l’Unità 25.11.08
La Cgil: troppo poco, restituite il fiscal drag. Sciopero confermato
di Felicia Masocco«Esposizione generica e insufficiente». Così Guglielmo Epifani sul pacchetto anticrisi preparato dal governo. «Allo stato lo sciopero è confermato». Il giudizio negativo non trova riscontri in Cisl e Uil
«Il drenaggio fiscale, quei 350 euro pagati in più da lavoratori e pensionati, va restituito con le tredicesime...», Guglielmo Epifani neanche finisce la frase che viene interrotto da Silvio Berlusconi, «Non l’ha restituito neanche Prodi» dice il premier. «Per questo proclamammo lo sciopero generale» è la risposta del leader della Cgil. Solo che allora, agli inizi di quest’anno, la proclamazione fu unitaria. Il 12 dicembre la Cgil sciopererà da sola. «Allo stato sono confermate tutte le ragioni della mobilitazione», dichiara Epifani al termine dell’incontro. «Allo stato» è tutto nelle mani del governo, della sua capacità di accogliere - come ha detto il premier - «i consigli di tutti». A partire proprio dalle tredicesime, che non solo la Cgil, ma anche Cisl e Uil vogliono più pesanti con l’uso, però, della detassazione. Unisce poi il sindacato - ma anche Confindustria- la necessità di ammortizzatori sociali più forti per chi perde il lavoro.
Il vertice non ha dato e risposte attese, il giudizio della Cgil è negativo, la delegazione ha lasciato Palazzo Chigi insoddisfatta perché - come ha spiegato Agostino Megale che accompagnava Epifani - «si dovrebbe fare di più per sostenere i redditi da lavoro dipendente e pensioni, e per le tutele per giovani e precari». «È la prima emergenza», ha detto Epifani al tavolo - tantissimi stanno andando a casa». Ma l’esposizione del governo è stata «generica e insufficiente». «Quante sono le risorse? Come sono ripartite tra lavoro e impresa? Ci vuole di più, la crisi è inedita», ha sostenuto Epifani. La detassazione degli straordinari «va sospesa, in questa fase non serve». Opinione condivisa dalla presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia che punta ad alzare da 30 a 35mila euro il tetto di reddito per la detassazione dei premi di produttività. E su questo converge la Cisl. Anche per Raffaele Bonanni, infatti, meglio alzare la soglia di reddito, «anche sospendendo la detassazione degli straordinari».
Il giudizio negativo della Cgil non trova tuttavia riscontri presso le altre due confederazioni. «È stato un incontro interessante», per Bonanni, «vedremo poi venerdì la quantità delle risorse e la qualità delle disposizioni». «Bisogna dare subito un segnale positivo». E un intervento sulle tredicesime è la misura «più immediata». Dalla Cisl, infine, un appello alla «classe dirigente»: «Deve dimostrare senso di responsabilità e unità». Lo sciopero della Cgil è destinato a pesare sui rapporti unitari. L’impostazione data al decreto sembra convincere anche la Uil, salvo «verifiche tecniche». «Condivido l’idea di sostenere la domanda interna - ha detto Luigi Angeletti - e l’idea di incentivare le famiglie con figli, ma non può essere la dichiarazione dei redditi a stabilire chi è povero e dunque chi ne ha diritto».
Corriere della Sera 25.11.08
Il fronte della Cgil con Fiom: lo sciopero generale resta
di Enrico MarroEpifani: le misure non bastano, il governo è fermo
Il premier stringe la mano al leader della confederazione e chiude il caso del vertice separato
ROMA — Visto che le misure annunciate ieri sera dal governo per affrontare la crisi sono le stesse che si sono lette in questi giorni sui quotidiani e visto che su di esse la Cgil aveva già espresso il suo giudizio negativo, nessuna sorpresa quando il segretario Guglielmo Epifani ha bocciato il pacchetto Berlusconi- Tremonti: «È necessario fare di più». Scontata, quindi, la conferma dello sciopero generale del 12 dicembre: «Le ragioni della mobilitazione restano tutte». A nulla sono valsi i contatti che ci sono stati, prima del vertice, tra lo stesso leader e il sottosegretario alla presidenza Gianni Letta. E nel vuoto è caduto il «caloroso invito» lanciato ancora ieri pomeriggio dal ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, alla Cgil affinché riflettesse «su uno sciopero isolato», considerando quello che il governo propone «senza pregiudizi ».
Alla Cgil la tessera per i poveri non è mai piaciuta, per ragioni etico-politiche (assomiglia, secondo Epifani, al capitalismo compassionevole targato Bush) ancor prima che economiche. Per il resto, non ci sono i 350 euro di restituzione del fiscal drag che la Cgil avrebbe voluto con le tredicesime, non viene affrontata «l'emergenza precari» e gli interventi sembrano squilibrati a favore delle imprese, conclude il leader della Cgil.
Concetti che oggi saranno ripetuti in una conferenza stampa dallo stesso Epifani alla quale parteciperà anche il segretario della Fiom, Gianni Rinaldini.
Era già previsto che i due fossero insieme, spiegano alla Cgil, perché l'appuntamento era stato pensato nei giorni scorsi per parlare anche della crisi industriale. Ma è chiaro che il leader dei metalmeccanici — che ieri, ancor prima del vertice di Palazzo Chigi tra governo e parti sociali, aveva definito «insensate e beffarde» le dichiarazioni del presidente del Consiglio sul fatto che gli italiani devono avere fiducia — darà man forte a Epifani a sostegno dello sciopero generale.
Il sindacato, dunque, continua a restare diviso. Cisl, Uil e Ugl, che tengono aperto il dialogo col governo, davano per scontata la conferma dello sciopero da parte della Cgil. Ritengono che, al punto in cui sono gli equilibri interni a Corso Italia — con la segreteria Epifani puntellata dall'inedita alleanza tra la stessa Fiom e la Funzione pubblica di Carlo Podda, entrambe in prima fila sulla linea dello scontro con Berlusconi — la Cgil non potesse sottrarsi alla piazza. Ma i leader di Cisl e Uil, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, sono anche convinti che la Cgil dovrà pur porsi il problema di non restarci per altri 4 anni e mezzo in piazza. Tutti i presenti hanno quindi notato che, al termine del vertice, Epifani ha parlottato a lungo e cordialmente col ministro dell'Economia, Giulio Tremonti: di come potenziare gli ammortizzatori sociali per i precari e non solo. E quando Berlusconi ha stretto la mano a tutti i leader sindacali, a quello della Cgil avrebbe detto di essere dispiaciuto per l'incidente del vertice segreto di Palazzo Grazioli (c'erano Bonanni e Angeletti, ma non Epifani). Viene infine guardato con attenzione il segnale che arriva dal tavolo dell'artigianato dove non è escluso che la Cgil possa firmare la pre-intesa sulla riforma del modello contrattuale. Sarebbe l'inizio della ricucitura con Cisl e Uil? Troppo presto per dirlo.
l’Unità 25.11.08
Gianni De Gennaro Oggi l’udienza preliminare per l’ex numero 1 della polizia e il questore
Ipotesi di reato «Istigato alla falsa testimonianza durante il processo per la Diaz e il G8»
E venne il giorno del «Capo»
di Claudia FusaniI pm Zucca e Cardona Albini chiedono il giudizio per il prefetto, il questore Colucci e Mortola. «De Gennaro ha istigato e indotto il sottoposto a deporre il falso nel processo Diaz nell’udienza del 3 maggio 2007».
Il Capo che «fa praticamente marcia indietro nelle sue dichiarazioni» e un prefetto, a lui sottoposto, che deve «rivedere il discorso per aiutare il Capo e i colleghi». Verbali di interrogatorio segreti che passano da un testimone all’altro prima delle deposizioni in aula per «concordare» e «uniformare» il senso delle dichiarazioni. Indagati che vengono informati di essere intercettati. Sempre il Capo raccontato mentre ringrazia e gioisce perché la pubblica accusa «è stata messa alla sbarra».
Di più: è stata «sbaragliata». Vengono i brividi a leggere le intercettazioni che sono il cuore delle 50 pagine - ma l’indagine ne conta 900 - con cui i pm di Genova Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini chiedono il rinvio a giudizio dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, del questore di Genova ai tempi del G8, e ora prefetto, Francesco Colucci e di Spartaco Mortola, nel luglio 2001 a guida della Digos. Per tutti l’ipotesi di reato è falsa testimonianza. Come raccontano decine e decine di intercettazioni, avrebbero aggiustato le testimonianze per difendere se stessi e la polizia finita sotto processo per i fatti di Genova. Pesa l’aggravante di essere tutti pubblici ufficiali. Di più, i custodi della sicurezza e dell’ordine pubblico.
Ecco, al di là di quello che deciderà oggi il gup Silvia Carpanini, non c’è dubbio che dalla lettura di quelle intercettazioni la fiducia nell’istituzione polizia risulta indebolita. E questo mentre sono ancora forti le polemiche sulla sentenza che due settimane fa ha assolto i vertici del Dipartimento della pubblica sicurezza che la sera del 21 luglio 2001 organizzarono la perquisizione-mattanza nella scuola Diaz.
L’inchiesta nasce nel 2007 mentre era in corso il dibattimento per la Diaz e dopo che, all’improvviso, spariscono dall’ufficio corpo di reato le due bottiglie molotov che avevano giustificato, secondo la questura, l’irruzione nella scuola e che poi risultarono false, cioè trovate in tutt’altra parte della città. L’accusa non ci sta, non accetta la versione ufficiale «distrutte per sbaglio». E allaccia una serie di telefoni. Due soprattutto: l’utenza del prefetto Colucci, e di Spartaco Mortola. Nessuno dei telefoni del Capo della polizia è finito sotto controllo.
Secondo l’accusa Colucci «ritratta», tra indagini (fine 2001) e deposizione in aula (3 maggio 2007), la sua testimonianza in almeno cinque punti. Dapprima sostiene di aver informato il Capo della polizia, tanto da aver avvisato il suo portavoce a Genova Roberto Sgalla, sull’operazione Diaz rispettando così la catena di comando dell’ordine pubblico che per il G8 coinvolgeva direttamente il Dipartimento della pubblica sicurezza. In aula, davanti ai pm, la comunicazione di quella sera diventa invece «generica», in linea con la versione di De Gennaro. Colucci direbbe il falso anche quando all’improvviso indica in un vicequestore presente a Genova il responsabile delle operazioni: un funzionario già fuori dall’indagine e il cui coinvolgimento «mette in difficoltà l’accusa».
Le ritrattazioni di Colucci nascono, secondo l’accusa, dalle «pressioni» esercitate dal Capo della polizia. Ecco cosa scrivono i pm: «La posizione di supremazia del Capo, unità alla personalità del prefetto a confronto con il ruolo e la personalità di Colucci, rimosso dall’incarico di questore dopo i fatti di Genova e ora (2007 ndr) nella prospettiva di diventare finalmente prefetto, fanno intendere in quale modo i due potessero trovare la consonanza in parola».
l’Unità 25.11.08
Treviso, spina staccata al neonato
il vescovo: no ad accanimenti
di Toni Fontana«Professionalità e sensibilità». Mentre infuriano le polemiche (Luca Volontè, Udc, ha parlato di «introduzione di una eugenetica soft») sulla vicenda del neonato con gravissime malformazioni ricoverato al reparto di Patologia neonatale di Treviso, cui i medici hanno sospeso i trattamenti, ritenendo che non vi erano speranze di salvezza, interviene il vescovo del capoluogo veneto, Andrea Bruno Mazzocato. Il prelato si schiera con la scelta compiuta dai sanitari: «Ogni vita umana - dice - è sacra e chiede di essere sostenuta con assoluto rispetto e con mezzi possibili, in ogni momento. Questo sostegno non deve però offendere la dignità della persona con accanimenti terapeutici inutili». Il vescovo non parla di eutanasia; nel suo intervento accenna alla «notizia riportata dai mezzi di comunicazione circa la prassi medica seguita nei confronti del neonato affetto da gravissime malformazioni morto a Ca’Foncello» e, dopo aver ricordato «i principi morali più volte espressi dalla Chiesa» si schiera contro «accanimenti terapeutici inutili, anche se tecnicamente possibili». Tra le righe il prelato ripropone le indicazioni del centro di bioetica dell’Università Cattolica di Roma che, nel 2006, diffuse le linee guida «per l’astensione dall’accanimento terapeutico nella pratica neonatoligica» schierandosi appunto per la sospensione di trattamenti inutili. A Treviso il procuratore capo Antonio Fojadelli fa notare che sul «testamento biologico non esiste ancora un quadro normativo certo e completo».
Su Eluana Englaro e i temi che riguardano il «trattamento di fine vita» interviene Famiglia Cristiana. L’editoriale del prossimo numero recita tra l’altro che «siamo di fronte al suicidio di un Parlamento, sempre più svilito, che abdica alle proprie responsabilità e si autosospende dalla sua funzione legislativa».
Berlusconi - dice il settimanale - «una legge non la vuole e se ne lava le mani, affidandosi ai giudici (almeno in questo caso!).. Veltroni «è l'eterno indeciso».
l’Unità 25.11.08
Emergenza Gaza Nella Striscia civili allo stremo. La denuncia delle organizzazioni umanitarie
Cisgiordania murata. La regione ridotta in tanti ghetti. Il mondo assiste impotente
Il dramma dei palestinesi assediati, divisi e senza Stato
di Unberto De GiovannangeliIl 29 novembre l’Onu ha indetto la Giornata mondiale di solidarietà con il popolo palestinese. L’Unità dà voce a un popolo senza diritti, raccontandone speranze e tragedie. Partendo dall’assedio di Gaza.
Una nazione senza Stato. Un popolo tradito dalle sue leadership, abbandonato dai «fratelli» arabi, assediato (a Gaza) e costretto a vivere nei tanti ghetti a cui è stata ridotta la Cisgiordania. È la Palestina oggi. Il dramma di un popolo si consuma nell’impotenza manifesta della comunità internazionale e in uno scontro di potere interno che rischia di trasformarsi in una devastante guerra civile. Il 29 novembre l’Onu celebra la giornata mondiale di solidarietà con il popolo palestinese. Solidarietà è anche mantenere viva l’attenzione su un dramma in atto. Il dramma degli «ingabbiati» di Gaza e dei «murati» della Cisgiordania.
LA GABBIA DI GAZA
È l’emergenza tra le emergenze. I pressanti inviti delle Nazioni Unite hanno spinto Israele a riaprire parzialmente la frontiera con la zona controllata da Hamas per permettere il passaggio dei beni di prima necessità. Di fronte all’aggravarsi della crisi umanitaria, il governo di Gerusalemme ha concordato il lasciapassare per un numero limitato di convogli. Dal 4 novembre, quando un’incursione di Tsahal nel territorio aveva provocato una ripresa degli attacchi di Hamas, è la seconda volta che le autorità israeliane hanno permesso la revoca del blocco. Una misura, però, giudicata troppo timida e quasi inutile dagli organismi che operano nella zona. Una quarantina di camion di alimenti, «non sono sufficienti», lamenta Christofer Gunness, portavoce dell’Agenzia Onu per i rifugiati della Palestina (Unrwa).
«Come animali in gabbia». Così si descrivono gli abitanti della Striscia di Gaza: senza corrente elettrica, senza scorte alimentari, senza latte per i propri figli. Voci da Gaza. Racconti disperati. Richieste di aiuto che non devono cadere nel vuoto. «Non ne possiamo più, mi sembra di essere un animale in gabbia», afferma Khalil Barakat, 50 anni, che vive nella colonia di Al Shati. «Ho paura per la vita di mio figlio, ha solo 11 mesi», riferisce Intizar, una giovane mamma, «siamo senza corrente elettrica e giro tutto il giorno per trovare del cibo per il mio bambino. Sono stata in alcuni negozi e non ho trovato nulla, tutto deserto». La donna racconta che è diventato impossibile trovare alcuni prodotti «come il latte, la carne, i pannolini...».
LA TESTIMONIANZA DI AMIRA
A Gaza è tornata anche Amira Hass, corrispondente del quotidiano israeliano «Haaretz» nei Territori. Amira aveva vissuto a Gaza negli anni Novanta. «In primo luogo mi ha colpito la miseria», dice la reporter. «Rispetto al passato - annota Amira Hass - la povertà mi fa impressione». «Le misure che aggravano le sofferenze della popolazione civile della Striscia di Gaza sono inaccettabili e devono cessare immediatamente», dichiara sottosegretario generale dell’Onu John Holmes.
GAZA O HAMASLAND?
Assediati da Israele, il milione e mezzo di palestinesi della Striscia fanno i conti con le conseguenze, disastrose, della resa dei conti armata tra Hamas e Al Fatah. È l’altra faccia della tragedia palestinese: quella di uno scontro politico-militare che non ha fine. Da Ramallah, parla il presidente dell’Anp, Mahmud Abbas (Abu Mazen). Il rais insiste sulla necessità di difendere la unità del popolo palestinese di fronte ai «golpisti di Gaza», cioè Hamas. Se costoro pensano di poter decidere per il popolo intero, esclama con foga, «si illudono,si illudono, si illudono». Dopo aver espugnato con la forza (nel giugno 2007) comandi centrali, commissariati e campi profughi essi vorrebbero ora «creare un regime separatista nella nostra amata Gaza» lamenta Abu Mazen.
«È lui il golpista, succube di Israele», ribatte Mahmud al Zahar, leader dei «duri» di Hamas.
l’Unità 25.11.08
Nelle sale tedesche «Anonyma» tratto dal diario dell’epoca d’una giornalista
Le violenze perpetrate dai soldati dell’Armata Rossa taciute e rimosse per 60 anni
1945, i due milioni di stupri che misero fine alla guerra
di Gherardo UgoliniUn gioco di veti incrociati ha coperto la tragedia di massa di cui, alla sconfitta, furono protagoniste in Prussia orientale le cittadine del Reich. Ora il film di Max Färberböck l’ha imposta all’attenzione di tutti.
BERLINO. Quante furono le donne tedesche violentate dai russi negli ultimi mesi di guerra? Secondo gli storici, se si considera l’intero territorio della Prussia orientale, la regione di confine dove l’Armata Russa sfondò già nel dicembre del 1944, le donne vittime di stupro furono circa 2 milioni, gran parte delle quali ammazzate direttamente dai soldati che le violentarono o morte per le conseguenze della violenza (spesso compiendo suicido). Un dramma collettivo dalle proporzioni mostruose, sul quale per decenni è caduto un muro di silenzio. Nella Ddr il tema è stato esorcizzato fino all’ultimo per ovvie ragioni di opportunità politica: non si poteva parlare dei soldati sovietici se non in termini apologetici di liberatori. Allusioni agli stupri di guerra erano ammesse ma solo sottolineando che si era trattato di pochi episodi isolati dovuti al cattivo comportamento di qualche soldato ubriaco che aveva disatteso le consegne delle autorità militari. Ed era d’obbligo ricordare che i tedeschi della Wehrmacht pochi mesi prima avevano violentato le russe in misura incomparabilmente superiore. Ma anche all’Ovest si è preferito per decenni far cadere il silenzio su quella tragedia, in parte per un senso di vergogna che coinvolge la biografia dell’intera nazione, in parte per un principio di «colpa collettiva» introiettato in misura più o meno consapevole da molti, e in parte anche per non danneggiare i rapporti politici con l’Urss e poi con la Russia.
Ora questa rimozione sembra essere finita. A riproporre la vicenda delle violenze dei russi sulle donne tedesche è arrivato un film uscito sugli schermi tedeschi a fine ottobre. Si intitola Anonyma. Eine Frau in Berlin e l’ha girato Max Färberböck basandosi sul diario di una giovane giornalista tedesca trovatasi a vivere a Berlino nelle settimane tra il 20 aprile e il 22 giugno del 1945. L’attrice Nina Hoss interpreta il ruolo della protagonista sullo sfondo degli ultimi giorni di guerra: l’assedio sovietico della capitale, la resistenza a oltranza ordinata dal Führer, l’arrivo dei carri armati dell’Armata Rossa fino alla capitolazione del Reich. La pellicola illustra la pena di sopravvivere in una città distrutta, la difficoltà di trovare cibo, la vita nascosta negli scantinati. Rievoca anche la grande paura che serpeggiava a Berlino nei confronti dei Russi, descritti dalla propaganda nazista come mostri crudeli e selvaggi. E racconta naturalmente anche degli stupri di massa compiuti dai soldati vincitori.
PERSONA O BOTTINO?
Finché la protagonista, che anche nel film non ha nome, per puro spirito di sopravvivenza decide di lasciarsi prendere come bottino di guerra da un ufficiale dell’esercito nemico (Evgeny Sidikhin) così da garantirsi la sussistenza materiale ed un minimo di protezione. Tra i due nasce un sentimento che potrebbe essere definito d’amore, se non ci fosse a dividerli la barriera dei diversi schieramenti: lui uno dei colpevoli, lei una delle vittime. Il film di Färberböck racconta tutto questo in modo sobrio e disincantato, senza rabbia, vittimismi e neppure moralismi. Questo film è un’ennesima testimonianza di quella tendenza che da un po’ di tempo si è fatta avanti nella storiografia tedesca e con essa anche nella percezione comune della gente. La parola d’ordine è: indagare a tutto campo su eventi considerati fino agli anni Novanta un tabù, in particolare sulle sofferenze patite dalla popolazione civile tedesca durante la seconda guerra mondiale. Un tempo parlare dei tedeschi come «vittime» piuttosto che come «carnefici» poteva costare l’accusa di nostalgia verso il passato nazista o di revisionismo destrorso. Adesso non più. Così abbiamo visto il dolore dei cittadini di Dresda, caduti sotto le bombe alleate nel febbraio 1945, così come il dramma dei profughi tedeschi costretti dopo la guerra a lasciare i paesi di residenza (Sudeti, Slesia, Pomerania). Sovente è stato il cinema il veicolo più efficace nel raccontare queste pagine dolorose della storia. E in questa serie rientra anche la questione degli stupri di massa compiuti dai soldati dell’Armata Rossa.
l’Unità Firenze 25.11.08
Sindacati e studenti si incontrano in vista del prossimo sciopero generale
di S. Cas.«La vostra lotta è la nostra lotta». Le parole di Franco Nigi - Rsu Electrolux - riassumono l’incontro di ieri al plesso occupato di viale Morgagni tra gli studenti e alcuni rappresentanti sindacali. «Dovremo reggere nel tempo - spiega Gianni Rinaldini, segretario generale Fiom Cgil -, perché governo e confindustria pensano di far passare questo autunno caldo e poi continuare per la loro strada. Ma lo sciopero generale del 12 dicembre sarà solo l’inizio». Sciopero confermato quindi, «fintanto che il governo non cambierà politica economica», nelle parole di Andrea Montagni della Cgil, e che vedrà in piazza, a fianco dei lavoratori, studenti e precari della conoscenza, «lavoratori privi di diritti, di assistenza sanitaria e previdenziale, costantemente sotto ricatto - come racconta Ilaria Agostini del coordinamento docenti precari - costretti ad accettare condizioni lavorative non regolari». Ancora più ricattabili sono i lavoratori stranieri «che, perdendo il lavoro, diventano automaticamente clandestini - ricorda Rinaldini - in virtù di una legge vergognosa, la Bossi-Fini, contro cui combatteremo. Perché è importante che tutti i lavoratori, strutturati, precari e stranieri, rimangano uniti in un momento in cui il governo cercherà in tutti i modi di dividerli». Dopo l’incontro di ieri, continuano in varie facoltà dibattiti e approfondimenti che ormai vanno oltre la riforma universitaria. Oggi e domani al polo di Novoli sarà ospitato il Forum nazionale contro la mafia, mentre a Sesto alle 21.15 continuano gli incontri sulle energie rinnovabili.
Repubblica 25.11.08
L'Osservatore: "L'Europa è in preda ad un impulso di autodistruzione"
Crocifisso, la Chiesa attacca la Spagna
di Alessandro OppesLa guerra dei vescovi contro Zapatero
Accuse di "cristofobia" dopo il veto del crocifisso. Anche il Vaticano attacca
I socialisti propongono: estendere il veto di Valladolid a tutta la Spagna
CITTA´ DEL VATICANO - «Che si giunga a considerare un crocifisso offensivo in Occidente si può solo interpretare come un sintomo allarmante di amnesia o necrosi culturale». L´Osservatore Romano ha affidato a un articolo dello scrittore spagnolo Juan Manuel de Prada il compito di esprimere il proprio sconcerto per la decisione presa nei giorni scorsi dal tribunale amministrativo di Valladolid di far rimuovere i crocifissi dalle aule di una scuola pubblica della città spagnola. La decisione non è ancora stata commentata ufficialmente dal Vaticano.
MADRID - «A volte è necessario saper dimenticare». Parla con tono pacato, il cardinale Antonio Maria Rouco Varela, ma le sue parole sono taglienti come lame. Dimenticare la Guerra Civile, dimenticare la dittatura, è il nuovo obiettivo proclamato dal presidente della Conferenza episcopale, per evitare di «dar adito a scontri che potrebbero finire per essere violenti». L´accusa non è neanche tanto velata, e nel mirino, ancora una volta, c´è il governo socialista di José Luis Rodríguez Zapatero. Colpevole, per il cardinale ultra-conservatore di Madrid, di alimentare lo scontro sociale, di ostacolare la «riconciliazione» nazionale per il fatto di aver promosso una legge, quella sulla «Memoria storica», che ha l´obiettivo di restituire dignità alle vittime del franchismo.
Rouco si presenta con questa nuova sfida davanti all´assemblea plenaria dei vescovi, ancora scossi per la decisione presa giorni fa da un giudice di Valladolid di far rimuovere tutti i crocifissi dalle pareti di una scuola pubblica. «La nostra società è malata», aveva tuonato poche ore prima il cardinale primate di Spagna, Antonio Carizares, parlando di «cristofobia». E il malumore espresso a gran voce da alcuni prelati rischia già di trasformarsi in un coro di protesta dell´intera Chiesa cattolica spagnola. Anche dal Vaticano l´Osservatore Romano ha commentato la sentenza di Valladolid: "Che si consideri un crocifisso offensivo in occidente è sintomo di amnesia e necrosi culturale" scrive nel suo editoriale il quotidiano del Vaticano. "E in Spagna questo impulso autodistruttivo assume espressioni violente".
Nessuna reazione a caldo dal palazzo della Moncloa, sede del governo, ma a parlare senza peli sulla lingua - esprimendo quella che è con ogni probabilità l´opinione dello stesso premier Zapatero - è il numero due del Psoe, José Blanco: «Mi sorprende che chi sta promuovendo canonizzazioni in relazione a persone di quell´epoca, ora faccia appello all´oblio e al perdono. Non si può cancellare la memoria del nostro paese e alcuni soffrono di amnesia in funzione del fatto che gli convenga o meno». I socialisti si schierano poi anche a favore della rimozione dei crocifissi dalle scuole pubbliche perché, dice Blanco, ricordando di essere «credente», «bisogna rispettare il credo religioso di tutti».
Lo scontro si profila durissimo, e i vescovi sembrano decisi ad affrontare a muso duro la svolta «laicista» del governo Zapatero. In linea con le posizioni espresse in questi anni in Parlamento dal Partito popolare, contrario a «riaprire vecchie ferite», il cardinale Rouco Varela vede una soluzione nel ritorno allo «spirito di riconciliazione, sacrificato e generoso» degli anni della transizione alla democrazia. Anni in cui, in base a un patto non scritto, la società spagnola scelse di evitare di fare i conti con il passato per favorire il consolidamento delle istituzioni democratiche. Ma, arrivato al potere nel 2004, Zapatero aveva giudicato maturi i tempi per ridare spazio alla memoria, promuovendo un risarcimento morale delle vittime e favorendo la ricerca dei resti delle migliaia di desaparecidos. Ma il presidente della Conferenza episcopale la pensa in maniera completamente opposta. «Dimenticare» è la nuova parola d´ordine, per ottenere «un´autentica e sana purificazione della memoria» che liberi i giovani «dagli ostacoli del passato, senza gravarli dei vecchi litigi e rancori».
Reazioni anche Italia alla sentenza del giudice di Valladolid. «La laicità dello Stato è un principio troppo serio per essere ridicolizzato, come è avvenuto in Spagna», ha detto il leader dell´Udc Pierferdinando Casini. Per Roberto Calderoli, ministro per la Semplificazione Normativa, «il crocifisso non è solo un simbolo religioso, ma è il simbolo della nostra civiltà».
Repubblica 25.11.08
Se il futuro dell’uomo si chiama poliamore
Dalla poligamia alle società monogamiche
di Jacques AttaliAnticipazione / Jacques Attali ha curato un volume dedicato all´evoluzione dei rapporti di coppia a far data da quattro miliardi di anni fa
Per i primi esseri umani la donna è ristoro, l´uomo potenza, lei è terra mentre lui è cielo
Il matrimonio, la consacrazione di un rapporto di coppia, nasce solo presso gli Ebrei
Da oltre quattro miliardi di anni, la storia della vita segue una sola strada, quella della propria conservazione. E fa ricorso a una sola strategia, quella della diversificazione. Per riuscirvi inventa mille stratagemmi a cominciare dal più singolare di tutti, il più fantasmagorico, fonte di variazioni che si rinnovano senza sosta: la sessualità, strana divisione di ogni specie in due generi, la cui unione è necessaria perché la specie si perpetui.
La specie umana è la prima a inscrivere i rapporti tra i sessi in una concezione globale del mondo. A tal punto che fece dell´amore e delle sue interdizioni uno dei pilastri fondanti delle prime civiltà, le quali stabilirono che le leggi di quei rapporti fossero eterne poiché fissano le condizioni della sopravvivenza e dell´identità culturale.
Per i primi esseri umani, la donna è accoglimento, luogo di ristoro; l´uomo è potenza e movimento. La donna è «Terra», l´uomo è «Cielo», dicono i popoli delle origini. La donna ha il progetto esistenziale di trasmettere la vita, mentre l´uomo ha un progetto di conquista motivato dalla paura della fine. Gli uomini temono le donne poiché, mettendoli al mondo, li destinano alla morte e perciò, finché il ruolo dei padri nella procreazione non è stato scoperto, le madri hanno avuto un potere assoluto sui figli.
In particolari circostanze geografiche e storiche, le prime mitologie organizzano la protezione demografica del gruppo. Definiscono tabù ed esigenze primarie. Non esiste nessuna pratica (dall´incesto alla zoofilia, passando per la pedofilia, il feticismo, la pornografia o l´erotismo) che, vietata da alcune società, non sia fortemente raccomandata da altre e soltanto i rapporti sessuali tra madre e figlio sono condannati universalmente.
A un certo punto ? spinte da circostanze del tutto particolari ? alcune società si orientano verso la poliandria (più uomini per una sola donna), mentre, una volta che l´uomo prende coscienza della paternità, quasi tutte le altre tendono alla poliginia (più donne per un solo uomo). Visto che servono più donne che uomini, queste società poliginiche sono necessariamente bellicose e conquistatrici. L´accumulazione del denaro per produrre ed economizzare il lavoro non è ancora d´attualità: la poligamia non è facilmente compatibile con il capitalismo?
Dobbiamo aspettare gli Ebrei, quattromila anni fa, perché le relazioni tra i due sessi siano consacrate in una cerimonia, il matrimonio, che si svolge in un luogo di culto sotto il controllo dei genitori e dei religiosi senza però che sia messa in discussione la poliginia.
Poi arriva il cristianesimo. Prima di allora, nessuno aveva preteso di imporre a tutta l´umanità la monogamia, la fedeltà totale e relazioni irreversibili. Nessuno aveva preteso di gestire con tanta precisione la vita sessuale di ogni fedele. E mentre tutte le religioni avevano considerato inaccettabile il celibato, per Paolo e i suoi discepoli il vero scandalo è il sesso. Per i padri della Chiesa, la monogamia non è che uno stratagemma perché l´umanità sopravviva: la vita è un dono di Dio che è compito degli uomini trasmettere. Da allora assume una forma assoluta: una sola donna, un solo uomo, tutta la vita, nel rifiuto della sensualità e sotto la sorveglianza puntigliosa di Roma. Attraverso il controllo della sessualità e del matrimonio, la Chiesa, sposa e madre, tenta così di prendere il potere sull´Occidente, poco prima che nel VII secolo l´islam venga a restituire legittimità alla poliginia su un quinto del pianeta.
Anche se in Europa la Chiesa cattolica è dominante da un punto di vista politico, non riesce a imporre quasi niente della sua concezione dell´amore fino al XII secolo. La poliginia resta consuetudine dei potenti, il concubinato quella dei contadini, e i preti, che prima di allora non sono stati quasi mai casti, si occupano raramente dei matrimoni.
In compenso, un vento venuto d´Oriente, dove la poliginia è una tradizione dei regimi imperiali, sconvolge l´Occidente glorificando erotismo e amor cortese. Ne scaturisce la modernità occidentale che trova il suo nutrimento in una ricerca amorosa che alcuni reprimono e trasformano in bramosia di conoscenza, ambizione artistica o superamento di sé.
Con Christopher Marlowe e William Shakespeare fa la sua apparizione il colpo di fulmine, unione paritetica dei corpi e degli spiriti, e l´amore trova mille forme di espressione nella letteratura e nell´arte. Uomini e donne cominciano a parlarsi da pari a pari e il loro dialogo non cesserà più: nasce l´attrazione per l´Altro, l´interesse per l´Altro, il bisogno dell´Altro e l´attaccamento all´Altro. Le donne vi ricoprono il ruolo principale, sono le prime che osano davvero parlare d´amore.
La Riforma protestante e l´avvento della società borghese del XVII secolo limiteranno l´amore alle esigenze della riproduzione sociale e faranno dell´eredità la prima ragion d´essere della famiglia e del matrimonio: non si deve risparmiare in onore di Dio, né per avere più donne, ma per accrescere la ricchezza della famiglia.
Nel XIX secolo l´unione borghese riesce là dove il matrimonio cristiano ha fallito e lo Stato riorganizza il matrimonio monogamico a proprio profitto, ma senza punire l´uomo che pratica la poliginia.
Nel XX secolo, mentre in gran parte del mondo le donne si battono ancora contro la poliginia, contro il matrimonio forzato e quello dei bambini (ancora oggi una ragazzina su tre è data in sposa prima di aver compiuto 18 anni), l´amore diventa la prima rivendicazione veramente planetaria. Si impone il diritto di ciascuno a essere amato e la coppia diventa un rapporto tra due persone che si parlano, si osservano, si giudicano e si amano. Non c´è nulla che permetta di garantire la perennità della relazione, poiché se è vero che gli esseri umani hanno bisogno di amare ed essere amati, molti hanno anche bisogno di cambiare oggetti e soggetti d´amore. L´utopia cristiana e la norma borghese vengono perciò cancellate: l´assenso degli sposi, se è veramente libero, non può essere né eterno, né esclusivo.
Come in un ritorno alle origini, si annuncia una nuova era che porta con sé nuove forme di relazioni tra esseri umani fondate sulla soddisfazione istantanea dei desideri e liberate progressivamente dall´assillo della riproduzione: si profila il matrimonio contrattualmente provvisorio, in cui la durata del rapporto sarà fissata in anticipo dalla coppia; il poliamore, in cui ciascuno potrà avere in tutta trasparenza più amori allo stesso tempo; la polifamiglia, in cui si farà parte contemporaneamente di più famiglie; la polifedeltà, in cui ciascuno sarà fedele a diversi membri di un gruppo dalle sessualità molteplici. Quanto ai bambini, vivranno in una casa dove i vari genitori verranno a turno a occuparsi di loro.
In un futuro più lontano sessualità, desiderio e amore saranno ancora più facili da dissociare, macchine speciali si occuperanno della riproduzione e, prima di diventare anch´essa meccanica, la sessualità sarà una pratica devoluta esclusivamente al piacere. L´utero artificiale e la clonazione schiuderanno prospettive vertiginose in cui ciascuno potrà decidere autonomamente di riprodursi e un giorno si arriverà forse all´ermafroditismo universale.
È un po´ come se l´umanità scegliesse di ripercorrere a ritroso la storia della vita, tornando prima al matrimonio di gruppo, poi alla partenogenesi. Per riscoprire un giorno, chissà, il bisogno dell´altro. E quindi dell´amore.
Si deve resistere a un tale avvenire o rimanere stupiti davanti a tanti mutamenti? Possiamo sperare che l´amore salvi gli esseri umani dalla propria follia? Il nostro libro è un viaggio in questa storia meravigliosa e minacciata. Un viaggio che ci porterà a scoprire le tribù poliandriche della Cina e i rituali omosessuali della Nuova Guinea; le donne degli harem d´Arabia e i numerosi mariti delle donne tibetane; le prostitute d´America e le geishe giapponesi; i maestri dell´erotismo indiano e i matrimoni di gruppo nel Congo; famiglie borghesi e trii bisessuali; macchine di piacere e chimere d´amore. Tutti protagonisti dell´ambizione umana più elevata e più rivoluzionaria: trascendersi per raggiungere un ideale, quello di piacere all´altro per piacere a se stessi. Ed essere amati.
il Riformista 25.11.08
Berlusconi non è fascismo. Però...
di Massimo GianniniNel mio libro "Lo Statista" rifiuto le tesi in voga dell'anti-berlusconismo radicale. Ma cerco di spiegare perché, a mio avviso, la parabola politica del premier si inserisce in un filone di continuità simbolica con il Ventennio.
Caro direttore, nel suo articolo sul Riformista di martedì 18 novembre Andrea Romano mi fa l'onore di inserirmi a bella posta in uno dei «due rami ugualmente sterili» attraverso i quali si sarebbe sdoppiato quello che lui chiama «l'antiberlusconismo radicale» nato all'incirca nel 1995. Tredici anni dopo, io sarei uno dei frutti (se capisco bene tra i più bacati) di cotanta semina. Sarei parte di quella «ridondanza a giorni alterni dell'allarme regime». E farei coppia con Antonio Di Pietro. Colpevole lui di aver raffigurato in Parlamento Berlusconi come il generale Videla. Colpevole io di aver scritto del berlusconismo «né più né meno come di un regime con tratti in comune con il fascismo». «Con buona pace - aggiunge Romano - sia del rispetto dovuto alle vere vittime dei veri fascismi, italiano e argentino, sia della buona salute dei nostri sensori civili devastati con tanta leggerezza».
No, caro direttore. Non ci sto. Per amor di verità, Koba avrebbe dovuto leggere (o almeno leggere meglio) il libro che ho appena dedicato al Cavaliere ("Lo Statista"). Se l'avesse fatto, avrebbe potuto raccontare ai tuoi lettori che il raffronto tra berlusconismo e fascismo si iscrive in una riflessione molto più ampia sulla natura "tecnica" dei totalitarismi moderni. Avrebbe potuto scoprire che il mio tentativo è opposto a quello in voga presso l'antiberlusconismo radicale, che tende ad esaurire il fenomeno o come semplice forma di telepopulismo mediatico, o come barbaro esempio di golpismo costituzionale.
Proprio per evitare queste semplificazioni, (che spesso la cultura terzista sfrutta abilmente per incasellare a suo comodo tutti coloro che hanno il torto di criticare il Cavaliere) nel libro non ho fatto un solo cenno alle vicende giudiziarie di Berlusconi. Viceversa, ho fatto molti cenni sulla piena legittimità democratica del suo governo, sulla compattezza del blocco sociale che ha ricostruito e che è largamente maggioritario nel Paese, sull'oggettiva capacità di generare consenso di molte campagne messe in atto in questi mesi dai suoi ministri. Ho cercato di spiegare perché, a mio parere, il Cavaliere è ormai un vero statista: tra i peggiori, ma pur sempre uno statista che ha saputo capire e conquistare l'Italia.
Ho cercato di spiegare perché, a mio avviso, la sua parabola politica si inserisca in un filone di continuità simbolica con il fascismo. C'è qualche affinità di contesto politico (la crisi dello Stato liberale e il crollo del sistema dei partiti), qualche affinità di carattere personale (il mito del capo infaticabile, il carisma populista e situazionale), qualche affinità sui valori di fondo (dio-patria-famiglia), qualche affinità sulla produzione e la gestione del consenso (attraverso la "vigila cura" sui media). E poi, certo, una analoga visione autocratica del potere, coniugata al tentativo di riprodurre una "rivoluzione conservatrice" che l'opinione pubblica mostra di gradire. Il tragico errore dell'opposizione (nel libro dico anche questo) è di non provare a chiedersi perché, ma di continuare a pensare, in nome del vecchio mito della "diversità" berlingueriana, che quello italiano sia un popolo indegno di questa nobile sinistra.
Ho cercato anche di chiarire perché, secondo me, l'Italia di oggi attraversa un ciclo di democrazia a bassa qualità. Quando lo "stato di diritto" diventa "stato di governo", e il potere tende ad esercitare la sua sovranità in modo tendenzialmente assoluto, con poco rispetto per le istituzioni di garanzia e con molta intolleranza per tutte le manifestazioni di dissenso, la democrazia non viene meno. Ma può assumere connotati illiberali, sui quali forse non è inutile riflettere. Possibilmente senza ricadere nei soliti (quelli sì, davvero corrivi) stereotipi dominanti: il berlusconismo militante e l'antiberlusconismo combattente. Non ho bisogno della lezione di Romano, per riconoscere la differenza con le tragedie dei veri fascismi, e per portare il rispetto che meritano alle vittime delle dittature del tragico Novecento. Lo scrivo testualmente, nel libro. E mi dispiace che una persona intelligente come Romano mi ricicli in quello che nel libro chiamo «il rumore bianco» dell'informazione, come fossi uno dei tanti "imbecilli" (e in effetti non ne mancano) che abbaiano come cani alla luna "regime, regime!". Non era e non è questa la mia intenzione.
Ma un'ultima cosa, al Terribile Koba, la voglio chiedere. Apprezzo la chirurgica precisione del suo bisturi culturale, che seziona i tessuti già martoriati dello sciagurato centrosinistra italiano. Ma perché non prova a dirci lui (con lo stesso rigore analitico e politico) cosa pensa del berlusconismo di questi anni? Perché non scattano mai i suoi «sensori civili», quando il Cavaliere definisce "coglioni" gli italiani che votano a sinistra, o "imbecilli" quelli che lo criticano perché dà dell'abbronzato a Obama? Perché non si indigna, in nome di quelle povere vittime delle vere dittature, quando non riesce mai a dirsi anti-fascista, e dribbla il tema con un agghiacciante "io penso solo a lavorare"? Perché non prova un moto d'imbarazzo, quando dice che il Parlamento è un posto per nullafacenti e la Corte costituzionale è un covo di comunisti, quando impone alle Camere il Lodo Alfano, quando accusa i tg di creare ansia nei telespettatori, o quando sceglie lui (espropriando di questo diritto l'opposizione) il presidente della Vigilanza Rai?
Tutto questo, con il vero fascismo mussoliniano, non c'entra. Sono il primo a saperlo, e a scriverlo. Ma Koba è così sicuro che tutto questo c'entri con la vera democrazia liberale?
il Riformista 25.11.08
Il dibattito è antico, e riguarda la natura del sistema berlusconianoIl dibattito è antico, e riguarda la natura del sistema berlusconiano. Analoga al fascismo, per gli anti-berlusconiani in servizio permanente effettivo, una fitta schiera di "intransigenti" radicali, che si è conquistata ascolto e consenso nell'elettorato della sinistra. Populista ma democratica invece per chi, pur non essendo berlusconiano e spesso anzi sentendosi all'opposizione, non vuole trasformarsi in professionista dell'anti-berlusconismo e anzi pensa che chi lo fa rafforza il consenso popolare verso il berlusconismo.
Alla gamma dei pareri si è aggiunto domenica il solito Di Pietro il quale, in un'anticipazione del suo nuovo libro pubblicata dal Corriere della Sera, è giunto al paragone estremo, quello con Hitler. Berlusconi, a suo dire, tratterebbe i magistrati come gli ebrei, diventando così una specie di nuovo Fürher (nella foto, la statua di cera del grande dittatore).
Non ricorderemo a Di Pietro che l'Olocausto non si paragona, perché rappresenta l'indicibile, e ogni parallelo storico lo banalizza, recando offesa grave alla sua vittima: il popolo ebreo. Né aggiungeremo che, dal versante opposto dei Di Pietro, c'è invece chi grida, tra il serio e il faceto, «Silvio santo subito», e «Meno male che Silvio c'è». Perché a demonizzazione corrisponde sempre beatificazione. Piuttosto, preferiamo affrontare il tema, più serio, del giudizio sul «regime» berlusconiano con i due articoli che ospitiamo in queste pagine: il primo è di Massimo Giannini, vicedirettore di Repubblica e autore del recente volume "Lo Statista. Il Ventennio berlusconiano tra fascismo e populismo", che replica a un articolo pubblicato sul Riformista del nostro Andrea Romano. Il secondo articolo è la controreplica di Andrea Romano.
Ci sembra un buon modo di discutere. Purtroppo la semplificazione dell'assoluta anomalia rappresentata in Italia dal fenomeno Berlusconi produce nel nostro dibattito pubblico più invettive e partigianerie che analisi e studio. Eppure sarebbe ora di cominciare a considerare Berlusconi come parte della storia d'Italia, e trattarlo di conseguenza sul piano storiografico. In fin dei conti, a fine legislatura il Cavaliere sarà stato in scena per un ventennio, né più né meno come Lui, come nota il titolo del libro di Giannini. E un ventennio di storia italiana non si può archiviare alla Di Pietro, con un paragone hitleriano.
il Riformista 25.11.08
Barack cerca parrocchia
Quale chiesa sceglieranno di frequentare gli Obamas la domenica mattina?
di Alessandra CardinaleNew York. Quale chiesa sceglieranno di frequentare gli Obamas la domenica mattina? E perchè il neo presidente americano viene sempre più spesso avvistato tra gli attrezzi ginnici della sua palestra preferita piuttosto che tra i banchi di una chiesa? Archiviato il dilemma scuola pubblica o scuola privata (concluso a favore di quest'ultima), si apre il capitolo, ugualmente delicato, della chiesa che a Washington D.C. dal 20 gennaio gli Obamas decideranno di frequentare. Il sito web Politico.com è il primo a puntare il dito contro Obama e famiglia che mancherebbero dalle funzioni religiose da tre settimane, il che significa che da quando è stato eletto, Barack non mette piede in chiesa. «La famiglia Obama ha un gran rispetto dei luoghi sacri, e la loro presenza attirerebbe troppo attenzione sui confratelli e sulla chiesa», ha risposto un consigliere del neo Presidente alle perplessità di chi gli chiedeva come mai la prima famiglia americana non si fosse più recata in Chiesa. Il temporeggiare di Obama e della first lady Michelle è saltato subito agli occhi degli attenti commentatori americani che, almanacco politico alla mano, hanno maliziosamente fatto notare che sia George W. Bush che Bill Clinton neo-presidenti, riuscirono a recarsi a messa: nel 1992, appena eletto, Bill Clinton partecipò alla messa nella chiesa di Little Rock in Arkansas e la terza domenica dalla sua elezione fu fotografato con Jesse Jackson in una parocchia cattolica. Ma anche George W. Bush non mancò gli appuntamenti con la fede, nel 2000 e nel 2004 seguiva regolarmente, insieme alla moglie Laura, le funzioni della chiesa metodista di Austin in Texas. Ma non tutti gli analisti tirano le orecchie a Obama, infatti, il blog "Under God" del Washington Post chiede indulgenza nei confronti della first family. «Non posso immaginare una decisione più importante di questa per una giovane famiglia come quella di Obama», scrive David Waters esperto di questioni religiose. La scelta è infatti ampia e può facilmente diventare un bersaglio politico. Sono in molti a corteggiare il neo Presidente la cui presenza darebbe lustro, non solo spirituale, alla propria comunità: metodisti, battisti, episcopali, tutti aspirano ad ospitare la domenica mattina la famiglia presidenziale. «Tutto questo però non è giusto», scrive Waters, «dovremmo lasciarli in pace per dargli la possibilità di fare la scelta più giusta».
il Riformista 25.11.08
Burg, noi prigionieri del culto della Shoah
L'ex presidente del parlamento israeliano denuncia il peso schiacciante della memoria
di Grazia LissiL'ex presidente del parlamento israeliano sta facendo scalpore con il saggio "Sconfiggere Hitler", in cui denuncia il peso schiacciante della memoria. Per affrontare il presente ci vogliono nuovi strumenti. Israele sbaglia ad avvicinarsi agli Usa, «dovrebbe far parte della Ue, il continente della riconciliazione».
Nel suo libro ha invitato gli israeliani a non rimanere "schiacciati" dalla memoria dell'Olocausto. È stato preso come una provocazione. Cosa ritiene non sia stato capito?
Le polemiche sono nate perché il libro è stato ben capito: gli israeliani si sono arrabbiati, gli europei sono stati felici di leggerlo. In Israele chi ha letto il libro sa che offro un'alternativa che ci obbliga ad abbandonare i toni attuali. La Shoah è stata una base forte per la creazione dello Stato ma non può essere utilizzata per giustificare sempre quello che facciamo. Nel mio saggio c'è una nuova visione d'Israele, uno stato guidato da un senso morale, sensibile verso il prossimo e lo straniero, basato su norme che noi ebrei abbiamo chiesto al mondo per anni nei nostri confronti.
C'è un Hitler da sconfiggere in Israele e uno in Europa?
Quello con cui stiamo lottando noi israeliani non è il vostro. Come ebrei dobbiamo sconfiggere la nozione psicologica per cui il mondo è contro di noi e non possiamo avere fiducia in nessuno. Gli europei devono riuscire a gestire il problema dell'altro, ebrei, arabi, musulmani, senza ripetere gli errori già fatti. Dobbiamo distruggere l'utilizzo di strumenti hitleriani per combattere il diverso: l'odio, il razzismo, il nazionalismo.
Lei sostiene che la Shoah rischia di essere un tarlo che corrode Israele stesso.
Dal '45 al '48 si è passati dalla fine di Auschwitz alla fondazione dello Stato d'Israele, avevamo bisogno di nuovi miti. Non abbiamo prestato attenzione al trauma, pensavamo riguardasse gli ebrei della diaspora, noi dello Stato d'Israele credevamo in un nuovo prototipo d'israeliano. Dopo 60 anni ci siamo resi conto del trauma, la nostra storia non è scritta solo da eroi ma da esseri umani.
È duro con Israele, non teme di finire preda per antisemiti o anti-israeliani?
Con la pubblicazione all'estero, mi sono posto la domanda: la traduzione dovrà rispecchiare la voce di un israeliano oppure devo farla adattare in modo da mitigare il testo? Il dibattito in Israele, sia politico sia religioso, è urlato, se uno non alza la voce non viene ascoltato. Questa è la mia voce, chi odia me o gli ebrei non ha bisogno di una scusa per farlo, lo stesso vale per chi ci ama. Chi si trova in mezzo... capirà quanto Israele sia una società libera.
Ha scritto di voler essere «un ebreo universale piuttosto che un israeliano separatista».
C'è confusione nel mondo quando si parla di israeliani ed ebrei. Essere ebreo significa credere nello Stato e nella religione, essere israeliano vuol dire avere lo stato, la religione e il concetto di sovranità. Negli ultimi 60 anni l'israelianità è diventata meno religiosa e più nazionalista, meno popolo e più governo. Lo stato d'Israele sta trasformando gli ebrei da una comunità diasporica in qualcosa d'altro che ha elementi di sovranità. Il Cristianesimo, l'Islam sono un'unica religione in tanti stati, l'ebraismo è la religione di un popolo espressa in un unico stato.
Come mai nel suo libro critica Israele senza affrontare le radici del conflitto israeliano - palestinese?
Ai nuovi Bush del mondo americani, europei, israeliani, piace etichettare le persone, tutti i musulmani sono Bin Laden. So fare distinzioni. Il futuro di pace non è una responsabilità di buoni israeliani contro cattivi arabi, ma di buoni arabi, israeliani, palestinesi contro arabi, israeliani, palestinesi cattivi. Negli ultimi tre anni non c'è stato spargimento di sangue fra Israele ed Egitto, anche Abu Mazen è un uomo di pace, ha partecipato agli accordi di Ginevra.
Perché, secondo lei, Israele è sempre più vicino all'America e meno all'Europa?
È una strategia sbagliata. Israele dovrebbe far parte dell'Europa, non geograficamente, come insieme di persone. L'Europa è una profezia biblica tradotta in realtà, per millenni ci sono state guerre, spargimenti di sangue, ma 60 anni fa ha abbandonato la spada trasformandosi nel continente della riconciliazione. Ha creato un nuovo modello in cui si può essere patrioti e non nazionalisti. Se si realizzerà il progetto d'unione europea, ci saranno due Stati Uniti d'America e d'Europa; i primi sono un'entità politica e culturale che cancella le identità di chi vi entra, gli Stati Uniti d'Europa santificano le identità precedenti, tutti sono diversi. Per gli ebrei questa sarebbe la soluzione ideale.
È stato presidente della Knesset. Perché ha lasciato la politica?
Per ragioni personali e collettive. Negli ultimi due anni mi sono reso conto che Israele era diventato un regno efficiente ma senza profezia, il governo e l'economia funzionavano ma non capivo che direzione stessero imboccando. Non si parlava di pace, nessuno offriva una guida, mi sono ritirato quando ho visto che la mia influenza stava diventando sempre più limitata. Lavoro fuori dal sistema per rinnovare il pensiero israeliano, scrivo libri che rappresentano una base per l'azione, oggi ho un ruolo più politico di quando stavo al governo.
Ora che come Giobbe ha parlato, si sente sollevato?
Molto, sono redento.
La Gazzetta del Canavese 25.11.08
Bertinotti-Fassino: amici-nemici alle Officine H
di Bruno CossanoIvrea. Ieri sera si è svolto un appuntamento di alta valenza politico-culturale proposto dall’Associazione “La Terza Isola”. Il titolo della serata era “Dialoghi sulla Costituzione”, un progetto voluto per celebrare il sessantesimo anniversario della Costituzione italiana e inserito nel contesto del centenario di fondazione della Olivetti.
Alle Officine H di via Jervis, il tema dibattuto è stato “Idee e valori della sinistra all’origine della Repubblica”: protagonisti due carismatici personaggi della Sinistra italiana, Fausto Bertinotti e Piero Fassino, giunti alle Officine H ed applauditi calorosamente dal folto pubblico che ha seguito l'incontro.
Bertinotti e Fassino rappresentano anche due dei più noti politici espressi dal territorio piemontese: l’ex Presidente della Camera dei Deputati, pur essendo nato a Milano, è cresciuto nel Novarese e lì ha iniziato la sua ascesa politica. Fassino, invece, è un “piemontese tutto d’un pezzo”: nato ad Avigliana, l’ultimo Segretario dei Ds (oggi responsabile degli Esteri nel “governo ombra” del Pd) ha sempre vissuto a Torino.
La serata è iniziata con la visione di un filmato legato agli orrori della guerra, proiettato in sala per introdurre il dibattito e con la colonna sonora musicata dagli Area di Demetrio Stratos, gruppo pop italiano anni ‘60 con una connotazione politica di sinistra molto marcata.
Fausto Bertinotti ha esordito commemorando la memoria di una firma storica del giornalismo di casa nostra, come Sandro Curzi, le cui esequie si sono officiate in mattinata a Roma ed etichettato pubblicamente come padre storico della Repubblica italiana per tante motivazioni. Bertinotti ha menzionato il grande contributo della sinistra italiana alla creazione della Costituzione e si è soffermato sulle grandi lotte operaie degli anni ‘50 e ’60, sulla grandezza del movimento operaio che ha combattuto una battaglia secolare contro le forme di capitalismo dominanti; la macchina costituzionale ha lavorato alacremente per promuovere una società all'insegna dell'uguaglianza, della liberazione e della dignità delle persone, attrezzata per affrontare il futuro e basata essenzialmente sull' economia e sulla organizzazione di partito.
Quindi ha citato l'articolo 3 come caposaldo della costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Piero Fassino ha condiviso per grandi linee i concetti espressi da Bertinotti, enfatizzando il pensiero che la Costituzione sancisce: la formazione di uno stato democratico. Grandi elogi ad un padre storico come Piero Calamandrei e dito puntato contro l' ideologia del capitalismo, visto come il grande male della società assieme all'espressione classica del mondo clericale. Fassino ha ribadito il ruolo netto e chiaro della sinistra nell'affermazione e nella tutela della Costituzione, senza lesinare il processo degenerativo del partitismo degli anni bui dell’80 e ‘90 culminati con la vergogne di “mani pulite” e tangentopoli.
Qualche momento di laconica tristezza di Bertinotti nel ricordo delle tante nottate passate a parlare con l'amico Fassino sulle “difficili convergenze politiche e concettuali determinate e opposte alla destra liberale”.
Bella la battuta di Fassino rivolta all'amico compagno Fausto: «Io passavo a riorientare le masse dopo che tu le avevi puntualmente disorientate con le tue teorie.»
La serata quindi ha preso un taglio più propriamente politico e i due amici-nemici della sinistra storica italiana hanno fatto pubblicamente il mea culpa su certi insuccessi: la sconfitta rispetto alla destra berlusconiana più coesa e più organizzata.