Ragazzi dell'Onda "il Catalogo è questo"
di Mario Pirani
Il riformismo non è una teoria o una pia intenzione, ma una pratica concreta, un´azione per migliorare le cose, evitando, peraltro, di esagerare combinando sconquassi. Una premessa che mi è venuta alla mente nella sua ovvietà scrivendo un recente articolo sull´Università (Repubblica). Tra il materiale da me non utilizzato per ragioni di spazio, vi era una nota sulle iniziative prese dal presidente indipendente della giunta di centro sinistra della Sardegna, il dinamico industriale Renato Soru, l´inventore di Tiscali.
Più delle grandi riforme di vario colore che hanno inguaiato la scuola e le università, ancor più di quanto non fosse, Soru ha messo in atto per l´annualità 2008-2009 alcune misure semplicissime che si possono valutare immediatamente. La prima riguarda il punto più controverso del decreto Gelmini sulla scuola, la questione del tempo pieno. Ebbene, senza alcuna polemica e tenendo conto che la sua applicabilità implica la collaborazione tra lo Stato e le autonomie locali, Soru ha deciso che il bilancio regionale contempli uno stanziamento di 35 milioni di euro per estendere con fondi propri il tempo pieno a tutte le scuole primarie e medie dell´Isola.
Il finanziamento verrà suddiviso in base all´autonomia scolastica ma è fin d´ora vincolato ad una utilizzazione non dispersiva, ludica o casuale, finalizzata a colmare le deficienze che le inchieste Ocse e nazionali hanno riscontrato nelle competenze di base dei ragazzi italiani, in specie nel Mezzogiorno e nelle Isole: italiano, matematica, scienze, ecc. Basterebbe questo per promuovere la Giunta sarda, ma il menù è molto più ricco e apporta un aiuto decisivo alle due Università di Cagliari e Sassari.
Per dirla con Leporello: «Il catalogo è questo». I) La Regione versa 12 milioni di euro alle due università, impoverite dai tagli della Finanziaria, per sostenere la loro attività corrente. Inoltre stanzia 4 milioni per favorire la presenza di visiting professors che arricchiscano le esperienze di studio locali.
II) Con bandi biennali verranno distribuiti 5 milioni di euro per finanziare direttamente singoli giovani ricercatori, sia sardi che non sardi, che abbiano scelto di svolgere altrove, in genere all´estero, la loro attività, a condizione che ora siano disposti a lavorare ad un loro progetto scientifico o umanistico presso una delle due Università sarde. L´obiettivo è di incentivare il "rientro dei cervelli", tenendo conto che i giovani ricercatori italiani all´estero guadagnano all´inizio sovente non più di 1700-1800 euro, ma godono non solo di infrastrutture incomparabilmente migliori e di sistemi di ricerca più liberi. Soprattutto è loro ben presente che, a differenza della madre patria, gli esiti verranno giudicati soltanto per il merito e la professionalità. La scommessa di Soru è di tentare anche in Sardegna una prima inversione di tendenza: chi verrà, anche se l´università non ha soldi da offrirgli, riceverà dalla Regione direttamente ad personam 40.000 euro l´anno, più altri 15.000 per libri, materiali, spostamenti per studio.
III) Oltre alle normali borse di studio assegnate in base al merito e al reddito, da quest´anno la Sardegna mette a disposizione 2500 "assegni di merito" per un totale di 15 milioni, senza alcuna limitazione di reddito, per i giovani che si iscrivono per la prima volta alla università o sono già iscritti, a condizione che abbiano superato l´esame di maturità con almeno 80/100, che sostengano tutti gli esami universitari entro il tempo stabilito e conseguano una media del 27. Il contributo, versato direttamente allo studente, sarà di 500 euro nette al mese.
Si tratta di una iniziativa senza precedenti nel nostro Paese, cui si aggiunge per tutti i neo iscritti un contributo di 1200 euro per computer e libri. Infine, per rimpinguare l´esigua somma data dalle università, la Regione assicura altri 2500 euro per ogni borsa Erasmus.
IV) Oltre ai fondi per l´edilizia già assegnati per alloggi universitari in costruzione, in modo da portarli a Cagliari da 1000 a 2000 e a Sassari da 350 a 1000, la Regione assicura a tutti i ragazzi fuori sede una sovvenzione di 5000 euro l´anno per una abitazione nella città che li ospita.
Se ricordiamo tutte le polemiche e gli ostacoli che incontrò il tentativo di Soru di far pagare imposte più salate ai ricchi proprietari delle ville della Costa Smeralda e degli yacht che attraccano d´estate nei suoi porti, e li confrontiamo con queste voci di spesa, ne scaturirà con esattezza in cosa consista l´equazione riformista. Dovrebbero farla propria l´Onda e quanti manifestano senza precisi obbiettivi. Qui ce n´è per ogni Regione.
Repubblica 24.11.08
Sorpresa, il potere è giovane (o quasi)
Il Paese è bloccato ma l´analisi dell’anagrafe rivela un´altra verità. A partire dalla politica e dall’economia
di Giuseppe D’Avanzo
In Parlamento e nelle grandi società l´Italia non è più un paese per vecchi A sorpresa tiene testa agli Stati Uniti e continua nel processo di rinnovamento La Lega per prima ha puntato sulle nuove leve. Ma le università fanno eccezione
Le rogne di un ricambio generazionale sono tutte del Pd
Il gruppo più giovane della legislatura è del Carroccio: solo 40 anni in media
Il premier italiano è tra i più anziani d´Europa: 72 anni contro i 48 di Zapatero
Un indizio di conflitto generazionale fa capolino con il gonfiarsi dell´Onda studentesca - e speriamo che non sia fittizio, che duri e nel tempo si rafforzi. Finalmente, una forma di resistenza individuale e collettiva a un modello normalizzato che riconosce soltanto incertezza e precarietà alle giovani generazioni non protette dalla famiglia, dalle relazioni amicali, dalle connessioni di interesse. Un pregio della falsa «riforma Gelmini» è innegabile: ha costretto molti giovani ad aprire gli occhi su quel che li aspetta: precarietà prolungata; mediocri e intermittenti guadagni; incertezza nel reddito; insicurezza sulla continuità del lavoro; assenza di sostegno pubblico; impossibilità a programmare una vita consapevole (unione, nascita di figli, mobilità). I giovani sono come congelati in una dimensione di adulti immaturi, privati di opportunità e autonomia; imprigionati in un modello sociale e produttivo che non sa riconoscere la qualità e non premia il merito.
Al più, quando va bene (e va bene ai soliti noti), il «modello italiano» concede l´attenzione di una di quelle consorterie - Pierluigi Celli le chiama più esplicitamente «bande» - che «accreditano competenze, contrattano alleanze, tassano ogni forma di collocamento».
A fronte di questo dramma e dell´accenno di conflitto sociale che si può intravedere, il dibattito sull´esclusione dei «giovani» dalla leadership politica di una «Repubblica della Terza Età» è una lagna soporifera. È un piagnisteo che trascura una realtà molto più contraddittoria del diffuso luogo comune del «Paese dove il tempo si è fermato». È gne-gne che occulta un´autentica questione che interpella non tutto il Paese né tutto il ceto politico. Ma soprattutto l´università e la sinistra riformista (o il centrosinistra, chiamatelo come volete). Per almeno quattro ragioni.
Dunque, una giovane classe politica sarebbe tenuta fuori dalla porta delle stanze che contano. Primo argomento: sono davvero giovani?
Quei «giovani» che chiedono attenzione e pretendono, come un atto dovuto, accesso al potere, alle élites, alla classe dirigente, sono falsi giovani, ingrigiti, maturi, diciamo già un po´ spelacchiati. Come spiega Francesco Billari (il Mulino, 5/2007), le Nazioni Unite quando progettano azioni dedicate allo youth empowerment (più potere ai giovani) definiscono giovanile l´età che corre tra i 15 e i 24 anni e chiamano addirittura «giovani adulti» quelli che hanno tra i 20 e i 24 anni.
Anche la Commissione Europea considera «gioventù, l´età della vita che va dai 15 ai 25 anni». È dunque una bizzarra anomalia italiana considerare «giovane» chi è nato dopo il 1968 e magari ha già festeggiato i quarant´anni. Non è peraltro una anomalia del presente (secondo argomento).
Alberto Alesina ha ricordato che, quando nel 1984 Franco Modigliani vinse il premio Nobel per l´economia, gli studenti italiani di economia di Harvard e del Mit lo invitarono a cena in un ristorante toscano di Boston. Modigliani raccontò che all´età di 52 anni, durante un seminario in Italia, fu presentato come «un brillante giovane economista» e lui replicò, quando prese la parola: «Grazie per il "giovane", ma negli Stati Uniti mi considerano un po´ passé».
L´anomalia quindi non è nuova in Italia. Di nuovo, al contrario, c´è (terzo argomento, alquanto sorprendente) il tentativo di svecchiare élite politiche e ceti dirigenti. È vero, Berlusconi è in là con gli anni (72 anni) e lo separano più o meno due decenni da Sarkozy (53 anni), Merkel (54), Zapatero (48), Brown (57), però è altrettanto vero che, se si guarda ai cinque ministeri chiave, Economia (Tremonti, 61 anni), Interni (Maroni, 53), Esteri (Frattini, 51), Giustizia (Alfano, 38) e Difesa (La Russa, 61), la media è di 52 anni (era di 63 nel governo Prodi). Se poi si sbirciano i dati raccolti da Marco Leonardi (economista, Statale di Milano), si scopre che in Italia la giovane età non è un deficit nemmeno per gli amministratori delegati delle 200 aziende quotate in Borsa a Milano. Età media, 52,6. Nelle 4049 aziende quotate a Wall Street, l´età media dei chief executive officer (CEO) è più alta, anche se di mezza incollatura: 53 anni. Semmai i problemi sono tutti nella gerontocratica università italiana. Tra gli oltre 18mila cattedratici, solo 9 hanno meno di 35 anni e tre su dieci ne hanno più di 65, hanno contato Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella. Epperò lo svecchiamento degli ultimi anni con il proliferare di corsi di laurea e di sedi universitarie, con l´aumento del 100 per cento dei professori ordinari (ma alcuni parlano del 150 per cento) non ha migliorato la qualità né della ricerca né dell´insegnamento. Non basta essere giovani per cambiare in meglio l´esistente. Di sicuro non nell´università italiana.
A ben guardare, la politica se la passa meglio. Sei governatori hanno meno di 50 anni e l´età media è di 53 anni. Alla Camera l´età media degli eletti è di 50 anni e al Senato di 54 (senza i senatori a vita): una spanna meglio del Congresso americano dove, ricorda Leonardi, dal 1996 l´età media degli eletti è di 51 anni e al Senato di 58. In questo orizzonte, si dimentica sempre (colpevolmente, ottusamente) la rivoluzione della Lega. Il più "antico" partito del Parlamento italiano è la forza politica che, nell´ultimo decennio, ha governato un quarto del Paese creando, come ha osservato Andrea Romano, una classe dirigente «giovane e competente». Il 77 per cento degli eletti in Parlamento del Carroccio ha un´età che oscilla tra i 29 e i 49 anni (fonte, la voce.info) e la gran parte dei duecento sindaci leghisti sono quarantenni. I casi di Federico Bricolo (41 anni), già eletto nel 2001 (a 34), o dell´ex assessore del Veneto Francesca Martini (46 anni, già eletta alla Camera nel 2001 a 39) o di Matteo Bragantini (32) non sono eccezioni nel gruppo parlamentare più giovane della legislatura, età media 44 anni. È una classe dirigente cresciuta all´ombra della vecchia guardia padana, secessionista e folklorica, ma oggi pragmatica custode delle attese e le ambizioni di un elettorato che conosce come la sua famiglia e di un territorio che abita come la propria casa. È un´élite consapevole che debba essere la Lega «il motore riformatore del governo».
Silvio Berlusconi, si sa, non ha bisogno di una classe dirigente. Basta a se stesso. Come ha scritto Alberto Asor Rosa su questo giornale, il nostro carismatico premier «è un grande distruttore di élite: dove lui passa, non c´è straccio di classe dirigente che resista». Si sente Napoleone III o forse - meglio - Luigi XIV. Per governare gli è sufficiente un Richelieu (Gianni Letta, 73 anni), un Colbert (Tremonti) e, per antica abitudine, un avvocato (Niccolò Ghedini, 49). Per il resto, il sovrano si circonda di cortigiani sorridenti, fantaccini ostinati, belle e giovani signore e di un corteo di «vogatori, cruciferi, flabellieri, turiferari, toreadori», intercambiabili e ininfluenti come un Daniele Capezzone (36 anni). Da questo punto di vista, le rogne di un ricambio generazionale sono tutte allora del Partito Democratico, partito nuovo che si lascia alla spalle il suo solo leader vincente (Romano Prodi, 69 anni). Il PD, attor giovane del sistema politico italiano, dovrebbe essere più sensibile a liberarsi dell´autarchia generazionale e, a parole, è così.
Altri sono i fatti. Tra gli eletti del Pd gli under 40 (dunque, i giovani autentici) sono appena il 13 per cento e, se si allarga la forbice ai 49 anni, si arriva soltanto al 43 per cento (34 per cento in meno rispetto alla Lega, il partito - ripeto - più «antico»). Un risultato assai modesto, anche se il PD è riuscito ad abbassare in questa legislatura la media dei suoi eletti da 54 a 49 anni, un anno in meno del Partito della Libertà (50). Se poi si guarda ai criteri di selezione o alla qualità di questa presenza giovanile, la luna diventa nera. Al contrario dei volti nuovi della Lega, non si scorge nessun radicamento nel territorio, nessun legame con la società. Paiono decisive cooptazione, fedeltà senza discussione, buona presenza mediatica.
L´avventura politica di Marianna Madia ne è il prototipo più esplicito. Ventotto anni, scelta addirittura come capolista a Roma, presentata come «economista» tra le perplessità degli economisti, avventurosamente si presentò così: «Metto al servizio del Paese la mia incompetenza». Merito, competizione e senso di responsabilità non orientano i comportamenti e le scelte di chi governa il Partito Democratico né sollecitano quei giovani che chiedono di governarlo o almeno di contare di più, di avere più spazio e potere. Chi, con la giovane età, una competenza può vantarla come Irene Tinagli (34 anni, ricercatrice presso la Carnegie Mellon University di Pittsburgh) se ne va già disillusa («Ero stata contattata per le mie competenze tecniche, in un anno di PD non sono stata consultata nemmeno per un parere»). Nella convinzione che l´azione politica si svolga tutta all´interno dello spazio mediale, ha nel PD più visibilità un demi-monde mediatico, blogger come Luca Sofri (44 anni), Diego Bianchi (38), Mario Adinolfi (37). Competenze? Pochine. Luca Sofri lo ha ammesso con onestà durante i lavori di una direzione (è tra le venti personalità indicate da Walter Veltroni). Sofri disse a brutto muso: «Sono qui a discutere come affrontare il secondo decennio del Duemila le stesse persone che non hanno saputo affrontare il primo e che erano qui nel millennio precedente» per poi concludere: «. Non pretendo di spiegare a persone molto più esperte e competenti di me quali contenuti dare al presente e al futuro del Partito Democratico. Non sto parlando di contenuti e non sarei all´altezza di discussioni molto approfondite ed elaborate».
Chapeau!
Ho l´impressione che, in assenza di competenze, i giovani che vogliono fare del PD, come scrivono nel loro blog (Uccidere il padre), «un partito moderno, democratico, laico e di sinistra» (e capirai che puntuta e illuminante freschezza), chiedono soltanto di togliersi dai margini, di farsi benedire e riconoscere sventolando appartenenza. È l´accorta pulsione, temo, che può spiegare la rimozione in quel partito di ogni conflitto politico per mano dei più giovani.
È il quarto e ultimo argomento: se si guardano i numeri, la politica italiana non è priva di giovani. Anzi, è giovane. Il suo deficit è un altro.
Se si guarda al PD, è ossessionata dall´obbedienza, disinteressata alle competenze spendibili liberamente. È dominata dalla prudente ragione del primum vivere che orienta da sempre i maturi di ogni partito e ora anche gli acerbi dell´ultimo partito nato. E´ una politica che non conosce il conflitto.
Il conflitto vero sulle questioni reali (non le cerimonie mediatiche) è, al contrario, sempre salutare e necessario se un corpo sociale, qualche che sia, non vuole sclerotizzarsi e conservare vitalità e dinamismo. E´ il conflitto il grande assente nel parolaio del discorso politico giovanilistico. Dove comme il faut si fa un gran parlare di Barack Obama (chi sarà il nostro Obama? dove troveremo il nostro Obama?).
Si dimentica che il nuovo presidente americano ha sconfitto in campo aperto, al termine di una lunga e dura battaglia, Stato per Stato, elettore per elettore, due micidiali clan politici (Bush e Clinton) che hanno governato gli Stati Uniti negli ultimi venti anni. Lo ha fatto in splendida solitudine ché, in avvio, ha dovuto fare a meno anche dell´appoggio della macchina elettorale afroamericana di Al Sharpton e Jesse Jackson che lo guardavano con freddezza. Ce l´ha fatta non perché è su Facebook (anche), ma perché (innanzitutto) ha un´idea della natura della crisi degli Stati Uniti e un programma per affrontarla. È apparso autorevole, credibile, responsabile, capace di stringere forti legami sociali, di radicarsi nel Paese e tra la sua gente perché la sua intelligenza delle cose è maturata a contatto con la realtà in cui vive e si muove un popolo in carne e ossa e non nel mondo frammentato dell´immagine, dei consumi, delle mode, dello spettacolo dove abitano soltanto figurine di cartone.
Se prendere atto delle metamorfosi non significa condividerle, si può dire - e non è una provocazione - che la declinazione della politica di Obama ha più a che fare con la giovane classe dirigente della Lega che non con i giovani leoni senza denti del Partito Democratico. Converrà allora che quei giovani si diano da fare. Riscoprano il conflitto. Comincino a pretendere regole certe per le primarie, come propone da tempo Tito Boeri. Pretendano il ritorno al voto di preferenza. Esigano che l´età di elettorato attivo e passivo coincida, come in Germania, Svezia, Spagna. Diano battaglia. Soltanto con un conflitto aperto di ideali, progetti, analisi, competenze, soltanto con un conflitto leale nella raccolta del consenso, quindi nella misura di un concreto radicamento sociale, si potrà coltivare la speranza di un nuovo riformismo, la convinzione di potercela fare a cambiare l´Italia, a fermarne il declino e la deriva autoritaria. Altra ambizione non può esserci e, se c´è, non è soltanto mediocre. È perdente e, peggio, noiosa come un´impotente lagna.
Repubblica 24.11.08
L’onda anomala del professor Jones così in classe si costruisce il nazismo
di Curzio Maltese
In concorso lo sconvolgente film tedesco "Die welle" tratto da una storia vera L’esperimento di un insegnante con gli studenti: la creazione di una dittatura
All´uscita in Germania qualche mese fa scatenò un fiume di polemiche e divise l´opinione pubblica
C´è chi lo ha definito il più importante film degli ultimi anni perché spiega il fascino del totalitarismo
TORINO La trama è fedelissima al fatto reale, l´esperimento ideato dal professor Ron Jones nel liceo Cubberley di Palo Alto, California, nel 1967. Lo scopo era di capire come si diventa nazisti. «La domanda degli studenti è stata: come ha potuto il popolo tedesco tollerare, anzi aderire in massa al totalitarismo, accettare i campi di sterminio, obbedire ciecamente a Hitler?» scrive Jones nel suo diario.
La lezione di storia naturale si rivela inadeguata. Gli studenti prendono un´aria annoiata, del genere: «Ok, abbiamo capito, oggi da noi non potrebbe succedere». Il professore allora propone un esperimento. Per qualche giorno i ragazzi dovranno sottomettersi alla sua autorità, chiamarlo «signor professore» e seguire le lezioni con la testa dritta e il petto all´infuori. La risposta degli studenti è dapprima divertita, poi entusiasta. Sono loro stessi a proporre i sistemi per rendere compatto e disciplinato il gruppo. Si danno un nome, l´Onda con un logo e un saluto: una mano tesa all´altezza del cuore.
Quindi una divisa, jeans e camicia bianca, per diventare tutti uguali. Si alzano in piedi all´ingresso del signor professore, compiono esercizi ginnici, urlano slogan ad alta voce: «La forza è nella comunità». Il professor Jones è stupito del suo successo e anche affascinato. Confida alla moglie: «In un certo senso, ho scoperto un metodo di insegnamento che funziona. I ragazzi imparano in fretta e alla grande. E´ assurdo, ma prima non avevano neppure posti fissi in classe, e ora che non c´è più libertà stanno seduti ai loro posti, rispondo a tutte le domande e si aiutano a vicenda». Dopo i primi giorni, compaiono alcuni effetti collaterali. Gli studenti isolano e denunciano i compagni che esprimono dubbi. Gli alunni delle altre classi si dividono, alcuni chiedono di far parte dell´Onda, altri sono disgustati e reclamano la fine dell´esperimento.
Scoppiano le prime violenze. Un mattino Jones viene affiancato da un suo studente che si qualifica come guardia del corpo. Capisce che l´esperimento gli è completamente sfuggito di mano, ha creato un nucleo perfetto di nazisti, ma è troppo tardi. Si corre verso l´epilogo, dal gioco al massacro.
La storia vera racchiusa nel diario di Ron Jones, il bel libro di Morton Ruhe ("Die Welle") divenuto un classico della letteratura per ragazzi, e il notevole film di Dennis Gansel presentato a Torino, hanno in comune una doppia lettura. Una antropologica, il bisogno primordiale della scimmia umana di sottoporsi al comando di un capo. Un bisogno tanto più emergente nell´età della crisi, nell´adolescenza in cui non si sa chi si è e quindi si può diventare qualsiasi cosa. L´altra lettura è l´attualità. A metà dell´esperimento il professore il protagonista del film, ambientato nella Germania di oggi, scrive sulla lavagna, sotto dettatura degli studenti, l´elenco delle cause che possono portare a un regime. Nell´ordine: la globalizzazione, la crisi economica, la disoccupazione, l´aumento dell´ingiustizia sociale, la manipolazione dei mezzi di informazione, la delusione della politica democratica, il ritorno del nazionalismo e la xenofobia. Sono le sementi che negli anni Venti hanno fecondato il terreno del fascismo e del nazismo in Europa. Sono gli stessi problemi, qui e ora.
All´uscita in Germania, nella primavera scorsa, Die Welle ha scatenato un prevedibile fiume di polemiche. "Der Spiegel" l´ha definito uno dei film più importanti degli ultimi anni, perché racconta l´eterno fascino del totalitarismo. Un fascino reale e in definitiva anche semplice da capire, quasi naturale, per quanto negato da un eccesso di politicamente corretto. "Die Welt" ha opposto l´opinione che i meccanismi totalitari, così inesorabili sulla pellicola, troverebbero oggi enormi resistenze nella realtà. Una parte della stampa ha mosso un´obiezione etica: i giovani neonazisti dell´Onda, nel loro solidarismo, possono risultare al pubblico delle sale assai più simpatici e normali degli studenti anarcoidi degli altri corsi.
L´obiezione sarebbe giustificata, se non fosse che nella realtà funziona quasi sempre così. Fra molte brave persone del Nord, per rimanere dalle nostre parti, i protagonisti delle ronde padane risultano assai più vicini degli intellettualoidi difensori di Rom e immigrati. Ron Jones, la cui vita è stata sconvolta per sempre dal gioco dell´Onda, ha scritto: «L´esperimento ha funzionato perché molti di quei ragazzi erano smarriti, non avevano una famiglia, non avevano una comunità, non avevano un senso di appartenenza. E a un certo punto è arrivato qualcuno a dirgli: io posso darvi tutto questo».
Repubblica Firenze 24.11.08
L’affondo dei comitati
Asor Rosa: "Quante leggerezze a Castello"
di M.V.
Da Monticchiello a Castello. «Da quello che se ne sa emerge un quadro di leggerezze e di scarsa attenzione alla correttezza delle procedure», dice Alberto Asor Rosa, il professore che guida la Rete dei comitati per la difesa del territorio, associazione adesso costituita davanti al notaio. E aggiunge: «Abbiamo chiesto più volte di ripensare gli orientamenti urbanistici fiorentini, da Castello alla tramvia e all´Alta velocità: speriamo che le elezioni possano essere l´occasione giusta». E´ la sfida della Rete dei comitati a Firenze e a Palazzo Vecchio. Ma anche a tutti gli altri Comuni toscani dove la Rete si batte contro qualche "ecomostro" o qualsivoglia offesa all´ambiente. Una sfida che segna la prossima strategia elettorale.
Non una lista autonoma della Rete, in vista delle amministrative e delle europee di primavera. «Anche se a livello locale si potranno appoggiare liste che nascano dal basso», dice Ornella De Zordo di «Unaltracittà». Piuttosto una piattaforma di richieste da avanzare alle forze politiche per poi vedere quali saranno, se ci saranno, i partiti disposti a fare proprie le rivendicazioni della Rete, che oggi conta 188 comitati e associazioni. E per decidere di conseguenza chi appoggiare o meno. Una piattaforma che l´assemblea dei comitati riunita ieri all´Affratellamento ha approvato e che ribadisce il no al Corridoio tirrenico, alla Due Mari, all´Alta velocità fiorentina, alle «modalità di realizzazione delle tre linee di tramvia», alla «sosta mercificata della Firenze Parcheggi», alle terze corsie autostradali e allo sviluppo aeroportuale incontrollato.
«Dalle risposte che avremo orienteremo il nostro comportamento», spiega Asor Rosa. Ricordando però, davanti ad un centinaio di rappresentanti dei comitati provenienti da tutta la Toscana e oltre, «che fino ad oggi le nostre denunce sono rimaste senza risposta». Anzi, di fronte al no all´autostrada tirrenica, aggiunge Asor Rosa, «Matteoli ha incontrato il plauso dell´assessore regionale Riccardo Conti, prefigurando così un governo bipartisan».
Quali saranno le forze che accetteranno il dialogo con i comitati di Asor Rosa? Per la prima volta nella platea dei Comitati compare una rappresentanza degli «Amici di Grillo». Matrimoni elettorali in vista? «Vediamo, è nostra intenzione presentare una lista alle prossime elezioni, vogliamo capire se possono essere convergenze sufficienti con i comitati» dice Andrea Vannini. La stessa De Zordo fa capire di voler osservare il percorso avviato dalla Rete dei comitati prima di prendere decisioni sul futuro elettorale di «Unaltracittà».
C´è chi come Cinzia Mammolotti dei comitati dell´Amiata vorrebbe qualcosa di più: «Perché escludere di proporci come forza politica autonoma?», domanda. Ma la maggioranza dei comitati aderenti alla Rete, oltre allo stesso portavoce Asor Rosa, ritengono che la via della piattaforma programmatica e della sfida alle forze politiche sia da preferire. «Un ennesimo partito dell´1 per cento non serve», dice del resto Gianni Mori della Valdichiana. Nel frattempo i Comitati fiorentini chiedono il blocco del Piano strutturale e di tutti i grandi interventi urbanistici di Firenze: «Visto quello che sta accadendo la miglior cosa è una moratoria del progetto Castello e del Piano strutturale», dice a nome dei Comitati fiorentini Mario Bencivenni. Anzi, visto che ci sono i Comitati chiedono anche le «dimissioni immediate» degli assessori Graziano Cioni e Gianni Biagi, avvisati per corruzione.
Corriere della Sera 24.11.08
Salute. La psichiatra Dalla Ragione: malati anche oltre i 30 anni
L'anoressia è dimezzata Il rischio è l'eccesso di cibo
Spunta il Dai, disturbo da alimentazione incontrollata
La magrezza patologica fa meno paura agli specialisti. «È l'obesità infantile la nuova emergenza»
di Alessandra Arachi
ROMA — L'anoressia? Si è dimezzata negli ultimi dieci anni. In percentuale, per carità: rappresentava il 60% dei disturbi alimentari è arrivata al 30. Ma di certo, per la prima volta, ha perso il suo primato tra le patologie del corpo. E adesso? Adesso che negli ultimi dieci anni i disturbi alimentari sono passati da due a tre milioni, è la bulimia a dominare. E in particolare è esploso il "Dai", nuovo acronimo per una piaga che sta devastando la popolazione: disturbo di alimentazione incontrollata.
Dai, ovvero: abbuffate senza controllo. E senza vomito che segue. Anche 30 mila calorie buttate giù in meno di mezz'ora. Come otto panettoni, tutti insieme. Il nuovo disturbo non è esclusivo delle donne, come lo è l'anoressia che colpisce in un rapporto di nove a uno. Queste abbuffate, invece, colpiscono un uomo ogni tre donne.
Di queste abbuffate patologiche parlerà domani ad un convegno a Genova Laura Dalla Ragione, psichiatra, responsabile per il ministero della Gioventù (e già per quello della Salute) per la sorveglianza e la mappatura dei centri di assistenza in Italia dei disturbi alimentari.
«Per noi psichiatri, ormai, sul piano epidemiologico l'anoressia è sicuramente il disturbo che ci preoccupa di meno», dice Laura Dalla Ragione. E spiega: «Mentre fino a dieci anni fa i disturbi alimentari colpivano principalmente gli adolescenti, ora questo nuovo disturbo di alimentazione incontrollata sposta di molto l'età oltre i trent'anni».
«Arte e coscienza nel corpo delle donne»: a Genova da oggi e fino a sabato nel Festival dell'eccellenza al femminile (curato da Consuelo Barilari) saranno donne eccellenti (ospite d'onore sarà il premio Nobel Rita Levi Montalcini) a parlare delle donne e del corpo, in tutte le sfaccettature( www.eccellenzalfemminile. it). A partire dai disturbi che devastano il corpo: la fotografa Vanessa Beecroft farà vedere come con la sua arte dell'obiettivo è riuscita lei ad andare oltre i suoi problemi alimentari.
«Problemi che fino a poco tempo fa avevano davvero tutta un'altra dinamica», aggiunge Laura dalla Ragione. Spiegando: «Dobbiamo dire che è in corso una vera e propria mutazione genetica di questi disturbi. Il fatto è che viviamo in una società multicompulsiva. Ed è per questo che la magrezza patologica ci fa sempre meno paura, a dispetto di un'obesità che sta dilagando, anche tra i bambini. L'Italia ha superato la Grecia e la Spagna e oggi è diventato il primo Paese in Europa per il dramma dell'obesità infantile (il Meridione batte il Settentrione in questa classifica nostrana)».
E' stato calcolato che circa il 30% degli obesi in Italia sono tali proprio per via del disturbo di alimentazione incontrollata. «E' un disturbo nuovo questo che in inglese viene chiamato Binge eating disorder, perché è da poco che è stato distinto dalla bulimia », aggiunge Laura Dalla Ragione che è anche psicoterapeuta e che a Palazzo Francisci a Todi ha fondato il centro pubblico dei disturbi alimentari collegato con una Asl dell'Umbria.
Spiega la psichiatra Dalla Ragione: «La bulimia è una malattia che viene in seguito al disturbo anoressico, la maggior parte delle volte. Ed è per questo che gli attacchi bulimici vengono poi seguiti da violenti attacchi di vomito: c'è, comunque, sempre un'attenzione al peso del corpo. Gli attacchi di abbuffate compulsive invece no, sono un disturbo autonomo. Diverso. E non vengono seguiti dal vomito. Non è il peso il problema che è alla base di questo disturbo. Una persona in preda ad un'abbuffata compulsiva è in grado di ingurgitare da 3 a 30 mila calorie in venti minuti, circa. E tutto questo senza nessuna possibilità di controllo».
Alessandra Arachi Ieri & oggi
Erede al trono La principessa Vittoria di Svezia, 31 anni, divenne anoressica nel '97 per una dieta (a sinistra). Guarì con una cura negli Usa. Oggi (a destra) è in prima linea contro i disordini alimentari
Corriere della Sera 24.11.08
La Russia di Kerenskij le delusioni di Mussolini
di Sergio Romano
Non senza un certo stupore, ho avuto modo di imbattermi nella seguente frase, contenuta in un articolo scritto da Benito Mussolini sul Popolo d'Italia del 5 luglio 1917: «Io saluto con ammirazione devota e commossa le bandiere vermiglie che dopo aver sventolato una prima volta nelle strade e nelle piazze di Pietrogrado in un pallido nevoso mattino di primavera sono diventate oggi l'insegna dei reggimenti che il 1˚luglio sono andati all'assalto delle linee austro-tedesche in Galizia e le hanno espugnate». Le domando: Benito Mussolini, chi era costui?
Rodolfo Ranzani
Mussolini scrisse sul Popolo d'Italia ciò che tutti i governi alleati proclamarono nelle loro dichiarazioni e nei loro comunicati durante le giornate cruciali tra la fine di giugno e i primi di luglio. Per spiegare le ragioni di quell'entusiasmo devo tuttavia fare un passo indietro e ricordare ai lettori ciò che era accaduto in Russia nei mesi precedenti.
La crisi dell'impero zarista scoppiò nella seconda settimana di marzo (la fine di febbraio secondo il calendario giuliano). Quando gli operai scioperarono e la folla di Pietrogrado scese nelle piazze per protestare contro la guerra e la fame, il governo fece ciò che era solito fare in tali circostanze: dette ordine all'esercito di sciogliere con la forza le manifestazioni e i comizi. Ma le truppe si ammutinarono. Un decreto imperiale ordinò la dissoluzione della Duma, ma i deputati disubbidirono e restarono ai loro posti. Fu costituito un nuovo governo presieduto dal principe Lvov e composto dai rappresentanti dei maggiori partiti fra cui un socialista, Aleksandr Kerenskij. Il 15 marzo lo zar Nicola II abdicò a favore del fratello Michele, ma anche questi, il giorno dopo, rinunciò al trono. Bastò una settimana perché i Romanov (una dinastia che nel 1913 aveva celebrato il trecentesimo anniversario del suo avvento al trono di Russia) uscissero di scena.
In attesa delle elezioni per un'Assemblea costituente, il governo provvisorio prese alcune decisioni rivoluzionarie. Promise di garantire il rispetto delle libertà civili e l'eguaglianza dei cittadini, senza distinzioni di razza o confessione religiosa. Promise l'indipendenza alla Finlandia nell'ambito di una Federazione russa. Proclamò la completa indipendenza della Polonia. Dette l'autonomia all'Estonia. Annunciò un programma di riforme sociali, la confisca delle proprietà terriere appartenenti al demanio imperiale e alla Chiesa, la distribuzione della terra ai contadini. E decise infine di proseguire la guerra per cacciare gli austriaci e i tedeschi dalle terre russe che gli Imperi centrali avevano occupato nei mesi precedenti. Voluta dal socialista Kerenskij e dal generale Aleksej Brusilov, l'offensiva cominciò alla metà di giugno e dette nella sua fase iniziale buoni risultati. Gli Alleati occidentali salutarono questi eventi con grande soddisfazione. Credettero per alcune settimane che la rivoluzione di marzo li avrebbe finalmente sbarazzati dell'ingombrante presenza nel loro campo di un regime autocratico e reazionario che incrinava la loro credibilità democratica. E sperarono soprattutto che i russi, finalmente liberi, avrebbero combattuto il nemico comune con lo stesso vigore con cui i francesi avevano sconfitto a Valmy nel 1792 le forze coalizzate dell'Europa monarchica e conservatrice. A Mussolini, in particolare, dovette piacere che l'ispiratore di questa politica a Pietrogrado fosse il socialista Kerenskij.
Le speranze vennero rapidamente deluse. Gli ardori dell'offensiva si spensero in pochi giorni e le truppe cominciarono ad ammutinarsi o, peggio, a uccidere i loro ufficiali. In patria, dopo essere diventato presidente del Consiglio, Kerenskij dovette combattere contro molti nemici. Il Soviet di Pietrogrado, diretto da Lev Trockij, stava estendendo il suo potere sulla capitale. Lenin e i suoi compagni, ritornati dall'esilio grazie all'aiuto dei tedeschi, aspettavano l'occasione per dare al governo una spallata rivoluzionaria. Il comandante in capo delle forze armate, Lavr Kornilov, cercava di impadronirsi della capitale con le sue truppe. Le spinte secessioniste delle minoranze nazionali minacciavano l'unità dello Stato. Molti ministri dissentivano dalla linea socialista che Kerenskij aveva impresso al governo. La protesta sociale stava contagiando l'intero Paese. Fu la somma di queste difficoltà che aprì la strada ai bolscevichi. Quando le guardie rosse conquistarono il palazzo d'Inverno fu chiaro che la rivoluzione di primavera (quella che piaceva a Mussolini) era stata soltanto il preludio della rivoluzione d'Ottobre.