martedì 25 novembre 2008

lettera a Lotta continua
Giovedì 24 Aprile 1980

Ragazzino donne e sifilide
di Massimo Fagioli


Caro Luciano,
ho avuto la ventura, da ragazzino, di incontrare una donna assai brutta. A me parve bruttissima appena la vidi. Ho sempre bevuto molto, da tutti, le strade e le stradine percorse, deserte, salvo le molte puttane, molli di pioggia, si trasformarono per me in uno di quei labirinti che fanno ogni istituto di psicologia, da un milione di anni, che servono per certi esperimenti sugli uomini: sull’istinto animale, la ripetizione, la rassegnazione, la passività.
Dentro quei vicoli mi muovevo con pochissima sicurezza, dapprima, che diventava, poi, sempre maggiore. Guidato da un desiderio forsennato e dalla certezza che le cose non potevano essere in quel modo. Era una sensazione dolorosa aumentata dalla mia nebbia di allora. E il mio corpo era in subbuglio. Penso che tu intenda cosa voglio dire. Quella donna, la realtà psichica umana, le cui labbra bellissime nascondevano spesso, troppo spesso, i denti guasti dell'invidia e della rabbia.
Ne cercai di donne, anch'io avevo bisogno di quella sana che curasse la mia sifilide, il mio desiderio cieco, la negazione della realtà psichica umana.
Ebbene, Luciano, tutte erano sifilitiche come me, più di me, e quando lo erano meno di me succhiavo avidamente fino ad ubriacarmi.
Non lo seppi subito. Passarono anni in cui provavo sensazioni strane; camminavo a piedi nudi sul marmo freddo del pavimento della camera dopo aver fatto l'amore e mi pareva di camminare sul velluto, mi bruciavo la pelle delle dita cercando di spegnere al buio mozziconi di sigaretta e sentivo solo una leggera puntura di spillo. Attribuivo sulle prime questi sintomi alla grandezza straordinaria del mio amore.
Era pulsione di annullamento e di negazione dell’inconscio mare calmo: quella latente, quella invisibile come le spirochete ma terribile, mortale.
La luce gialla dei lampioni metteva in evidenza silhouettes di donne, vicino al duomo, sottomesse al duomo, accecate dal duomo, quando, tante volte, ormai stavo per rinunciare mi accingevo ad uscire dal labirinto per una stradina laterale che tutti conosciamo molto bene: l’indifferenza. Tante volte l’avrei ammazzate quelle donne. Tornavo in me furibondo. Ma poi le loro labbra di velluto succhiavano la mia rabbia; i loro occhi mi ritrascinavano di colpo nel mare in tempesta della nostra relazione amorosa.
Mi curai per sei anni in maniera intensiva con la mia ricerca, per resistere, non soccombere, non impazzire. Poi ancora per altri venti anni. Studiai. Avevo scoperto che non c’era nessun medico che potesse dire che non era amore, era negazione. Non c’era nessun medico che avesse la penicillina.
Ovviamente. Dovevo dire che gli esseri umani sono bellissimi. Ce l’avevo dentro da tanti anni. Ogni volta che mi avvicinavo ognuno mi succhiava le parole dal cuore con dei baci che, caro Luciano, ti auguro di non provare mai. Se fossi un poeta invece che uno psichiatra forse potrei tentare di descrivere i liquidi infuocati che mi scendevano e salivano per il corpo mescolandosi alle labbra incollate a quelle degli altri, ad un fresco sapore di mentuccia prealpina che fluisce dal respiro degli altri.
Quell’incontro ha segnato in maniera indelebile la mia vita. Sono passati tantissimi anni ed ora tu mi chiedi una risposta. Perché sono diventato medico, scienziato, terapeuta, ricercatore, critico duro, caustico, ma costruttivo.
Perché ogni volta, sempre, quando baciavo come te, le labbra delle donne, sentivo sempre la domanda continua, neppure sussurrata, senza suoni materiali: “toglimi la follia, che è dentro di me, ripulisci la mia mente dal mio Io infetto e restituiscimi la dolcezza dell’inconscio mare calmo con cui sono nata. Fammi rinascere in maniera diecimila volte più bella perché questa volta, tu ed io, siamo gestante e feto ad un tempo. Ma tu devi essere anche levatrice. Fammi rinascere con la coscienza di nascere. E di nascere sana".
Ed io, te lo confesso, qualche volta, tante volte forse, ho tentato di non ascoltare. Ma non ci sono riuscito. Non sono riuscito ad accecarmi per non vedere quello che c’era al di là delle labbra bellissime, al di là della rabbia dei denti guasti.
La domanda degli occhi. Tu l’avrai notato che, talvolta, gli occhi, nel bacio rimangono aperti e hanno un non so che di vuoto. E dietro al vuoto ancora c’è la domanda appassionata, invisibile; c’è l’ordine, il comando, il Potere giusto al quale bisogna sottomettersi. “Se tu puoi devi guarirmi della follia che è dentro di me”.
Allora ti succhiano le parole dal cuore, in un bacio continuo che, caro Luciano, non ti auguro di provare. Perché ti danno tutto quello che hanno, ma ti chiedono tanto, tutto quello che hai, e tutto quello che puoi fare nella vita. Ti chiedono anche di essere duro, sempre critico, caustico, di pretendere sempre di più e di meglio. Allora devi rinunciare a far l’amore; perché mentre ti dicono ti amo, ti dicono “non fare l’amore con me, non ingannarti, perché io sono sifilitica. Non permettere che la mia malattia uccida entrambi”.
Perché la gente vuole vivere, anche se è malata. E ciascuno di noi chiede all’altro, sempre, un po’ di vita.
Oggi sono contento di non aver chiesto mai a nessuno se era malato; sono contento di aver avuto con gli altri l’unico rapporto dialettico possibile: non essere scappato. Stiamo ancora bene insieme, con gli altri, più di quando non c’era la penicillina.
Non ti dico cosa manca a te: non lo so. Hai scritto una bellissima lettera, te l’ho quasi interamente copiata. Per immergermi nel rapporto anche se non tutto è uguale. E’ così: “…liquidi infuocati in ogni rapporto interumano che scendono e salgono per il corpo, mescolandosi nelle labbra incollate dell’uno e dell’altro ad un fresco sapore di mentuccia che fluisce dal respiro di ognuno”.
Ma, poi, ecco il medico-scienziato e, se vuoi, il politico. Necessario per non morire. Non con tutti. C’è gente per “razza”, più sensibile, più vera artista, più grande genio, amanti più abili, battoni più puri, sensibilità maggiore, anima più bella. Una “razza” ariana di cui tu, dal momento che dici di non essere più tanto giovane, dovresti ricordarti, e ricordandoti, accorgerti che è accanto a te, nella stessa pagina.
Vedi, quando si vuole fare scienza le distrazioni sono mortali. Ecco, forse ti manca questo per essere scienziato: l’attenzione per il latente. O forse un po’ di metodo politico. Il latente uccide e la gente non vuole morire, non vuole che tu muoia perché ognuno di noi serve agli altri per vivere. Il democraticismo volgare non serve; fa morire quanto la repressione del potere.
Tu hai amato una donna, io più di una. Forse occorre questo per essere scienziato: prendere la sifilide da più di una donna, lasciarsi andare ogni volta senza fare lo scienziato. Poi ti costringono ad esserlo. Perché sono tutte diverse, bellissime, ti danno la vita e la gioia di vivere ma sono tutte uguali nella sofferenza, nell’angoscia, nel vuoto della mente.
Spero di ascoltare sempre più frequentemente gente come te, gente che ha affrontato in proprio, sulla propria pelle il rapporto con gli altri e si è curata. Ora sei sano ma… se non ci fosse stato Fleming? Te lo devo ricordare io il disfacimento luetico, la pazzia luetica, i figli scemi luetici? Nessuna gratitudine ma… una rosa gliela vuoi mandare a Fleming?

Massimo Fagioli
l’Unità 25.11.08
La Cgil: troppo poco, restituite il fiscal drag. Sciopero confermato
di Felicia Masocco


«Esposizione generica e insufficiente». Così Guglielmo Epifani sul pacchetto anticrisi preparato dal governo. «Allo stato lo sciopero è confermato». Il giudizio negativo non trova riscontri in Cisl e Uil
«Il drenaggio fiscale, quei 350 euro pagati in più da lavoratori e pensionati, va restituito con le tredicesime...», Guglielmo Epifani neanche finisce la frase che viene interrotto da Silvio Berlusconi, «Non l’ha restituito neanche Prodi» dice il premier. «Per questo proclamammo lo sciopero generale» è la risposta del leader della Cgil. Solo che allora, agli inizi di quest’anno, la proclamazione fu unitaria. Il 12 dicembre la Cgil sciopererà da sola. «Allo stato sono confermate tutte le ragioni della mobilitazione», dichiara Epifani al termine dell’incontro. «Allo stato» è tutto nelle mani del governo, della sua capacità di accogliere - come ha detto il premier - «i consigli di tutti». A partire proprio dalle tredicesime, che non solo la Cgil, ma anche Cisl e Uil vogliono più pesanti con l’uso, però, della detassazione. Unisce poi il sindacato - ma anche Confindustria- la necessità di ammortizzatori sociali più forti per chi perde il lavoro.
Il vertice non ha dato e risposte attese, il giudizio della Cgil è negativo, la delegazione ha lasciato Palazzo Chigi insoddisfatta perché - come ha spiegato Agostino Megale che accompagnava Epifani - «si dovrebbe fare di più per sostenere i redditi da lavoro dipendente e pensioni, e per le tutele per giovani e precari». «È la prima emergenza», ha detto Epifani al tavolo - tantissimi stanno andando a casa». Ma l’esposizione del governo è stata «generica e insufficiente». «Quante sono le risorse? Come sono ripartite tra lavoro e impresa? Ci vuole di più, la crisi è inedita», ha sostenuto Epifani. La detassazione degli straordinari «va sospesa, in questa fase non serve». Opinione condivisa dalla presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia che punta ad alzare da 30 a 35mila euro il tetto di reddito per la detassazione dei premi di produttività. E su questo converge la Cisl. Anche per Raffaele Bonanni, infatti, meglio alzare la soglia di reddito, «anche sospendendo la detassazione degli straordinari».
Il giudizio negativo della Cgil non trova tuttavia riscontri presso le altre due confederazioni. «È stato un incontro interessante», per Bonanni, «vedremo poi venerdì la quantità delle risorse e la qualità delle disposizioni». «Bisogna dare subito un segnale positivo». E un intervento sulle tredicesime è la misura «più immediata». Dalla Cisl, infine, un appello alla «classe dirigente»: «Deve dimostrare senso di responsabilità e unità». Lo sciopero della Cgil è destinato a pesare sui rapporti unitari. L’impostazione data al decreto sembra convincere anche la Uil, salvo «verifiche tecniche». «Condivido l’idea di sostenere la domanda interna - ha detto Luigi Angeletti - e l’idea di incentivare le famiglie con figli, ma non può essere la dichiarazione dei redditi a stabilire chi è povero e dunque chi ne ha diritto».

Corriere della Sera 25.11.08
Il fronte della Cgil con Fiom: lo sciopero generale resta
di Enrico Marro


Epifani: le misure non bastano, il governo è fermo
Il premier stringe la mano al leader della confederazione e chiude il caso del vertice separato

ROMA — Visto che le misure annunciate ieri sera dal governo per affrontare la crisi sono le stesse che si sono lette in questi giorni sui quotidiani e visto che su di esse la Cgil aveva già espresso il suo giudizio negativo, nessuna sorpresa quando il segretario Guglielmo Epifani ha bocciato il pacchetto Berlusconi- Tremonti: «È necessario fare di più». Scontata, quindi, la conferma dello sciopero generale del 12 dicembre: «Le ragioni della mobilitazione restano tutte». A nulla sono valsi i contatti che ci sono stati, prima del vertice, tra lo stesso leader e il sottosegretario alla presidenza Gianni Letta. E nel vuoto è caduto il «caloroso invito» lanciato ancora ieri pomeriggio dal ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, alla Cgil affinché riflettesse «su uno sciopero isolato», considerando quello che il governo propone «senza pregiudizi ».
Alla Cgil la tessera per i poveri non è mai piaciuta, per ragioni etico-politiche (assomiglia, secondo Epifani, al capitalismo compassionevole targato Bush) ancor prima che economiche. Per il resto, non ci sono i 350 euro di restituzione del fiscal drag che la Cgil avrebbe voluto con le tredicesime, non viene affrontata «l'emergenza precari» e gli interventi sembrano squilibrati a favore delle imprese, conclude il leader della Cgil.
Concetti che oggi saranno ripetuti in una conferenza stampa dallo stesso Epifani alla quale parteciperà anche il segretario della Fiom, Gianni Rinaldini.
Era già previsto che i due fossero insieme, spiegano alla Cgil, perché l'appuntamento era stato pensato nei giorni scorsi per parlare anche della crisi industriale. Ma è chiaro che il leader dei metalmeccanici — che ieri, ancor prima del vertice di Palazzo Chigi tra governo e parti sociali, aveva definito «insensate e beffarde» le dichiarazioni del presidente del Consiglio sul fatto che gli italiani devono avere fiducia — darà man forte a Epifani a sostegno dello sciopero generale.
Il sindacato, dunque, continua a restare diviso. Cisl, Uil e Ugl, che tengono aperto il dialogo col governo, davano per scontata la conferma dello sciopero da parte della Cgil. Ritengono che, al punto in cui sono gli equilibri interni a Corso Italia — con la segreteria Epifani puntellata dall'inedita alleanza tra la stessa Fiom e la Funzione pubblica di Carlo Podda, entrambe in prima fila sulla linea dello scontro con Berlusconi — la Cgil non potesse sottrarsi alla piazza. Ma i leader di Cisl e Uil, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, sono anche convinti che la Cgil dovrà pur porsi il problema di non restarci per altri 4 anni e mezzo in piazza. Tutti i presenti hanno quindi notato che, al termine del vertice, Epifani ha parlottato a lungo e cordialmente col ministro dell'Economia, Giulio Tremonti: di come potenziare gli ammortizzatori sociali per i precari e non solo. E quando Berlusconi ha stretto la mano a tutti i leader sindacali, a quello della Cgil avrebbe detto di essere dispiaciuto per l'incidente del vertice segreto di Palazzo Grazioli (c'erano Bonanni e Angeletti, ma non Epifani). Viene infine guardato con attenzione il segnale che arriva dal tavolo dell'artigianato dove non è escluso che la Cgil possa firmare la pre-intesa sulla riforma del modello contrattuale. Sarebbe l'inizio della ricucitura con Cisl e Uil? Troppo presto per dirlo.

l’Unità 25.11.08
Gianni De Gennaro Oggi l’udienza preliminare per l’ex numero 1 della polizia e il questore
Ipotesi di reato «Istigato alla falsa testimonianza durante il processo per la Diaz e il G8»
E venne il giorno del «Capo»
di Claudia Fusani


I pm Zucca e Cardona Albini chiedono il giudizio per il prefetto, il questore Colucci e Mortola. «De Gennaro ha istigato e indotto il sottoposto a deporre il falso nel processo Diaz nell’udienza del 3 maggio 2007».
Il Capo che «fa praticamente marcia indietro nelle sue dichiarazioni» e un prefetto, a lui sottoposto, che deve «rivedere il discorso per aiutare il Capo e i colleghi». Verbali di interrogatorio segreti che passano da un testimone all’altro prima delle deposizioni in aula per «concordare» e «uniformare» il senso delle dichiarazioni. Indagati che vengono informati di essere intercettati. Sempre il Capo raccontato mentre ringrazia e gioisce perché la pubblica accusa «è stata messa alla sbarra».
Di più: è stata «sbaragliata». Vengono i brividi a leggere le intercettazioni che sono il cuore delle 50 pagine - ma l’indagine ne conta 900 - con cui i pm di Genova Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini chiedono il rinvio a giudizio dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, del questore di Genova ai tempi del G8, e ora prefetto, Francesco Colucci e di Spartaco Mortola, nel luglio 2001 a guida della Digos. Per tutti l’ipotesi di reato è falsa testimonianza. Come raccontano decine e decine di intercettazioni, avrebbero aggiustato le testimonianze per difendere se stessi e la polizia finita sotto processo per i fatti di Genova. Pesa l’aggravante di essere tutti pubblici ufficiali. Di più, i custodi della sicurezza e dell’ordine pubblico.
Ecco, al di là di quello che deciderà oggi il gup Silvia Carpanini, non c’è dubbio che dalla lettura di quelle intercettazioni la fiducia nell’istituzione polizia risulta indebolita. E questo mentre sono ancora forti le polemiche sulla sentenza che due settimane fa ha assolto i vertici del Dipartimento della pubblica sicurezza che la sera del 21 luglio 2001 organizzarono la perquisizione-mattanza nella scuola Diaz.
L’inchiesta nasce nel 2007 mentre era in corso il dibattimento per la Diaz e dopo che, all’improvviso, spariscono dall’ufficio corpo di reato le due bottiglie molotov che avevano giustificato, secondo la questura, l’irruzione nella scuola e che poi risultarono false, cioè trovate in tutt’altra parte della città. L’accusa non ci sta, non accetta la versione ufficiale «distrutte per sbaglio». E allaccia una serie di telefoni. Due soprattutto: l’utenza del prefetto Colucci, e di Spartaco Mortola. Nessuno dei telefoni del Capo della polizia è finito sotto controllo.
Secondo l’accusa Colucci «ritratta», tra indagini (fine 2001) e deposizione in aula (3 maggio 2007), la sua testimonianza in almeno cinque punti. Dapprima sostiene di aver informato il Capo della polizia, tanto da aver avvisato il suo portavoce a Genova Roberto Sgalla, sull’operazione Diaz rispettando così la catena di comando dell’ordine pubblico che per il G8 coinvolgeva direttamente il Dipartimento della pubblica sicurezza. In aula, davanti ai pm, la comunicazione di quella sera diventa invece «generica», in linea con la versione di De Gennaro. Colucci direbbe il falso anche quando all’improvviso indica in un vicequestore presente a Genova il responsabile delle operazioni: un funzionario già fuori dall’indagine e il cui coinvolgimento «mette in difficoltà l’accusa».
Le ritrattazioni di Colucci nascono, secondo l’accusa, dalle «pressioni» esercitate dal Capo della polizia. Ecco cosa scrivono i pm: «La posizione di supremazia del Capo, unità alla personalità del prefetto a confronto con il ruolo e la personalità di Colucci, rimosso dall’incarico di questore dopo i fatti di Genova e ora (2007 ndr) nella prospettiva di diventare finalmente prefetto, fanno intendere in quale modo i due potessero trovare la consonanza in parola».

l’Unità 25.11.08
Treviso, spina staccata al neonato
il vescovo: no ad accanimenti
di Toni Fontana


«Professionalità e sensibilità». Mentre infuriano le polemiche (Luca Volontè, Udc, ha parlato di «introduzione di una eugenetica soft») sulla vicenda del neonato con gravissime malformazioni ricoverato al reparto di Patologia neonatale di Treviso, cui i medici hanno sospeso i trattamenti, ritenendo che non vi erano speranze di salvezza, interviene il vescovo del capoluogo veneto, Andrea Bruno Mazzocato. Il prelato si schiera con la scelta compiuta dai sanitari: «Ogni vita umana - dice - è sacra e chiede di essere sostenuta con assoluto rispetto e con mezzi possibili, in ogni momento. Questo sostegno non deve però offendere la dignità della persona con accanimenti terapeutici inutili». Il vescovo non parla di eutanasia; nel suo intervento accenna alla «notizia riportata dai mezzi di comunicazione circa la prassi medica seguita nei confronti del neonato affetto da gravissime malformazioni morto a Ca’Foncello» e, dopo aver ricordato «i principi morali più volte espressi dalla Chiesa» si schiera contro «accanimenti terapeutici inutili, anche se tecnicamente possibili». Tra le righe il prelato ripropone le indicazioni del centro di bioetica dell’Università Cattolica di Roma che, nel 2006, diffuse le linee guida «per l’astensione dall’accanimento terapeutico nella pratica neonatoligica» schierandosi appunto per la sospensione di trattamenti inutili. A Treviso il procuratore capo Antonio Fojadelli fa notare che sul «testamento biologico non esiste ancora un quadro normativo certo e completo».
Su Eluana Englaro e i temi che riguardano il «trattamento di fine vita» interviene Famiglia Cristiana. L’editoriale del prossimo numero recita tra l’altro che «siamo di fronte al suicidio di un Parlamento, sempre più svilito, che abdica alle proprie responsabilità e si autosospende dalla sua funzione legislativa».
Berlusconi - dice il settimanale - «una legge non la vuole e se ne lava le mani, affidandosi ai giudici (almeno in questo caso!).. Veltroni «è l'eterno indeciso».

l’Unità 25.11.08
Emergenza Gaza Nella Striscia civili allo stremo. La denuncia delle organizzazioni umanitarie
Cisgiordania murata. La regione ridotta in tanti ghetti. Il mondo assiste impotente
Il dramma dei palestinesi assediati, divisi e senza Stato
di Unberto De Giovannangeli


Il 29 novembre l’Onu ha indetto la Giornata mondiale di solidarietà con il popolo palestinese. L’Unità dà voce a un popolo senza diritti, raccontandone speranze e tragedie. Partendo dall’assedio di Gaza.
Una nazione senza Stato. Un popolo tradito dalle sue leadership, abbandonato dai «fratelli» arabi, assediato (a Gaza) e costretto a vivere nei tanti ghetti a cui è stata ridotta la Cisgiordania. È la Palestina oggi. Il dramma di un popolo si consuma nell’impotenza manifesta della comunità internazionale e in uno scontro di potere interno che rischia di trasformarsi in una devastante guerra civile. Il 29 novembre l’Onu celebra la giornata mondiale di solidarietà con il popolo palestinese. Solidarietà è anche mantenere viva l’attenzione su un dramma in atto. Il dramma degli «ingabbiati» di Gaza e dei «murati» della Cisgiordania.
LA GABBIA DI GAZA
È l’emergenza tra le emergenze. I pressanti inviti delle Nazioni Unite hanno spinto Israele a riaprire parzialmente la frontiera con la zona controllata da Hamas per permettere il passaggio dei beni di prima necessità. Di fronte all’aggravarsi della crisi umanitaria, il governo di Gerusalemme ha concordato il lasciapassare per un numero limitato di convogli. Dal 4 novembre, quando un’incursione di Tsahal nel territorio aveva provocato una ripresa degli attacchi di Hamas, è la seconda volta che le autorità israeliane hanno permesso la revoca del blocco. Una misura, però, giudicata troppo timida e quasi inutile dagli organismi che operano nella zona. Una quarantina di camion di alimenti, «non sono sufficienti», lamenta Christofer Gunness, portavoce dell’Agenzia Onu per i rifugiati della Palestina (Unrwa).
«Come animali in gabbia». Così si descrivono gli abitanti della Striscia di Gaza: senza corrente elettrica, senza scorte alimentari, senza latte per i propri figli. Voci da Gaza. Racconti disperati. Richieste di aiuto che non devono cadere nel vuoto. «Non ne possiamo più, mi sembra di essere un animale in gabbia», afferma Khalil Barakat, 50 anni, che vive nella colonia di Al Shati. «Ho paura per la vita di mio figlio, ha solo 11 mesi», riferisce Intizar, una giovane mamma, «siamo senza corrente elettrica e giro tutto il giorno per trovare del cibo per il mio bambino. Sono stata in alcuni negozi e non ho trovato nulla, tutto deserto». La donna racconta che è diventato impossibile trovare alcuni prodotti «come il latte, la carne, i pannolini...».
LA TESTIMONIANZA DI AMIRA
A Gaza è tornata anche Amira Hass, corrispondente del quotidiano israeliano «Haaretz» nei Territori. Amira aveva vissuto a Gaza negli anni Novanta. «In primo luogo mi ha colpito la miseria», dice la reporter. «Rispetto al passato - annota Amira Hass - la povertà mi fa impressione». «Le misure che aggravano le sofferenze della popolazione civile della Striscia di Gaza sono inaccettabili e devono cessare immediatamente», dichiara sottosegretario generale dell’Onu John Holmes.
GAZA O HAMASLAND?
Assediati da Israele, il milione e mezzo di palestinesi della Striscia fanno i conti con le conseguenze, disastrose, della resa dei conti armata tra Hamas e Al Fatah. È l’altra faccia della tragedia palestinese: quella di uno scontro politico-militare che non ha fine. Da Ramallah, parla il presidente dell’Anp, Mahmud Abbas (Abu Mazen). Il rais insiste sulla necessità di difendere la unità del popolo palestinese di fronte ai «golpisti di Gaza», cioè Hamas. Se costoro pensano di poter decidere per il popolo intero, esclama con foga, «si illudono,si illudono, si illudono». Dopo aver espugnato con la forza (nel giugno 2007) comandi centrali, commissariati e campi profughi essi vorrebbero ora «creare un regime separatista nella nostra amata Gaza» lamenta Abu Mazen.
«È lui il golpista, succube di Israele», ribatte Mahmud al Zahar, leader dei «duri» di Hamas.

l’Unità 25.11.08
Nelle sale tedesche «Anonyma» tratto dal diario dell’epoca d’una giornalista
Le violenze perpetrate dai soldati dell’Armata Rossa taciute e rimosse per 60 anni
1945, i due milioni di stupri che misero fine alla guerra
di Gherardo Ugolini


Un gioco di veti incrociati ha coperto la tragedia di massa di cui, alla sconfitta, furono protagoniste in Prussia orientale le cittadine del Reich. Ora il film di Max Färberböck l’ha imposta all’attenzione di tutti.

BERLINO. Quante furono le donne tedesche violentate dai russi negli ultimi mesi di guerra? Secondo gli storici, se si considera l’intero territorio della Prussia orientale, la regione di confine dove l’Armata Russa sfondò già nel dicembre del 1944, le donne vittime di stupro furono circa 2 milioni, gran parte delle quali ammazzate direttamente dai soldati che le violentarono o morte per le conseguenze della violenza (spesso compiendo suicido). Un dramma collettivo dalle proporzioni mostruose, sul quale per decenni è caduto un muro di silenzio. Nella Ddr il tema è stato esorcizzato fino all’ultimo per ovvie ragioni di opportunità politica: non si poteva parlare dei soldati sovietici se non in termini apologetici di liberatori. Allusioni agli stupri di guerra erano ammesse ma solo sottolineando che si era trattato di pochi episodi isolati dovuti al cattivo comportamento di qualche soldato ubriaco che aveva disatteso le consegne delle autorità militari. Ed era d’obbligo ricordare che i tedeschi della Wehrmacht pochi mesi prima avevano violentato le russe in misura incomparabilmente superiore. Ma anche all’Ovest si è preferito per decenni far cadere il silenzio su quella tragedia, in parte per un senso di vergogna che coinvolge la biografia dell’intera nazione, in parte per un principio di «colpa collettiva» introiettato in misura più o meno consapevole da molti, e in parte anche per non danneggiare i rapporti politici con l’Urss e poi con la Russia.
Ora questa rimozione sembra essere finita. A riproporre la vicenda delle violenze dei russi sulle donne tedesche è arrivato un film uscito sugli schermi tedeschi a fine ottobre. Si intitola Anonyma. Eine Frau in Berlin e l’ha girato Max Färberböck basandosi sul diario di una giovane giornalista tedesca trovatasi a vivere a Berlino nelle settimane tra il 20 aprile e il 22 giugno del 1945. L’attrice Nina Hoss interpreta il ruolo della protagonista sullo sfondo degli ultimi giorni di guerra: l’assedio sovietico della capitale, la resistenza a oltranza ordinata dal Führer, l’arrivo dei carri armati dell’Armata Rossa fino alla capitolazione del Reich. La pellicola illustra la pena di sopravvivere in una città distrutta, la difficoltà di trovare cibo, la vita nascosta negli scantinati. Rievoca anche la grande paura che serpeggiava a Berlino nei confronti dei Russi, descritti dalla propaganda nazista come mostri crudeli e selvaggi. E racconta naturalmente anche degli stupri di massa compiuti dai soldati vincitori.
PERSONA O BOTTINO?
Finché la protagonista, che anche nel film non ha nome, per puro spirito di sopravvivenza decide di lasciarsi prendere come bottino di guerra da un ufficiale dell’esercito nemico (Evgeny Sidikhin) così da garantirsi la sussistenza materiale ed un minimo di protezione. Tra i due nasce un sentimento che potrebbe essere definito d’amore, se non ci fosse a dividerli la barriera dei diversi schieramenti: lui uno dei colpevoli, lei una delle vittime. Il film di Färberböck racconta tutto questo in modo sobrio e disincantato, senza rabbia, vittimismi e neppure moralismi. Questo film è un’ennesima testimonianza di quella tendenza che da un po’ di tempo si è fatta avanti nella storiografia tedesca e con essa anche nella percezione comune della gente. La parola d’ordine è: indagare a tutto campo su eventi considerati fino agli anni Novanta un tabù, in particolare sulle sofferenze patite dalla popolazione civile tedesca durante la seconda guerra mondiale. Un tempo parlare dei tedeschi come «vittime» piuttosto che come «carnefici» poteva costare l’accusa di nostalgia verso il passato nazista o di revisionismo destrorso. Adesso non più. Così abbiamo visto il dolore dei cittadini di Dresda, caduti sotto le bombe alleate nel febbraio 1945, così come il dramma dei profughi tedeschi costretti dopo la guerra a lasciare i paesi di residenza (Sudeti, Slesia, Pomerania). Sovente è stato il cinema il veicolo più efficace nel raccontare queste pagine dolorose della storia. E in questa serie rientra anche la questione degli stupri di massa compiuti dai soldati dell’Armata Rossa.

l’Unità Firenze 25.11.08
Sindacati e studenti si incontrano in vista del prossimo sciopero generale
di S. Cas.


«La vostra lotta è la nostra lotta». Le parole di Franco Nigi - Rsu Electrolux - riassumono l’incontro di ieri al plesso occupato di viale Morgagni tra gli studenti e alcuni rappresentanti sindacali. «Dovremo reggere nel tempo - spiega Gianni Rinaldini, segretario generale Fiom Cgil -, perché governo e confindustria pensano di far passare questo autunno caldo e poi continuare per la loro strada. Ma lo sciopero generale del 12 dicembre sarà solo l’inizio». Sciopero confermato quindi, «fintanto che il governo non cambierà politica economica», nelle parole di Andrea Montagni della Cgil, e che vedrà in piazza, a fianco dei lavoratori, studenti e precari della conoscenza, «lavoratori privi di diritti, di assistenza sanitaria e previdenziale, costantemente sotto ricatto - come racconta Ilaria Agostini del coordinamento docenti precari - costretti ad accettare condizioni lavorative non regolari». Ancora più ricattabili sono i lavoratori stranieri «che, perdendo il lavoro, diventano automaticamente clandestini - ricorda Rinaldini - in virtù di una legge vergognosa, la Bossi-Fini, contro cui combatteremo. Perché è importante che tutti i lavoratori, strutturati, precari e stranieri, rimangano uniti in un momento in cui il governo cercherà in tutti i modi di dividerli». Dopo l’incontro di ieri, continuano in varie facoltà dibattiti e approfondimenti che ormai vanno oltre la riforma universitaria. Oggi e domani al polo di Novoli sarà ospitato il Forum nazionale contro la mafia, mentre a Sesto alle 21.15 continuano gli incontri sulle energie rinnovabili.

Repubblica 25.11.08
L'Osservatore: "L'Europa è in preda ad un impulso di autodistruzione"
Crocifisso, la Chiesa attacca la Spagna
di Alessandro Oppes


La guerra dei vescovi contro Zapatero
Accuse di "cristofobia" dopo il veto del crocifisso. Anche il Vaticano attacca
I socialisti propongono: estendere il veto di Valladolid a tutta la Spagna

CITTA´ DEL VATICANO - «Che si giunga a considerare un crocifisso offensivo in Occidente si può solo interpretare come un sintomo allarmante di amnesia o necrosi culturale». L´Osservatore Romano ha affidato a un articolo dello scrittore spagnolo Juan Manuel de Prada il compito di esprimere il proprio sconcerto per la decisione presa nei giorni scorsi dal tribunale amministrativo di Valladolid di far rimuovere i crocifissi dalle aule di una scuola pubblica della città spagnola. La decisione non è ancora stata commentata ufficialmente dal Vaticano.

MADRID - «A volte è necessario saper dimenticare». Parla con tono pacato, il cardinale Antonio Maria Rouco Varela, ma le sue parole sono taglienti come lame. Dimenticare la Guerra Civile, dimenticare la dittatura, è il nuovo obiettivo proclamato dal presidente della Conferenza episcopale, per evitare di «dar adito a scontri che potrebbero finire per essere violenti». L´accusa non è neanche tanto velata, e nel mirino, ancora una volta, c´è il governo socialista di José Luis Rodríguez Zapatero. Colpevole, per il cardinale ultra-conservatore di Madrid, di alimentare lo scontro sociale, di ostacolare la «riconciliazione» nazionale per il fatto di aver promosso una legge, quella sulla «Memoria storica», che ha l´obiettivo di restituire dignità alle vittime del franchismo.
Rouco si presenta con questa nuova sfida davanti all´assemblea plenaria dei vescovi, ancora scossi per la decisione presa giorni fa da un giudice di Valladolid di far rimuovere tutti i crocifissi dalle pareti di una scuola pubblica. «La nostra società è malata», aveva tuonato poche ore prima il cardinale primate di Spagna, Antonio Carizares, parlando di «cristofobia». E il malumore espresso a gran voce da alcuni prelati rischia già di trasformarsi in un coro di protesta dell´intera Chiesa cattolica spagnola. Anche dal Vaticano l´Osservatore Romano ha commentato la sentenza di Valladolid: "Che si consideri un crocifisso offensivo in occidente è sintomo di amnesia e necrosi culturale" scrive nel suo editoriale il quotidiano del Vaticano. "E in Spagna questo impulso autodistruttivo assume espressioni violente".
Nessuna reazione a caldo dal palazzo della Moncloa, sede del governo, ma a parlare senza peli sulla lingua - esprimendo quella che è con ogni probabilità l´opinione dello stesso premier Zapatero - è il numero due del Psoe, José Blanco: «Mi sorprende che chi sta promuovendo canonizzazioni in relazione a persone di quell´epoca, ora faccia appello all´oblio e al perdono. Non si può cancellare la memoria del nostro paese e alcuni soffrono di amnesia in funzione del fatto che gli convenga o meno». I socialisti si schierano poi anche a favore della rimozione dei crocifissi dalle scuole pubbliche perché, dice Blanco, ricordando di essere «credente», «bisogna rispettare il credo religioso di tutti».
Lo scontro si profila durissimo, e i vescovi sembrano decisi ad affrontare a muso duro la svolta «laicista» del governo Zapatero. In linea con le posizioni espresse in questi anni in Parlamento dal Partito popolare, contrario a «riaprire vecchie ferite», il cardinale Rouco Varela vede una soluzione nel ritorno allo «spirito di riconciliazione, sacrificato e generoso» degli anni della transizione alla democrazia. Anni in cui, in base a un patto non scritto, la società spagnola scelse di evitare di fare i conti con il passato per favorire il consolidamento delle istituzioni democratiche. Ma, arrivato al potere nel 2004, Zapatero aveva giudicato maturi i tempi per ridare spazio alla memoria, promuovendo un risarcimento morale delle vittime e favorendo la ricerca dei resti delle migliaia di desaparecidos. Ma il presidente della Conferenza episcopale la pensa in maniera completamente opposta. «Dimenticare» è la nuova parola d´ordine, per ottenere «un´autentica e sana purificazione della memoria» che liberi i giovani «dagli ostacoli del passato, senza gravarli dei vecchi litigi e rancori».
Reazioni anche Italia alla sentenza del giudice di Valladolid. «La laicità dello Stato è un principio troppo serio per essere ridicolizzato, come è avvenuto in Spagna», ha detto il leader dell´Udc Pierferdinando Casini. Per Roberto Calderoli, ministro per la Semplificazione Normativa, «il crocifisso non è solo un simbolo religioso, ma è il simbolo della nostra civiltà».

Repubblica 25.11.08
Se il futuro dell’uomo si chiama poliamore
Dalla poligamia alle società monogamiche
di Jacques Attali


Anticipazione / Jacques Attali ha curato un volume dedicato all´evoluzione dei rapporti di coppia a far data da quattro miliardi di anni fa
Per i primi esseri umani la donna è ristoro, l´uomo potenza, lei è terra mentre lui è cielo
Il matrimonio, la consacrazione di un rapporto di coppia, nasce solo presso gli Ebrei

Da oltre quattro miliardi di anni, la storia della vita segue una sola strada, quella della propria conservazione. E fa ricorso a una sola strategia, quella della diversificazione. Per riuscirvi inventa mille stratagemmi a cominciare dal più singolare di tutti, il più fantasmagorico, fonte di variazioni che si rinnovano senza sosta: la sessualità, strana divisione di ogni specie in due generi, la cui unione è necessaria perché la specie si perpetui.
La specie umana è la prima a inscrivere i rapporti tra i sessi in una concezione globale del mondo. A tal punto che fece dell´amore e delle sue interdizioni uno dei pilastri fondanti delle prime civiltà, le quali stabilirono che le leggi di quei rapporti fossero eterne poiché fissano le condizioni della sopravvivenza e dell´identità culturale.
Per i primi esseri umani, la donna è accoglimento, luogo di ristoro; l´uomo è potenza e movimento. La donna è «Terra», l´uomo è «Cielo», dicono i popoli delle origini. La donna ha il progetto esistenziale di trasmettere la vita, mentre l´uomo ha un progetto di conquista motivato dalla paura della fine. Gli uomini temono le donne poiché, mettendoli al mondo, li destinano alla morte e perciò, finché il ruolo dei padri nella procreazione non è stato scoperto, le madri hanno avuto un potere assoluto sui figli.
In particolari circostanze geografiche e storiche, le prime mitologie organizzano la protezione demografica del gruppo. Definiscono tabù ed esigenze primarie. Non esiste nessuna pratica (dall´incesto alla zoofilia, passando per la pedofilia, il feticismo, la pornografia o l´erotismo) che, vietata da alcune società, non sia fortemente raccomandata da altre e soltanto i rapporti sessuali tra madre e figlio sono condannati universalmente.
A un certo punto ? spinte da circostanze del tutto particolari ? alcune società si orientano verso la poliandria (più uomini per una sola donna), mentre, una volta che l´uomo prende coscienza della paternità, quasi tutte le altre tendono alla poliginia (più donne per un solo uomo). Visto che servono più donne che uomini, queste società poliginiche sono necessariamente bellicose e conquistatrici. L´accumulazione del denaro per produrre ed economizzare il lavoro non è ancora d´attualità: la poligamia non è facilmente compatibile con il capitalismo?
Dobbiamo aspettare gli Ebrei, quattromila anni fa, perché le relazioni tra i due sessi siano consacrate in una cerimonia, il matrimonio, che si svolge in un luogo di culto sotto il controllo dei genitori e dei religiosi senza però che sia messa in discussione la poliginia.
Poi arriva il cristianesimo. Prima di allora, nessuno aveva preteso di imporre a tutta l´umanità la monogamia, la fedeltà totale e relazioni irreversibili. Nessuno aveva preteso di gestire con tanta precisione la vita sessuale di ogni fedele. E mentre tutte le religioni avevano considerato inaccettabile il celibato, per Paolo e i suoi discepoli il vero scandalo è il sesso. Per i padri della Chiesa, la monogamia non è che uno stratagemma perché l´umanità sopravviva: la vita è un dono di Dio che è compito degli uomini trasmettere. Da allora assume una forma assoluta: una sola donna, un solo uomo, tutta la vita, nel rifiuto della sensualità e sotto la sorveglianza puntigliosa di Roma. Attraverso il controllo della sessualità e del matrimonio, la Chiesa, sposa e madre, tenta così di prendere il potere sull´Occidente, poco prima che nel VII secolo l´islam venga a restituire legittimità alla poliginia su un quinto del pianeta.
Anche se in Europa la Chiesa cattolica è dominante da un punto di vista politico, non riesce a imporre quasi niente della sua concezione dell´amore fino al XII secolo. La poliginia resta consuetudine dei potenti, il concubinato quella dei contadini, e i preti, che prima di allora non sono stati quasi mai casti, si occupano raramente dei matrimoni.
In compenso, un vento venuto d´Oriente, dove la poliginia è una tradizione dei regimi imperiali, sconvolge l´Occidente glorificando erotismo e amor cortese. Ne scaturisce la modernità occidentale che trova il suo nutrimento in una ricerca amorosa che alcuni reprimono e trasformano in bramosia di conoscenza, ambizione artistica o superamento di sé.
Con Christopher Marlowe e William Shakespeare fa la sua apparizione il colpo di fulmine, unione paritetica dei corpi e degli spiriti, e l´amore trova mille forme di espressione nella letteratura e nell´arte. Uomini e donne cominciano a parlarsi da pari a pari e il loro dialogo non cesserà più: nasce l´attrazione per l´Altro, l´interesse per l´Altro, il bisogno dell´Altro e l´attaccamento all´Altro. Le donne vi ricoprono il ruolo principale, sono le prime che osano davvero parlare d´amore.
La Riforma protestante e l´avvento della società borghese del XVII secolo limiteranno l´amore alle esigenze della riproduzione sociale e faranno dell´eredità la prima ragion d´essere della famiglia e del matrimonio: non si deve risparmiare in onore di Dio, né per avere più donne, ma per accrescere la ricchezza della famiglia.
Nel XIX secolo l´unione borghese riesce là dove il matrimonio cristiano ha fallito e lo Stato riorganizza il matrimonio monogamico a proprio profitto, ma senza punire l´uomo che pratica la poliginia.
Nel XX secolo, mentre in gran parte del mondo le donne si battono ancora contro la poliginia, contro il matrimonio forzato e quello dei bambini (ancora oggi una ragazzina su tre è data in sposa prima di aver compiuto 18 anni), l´amore diventa la prima rivendicazione veramente planetaria. Si impone il diritto di ciascuno a essere amato e la coppia diventa un rapporto tra due persone che si parlano, si osservano, si giudicano e si amano. Non c´è nulla che permetta di garantire la perennità della relazione, poiché se è vero che gli esseri umani hanno bisogno di amare ed essere amati, molti hanno anche bisogno di cambiare oggetti e soggetti d´amore. L´utopia cristiana e la norma borghese vengono perciò cancellate: l´assenso degli sposi, se è veramente libero, non può essere né eterno, né esclusivo.
Come in un ritorno alle origini, si annuncia una nuova era che porta con sé nuove forme di relazioni tra esseri umani fondate sulla soddisfazione istantanea dei desideri e liberate progressivamente dall´assillo della riproduzione: si profila il matrimonio contrattualmente provvisorio, in cui la durata del rapporto sarà fissata in anticipo dalla coppia; il poliamore, in cui ciascuno potrà avere in tutta trasparenza più amori allo stesso tempo; la polifamiglia, in cui si farà parte contemporaneamente di più famiglie; la polifedeltà, in cui ciascuno sarà fedele a diversi membri di un gruppo dalle sessualità molteplici. Quanto ai bambini, vivranno in una casa dove i vari genitori verranno a turno a occuparsi di loro.
In un futuro più lontano sessualità, desiderio e amore saranno ancora più facili da dissociare, macchine speciali si occuperanno della riproduzione e, prima di diventare anch´essa meccanica, la sessualità sarà una pratica devoluta esclusivamente al piacere. L´utero artificiale e la clonazione schiuderanno prospettive vertiginose in cui ciascuno potrà decidere autonomamente di riprodursi e un giorno si arriverà forse all´ermafroditismo universale.
È un po´ come se l´umanità scegliesse di ripercorrere a ritroso la storia della vita, tornando prima al matrimonio di gruppo, poi alla partenogenesi. Per riscoprire un giorno, chissà, il bisogno dell´altro. E quindi dell´amore.
Si deve resistere a un tale avvenire o rimanere stupiti davanti a tanti mutamenti? Possiamo sperare che l´amore salvi gli esseri umani dalla propria follia? Il nostro libro è un viaggio in questa storia meravigliosa e minacciata. Un viaggio che ci porterà a scoprire le tribù poliandriche della Cina e i rituali omosessuali della Nuova Guinea; le donne degli harem d´Arabia e i numerosi mariti delle donne tibetane; le prostitute d´America e le geishe giapponesi; i maestri dell´erotismo indiano e i matrimoni di gruppo nel Congo; famiglie borghesi e trii bisessuali; macchine di piacere e chimere d´amore. Tutti protagonisti dell´ambizione umana più elevata e più rivoluzionaria: trascendersi per raggiungere un ideale, quello di piacere all´altro per piacere a se stessi. Ed essere amati.

il Riformista 25.11.08
Berlusconi non è fascismo. Però...
di Massimo Giannini


Nel mio libro "Lo Statista" rifiuto le tesi in voga dell'anti-berlusconismo radicale. Ma cerco di spiegare perché, a mio avviso, la parabola politica del premier si inserisce in un filone di continuità simbolica con il Ventennio.

Caro direttore, nel suo articolo sul Riformista di martedì 18 novembre Andrea Romano mi fa l'onore di inserirmi a bella posta in uno dei «due rami ugualmente sterili» attraverso i quali si sarebbe sdoppiato quello che lui chiama «l'antiberlusconismo radicale» nato all'incirca nel 1995. Tredici anni dopo, io sarei uno dei frutti (se capisco bene tra i più bacati) di cotanta semina. Sarei parte di quella «ridondanza a giorni alterni dell'allarme regime». E farei coppia con Antonio Di Pietro. Colpevole lui di aver raffigurato in Parlamento Berlusconi come il generale Videla. Colpevole io di aver scritto del berlusconismo «né più né meno come di un regime con tratti in comune con il fascismo». «Con buona pace - aggiunge Romano - sia del rispetto dovuto alle vere vittime dei veri fascismi, italiano e argentino, sia della buona salute dei nostri sensori civili devastati con tanta leggerezza».

No, caro direttore. Non ci sto. Per amor di verità, Koba avrebbe dovuto leggere (o almeno leggere meglio) il libro che ho appena dedicato al Cavaliere ("Lo Statista"). Se l'avesse fatto, avrebbe potuto raccontare ai tuoi lettori che il raffronto tra berlusconismo e fascismo si iscrive in una riflessione molto più ampia sulla natura "tecnica" dei totalitarismi moderni. Avrebbe potuto scoprire che il mio tentativo è opposto a quello in voga presso l'antiberlusconismo radicale, che tende ad esaurire il fenomeno o come semplice forma di telepopulismo mediatico, o come barbaro esempio di golpismo costituzionale.

Proprio per evitare queste semplificazioni, (che spesso la cultura terzista sfrutta abilmente per incasellare a suo comodo tutti coloro che hanno il torto di criticare il Cavaliere) nel libro non ho fatto un solo cenno alle vicende giudiziarie di Berlusconi. Viceversa, ho fatto molti cenni sulla piena legittimità democratica del suo governo, sulla compattezza del blocco sociale che ha ricostruito e che è largamente maggioritario nel Paese, sull'oggettiva capacità di generare consenso di molte campagne messe in atto in questi mesi dai suoi ministri. Ho cercato di spiegare perché, a mio parere, il Cavaliere è ormai un vero statista: tra i peggiori, ma pur sempre uno statista che ha saputo capire e conquistare l'Italia.

Ho cercato di spiegare perché, a mio avviso, la sua parabola politica si inserisca in un filone di continuità simbolica con il fascismo. C'è qualche affinità di contesto politico (la crisi dello Stato liberale e il crollo del sistema dei partiti), qualche affinità di carattere personale (il mito del capo infaticabile, il carisma populista e situazionale), qualche affinità sui valori di fondo (dio-patria-famiglia), qualche affinità sulla produzione e la gestione del consenso (attraverso la "vigila cura" sui media). E poi, certo, una analoga visione autocratica del potere, coniugata al tentativo di riprodurre una "rivoluzione conservatrice" che l'opinione pubblica mostra di gradire. Il tragico errore dell'opposizione (nel libro dico anche questo) è di non provare a chiedersi perché, ma di continuare a pensare, in nome del vecchio mito della "diversità" berlingueriana, che quello italiano sia un popolo indegno di questa nobile sinistra.

Ho cercato anche di chiarire perché, secondo me, l'Italia di oggi attraversa un ciclo di democrazia a bassa qualità. Quando lo "stato di diritto" diventa "stato di governo", e il potere tende ad esercitare la sua sovranità in modo tendenzialmente assoluto, con poco rispetto per le istituzioni di garanzia e con molta intolleranza per tutte le manifestazioni di dissenso, la democrazia non viene meno. Ma può assumere connotati illiberali, sui quali forse non è inutile riflettere. Possibilmente senza ricadere nei soliti (quelli sì, davvero corrivi) stereotipi dominanti: il berlusconismo militante e l'antiberlusconismo combattente. Non ho bisogno della lezione di Romano, per riconoscere la differenza con le tragedie dei veri fascismi, e per portare il rispetto che meritano alle vittime delle dittature del tragico Novecento. Lo scrivo testualmente, nel libro. E mi dispiace che una persona intelligente come Romano mi ricicli in quello che nel libro chiamo «il rumore bianco» dell'informazione, come fossi uno dei tanti "imbecilli" (e in effetti non ne mancano) che abbaiano come cani alla luna "regime, regime!". Non era e non è questa la mia intenzione.

Ma un'ultima cosa, al Terribile Koba, la voglio chiedere. Apprezzo la chirurgica precisione del suo bisturi culturale, che seziona i tessuti già martoriati dello sciagurato centrosinistra italiano. Ma perché non prova a dirci lui (con lo stesso rigore analitico e politico) cosa pensa del berlusconismo di questi anni? Perché non scattano mai i suoi «sensori civili», quando il Cavaliere definisce "coglioni" gli italiani che votano a sinistra, o "imbecilli" quelli che lo criticano perché dà dell'abbronzato a Obama? Perché non si indigna, in nome di quelle povere vittime delle vere dittature, quando non riesce mai a dirsi anti-fascista, e dribbla il tema con un agghiacciante "io penso solo a lavorare"? Perché non prova un moto d'imbarazzo, quando dice che il Parlamento è un posto per nullafacenti e la Corte costituzionale è un covo di comunisti, quando impone alle Camere il Lodo Alfano, quando accusa i tg di creare ansia nei telespettatori, o quando sceglie lui (espropriando di questo diritto l'opposizione) il presidente della Vigilanza Rai?
Tutto questo, con il vero fascismo mussoliniano, non c'entra. Sono il primo a saperlo, e a scriverlo. Ma Koba è così sicuro che tutto questo c'entri con la vera democrazia liberale?

il Riformista 25.11.08
Il dibattito è antico, e riguarda la natura del sistema berlusconiano


Il dibattito è antico, e riguarda la natura del sistema berlusconiano. Analoga al fascismo, per gli anti-berlusconiani in servizio permanente effettivo, una fitta schiera di "intransigenti" radicali, che si è conquistata ascolto e consenso nell'elettorato della sinistra. Populista ma democratica invece per chi, pur non essendo berlusconiano e spesso anzi sentendosi all'opposizione, non vuole trasformarsi in professionista dell'anti-berlusconismo e anzi pensa che chi lo fa rafforza il consenso popolare verso il berlusconismo.
Alla gamma dei pareri si è aggiunto domenica il solito Di Pietro il quale, in un'anticipazione del suo nuovo libro pubblicata dal Corriere della Sera, è giunto al paragone estremo, quello con Hitler. Berlusconi, a suo dire, tratterebbe i magistrati come gli ebrei, diventando così una specie di nuovo Fürher (nella foto, la statua di cera del grande dittatore).
Non ricorderemo a Di Pietro che l'Olocausto non si paragona, perché rappresenta l'indicibile, e ogni parallelo storico lo banalizza, recando offesa grave alla sua vittima: il popolo ebreo. Né aggiungeremo che, dal versante opposto dei Di Pietro, c'è invece chi grida, tra il serio e il faceto, «Silvio santo subito», e «Meno male che Silvio c'è». Perché a demonizzazione corrisponde sempre beatificazione. Piuttosto, preferiamo affrontare il tema, più serio, del giudizio sul «regime» berlusconiano con i due articoli che ospitiamo in queste pagine: il primo è di Massimo Giannini, vicedirettore di Repubblica e autore del recente volume "Lo Statista. Il Ventennio berlusconiano tra fascismo e populismo", che replica a un articolo pubblicato sul Riformista del nostro Andrea Romano. Il secondo articolo è la controreplica di Andrea Romano.
Ci sembra un buon modo di discutere. Purtroppo la semplificazione dell'assoluta anomalia rappresentata in Italia dal fenomeno Berlusconi produce nel nostro dibattito pubblico più invettive e partigianerie che analisi e studio. Eppure sarebbe ora di cominciare a considerare Berlusconi come parte della storia d'Italia, e trattarlo di conseguenza sul piano storiografico. In fin dei conti, a fine legislatura il Cavaliere sarà stato in scena per un ventennio, né più né meno come Lui, come nota il titolo del libro di Giannini. E un ventennio di storia italiana non si può archiviare alla Di Pietro, con un paragone hitleriano.

il Riformista 25.11.08
Barack cerca parrocchia
Quale chiesa sceglieranno di frequentare gli Obamas la domenica mattina?
di Alessandra Cardinale


New York. Quale chiesa sceglieranno di frequentare gli Obamas la domenica mattina? E perchè il neo presidente americano viene sempre più spesso avvistato tra gli attrezzi ginnici della sua palestra preferita piuttosto che tra i banchi di una chiesa? Archiviato il dilemma scuola pubblica o scuola privata (concluso a favore di quest'ultima), si apre il capitolo, ugualmente delicato, della chiesa che a Washington D.C. dal 20 gennaio gli Obamas decideranno di frequentare. Il sito web Politico.com è il primo a puntare il dito contro Obama e famiglia che mancherebbero dalle funzioni religiose da tre settimane, il che significa che da quando è stato eletto, Barack non mette piede in chiesa. «La famiglia Obama ha un gran rispetto dei luoghi sacri, e la loro presenza attirerebbe troppo attenzione sui confratelli e sulla chiesa», ha risposto un consigliere del neo Presidente alle perplessità di chi gli chiedeva come mai la prima famiglia americana non si fosse più recata in Chiesa. Il temporeggiare di Obama e della first lady Michelle è saltato subito agli occhi degli attenti commentatori americani che, almanacco politico alla mano, hanno maliziosamente fatto notare che sia George W. Bush che Bill Clinton neo-presidenti, riuscirono a recarsi a messa: nel 1992, appena eletto, Bill Clinton partecipò alla messa nella chiesa di Little Rock in Arkansas e la terza domenica dalla sua elezione fu fotografato con Jesse Jackson in una parocchia cattolica. Ma anche George W. Bush non mancò gli appuntamenti con la fede, nel 2000 e nel 2004 seguiva regolarmente, insieme alla moglie Laura, le funzioni della chiesa metodista di Austin in Texas. Ma non tutti gli analisti tirano le orecchie a Obama, infatti, il blog "Under God" del Washington Post chiede indulgenza nei confronti della first family. «Non posso immaginare una decisione più importante di questa per una giovane famiglia come quella di Obama», scrive David Waters esperto di questioni religiose. La scelta è infatti ampia e può facilmente diventare un bersaglio politico. Sono in molti a corteggiare il neo Presidente la cui presenza darebbe lustro, non solo spirituale, alla propria comunità: metodisti, battisti, episcopali, tutti aspirano ad ospitare la domenica mattina la famiglia presidenziale. «Tutto questo però non è giusto», scrive Waters, «dovremmo lasciarli in pace per dargli la possibilità di fare la scelta più giusta».

il Riformista 25.11.08
Burg, noi prigionieri del culto della Shoah
L'ex presidente del parlamento israeliano denuncia il peso schiacciante della memoria
di Grazia Lissi


L'ex presidente del parlamento israeliano sta facendo scalpore con il saggio "Sconfiggere Hitler", in cui denuncia il peso schiacciante della memoria. Per affrontare il presente ci vogliono nuovi strumenti. Israele sbaglia ad avvicinarsi agli Usa, «dovrebbe far parte della Ue, il continente della riconciliazione».

Nel suo libro ha invitato gli israeliani a non rimanere "schiacciati" dalla memoria dell'Olocausto. È stato preso come una provocazione. Cosa ritiene non sia stato capito?
Le polemiche sono nate perché il libro è stato ben capito: gli israeliani si sono arrabbiati, gli europei sono stati felici di leggerlo. In Israele chi ha letto il libro sa che offro un'alternativa che ci obbliga ad abbandonare i toni attuali. La Shoah è stata una base forte per la creazione dello Stato ma non può essere utilizzata per giustificare sempre quello che facciamo. Nel mio saggio c'è una nuova visione d'Israele, uno stato guidato da un senso morale, sensibile verso il prossimo e lo straniero, basato su norme che noi ebrei abbiamo chiesto al mondo per anni nei nostri confronti.
C'è un Hitler da sconfiggere in Israele e uno in Europa?
Quello con cui stiamo lottando noi israeliani non è il vostro. Come ebrei dobbiamo sconfiggere la nozione psicologica per cui il mondo è contro di noi e non possiamo avere fiducia in nessuno. Gli europei devono riuscire a gestire il problema dell'altro, ebrei, arabi, musulmani, senza ripetere gli errori già fatti. Dobbiamo distruggere l'utilizzo di strumenti hitleriani per combattere il diverso: l'odio, il razzismo, il nazionalismo.
Lei sostiene che la Shoah rischia di essere un tarlo che corrode Israele stesso.
Dal '45 al '48 si è passati dalla fine di Auschwitz alla fondazione dello Stato d'Israele, avevamo bisogno di nuovi miti. Non abbiamo prestato attenzione al trauma, pensavamo riguardasse gli ebrei della diaspora, noi dello Stato d'Israele credevamo in un nuovo prototipo d'israeliano. Dopo 60 anni ci siamo resi conto del trauma, la nostra storia non è scritta solo da eroi ma da esseri umani.
È duro con Israele, non teme di finire preda per antisemiti o anti-israeliani?
Con la pubblicazione all'estero, mi sono posto la domanda: la traduzione dovrà rispecchiare la voce di un israeliano oppure devo farla adattare in modo da mitigare il testo? Il dibattito in Israele, sia politico sia religioso, è urlato, se uno non alza la voce non viene ascoltato. Questa è la mia voce, chi odia me o gli ebrei non ha bisogno di una scusa per farlo, lo stesso vale per chi ci ama. Chi si trova in mezzo... capirà quanto Israele sia una società libera.
Ha scritto di voler essere «un ebreo universale piuttosto che un israeliano separatista».
C'è confusione nel mondo quando si parla di israeliani ed ebrei. Essere ebreo significa credere nello Stato e nella religione, essere israeliano vuol dire avere lo stato, la religione e il concetto di sovranità. Negli ultimi 60 anni l'israelianità è diventata meno religiosa e più nazionalista, meno popolo e più governo. Lo stato d'Israele sta trasformando gli ebrei da una comunità diasporica in qualcosa d'altro che ha elementi di sovranità. Il Cristianesimo, l'Islam sono un'unica religione in tanti stati, l'ebraismo è la religione di un popolo espressa in un unico stato.
Come mai nel suo libro critica Israele senza affrontare le radici del conflitto israeliano - palestinese?
Ai nuovi Bush del mondo americani, europei, israeliani, piace etichettare le persone, tutti i musulmani sono Bin Laden. So fare distinzioni. Il futuro di pace non è una responsabilità di buoni israeliani contro cattivi arabi, ma di buoni arabi, israeliani, palestinesi contro arabi, israeliani, palestinesi cattivi. Negli ultimi tre anni non c'è stato spargimento di sangue fra Israele ed Egitto, anche Abu Mazen è un uomo di pace, ha partecipato agli accordi di Ginevra.
Perché, secondo lei, Israele è sempre più vicino all'America e meno all'Europa?
È una strategia sbagliata. Israele dovrebbe far parte dell'Europa, non geograficamente, come insieme di persone. L'Europa è una profezia biblica tradotta in realtà, per millenni ci sono state guerre, spargimenti di sangue, ma 60 anni fa ha abbandonato la spada trasformandosi nel continente della riconciliazione. Ha creato un nuovo modello in cui si può essere patrioti e non nazionalisti. Se si realizzerà il progetto d'unione europea, ci saranno due Stati Uniti d'America e d'Europa; i primi sono un'entità politica e culturale che cancella le identità di chi vi entra, gli Stati Uniti d'Europa santificano le identità precedenti, tutti sono diversi. Per gli ebrei questa sarebbe la soluzione ideale.
È stato presidente della Knesset. Perché ha lasciato la politica?
Per ragioni personali e collettive. Negli ultimi due anni mi sono reso conto che Israele era diventato un regno efficiente ma senza profezia, il governo e l'economia funzionavano ma non capivo che direzione stessero imboccando. Non si parlava di pace, nessuno offriva una guida, mi sono ritirato quando ho visto che la mia influenza stava diventando sempre più limitata. Lavoro fuori dal sistema per rinnovare il pensiero israeliano, scrivo libri che rappresentano una base per l'azione, oggi ho un ruolo più politico di quando stavo al governo.
Ora che come Giobbe ha parlato, si sente sollevato?
Molto, sono redento.

La Gazzetta del Canavese 25.11.08
Bertinotti-Fassino: amici-nemici alle Officine H
di Bruno Cossano


Ivrea. Ieri sera si è svolto un appuntamento di alta valenza politico-culturale proposto dall’Associazione “La Terza Isola”. Il titolo della serata era “Dialoghi sulla Costituzione”, un progetto voluto per celebrare il sessantesimo anniversario della Costituzione italiana e inserito nel contesto del centenario di fondazione della Olivetti.
Alle Officine H di via Jervis, il tema dibattuto è stato “Idee e valori della sinistra all’origine della Repubblica”: protagonisti due carismatici personaggi della Sinistra italiana, Fausto Bertinotti e Piero Fassino, giunti alle Officine H ed applauditi calorosamente dal folto pubblico che ha seguito l'incontro.
Bertinotti e Fassino rappresentano anche due dei più noti politici espressi dal territorio piemontese: l’ex Presidente della Camera dei Deputati, pur essendo nato a Milano, è cresciuto nel Novarese e lì ha iniziato la sua ascesa politica. Fassino, invece, è un “piemontese tutto d’un pezzo”: nato ad Avigliana, l’ultimo Segretario dei Ds (oggi responsabile degli Esteri nel “governo ombra” del Pd) ha sempre vissuto a Torino.
La serata è iniziata con la visione di un filmato legato agli orrori della guerra, proiettato in sala per introdurre il dibattito e con la colonna sonora musicata dagli Area di Demetrio Stratos, gruppo pop italiano anni ‘60 con una connotazione politica di sinistra molto marcata.
Fausto Bertinotti ha esordito commemorando la memoria di una firma storica del giornalismo di casa nostra, come Sandro Curzi, le cui esequie si sono officiate in mattinata a Roma ed etichettato pubblicamente come padre storico della Repubblica italiana per tante motivazioni. Bertinotti ha menzionato il grande contributo della sinistra italiana alla creazione della Costituzione e si è soffermato sulle grandi lotte operaie degli anni ‘50 e ’60, sulla grandezza del movimento operaio che ha combattuto una battaglia secolare contro le forme di capitalismo dominanti; la macchina costituzionale ha lavorato alacremente per promuovere una società all'insegna dell'uguaglianza, della liberazione e della dignità delle persone, attrezzata per affrontare il futuro e basata essenzialmente sull' economia e sulla organizzazione di partito.
Quindi ha citato l'articolo 3 come caposaldo della costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Piero Fassino ha condiviso per grandi linee i concetti espressi da Bertinotti, enfatizzando il pensiero che la Costituzione sancisce: la formazione di uno stato democratico. Grandi elogi ad un padre storico come Piero Calamandrei e dito puntato contro l' ideologia del capitalismo, visto come il grande male della società assieme all'espressione classica del mondo clericale. Fassino ha ribadito il ruolo netto e chiaro della sinistra nell'affermazione e nella tutela della Costituzione, senza lesinare il processo degenerativo del partitismo degli anni bui dell’80 e ‘90 culminati con la vergogne di “mani pulite” e tangentopoli.
Qualche momento di laconica tristezza di Bertinotti nel ricordo delle tante nottate passate a parlare con l'amico Fassino sulle “difficili convergenze politiche e concettuali determinate e opposte alla destra liberale”.
Bella la battuta di Fassino rivolta all'amico compagno Fausto: «Io passavo a riorientare le masse dopo che tu le avevi puntualmente disorientate con le tue teorie.»
La serata quindi ha preso un taglio più propriamente politico e i due amici-nemici della sinistra storica italiana hanno fatto pubblicamente il mea culpa su certi insuccessi: la sconfitta rispetto alla destra berlusconiana più coesa e più organizzata.

lunedì 24 novembre 2008

Repubblica 24.11.08
Ragazzi dell'Onda "il Catalogo è questo"
di Mario Pirani


Il riformismo non è una teoria o una pia intenzione, ma una pratica concreta, un´azione per migliorare le cose, evitando, peraltro, di esagerare combinando sconquassi. Una premessa che mi è venuta alla mente nella sua ovvietà scrivendo un recente articolo sull´Università (Repubblica). Tra il materiale da me non utilizzato per ragioni di spazio, vi era una nota sulle iniziative prese dal presidente indipendente della giunta di centro sinistra della Sardegna, il dinamico industriale Renato Soru, l´inventore di Tiscali.
Più delle grandi riforme di vario colore che hanno inguaiato la scuola e le università, ancor più di quanto non fosse, Soru ha messo in atto per l´annualità 2008-2009 alcune misure semplicissime che si possono valutare immediatamente. La prima riguarda il punto più controverso del decreto Gelmini sulla scuola, la questione del tempo pieno. Ebbene, senza alcuna polemica e tenendo conto che la sua applicabilità implica la collaborazione tra lo Stato e le autonomie locali, Soru ha deciso che il bilancio regionale contempli uno stanziamento di 35 milioni di euro per estendere con fondi propri il tempo pieno a tutte le scuole primarie e medie dell´Isola.
Il finanziamento verrà suddiviso in base all´autonomia scolastica ma è fin d´ora vincolato ad una utilizzazione non dispersiva, ludica o casuale, finalizzata a colmare le deficienze che le inchieste Ocse e nazionali hanno riscontrato nelle competenze di base dei ragazzi italiani, in specie nel Mezzogiorno e nelle Isole: italiano, matematica, scienze, ecc. Basterebbe questo per promuovere la Giunta sarda, ma il menù è molto più ricco e apporta un aiuto decisivo alle due Università di Cagliari e Sassari.
Per dirla con Leporello: «Il catalogo è questo». I) La Regione versa 12 milioni di euro alle due università, impoverite dai tagli della Finanziaria, per sostenere la loro attività corrente. Inoltre stanzia 4 milioni per favorire la presenza di visiting professors che arricchiscano le esperienze di studio locali.
II) Con bandi biennali verranno distribuiti 5 milioni di euro per finanziare direttamente singoli giovani ricercatori, sia sardi che non sardi, che abbiano scelto di svolgere altrove, in genere all´estero, la loro attività, a condizione che ora siano disposti a lavorare ad un loro progetto scientifico o umanistico presso una delle due Università sarde. L´obiettivo è di incentivare il "rientro dei cervelli", tenendo conto che i giovani ricercatori italiani all´estero guadagnano all´inizio sovente non più di 1700-1800 euro, ma godono non solo di infrastrutture incomparabilmente migliori e di sistemi di ricerca più liberi. Soprattutto è loro ben presente che, a differenza della madre patria, gli esiti verranno giudicati soltanto per il merito e la professionalità. La scommessa di Soru è di tentare anche in Sardegna una prima inversione di tendenza: chi verrà, anche se l´università non ha soldi da offrirgli, riceverà dalla Regione direttamente ad personam 40.000 euro l´anno, più altri 15.000 per libri, materiali, spostamenti per studio.
III) Oltre alle normali borse di studio assegnate in base al merito e al reddito, da quest´anno la Sardegna mette a disposizione 2500 "assegni di merito" per un totale di 15 milioni, senza alcuna limitazione di reddito, per i giovani che si iscrivono per la prima volta alla università o sono già iscritti, a condizione che abbiano superato l´esame di maturità con almeno 80/100, che sostengano tutti gli esami universitari entro il tempo stabilito e conseguano una media del 27. Il contributo, versato direttamente allo studente, sarà di 500 euro nette al mese.
Si tratta di una iniziativa senza precedenti nel nostro Paese, cui si aggiunge per tutti i neo iscritti un contributo di 1200 euro per computer e libri. Infine, per rimpinguare l´esigua somma data dalle università, la Regione assicura altri 2500 euro per ogni borsa Erasmus.
IV) Oltre ai fondi per l´edilizia già assegnati per alloggi universitari in costruzione, in modo da portarli a Cagliari da 1000 a 2000 e a Sassari da 350 a 1000, la Regione assicura a tutti i ragazzi fuori sede una sovvenzione di 5000 euro l´anno per una abitazione nella città che li ospita.
Se ricordiamo tutte le polemiche e gli ostacoli che incontrò il tentativo di Soru di far pagare imposte più salate ai ricchi proprietari delle ville della Costa Smeralda e degli yacht che attraccano d´estate nei suoi porti, e li confrontiamo con queste voci di spesa, ne scaturirà con esattezza in cosa consista l´equazione riformista. Dovrebbero farla propria l´Onda e quanti manifestano senza precisi obbiettivi. Qui ce n´è per ogni Regione.

Repubblica 24.11.08
Sorpresa, il potere è giovane (o quasi)
Il Paese è bloccato ma l´analisi dell’anagrafe rivela un´altra verità. A partire dalla politica e dall’economia
di Giuseppe D’Avanzo


In Parlamento e nelle grandi società l´Italia non è più un paese per vecchi A sorpresa tiene testa agli Stati Uniti e continua nel processo di rinnovamento La Lega per prima ha puntato sulle nuove leve. Ma le università fanno eccezione
Le rogne di un ricambio generazionale sono tutte del Pd
Il gruppo più giovane della legislatura è del Carroccio: solo 40 anni in media
Il premier italiano è tra i più anziani d´Europa: 72 anni contro i 48 di Zapatero

Un indizio di conflitto generazionale fa capolino con il gonfiarsi dell´Onda studentesca - e speriamo che non sia fittizio, che duri e nel tempo si rafforzi. Finalmente, una forma di resistenza individuale e collettiva a un modello normalizzato che riconosce soltanto incertezza e precarietà alle giovani generazioni non protette dalla famiglia, dalle relazioni amicali, dalle connessioni di interesse. Un pregio della falsa «riforma Gelmini» è innegabile: ha costretto molti giovani ad aprire gli occhi su quel che li aspetta: precarietà prolungata; mediocri e intermittenti guadagni; incertezza nel reddito; insicurezza sulla continuità del lavoro; assenza di sostegno pubblico; impossibilità a programmare una vita consapevole (unione, nascita di figli, mobilità). I giovani sono come congelati in una dimensione di adulti immaturi, privati di opportunità e autonomia; imprigionati in un modello sociale e produttivo che non sa riconoscere la qualità e non premia il merito.
Al più, quando va bene (e va bene ai soliti noti), il «modello italiano» concede l´attenzione di una di quelle consorterie - Pierluigi Celli le chiama più esplicitamente «bande» - che «accreditano competenze, contrattano alleanze, tassano ogni forma di collocamento».
A fronte di questo dramma e dell´accenno di conflitto sociale che si può intravedere, il dibattito sull´esclusione dei «giovani» dalla leadership politica di una «Repubblica della Terza Età» è una lagna soporifera. È un piagnisteo che trascura una realtà molto più contraddittoria del diffuso luogo comune del «Paese dove il tempo si è fermato». È gne-gne che occulta un´autentica questione che interpella non tutto il Paese né tutto il ceto politico. Ma soprattutto l´università e la sinistra riformista (o il centrosinistra, chiamatelo come volete). Per almeno quattro ragioni.
Dunque, una giovane classe politica sarebbe tenuta fuori dalla porta delle stanze che contano. Primo argomento: sono davvero giovani?
Quei «giovani» che chiedono attenzione e pretendono, come un atto dovuto, accesso al potere, alle élites, alla classe dirigente, sono falsi giovani, ingrigiti, maturi, diciamo già un po´ spelacchiati. Come spiega Francesco Billari (il Mulino, 5/2007), le Nazioni Unite quando progettano azioni dedicate allo youth empowerment (più potere ai giovani) definiscono giovanile l´età che corre tra i 15 e i 24 anni e chiamano addirittura «giovani adulti» quelli che hanno tra i 20 e i 24 anni.
Anche la Commissione Europea considera «gioventù, l´età della vita che va dai 15 ai 25 anni». È dunque una bizzarra anomalia italiana considerare «giovane» chi è nato dopo il 1968 e magari ha già festeggiato i quarant´anni. Non è peraltro una anomalia del presente (secondo argomento).
Alberto Alesina ha ricordato che, quando nel 1984 Franco Modigliani vinse il premio Nobel per l´economia, gli studenti italiani di economia di Harvard e del Mit lo invitarono a cena in un ristorante toscano di Boston. Modigliani raccontò che all´età di 52 anni, durante un seminario in Italia, fu presentato come «un brillante giovane economista» e lui replicò, quando prese la parola: «Grazie per il "giovane", ma negli Stati Uniti mi considerano un po´ passé».
L´anomalia quindi non è nuova in Italia. Di nuovo, al contrario, c´è (terzo argomento, alquanto sorprendente) il tentativo di svecchiare élite politiche e ceti dirigenti. È vero, Berlusconi è in là con gli anni (72 anni) e lo separano più o meno due decenni da Sarkozy (53 anni), Merkel (54), Zapatero (48), Brown (57), però è altrettanto vero che, se si guarda ai cinque ministeri chiave, Economia (Tremonti, 61 anni), Interni (Maroni, 53), Esteri (Frattini, 51), Giustizia (Alfano, 38) e Difesa (La Russa, 61), la media è di 52 anni (era di 63 nel governo Prodi). Se poi si sbirciano i dati raccolti da Marco Leonardi (economista, Statale di Milano), si scopre che in Italia la giovane età non è un deficit nemmeno per gli amministratori delegati delle 200 aziende quotate in Borsa a Milano. Età media, 52,6. Nelle 4049 aziende quotate a Wall Street, l´età media dei chief executive officer (CEO) è più alta, anche se di mezza incollatura: 53 anni. Semmai i problemi sono tutti nella gerontocratica università italiana. Tra gli oltre 18mila cattedratici, solo 9 hanno meno di 35 anni e tre su dieci ne hanno più di 65, hanno contato Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella. Epperò lo svecchiamento degli ultimi anni con il proliferare di corsi di laurea e di sedi universitarie, con l´aumento del 100 per cento dei professori ordinari (ma alcuni parlano del 150 per cento) non ha migliorato la qualità né della ricerca né dell´insegnamento. Non basta essere giovani per cambiare in meglio l´esistente. Di sicuro non nell´università italiana.
A ben guardare, la politica se la passa meglio. Sei governatori hanno meno di 50 anni e l´età media è di 53 anni. Alla Camera l´età media degli eletti è di 50 anni e al Senato di 54 (senza i senatori a vita): una spanna meglio del Congresso americano dove, ricorda Leonardi, dal 1996 l´età media degli eletti è di 51 anni e al Senato di 58. In questo orizzonte, si dimentica sempre (colpevolmente, ottusamente) la rivoluzione della Lega. Il più "antico" partito del Parlamento italiano è la forza politica che, nell´ultimo decennio, ha governato un quarto del Paese creando, come ha osservato Andrea Romano, una classe dirigente «giovane e competente». Il 77 per cento degli eletti in Parlamento del Carroccio ha un´età che oscilla tra i 29 e i 49 anni (fonte, la voce.info) e la gran parte dei duecento sindaci leghisti sono quarantenni. I casi di Federico Bricolo (41 anni), già eletto nel 2001 (a 34), o dell´ex assessore del Veneto Francesca Martini (46 anni, già eletta alla Camera nel 2001 a 39) o di Matteo Bragantini (32) non sono eccezioni nel gruppo parlamentare più giovane della legislatura, età media 44 anni. È una classe dirigente cresciuta all´ombra della vecchia guardia padana, secessionista e folklorica, ma oggi pragmatica custode delle attese e le ambizioni di un elettorato che conosce come la sua famiglia e di un territorio che abita come la propria casa. È un´élite consapevole che debba essere la Lega «il motore riformatore del governo».
Silvio Berlusconi, si sa, non ha bisogno di una classe dirigente. Basta a se stesso. Come ha scritto Alberto Asor Rosa su questo giornale, il nostro carismatico premier «è un grande distruttore di élite: dove lui passa, non c´è straccio di classe dirigente che resista». Si sente Napoleone III o forse - meglio - Luigi XIV. Per governare gli è sufficiente un Richelieu (Gianni Letta, 73 anni), un Colbert (Tremonti) e, per antica abitudine, un avvocato (Niccolò Ghedini, 49). Per il resto, il sovrano si circonda di cortigiani sorridenti, fantaccini ostinati, belle e giovani signore e di un corteo di «vogatori, cruciferi, flabellieri, turiferari, toreadori», intercambiabili e ininfluenti come un Daniele Capezzone (36 anni). Da questo punto di vista, le rogne di un ricambio generazionale sono tutte allora del Partito Democratico, partito nuovo che si lascia alla spalle il suo solo leader vincente (Romano Prodi, 69 anni). Il PD, attor giovane del sistema politico italiano, dovrebbe essere più sensibile a liberarsi dell´autarchia generazionale e, a parole, è così.
Altri sono i fatti. Tra gli eletti del Pd gli under 40 (dunque, i giovani autentici) sono appena il 13 per cento e, se si allarga la forbice ai 49 anni, si arriva soltanto al 43 per cento (34 per cento in meno rispetto alla Lega, il partito - ripeto - più «antico»). Un risultato assai modesto, anche se il PD è riuscito ad abbassare in questa legislatura la media dei suoi eletti da 54 a 49 anni, un anno in meno del Partito della Libertà (50). Se poi si guarda ai criteri di selezione o alla qualità di questa presenza giovanile, la luna diventa nera. Al contrario dei volti nuovi della Lega, non si scorge nessun radicamento nel territorio, nessun legame con la società. Paiono decisive cooptazione, fedeltà senza discussione, buona presenza mediatica.
L´avventura politica di Marianna Madia ne è il prototipo più esplicito. Ventotto anni, scelta addirittura come capolista a Roma, presentata come «economista» tra le perplessità degli economisti, avventurosamente si presentò così: «Metto al servizio del Paese la mia incompetenza». Merito, competizione e senso di responsabilità non orientano i comportamenti e le scelte di chi governa il Partito Democratico né sollecitano quei giovani che chiedono di governarlo o almeno di contare di più, di avere più spazio e potere. Chi, con la giovane età, una competenza può vantarla come Irene Tinagli (34 anni, ricercatrice presso la Carnegie Mellon University di Pittsburgh) se ne va già disillusa («Ero stata contattata per le mie competenze tecniche, in un anno di PD non sono stata consultata nemmeno per un parere»). Nella convinzione che l´azione politica si svolga tutta all´interno dello spazio mediale, ha nel PD più visibilità un demi-monde mediatico, blogger come Luca Sofri (44 anni), Diego Bianchi (38), Mario Adinolfi (37). Competenze? Pochine. Luca Sofri lo ha ammesso con onestà durante i lavori di una direzione (è tra le venti personalità indicate da Walter Veltroni). Sofri disse a brutto muso: «Sono qui a discutere come affrontare il secondo decennio del Duemila le stesse persone che non hanno saputo affrontare il primo e che erano qui nel millennio precedente» per poi concludere: «. Non pretendo di spiegare a persone molto più esperte e competenti di me quali contenuti dare al presente e al futuro del Partito Democratico. Non sto parlando di contenuti e non sarei all´altezza di discussioni molto approfondite ed elaborate».
Chapeau!
Ho l´impressione che, in assenza di competenze, i giovani che vogliono fare del PD, come scrivono nel loro blog (Uccidere il padre), «un partito moderno, democratico, laico e di sinistra» (e capirai che puntuta e illuminante freschezza), chiedono soltanto di togliersi dai margini, di farsi benedire e riconoscere sventolando appartenenza. È l´accorta pulsione, temo, che può spiegare la rimozione in quel partito di ogni conflitto politico per mano dei più giovani.
È il quarto e ultimo argomento: se si guardano i numeri, la politica italiana non è priva di giovani. Anzi, è giovane. Il suo deficit è un altro.
Se si guarda al PD, è ossessionata dall´obbedienza, disinteressata alle competenze spendibili liberamente. È dominata dalla prudente ragione del primum vivere che orienta da sempre i maturi di ogni partito e ora anche gli acerbi dell´ultimo partito nato. E´ una politica che non conosce il conflitto.
Il conflitto vero sulle questioni reali (non le cerimonie mediatiche) è, al contrario, sempre salutare e necessario se un corpo sociale, qualche che sia, non vuole sclerotizzarsi e conservare vitalità e dinamismo. E´ il conflitto il grande assente nel parolaio del discorso politico giovanilistico. Dove comme il faut si fa un gran parlare di Barack Obama (chi sarà il nostro Obama? dove troveremo il nostro Obama?).
Si dimentica che il nuovo presidente americano ha sconfitto in campo aperto, al termine di una lunga e dura battaglia, Stato per Stato, elettore per elettore, due micidiali clan politici (Bush e Clinton) che hanno governato gli Stati Uniti negli ultimi venti anni. Lo ha fatto in splendida solitudine ché, in avvio, ha dovuto fare a meno anche dell´appoggio della macchina elettorale afroamericana di Al Sharpton e Jesse Jackson che lo guardavano con freddezza. Ce l´ha fatta non perché è su Facebook (anche), ma perché (innanzitutto) ha un´idea della natura della crisi degli Stati Uniti e un programma per affrontarla. È apparso autorevole, credibile, responsabile, capace di stringere forti legami sociali, di radicarsi nel Paese e tra la sua gente perché la sua intelligenza delle cose è maturata a contatto con la realtà in cui vive e si muove un popolo in carne e ossa e non nel mondo frammentato dell´immagine, dei consumi, delle mode, dello spettacolo dove abitano soltanto figurine di cartone.
Se prendere atto delle metamorfosi non significa condividerle, si può dire - e non è una provocazione - che la declinazione della politica di Obama ha più a che fare con la giovane classe dirigente della Lega che non con i giovani leoni senza denti del Partito Democratico. Converrà allora che quei giovani si diano da fare. Riscoprano il conflitto. Comincino a pretendere regole certe per le primarie, come propone da tempo Tito Boeri. Pretendano il ritorno al voto di preferenza. Esigano che l´età di elettorato attivo e passivo coincida, come in Germania, Svezia, Spagna. Diano battaglia. Soltanto con un conflitto aperto di ideali, progetti, analisi, competenze, soltanto con un conflitto leale nella raccolta del consenso, quindi nella misura di un concreto radicamento sociale, si potrà coltivare la speranza di un nuovo riformismo, la convinzione di potercela fare a cambiare l´Italia, a fermarne il declino e la deriva autoritaria. Altra ambizione non può esserci e, se c´è, non è soltanto mediocre. È perdente e, peggio, noiosa come un´impotente lagna.

Repubblica 24.11.08
L’onda anomala del professor Jones così in classe si costruisce il nazismo
di Curzio Maltese


In concorso lo sconvolgente film tedesco "Die welle" tratto da una storia vera L’esperimento di un insegnante con gli studenti: la creazione di una dittatura
All´uscita in Germania qualche mese fa scatenò un fiume di polemiche e divise l´opinione pubblica
C´è chi lo ha definito il più importante film degli ultimi anni perché spiega il fascino del totalitarismo

TORINO La trama è fedelissima al fatto reale, l´esperimento ideato dal professor Ron Jones nel liceo Cubberley di Palo Alto, California, nel 1967. Lo scopo era di capire come si diventa nazisti. «La domanda degli studenti è stata: come ha potuto il popolo tedesco tollerare, anzi aderire in massa al totalitarismo, accettare i campi di sterminio, obbedire ciecamente a Hitler?» scrive Jones nel suo diario.
La lezione di storia naturale si rivela inadeguata. Gli studenti prendono un´aria annoiata, del genere: «Ok, abbiamo capito, oggi da noi non potrebbe succedere». Il professore allora propone un esperimento. Per qualche giorno i ragazzi dovranno sottomettersi alla sua autorità, chiamarlo «signor professore» e seguire le lezioni con la testa dritta e il petto all´infuori. La risposta degli studenti è dapprima divertita, poi entusiasta. Sono loro stessi a proporre i sistemi per rendere compatto e disciplinato il gruppo. Si danno un nome, l´Onda con un logo e un saluto: una mano tesa all´altezza del cuore.
Quindi una divisa, jeans e camicia bianca, per diventare tutti uguali. Si alzano in piedi all´ingresso del signor professore, compiono esercizi ginnici, urlano slogan ad alta voce: «La forza è nella comunità». Il professor Jones è stupito del suo successo e anche affascinato. Confida alla moglie: «In un certo senso, ho scoperto un metodo di insegnamento che funziona. I ragazzi imparano in fretta e alla grande. E´ assurdo, ma prima non avevano neppure posti fissi in classe, e ora che non c´è più libertà stanno seduti ai loro posti, rispondo a tutte le domande e si aiutano a vicenda». Dopo i primi giorni, compaiono alcuni effetti collaterali. Gli studenti isolano e denunciano i compagni che esprimono dubbi. Gli alunni delle altre classi si dividono, alcuni chiedono di far parte dell´Onda, altri sono disgustati e reclamano la fine dell´esperimento.
Scoppiano le prime violenze. Un mattino Jones viene affiancato da un suo studente che si qualifica come guardia del corpo. Capisce che l´esperimento gli è completamente sfuggito di mano, ha creato un nucleo perfetto di nazisti, ma è troppo tardi. Si corre verso l´epilogo, dal gioco al massacro.
La storia vera racchiusa nel diario di Ron Jones, il bel libro di Morton Ruhe ("Die Welle") divenuto un classico della letteratura per ragazzi, e il notevole film di Dennis Gansel presentato a Torino, hanno in comune una doppia lettura. Una antropologica, il bisogno primordiale della scimmia umana di sottoporsi al comando di un capo. Un bisogno tanto più emergente nell´età della crisi, nell´adolescenza in cui non si sa chi si è e quindi si può diventare qualsiasi cosa. L´altra lettura è l´attualità. A metà dell´esperimento il professore il protagonista del film, ambientato nella Germania di oggi, scrive sulla lavagna, sotto dettatura degli studenti, l´elenco delle cause che possono portare a un regime. Nell´ordine: la globalizzazione, la crisi economica, la disoccupazione, l´aumento dell´ingiustizia sociale, la manipolazione dei mezzi di informazione, la delusione della politica democratica, il ritorno del nazionalismo e la xenofobia. Sono le sementi che negli anni Venti hanno fecondato il terreno del fascismo e del nazismo in Europa. Sono gli stessi problemi, qui e ora.
All´uscita in Germania, nella primavera scorsa, Die Welle ha scatenato un prevedibile fiume di polemiche. "Der Spiegel" l´ha definito uno dei film più importanti degli ultimi anni, perché racconta l´eterno fascino del totalitarismo. Un fascino reale e in definitiva anche semplice da capire, quasi naturale, per quanto negato da un eccesso di politicamente corretto. "Die Welt" ha opposto l´opinione che i meccanismi totalitari, così inesorabili sulla pellicola, troverebbero oggi enormi resistenze nella realtà. Una parte della stampa ha mosso un´obiezione etica: i giovani neonazisti dell´Onda, nel loro solidarismo, possono risultare al pubblico delle sale assai più simpatici e normali degli studenti anarcoidi degli altri corsi.
L´obiezione sarebbe giustificata, se non fosse che nella realtà funziona quasi sempre così. Fra molte brave persone del Nord, per rimanere dalle nostre parti, i protagonisti delle ronde padane risultano assai più vicini degli intellettualoidi difensori di Rom e immigrati. Ron Jones, la cui vita è stata sconvolta per sempre dal gioco dell´Onda, ha scritto: «L´esperimento ha funzionato perché molti di quei ragazzi erano smarriti, non avevano una famiglia, non avevano una comunità, non avevano un senso di appartenenza. E a un certo punto è arrivato qualcuno a dirgli: io posso darvi tutto questo».

Repubblica Firenze 24.11.08
L’affondo dei comitati
Asor Rosa: "Quante leggerezze a Castello"
di M.V.


Da Monticchiello a Castello. «Da quello che se ne sa emerge un quadro di leggerezze e di scarsa attenzione alla correttezza delle procedure», dice Alberto Asor Rosa, il professore che guida la Rete dei comitati per la difesa del territorio, associazione adesso costituita davanti al notaio. E aggiunge: «Abbiamo chiesto più volte di ripensare gli orientamenti urbanistici fiorentini, da Castello alla tramvia e all´Alta velocità: speriamo che le elezioni possano essere l´occasione giusta». E´ la sfida della Rete dei comitati a Firenze e a Palazzo Vecchio. Ma anche a tutti gli altri Comuni toscani dove la Rete si batte contro qualche "ecomostro" o qualsivoglia offesa all´ambiente. Una sfida che segna la prossima strategia elettorale.
Non una lista autonoma della Rete, in vista delle amministrative e delle europee di primavera. «Anche se a livello locale si potranno appoggiare liste che nascano dal basso», dice Ornella De Zordo di «Unaltracittà». Piuttosto una piattaforma di richieste da avanzare alle forze politiche per poi vedere quali saranno, se ci saranno, i partiti disposti a fare proprie le rivendicazioni della Rete, che oggi conta 188 comitati e associazioni. E per decidere di conseguenza chi appoggiare o meno. Una piattaforma che l´assemblea dei comitati riunita ieri all´Affratellamento ha approvato e che ribadisce il no al Corridoio tirrenico, alla Due Mari, all´Alta velocità fiorentina, alle «modalità di realizzazione delle tre linee di tramvia», alla «sosta mercificata della Firenze Parcheggi», alle terze corsie autostradali e allo sviluppo aeroportuale incontrollato.
«Dalle risposte che avremo orienteremo il nostro comportamento», spiega Asor Rosa. Ricordando però, davanti ad un centinaio di rappresentanti dei comitati provenienti da tutta la Toscana e oltre, «che fino ad oggi le nostre denunce sono rimaste senza risposta». Anzi, di fronte al no all´autostrada tirrenica, aggiunge Asor Rosa, «Matteoli ha incontrato il plauso dell´assessore regionale Riccardo Conti, prefigurando così un governo bipartisan».
Quali saranno le forze che accetteranno il dialogo con i comitati di Asor Rosa? Per la prima volta nella platea dei Comitati compare una rappresentanza degli «Amici di Grillo». Matrimoni elettorali in vista? «Vediamo, è nostra intenzione presentare una lista alle prossime elezioni, vogliamo capire se possono essere convergenze sufficienti con i comitati» dice Andrea Vannini. La stessa De Zordo fa capire di voler osservare il percorso avviato dalla Rete dei comitati prima di prendere decisioni sul futuro elettorale di «Unaltracittà».
C´è chi come Cinzia Mammolotti dei comitati dell´Amiata vorrebbe qualcosa di più: «Perché escludere di proporci come forza politica autonoma?», domanda. Ma la maggioranza dei comitati aderenti alla Rete, oltre allo stesso portavoce Asor Rosa, ritengono che la via della piattaforma programmatica e della sfida alle forze politiche sia da preferire. «Un ennesimo partito dell´1 per cento non serve», dice del resto Gianni Mori della Valdichiana. Nel frattempo i Comitati fiorentini chiedono il blocco del Piano strutturale e di tutti i grandi interventi urbanistici di Firenze: «Visto quello che sta accadendo la miglior cosa è una moratoria del progetto Castello e del Piano strutturale», dice a nome dei Comitati fiorentini Mario Bencivenni. Anzi, visto che ci sono i Comitati chiedono anche le «dimissioni immediate» degli assessori Graziano Cioni e Gianni Biagi, avvisati per corruzione.

Corriere della Sera 24.11.08
Salute. La psichiatra Dalla Ragione: malati anche oltre i 30 anni
L'anoressia è dimezzata Il rischio è l'eccesso di cibo
Spunta il Dai, disturbo da alimentazione incontrollata
La magrezza patologica fa meno paura agli specialisti. «È l'obesità infantile la nuova emergenza»
di Alessandra Arachi


ROMA — L'anoressia? Si è dimezzata negli ultimi dieci anni. In percentuale, per carità: rappresentava il 60% dei disturbi alimentari è arrivata al 30. Ma di certo, per la prima volta, ha perso il suo primato tra le patologie del corpo. E adesso? Adesso che negli ultimi dieci anni i disturbi alimentari sono passati da due a tre milioni, è la bulimia a dominare. E in particolare è esploso il "Dai", nuovo acronimo per una piaga che sta devastando la popolazione: disturbo di alimentazione incontrollata.
Dai, ovvero: abbuffate senza controllo. E senza vomito che segue. Anche 30 mila calorie buttate giù in meno di mezz'ora. Come otto panettoni, tutti insieme. Il nuovo disturbo non è esclusivo delle donne, come lo è l'anoressia che colpisce in un rapporto di nove a uno. Queste abbuffate, invece, colpiscono un uomo ogni tre donne.
Di queste abbuffate patologiche parlerà domani ad un convegno a Genova Laura Dalla Ragione, psichiatra, responsabile per il ministero della Gioventù (e già per quello della Salute) per la sorveglianza e la mappatura dei centri di assistenza in Italia dei disturbi alimentari.
«Per noi psichiatri, ormai, sul piano epidemiologico l'anoressia è sicuramente il disturbo che ci preoccupa di meno», dice Laura Dalla Ragione. E spiega: «Mentre fino a dieci anni fa i disturbi alimentari colpivano principalmente gli adolescenti, ora questo nuovo disturbo di alimentazione incontrollata sposta di molto l'età oltre i trent'anni».
«Arte e coscienza nel corpo delle donne»: a Genova da oggi e fino a sabato nel Festival dell'eccellenza al femminile (curato da Consuelo Barilari) saranno donne eccellenti (ospite d'onore sarà il premio Nobel Rita Levi Montalcini) a parlare delle donne e del corpo, in tutte le sfaccettature( www.eccellenzalfemminile. it). A partire dai disturbi che devastano il corpo: la fotografa Vanessa Beecroft farà vedere come con la sua arte dell'obiettivo è riuscita lei ad andare oltre i suoi problemi alimentari.
«Problemi che fino a poco tempo fa avevano davvero tutta un'altra dinamica», aggiunge Laura dalla Ragione. Spiegando: «Dobbiamo dire che è in corso una vera e propria mutazione genetica di questi disturbi. Il fatto è che viviamo in una società multicompulsiva. Ed è per questo che la magrezza patologica ci fa sempre meno paura, a dispetto di un'obesità che sta dilagando, anche tra i bambini. L'Italia ha superato la Grecia e la Spagna e oggi è diventato il primo Paese in Europa per il dramma dell'obesità infantile (il Meridione batte il Settentrione in questa classifica nostrana)».
E' stato calcolato che circa il 30% degli obesi in Italia sono tali proprio per via del disturbo di alimentazione incontrollata. «E' un disturbo nuovo questo che in inglese viene chiamato Binge eating disorder, perché è da poco che è stato distinto dalla bulimia », aggiunge Laura Dalla Ragione che è anche psicoterapeuta e che a Palazzo Francisci a Todi ha fondato il centro pubblico dei disturbi alimentari collegato con una Asl dell'Umbria.
Spiega la psichiatra Dalla Ragione: «La bulimia è una malattia che viene in seguito al disturbo anoressico, la maggior parte delle volte. Ed è per questo che gli attacchi bulimici vengono poi seguiti da violenti attacchi di vomito: c'è, comunque, sempre un'attenzione al peso del corpo. Gli attacchi di abbuffate compulsive invece no, sono un disturbo autonomo. Diverso. E non vengono seguiti dal vomito. Non è il peso il problema che è alla base di questo disturbo. Una persona in preda ad un'abbuffata compulsiva è in grado di ingurgitare da 3 a 30 mila calorie in venti minuti, circa. E tutto questo senza nessuna possibilità di controllo».
Alessandra Arachi Ieri & oggi
Erede al trono La principessa Vittoria di Svezia, 31 anni, divenne anoressica nel '97 per una dieta (a sinistra). Guarì con una cura negli Usa. Oggi (a destra) è in prima linea contro i disordini alimentari

Corriere della Sera 24.11.08
La Russia di Kerenskij le delusioni di Mussolini
di Sergio Romano


Non senza un certo stupore, ho avuto modo di imbattermi nella seguente frase, contenuta in un articolo scritto da Benito Mussolini sul Popolo d'Italia del 5 luglio 1917: «Io saluto con ammirazione devota e commossa le bandiere vermiglie che dopo aver sventolato una prima volta nelle strade e nelle piazze di Pietrogrado in un pallido nevoso mattino di primavera sono diventate oggi l'insegna dei reggimenti che il 1˚luglio sono andati all'assalto delle linee austro-tedesche in Galizia e le hanno espugnate». Le domando: Benito Mussolini, chi era costui?
Rodolfo Ranzani

Mussolini scrisse sul Popolo d'Italia ciò che tutti i governi alleati proclamarono nelle loro dichiarazioni e nei loro comunicati durante le giornate cruciali tra la fine di giugno e i primi di luglio. Per spiegare le ragioni di quell'entusiasmo devo tuttavia fare un passo indietro e ricordare ai lettori ciò che era accaduto in Russia nei mesi precedenti.
La crisi dell'impero zarista scoppiò nella seconda settimana di marzo (la fine di febbraio secondo il calendario giuliano). Quando gli operai scioperarono e la folla di Pietrogrado scese nelle piazze per protestare contro la guerra e la fame, il governo fece ciò che era solito fare in tali circostanze: dette ordine all'esercito di sciogliere con la forza le manifestazioni e i comizi. Ma le truppe si ammutinarono. Un decreto imperiale ordinò la dissoluzione della Duma, ma i deputati disubbidirono e restarono ai loro posti. Fu costituito un nuovo governo presieduto dal principe Lvov e composto dai rappresentanti dei maggiori partiti fra cui un socialista, Aleksandr Kerenskij. Il 15 marzo lo zar Nicola II abdicò a favore del fratello Michele, ma anche questi, il giorno dopo, rinunciò al trono. Bastò una settimana perché i Romanov (una dinastia che nel 1913 aveva celebrato il trecentesimo anniversario del suo avvento al trono di Russia) uscissero di scena.
In attesa delle elezioni per un'Assemblea costituente, il governo provvisorio prese alcune decisioni rivoluzionarie. Promise di garantire il rispetto delle libertà civili e l'eguaglianza dei cittadini, senza distinzioni di razza o confessione religiosa. Promise l'indipendenza alla Finlandia nell'ambito di una Federazione russa. Proclamò la completa indipendenza della Polonia. Dette l'autonomia all'Estonia. Annunciò un programma di riforme sociali, la confisca delle proprietà terriere appartenenti al demanio imperiale e alla Chiesa, la distribuzione della terra ai contadini. E decise infine di proseguire la guerra per cacciare gli austriaci e i tedeschi dalle terre russe che gli Imperi centrali avevano occupato nei mesi precedenti. Voluta dal socialista Kerenskij e dal generale Aleksej Brusilov, l'offensiva cominciò alla metà di giugno e dette nella sua fase iniziale buoni risultati. Gli Alleati occidentali salutarono questi eventi con grande soddisfazione. Credettero per alcune settimane che la rivoluzione di marzo li avrebbe finalmente sbarazzati dell'ingombrante presenza nel loro campo di un regime autocratico e reazionario che incrinava la loro credibilità democratica. E sperarono soprattutto che i russi, finalmente liberi, avrebbero combattuto il nemico comune con lo stesso vigore con cui i francesi avevano sconfitto a Valmy nel 1792 le forze coalizzate dell'Europa monarchica e conservatrice. A Mussolini, in particolare, dovette piacere che l'ispiratore di questa politica a Pietrogrado fosse il socialista Kerenskij.
Le speranze vennero rapidamente deluse. Gli ardori dell'offensiva si spensero in pochi giorni e le truppe cominciarono ad ammutinarsi o, peggio, a uccidere i loro ufficiali. In patria, dopo essere diventato presidente del Consiglio, Kerenskij dovette combattere contro molti nemici. Il Soviet di Pietrogrado, diretto da Lev Trockij, stava estendendo il suo potere sulla capitale. Lenin e i suoi compagni, ritornati dall'esilio grazie all'aiuto dei tedeschi, aspettavano l'occasione per dare al governo una spallata rivoluzionaria. Il comandante in capo delle forze armate, Lavr Kornilov, cercava di impadronirsi della capitale con le sue truppe. Le spinte secessioniste delle minoranze nazionali minacciavano l'unità dello Stato. Molti ministri dissentivano dalla linea socialista che Kerenskij aveva impresso al governo. La protesta sociale stava contagiando l'intero Paese. Fu la somma di queste difficoltà che aprì la strada ai bolscevichi. Quando le guardie rosse conquistarono il palazzo d'Inverno fu chiaro che la rivoluzione di primavera (quella che piaceva a Mussolini) era stata soltanto il preludio della rivoluzione d'Ottobre.