambito di una Federazione russa. Proclamò la completa indipendenza della Polonia. Dette l'autonomia all'Estonia. Annunciò un programma di riforme sociali, la confisca delle proprietà terriere appartenenti al demanio imperiale e alla Chiesa, la distribuzione della terra ai contadini. E decise infine di proseguire la guerra per cacciare gli austriaci e i tedeschi dalle terre russe che gli Imperi centrali avevano occupato nei mesi precedenti. Voluta dal socialista Kerenskij e dal generale Aleksej Brusilov, l'offensiva cominciò alla metà di giugno e dette nella sua fase iniziale buoni risultati. Gli Alleati occidentali salutarono questi eventi con grande soddisfazione. Credettero per alcune settimane che la rivoluzione di marzo li avrebbe finalmente sbarazzati dell'ingombrante presenza nel loro campo di un regime autocratico e reazionario che incrinava la loro credibilità democratica. E sperarono soprattutto che i russi, finalmente liberi, avrebbero combattuto il nemico comune con lo stesso vigore con cui i francesi avevano sconfitto a Valmy nel 1792 le forze coalizzate dell'Europa monarchica e conservatrice. A Mussolini, in particolare, dovette piacere che l'ispiratore di questa politica a Pietrogrado fosse il socialista Kerenskij.
Le speranze vennero rapidamente deluse. Gli ardori dell'offensiva si spensero in pochi giorni e le truppe cominciarono ad ammutinarsi o, peggio, a uccidere i loro ufficiali. In patria, dopo essere diventato presidente del Consiglio, Kerenskij dovette combattere contro molti nemici. Il Soviet di Pietrogrado, diretto da Lev Trockij, stava estendendo il suo potere sulla capitale. Lenin e i suoi compagni, ritornati dall'esilio grazie all'aiuto dei tedeschi, aspettavano l'occasione per dare al governo una spallata rivoluzionaria. Il comandante in capo delle forze armate, Lavr Kornilov, cercava di impadronirsi della capitale con le sue truppe. Le spinte secessioniste delle minoranze nazionali minacciavano l'unità dello Stato. Molti ministri dissentivano dalla linea socialista che Kerenskij aveva impresso al governo. La protesta sociale stava contagiando l'intero Paese. Fu la somma di queste difficoltà che aprì la strada ai bolscevichi. Quando le guardie rosse conquistarono il palazzo d'Inverno fu chiaro che la rivoluzione di primavera (quella che piaceva a Mussolini) era stata soltanto il preludio della rivoluzione d'Ottobre.

domenica 23 novembre 2008

Repubblica 23.11.08
Se n’è andato Sandro Curzi saggio bolscevico di TeleKabul
di Filippo Ceccarelli


Il saluto di Napolitano: "Ho perso un amico"
Uomo di grandi fedeltà e autentici sentimenti, fu apprezzato dai suoi avversari

SE N´È andato pure Sandro Curzi, rara figura di saggio, adorabile bolscevico di questo tempo: e a parziale consolazione del sincero dolore di Giorgio Napolitano ? «Ho perso un amico» ? vengono in mente i primi versi di una canzone d´autore ignoto.
Una canzone di popolo, anno 1946, intitolata "Su´, comunisti della capitale". E dunque: "Su´ comunisti della capitale,/ è giunto alfine il dì della riscossa,/ quando alzeremo sopra il Quirinale/ bandiera rossa!". Ecco, non è andata proprio così. Ma questa marcia di cuore suona oggi ideale per accompagnare l´addio dell´intrepido "Sandrino", che non ha mai mollato, e sempre a modo suo: "E se cadremo in un fulgor di gloria,/ schiacciando borghesia e capitalismo,/ nel sangue sorgerà la nuova storia/ del comunismo". Si perdoni qui l´accesso di retorica, però Curzi, figlio di un barbiere del quartiere Monti, "smagatissimo" comunista romanesco, a tal punto scettico da poter fare la barba al cinismo, ecco, era un uomo di grandi fedeltà e di autentici sentimenti. Di più, se possibile: era un grande attore della Causa, un mattatore che sul palcoscenico della sua ricca esistenza come nessun altro e oltre ogni limite della storia è riuscito a tener viva la passione per il comunismo, mai rinnegandolo dopo la sua rovinosa caduta, anzi in qualche modo rendendogli gloria con un indubbio successo di pubblico. E tutto questo, probabilmente, proprio perché Sandro Curzi non nascondeva le sue emozioni: era allegro, furbo, burbero, popolaresco e di potere, anarcoide e disciplinatissimo, comunque originale e adattabile. Riusciva a restare affabilmente se stesso nella sezione Regola-Campitelli (dove fu inutilmente e crudelmente espulso nel 1997), ma anche nei caffè di via Veneto, in redazione, in tipografia, nel Transatlantico di Montecitorio, sulle terrazze, nel CdA della Rai, poltroncine dei talk-show, su un camion no-global, al mercato, per strada. A ciascuno il suo Curzi, rispettato dai peggiori nemici del comunismo e ad alcuni di loro ? due nomi per tutti: Berlusconi e la Mussolini ? addirittura simpatico. Militante precocissimo cresciuto alla scuola di Ingrao e coltivato da Pajetta negli anni del ferro e del fuoco, quando, per intendersi, insieme con il giovane Enrico Berlinguer difese le Botteghe Oscure da un assalto neofascista. Oppure quando, per spirito di disciplina, accettò di camuffarsi da "non comunista" e venne prestato, per così dire, a un partitino liberale dissidente per non far scattare la legge truffa. A un certo punto arrivò all´estremo sacrificio di andare a lavorare per una radio del Pci nella grigia e gelida Praga, oltretutto piena di spie. Cronista e vicedirettore di gran fiuto (Unità e Paese Sera), grande lavoratore, imbattibile nel gioco dei quattro cantoni del giornalismo fiancheggiatore (Botteghe Oscure, federazione romana, cellula interna e amministratore Terenzi). Con il cattolico Luciano Cerchia poi alla guida del sindacato (sul Tempo di Enrico Mattei erano stati ribattezzati "Cicerchia & Curzoli"). Negli ultimissimi anni ottanta divenne direttore del Tg3: da 380 mila telespettatori la sua direzione decuplicò l´audience, pure allevando un sacco di ottimi giornalisti del piccolo schermo. Fu la stagione irripetibile di "TeleKabul" (conio di Giuliano Ferrara) e la consacrazione mediatica della famosa "ggente". Che poi, a pensarci bene, non era solo il contraltare all´incipiente populismo berlusconiano, ma soprattutto l´aggiornamento televisivo di quello che nella decennale pedagogia del Pci era stato il popolo. Entità alla quale Curzi, che dal popolo proveniva e in un partito autenticamente popolare era stato forgiato, ha sempre tenuto nel debito conto, contro ogni "snobismo pseudo-sinistrese". Milioni di italiani l´hanno conosciuto sul video, la pipa in bocca, pelato come Kojack, e certamente ricordano i suoi "embé?", accompagnati dalla mano a pigna; così come ricordano i suoi "vabbé!", preceduti da cupi mugolii che si scioglievano in una specie di sorriso, con scuotimento di testa, come chi la sa lunga. Il numero classico prevedeva una finta sorpresa: "E io mi stupisco!", proclamava stentoreo e definitivo. Si capiva benissimo che non era vero, ma proprio per questo funzionava a introdurre il registro lacrimoso, o collerico. Fece anche il direttore del Tg di TeleMontecarlo. Nel 1996 gli parve giusto di celebrarsi in un´autobiografia dal titolo "Il compagno scomodo" (Mondadori). L´anno seguente si presentò alle elezioni nel collegio del Mugello, contro Di Pietro e Giulianone Ferrara. Andò anche a cantare a Sanremo e fece il nonno in un cortometraggio presentato a Venezia. Scelse Rifondazione perché da quelle parti gli pareva di sentire ancora un po´ di vita, un po´ di popolo, un po´ di giovani. Ma oramai era una sorta di icona, e alle manifestazione la folla si apriva come il Mar Rosso per farlo passare. Specie a rileggerli oggi, sono bellissimi i necrologi scritti da "Sandrino" quando se ne andavano gli amici della sua vita e le figure della sua sentimentale immaginazione: le centinaia e centinaia di rose per Alida Valli, un Capodanno abbracciato a Luigi Pintor in una trattoria spersa nella campagna romana. Ha lavorato, come si dice in questi casi, fino all´ultimo, ma sul serio. C´è un dispaccio d´agenzia che fa il punto sull´"offensiva mortale" portata avanti dalla finanza e dalla politica contro la libertà d´informazione in Rai: "Stanno scherzando col fuoco ? scriveva il saggio Curzi ? E forse, per vie oggi imprevedibili, ne pagheranno anch´esse il prezzo" (Ansa, 22 settembre 2008, h 18.04).

Liberazione 23.11.08
Sento ancora il bisogno del tuo sorriso ironico di fronte all'avversario
di Pietro Ingrao


La battaglia politica e sociale di Sandro Curzi cominciò presto, prestissimo. Aveva appena tredici anni quando al liceo romano "Tasso" impattò con quel gruppo di studenti raccolti attorno a Alfredo Reichlin, che presto si gettarono nella Resistenza romana e- ancora agri -iniziarono a militare nel Partito Comunista. Come siamo stati avari di memorie e di riconoscimenti di fronte a quell'evento singolare che nella Capitale stretta nella tenaglia nazista vide quasi miracolosamente scendere in campo una leva nuova di cospiratori poco più che adolescenti. Venivano per gran parte da un mondo borghese, e nelle periferie romane (Torpignattara, Ponte Milvio, Ostiense ...) si mischiavano a un proletariato poverissimo attanagliato dalla fame e dalla prepotenza nazi-fascista.
Così anche a Roma iniziava a formarsi quel cemento nazionale che fu base della grande ribellione antifascista, e patì quei massacri che rimasero amara leggenda: i morti delle Ardeatine…
Tali furono le vicende e il ceppo a cui si cibò Sandro.
Secondo me non bisogna assolutamente lasciare in ombra quell'inizio, per poter cogliere le fonti lontane di quella vocazione di combattente, quella passione dello stare in campo che poi segnarono tutta la vita di Sandro, e anche la voglia sorridente, il mero gusto del cercare e del dibattere: il suo gusto della battaglia civile, della iniziativa polemica, della parola e dell'immagine che si facevano frusta, domanda, gusto della scoperta. È così dura la sua morte anche perché ci strappa non solo il suo agire sociale, ma quella sua irrequietezza. E in queste ore sento l'angoscia per quel fervore umano che ci viene tolto: proprio quando l'arroganza volgare del berlusconismo ci fa torcere il muso.
E non si tratta solo dell'oggi. Ben più lunga è la vicenda. Qui ora noi diamo il nostro solenne saluto a un militante (e dirigente) di una battaglia che ha attraversato tutto un secolo e che ha visto milioni di morti, e ci ha fatto fremere nel midollo: quella tempesta che tu hai attraversato combattendo, Sandro. Come tremammo di fronte ad Auschwitz! E ancora oggi leggiamo con un nodo alla gola quelle pagine di Primo Levi, quella sua domanda amarissima: "se questo è un uomo…".
Sandro Compagno che hai chiuso gli occhi, noi salutiamo in te nei tanti che sono stati in campo in questa battaglia globale di salvezza. Essa è mutata oggi: nelle forme e nei livelli, e tuttavia è ancora interminata. Sentite come è lontana ancora oggi dalla vita del mondo quella parola ardita: "pace". E proprio in queste ore tornano a suonare nei continenti quelle minacce tristi: crisi, disoccupazione, fabbriche che serrano i cancelli…
E tuttavia, Sandro, anche nei momenti più duri, io non ti vidi mai disperato. Quanto bisogno sento ancora oggi della tua fede, e anche del tuo sorriso ironico di fronte all'avversario.
Perciò ti chiameremo ancora. Ti chiederemo ancora una mano. Frugheremo ancora ansiosamente fra le tue carte...
Caro compagno Sandro: così lontano, così vicino.

Corriere della Sera 23.11.08
Il ricordo. Il regista Citto Maselli: cominciammo a far politica insieme, nel 1942
«Borghese marxista, seduceva tutte le compagne»


ROMA — Chi l'avrebbe detto. Sandro Curzi simpatizzante di Bandiera Rossa Roma, il gruppo trotskista antibadogliano che Togliatti non controlla nella Roma della Resistenza. Citto Maselli ha la memoria di ferro: «Autunno del 1944. Io mi tessero nella sezione del Pci di Ludovisi, quartiere borghese. Lui al Flaminio». E allora? «Lì in viale Tiziano, nelle grotte scavate nelle pendici dei monti Parioli sotto villa Balestra, vivono ventimila sfollati umbri e abruzzesi. Terreno ideale per l'area trotskista. Sandro subisce il fascino intellettuale. Ma per un attimo. Discutiamo. E io: "Ma tu sei matto, il Pci...". La fascinazione la dice lunga sull'anomalia di Sandro in un partito dove comunque non tutti obbedivano ciecamente, secondo la ridicola caricatura di oggi».
L'addio di Citto a Sandro, entrambi classe 1930, è il distacco da un gran pezzo di vita. È Maselli (per casa sua girano Emilio Cecchi, Massimo Bontempelli, Alberto Savinio, suo padrino di battesimo è Luigi Pirandello) a spiegare a Sandro Curzi nel 1942 chi sia Carlo Marx, cosa significhi essere comunista: «Sandro nasce borghese, figlio del proprietario di un'elegante barberia in via Veneto. Quella chiacchierata lo sveglia. Cominciamo a far politica. In quell'anno Luigi Pintor si fa vedere al nostro liceo Tasso». Nell'estate del 1943, caduto il fascismo, organizzano insieme due manifestazioni a piazza Fiume. Sandro allora è un ragazzo magro «pieno di capelli dritti e neri, con l'aria pensosa e assorta, inseguito da una curiosità insaziabile». Lì comincia la loro storia comunista parallela che prosegue fino all'ultimo respiro di Sandro. Un ricordo tra i mille: «Il giorno in cui convinciamo Luciana Castellina, meravigliosa ragazza di destra figlia di costruttori miliardari, a guardare a sinistra. È il 1945 e Luciana è da perdere la testa». A proposito. Le donne e Curzi? «Un successo straordinario, ignobile. Lui parla da ragazzo alla sezione Esquilino, pieno di compagne bellissime e intelligentissime, e che fa? Le seduce. Tutte. Ci lascia per strada. Tutti. Me per primo. Chissà. Forse il tono della voce. O quel modo di fare. Vai a capire, bello non era».
Poi il dopoguerra. Cinema per Maselli. Politica per Curzi. «Ci perdiamo di vista e ci ritroviamo, a fine anni 60 e inizio 70, ferocemente ingraiani sull'onda del '68. Vogliamo spingere il Movimento verso uno sbocco politico, le grandi riforme, io da cineasta segretario del sindacato autori e lui nella giunta della Federazione della Stampa». Infine Rifondazione, sempre insieme. L'ultimo incontro domenica. «E Sandro che mi dice, stanco con la voce roca, a proposito del film che sto girando, tutto dedicato alla crisi della sinistra: "Noi comunisti non possiamo permetterci la sfiducia. Devi chiudere con un finale che proponga una speranza. Hai capito, Citto? Una speranza". Farò così, giuro che farò così».

Corriere della Sera 23.11.08
Enrico Letta «Rischiamo di sembrare la continuazione dei Ds»
«Se tutto è una sfida dalemiani-veltroniani il partito morirà»
intervista di Paola Di Caro


ROMA — Nelle polemiche senza fine che stanno squassando il Pd, finora ha mantenuto un ruolo defilato. Ma Enrico Letta — che già sfidò Veltroni alle primarie, che ha una sua associazione, «360», che si è riunita proprio ieri a Napoli, che del governo ombra è responsabile del Welfare — tutto può fare oggi tranne che tenersi fuori dall'agone. Perché è proprio lui tra i maggiori «indiziati » a sfidare nel prossimo futuro la leadership di Veltroni.
È così, onorevole, lei è in rampa di lancio per competere alla segreteria al prossimo congresso, magari con l'appoggio di D'Alema?
«Purtroppo leggo continuamente gossip di tutti i tipi sulle vicende del Pd, ed è un gossip che ci sta facendo molto male».
Significa che non ha intenzione di candidarsi?
«Significa che la mia candidatura non è all'ordine del giorno. Oggi c'è Veltroni, un segretario legittimato dal voto di oltre due milioni e mezzo di militanti, e io credo che in questo momento il nostro compito sia quello di aiutarlo a guidare e rafforzare il partito. Veltroni e io stiamo infatti lavorando insieme per la conferenza nazionale del welfare che si apre giovedì. Tutti dobbiamo darci da fare per rafforzare il partito, trovando il modo per discutere tra noi, per avere più pluralismo interno».
Insomma, non è questo il momento della competizione tra pezzi di partito...
«Certamente no, perché se il Pd perde, tracolla, si divide, restano a galla solo le scialuppe di salvataggio. Che traghettano i naufraghi, non i vincitori...».
Eppure il dibattito ferve su temi che vi dividono, come il congresso. Lei sarebbe favorevole ad anticiparlo a prima delle Europee, come vorrebbero alcuni veltroniani?
«Una cosa è certa: il congresso lo terremo l'anno prossimo, quando la campagna per le adesioni sarà stata portata avanti per bene, perché per fare un congresso servono gli aderenti, e ora non ci sono. Vorrei davvero che si evitasse di usare il congresso come una clava. Io certamente non ne ho paura, ho le mie idee e ci andrò con quelle».
Le avrà anche sull'adesione o meno del Pd al Pse dopo le Europee?
«Non vedo la questione della collocazione internazionale come un problema insormontabile: la storia europea è piena di soluzioni che tengono conto della specificità di ciascun Paese. Detto questo, le notizie che arrivano dalla Francia — con la Aubry, colei che lanciò le 35 ore — che batte la Royal che voleva allearsi al centrista Bayrou, dimostrano quanto è problematico il mondo del socialismo europeo. La scelta francese è davvero molto lontana dalle nostre corde».
L'altro eterno argomento di discussione nel Pd è il dualismo D'Alema- Veltroni: sarà il sottofondo da qui al congresso?
«Se tutto il partito dovesse dividersi tra dalemiani e veltroniani, questo rischierebbe di far passare il Pd per la mera continuazione dei Ds, e l'intero progetto fallirebbe».
Ma come se ne esce? Mandandoli entrambi in soffitta?
«Se ne esce con le cose concrete, aprendoci al territorio, e con il pluralismo interno. Nelle case degli italiani a cena non si parla della vigilanza Rai, ma di asili nido, liste di attesa negli ospedali, ammortizzatori sociali e diritti di maternità, del problema degli anziani non autosufficienti, tutti argomenti che sto trattando nella mia relazione sul welfare. A Napoli, abbiamo parlato di energia solare, e ho lanciato la proposta del commissariamento per le università che definisco a "trazione familiare"».
E rafforzare il territorio che significa?
«Significa puntare sui sindaci, sugli enti locali. La nostra riscossa deve partire dai livelli territoriali — Dellai oggi, Penati e Soru l'anno prossimo —, da coalizioni che quando serve comprendano liste territoriali. Dobbiamo costruire un partito federalista vero. Dico di più: dobbiamo "de-romanizzare" il partito».
La richiesta di più pluralismo: è rivolta a Veltroni?
«Il Pd deve dare garanzie di pluralismo interno, perché in alcune regioni abbiamo il 50%, e in un partito così grande e con tante diverse provenienze culturali non si può vivere in una logica di monolitismo, bisogna dare spazio alle voci, anche alle fondazioni. Per capirci: quella del mantenimento delle preferenze nella legge per le Europee è una battaglia per la vita del Pd, ed è bene che si sia stoppata la strada all'inciucio delle liste bloccate».
A proposito di inciucio, qual è il suo giudizio sul pasticciaccio Rai?
«Posto che nel centrosinistra, da sempre, c'è un'ossessione sbagliata per la Rai, che a mio giudizio andrebbe privatizzata per metà, anche per smembrare Mediaset, a questo punto le dimissioni di Villari sono inevitabili».

il Riformista 23.11.08
Per Rutelli il Pse vale una scissione
Coraggiosi con la valigia in mano
di E.B.


ULTIMATUM. L'ex leader della Margherita invoca da Veltroni una «sintesi». Gli ex Ds si preparano a firmare il manifesto socialista.

Ancora una volta, Francesco Rutelli si è stufato di dover mandare giù pane e cicoria. Non vuole morire socialista, non ci tiene a scegliere una tessera tra quella veltroniana e quella dalemiana. Vuole essere il battitore libero, l'uomo di confine. Con, a supporto, una compagnia eterogenea e come lui in fermento.
Ieri davanti alla platea di Glocus, il think tank di Linda Lanzillotta, l'ex sindaco di Roma è tornato a rivolgersi a Veltroni con parole ultimative: «Noi abbiamo fatto una scelta coraggiosa, quella di sciogliere un partito e di fondarne, con altri soggetti, uno nuovo». Ma adesso «il male non sono le differenze, ma le mancanze di sintesi. E in politica la sintesi la fa la leadership».
Per declinare praticamente il discorso basta prendere la questione della collocazione europea. Secondo l'ala cattolica dell'ex Margherita, sarebbe «inaccettabile» una confluenza nel Pse. In qualsiasi forma, anche con un cambio di denominazione del gruppo, si tratterebbe di «una forzatura che potrebbe dividere il partito in due», minacciava Gianni Vernetti su Europa. E non passa giorno che sul tema non intervengano a tamburo le diverse voci antisocialiste, dai popolari ai rutelliani, passando per Letta e Follini, perché non è solo una "battaglia di identità": «la non confluenza nel Pse - sottolinea Paola Binetti - era nei patti. Era l'unica condizione per lo scioglimento della Margherita».
Dall'altro lato anche per D'Alema e Fassino la questione è imprescindibile, ma nel segno opposto: all'inizio del mese prossimo a Madrid sarà sottoscritto il manifesto del Pse e sarebbe per loro inconcepibile mancare l'appuntamento. Veltroni ha spiegato, sul punto, che «il Pd è una cosa originale, ma deve avere anche l'intelligenza di sapere che l'originalità non è isolamento». Ha promesso di essere più esplicito nei prossimi giorni ma intanto, avverte Follini, al segretario «è chiesto un di più di fantasia per evitare che due spinte contrapposte finiscano con lo scardinare il partito».
Uno sfaldamento del Pd, magari dopo le europee, è un argomento prematuro ma trova nel palazzo i suoi sostenitori e i rutelliani sono tra i più frequenti imputati. Sono loro che tengono le fila dei contatti con l'Udc di Casini. Ma qualsiasi discorso concreto «se ci sarà, non avverrà certo prima delle elezioni per Strasburgo», assicurano in via dei Due Macelli.
Intanto, racconta uno degli esponenti di punta di Per, la nuova associazione rutelliana, «la nostra strategia è mettere in luce le differenze con il resto del Pd, principalmente su tre temi: collocazione europea, struttura del partito e questioni etiche». Perché «non è possibile - si lamentavano Bobba e Binetti giorni fa in Transatlantico - che si faccia un seminario del partito sulla fecondazione assistita, emergano due linee diverse e si dica che il Pd è per la soluzione Marino e, a fianco, ci sono altre idee ma a titolo personale. Perché la nostra voce non vale come quella degli altri?».
Non tutti però, tra gli attuali o ex fedelissimi del presidente del Copasir, condividono la linea. Se dovesse consumarsi una scissione, non ne sarebbero protagonisti, ad esempio, Ermete Realacci e Paolo Gentiloni, da tempo in viaggio verso lidi veltroniani. Così come Linda Lanzillotta, anche se ieri è stata proprio lei a lanciare il network dei think-tank progressisti europei con lo scopo di redigere un'agenda che mette insieme tutti i partiti di area democratica della Ue.
Il nocciolo duro dell'ex vicepremier è l'associazione Per, nata qualche mese fa per mettere assieme i teodem Bobba, Binetti, Calgaro, De Luca e alcuni rutelliani storici come Renzo Lusetti e Luigi Lusi.

Repubblica 23.11.08
Le bugie nel palazzo le risse nel cortile
di Eugenio Scalfari


I GOVERNI aspettano, nessuno ha voglia di fare la prima mossa. Neppure l´America, messa in angolo dalla troppo lunga transizione tra il presidente uscente e quello già eletto ma non ancora governante. Neppure l´Europa dove la Banca centrale promette un ribasso del tasso di interesse e la Commissione di Bruxelles studia un piano di intervento sulle infrastrutture che è ancora sotto limatura e in mancanza del quale i governi nazionali rinviano le decisioni di loro competenza.
I governi dunque aspettano ma la crisi dell´economia no. Le Borse continuano a crollare, le aziende a licenziare, le famiglie a stringere la cinta. Il Natale non si preannuncia allegro per nessuno; forse, una volta tanto, sarà una festa religiosa per i credenti e un momento di riflessione e di consuntivo morale per tutti.
Questa domenica vorrei fare anche un po´ di chiarezza sul programma di sostegno dei redditi e delle imprese che il nostro ministro dell´Economia sta preparando e che, salvo ulteriori rinvii, dovrebbe essere varato dal Consiglio dei ministri il 28 prossimo. Ma vorrei anche esprimere qualche opinione sulla politica italiana e in particolare sul centrosinistra. Di solito evito questo tema, sa troppo di politichese, un genere che mi appassionava in passato ma che ha perso da tempo lo smalto che aveva. Ci sono tuttavia momenti nei quali la politica evoca di nuovo una scelta morale. Stiamo vivendo uno di quei momenti nonostante la diffusa mediocrità degli apparati e delle oligarchie. Perciò mi sembra doveroso parlare anche di questo tema.
Me ne offre lo spunto la conversione del presidente del Consiglio dalla strategia di aggressività nei confronti di chiunque metta in discussione le sue decisioni ad un´improvvisa apertura verso i sindacati, verso il movimento degli studenti e verso quei settori e quei ceti che, sotto l´impatto della crisi economica, cominciano a risvegliarsi dall´ipnosi e a chiedere non più annunci ma fatti concreti.
Le aperture del presidente del Consiglio sono ancora molto caute e contraddittorie, contrastano con la sua natura che lo spinge ad occupare interamente la scena senza condividerla con nessuno, alleato o avversario che sia. Ma la forza dei fatti e le necessità che ne derivano lo inducono a tentare un percorso diverso. Fino a che punto diverso?
L´esperienza ci ha insegnato che le aperture berlusconiane hanno un arco di oscillazione molto limitato. La sola opposizione accettabile è per lui un´opposizione al guinzaglio che si accontenti di qualche briciola e di qualche pacca sulle spalle, che rida alle sue barzellette, che si contenti di essere invitata a cena e trattata con buone maniere. Carota sì, purché si intraveda che il bastone è sempre lì, poggiato in un angolo a portata di mano.
Certo se quella parte di Italia che lo sente incompatibile si innamorasse improvvisamente di lui le cose cambierebbero molto. Per ora l´innamoramento è avvenuto per pochi e non sempre, anzi quasi mai, per conversione sulla via di Damasco ma piuttosto con motivazioni di tornaconto personale. Non è questo che vuole il sire di Arcore e di Palazzo Grazioli. Perciò quel momento magico tarda a venire. Per fortuna, perché quello sì, sarebbe la fine della democrazia italiana.
* * *
Intanto il Partito democratico versa in serie trambasce. Le lacerazioni interne non sono una novità e del resto esistono in tutti i partiti e in tutto il mondo. La sinistra però ne è affetta molto più della destra perché storicamente la sua natura è ideologica. Infatti profonde lacerazioni vi sono nella Spd tedesca, nel Partito socialista francese, tra i laburisti inglesi. E´ accaduto perfino in Usa durante la campagna elettorale tra Obama e l´ala clintoniana del partito.
Qui da noi le lacerazioni del Pd viaggiavano sotto traccia fin da quando Veltroni fu chiamato alla "leadership" nell´autunno del 2007 quando il governo Prodi e la legislatura erano oramai alla fine. La sua ascesa alla segreteria fu voluta dai due gruppi dirigenti dei Ds e della Margherita, cioè dall´Ulivo che si trasformò rapidamente in un partito nuovo e affrontò pochi mesi dopo le elezioni politiche guidato dall´ex sindaco di Roma, confermato nel ruolo di leader da tre milioni e mezzo di votanti alle primarie del partito.
Se miracolosamente avesse vinto le elezioni la compattezza del nuovo partito sarebbe stata garantita dall´interesse di tutti cementato dal potere e dall´assenza di contrasti politici. La cornice generale era infatti interamente condivisa: un partito aperto e innovatore che aveva unificato il riformismo laico e quello cristiano, uscito dalle ceneri dell´alleanza con la sinistra estrema che aveva segato il governo Prodi.
La sconfitta elettorale era nel conto ma mancando il cemento del potere emersero le lacerazioni. Non c´era un contrasto nella visione del bene comune e neppure dei mezzi da impiegare per realizzare quell´obiettivo; c´era però materia per uno scontro di potere all´interno del partito. Il Pd aveva difatti incassato un risultato elettorale del 33 per cento dei voti espressi, un partito riformista che aveva ottenuto il consenso di un terzo del corpo elettorale non si era mai visto nella storia italiana, né in tempo di repubblica, né in tempo di monarchia.
I contrasti rimasero tuttavia sotto traccia, ma col passare dei mesi e con la stupefacente luna di miele tra Berlusconi e la pubblica opinione, diventarono sempre più evidenti, nacquero fondazioni che sotto l´apparenza culturale si atteggiavano a vere e proprie correnti. In particolare quella guidata da D´Alema che si dette addirittura un assetto territoriale.
L´obiettivo sembrò esser quello di logorare la leadership veltroniana anche a costo di danneggiare la compattezza del partito ancora in fase organizzativa.
Infine, proprio in queste ultime settimane, arrivarono due mosse strategiche di Berlusconi: la rottura con la Cgil e l´elezione del senatore Villari alla guida della Commissione di vigilanza sulla Rai con i voti della destra e contro il candidato dell´opposizione.
Su questa micidiale doppietta lo scontro interno al Pd è esploso in piena luce sotto l´antica e mai risolta rivalità tra Veltroni e D´Alema.
* * *
Con tutto quello che sta accadendo nel mondo uno scontro di cortile è quanto di più mediocre e provinciale si possa immaginare. Frustrante per gli elettori e i simpatizzanti di un partito ancora allo stato nascente ma con un seguito nient´affatto trascurabile come ha dimostrato qualche settimana fa l´imponente raduno del Circo Massimo, poi il rilancio nei sondaggi che vedono il Pd di nuovo al 32 per cento, poi la vittoria elettorale nella provincia di Trento, infine l´inizio d´uno smottamento sociale del consenso berlusconiano.
D´Alema, nel suo ruolo di sfidante, nega sia pure a fior di labbro che lo scontro vi sia, ma i fatti lo smentiscono. Parlano per lui i suoi luogotenenti e i media da lui in qualche modo influenzati. L´attacco a Veltroni è il punto di convergenza di tutte queste voci. Il testo che traccia con più chiarezza quest´indirizzo politico lo si trova in un articolo di Galli Della Loggia pubblicato di fondo sulla prima pagina del «Corriere della Sera» di martedì scorso, quanto mai rivelatore. L´accusa a Veltroni è motivata dal suo supposto appiattimento su Di Pietro che sarebbe incompatibile con la linea riformista del Pd tradita dal segretario del partito. «Il riformismo ? scrive l´autore ? ha avuto un rigoglioso sviluppo quando ha rifiutato il massimalismo ed è stato invece condannato al declino quando si è confuso con esso».
Sbagliato in tutti e due questi assunti. Il riformismo italiano è sempre stato minoritario e non ha mai raggiunto un terzo del corpo elettorale come è invece avvenuto per il Pd. Quanto all´appiattimento su Di Pietro i fatti smentiscono la tesi di Della Loggia: né la scelta di Orlando a candidato per la Vigilanza Rai può essere considerata una prova a carico e basterebbe a dimostrarlo il fatto che la scelta fu concordata anche con l´Udc di Casini che non può certo essere definita come una formazione politica massimalista.
Al contrario, la corrente dalemiana, in mancanza di un vero dissenso politico cui appoggiarsi, ha compiuto atti e pronunciato dichiarazioni di sistematica denigrazione ai danni del leader del Pd, culminate nell´appoggio palese e ripetuto verso il neoeletto alla Vigilanza Rai: esempio emblematico della strategia della destra e della spregiudicatezza di una corrente interna del centrosinistra.
Queste risse di cortile sono deprimenti, specialmente in una fase di crisi mondiale che vorrebbe un´opposizione compatta e responsabile, non distratta da beghe interne e capace di offrire all´opinione pubblica risposte convincenti e di formulare in Parlamento contributi per la soluzione dei problemi che incombono.
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Quei problemi non sono né potevano essere avviati a soluzione dal G20 svoltosi a Washington pochi giorni fa. Quel «meeting» al quale per la prima volta hanno partecipato alcune delle potenze emergenti come la Cina, l´India, il Brasile, ha avuto un solo risultato storico: ha gettato le basi di una inevitabile redistribuzione del potere mondiale. Anche in termini istituzionali. La prima conseguenza concreta sarà infatti una redistribuzione già allo studio delle quote di partecipazione dei paesi emergenti al Fondo monetario internazionale e agli altri analoghi organismi.
Al di là di questo, peraltro importantissimo, risultato nient´altro è stato né poteva esser deciso in attesa che il nuovo presidente eletto sia insediato alla Casa Bianca il 20 gennaio.
Ma poiché la crisi non aspetta, l´Europa renderà noto un documento programmatico mercoledì prossimo e il governo italiano dal canto suo ne emetterà uno proprio il prossimo venerdì.
Poiché sia l´uno sia l´altro sono già conosciuti nelle loro grandi linee, vediamo di che si tratta.
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Il piano della Commissione europea mobilita 130 miliardi di euro per il 2009, dopo la ratifica dell´Ecofin. Una cifra rispettabile, destinata interamente a costruzione di infrastrutture d´importanza europea e nazionale. Rappresenta la sommatoria dell´1 per cento del Pil dei 27 paesi dell´Unione. Ciascuno di essi mobiliterà risorse per eseguire le opere sul proprio territorio previa notifica alla Commissione che dal canto suo erogherà a supporto risorse proprie per integrare quelle stanziate dai singoli governi. Le risorse della Commissione saranno tratte dal bilancio europeo e poiché il loro ammontare eccederà rispetto alle disponibilità esistenti, i 27 paesi dovranno accrescere di altrettanto le loro contribuzioni all´Unione.
Si tratta dunque, in larga misura, di una complessa partita di giro dall´Unione verso i paesi membri e da questi verso l´Unione che, comunque, dovrà spostare i fondi da alcuni capitoli di spesa ad altri capitoli. Si chiama "raddrizzamento". Ovviamente anche il Parlamento di Strasburgo dovrà dire la sua in proposito.
Se volete il mio parere, definirei questo programma le nozze coi fichi secchi, una mano dà, l´altra mano prende. In napoletano si direbbe "facimmo ammuina".
La Commissione ha anche stabilito che i singoli paesi membri possano diminuire l´Iva (imposta sovranazionale) per alleggerire i rispettivi pesi tributari. Infine ha messo su carta l´autorizzazione a sforare la soglia del 3 per cento di deficit/Pil a condizione che lo sforamento non sia superiore ai sedici mesi e non sia maggiore dell´1 per cento. Questi due provvedimenti hanno una loro reale sostanza e consentiranno politiche anticicliche. Secondo me avrebbero dovuto essere adottati almeno sei mesi fa quando già era evidente l´arrivo della tempesta e così pure la riduzione dei tassi d´interesse da parte della Banca centrale europea, che ancora centellina i ribassi mentre le economie reali sono sconvolte dalla depressione.
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Gli 80 miliardi di euro di Tremonti, come ormai hanno capito tutti, sono uno spottone mediatico. Anche lui come la Commissione brussellese, sposta di qua e sposta di là, preleva risorse già impegnate dall´anno scorso ma non spese, attiva opere pubbliche che avrebbero dovuto essere eseguite dal 2001 o almeno dal giugno 2008 e che giacevano e ancora giacciono nei rispettivi capitoli di copertura o nei fondi d´attesa previsti dalle leggi di bilancio.
Gli 80 miliardi dunque sono spese ritardate o coperture destinate ad altri scopi che ora resteranno scoperti. Tanto per fare un esempio: dieci miliardi erano destinati al Mezzogiorno, sono stati prelevati e saranno usati per opere pubbliche in parte destinate al Mezzogiorno stesso. Semplici movimenti contabili, quasi tutta aria fritta di scritture di giro per ottenere ottimi effetti sui giornali e nei teleschermi. Perciò, cari lettori, non fatevi ingannare dalle apparenze e dalle bugie. Di vero in quelle cifre ci sono soltanto 16 miliardi per infrastrutture che il Cipe doveva indicare tre giorni fa ma ha rinviato perché aspetta di conoscere l´ammuina di Bruxelles per modellarvi sopra la propria
Infine 4 o 5 miliardi per le famiglie, un miliardo per rifinanziare la Cassa integrazione e dare qualche soldo ai precari licenziati. Per le imprese l´Iva da versare al momento dell´incasso (e questo è un buon provvedimento) e il rinvio degli acconti di fine anno. Nessuno sconto sull´Irpef. Detassazione degli straordinari (non serve a niente perché in recessione non ci sono straordinari). Nuovo patto con le banche per migliorare i mutui a tasso fisso (il patto precedente tanto strombazzato non ha avuto alcuno effetto). Sottoscrizione governativa di bond bancari per rafforzarne i patrimoni. Chiedendo in contropartita aperture di credito alle piccole e medie imprese. Questo è quanto. Tarallucci e vino. Infatti piovono critiche da Cgil Cisl e Uil e, nientemeno, anche da Confindustria.
Intanto il petrolio è sceso fino a 49 dollari al barile, il credito diminuisce, i canali interbancari restano intasati, la Citigroup licenzia 52mila dipendenti, lunedì dovremo seguire con estrema attenzione l´andamento di Wall Street, Detroit è un dramma, la Opel tedesco-americana pure. A Torino la Fiat non ride.
La ministra Carfagna ad "Invasioni barbariche" (mai titolo le fu più adatto) si è paragonata a Reagan ed anche a Obama. Berlusconi si è commosso perché Forza Italia è stata sciolta per far nascere nel 2009 il nuovo Partito della Libertà. Lo scioglimento è stato approvato con un dibattito di venti minuti. Berlusconi ha nell´occasione rimproverato la Rai perché «parla solo di crisi e il mio messaggio non riesce a passare».
Questo è quanto ci passa il nostro convento. Poiché non c´è di meglio accontentiamoci. Ma per quanto?

Repubblica 23.11.08
Martedì la ratifica del nuovo segretario: sarà difficile sanare la frattura interna
Lacerati, divisi e indeboliti è la débacle dei socialisti
di Bernardo Valli


I notabili, gli "elefanti" del partito, si sono schierati in blocco contro l´ex candidata all´Eliseo giudicata di idee troppo generiche
L´ex ministro del Lavoro ha le qualità che piacciono alla vecchia guardia e non è un ostacolo per chi ambisce alla presidenza nel 2012

«LA guerra delle due dame», socialiste, tra l´austera Martine Aubry e l´atipica, troppo glamour, Ségolène Royal, ha in queste ore un solo evidente vincitore: il presidente di centro destra Nicolas Sarkozy. Il quale si trova davanti un´opposizione di sinistra in profonda crisi, devastata da conflitti interni difficilmente risolvibili, anche in previsione del 2012, quando scadrà il suo mandato, e dovrà decidere se candidarsi per un secondo quinquennio. Nella Quinta Repubblica, l´elezione del presidente, vero monarca repubblicano, è il principale appuntamento politico. Tutto converge in quella direzione. Anche la nomina del segretario nazionale del partito socialista, attraverso il voto degli iscritti, è una tappa verso quella scadenza. Per Ségolène Royal, battuta venerdì dalla rivale per soli quarantadue voti (lo 0,04 % dei 130 mila suffragi espressi, o forse meno) l´investitura alla massima carica del partito sarebbe stata in sostanza una precandidatura alle future presidenziali.
Quindi l´occasione di una rivincita dopo la sconfitta del 2007. Anche per non darle questa opportunità, quasi tutto l´apparato del partito si è coalizzato contro di lei. Non ha voluto che si appropriasse di quella candidatura. Vecchi e nuovi notabili, detti "elefanti", tra i quali ben quattro ex primi ministri (Mauroy, Fabius, Rocard, Jospin), e personaggi di rilievo come Dominique Strauss-Kahn, presidente del FMI, e Bertrand Delanoe, sindaco di Parigi, le hanno sbarrato la strada, appoggiando Martine Aubry. L´anti europeista Laurent Fabius si è schierato con la Aubry, benché sia una fervente europeista (come il padre Jacques Delors). Il "liberale" Bertrand Delanoé ha fatto altrettanto, ha invitato i militanti a votare per lei, benché lei abbia denunciato apertamente il suo liberalismo. Il partito "TSS" (Tutto salvo Ségolène) giustifica l´ostilità nei confronti della Royal sostenendo che il suo discorso è troppo generico, talvolta ricco di accenti evangelici non adeguati alla laicità socialista, e al tempo stesso che i suoi atteggiamenti sono troppo glamour, troppo femminili. Le sue capacità non sono giudicate all´altezza della sua ambizione.
Martine Aubry ha virtù e difetti opposti. Ha 58 anni, tre di più di Ségolène, e ha uno stile da militante. E´ rigida. Diretta. Non punta sul fatto di essere donna. E´ nota ai francesi per una legge (la settimana di trentacinque ore) che non le ha dato popolarità nell´elettorato moderato, e che dopo un primo entusiasmo non è stata troppo esaltata neppure a sinistra.
Al contrario della Royal, che vorrebbe trasformare il partito socialista in una grande formazione di massa, popolare, la Aubry è per un partito di militanti. Con lei l´apparato non si sente minacciato. Non vuole aprire al centro (al MoDem di François Bayrou). Anche se nel Nord, a Lilla, dove è sindaco, ha concluso alleanze in quella direzione. Personaggio di indubbie capacità intellettuali, di notevole carattere e di forte impegno politico, Martine Aubry ha un´altra qualità che la rende accettabile ai notabili socialisti: quella di non essere, almeno per il momento, una candidata alla massima carica dello Stato. Lei non rappresenta un ostacolo nella corsa alla presidenza, alla quale non pochi "elefanti" intendono partecipare. Con lei il posto resta disponibile. Anche se le sue ambizioni possono crescere nei prossimi anni. Del resto la stessa Ségolène Royal non si ritirerà tanto facilmente tra le quinte, e potrà puntare sul ruolo di vittima, che le ha spesso giovato.
E´ molto probabile che martedì prossimo il Consiglio Nazionale socialista, convocato dal segretario uscente, François Hollande, ratifichi la risicata elezione di Martine Aubry, contestata dalla rivale sconfitta, e non ancora proclamata ufficialmente. Ségolène Royal chiede addirittura un altro voto, « questa volta senza brogli «. In quell´assemblea socialista il partito del TSS (tutto salvo Ségolène) occupa il settanta per cento dei seggi, tanti ne hanno conquistati gli avversari di Ségolène Royal al recente congresso di Reims. Dove invece la mozione "royalista" ha avuto soltanto il ventinove per cento dei voti dei delegati.
La base degli iscritti ha poi portato, qualche giorno dopo, quel coefficiente a quasi il cinquanta per cento nell´elezione diretta del segretario, rivelando la spaccatura netta del partito e anche l´impopolarità degli "elefanti" anti-Ségolène. La spaccatura si è approfondita, è diventata plateale, nelle ultime ore quando gli amici di Ségolène, denunciando i brogli in alcune federazioni (del Nord e della Senna marittima), hanno minacciato azioni sul piano "politico, giuridico e giudiziario". Manuel Valls, un fedelissimo di Ségolène, ha addirittura « invitato i militanti alla rivolta».
Il focoso Manuel Valls non pensa tuttavia a una scissione. Né Ségolène Royal intende lasciare il partito. Non ci pensa neanche. L´ha ripetuto ieri sera, esibendo un sorriso smagliante, davanti a milioni di telespettatori, quando ancora infuriavano le polemiche. Il partito socialista è indisciplinato, è un mare in cui si scatenano passioni e rivalità, ma rappresenta una vasta forza politica locale. Non conta tanti iscritti come quello tedesco (850 mila), o quello austriaco (500mila), o quello svedese (400mila). Ne ha 235 mila, spesso fluttuanti, che, secondo Michel Rocard, «sono in buona parte curiosi di passaggio alle riunioni di sezione da dove se ne vanno presto perché si annoiano». Ma un iscritto su tre è consigliere comunale. E un altro terzo spera di diventarlo. I socialisti perdono le elezioni presidenziali, ma governano venti regioni su ventidue, cinquantotto dipartimenti sui novantacinque in cui si divide il territorio metropolitano, e due terzi delle città con più di ventimila abitanti. Passioni e rivalità agitano il partito, non lo favoriscono quando punta alla conquista del vertice del potere politico. Ma esso resta una vecchia, storica formazione che i responsabili abbandonano difficilmente.

Corriere della Sera 23.11.08
Vecchio stile contro femminilità. Irriducibili ma non vincenti
di Maria Laura Rodotà


«Hallucinant». «Ségo, che cattiva perdente». «È stata la notte dei piccoli cucchiai», altro che lunghi coltelli. E questi erano solo i commenti sul sito di Libération,
giornale con lettori di fu sinistra. Peccato, davvero peccato. Perché stavolta non era il solito combattimento tra galline per la gioia degli spettatori maschi; era una lotta di potere vera. Anche se si lottava per uno di quei lavori dequalificati che gli uomini non vogliono più fare, il segretario del Partito socialista francese; sconfittissimo alle elezioni, frantumato all'interno, inesistente all'opposizione. Ma per la prima volta in un grande partito di un grande Paese europeo (non nordeuropeo) due femmine si giocavano la leadership. Ed è successo un disastro; una «piccola Florida», con Martine Aubry e Ségolène Royal al posto di W. Bush e Al Gore. 42 voti di differenza, la richiesta di un nuovo scrutinio, e una figuraccia collettiva. L'unica buona notizia, a voler essere a ogni costo ottimisti/e o biecamente realisti/e, è che le due femmine non sono state brave bambine. I due campi si accusano l'un l'altro di manovre sporche, ognuno addita federazioni con risultati dubbi; una al momento ha vinto di pochissimo, 50,02 contro 49,98, però nessuna pare vincente.
Però (o per questo) l'altrimenti deprimente diatriba resta interessante. È uno scontro tra i due principali modi di fare/essere una donna politica. Uno, quello di Aubry, vecchio stile, un po' maschile, pochi fronzoli, pochissimo Botox, molto lavoro, in curriculum riforme (le 35 ore) ideologicamente coerenti benché adesso criticate. L'altro, lo stile Ségo, fondato sull'immagine, un po' bling-bling di sinistra, femminil-ammiccante; d'altra parte inclusivo, alle presidenziali 2007 la Francia giovane e multirazziale l'ha votata e ha tifato. Poi Royal è ripartita all'attacco, più nervosa dopo l'elezione persa. Poi Aubry ha di fatto vinto la nomination anti-Royal, e pro vecchio Ps che andava al governo. Il sindaco di Lilla e la presidente del Poitou-Charentes (il potere socialista è ormai tutto a livello locale) hanno un lato in comune, sono due irriducibili, genere villaggio di Asterix che resiste ancora e sempre al nemico. È una qualità; forse i francesi all'opposizione preferirebbero una terza donna irriducibile, che ora non c'è. Forse nessuno dei due modi di essere/fare, nessuna delle due immagini, basterà.
Secondo un cittadino che scrive online: «A Ségolène non resta che tornare nel Poitou, preparare la commercializzazione delle auto elettriche, diffondere le coltivazioni biologiche e rotolarsi col suo moroso in un campo senza pesticidi. Intanto Martine scenderà nelle miniere di carbone, temporeggerà davanti al cimitero degli elefanti (gli storici maggiorenti socialisti, ndr) e non avrà mai un minuto per sé stessa». Mirabile sintesi dei dubbi sulla celebrity ecocompatibile e la socialista di molto spessore e scarso carisma. Sono un po' come Tony Blair e Gordon Brown tanti anni fa, a pensarci. Solo, Blair e Brown avevano fatto un patto e vinto le elezioni. Royal e Aubry non ci pensano proprio, sono gallicamente irriducibili (Asterix e Obelix erano più furbi, francamente, allora).

Corriere della Sera 23.11.08
Sinistra L'analisi di alcuni studiosi sulle vicende del Pci e sulla sua eredità nel nostro Paese
Quel comunismo «anomalo» sopravvissuto all'89
di Antonio Carioti


Aveva ragione Alberto Ronchey quando individuava nel «fattore K», cioè nella presenza ingombrante del Pci, il connotato cruciale dell'anomalia italiana. Rispetto ad altri partiti comunisti europei, quello guidato da Palmiro Togliatti (nella foto) era una forza più radicata nella società, più attrezzata culturalmente e più duttile in fatto di linea politica: non a caso aveva conquistato l'egemonia a sinistra e ha potuto proiettarsi, sia pure a costo di scissioni e metamorfosi varie, oltre il trauma del 1989. Ma per il movimento operaio italiano il predominio comunista è stato senza dubbio una iattura: basta constatare che la sinistra non ha mai governato il Paese da sola e, dopo l'avvento del bipolarismo, ha vinto le elezioni soltanto presentando come proprio candidato premier un uomo di antica matrice democristiana, Romano Prodi.
Ce n'è abbastanza per alimentare un vasto filone di ricerca sul ruolo effettivo svolto dal Pci, allo scopo di superare le autoraffigurazioni consolatorie, spesso dense di rimozioni, che quel partito ha dato di se stesso. Quanto cioè si sono proposti di fare gli studiosi i cui contributi sono confluiti nel volume L'influenza del comunismo nella storia d'Italia (Rubbettino, pagine 245, € 15), curato da Fabrizio Cicchitto, che raccoglie gli atti di un convegno organizzato dalla Fondazione Magna Carta e dalla rivista «L'Ircocervo», vicine al centrodestra.
Sono scritti che insistono sull'anima rivoluzionaria e settaria, spesso trascurata, del Pci: Aldo G. Ricci ne evidenzia l'uso della mobilitazione di piazza durante l'epoca degasperiana, Simona Colarizi l'aggressività spietata nella polemica contro il riformismo, Sergio Bertelli il rifiuto di fare i conti con il passato, Giancarlo Lehner le complicità con il terrore staliniano, Gianni Donno i legami con l'apparato militare del blocco sovietico. Sulle strategie volte alla conquista dell'egemonia culturale si soffermano invece Giovanni Orsina, che illustra come il Pci abbia usato il richiamo antifascista per procurarsi opinabili credenziali democratiche, e Andrea Guiso, che ne analizza il rapporto con gli intellettuali fiancheggiatori.
Altre relazioni hanno un carattere comparativo: cercano di spiegare le differenze tra il Pci e altri partiti omologhi puntando più sulle condizioni oggettive dei singoli Paesi che sui meriti della leadership di Togliatti. Gaetano Quagliariello nota che per il Pci fu un grande vantaggio trovarsi in una condizione di debolezza estrema all'epoca del patto nazi-sovietico (1939-41), quando i comunisti francesi pagarono un prezzo altissimo alla necessità di allinearsi con Mosca nella fase in cui l'Urss era in buoni rapporti con il Terzo Reich. Victor Zaslavsky sottolinea che il comportamento cauto tenuto dai comunisti in Italia nel biennio 1947-48, rispetto alla prospettiva insurrezionale seguita in Grecia, dipese soprattutto dalle scelte geopolitiche del Cremlino.
Da segnalare infine la forte denuncia di Piero Craveri circa le difficoltà che s'incontrano nel reperire la documentazione necessaria a ricostruire gli eventi del recente passato: «La materia archivistica in Italia — scrive — è affidata al caos e all'arbitrio». Forse anche per questo la nostra storia recente, non solo quella riguardante il Pci, risulta così fitta di misteri insoluti.

Repubblica 23.11.08
Come si fabbrica l'insicurezza
di Ilvo Diamanti


SONO passati un anno, dodici mesi appena, ma l´Italia sembra un´altra. Meno impaurita e meno insicura. Infatti, l´inverno è vicino, ma il clima d´opinione registra un disgelo emotivo evidente. Come testimonia il 2° rapporto - curato da Demos e dall´Osservatorio di Pavia per Unipolis sulla rappresentazione della sicurezza - nella percezione sociale e nei media. Pochi dati, al proposito (d´altronde, ieri Repubblica gli ha dedicato molto spazio).
Nell´ultimo anno, si è ridotta sensibilmente la percezione della minaccia prodotta dalla criminalità a livello nazionale e soprattutto nel contesto locale. E´ calato in modo rilevante anche il timore dei cittadini di cadere vittima di reati. Da un recentissimo sondaggio di Demos (concluso venerdì scorso) emerge, inoltre, che il problema più urgente per il 31% degli italiani (se ne potevano scegliere due) è la criminalità comune. Un anno fa era il 40%. Mentre il 21% indica l´immigrazione: 5 punti meno di un anno fa. Gli immigrati, peraltro, sono considerati "un pericolo per la sicurezza" dal 36% degli italiani: quasi 15 punti percentuali meno di un anno fa e 8 rispetto allo scorso maggio. Il legame fra criminalità comune, sicurezza e immigrazione che, negli ultimi anni, è apparso inscindibile, agli occhi dei cittadini, oggi sembra essersi allentato. Cosa è successo in quest´ultimo anno, in questi ultimi mesi di così importante, significativo e profondo da aver scongelato il clima d´opinione? L´andamento dei reati, in effetti, rileva un declino che, peraltro, era cominciato a metà del 2007. Tuttavia, nel corso degli ultimi anni, si è sviluppato senza variazioni tali da giustificare mutamenti di umore tanto violenti. Invece, l´immigrazione è cresciuta in misura molto rilevante, come segnalano le principali fonti, dal Ministero dell´interno alla Caritas. Gli sbarchi di clandestini sono anch´essi aumentati. Quasi raddoppiati. Non sono i fatti ad aver cambiato le opinioni. Al contrario: le opinioni si sono separate dai fatti. Per effetto di un complesso di fattori. D´altronde, il clima d´opinione riflette una pluralità di motivi, spesso non prevedibili e, comunque, non controllabili. In questa fase, in particolare, la crisi economica e finanziaria ha spostato il centro delle paure e delle preoccupazioni dei cittadini. Non solo in Italia: anche negli Usa, prima del collasso delle borse, la campagna delle presidenziali era concentrata sull´immigrazione. Poi tutto è cambiato, con grande beneficio per Obama. Tuttavia, la preoccupazione economica, in Italia, è da tempo molto alta. Destinata a deteriorarsi ancora. Nell´ultimo anno, però, non è peggiorata. Era già pessima. Il profilo delle "persone spaventate" presenta alcuni tratti particolari, utili a chiarire l´origine di questo collasso emotivo. Due fra gli altri: guardano la tivù per oltre 4 ore al giorno e sono vicine al centrodestra; nel Nord, alla Lega. L´analisi dell´Osservatorio di Pavia sulla programmazione dei tg di prima serata, peraltro, rileva una forte crescita di notizie sulla criminalità comune nell´autunno di un anno fa e un successivo declino ? particolarmente rapido dopo maggio. Peraltro, il peso delle notizie "ansiogene" è nettamente più elevato sulle reti Mediaset, ma soprattutto su Studio Aperto e Canale 5. Seguiti, per trascinamento, dal Tg 1, il più popolare e autorevole presso il pubblico. Il sondaggio di Demos osserva come l´insicurezza sia molto più alta fra le persone che frequentano prevalentemente le reti e i notiziari Mediaset. Ciò suggerisce che i cicli dell´insicurezza siano favoriti e scoraggiati, in qualche misura, dal circuito fra media e politica. D´altra parte, la sicurezza, l´immigrazione e la criminalità comune sono temi "sensibili" negli orientamenti degli elettori. "Spostano" i voti degli incerti. Rendono incerti molti cittadini certi. Peraltro, come abbiamo già visto, il tema della sicurezza non è politicamente "neutrale". La maggioranza degli elettori (anche a centrosinistra) ritiene la destra più adatta ad affrontare questi problemi ? trasformati in emergenze (Indagine Demos, luglio 2007).
Così, per creare un clima d´opinione favorevole, al centrodestra basta sollevare il tema della sicurezza. Cogliere e rilanciare episodi e argomenti che alimentano l´insicurezza sociale. Farli rimbalzare sui media. Il che avviene senza troppe difficoltà. Non solo perché il suo Cavaliere ha una notevole conoscenza del settore, sul quale esercita un certo grado di influenza. Ma perché la paura è attraente. Fa spettacolo e audience. E perché, inoltre, in campagna elettorale, la tivù costituisce la principale arena di lotta politica, su cui si concentrano l´attenzione dei partiti e la presenza dei leader.
Così, l´insicurezza cresce insieme ai consensi per il centrodestra. Senza che il centrosinistra riesca a opporre una resistenza adeguata. Frenato da divisioni interne, particolarismi e personalismi che non gli permettono di proporre e imporre un solo tema capace di spostare a proprio favore il consenso. Il lavoro, i prezzi, le tasse, l´etica: nel centrosinistra c´è la gara a distinguersi e a smarcarsi. Tutti contro tutti.
La recente campagna elettorale di Veltroni, irenica, tutta protesa a marcare la distanza dal passato (Prodi), non ha scalfito l´insicurezza del presente.
La morsa della sfiducia e dell´insicurezza si è allentata solo dopo le elezioni politiche e le amministrative di Roma. Non a caso. Il risultato, senza equivoci, non lascia scampo alle speranze dell´opposizione: resterà opposizione a lungo. Così, la campagna elettorale, dopo anni e anni, finisce. E il centrodestra si dedica a controllare, in fretta, il clima di insicurezza che aveva contribuito ad alimentare negli anni precedenti. Propone e approva provvedimenti ad alto valore simbolico: l´impiego dei militari contro la criminalità, l´aumento di vincoli e controlli all´immigrazione. La liberalizzazione delle polizie e delle milizie locali, padane, private. Gli stessi episodi di razzismo hanno prodotto la condanna "pubblica" dell´intolleranza, con l´effetto di inibirne, in qualche misura, il sentimento. In quanto gli stranieri, percepiti perlopiù come "colpevoli" di reati e violenze, ne diventano "vittime".
Così gli immigrati continuano a fluire, i clandestini a sbarcare e il numero dei reati non cambia, ma l´attenzione dell´opinione pubblica e dei media nei loro confronti si ridimensiona. La paura declina. Un po´ come avvenne nel periodo fra il 1999 e il 2001. Anche allora criminalità e immigrazione divennero priorità nell´agenda delle emergenze degli italiani. Spaventati da aggressioni e rapine a orefici e tabaccai; dall´invasione degli stranieri. Che conquistavano i titoli dei quotidiani e dei tg. Poi, l´inquietudine si chetò. Sopita dall´attacco alle Torri Gemelle e dalla vittoria elettorale di Berlusconi. Capace, come nessun altro, di navigare sulle acque dell´Opinione Pubblica. E di domare le tempeste che la turbano dopo averle evocate.

l’Unità 23.11.08
Il diritto di poter scegliere. Eluana insegna
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi


Com’è noto la Cassazione ha respinto il ricorso della procura di Milano: la nutrizione e l’idratazione artificiali sin qui somministrate a Eluana Englaro possono essere sospese. È notizia di poche settimane fa: il tribunale di Modena ha accolto la richiesta di un uomo che ha deciso di nominare la moglie suo garante in merito alle proprie volontà sanitarie. L’uomo, un cinquantenne in buone condizioni di salute, ha visto riconosciuta la sua richiesta di «non essere sottoposto ad alcun trattamento terapeutico» nel caso di «malattia allo stato terminale, malattia o lesione traumatica cerebrale irreversibile e invalidante». È notizia di questi giorni: i giudici dell’Alta Corte inglese hanno riconosciuto e tutelato la volontà di una ragazza appena tredicenne che, dopo aver passato gli ultimi otto anni della sua vita in ospedale, ha rifiutato un trapianto di cuore - senza il quale appare destinata a morire, ma che non le garantisce, altresì, una guarigione definitiva - perché esausta per le troppe sofferenze sin qui patite.
Al centro di queste e altre vicende, c’è il valore che possiamo assegnare all’autodeterminazione della persona in quella costellazione di prerogative che sostanziano la nostra libertà nella vita associata. C’è, in altre parole, la misura in cui ciascuno di noi è libero di disporre di se stesso in quegli aspetti della sua esistenza in cui non si ledono i diritti di terzi. Alla piena affermazione di questa libertà si oppongono spesso argomenti opachi. Come la questione, ad esempio, che riguarda la qualità terapeutica di alcune pratiche di sostegno vitale. È ciò di cui si è a lungo dibattuto anche per Eluana Englaro: nutrizione e idratazione - secondo alcuni - non sono cure (dunque non possono costituire accanimento «terapeutico»; e per ciò non possono essere interrotte); sono trattamenti primari e irrinunciabili, perché non si può non dare acqua e cibo a chi ne ha bisogno. La controversia, come è facile osservare, è scaduta a un dato nominalistico che ha offuscato la sostanza del problema. Prescindendo dal fatto che la totalità delle associazioni mediche di nutrizione parenterale, nazionali e internazionali, riconoscono la natura sanitaria di quegli interventi, il punto è un altro: che li si definisca come meglio si crede, ma che si tuteli, in ogni caso, la libertà dell’individuo di non sottoporvisi. Insomma: non sono trattamenti sanitari? Sono altro? Ho comunque il diritto di non accettarli: o forse un’autorità medica può obbligarmi a mangiare e a bere? (La possibilità di sciopero della fame, come ricorda Chiara Lalli su Diario, è riconosciuta persino ai detenuti…).
Scrivere a: abuondiritto@abuondiritto.it

Corriere della Sera 23.11.08
La Cina raddoppia il nucleare
di Marco Del Corona


Programmi Un miliardo di euro servirà a finanziare le attività estrattive e di acquisizione dell'uranio da impiegare per usi civili
Il record Grazie alla tecnologia Usa, l'obbiettivo è diventare il primo Paese a dotarsi di centrali di «terza generazione»
L'ambiziosa sfida di Pechino per reggere il ritmo della forte crescita industriale

PECHINO — Quando nel 1985 le ruspe cominciarono a mettere sottosopra la terra a Qinshan, l'ingegner Zhang Huazhu si sentì meglio. La Cina stava per avere davvero la sua prima centrale nucleare, «finalmente l'atomo sarebbe servito a fare funzionare le cose, per le persone, per la pace». Si era laureato nel 1968, in piena Rivoluzione culturale, il suo campo era l'automazione, ma Zhang cominciò a gravitare prestissimo intorno ai progetti atomici. Un lungo apprendistato, come per la Cina. Che adesso guarda al nucleare come a una via chiave per attenuare la dipendenza dagli idrocarburi che hanno alimentato la sua prodigiosa crescita economica. Pechino lo considera un percorso inevitabile e si pone l'obiettivo di raddoppiare (almeno) la quota dell'atomo all'interno della produzione energetica in una dozzina d'anni. Sono 11 i reattori in funzione (distribuiti fra 6 impianti) e contribuiscono per l'1,9% all'energia generata nella Repubblica Popolare, una percentuale che appare bassa per i bisogni e le ambizioni di Pechino. La fame di risorse della Cina corre più rapidamente del passo che riescono a tenere i suoi impianti. «Abbiamo cominciato a sviluppare il nucleare prima di Giappone e Sud Corea, ma ora quei Paesi ne ricavano il 33% e il 28% del fabbisogno energetico»: e noi?, si è lamentato il China Youth Daily.
Zhang Guobao, viceministro della Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme, ha indicato un obiettivo: nel 2020 il 5% dell'energia nucleare dovrà venire dall'atomo. Non solo: si è appena saputo che la Cina stanzierà grosso modo un miliardo di euro nei prossimi 12 anni per incrementare le riserve di uranio e sta investendo in attività estrattive per assicurarsi il metallo. Ma le cifre non sono tutto: c'è qualcosa di più. L'atomo civile prova a Pechino la portata del suo percorso di modernizzazione, la propaganda l'ha posto fra le tappe fondamentali del trentennio di apertura voluto da Deng Xiaoping. E, annunciando la nuova raffica di progetti, il governo sottolinea trionfante che con sei dei nuovi reattori in costruzione, con tecnologia dell'americana Westinghouse (AP1000), la Cina «sarà il primo Paese al mondo a dotarsi di centrali di terza generazione». Accadrà a Sanmen (nello Zhejiang: 2 reattori da 1.250 megawatt ciascuno di potenza nominale) e a Haiyang (Shandong: stesse caratteristiche).
L'avventura della Cina nel nucleare era cominciata in un altro modo. Guerra fredda, l'ossessione dell'accerchiamento: l'India a sud, l'Urss a nord, l'America ovunque. Nel 1964 gli scienziati di Pechino festeggiarono il primo test atomico, Mao Zedong insegnava che la natura va piegata, plasmata, e la Bomba era una forza rivoluzionaria pronta a difendere il popolo. Fu Zhou Enlai a intravedere nell'atomo una risorsa anche sul piano civile. Shanghai rischiava di trovarsi di colpo al buio, e il primo ministro raccomandò che la tecnologia nucleare non servisse «soltanto come arma ma anche per sostenere lo sviluppo economico della Cina: dobbiamo lavorarci a lungo termine».
Era l'8 febbraio 1970, la geografia della Cina anticipava i cambiamenti che si sarebbero imposti in modo drammatico con le riforme. Le aree costiere allora erano una promessa, oggi sono un motore, sia pure affannato dalla crisi globale. Tutte le centrali nucleari in attività, costruzione o programmazione sono vicino al mare, là dove le industrie sono concentrate e il boom ha preso slancio. Nel Guangdong i reattori coprono il 7% del fabbisogno della provincia, nello Zhejiang — alle porte di Shanghai — si arriva al 15,7%, quasi un modello ideale di come la Cina potrebbe affrancarsi dall'onere degli idrocarburi e persino dei colossali impianti idroelettrici (sulla cui sostenibilità i dubbi si moltiplicano di inaugurazione in inaugurazione). Su scala nazionale, fanno poco meno di 63 miliardi di chilowattora nel 2007. Troppo poco, «la velocità di costruzione di nuovi impianti — raccomanda l'Associazione per l'energia atomica (Caea) — dev'essere cinque volte maggiore rispetto a quella degli ultimi vent'anni».
Della Caea è ora presidente, con rango di viceministro, l'ingegnere Zhang Huazhu, il suo è un organismo governativo che traccia le linee guida della ricerca e dello sviluppo del nucleare e, naturalmente, trasuda una fede assoluta nelle sorti magnifiche e progressive del nucleare, perché «la dipendenza dal carbone — spiega al
Corriere — crea solo problemi, non solo di inquinamento ma anche di approvvigionamento: le nevicate che hanno paralizzato la Cina lo scorso gennaio, per esempio, hanno provocato una vera emergenza energetica. Il nucleare può evitare tutto questo. Realizzare reattori anche nelle province interne, oltre a sostenere lo sviluppo delle zone rimaste più indietro, ci risparmierà certi scompensi nella distribuzione dell'energia. Ci stiamo preparando a intervenire nell'entroterra». Alternative? «Il solare è troppo costoso, l'eolico può funzionare», ma a Pechino la via maestra resta l'atomo.
La collaborazione con gli americani è cominciata nel dicembre 2006, Zhang Huazhu illustra come «tecnologia cinese conviva con know-how straniero, canadese, francese, russo». Non sempre, tuttavia, l'accesso degli stranieri fila liscio in un Paese dove il controllo delle centrali resta pubblico. Il quindicinale Caijing ha ricostruito gli intoppi che hanno segnato l'ordine di due reattori di terza generazione al gruppo francese Areva. Jiang Xinsheng, il funzionario che aveva gestito la trattativa per l'Azienda per l'Import e l'export tecnologico (Ctiec), «è stato messo sotto inchiesta dalla commissione disciplinare del Partito comunista, dopo essere stato sospettato di aver favorito i francesi» rispetto ad altre aziende coinvolte. Non un caso isolato, «diverse figure nell'ambito delle aziende che curano i programmi nucleari sono state indagate», ha aggiunto Caijing,
segno che il settore dell'atomo non può non sollecitare appetiti illeciti: «Lo choc causato dalla caduta di Jiang Xinsheng non è ancora passato».
Alle autorità preme di più far sapere che sul fronte della sicurezza nulla viene lasciato al caso. «Sono oltre 40 le istituzioni universitarie in Cina in grado di formare tecnici e specialisti per le nostre centrali», aggiunge Zhang Huazhu, mentre la Beijing Review dà conto soddisfatta delle «decine di giovani ingegneri» formati direttamente dalla Westinghouse. Neppure il terrorismo è assente dall'orizzonte del nucleare cinese, «sappiamo che dobbiamo tenerne conto, ormai». Pacchetti di norme in merito sono stati approvati nel 2006 e nel 2007, con procedure che scattano a catena dal livello locale fino a quello centrale. Ma ciò che fa davvero paura è che per l'affaticata crescita dell'economia cinese salti la corrente. Ne serve tanta, di elettricità, e possibilmente anche questa «made in China».

Corriere della Sera 23.11.08
Il corteo contro la violenza
«Siamo oltre 50 mila», hanno dichiarato le organizzatrici, ovvero la rete nazionale di femministe e lesbiche


ROMA — Erano migliaia, saltavano e cantavano, soprattutto, sulle note di «Nessuno mi può giudicare» di Caterina Caselli o «Malarazza» di Ginevra di Marco. E c'era anche «Le streghe son tornate» (nella versione delle Bambole di Pezza) a far da colonna sonora del corteo di femministe che ieri è sfilato a Roma in occasione della prossima giornata contro la violenza sulle donne. «Siamo oltre 50 mila», hanno dichiarato le organizzatrici, ovvero la rete nazionale di femministe e lesbiche.